L’Italia è un paese meraviglioso. Ricco di storia, arte, cultura, gusto, paesaggio.
Ma ha una malattia molto grave: il consumo di territorio.
Un cancro che avanza ogni giorno, al ritmo di quasi 250 mila ettari all’anno.
Dal 1950 ad oggi, un’area grande quanto tutto il nord Italia è stata seppellita sotto il cemento.
Il limite di non ritorno, superato il quale l’ecosistema Italia non è più in grado di autoriprodursi è sempre più vicino. Ma nessuno se ne cura.
Fertili pianure agricole, romantiche coste marine, affascinanti pendenze montane e armoniose curve collinari, sono quotidianamente sottoposte alla minaccia, all’attacco e all’invasione di betoniere, trivelle, ruspe e mostri di asfalto.
Non vi è angolo d’Italia in cui non vi sia almeno un progetto a base di gettate di cemento: piani urbanistici e speculazioni edilizie, residenziali e industriali; insediamenti commerciali e logistici; grandi opere autostradali e ferroviarie; porti e aeroporti, turistici, civili e militari.
Non si può andare avanti così! La natura, la terra, l’acqua non sono risorse infinite.
Il paese è al dissesto idrogeologico, il patrimonio paesaggistico e artistico rischia di essere irreversibilmente compromesso, l’agricoltura scivola verso un impoverimento senza ritorno, le identità culturali e le peculiarità di ciascun territorio e di ogni città, sembrano destinate a confluire in un unico, uniforme e grigio contenitore indistinto.
La Terra d’Italia che ci accingiamo a consegnare alle prossime generazioni è malata. Curiamola!
Campagna promossa da:
AltritAsti, Gruppo P.E.A.C.E. Pace, Economie Alternative, Consumi Etici - http://www.altritasti.it;
AltrItalialtroMondo, il blog del sindaco di Cassinetta di Lugagnano – http://domenicofiniguerra.wordpress.com;
Cibernetica Sociale Italia, http://www.ciberneticasociale.org;
eddyburg. Urbanistica, politica, società - http://eddyburg.it;
Movimento per la Decrescita Felice - http://www.decrescitafelice.it
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Scaricate qui sotto il manifesto con l’elenco delle prime firme
Nelle botti piccole ci sta il vino buono, sostiene qualcuno. Allora perché stupirsi se per citare un esempio di buona pianificazione oggi in Italia, ricorriamo al Piano di governo del territorio [1] (Pgt) di un piccolissimo comune, quello di Cassinetta di Lugagnano?
A ridosso del Naviglio Grande, 26 km a sud ovest di Milano, Cassinetta si trova immersa nello splendido scenario naturale del Parco del Ticino, riserva della Biosfera Unesco. Nel 2007 ha definitivamente approvato un Pgt a crescita zero, un piano, cioè, che non contiene previsioni di crescita dell’insediamento e che punta a mantenere il più possibile intatto il proprio territorio agricolo.
Sarebbe riduttivo, però, limitarsi all’aspetto quantitativo: il concetto di crescita zero è in effetti uno slogan, dietro il quale si cela un ragionamento più complesso su quale debba essere il futuro del territorio e in che modo lo si voglia concretamente realizzare.
Cerchiamo, dunque, di aggiungere qualche dettaglio in più.
Lo stato di fatto: localizzazione e dinamiche territoriali
Per la sua struttura urbana, Cassinetta è un piccolo caso da manuale: un nucleo compatto, più o meno baricentrico rispetto all’intero territorio comunale, circondato da un’estesa “cintura” agricola. Una cintura agricola il cui pregio è stato riconosciuto perfino dall’Unesco, che è frutto di una lunga e tenace azione di tutela e che ha costituito per lungo tempo la base economica di questo piccolo centro: la rete idrica principale del Naviglio Grande e quella secondaria fatta di canali, rogge e fontanili innervano ancora oggi tutto il territorio comunale.
Facile mantenere intatto il territorio, si potrebbe pensare, per un comune che ha solo 1800 abitanti e nessun attività produttivo-commerciale di grosse dimensioni al proprio interno. Non proprio, in realtà, se si considera la tendenza dominante alla città dispersa, soprattutto nelle regioni settentrionali: un centro urbano in cui si trovano le attività principali e uno sciame di piccoli centri o, peggio, di semplici e isolate lottizzazioni, che instaurano con il centro principale un rapporto di stretto pendolarismo, con esiti quantomeno problematici in termini di mobilità, inquinamento ed efficienza dei servizi pubblici.
In questa tendenza sono spesso i piccoli comuni a subire le pressioni maggiori: non interessa il territorio del comune per quello che può offrire al suo interno ma in funzione della sua maggiore o minore vicinanza al centro di riferimento. E questo vale indistintamente per le lottizzazioni residenziali come per i grandi centri commerciali.
Ragionando in questi termini, appare chiaro che la struttura urbana di Cassinetta di Lugagnano non è affatto scontata: a soli 26 km da Milano, questo piccolo centro ha subito, come i comuni limitrofi, un aumento della popolazione che, visto il continuo calo delle nascite, è da ascrivere quasi totalmente alle migrazioni dai centri maggiori.
Dal 1961 al 2001, la popolazione di Cassinetta è aumentata del 48,05% e, solo nel decennio 1991-2001, si è registrato un incremento del 31%, passando da 1152 a 1519 abitanti, per arrivare, infine, ai 1742 del 2005, dato di riferimento per l’intero Pgt. [2] Un trend che trova conferma anche in altri piccoli comuni limitrofi.
Tuttavia, Cassinetta è riuscita a mantenere intatto gran parte del suolo agricolo, che oggi rappresenta la maggior percentuale del territorio comunale; è presente un piccolo nucleo artigianale produttivo nella zona sud-ovest, ma la maggior parte degli occupati si continua a registrare proprio nel settore agricolo.
Le risorse
Strettamente intrecciato al problema della localizzazione e delle dinamiche territoriali c’è quello delle risorse economiche. Con il crescere del deficit nazionale e il consolidarsi del decentramento amministrativo degli ultimi anni, ad un aumento delle funzioni e delle responsabilità degli enti territoriali non ha fatto seguito un aumento dei trasferimenti, che, anzi, continuano a diminuire. Il problema del reperimento delle risorse per far fronte a spesa corrente e investimenti è dunque cruciale e lo è in particolar modo per i piccoli comuni che ricevono in misura minore l’apporto dei capitali privati.
In questo quadro, la possibilità di ricorrere agli oneri di urbanizzazione per coprire le voci di spesa corrente ha innescato un meccanismo perverso: le amministrazioni locali concedono più facilmente pezzi del proprio territorio perché con quello che incamerano in termini di oneri di urbanizzazione e ICI possono coprire parte delle spese correnti.
La risposta di Cassinetta di Lugagnano, in questo senso, è stata invece molto netta. Quella che era un’idea molto chiara solo del sindaco, Domenico Finiguerra, è diventata una scelta dell’intera comunità, grazie alle assemblee pubbliche tenutesi nelle fasi iniziali della redazione del Pgt.
L’elemento più interessante della fase partecipativa è che i cittadini sono stati messi di fronte ad una scelta precisa: finanziare la spesa corrente e gli investimenti con gli oneri di urbanizzazione, investendo, quindi in nuove lottizzazioni, oppure intervenire sulla fiscalità locale, permettendo così anche l’accensione di mutui per investimenti?
La scelta dei cittadini è stata sostanzialmente quella di non alterare il patrimonio ambientale di Cassinetta di Lugagnano lasciando spazio a nuove edificazioni, accettando, quindi, anche un aumento delle imposte comunali. In questo modo, la redazione stessa del piano si libera di un fardello pesante, quello del “fare cassa” con il territorio.
Il Piano e la crescita zero
Valorizzazione intesa come tutela del territorio e del paesaggio agricolo, minimizzazione del consumo di suolo e compatibilità degli interventi con le risorse disponibili: sono gli elementi strategici del Pgt di Cassinetta di Lugagnano, in funzione dei quali vengono definiti tutti i singoli interventi.
Redatto da Antonello Boatti e definitivamente approvato nel giugno 2006, il piano si compone di una documentazione chiara, accurata e molto dettagliata. Rispetto alle premesse fatte, è interessante soffermarsi sul Documento di piano, un documento che ha carattere conoscitivo, programmatorio e di indirizzo, che non interviene direttamente sulla conformazione della proprietà [3]. E’ proprio con il Documento di piano che vengono affermati i principi ispiratori dell’intero Pgt:
“Il Documento di Piano individua gli obiettivi strategici di politica territoriale a partire dal miglioramento e dalla conservazione dell’ambiente per tracciare le linee dello sviluppo sostenibile del Comune di Cassinetta di Lugagnano in coerenza con le previsioni di carattere sovracomunale. In esso sono indicati gli obiettivi quantitativi di sviluppo complessivo del PGT comprendendo in essi il recupero urbanistico e la riqualificazione del territorio minimizzando il consumo di suolo. […]
Il Documento di Piano inoltre nel riassumere le principali indicazioni riguardanti l’utilizzazione, il miglioramento e l’estensione dei servizi pubblici e di interesse pubblico determina la compatibilità degli interventi previsti con le risorse economiche attivabili dalla pubblica amministrazione.
In considerazione della dimensione del comune in termini di popolazione residente (abitanti 1.742 al 31.12.2005) e delle caratteristiche particolarissime del suo tessuto edilizio storico di assoluto pregio ed unicità si ritiene innanzitutto che non esistano le condizioni e neppure le utilità di ricorrere a strumenti di compensazione, perequazione ed incentivazione urbanistica di cui all’art. 11 della LR 12/2005. […]”[4]
Favorire il recupero e minimizzare il consumo di suolo: ma come si arriva alla crescita zero? La risposta in realtà è abbastanza banale: mediante un’approfondita analisi demografica, volta a determinare il realistico fabbisogno abitativo di Cassinetta di Lugagnano da qui al 2015.
Lo studio, infatti, conduce ad una previsione molto contenuta: l’incremento della popolazione previsto al 2015, in termini di nuovi abitanti, è del 3,6%. A ciò, si aggiunge l’incremento della domanda di abitazioni legata alla formazione di nuovi nuclei familiari: quest’ultima è considerata una domanda fisiologica, indipendente cioè dall’aumento del numero degli abitanti.
Su queste basi, viene formulata una previsione di 695 nuovi abitanti, cui corrisponde una capacità insediativa residenziale, aggiuntiva rispetto all’esistente, di 695 nuovi vani (abitante/vano). Alla nuova domanda abitativa si farà fronte attraverso:
- recupero puntuale di edifici
- riconversione, mediante piani attuativi, di aree produttive incompatibili con il tessuto residenziale circostante, con una quota del 20% di edilizia convenzionata e una quota del 5% di edilizia a canone sociale
- completamento di previsioni vigenti (piani di lottizzazione e di recupero)
- saturazione delle aree già edificate (zone B).
Di fatto, non verrà consumato suolo agricolo: le previsioni di nuova edificazione e di trasformazione e recupero del patrimonio esistente sono concentrate dentro il tessuto consolidato e compattano ulteriormente un insediamento dai confini abbastanza netti.
Fin qui la domanda abitativa. Ma anche sul fronte delle previsioni di nuovi insediamenti commerciali, il Pgt opera scelte coerenti con i principi ispiratori: nessuna grande struttura commerciale [5], incremento delle medie e piccole strutture esistenti entro i parametri fissati dal piano, nuove attività ricettive, “ che confermino e incrementino la vocazione turistica del comune” [6]
Infine, il potenziamento della rete dei servizi. In particolare, il piano prevede:
- il recupero delle piste ciclabili esistenti, legate alla rete del Naviglio e dei canali secondari, e la realizzazione di nuovi tratti per l’implementazione della rete;
- la costruzione di una nuova scuola dell’infanzia, volta a soddisfare la domanda esistente e quella prevista;
- una serie di micro-interventi su spazi verdi, strade, parcheggi ed edifici, finalizzati all’ottimizzazione e al completamento delle reti esistenti.
Complessivamente, la dotazione di standard residenziali passa da un rapporto di 29,17 mq/abitante ad un rapporto di circa 30,91 mq/abitante [7], mentre quella di standard per attività produttive passa da una percentuale standard/superficie del 2,09% ad una percentuale del 12,48%.
Un ultimo aspetto, non secondario quanto a importanza, è rappresentato dal rapporto con le previsioni del Piano territoriale di coordinamento (Ptgp) della Provincia di Milano. La previsione che interessa direttamente il territorio di Cassinetta di Lugagnano è quella di una nuova arteria stradale tra lo svincolo di Magenta dell’A4 e Albairate e la tangenziale ovest di Milano, sfruttando in parte la viabilità esistente.
Si tratta di una previsione ritenuta non in linea con i principi e le scelte del Pgt, il cui costo verrà finanziato con la legge 345/1997 per l’accessibilità all’aeroporto di Malpensa. Nel Documento di piano si rileva che:
“[…] Questa nuova infrastruttura viabilistica coinvolge il territorio di Cassinetta nella sua parte est nel cuore del Parco del Ticino con un forte impatto per l’ambiente e il paesaggio che con questa nuova previsione verrebbe deturpato nel suo carattere agricolo. […]” [8]
E ancora:
“[…] Il collegamento tra la S.S. 11 a Magenta e la tangenziale ovest così come previsto dal progetto definitivo dell’ANAS, è una scelta assolutamente discutibile sul piano strategico della pianificazione del trasporto interferendo su un territorio ad altissima qualità ambientale all’interno del Parco regionale della Valle del Ticino in un’area ricca di fontanili, rogge e canali di irrigazione ancora molto interessata dall’attività agricola.
Cassinetta di Lugagnano si presenta in sostanza come un insieme storico – paesaggistico prezioso da valorizzare messo a repentaglio da un’arteria come il collegamento tra la S.S. 11 a Magenta e la tangenziale ovest così come previsto dal progetto definitivo dell’ANAS. […]
Dal punto di vista trasportistico sempre nella Valutazione Ambientale Strategica – Rapporto ambientale – conclude che non è neppure motivata e documentata la necessità e la dimensione della infrastruttura proposta. […]”[9]
La scelta, chiaramente esposta nello stesso Documento di Piano, è quella di non tenere conto nel Pgt la previsione del nuovo collegamento e, anzi, vengono proposte due alternative che permetterebbero di mantenere l’integrità del territorio agricolo di Cassinetta.
Un piano conservatore?
L’immagine dall’alto di Cassinetta di Lugagnano da qui al 2015 sarà probabilmente molto simile a quella di oggi: un centro abitato dai confini ben definiti e ampie distese coltivate intorno. Eppure, una vista dal basso, ad altezza d’uomo, ci restituirà forse un’immagine molto diversa, di una realtà trasformata, fisicamente e socialmente, rispetto a 10 anni prima.
Se accettiamo l’idea che il piano sia strumento per governare le trasformazioni del territorio, dobbiamo anche accettare l’idea che la trasformazione non sia legata solo alla crescita della popolazione e, conseguentemente, a quella edilizia.
Cassinetta di Lugagnano in 10 anni farà i conti con un aumento degli abitanti di circa il 3,6 % e con una diversificazione della domanda dovuta a nuovi nuclei familiari: è in funzione di questi dati che, attraverso il piano ha dato un indirizzo preciso alla trasformazione che inevitabilmente il territorio è destinato a subire. Un indirizzo talmente deciso da contestare anche le scelte operate a livello provinciale con il Ptcp nel momento in cui mettono a rischio l’integrità di quel paesaggio agricolo riconosciuto come bene da tutelare.
Nel 2015 ci sarà una rete ciclabile più fitta, una nuova scuola, insediamenti in dismissione riconvertiti e, soprattutto, le nuove generazioni potranno ancora godere del paesaggio agricolo che è arrivato fortunatamente fino ad oggi. Il Pgt conserva di fatto il patrimonio storico e naturalistico governando la trasformazione delle aree urbanizzate.
C’è qualcosa di replicabile in questo modello? Sicuramente: i principi di fondo. Svincolare il futuro del territorio dalle esigenze di bilancio, pensare a cosa è giusto tutelare, capire quali siano i margini della trasformazione, puntare a minimizzare il consumo di suolo. Soprattutto, ricominciare ad ancorare il piano a previsioni realistiche.
La crescita zero, forse, non è di per sé replicabile e realisticamente bisogna mettere in conto che una città abbia anche necessità di nuovi insediamenti: ma è nel processo e nelle premesse prima ancora che negli esiti l’elemento più significativo di questa esperienza. Un processo che non interessa unicamente la pianificazione comunale, ma potrebbe (e dovrebbe) ispirare anche quella sovracomunale e di area vasta: infatti, per quanto il Pgt di Cassinetta di Lugagnano possa essere preso ad esempio, il suo successo dipenderà anche dalla risposta dei territori limitrofi alla pressione insediativa generata dalle nuove infrastrutture di livello regionale.
[1]Il Piano di Governo del Territorio è stato istituito con la legge regionale lombarda n. 12 dell’11.03.2005 e smi. Il piano si compone di tre documenti fondamentali: Documento di Piano, Piano dei Servizi e Piano delle Regole (artt. 7-10 L.R. 12/2005).
[2]Documento di Piano – Elaborato 01 – Quadro conoscitivo del territorio comunale
[3]Art. 8 della LR 12/2005 e smi
[4]Documento di Piano – Elaborato 3 DP – Obiettivi di sviluppo residenziale e produttivo, sostenibilità ambientale, compatibilità degli interventi con le risorse economiche
[5]“Considerate le attuali ipotesi di PGT e i programmi regionali in vigore per la provincia di Milano non si prevedono nuove strutture di grandi dimensioni”, (Documento di piano – Elaborato 1.L – Piano del Commercio. Norme di programmazione, art.4).
[6]Ibidem
[7]La legge regionale 12/2005 prevede un rapporto minimo di 18 mq/abitante
[8]Documento di Piano – Elaborato 2 DP – Quadro ricognitivo
[9]Ibidem
Il Frecciarossa si mangia duecento chilometri di pianura in un’ora, carico di uomini in cappotto blu tra i 50 e i 70 anni, rappresentanza nutrita e autorevole dell’establishment italiano. (Esclusi i giornalisti, ieri c’era una donna ogni cento persone, sul binario della Stazione Centrale pavesato a festa. E per trovare un giovane, bisognava scovare un capannello di studenti milanesi che hanno vinto un concorso per video-maker).
Milano-Bologna a trecento all’ora, nel breve tempo necessario per intuire il Po gonfio e scuro, le macchine sull’Autosole statiche come se fossero parcheggiate, i cascinali, i capannoni, i campi di guazza.
A bordo, nel silenzio morbido e senza scosse garantito dai binari hi-tech, i riferimenti geografici, non più intelligibili a quella velocità, si leggono sui gps dei passeggeri, che osservano sorridendo il puntino blu del treno mangiarsi i centimetri che separano i centri abitati sulla mappa. Sul treno non si guarda più fuori dai finestrini, per avere la distratta percezione di un paesaggio reso irreale dalla velocità. Si compulsa piuttosto la personal-elettronica che connette tutti a tutto, chini sui miscroschermi tascabili o su quello del computer, come in un volo terrestre che leva materialità al terreno e sospende tempo e spazio. Non si avverte più neanche il tu-tum, tu-tum, tu-tum scarrellante e soporifero che ha accompagnato nel sonno milioni di passeggeri di decine di generazioni, il viaggio Tav è fluido, extra-territoriale, scivola ovattato.
In un attimo siamo a Lodi, a Piacenza, a Parma. Il treno si arresta per pochi istanti vicino a Gattatico, prima di Reggio. Lo speaker, con una forte inflessione romanesca che odora di parastato, spiega che la decisione è stata presa dall’European Train Management System, che poi sarebbe la stanza dei bottoni che governa la linea da Bologna, come si faceva da bambini con il trenino elettrico. E aggiunge che arriveremo comunque in orario. Infatti. Elettronica più computer più il vecchio acciaio ben temperato più le macchine potenti dell’industria pesante italiana più la caterva di soldi della politica, e anche l’Italia, con affanno, entra nell’Europa dei treni ad alta velocità, dei minuti contati, delle distanze accorciate.
Chi è abituato a guadagnare con rassegnata lentezza le tappe di questo tragitto, in macchina sull’autosole o sugli Eurostar normali, costretti dal traffico a viaggiare alla media ottocentesca dei cento all’ora, non può non godersi i vantaggi, l’avvicinamento di Milano a Roma (tra un anno a meno di tre ore l’una dall’altra). L’Italia, con i suoi grotteschi campanilismi, le sue piccinerie provinciali, con la Tav davvero si accorcia, a misura di quella penisola europea che è e non più di una successione di ex città-stato frustrate.
Questo non cancella le polemiche sui costi smodati, e sulle ferite inflitte a un territorio delicato e frastagliato che la Tav, nei tratti di montagna, infilza con la brutalità di uno spiedo. Ma aggiunge qualcosa di indubitabilmente moderno, per giunta utilmente post-automobilistico, a un paese che si sente vecchio e barcollante, che dubita di se stesso. Nemmeno la pompa politica riesce a infastidire più di tanto, le tante autorità presenti hanno il buon gusto di non farla troppo lunga e si abbracciano come colleghi di ufficio in gita; e ci si limita a sorridere per il lussuoso e incongruo comunicato che Antonio Tajani (Vice-Presidente della Commissione europea dei Trasporti, maiuscole nel testo) è riuscito a infilare nella cartella stampa, per far sapere che «parteciperà alla cerimonia di inaugurazione»: una notizia da levare il fiato.
Piuttosto, la brevissima e imprevista sosta a Gattatico permette per un istante di pensare a Gattatico. E cioè di riflettere, sia pure a bordo di un siluro così illustre e funzionale, su quell’immenso e negletto no-Tav che è l’Italia senza Tav. Gli infiniti rami secondari dimenticati, gli indecenti treni dei pendolari, i raccordi sbrecciati e ingorgati per guadagnare le stazioni della Tav, insomma quel settanta per cento di italiani che vivono in piccoli e medi centri (l’Italia non è un paese di metropoli), nelle valli (l’Italia non è un paese di pianura). Il timore di viaggiare su un treno "di classe" (un treno pieno di signori, vedi Guccini), fiore all’occhiello di un sistema-paese che lascia a terra la maggioranza, rovina non poco il sapore di un viaggio comodo e veloce, offusca il sentimento "europeo" e innesca dubbi sulle famose "priorità": se cioè, per avvicinare Milano a Roma a Napoli a Torino a Trieste, e l’Italia ai famosi corridoi europei, non si rischi di allontanare ulteriormente Padova da Ancona da Piombino da Potenza da Siracusa eccetera, seminando nelle retrovie della modernità pezzi così ingenti di noi stessi.
Sbarcati a Bologna, si può avere all’istante un piccolo memento di quanto bassa sia la velocità, lontana dalle autorità in cappotto blu. Per proseguire in treno fino alla mia destinazione (venti chilometri dalla stazione di Bologna) dovrei aspettare un interregionale che parte un’ora dopo. Volessi noleggiare un auto non potrei: gli autonoleggi, nelle stazioni italiane, chiudono nel week-end come il lattaio e il panettiere (si sa, nei week-end la gente non viaggia?). E dunque, coda per il taxi e poi il passaggio premuroso di un amico. Arrivo a casa quando il Frecciarossa è già tornato da un pezzo alla Centrale di Milano, e la banda dei carabinieri sta celebrando la velocissima festa di un paese che corre per un quarto, e per tre quarti arranca. E questa, sia ben chiaro, non è un’osservazione politica: questa è la realistica misura di un tempo diseguale in un paese schizofrenico.
L'alta velocità si prepara a modificare il tradizionale trasporto delle persone e il conseguente sviluppo attorno alle città, con il fine di migliorare radicalmente il servizio di mobilità regionale e suburbano in analogia a quanto avviene nelle principali città europee. Il cambiamento delle relazioni di trasporto tra i nuclei abitati darà un nuovo impulso alla riconfigurazione infrastrutturale del nostro territorio.
A tal proposito, conversando con Gian Paolo Corda, professore di Progettazione urbanistica al Politecnico di Milano e responsabile dal 2000 al 2003 dell'Agenzia mobilità e ambiente del Comune di Milano, emerge come si debba pensare che l'Av non sia fatta soltanto per velocizzare il trasporto dei passeggeri ma anche per migliorare radicalmente quello delle merci. Fattore questo che influirà positivamente sull'economia italiana, sottraendo al sistema autostradale un carico di traffico ormai diventato, su alcune direttrici, insostenibile. Sulla lunga e media distanza l'alta velocità potrebbe e dovrebbe dunque diventare una valida alternativa reale rispetto al trasporto aereo e a quello stradale.
«Potenzialmente – prosegue l'architetto Corda – ogni nuova stazione diventerà un condizionatore urbano e quindi rivestirà non soltanto la funzione di scambio, ma anche funzioni di carattere produttivo (terziario) o commerciale. Mentre la residenza può diradarsi sul territorio, i luoghi di lavoro è bene che siano posizionati là dove l'accessibilità è maggiormente garantita». È necessario dunque riflettere sulla rivalutazione immobiliare delle aree intorno alle stazioni, conseguente alla ridistribuzione funzionale delle città, basata sui diversi livelli di accessibilità urbana. Più che a una ridistribuzione dei residenti, si assisterà molto probabilmente a una ridistribuzione delle attività.
E che le stazioni dell'Av non debbano essere solo luoghi di transito lo sottolinea a Nova24 anche l'ingegnere Maurizio Teora, direttore Arup Italia, raccontando di come «il progetto della stazione dell'Av di Firenze, concorso vinto da Arup nel 2002 con lo studio Foster, sia un progetto veramente innovativo. Nonostante le considerevoli dimensioni sarà completamente interrato e grazie alla foratura della struttura, a 25 metri sotto terra sarà possibile vedere il cielo, sfruttando così la luce naturale e ottimizzando l'aereazione meccanica. Conterrà inoltre anche una zona per il terminal passeggeri, cominciando a entrare nell'ottica di una stazione non solo di transito ma anche luogo piacevole dove poter svolgere diverse attività, così come nei casi fortunati di Victoria Station e Charing Cross a Londra». La stessa visione ritorna anche in un altro progetto per il terminal passeggeri della stazione di Bologna, concorso vinto da Arup Italia con Arata Isozaki e da pochi giorni ufficialmente presentato. Verrà costruito interamente sopra la linea ferroviaria e sarà anche una zona commerciale, culturale, ricca di attività e con un programma misto di ristoranti, uffici, spazi commerciali.
Secondo Maurizio Teora inoltre «saranno molto importanti anche le fermate intermedie perché più ci si allontana dalle macrocittà e più si potrebbe assistere a degli sviluppi sensibili».
La conversazione si chiude quindi con l'architetto Carlo Gasparrini, professore di Progettazione urbanistica alla facoltà di architettura dell'Università «Federico II» di Napoli che racconta a Nova24 come «non vi sia dubbio che la realizzazione dei corridoi di trasporto in cui è inserita l'alta velocità a livello europeo, influirà in modo rilevante sulle configurazioni urbane, innescando processi di trasformazione concentrata nelle aree interessate dalle nuove stazioni e dai nodi intermodali che ospitano, e orientando il comportamento di persone e aziende verso i cambiamenti di accessibilità delle aree urbane. Sono necessarie scelte coraggiose e di rilievo, con infrastrutture a livello nazionale e internazionale ma anche a livello locale, quali metropolitane, linee tranviarie e trasporto pubblico su gomma. L'assenza o la debolezza di questa rete, l'incapacità di configurare le stazioni dell'alta velocità come nodi di interconnessione tra diverse modalità del trasporto, vanificherebbe molti dei suoi aspetti positivi».
La connessione tra alta velocità e reti locali è quindi indispensabile non solo per ridisegnare le stesse città ma anche per rendere economicamente più efficace l'investimento. «Infatti – prosegue Carlo Gasparrini – una corretta strategia delle reti infrastrutturali dovrebbe prendere atto che il bacino di utenza dell'alta velocità non rientra più nei dintorni discreti delle stazioni, come avveniva fino a 50 anni fa. Una strategia di fermate in poche stazioni centrali contrasta con questa nuova geografia fisica e sociale della città diffusa. Le esperienze più interessanti, più che dalle grandi città, vengono dalle città medie che acquisiscono straordinarie potenzialità quando vengono intercettate dalle reti dell'alta velocità per partecipare alla competizione economica internazionale. Il caso di Lille negli anni 90 e del suo improvviso trovarsi al centro di un sistema di connessioni rapide con grandi città come Parigi, Bruxelles e Francoforte l'ha messa al centro di una serie di investimenti europei».
Le conclusioni non possono dunque che essere positive: un nuovo orientamento dell'attitudine delle persone che si spostano, se ben supportato e gestito, potrà senz'altro aumentare non solo le potenzialità delle nostre città ma anche il livello di sostenibilità, tanto che una connessione efficiente con l'Av potrebbe persino diventare un parametro indicatore di qualità urbana.
postilla
E' senza dubbio cosa positiva e degna di nota, che ci si soffermi sulle potenzialità (sinora ampiamente sorvolate) dei treni e stazioni dell'alta velocità per gli insediamenti urbani. Proprio lo stesso giorno in cui il Sole 24 Ore pubblicava questo articolo, la radio nazionale Usa trasmette un programma dedicato alla trasformazione della più famosa "edge city" suburbana/automobilistica del paese, Tysons Corner nell'area metropolitana di Washington D.C. in un cosiddetto TOD: Transit Oriented Development. Ma ... c'è sempre un ma. Ad esempio, ci pensa da subito uno degli intervistati a fornire la prima contraddizione: la stazione polo delle attività economiche, e la residenza libera di "disperdersi" qui e là. Sembra di essere tornati di peso a qualche vecchiotta utopia tecnologica, mentre basta scorrere anche la pubblicistica ormai consolidata ad esempio di area New Urbanism, ben accettata anche da buona parte dei costruttori, per leggere che alla base dei nuovi insediamenti raccolti nei nodi delle stazioni c'è la composizione funzionale equilibrata, a costituire nodi urbani per eccellenza, e non certo "transit-edge-cities". Ma la nostra cultura, che ha la fortuna di potersi sviluppare in un ambiente tutto sommato ricco in termini di reti di trasporto pubblico, forse preferisce sorvolare: del resto, con l'alta velocità ad assorbire gran parte delle poche risorse in campo, una volta scesi dal treno proiettile probabilmente dovremo arrangiarci, magari pagando una di quelle strampalate auto di lusso con chaffeur in divisa messe a disposizione dalle ferrovie .... (f.b.)
Il comitato promotore della nuova linea alta velocità Milano-Venezia ha presentato una dettagliata analisi costi-benefici del progetto. E' una buona notizia perché l'iniziativa rende più trasparente il dibattito politico-decisionale, cosa assi rara in Italia. Se però si va più in profondità, si scoprono un errore di calcolo e alcune ipotesi indifendibili, tutte a vantaggio del piano. Ma più in generale emerge, ancora una volta, la necessità di analisi comparative, neutrali e fondate su parametri univoci e condivisi. Soprattutto quando le risorse pubbliche sono scarse.Transpadana, comitato promotore della nuova linea alta velocità Milano-Venezia, ha presentato una dettagliata analisi costi-benefici del progetto: è davvero una buona notizia nel quadro della valutazione degli investimenti infrastrutturali italiani. Pur tenendo conto delle critiche che si possono muovere a qualsiasi analisi che cerchi di schematizzare realtà molto complesse, l'iniziativa ha il grande vantaggio di rendere più trasparente il dibattito politico-decisionale, cosa assi rara in Italia. E questo anche quando, come nel caso della Transpadana, l’analisi non sia condotta da un organismo indipendente. Infatti gli autori dello studio hanno ricevuto l’incarico da un comitato di promotori dell’infrastruttura, mentre l’indipendenza dei valutatori, insieme all’analisi comparativa di più di una soluzione, farebbe parte delle “buone pratiche” della tecnica.
UN ERRORE DI CALCOLO E IPOTESI DISCUTIBILI
Come ormai tradizione consolidata su lavoce.info, esamineremo più nel dettaglio l’analisi costi-benefici proposta dagli autori.
Emergono immediatamente diverse ipotesi difficilmente difendibili e un rilevante errore di calcolo. Tutti gli elementi oggetto di dubbio, si noti, agiscono in favore della tesi sostenuta dagli autori, non si collocano cioè all’interno della prassi, di buon senso, che prevede di sopravvalutare per prudenza i costi (certi, e mai in discesa), e sottovalutare i benefici (meno certi, se non altro perché collocati in un futuro più lontano).
Partiamo dall’errore di calcolo: lo studio attribuisce un valore del tempo alle merci pari a 30 €/ora*ton, cioè circa 15 volte il valore comunemente utilizzato in letteratura di 2,07 €/ora*ton. Lo studio cita come fonte un’altra analisi costi/benefici (1), dove però tale valore era attribuito a un intero carico di un camion, che è mediamente assunto proprio di 15 tonnellate.
Alcuni parametri utilizzati, poi, si discostano notevolmente dai valori di letteratura: il saggio di sconto sociale usato è 3,5 per cento, rispetto al 5 per cento consigliato dalla Commissione europea. E l’orizzonte temporale dell’analisi è di 100 anni, mentre normalmente si estendono tali analisi al massimo per 30 anni, dando eventualmente un valore residuo elevato all’opera per tener conto del “troncamento”effettuato. Ora, è perfettamente lecito, e forse anche giustificabile sul piano teorico, usare un saggio di sconto più basso di quello raccomandato dalla Commissione europea. Ma lo scopo principale dell’analisi costi-benefici è quello di rendere confrontabili progetti diversi tra cui scegliere: se ogni analista cambia il saggio a propria discrezione, e in particolare lo abbassa in caso di risultati non favorevoli, l’utilità dell’esercizio svanisce.
Non è chiaro poi come vengano calcolati alcuni dei benefici: per esempio non si capisce se vi è annoverata tutta l’occupazione aggiuntiva o, come sarebbe corretto fare, solo quella creata dal moltiplicatore, con i relativi maggiori consumi. Inoltre, i minori costi del traffico attratto dalla ferrovia potrebbero essere un caso di doppio conteggio: tali benefici sono già implicitamente conteggiati valutando il surplus dei soggetti che cambiano modo di trasporto. Tuttavia, proprio perché non è chiaro come siano stati valutati i benefici per il traffico spostato dalla strada alla ferrovia, si preferirà lasciare inalterato tale valore.
Infine, vengono fatte previsioni di traffico senza fornire i dati di quello attuale, rendendo problematica la valutazione delle previsioni stesse.
NUOVI CALCOLI
Alla luce di quanto emerso, proviamo a ricalcolare in maniera parametrica l’analisi proposta (come si è detto, non si è in possesso di tutti i dati necessari a ricostruire nel dettaglio il flusso costi-benefici): si eliminano cioè i benefici che tali non sono e si diminuisce del 30 per cento i valori attualizzati di costi e benefici, che corrisponde al passaggio del saggio di sconto dal 3,5 al 5 per cento. Si ottengono i seguenti risultati:
[questa tabelle e la successiva sono leggibili nel testo integrrale del documento, scaricabile in calce]
Per chiarire meglio l’influenza che le singole correzioni hanno sul risultato dell’analisi, si riportano di seguito i Van, e le variazioni percentuali rispetto al valore originale, conseguenti all’applicazione di una sola “correzione” per volta, e successivamente di nuovo di tutte le “correzioni” insieme.
[questa tabelle e la precedente sono leggibili nel testo integrrale del documento, scaricabile in calce]
Come si può notare, è praticamente sufficiente la correzione del solo parametro più vistosamente inattendibile, il valore del tempo delle merci, per ribaltare il risultato complessivo del progetto. Il Van totale infatti diviene (133.103 – 914.155 =) - 781.052 M€.
C’è poi da aggiungere che non è chiaro se lo studio assume, come dovrebbe, che di fatto scompaia o si riduca molto la congestione sull’asse autostradale parallelo, che prevede rilevanti opere di raddoppio (BreBeMi) o di forte potenziamento (Brescia-Padova a sei corsie, passante di Mestre, Pedemontana lombarda e veneta), opere già deliberate e in buona parte finanziate.
Quali considerazioni conclusive si possono trarre, a parte la banale osservazione che sarebbe meglio non cadere in (non neutrali) errori di calcolo? Ancora una volta emerge con forza la necessità di analisi comparative, neutrali e fondate su parametri univoci e condivisi (saggio di sconto, moltiplicatore occupazionale eccetera), soprattutto in presenza di risorse pubbliche scarse.
Si insiste molto in questo periodo sul ruolo anticiclico che potrebbero avere le grandi opere nella congiuntura negativa, vale allora la pena di osservare che i tempi prevedibili degli effetti della spesa sono piuttosto lontani [link Boitani 300 parole]. E ancora, a giudizio degli stessi autori dell’analisi, la componente occupazionale della spesa, essenziale per l’impatto di moltiplicatore economico della stessa, appare modestissima. Come d’altronde dobbiamo aspettarci da un settore oggi estremamente capital-intensive.
(1)Analisi costi-benefici della ferrovia Torino-Lione, di Rèmi Prud’Homme
[Inseriamo in chiaro la premessa e il sommario. Il testo integrale del documento è scaricabile in formato .pdf utilizzandoil collegamento in calce]
Premessa
Neppure dopo l’annunciato scoppio della bolla immobiliare che ha partecipato in modo consistente alla crisi dell’economia mondiale si sono voluti mettere in relazione: speculazione edilizia-immobiliare- finanziaria, peso dei mutui, disagio abitativo.
Prima di formulare delle proposte serie è necessaria un’analisi corretta. Questa manca da tempo, anche nella sinistra. Le proposte inefficaci fin’ora adottate sono frutto di analisi parziali e faziose. L’assenza di una lettura, tecnicamente, prima ancora che politicamente, corretta ha permesso di scegliere, senza doverne dare giustificazione, misure di contrasto all’emergenza abitativa che non hanno scalfito il problema. Gli obiettivi dichiarati non erano gli obiettivi perseguiti. La casa è diventata un’emergenza permanente di cui ci si occupa poco e male. Leggi e finanziamenti erogati negli ultimi tre decenni non hanno alleviato la grave condizione di disagio in cui versano milioni di famiglie italiane. Siamo al penultimo posto in Europa e il disagio si estende e cresce di intensità.
La Politica non ha una risposta, non ha una proposta.
Sommario
Perché la sinistra deve intervenire sul problema della CASA?
La casa fra bisogno e mercato
Un’analisi distorta una terapia inefficace
Il mercato immobiliare origine della crisi
Insediamenti abusivi - i senza tetto
Sfratti
Studenti e immigrati : il miglior business
La casa, le donne, la città
Errori di interpretazione dei fenomeni urbani
Mutui e pignoramenti
Bellezza, cultura, ambiente
Una periferia bella, sicura, inclusiva .
L’offerta degli alloggi sociali
Il Tavolo di concertazione sulle politiche abitative
Il Piano casa del governo Berlusconi
L’edilizia sociale in Europa
Carta europea dei diritti e inclusione sociale
Destra e sinistra, il coraggio della differenza.
La questione morale
Proposte
La politica dei trasporti e delle infrastrutture in Italia si è caratterizzata per essere slegata e dissociata da ogni politica di programmazione dell’uso del territorio e di espansione delle città ed aree metropolitane.
Certo non sono mancati i tentativi di riavvicinare le scelte in modo coerente sia nella programmazione locale che in quella nazionale, ma la logica della grandi opere, dei lavori pubblici, ha trovato sempre il modo di evadere integrazione e coordinamento.
Basti pensare al Piano Generale dei trasporti del 1987 che istituì, il CIPET (Comitato interministeriale programmazione e trasporti) che avrebbe dovuto coordinare tutta la spesa, che non riuscì mai ad interferire nelle scelte del Piano generale di grande viabilità e che nel 1993 venne soppresso come ente inutile.
C’è stata la stagione felice dei Piani Urbani del Traffico, che a meta degli anni ’90, ispirò tutte le principali città nell’adottare provvedimenti di regolazione del traffico privato, di rilancio del trasporto collettivo, di innovazione tecnologica e di servizio. Con il limite che si trattava di interventi comunali (e non di area vasta) e che non interveniva sugli investimenti: avrebbero dovuto essere i Piani Urbani della Mobilità ( indicati dalla legge 340/2000) a fare questo passo in avanti, ma ad oggi manca il regolamento di attuazione e non si integra pianificazione e spesa per gli investimenti nei trasporti ( né urbana né extraurbana).
Diversi comuni hanno adottato comunque i PUM, alcuni anche molto innovativi ma l’impossibilità di coordinare la spesa per gli investimenti e la difficoltà di” rincorrere” i PGR ed i Piani Territoriali vigenti, o le opere della legge Obiettivo ed i Piani di settore, lo rendono ad oggi purtroppo un strumento poco incisivo. Mentre dovrebbe diventarlo.
Anche dall’Unione Europea sono venute idee innovative come disaccoppiare crescita e mobilità, la direttiva eurovignette sulla tassazione del traffico pesante su strada, la valutazione delle esternalità negative nei trasporti, il libro bianco sulla mobilità urbana.
Strategie rilevanti ma spesso non ancora normative stringenti ed in diversi casi ancora in corso di elaborazione.[1] Ma allo stesso tempo non è mancata anche in Europa la centralità per le reti infrastrutturali con il grande ed esteso Piano di reti TEN, con le proprie risorse e anch’esso separato dagli altri interventi, proprio come accade in Italia.
Grandi opere “indifferenti” al territorio.
Anche il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica del 2001 venne rapidamente messo in un cassetto dal nuovo governo Berlusconi che puntò sulla Legge Obiettivo e la lunga lista di grandi opere infrastrutturali da realizzare.
La legge obiettivo ha indotto anche un salto di “qualità” nel programmare infrastrutture “indifferenti” al territorio perché ha invertito ogni logica decisionale: non più integrazione, non più infrastrutture che connettono, ma è la decisione sulla localizzazione della grande opera che costituisce “variante” al Piano Regolatore vigente. Come dire che è il territorio che si deve adattare all’infrastruttura.
Un metodo di lavoro che infatti non funziona perché quando dai grandi proclami si scende ai progetti reali i conti non tornano: il territorio è cambiato, è molto più denso, pieno di esigenze e problemi, le città escluse da ogni decisione vogliono comunque e giustamente dire la loro, ed anche i conti economici non tornano più. ( basti pensare alla Brebemi)
Ma i progetti infrastrutturali da realizzare con le procedure accelerate della Legge Obiettivo come la autostrade sono gli stessi di 20 anni fa, sono vecchi, non tengono conto di questi cambiamenti, non contengono innovazioni né di progetto ne di servizio all’utenza. Una legge vigente di semplificazione che il governo e la maggioranza dell’Unione non ha voluto modificare, grazie anche alla netta opposizione dell’exministro Di Pietro.
E neanche le procedure semplificate di Valutazione di Impatto Ambientale hanno potuto migliorare più di tanto progetti obsoleti, mentre la Valutazione Ambientale Strategica su Piani e Programmi ( ed il tardivo recepimento italiano) è arrivata dopo, quando le liste erano ormai fatte e di Piani non si parla nemmeno più.
Un’altra distorsione: nuovi insediamenti per pagare le autostrade
Un altro passo in avanti nel predominio dell’infrastruttura sul territorio è costituita dalla nuova Legge n. 15 del 2008 della regione Lombardia[2], per le infrastrutture. All’articolo 10 si prevede che al concessionario di infrastrutture possano essere affidati anche interventi insediativi e territoriali nella fascia connessa con il tracciato dell’opera, al solo scopo di consentire al concessionario di ripagarsi l’opera che non regge con i soli ricavi da pedaggio.
Quindi avremo insediamenti mai pianificati con il solo scopo di fare “cassa” magari per realizzare infrastrutture sbagliate ed obsolete, che in genere vengono giustificate con il refrain “si ripagano da sole” e neanche questo è dunque vero. Potrebbe sembrare in fondo una opportuna integrazione tra insediamenti ed infrastrutture ma il fatto che l’insediamento serva a ripagare l’opera deforma il processo di pianificazione: diventerà una grande corsa a costruire capannoni e centri commerciali, invece di parlare il linguaggio del recupero, del riuso, della demolizione e ricostruzione, del risparmio di suolo.
Senza dimenticare che questo processo di cementificazione è calibrato per nuovo autostrade, invece di addensare insediamenti nei luoghi di accesso delle reti ferroviarie.
Del resto non avevamo mai dubitato che erano le concessionarie autostradali a decidere anche le scelte infrastrutturali e territoriali del nostro Paese[3], con la loro capacità di incassare risorse e condizionare le scelte politiche ad ogni livello, e questa legge della regione Lombardia lo rende ancora più esplicito.
Come è nuovamente accaduto con l’emendamento approvato da Governo e maggioranza nel Decreto Legge 101/2008, che da il via libera “per legge” a tutti le nuove convenzioni con le principali concessionarie autostradali, senza valutazione di Cipe, Nars e Parlamento. Arrivando a riconoscere alla Società Autostrade per l’Italia, aumenti tariffari annuali sicuri almeno del 70% da qui al 2038: una autentica e sicura scala mobile, che mi pare venga tranquillamente negata ai lavoratori.
Crescono le percorrenze e cambia la domanda di trasporto
La definizione di progetti infrastrutturali vecchi ed obsoleti deriva anche dal confronto con i cambiamenti intervenuti nella domanda di mobilità negli ultimi 30 anni. Domanda che è cresciuta costantemente con il cambiare dei comportamenti e del lavoro, determinata dall’espansione urbana fuori dalle grandi città, alimentata dalla rigidità della casa in proprietà e dall’assenza di un mercato accessibile dell’affitto. Lo stesso uso delle autostrade esistenti nate per la grande distanzia si è modificato, servendo un traffico sempre più locale e breve di pendolarismo quotidiano.
Un analogo ragionamento è possibile fare per il trasporto delle merci, con l’espansione della fabbrica diffusa e decentrata, con la chiusura o trasformazione dei grandi poli industriali, con la realizzazione di centri commerciali e di sistemi di distribuzione sempre più intensi e basati sul “just in time”, dove ormai le nostre strade ed autostrade sono il vero magazzino delle imprese di produzione, distribuzione e commercializzazione.
Sono gli stessi numeri che lo dimostrano, come il prezioso studio curato dall’ing. Andrea Debernardi per il WWF “Metropoli tranquille”[4] che analizza le modifiche strutturali della domanda di trasporto nel Nord Italia e fornisce risposte innovative ai problemi che vengono posti. Lo studio documenta l’incremento delle percorrenze nell’Italia settentrionale passate dai circa 8.500 km del 1980 agli oltre 16.000 km del 2000 (pg. 68).Di questi km che ogni anno in media ogni cittadino percorre ben 14.000 sono in automobile (pag.85) e sono cresciuti non tanto il numero degli spostamenti quanto piuttosto la percorrenza media di ogni percorso.
Analogo ragionamento vale per il trasporto delle merci. Negli ultimi vent’anni l’aumento delle percorrenze espressa come tkm trasportate ogni anno per ciascun residente dell’Italia settentrionali, è costantemente cresciuta, passando dalle circa 4.500 tkm/ab/anno del 1980, alle quasi 8.000 tkm/ab/anno del 2000.
Da sottolineare che nello stesso periodo la quantità di merce trasportata è cresciuta del 20%, mentre l’incremento delle percorrenze è cresciuto più del triplo.
Quindi l’incremento delle percorrenze passeggeri in vent’anni è stato praticamente del 100% mentre quello delle merci di oltre il 70% in più mentre il valore aggiunto determinato dal Pil è stato nello stesso periodo del 40% nel Nord Italia. E questi numeri continuano a crescere, dal 2000 ad oggi, come dimostrano le indagini sui flussi autostradali, il Conto nazionale dei trasporti e le ricerche sull’incremento del pendolarismo (Censis).
Se ne conclude che c’è un incremento costante dell’intensità di trasporto che supera largamente quello del valore aggiunto, che richiede sempre più chilometri, sempre più energia, sempre più costi ambientali e territoriali, per produrre, lavorare e vivere.
Inoltre l’aumento delle percorrenze cresce (in genere tre-quattro volte) di più del numero degli spostamenti sia per la domanda di mobilità dei passeggeri che delle merci. Questo è sicuramente il risultato delle trasformazioni urbane e produttive, dell’espansione urbana e dell’edilizia a bassa densità, delle innovazioni logistiche ed il frazionamento delle fasi di fabbricazione dei beni di consumo, è l’effetto dello “sprawl” urbano e della città dispersa, dello “stravaccamento” di edilizia e capannoni, che oltre ad aumentare a dismisura il consumo di suolo, aumenta e fa crescere la domanda di mobilità.
Il pendolarismo cresce sulle autostrade, anche per la scarsità di trasporto sulle reti ferroviarie.
Questa domanda di mobilità crescente e locale ha modificato anche l’uso delle autostrade, come dimostrano gli stessi dati della società Autostrade per l’Italia[5].
Lo studio riferito all’anno 2007 documenta che sulla rete autostradale il percorso medio è stato di 75 km per i veicoli leggeri (le automobili) e di 99,7 km per quello pesante (le merci).
Ma queste sono le medie ed andando ad analizzare in profondità le percorrenze emerge che il 60,3 degli spostamenti leggeri ed il 48,1% di quelli pesanti avvengono su tragitti inferiori ai 50 km. Inoltre tra le due componenti, rispettivamente, oltre 1/3 dei veicoli leggeri e circa 1/4 di quelli pesanti non superano i 25 km. Ed a conferma di questo si indicano gli spostamenti oltre i 300 km rappresentano meno del 4% dei transiti leggeri e poco più del 6% di quelli pesanti.
Nello studio inoltre si afferma che le brevi distanze dei veicoli leggeri avvengono soprattutto intorno alle aree urbane, che insieme alla costanza del fenomeno, confermano il carattere di pendolarità nell’uso delle autostrade.
Una indagine mirata sui Pendolari d’Italia[6] elaborata dal Censis, documenta l’esplosione del fenomeno pendolarismo negli ultimi anni, legata sospratutto ai “processi di diffusione abitativa che hanno cambiato profondamente le concentrazioni in molte aree del Paese”. Sono circa 13 milioni i pendolari in Italia e nel periodo dal 2001 al 2007 sono cresciuti del 35,8% ( si tratta di quasi 3,5 milioni di persone in più in soli sette anni. I pendolari sono soprattutto impiegati ed insegnanti (43%), studenti (23%) ed operai (17,5%).
Nel commuting quotidiano predomina l’auto privata, usata dal 72,2% dei pendolari, autobus e corriere si attestano al 13,4% mentre il treno assorbe appena il 7,6%. Complessivamente dal 1991 al 2001 emerge un calo della quota di mercato assorbita dai mezzi pubblici (-2,3% del treno e -3,2% dell’autobus) mentre aumenta la quota che utilizza l’automobile ( +8,6%).
Altro dato significativo che emerge dallo studio sui pendolari è la risposta relativa all’offerta di trasporti ferroviari: ben il 46% degli intervistati non usa il treno perché “ non ci sono treni per gli spostamenti che devo effettuare”, un altro 20,8% perché “la stazione è troppo distante da casa mia”,il 13,3% perché deve fare troppi trasbordi, il 13,8% perché i “collegamenti sono saltuari e non coincidono con i miei orari.
Il 6,2% afferma di dover fare altri spostamenti nel corso della giornata e solo il 5,1% afferma di non usare il treno perché gli piace guidare la propria auto!
Se ne deduce che è l’offerta di trasporto ferroviari e collettivi che è carente ed inadeguata ad una domanda di tipo metropolitano e diffusa sul territorio[7], nonostante che sia un segmento di trasporto in crescita. Lo stesso studio Censis sottolinea la distanza tra la dotazione di linee ferroviarie suburbane delle principali conurbazioni europee rispetto all’Italia: oltre 3000 km di rete a Berlino, 1.500 km a Francoforte, 1.400 km a Parigi, a fronte dei 188 km di Roma, dei 180 km di Milano, i 117 di Torino, i 67 km di Napoli.
Proprio in questi giorni Londra[8] ha approvato il nuovo “business plan” 2008/2018 di Transport for London, con massicci investimenti per potenziare il trasporto pubblico (ed in particolare il trasporto su ferro), che dovrà aumentare del 30% i passeggeri trasportati.
In Italia c’è molto da fare, per usare meglio le reti che abbiamo, per aprire la rete con nuove stazioni e fermate, per integrare le diverse modalità di trasporto (orari, tariffe, parcheggi), per realizzare nuove reti verso poli da servire (purtroppo in genere a bassa densità!), comprando 1000 treni per i pendolari da usare anche sulle linee liberate dalla nuova rete ad Alta Velocità.
Invece si punta su grandi autostrade: il caso Lombardia
Ma le politiche dei trasporti e delle infrastrutture in atto in Italia volute dal centrodestra, e sostanzialmente condivise dal centrosinistra, puntano a realizzare una lunga lista di nuove autostrade e qualche pezzo di Alta velocità. Scarse risorse per i nodi ferroviari, niente finanziamenti per i treni pendolari e per il trasporto urbano e metropolitano. (vedi Legge Finanziaria 2009).
Il tutto senza una pianificazione di trasporti, senza la Valutazione Ambientale Strategica e nemmeno con una adeguata analisi costi-benefici, come ha scritto Maria Rosa Vittadini[9].
Sono i soliti progetti obsoleti per nuove grande autostrade di transito, spesso nate negli anni ‘60 per “accorciare” l’Italia, a sistema chiuso con caselli, complanari, bretelle e raccordi, con il rifacimento della viabilità locale, per cercare di inserire in un territorio ad altà densità insediativa, cresciuto in modo disordinato, senza gerarchie e poli riconoscibili, le grandi opere.
Un caso emblematico è la regione Lombardia, dove sono previsti tra progetti nazionali e concessioni regionali ben 8 interventi per nuove infrastrutture autostradali per un totale di 635,8 km. ( solo in un caso si tratta di una superstrada)
Stiamo parlando della Brebemi (62 km), della TEM con raccordo connesso e nuove varianti (74,8 km), dell’Autostrada della Valtrompia (35 km), della Mantova- Cremona ( km 70), del Tibre Parma-Verona ( 85 km), del potenziamento della SS.38 e collegamenti ( 85 km), della Pedemontana Lombarda (157 km), della Broni-Mortara (67 km).
A fronte di questo potenziamento autostradale è in campo il progetto di Alta Velocità Treviglio-Brescia-Verona, la risistemazione della gronda ferroviaria nord Novara-Brescia, il sistema di raccordo ed accesso con il sistema del Gottardo e del Loetschberg.
Quindi non si sceglie il riequilibrio modale e si punta a realizzare maggiori e nuove infrastrutture a sostegno del traffico motorizzato.
Resta il punto critico dei finanziamenti, praticamente inesistenti per gli investimenti ferroviari, decisamente più robusti quelli autostradali, anche se insufficienti a realizzare tutte le opere, che però potranno beneficiare di tariffe con cui ripagare in parte l’investimento ( solo in parte!) e della sussistenza di concessionarie autostradali già ammortizzate e quindi in grado di spendere. Solo tre opere andranno infatti a gara.
Ma ammesso che vi siano ( prima o poi) le risorse per realizzare tutti gli investimenti autostradali promessi facciamo qualche rapido calcolo di quanto consumo di suolo questo determini. Calcolando un fascio infrastrutturale di 30 metri (prudente) moltiplicato per 635,8 km di nuova rete, si ottengono 19.074.000 mq di costruito.
Se aggiungiamo che per ogni km di nuova rete si debbono ristrutturare 400 mt di viabilità locale, ci sono caselli e raccordi da costruire, si può prudentemente stimare un incremento del 40% di suolo da utilizzare.
Il totale diventa dunque di 26.703.600 mq di territorio da consumare, pari quindi a 2.670,3 ettari di suolo agricolo da occupare solo per le nuove autostrade che si vogliono costruire in Lombardia.
Ma a questi dati andrebbero aggiunti gli spazi interclusi, il degrado al contorno del territorio agricolo, l’induzione di nuove aree insediative, commerciali, industriali, logistiche, a ridosso dei caselli e lungo le autostrade ( anche come prevede la nuova Legge 15 della regione Lombardia) che diventano rapidamente accessibili e cementificabili.
Questo è dunque il modello che attende la regione Lombardia ed in genere l’Italia: non solo dobbiamo quindi censurare l’esasperato consumo di suolo già avvenuto in questo ultimo decennio ma intervenire per evitare l’aggravarsi della cementificazione.
Peraltro considerando anche il parametro emissioni di CO2, che vede in Italia ben il 26% delle emissioni derivare dai trasporti (nel 1990 erano il 21%), realizzare oltre 600 km di nuove autostrade solo in Lombardia ( e tante altre sono previste nel resto d’Italia) aiuterà la crescita delle emissioni e non la sua riduzione come ci siamo impegnati a fare con il protocollo di Kyoto.
Le alternative praticabili per risparmiare suolo e traffico motorizzato
Dalle analisi e dalle considerazioni che sono state svolte è possibile dedurre quali siano le alternative praticabili proposte dagli ambientalisti per risparmiare suolo e traffico motorizzato.
a) Adeguare gli strumenti di pianificazione con una riforma della Legge Urbanistica che integri l’uso sostenibile del territorio con le reti infrastrutturali urbane, di connessione con l’area vasta e di collegamento con le altre città e capoluoghi.
b) Regolamentare i Piani Urbani della Mobilità, integrandoli in modo coerente con la pianificazioni urbanistica e territoriale, capaci di diventare strumenti stringenti per decidere la spesa per investimenti nelle reti e nei servizi di trasporto di area vasta.
c) Applicare la Valutazione Ambientale Strategica ai piani esistenti ed a scala adeguata, per verificare la coerenza e la sostenibilità dei diversi piani infrastrutturali stradali, autostradali e ferroviari, aeroportuali, logistici e dei PUM elaborati dalle diverse conurbazioni di area vasta.
d) Sostenere gli investimenti per le reti tranviarie e l’uso metropolitano delle ferrovie; incrementare le risorse per gli investimenti ferroviaripuntando ad un maggiore uso metropolitano e regionale, adeguando la rete alle trasformazioni territoriali, con l’apertura di nuove fermate e stazioni, con servizi cadenzati. Fondamentale per aumentare l’offerta ai pendolari l’acquisto di mille treni per i pendolari ( da usare anche sulle linee esistenti liberate dai servizi ad Alta velocità che utilizzeranno le nuove linee).
e) Migliorare la rete stradale con l’adeguamento ed il potenziamento delle infrastrutture e quindi rinunciare o riconvertire gli obsoleti progetti autostradali.[10] Nuove reti intelligenti da progettare con criteri innovativi, utilizzando sedimi esistenti, segni persistenti e puntando al risparmio di suolo, con sistemi di esazioni aperti (niente caselli e complanari), capaci di integrazione (e non concorrenza) con le reti ferroviarie[11] e con i nodi di scambio ed accesso di area metropolitana.
f)Innovazione di servizio nell’offerta di mobilità ai cittadini. Tra l’auto privata e le reti di trasporto collettivo, c’è uno spazio intermedio di offerta di servizi di mobilità da pensare ed attuare. Qualcosa è stato fatto con il mobility manager, il carsharing, il bike sharing, i servizi a chiamata, ma è decisamente troppo poco e questi progetti devono avere nuovo impulso. Bisogna studiare una offerta mirata per la mobilità nel tempo libero, gli spostamenti degli scolari, servizi integrati con il treno ( taxi prenotato, consegna valigie, biglietti unici), si pongono nuove richieste per la mobilità degli anziani da soddisfare.
g) Finanziare ed incentivare la ricerca nel campo dei trasporti. Logistica, intermodalità, innovazione tecnologica, telematica applicata al traffico, riorganizzazione dei sistemi di produzione e distribuzione delle merci per risparmiare traffico, carburanti, veicoli puliti, veicoli innovativi nel campo dei trasporti collettivi, sono soltanto alcuni dei principali segmenti che hanno bisogno di ricerche e progetti mirati, capaci di fornire risposte intelligenti per il nostro futuro.
h) Risparmiare traffico deve diventare un obiettivo strategico degli ambientalisti, puntando ad eliminare inutili chilometri percorsi ogni giorno da merci e cittadini. In questo senso per esempio vanno tutte le esperienze in corso nonché le proposte di legge per il “Kilometro zero”, per incentivare la produzione, commercializzazione e consumo di prodotto alimentari locali freschi a livello locale. In questo modo si punta a produzioni di qualità e stagionali, si accorcia la filiera agroalimentare (con benefici anche economici per agricoltori e consumatori), e si risparmia traffico motorizzato[12] e chilometri percorsi dalle derrate alimentari, con generali benefici di risparmio energetico, di congestione, rumore, emissioni di inquinamenti e C02.
Intervento al convegno su Consumo di suolo e cementificazione del territorio: le proposte degli ambientalisti. Organizzato dal Gruppo Verde al Parlamento Europeo ed Ecologisti Democratici - Brescia, 14 novembre 2008
[1]Basti pensare al pacchetto di provvedimenti “Rendere i trasporti più ecologici” presentato l’8 luglio 2008 dal Commissario ai Trasporti Antonio Taiani e destinato ad essere discusso ed eventualmente adottato nei prossimi anni.
[2]Regione Lombardia. Legge n.15 del 26 maggio 2008. Infrastrutture di interesse concorrente statale e regionale. Pubblicata sul BURL del 30 maggio 2008 n. 22
[3] Giorgio Ragazzi. I Signori delle autostrade. Edizioni Il Mulino, 2008
[4]WWF Italia. Metropoli tranquille, una politica dei trasporti ragionevole per il Nord Italia. A cura dell’ing. Andrea Debernardi. Edizione febbraio 2006.
[5]Le percorrenze sulla rete Autostrade per l’Italia. Studio che analizza i comportamenti di viaggio in autostrada, anno 2007. A cura di Autostrade per l’Italia. (maggio 2008)
[6]Censis-Ministero dei Trasporti. Pendolari d’Italia. Scenari e strategie. Edizioni Franco Angeli, 2008
[7] W. Tocci, I.Insolera, D.Morandi. Avanti c’è posto. Storie e progetti del trasporto pubblico a Roma. Donzelli Editore 2008. Un libro da non perdere che mette insieme questione urbanistica, reti tramviare per il trasporto collettivo e riqualificazione urbana.
[8] vedi articolo “Mayor outlines 10-year plan for massive transport expansion”( 6 novembre) sul sito www.tfl.gov.uk
[9] Maria Rosa Vittadini. Decisioni senza Piano: male oscuro dei trasporti Italiani. Intervento pubblicato sul sito eddyburg.it
[10] Anna Donati. Cantieri utili. I si dei verdi per la mobilità sostenibile. Utensili-Quaderni programmatici della Federazione dei Verdi, 2007.
[11] A titolo di esempio vorrei citare il caso della alternativa alla Brebemi, progettata dall’ing. Debernardi; al progetto di superstrada Pedemontana Veneta, reimpostato dalla prof.ssa Vittadini; alla riprogettazione in corso della strada Statale Pontina (in alternativa all’Autostrada) da parte della regione Lazio ed elaborata dall’ arch. Aldo Ciocia.
[12]Food Miles è una espressione usata nei paesi anglosassoni per calcolare l’impatto ambientale del cibo che mangiamo ogni giorno, basato sul chilometraggio dei prodotti - ovvero i chilometri percorsi dal prodotto per arrivare sui nostri piatti. Su www.organiclinker.com un portale britannico, esiste un comodo calcolatore grazie al quale è possibile sapere quanta anidride carbonica è stata generata dai prodotti per arrivare in Gran Bretagna. Ad esempio, un prodotto proveniente dal Brasile percorre oltre 5400 miglia per raggiungere Londra e produce circa 1585 chili di CO2 se, per ipotesi, viaggia in aereo.
Il problema sociale dell’emergenza abitativa, pur reale e gravissimo, viene oggi utilizzato strumentalmente per portare a compimento lo smantellamento di quel poco di ruolo di indirizzo pubblico nella costruzione di un assetto sostenibile della città e del territorio sopravvissuto al trentennio di deregulation avviatosi nel 1977 con l’introduzione degli Accordi di Programma e coronatosi con l’art. 16 della L. n. 179/92 sui Programmi Integrati di intervento e con la loro dilagante diffusione nell’ultimo quindicennio.
Le vicende del Piano Nazionale di Edilizia Abitativa e l’uso che ne prospetta il Comune di Roma per mettere immediatamente in discussione un Piano Regolatore pur di per sé discutibile, ma comunque di recentissima approvazione, sono quanto mai istruttivi a proposito degli effetti di una governabilità senza progetto strategico.
Ma la strada era già stata aperta lo scorso anno con una legge della Regione Lombardia che consente ai Comuni di offrire ai privati la realizzazione di edilizia sociale convenzionata per un decennio su aree già destinate a servizi pubblici ancora inattuate.
Il principio sarebbe quello di considerare l’edilizia residenziale sociale al pari di servizi pubblici, consentendone l’attuazione ai privati per un periodo determinato, dopo di che quell’edilizia tornerebbe ad uso interamente privato.
E’ chiaro che in questo modo si incrementa il peso insediativo del fabbisogno di edilizia sociale (che dopo un certo periodo si riproporrebbe non essendo il vincolo permanente), anziché sottrarlo dalla quota di edificabilità totale sostenibile e si decurta la quantità di aree a servizi pubblici che la legislazione regionale dal 1975 ad oggi aveva consolidato attorno al parametro di 24-28 mq/abitante.
Vorrei ricordare che è stato il dilagare dell’urbanistica contrattata attraverso i Programmi Integrati di Intervento e gli Accordi di Programma per eventi eccezionali ormai divenuti ripetitivi (Colombiadi, Giubileo, Mondiali di calcio, Olimpiadi, ecc.; quella che Francesco Indovina ha icasticamente denominato “la città occasionale”) ad aver fatto sì che si potesse di fatto aggirare l’obbligo - tuttora vigente - di destinare dal 40 al 70 per cento del fabbisogno abitativo decennale ad edilizia economico popolare senza nemmeno sentire il bisogno di abrogare le leggi 167/62 e 865/71 che istituivano quell’obbligo.
E la sinistra ha talmente cancellato il senso di quell’esperienza del centro-sinistra storico, in cui si legava l’edilizia abitativa sociale ad una quota dell’edificabilità complessiva ammessa dagli strumenti urbanistici, da portarla nell’ultima campagna elettorale a rispolverare il populismo demagogico del Piano Fanfani-INA Casa degli Anni Cinquanta (non tanto dissimile dai mirabolanti orizzonti dell’housing sociale che ci vengono ammanniti oggi dai cantori del neo-liberismo urbanistico), come ultimo intervento in materia da prendere ad esempio !
A Milano, la vicenda di Expò 2015 vede Fondazione Fiera, egemonizzata da Comunione e Liberazione/Compagnia delle Opere grazie alle nomine formigoniane, offrire all’evento (che durerà un semestre) un patrimonio di 1 milione di mq di aree agricole acquisite in fregio al Nuovo Polo Fieristico di Rho-Pero, purché dal 2016 siano rese edificabili.
Quella di Fondazione Fiera non è un’operazione di pura valorizzazione immobiliare: questo va bene quando il Comune tratta con Ligresti o Cabassi sull’uso delle ultime aree agricole milanesi da questi egemonizzate o con Ferrovie dello Stato sull’uso edificatorio del milione e mezzo di metri quadri di scali ferroviari in dismissione. Lì di edilizia popolare non si parla proprio. Lì si tratta, semmai, di indurre Ferrovie dello Stato a comportarsi da coerente immobiliarista, anziché da erogatore del servizio ferroviario regionale, chiedendogli di reinvestire i proventi immobiliari a sostegno infrastrutturale (Secondo Passante Ferroviario) della densificazione edilizia nel capoluogo anziché sulla Gronda ferroviaria Novara-Malpensa-Orio al Serio o sul collegamento ferroviario di Milano al progetto elvetico TransAlp che convoglia le merci su ferro.
CL coi suoi rappresentanti in Regione, in Comune di Milano, in Fondazione Fiera ha, invece, un obiettivo ben più ambizioso di egemonia nel campo dell’housing sociale con le Cooperative di Compagnia delle Opere, cui bisognerà presentarsi genuflessi se a Milano si vorrà accedere a case a costo mediamente accessibile. Non è un caso che in Fondazione Fiera siano stati amabilmente cooptati alcuni rappresentati di CoopLombardia (Gianni Beghetto) e che fra i più strenui difensori del ruolo di Consorte nella vicenda Unipol/Banca di Lodi siano scesi in campo con ferventi articoli di stampa esponenti CL storici quali Cesana e Amicone o acquisiti dal migliorismo comunista milanese quali Ferlini e Scalpelli. Il piatto è così ricco che ci saranno contentini anche per chi si acconcia a riconoscere a CL il ruolo di maestro delle danze.
Ora, vi è un punto che vorrei sollevare. Ed è che sia nel caso delle aree per Expò 2015 che in quelle dell’Agro Romano non c’è emergenza occasionale o sociale abitativa che tenga per evitare che i Piani di intervento relativi debbano essere sottoposti per normativa europea a Valutazione Ambientale Strategica (VAS), che tra le proprie procedure ha quella di verificare di aver esperito ogni possibile soluzione per limitare il consumo di territorio, utilizzando ad esempio aree dismesse da usi edificatori pregressi. E sarà bene che qualcuno ricordi a Lor Signori che in carenza di ciò si può far ricorso alla tutela giurisdizionale dei TAR e della Corte di Giustizia Europea.
Vi è un altro aspetto che vorrei sollevare, ed è che l’asserita necessità di contrattare coi privati dove realizzare l’edilizia sociale anche in deroga ai PRG sarebbe resa inevitabile dalla carenza di risorse pubbliche. Io dico che in realtà vi è una risorsa pubblica che i Comuni colpevolmente disperdono, ed è il contributo commisurato al costo di costruzione, introdotto dalla L. 10/77 (oggi agli artt. 16-19 del DPR n. 380/2001- TU Edilizia), che ammonta mediamente al 4-6% del costo corrente di costruzione dell’edilizia residenzale e al 10% del costo reale dell’edilizia direzionale e commerciale.
La L. 10/77 prevedeva che tale contributo non fosse pagato da chi convenzionava i prezzi di affitto e vendita dell’edilizia residenziale (cosa che i privati si sono ben guardati dal fare) e che se pagato dovesse prioritariamente essere destinato al risanamento del patrimonio edilizio esistente e degradato e solo in subordine alla realizzazione di ulteriori opere di urbanizzazione. I Comuni in realtà, a loro volta, ben volentieri lo hanno incassato e tuttora incassano destinandolo – come ormai gran parte degli oneri urbanizzativi, dopo il trattamento che la Legge ha subìto nella conversione in TU dal duo Bassanini/Tremonti con la illegittima scomparsa del suo art. 12 che obbligava le Tesorerie a versarli in un conto vincolato – a spese correnti di bilancio.
Insomma, il patrimonio legislativo lasciatoci in eredità dal centro-sinistra storico degli Anni Sessanta-Settanta ci aveva consegnato un meccanismo che legava l’intervento sociale in campo abitativo alle previsioni insediative pubblicamente determinate e alle risorse economiche che esse generano. Ce lo siamo di fatto lasciato smontare pezzo a pezzo senza che neanche fosse ufficialmente abolito (le leggi che ho citato sono tuttora in vigore !), e ora ci sorprendiamo che la pressione dell’irrisolta e a lungo trascurata emergenza sociale abitativa ci venga rivolta contro per scardinare ulteriormente il controllo pubblico del territorio, in nome di un neo-liberismo che pretende di curare i difetti di regole il cui difetto è stato di non essere state più o mai adeguatamente applicate !
Di fatto stiamo tornando al periodo delle convenzioni senza Piano Regolatore complessivo che caratterizzò in modo caotico lo sviluppo urbano degli Anni Cinquanta e Sessanta e si concluse con l’evento simbolico della frana di Agrigento del 1966 e l’approvazione l’anno successivo della Legge Ponte che subordinava ogni accordo coi privati ai limiti localizzativi e quantitativi predefiniti dai Piani Regolatori.
Vi è solo da sperare che non occorra attendere una nuova frana di Agrigento (magari questa volta non più edilizia, ma ecologico-ambientale e socio-economica) per renderci conto della strada su cui siamo tornati a metterci.
Non dovrebbe, quindi, sorprendere che, in questa legislatura, a promuovere l’evoluzione dell’urbanistica in economistica - nello spirito dell’invincibile attrazione fatale tra i deputati milanesi Lupi (CL/PdL) e Mantini (PD) già estensori nelle scorse legislature di inusitate proposte bipartisan di legislazione sul territorio che smantellavano completamente quell’eredità e nuovamente eletti in Parlamento in schieramenti dai programmi politici virtualmente alternativi su tutto eccetto le regole istituzionali -, ancor più che la riproposizione convergente dei loro nuovi recenti ddl sul governo del territorio, sia il Documento Economico Programmatico Finanziario di Tremonti, approvato dal Governo per decreto-legge nel giugno scorso e i cui effetti perversi sulla questione urbanistica e abitativa abbiamo discusso stamane.
Non si tratta, tuttavia, solo di singoli episodi degenerativi: i Comuni, quasi senza più differenza tra amministrazioni di destra o di sinistra e sempre più diffusamente di fronte alle ristrettezze di bilancio, sembrano ritenere di poter ricorrere “ad libitum” alla modifica dei PRG tramite lo strumento dei PII, degli Accordi di Programma, a patto di dimostrare che una quota stabilita discrezionalmente del vantaggio economico che ne deriva al privato venga devoluta loro e che dell’utilizzo di tale quota possano poi disporre a piacimento. Il territorio è visto un supporto “corvéable à merci” rispetto alle esigenze di valorizzazione economica richieste dal mercato, visto che le ricadute negative si vengono a manifestare molto più in là nel tempo rispetto a quelli della congiuntura economica e delle scadenze politico-amministrative.
Ad esempio, i Comuni di Milano e di Sesto S.G., pur con maggioranze amministrative alternative, competono allegramente tra loro nel proporre previsioni edificatorie di 1 mq/mq di indice territoriale, con il quale è impossibile non solo attuare i 26,5 mq/abitante di spazi pubblici della gloriosa Legge Regionale del 1975 (la prima ad essere approvata dopo l’avvento delle Regioni nel 1970; tutte le altre, poi, si sono attestate su standards pubblici tra i 24 e i 28 mq/ab.), ma quasi neppure i 18 mq/abitante del DM del 1968; e, comunque, i 17,5 mq/abitante di servizi pubblici generali dei PRG si attuerebbero così a carico dei cittadini, tramite l’aumento del carico edificatorio, anziché dei promotori fondiario-immobiliari, come voleva la Legge Ponte del 1967.
Ma c’è ancora qualcuno che voglia davvero dar seguito coerente alle parole d’ordine di “città e territorio come beni comuni”, risorsa strategica da sottrarre, quindi, alla dominanza univoca del mercato ?
Il testo riproduce sostanzialmente l’intervento svolto dall’autore al convegno promosso dall'associazione Asset, che si è tenuto il 12 novembre 2008 alla Sala delle Colonne della Camera dei Deputati col titolo "Case senza gente, gente senza case".
Tutti convengono sulla necessità di rilanciare il turismo valorizzando i nostri paesaggi e l’offerta enogastronomica, tutti convengono sulla necessità di tutelare le produzioni agricole italiane, tutti convengono sulla necessità di conservare il nostro patrimonio ambientale per difenderci dall’inquinamento e favorire l’ossigenazione dell’aria... Ma pochi sanno che tutto questo è fuori della realtà. La realtà è un’altra: dal 1982 al 2005, in appena 25 anni, ci siamo mangiati quasi 6 milioni di ettari di suolo agricolo, con una riduzione della superficie coltivata di 3,1 milioni di ettari.
Per suonare la sirena di emergenza il Presidente di Agriturist, Vittoria Brancaccio, ha preso carta e penna e ha scritto al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, esponendogli i dati ISTAT che documentano questo saccheggio, e ricordando come in Germania, già nel 1999, l’allora ministro dell’Ambiente, Angela Merkel (oggi Primo Ministro), emanò una legge che obbligava, per nuove costruzioni, a recuperare almeno il 70% di suolo già urbanizzato. L’ha seguita il Primo Ministro britannico Tony Blair, nel 2001, con una legge simile che ha permesso la successiva crescita urbanistica di Londra senza rubare un solo ettaro alle campagne circostanti.
Aggiunge, senza alcuna illusione, il Presidente di Agriturist: “Autorevoli studi di urbanistica affermano che, quando saranno realizzati i piani di sviluppo territoriale già approvati dai comuni per i prossimi anni, il ritmo di sottrazione di suolo all’agricoltura segnerà una ulteriore rilevante accelerazione”.
[omettiamo di riportare la tabella, che è comunque consultabile nel file allegato]
“Ci rivolgiamo a Lei, signor Presidente - conclude il Presidente di Agriturist - perché la sistematica sottrazione di suolo all’agricoltura è un problema intersettoriale che investe ampiamente l’interesse nazionale sotto il profilo agricolo, turistico, paesaggistico, ambientale. Ed esprimiamo l’auspicio che Ella voglia attivare immediatamente una iniziativa governativa per affrontarlo efficacemente”.
Il messaggio è stato inviato per conoscenza ai ministri dell’Agricoltura, Luca Zaia, e dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, e al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega per il Turismo, Michela Vittoria Brambilla.
Ripetiamo sempre le stesse cose, peerchè chi si occupa di consumo di suolo commette sempre gli stessi errori. Anche Confagricoltura commette l’errore di confondere la riduzione della superficie agraria con l’aumento delle aree urbanizzate. È un errore grave, simmetrico rispetto a quello di calcolare l’aumento dell’urbanizzazione basandosi sulle quantità misurate con il programma Corine di rilevamento satellitare.
Come abbiamo più volte scritto in eddyburg, nel primo caso si sommano alle superfici urbanizzate tutte quelle che corrispondono all’abbandono colturale, alla progressiva sparizione delle aziende agricole marginali da agricole sono diventate incolte o restituite al “selvatico”. Nel secondo caso non si contano le aree che sono urbanizzate dalle infrastrutture e dall’insediamento sparso, che occupino con continuità superfici inferiori a 25 ettari.
Che il consumo di suolo, utile solo ai cementificatori parassiti, sia gigantesco è indubbio; ma sparare cifre sbagliate contribuisce a consolidare i cementificatori.
E' un momento malinconico per quelli che si occupano di pianificazione del territorio e segnatamente di infrastrutture. Un momento nel quale stanno naufragando, con un inedito consenso di maggioranza e opposizione, le pur modeste speranze di rivedere in senso migliorativo alcuni inefficaci strumenti di governo del settore dei trasporti e di correggere almeno le più recenti storture intese a rinunciare tout court a qualunque strumento di governo.
Avevamo sperato che la Legge obiettivo sulle opere strategiche, con tutta la sua bulimia e inefficacia, sarebbe stata rimossa dal Governo Prodi in nome di una sensata ripresa del Piano generale dei trasporti e della logistica (PGTL). Almeno per dare concreta attuazione alle riforme che nel PGTL erano solo enunciate: introdurre regole di concorrenza, puntare sulla integrazione dei modi, avviare alle diverse scale territoriali un sistema di programmazione coerente, nel quale le scarse risorse dei diversi soggetti istituzionali si aiutassero a raggiungere risultati consapevoli e valutati sotto il profilo socio-economico ed ambientale. Insomma un piano capace di coniugare l'interesse delle comunità locali e quello del paese nel suo complesso e soprattutto capace di rompere la struttura monopolistica dei costruttori e gestori di infrastrutture ai quali il paese, non da ora, ha completamente delegato la visione strategica e la programmazione degli interventi. Con il risultato che ciascuno di essi mira al rafforzamento del proprio potere non tanto in termini di conquista di fasce di domanda, che sarebbe anche positivo, ma in termini di accaparramento di risorse pubbliche da spendere a fini aziendali, non necessariamente coincidenti con l'interesse pubblico.
La sperata ripresa di governo del sistema avrebbe consentito di sfrondare e selezionare l'accozzaglia di promesse infrastrutturali attivate dalla Legge obiettivo e di riportare le decisioni di spesa ad un qualche disegno strategico di interesse nazionale, ad un qualche riconosciuto ordine di priorità ad una qualche motivazione condivisa circa l'uso delle risorse territoriali, ambientali e finanziarie. Risorse, è bene ricordarlo, già ora manifestamente scarse e tendenzialmente decrescenti.
Non è successo. L'immane macchina di interessi messa in moto dalla Legge obiettivo ha largamente prevalso; il Governo Prodi e per suo conto il Ministro delle infrastrutture si sono esibiti in una difesa di metodo e di contenuto della Legge Obiettivo e delle sue scorciatoie procedurali, nonostante la manifesta impossibilità di attuare gli investimenti promessi e le evidenti difficoltà amministrative, finanziarie e sociali originate dai progetti affrettati, predisposti a fini propri dagli stessi concessionari interessati alla loro realizzazione. Progetti di dubbia utilità, estranei e indifferenti non solo rispetto alla morfologia e ai paesaggi dei territori interessati, ma anche rispetto alle loro aspirazioni sociali e potenzialità economiche. Dunque progetti difficili da realizzare, "naturalmente" all'origine di dissensi e contestazioni, sottostimati dal punto di vista dei costi e sovrastimati dal punto di vista dei benefici.
Tranne alcune rare eccezioni, come il Ponte di Messina, il lunghissimo elenco di opere approvate dal CIPE sotto il Governo Berlusconi è stato sostanzialmente confermato. Anzi il ministro Di Pietro ha creduto bene di giocare il suo ruolo politico allungando ulteriormente quell'elenco attraverso la diretta contrattazione con ciascuna Regione, in un negoziato a due del tutto affidato alla discrezionalità dei soggetti e del momento. Dunque ancora una volta senza alcun disegno strategico, senza alcuna valutazione preventiva dei costi e dei benefici e, ovviamente, senza la più pallida idea degli effetti ambientali dell'insieme delle opere promesse. In piena elusione delle norme comunitarie che impongono di sottoporre Piani e Programmi a Valutazione ambientale strategica (VAS) proprio al fine di orientare tutte le decisioni verso una prospettiva di sostenibilità: che vuol dire tutela dell'ambiente, uso assennato e non distruttivo delle sue risorse e dei servizi che esso offre al nostro stare al mondo.
E' ben vero che del governo Prodi faceva parte anche un Ministro dei trasporti, il Ministro Bianchi, che proprio per rimediare alla insufficienza dell'approccio meramente infrastrutturale della legge Obiettivo aveva messo in cantiere un Piano Generale della Mobilità (PGM). Un Piano interessante che avrebbe potuto essere il luogo dove concertare tra Stato, Regioni, Operatori e Società civile una politica dei trasporti da "sistema paese". Ovvero una politica capace di porsi obiettivi non settoriali di funzionamento del sistema: obiettivi di assetto territoriale, di qualità ambientale, di equità sociale nella accessibilità offerta. Ma del promesso PGM, avviato attraverso la presentazione di Linee Guida, nulla è rimasto e non sembra che il Ministro Matteoli, che ha riunito ancora una volta la competenza in materia di infrastrutture e di trasporti, sia intenzionato a riprenderlo.
Oggi il nuovo Governo Berlusconi si trova in una ben scomoda posizione. Il tempo delle promesse facili, da concedere attraverso svelte sedute del CIPE sembra esaurito. Anche perchè ben poco resta ancora da promettere. Neppure lo sbandierato "ripescaggio" del ponte di Messina sembra sufficiente a ridare al Governo l'antico smalto. Ora si tratta di por mano alle realizzazioni, ma come era del tutto prevedibile non ci sono risorse sufficienti per farlo. E non ci sono le condizioni. Ad esempio l'abolizione generalizzata dell'ICI, tassa che oggi rappresenta una delle maggiori fonti di reddito comunale, costringe il Governo ad un trasferimento di risorse dalle casse dello Stato a quelle dei comuni per compensare almeno in parte il mancato gettito. E' notizia di questi giorni che il provvedimento ha dato luogo ad un ampio rastrellamento di fondi di ogni tipo, compresi in buona misura quelli destinati a viabilità, lavori pubblici e trasporti.
Intanto ognuno dei "beneficiati" reclama a gran voce il suo buon diritto alla definizione degli appalti, all'apertura immediata dei cantieri, alla riscossione del rendimento politico che accompagna l'avvio della sospirata grande opera.
In questo contesto stiamo assistendo impotenti ad un fiorire impressionante di iniziative tutte all'insegna del "fare per fare" affidato agli interessi del fare. Due esempi mi sembrano particolarmente significativi e giustificano ampiamente il forte tasso di malinconia di coloro che ancora credono nella necessità di programmare: il decreto di revisione delle tariffe autostradali e la Legge obiettivo della Regione Lombardia.
Il decreto che regola la questione delle tariffe autostradali e dei loro adeguamenti nel tempo, approvato qualche giorno fa dalla Camera modifica la precedente formula del Price cap e annulla l'obbligo, per le società concessionarie, di sottoporre gli adeguamenti tariffari al CIPE e ai suoi organi di controllo (NARS). Il Price cap era la formula complessa e flessibile attraverso la quale si era cercato di redistribuire anche a vantaggio degli utenti i sovraprofitti delle concessionarie. Il nuovo decreto cancella d'un colpo tutto questo: gli incrementi saranno automatici, non dovranno più sottostare né al CIPE né ad alcun organo di controllo, avranno valore per tutta la durata della concessione e aumenteranno le tariffe in misura pari al 70% dell'inflazione reale (non quella programmata). Le nuove regole, dapprima previste solo nella convenzione tra Stato e Autostrade per l'Italia sono state estese dal decreto prima ricordato a tutte le concessionarie: un enorme e indebito regalo che ne rafforza il potere monopolistico, con danno dei contribuenti e nessun vantaggio per l'amministrazione. E in più con il drammatico riformarsi del famigerato "partito dell'inflazione" sollecitato dall'automatica connessione tra livelli di inflazione e livelli tariffari.
Non meno preoccupante la Legge obiettivo approvata dalla Regione Lombardia. La legge è finalizzata a ridurre e dare certezza ai tempi delle procedure delle opere statali che interessano il territorio regionale. La Regione cercherà di concertare con i Ministeri intese di co-amministrazione. Ma se tali intese non fossero possibili e si verificassero ritardi nelle approvazioni, soprattutto in sede CIPE, la Regione potrà intervenire con propri provvedimenti per autorizzare e avviare le opere considerate strategiche. Già formulata cosi la legge mostra più di un profilo di incerta costituzionalità. Ma il vero fattore devastante è l'articolo che prevede la possibilità che le concessioni abbiano ad oggetto non solo la realizzazione e gestione delle infrastrutture, ma anche la valorizzazione della fascia di territorio più prossima, al fine di "ottenere maggiori introiti". La questione è complessa. L'appropriazione pubblica delle rendite generate dalla realizzazione di una infrastruttura pubblica è positiva e desiderabile. Ma nella formulazione della legge lombarda le condizioni sono opposte: si attiva speculazione edilizia e relativa rendita per generare risorse destinate a realizzare infrastrutture anch'esse prevalentemente determinate dagli interessi dei realizzatori e gestori. In tal modo si aggiunge allo sconsiderato uso del territorio per far cassa ormai forzatamente invalso nella pratica delle amministrazioni comunali un nuovo fattore di spreco e di degrado, per di più sottratto anche alle più elementari regole di pianificazione territoriale.
Non sembra il caso di attendere oltre per passare dalla malinconia all'indignazione e da qui ad una più costruttiva ricerca di alleanze per frenare una tale deriva.
Un’edizione più sintetica di questo articolo è in corso di pubblicazione sul numero di agosto del Bollettino di Italia nostra
Da Bolzano, città da primato per i servizi ai cittadini, amministrata dal centrosinistra-Svp, è partito il nuovo progetto di social housing, case sociali destinate ai giovani sino a 30 anni: alloggi fatti costruire dal Comune su un proprio terreno e che resteranno di proprietà comunale.
Gli enti che li costruiscono rientreranno dal loro investimento gestendo alloggi e affitti. «Sarà un affitto po' più di quello sociale Ipes, ma comunque meno di quello del mercato privato» dice Stefano Pagani, assessore ai Lavori pubblici che conta di vedere realizzati entro il 2012 una novantina di appartamenti in due palazzine gemelle. Saranno appartamenti mini, tagliati su misura di giovani, single o in coppia, sposati e no. Il tutto nel nuovo quartiere Casanova, alla periferia della città: 37 monolocali da 28 metri quadrati, 37 da 38 metri quadri e 17 trilocali da 48 metri quadrati. Dieci dei trilocali saranno a modulo e cioè con possibilità di collegarli ad altrettanti monolocali. Il progetto è firmato dall'architetto Bruno De Rivo.
«Gli alloggi saranno in affitto con contratti di tre anni rinnovabili per altri due. L'idea — spiega Pagani — è di far ruotare questi appartamenti a diversi affittuari. Non case per studenti ma per giovani che lavorano ». I costi per le due palazzine sono di 7,3 milioni di euro. Per il finanziamento, grazie anche alle possibilità offerte dall'ultima legge provinciale sull'edilizia — aggiunge Pagani — si pensa a un sistema misto, con il privato che si affianca al pubblico. Protagonista dell'operazione, la Lega CoopBund si è già detta disponibile: fu l'organizzazione a lanciare per prima l'idea della
cheap house, le case in affitto calmierato. Un altro ente interessato, dice ancora l'assessore Pagani, è PenspLan, il fondo regionale pensioni.
I due edifici avranno anche un centinaio di parcheggi sotterranei e spazi per un servizio di lavanderia oltre a una sala per gli hobby e una sala di proiezione. Sui costi dell'affitto l'assessore non si sbilancia: «Qualcosa in più del canone sociale degli alloggi dell'istituto provinciale di edilizia abitativa Ipes» un ente che ha 14 mila appartamenti la cui assegnazione — ripartita sulla base del bisogno ma anche tenendo conto della composizione linguistica della popolazione italiana, tedesca e ladina— sta inevitabilmente sentendo anche la forte pressione della presenza di extracomunitari che occupano il 5% degli alloggi. Comunque per gli alloggi sociali Ipes si può arrivare a pagare un massimo di affitto di 5,8 euro al metro quadrato. Per i «bamboccioni» (come Tommaso Padoa-Schioppa definì i giovani che non lasciano la casa dei genitori) l'affitto sarà qualcosa in più ma inferiore a quelli di mercato. La destra di Unitalia ha protestato: «Siamo contrari a un progetto che agevola i bamboccioni anziché le famiglie». «Si è conosciuto un problema esistente da tempo: quello di una fascia di giovani troppo ricca per entrare nelle graduatoria sociale degli alloggi provinciali Ipes, ma troppo povera per fare un mutuo o per affrontare il libero mercato», risponde Alberto Stenico, presidente della LegacoopBund dell'Alto Adige.
Postilla
Il progetto dell'amministrazione comunale di Bolzano sembra una buona risposta ad un problema, quello della casa, che investe percentuali di popolazione destinate ad accrescersi: accanto ai "bamboccioni", ad esempio, quelle fasce di immigrati che contribuiscono in maniera sempre più consistente al PIL nazionale e dovrebbero aver diritto, Maroni permettendo, a condizioni abitative dignitose. O ancora semplicemente quelle persone, singole o nuclei, che vanno ridisegnando, Ratzinger permettendo, una nuova mappa della famiglia e della socialità e che, di fronte alla recessione di questi ultimi anni, faticano a mantenere una casa decorosa, prima condizione per sopravvivere alla tempesta economica e sociale che si addensa sempre più minacciosa.
L'esempio virtuoso che segnaliamo ha, peraltro, antecedenti storici di assoluto rilievo in alcune applicazioni della legge n.167, in quei progetti di cooperazione su proprietà condivisa che alcune amministrazioni pubbliche - Emilia Romagna e Toscana su tutte - sperimentarono con successo a partire dalla seconda metà degli anni sessanta. (m.p.g.)
Una casa da 700 milioni
di Maurizio Maggi
Tanto costa il piano del governo a favore dell'edilizia sociale. E punta su società miste tra pubblico e privato. Obiettivo: 80 mila nuovi alloggi in dieci anni. Con affitti che non superino il 35 per cento del reddito degli inquilini
Per quanti avevano sperato in un piano casa di dimensioni 'fanfaniane', i 700 milioni da spendere alla svelta messi sul piatto dal governo guidato da Romano Prodi per affrontare l'emergenza immobiliare sono una parziale delusione. La sinistra radicale si lamenta perché i quattrini stanziati per risolvere le emergenze con l'articolo 21 del decreto legge collegato alla Finanziaria per il 2008 sono pochi. I fautori dell'intervento degli investitori non pubblici nel residenziale da affittare a prezzi ragionevoli, invece, non riescono a intravvedere con sufficiente chiarezza, nelle dieci righe dell'articolo 41, l'auspicata apertura ai privati per la costruzione e la gestione delle case da destinare alle fasce meno abbienti della popolazione. Il primo articolo stanzia 550 milioni che, anticipa a 'L'espresso' Anna Maria Pozzi, direttore tecnico di Federcase (la federazione degli ex Iacp, gli Istituti autonomi delle case popolari), saranno probabilmente spesi così: metà per il recupero e la manutenzione, il 30 per cento in nuove costruzioni e il 20 per cento per l'acquisto di alloggi già esistenti. "è un primo passo che darà respiro ai casi più drammatici di emergenza sociale, ma non è quello che ci aspettavamo, sulla base del fabbisogno necessario per il recupero dell'edilizia pubblica fatiscente", commenta Pozzi. I soldi destinati ad attuare l'articolo 41 sono ancora meno, 150 milioni.
Un topolino che però potrebbe partorire la montagna. Infatti non serviranno a mettere in moto il mega-piano da un milione di alloggi pubblici caldeggiato da Carlo Puri Negri, boss di Pirelli Real Estate e vicepresidente di Assoimmobiliare, però possono dare una bella scossa a un mercato, quello della realizzazione di case 'popolari', che in Italia è statico da anni. Nonostante le stime prudenziali di Federcasa dicano che ci sarebbe bisogno di almeno 600 mila abitazioni ad affitti contenuti. "Dal crollo delle quotazioni del mattone di metà anni Novanta, a lungo ci si è illusi che la casa non fosse più un problema di massa, e per di più le Fondazioni bancarie hanno dovuto cedere il patrimonio immobiliare per legge", sottolinea Sergio Urbani, direttore della Fondazione Social Housing della Cariplo. E peraltro la cronaca anche molto recente spiega chiaramente come l'inefficienza nel maneggiare l'edilizia pubblica galoppi sia quando si vende sia quando non si vende. Il sindaco di Milano, Letizia Moratti, ha avviato un'indagine per capire chi occupa il patrimonio immobiliare del Comune e il governatore del Lazio, Pietro Marrazzo, ha invitato gli istituti delle case popolari della regione a sospendere le vendite dopo aver scoperto che appartamenti di qualità erano stati ceduti a prezzi pari a anche a un decimo del loro valore di mercato.
Ma ecco come l'articolo 41 del decreto, voluto dal ministero dell'Economia e delle Finanze con il coinvolgimento dei ministeri delle Infrastrutture e della Solidarietà sociale può riavviare il motore dell'edilizia calmierata. Senza appesantire i conti pubblici. Innanzitutto, si affida all'Agenzia del demanio il compito di creare una società che promuova la formazione di "strumenti finanziari immobiliari a totale o parziale partecipazione pubblica", per comprare, recuperare, ristrutturare immobili da abitazione. A disposizione dell'iniziativa, il governo stanzia 150 milioni da investire entro fine anno. Sembra una dichiarazione di principio perché la norma dice che gli strumenti possono essere "a totale o a parziale partecipazione pubblica". Dichiara Gualtiero Tamburini, presidente di Assoimmobiliare e dell'Istituto di ricerche Nomisma: "Sul tema dell'edilizia residenziale c'è ben altro da fare: occorre creare le condizioni per il ritorno degli investitori privati, che devono poter intervenire in tutti i segmenti della casa, da quella più propriamente sociale e pubblica fino a quella libera ma convenzionata". E Carlo Ferroni, direttore generale dell'Ance, che considera le decisioni governative "un passetto", si augura che l'articolo 41 sia interpretato per in maniera decisamente 'aperturista': "Gli strumenti devono essere veramente misti, altrimenti si risolverà ben poco".
Le naturali preoccupazioni di Ferroni e Tamburini, tuttavia, potrebbero essere almeno parzialmente fugate se l'applicazione dell'articolo 41 seguirà le linee guida dello studio dell'Agenzia del demanio. Secondo quanto risulta a 'L'espresso', infatti, l'agenzia diretta da Elisabetta Spitz ha messo a punto un progetto per creare 60-80 mila alloggi nel prossimo decennio, da affittare a cifre che non superino il 35 per cento del reddito degli inquilini. Un traguardo raggiungibile solo se l'operazione verrà sostenuta almeno per metà da investimenti privati e se, una volta locati, gli immobili siano economicamente autosufficienti. Come centrare l'obiettivo? Inizialmente con una o più società di sviluppo, che dopo la realizzazione dell'immobile, possano trasformarsi in Società di investimento immobiliare quotate, le famose Siiq. Per costruire 8 mila appartamenti all'anno sono necessari circa 1,4 miliardi di euro l'anno. Trovare i soldi dai privati che si candidano a gestire i patrimoni anche con rendimenti inferiori a quelli medi di mercato (però certi) e soprattutto dagli investitori istituzionali, non dovrebbe essere difficile. Le compagnie di assicurazioni, per esempio, potrebbero tornare al mattone residenziale abbandonato qualche anno fa, e anche le fondazioni bancarie, che per statuto fanno investimenti etici. Chi sicuramente sarà della partita è la Cassa depositi e prestiti, che già si è impegnata per la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico finanziando l'edilizia popolare dei Comuni attraverso il meccanismo della concessione lunga, ossia degli affitti a 50 anni. Ma la Cdp potrebbe anche entrare direttamente nelle società promosse dal Demanio o nelle Siiq, oltre che rivestire il ruolo di finanziatore di lunga lena.
Dal lato più o meno privato e istituzionale, dunque, il percorso immaginato con l'articolo 41 non dovrebbe trovarsi di fronte insormontabili ostacoli. Ma sul versante pubblico, da dove dovrebbero arrivare i 7 miliardi di euro (in dieci anni) necessari a coprire appunto la metà del piano? I soldi freschi, ovviamente, saranno pochini. Sempre secondo il progetto allo studio dell'Agenzia del demanio, gli enti locali e lo Stato dovrebbero entrare nelle Spa di sviluppo immobiliare apportando aree ed edifici e offrendo sgravi fiscali e riduzione di costi amministrativi. Gli 80 mila alloggi sarebbero destinati a famiglie con redditi compresi tra i 1.100 e i 1.300 euro mensili. Le abitazioni dovrebbero avere una superficie media di 70 metri quadri e l'affitto calmierato dovrebbe aggirarsi tra i 400 e i 500 euro al mese. Significherebbe pagare 60-90 euro al metro quadro all'anno, mentre l'attuale canone, nelle grandi città, si aggira intorno ai 150 euro. Infine, uno dei tasti più importanti del piano: la redditività a regime per le Siiq. Al Demanio pensano che debba essere del 5,25 - 5,75 per cento lordo. Non strepitosa, ma neanche da buttare. Per esempio, l'obiettivo atteso della Oikos è del 5 per cento lordo. Oikos è la società costituita dalla Fondazione della Cassa di risparmio di Alessandria, dal Comune e dal gruppo privato Norman per realizzare 54 appartamenti e 40 box da locare, con la formula dell'affitto-mutuo (dopo 35 anni la casa diventa di proprietà degli inquilini) per le fasce più deboli.
Il 'social housing' (e cioè l'edilizia a prezzi calmierati) richiede che anche l'operatore immobiliare abbia un approccio etico all'investimento. Tra le fondazioni più attive nel settore c'è la Cariplo, che ha costituito apposta la Fondazione Housing Sociale, ha realizzato il Villaggio Barona a Milano e promosso il primo fondo immobiliare dedicato all'edilizia sociale, Abitare Sociale 1, raccogliendo 85 milioni di euro. Lavora a tre progetti a Milano (750 alloggi) e uno a Crema (100 alloggi). In ordine sparso, da Bologna a Siena, da Torino a Padova, Rovigo e Verona, le fondazioni bancarie hanno risolto casi socialmente difficili. Ora tocca allo Stato pensare un po' più in grande. Il primo mattone è l'articolo 41.
Tra gli ultimi nella Ue
Degli oltre 214 milioni di alloggi che rappresentano lo stock residenziale dei Paesi aderenti all'Unione europea, circa 34 milioni sono riconducibili al cosiddetto 'social housing', definizione che accomuna tutti i settori residenziali che implicano doveri di interesse pubblico e affitti bassi. "L'Italia è in una situazione simile a quella di Irlanda, Belgio, Finlandia e Lussemburgo: un'alta percentuale di abitazioni è occupata dai proprietari stessi e c'è una bassa percentuale di alloggi sociali", spiega Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, "eppure lo Stato ha ridotto la dotazione finanziaria del fondo sociale per l'affitto: istituiti nel 1999, era di 500 milioni, adesso è sceso a 230 milioni". Nel convegno sull'Housing Sociale organizzato da Somedia a Milano il 4 ottobre, Breglia ha presentato uno studio sulla situazione dell'edilizia pubblica o calmierata a livello europeo. Tra i Paesi dell'Ue, la Germania (dove il limite di reddito per farsi assegnare una casa popolare è di circa 1.750 euro netti al mese) guida la classifica con 11,6 milioni di alloggi sociali, seguita da Gran Bretagna con 5,4 milioni e Francia con 5 milioni, mentre l'Italia è staccata, a quota 1,5 milioni. Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito hanno una grossa dotazione di appartamenti a canone sociale e spendono per per le case popolari il 3 per cento del Pil. Grecia, Portogallo e Spagna sono i fanalini di coda: pochi alloggi sociali e spesa pubblica inferiore all'1 per cento del Pil.
Prezzi in discesa dal 2009
di Stefano Livadiotti
Per il mattone è in arrivo la grande frenata. Dopo otto anni di boom ininterrotto, che ha visto passare di mano 8 milioni di case (pari al 30 per cento dell'intero stock abitativo del paese), con un'impennata dei prezzi del 51 per cento (del 65 per cento nei comuni più grandi), il ciclo si è invertito. Nei primi mesi del 2007 le compravendite (che avevano chiuso il 2006 con un più 1,3 per cento) hanno fatto registrare una battuta d'arresto (meno 3,5 per cento). Che verrà seguita, tra 12-18 mesi (il tempo necessario alla riduzione delle aspettative di chi vende), da una flessione delle quotazioni. Se il mercato si sgonfia, l'offerta si adegua: gli appartamenti di nuova costruzione, che sono passati da poco meno di 193 mila nel 1999 al picco di 336 mila quest'anno (per un valore di 40,5 miliardi di euro), diminuiranno a 323 mila nel 2008, per poi scendere fino a 308 mila nel 2009.
Il rapporto Cresme-Saie sul mercato delle costruzioni, che verrà presentato il 23 ottobre a Bologna in occasione dell'apertura del Salone internazionale dell'edilizia, e che 'L'espresso' è in grado di anticipare, attribuisce lo sboom a tre principali fattori. Primo: dopo anni di progressiva riduzione, la dimensione dei nuclei familiari tende oggi ad assestarsi. Secondo: complici la scarsità di acquirenti e il rincaro dei mutui, sta calando la domanda da parte di chi è già proprietario di una casa, ma vuole sostituirla con un'altra, magari più grande. Terzo: si sta affievolendo la spinta dei figli del baby boom della seconda metà degli anni Sessanta (i 'bamboccioni' secondo la definizione del ministro Tommaso Padoa-Schioppa), che con ritardo rispetto alle generazioni precedenti hanno lasciato la casa paterna in questi anni. La fascia di popolazione con età compresa tra i 30 e i 39 anni, quella che in Italia esprime la maggiore propensione alla creazione di nuove famiglie e alla ricerca di una casa, è in diminuzione: dopo essere salita dagli 8 milioni del 1991 ai 9,5 del 2002, scenderà di nuovo a 8 milioni nel 2012 e poi a 7 quattro anni dopo.
A tirare resta così soprattutto la domanda degli immigrati, che già oggi rappresentano il 13 per cento del mercato immobiliare italiano. E che in prospettiva peseranno sempre di più: se nel 2006 le presenze straniere erano a quota 3,8 milioni (il 7 per cento della popolazione italiana) nei prossimi dieci anni arriveranno a 7 milioni. Nel 2006 solo 300 mila di loro vivevano in una casa di proprietà. Mentre 2 milioni e 200 mila pagavano un affitto.
L'idea contenuta nell'articolo 41, quello di realizzare alloggi di edilizia sociale con fondi privati non speculativi è giusta. Così, ad esempio, in Inghilterra hanno fatto fronte già dal 1998 al calo di risorse pubbliche destinate a questo scopo. I privati realizzano alloggi da destinare ad affitto calmierato "accontentandosi" di una redditività, prodotta dai canoni calmierati, che è intorno al 5%. Ma allo stesso tempo la scrittura dell'articolo lascia ampi margini di manovra a soluzioni "all'italiana". Ad esempio non si fa cenno al fatto che la gestione di questi immobili deve essere affidata a un soggetto diverso dal costruttore. Per questo bisognerebbe favorire anche in Italia la formazione di un registro di proprietari sociali di immobili, ad esempio associazioni no profit, alle quali affidare la gestione degli alloggi sociali realizzati con fondi privati non speculativi. Il rischio, diversamente, è la cosiddetta edilizia convenzionata. Ma questa l'abbiamo già conosciuta e se ne conoscono anche i mali. L'uso delle aree demaniali è una opportunità straordinaria per avviare anche in Italia il settore immobiliare intermedio tra la casa popolare e il libero mercato, contribuendo così a liberalizzare un mercato immobiliare privato la cui finanziarizzazione lo ha reso rigido e poco capace di interpretare i reali bisogni.
Un passo nella direzione giusta, bisogna solo accertarsi che anche la testa guardi nella stessa direzione. (g.c.)
MILANO - Il dualismo Fumicino-Malpensa? Un falso problema. L’aeroporto di Milano – almeno così sostengono i nemici del doppio hub – non è vittima del concorrente romano. Anzi. I suoi avversari più pericolosi se li deve cercare sotto casa: a Linate, in primis, ma anche in quella Pianura Padana che negli ultimi anni – in un anarchico federalismo aeroportuale – ha visto prosperare (spesso alle spalle del presunto hub lombardo) uno scalo ogni 50 chilometri.
Le cifre parlano chiaro. Nel 2000, anno del suo vero battesimo, Malpensa ha visto passare 20 milioni di passeggeri, vale a dire il 50% del traffico aereo del Nord Italia. Sette anni dopo i clienti sono aumentati (22 nei primi 11 mesi di quest’anno) ma la quota dello scalo bustocco nei cieli "padani" si è ridotta al 39%. Perché? Le diagnosi sono differenti. Il sindaco di Milano Letizia Moratti, ad esempio, ha le idee chiare: colpa delle scelte sbagliate di Alitalia, che non ha mantenuto i suoi impegni di trasferire una base d’armamento e le rotte intercontinentali a Malpensa e che ancor oggi scarica sull’aeroporto lombardo i costi dei trasferimenti degli equipaggi. Dal governo, invece, puntano il dito proprio contro la coriandolizzazione del sistema aeroportuale del Nord dove gli enti locali si sono mossi in ordine sparso. Magari portando vantaggi ai consumatori (che trovano gli aerei a due passi da casa) ma forse facendo un danno alla collettività. In questo modo – dicono a Roma – hanno aperto le porte della pianura padana (spesso con soldi pubblici) all’invasione delle low-cost e hanno creato basi regionali da cui portare passeggeri business verso gli hub di concorrenti europei.
Il traffico dei cieli del Nord, in effetti, ha cambiato volto in pochi anni. Il caso Linate (doveva sparire e invece fa viaggiare 10 milioni di passeggeri l’anno) è senz’altro l’esempio più macroscopico di cannibalizzazione ai danni di Malpensa. Ma non è l’unico. Bergamo Orio al Serio – grazie soprattutto a Ryanair – è balzata da 1 a 6 milioni di passeggeri. Torino, Verona e Venezia sono cresciute del 50% in sette anni, Treviso ha decuplicato i suoi clienti. Gente che spesso si imbarca in provincia, bypassa Malpensa (anche perché le autostrade da Verona all’aeroporto bustocco sono una vera via crucis), per poi magari imbarcarsi su un volo intercontinentale in un altro paese europeo. Milano – spiegano fonti del Tesoro – deve imparare da Venezia. La Save prima ha tentato di acquistare Adr, poi si è costruita il suo network (non un hub) intercontinentale macina-utili. Oggi da Venezia si vola a New York, Dubai, Atlanta, Philadelphia. E visti i problemi di piste ha potenziato e fatto decollare anche lo scalo-cugino di Treviso. Piani simili, in vista degli Open Sky con gli Usa di marzo 2008, hanno anche Torino e Bologna. Tanto che a lamentarsi dell’arrivo di Air France, osservano maliziosamente a Palazzo Chigi e dintorni, è solo la Lombardia, e non il resto del settentrione.
«Dire che Malpensa è vittima della concorrenza del resto del Nord è però riduttivo – dice Stefano Paleari, direttore scientifico dell’Iccsai, centro strategico del trasporto aereo –. Se non è decollata è per due motivi chiari: Linate in primis, certamente, ma poi il fatto di essere nata come hub senza avere i collegamenti infrastrutturali di un hub». Difetto che non è stato corretto negli ultimi anni salvo, forse, con il futuro arrivo della Pedemontana.
È possibile adesso sfoltire la giungla di aeroporti padani per salvare Malpensa? Una cosa, di sicuro, si può fare: ridimensionare (compatibilmente con i paletti Ue) Linate. Tanto che Moratti si è già detta disponibile a ripensare il city airport meneghino. Ragionare sul resto è difficile. Gli enti locali in ballo sono tanti. Mettere d’accordo tutti i campanili in Italia è difficile. E c’è da tener conto anche degli interessi dei consumatori. Forse la soluzione più logica (come propone anche Paleari) sarebbe quella di sedersi attorno a un tavolo e ripensare al sistema integrato del traffico aereo padano tutti assieme, magari avviando un lento processo di consolidamento societario dei gestori. E i grandi Aeroporti del Nord forse, in futuro, potranno ripensare alla loro offerta per far decollare, dopo tanti anni anche il business della Malpensa.
Nota: forse i lettori di eddyburg ricorderanno il piccolo spazio dedicato, non molto tempo fa, alla vicenda dello "hub virtuale" di Montichiari, non citato in questo articolo di Repubblica, ma assolutamente emblematico di un modo di agire del tutto irresponsabile da parte di una pubblica amministrazione attenta evidentemente al solo consenso del notabilato locale e/o di partito, oltre che alla solita grande torta delle opere pubbliche, distribuite a casaccio tanto quanto gli aeroporti (f.b.)
Su un tema di attualità ( urban sprawl o étalement urbain) per la ricerca urbana, a causa della dinamica manifestata da questo fenomeno in molte città, metropoli e magalopoli in tutto il mondo, questa opera collettiva si pone come una riflessione scientifica a favore del rilancio della pianificazione.
Anche se lo sguardo critico si rivolge all’Italia, il volume ha il merito di mettere in evidenza le specificità del fenomeno nei diversi contesti locali, sottolineando quindi che non esiste un modello di città che sia stato capace di arginare spontaneamente il processo di dispersione insediativa, ma che spetta agli attori pubblici e privati di farsi carico con preoccupazione di questa incessante diluizione dei tessuti insediativi.
Preceduta da un’introduzione di Edoardo Salzano che evidenzia in maniera esplicita la tesi avanzata nel volume, e cioè il riconoscimento delle consequenze nefaste della dispersione urbana e i rimedi suscettibili di contrastarle, la prima parte, a carattere descrittivo, fornisce un resoconto dei fenomeni indotti dal successo della città diffusa. Per gli autori si tratta di un vero e proprio fenomeno di « anarchia urbana ». Anche se l’Italia non dispone ancora di un osservatorio nazionale sul consumo di suolo ( che va a detrimento del paesaggio e del patrimonio forestale), alcune regioni italiane come ad esempio l’Emilia Romagna sono in grado di quantificarne la rilevanza: in questa regione la crescita del territorio urbanizzato è stata del 73% fra il 1976 e il 1994 e del 52% nel decennio 1994-2003. Dunque negli ultimi trent’anni, la crescita è stata del 163%: una nuova regione urbanizzata e mezza che è venuta ad aggiungersi nel corso del tempo a quella preesistente.
La seconda parte ha un carattere più normativo come evidenzia chiaramente il primo capitolo (curato da Maria Cristina Gibelli) sui costi collettivi della dispersione urbana e sugli strumenti di pianificazione che potrebbero anticiparla e prevenirla.
L’analisi in questa parte del volume si basa anch’essa prevalentemente su esempi di città italiane, ma il riferimento è anche a ricerche europee (soprattutto francesi) e americane, come ampiamente evidenziato nelle bibliografie.
Al volume è allegata in appendice la proposta di legge (2006) dell’associazione Eddyburg, molto impegnata a combattere la dispersione insediativa. L’associazione dispone di un sito internet (eddyburg.it) che è mediamente visitato da 100.000 accessi al mese.
L’interesse di questa opera è plurimo. Le analisi esplicative sulla dispersione insediativa manifestatasi negli ultimi tre decenni ne attribuiscono in primo luogo la responsabilità all’assenza di una legge urbanistica nazionale aggiornata (la legge vigente risale al 1942) in una situazione in cui, con il supporto di molte leggi urbanistiche regionali, i comuni beneficiano di margini di autonomia sempre più ampi nel concedere i permessi di costruire. Gli autori deplorano una situazione generale di crescente “ laissez-faire”, particolarmente acuta nella regione Lombardia o ancora nel territorio del comune di Roma dove il paesaggio rurale sembra destinato ad essere annullato sotto l’invasione delle lottizzazioni.
Nel saggio di Piero Cavalcoli si evidenzia invece la lungimiranza della Provincia di Bologna che si propone di porre sotto controllo il fenomeno attraverso una strategia fondata sul policentrismo e la « diffusione concentrata ». Questa regione sta anche promuovendo l’associazionismo volontario intercomunale, sperimentando altresì un modello di compensazione territoriale fra i comuni associati.
La specificità dell’opera collettiva curata da Gibelli e Salzano risiede tuttavia non tanto nella semplice constatazione delle dispersione urbana, un fenomeno che molti paesi stanno subendo, quanto nella esplicita presa di posizione a favore di un rilancio della pianificazione e di una azione pubblica in difesa del territorio non urbanizzato. Questa posizione non raccoglie un consenso generalizzato: anzi, è criticata da molti amministratori locali, urbanisti e persino ricercatori che stanno delegittimando in maniera radicale le ragioni del piano poiché esso rischia di perturbare la dinamica immobiliare. Quella che è comunque una precisa scelta culturale del volume è corroborata delle preoccupazioni crescenti di cittadini e comitati di cittadini che sempre più si stanno organizzando a livello locale. L’esempio più noto è quello del conflitto fra promotori immobiliari e abitanti a proposito di una lottizzazione a villette nella Val d’Orcia in Toscana. Gli abitanti si sono organizzati per proteggere il borgo storico di Monticchiello e le loro iniziative hanno avuto una risonanza molto ampia da parte dei media e dalla stampa quotidiana che hanno denunciato la debolezza dello stato e l’inerzia delle regioni e dei comuni nell’utilizzare gli strumenti di cui potrebbero disporre.
I lettori potranno anche verificare la capacità degli autori (urbanisti e ricercatori) di inserire le loro riflessioni in una prospettiva storica. Per gli autori lo sprawl (il termine utilizzato dai ricercatori e dai mezzi di comunicazione anglo-americani) costituisce non soltanto una minaccia per il patrimonio urbano e rurale, ma per i fondamenti stessi della storia della città in Italia e in Europa. Se infatti l’urbanizzazione a “bassa densità” si iscrive nella continuità dell’esperienza urbana di alcuni paesi (come gli Stati Uniti), non è questo certamente il caso dell’Italia. Questo riferimento alla dimensione di lungo periodo – mentre generalmente i ricercatori e gli urbanisti di questo inizio del nuovo secolo hanno molte difficoltà a conciliare tecnica e storia- ha significative convergenze con le idee difese nel volume collettivo La ville insoutenable[1] dove è pubblicato anche una saggio di Maria Cristina Gibelli.
No sprawl è un’opera di cui si raccomanda la lettura a tutti coloro che si interrogano sulla opportunità a medio termine della dispersione urbana, ma presenta un interesse anche per tutti coloro che continuano a dubitare della opportunità dell’intervento pubblico nella gestione spaziale delle città e delle campagne in una fase in cui la tematica dello Sviluppo Sostenibile si inscrive invece progressivamente nel sentire comune.
[1] .A. Berque, Ph. Bonnin et C. Ghorra-Gobin (ed.) La ville insoutenable, Paris, Belin, 2006.
«La Regione senza soldi, non ha i fondi per demolire le case abusive e per il satellite»
Fabrizio Geremicca - Corriere del Mezzogiorno, 21 agosto 2008
«Non abbiamo un centesimo per demolire le case abusive in Provincia di Napoli. Il fondo di un milione di euro è esaurito da tempo. Poca cosa. Abbattere con tutte le garanzie di sicurezza costa molto più che costruire. Aspettiamo che sia reintegrato, magari con i soldi dei proprietari in danno dei quali sono stati demoliti gli immobili». Gabriella Cundari, assessore all'Urbanistica della Regione Campania, alza bandiera bianca. Parole amare, le sue, 24 ore dopo che il capo della Procura di Torre Annunziata, Diego Marno, ha denunciato al Corriere del Mezzogiorno: «Trecento ordinanze di demolizione per abusi emesse dai miei uffici in un anno non sono state mai eseguite».
Assessore, un anno fa la Regione annunciò la nomina dei commissari ad acta. Una task force per abbattere gli abusi, dove i Comuni fossero stati inadempienti.
Cosa non ha funzionato?
«Noi non possiamo intervenire in prima battuta. Dobbiamo chiedere chiarimenti al sindaco e se non ce li dà non possiamo nominare i commissari ad acta. Soprattutto, però, non abbiamo i soldi per demolire in tutta la Regione. Abbiamo istituito un fondo di rotazione che è già finito, per la provincia di Napoli. Soldi in parte di palazzo Santa Lucia, in parte dello Stato, che non ha più messo un centesimo. Peraltro, qualcosa è stato realizzato. Basti pensare a Casalnuovo dove alcuni immobili sono stati abbattuti. Abbiamo nominato in tre tornate una cinquantina di commissari ad acta. I quali agiscono, però, in tempi lunghi ».
Che fine ha fatto il progetto di monitoraggio satellitare del territorio, in funzione antiabusivismo?
«È bloccato, anche in questo caso per mancanza di soldi. Il primo rilievo col satellite è stato realizzato e sono stati spesi i fondi che avevamo. Non ne abbiamo ricevuti altri. I dati dovrebbero essere aggiornati ogni tre mesi, per garantire un controllo costante. È tutto fermo da cinque mesi e non vedo schiarite perché non abbiamo più risorse».
A quanto ammontava il finanziamento?
«Non ricordo esattamente. Era una voce di bilancio che derivava direttamente dalla Presidenza della Regione Campania. Tenga comunque conto che una rilevazione satellitare costa almeno un milione di euro. Occorrerebbero 5 o 6 milioni di euro all'anno. Al momento proprio non ci sono. Certo, il satellite di Benevento potrebbe essere sostituito, ma gratis non lo dà nessuno. Né possiamo trasformare i rilievi di Google. Abbiamo necessità di immagini che possano essere impiegate anche in sede legale, in caso di contenzioso con i proprietari degli immobili. Servono soldi, ripeto, ma non li abbiamo adesso».
Assessore, almeno per gli abusi per i quali ci sianno sentenze passate in giudicato, quelli ai quali faceva riferimento il procuratore Marmo, qualcosa andrebbe fatto. Salvo dichiarare la bancarotta dello Stato e del paesaggio.
«Chiederò al procuratore Marmo, alle altre Procure impegnate nell'antiabusivismo ed ai prefetti la disponibilità a elaborare un progetto comune, per verificare in che modo si potrebbero accorciare i tempi. La prima cosa utile sarebbe realizzare una banca dati condivisa, per darci priorità di intervento. Per esempio, concentrando gli sforzi nell'abbattimento degli immobili abusivi sanzionati da sentenze passate in giudicato».
Varcaturo, ecco una città abusiva
Antonio Corbo – la Repubblica, ed. Napoli, 21 agosto 2008
È il terzo villaggio sequestrato: 50 appartamenti in 28 ville di lusso, sparse tra gli ultimi peschi, salici e oleandri. Si è capito ieri che non è l´ultimo. Lentamente viene alla luce una città abusiva: Varcaturo, sedicimila abitanti, 20 chilometri quadrati, uno dei tre quartieri di Giugliano sul mare. Più avanti gli altri due: Licola e Lago Patria. Dove sono al lavoro da tempo solo gli archeologi, cercano le tracce di Publio Cornelio Nerone, il passaggio dell´esercito del generale che sconfisse Annibale. Progetto "Liternum". I carabinieri in un mese scoprono invece tonnellate di cemento illegale, fondate sull´aggressività dei clan Mallardo e Nuvoletta, ma anche su una rete di complicità con politici e burocrati. Prende forma una recente tangentopoli dell´edilizia, negli ultimi cinque anni, dal 2003 a ieri.
Si è ormai aperta una voragine nei misteri del Comune, il terzo della Campania. I carabinieri infilano una direzione che sembra infinita: scoprono case, uffici, piscine che nelle mappe degli uffici tecnici non esistono. Edifici fantasma. Possibile che ce ne siano tanti? Il fenomeno sembra persino più vasto: un viavai di auto della Finanza fa già temere a costruttori e abitanti un´altra pista, con altri insediamenti illegali scoperti. Tutti abusivi e in attesa del condono.
Alle otto i carabinieri sono tornati in via Rannola, nella seconda traversa avevano bloccato l´11 agosto 96 appartamenti in 36 edifici, con un rimessaggio di barche, un deposito di gelati e surgelati, uffici e cantieri della società di Bernardo Falco, imprenditore agli arresti domiciliari, caduto nella retata del 20 maggio. Il blitz diretto dal procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho e dal pm Paolo Itri portò in carcere 23 vigili. L´accusa: tangenti sugli abusi edilizi. Tra i 56 indagati anche funzionari e imprenditori.
Tutto è crollato in pochi mesi. Per caso. Un tentativo di molestie sessuali, la prima scintilla. Poi, l´intuizione di un giovane maresciallo. Non si sarebbe altrimenti saputo nulla su questo scandalo solido come cemento armato. A Giugliano un vigile tornò in casa di una professoressa moglie di un autotrasportatore, per offrirle singolari modalità sulla chiusura di un verbale. L´abuso edilizio, che aveva appena rilevato, il vigile propose di sanarlo in forme molte private: prestazioni sessuali e lavori eseguiti dai suoi familiari per correggere la violazione. La signora accolse solo il secondo invito, ma non bastò. L´attenzione del vigile degenerò, secondo i rapporti del commissariato, in molestie. Un ispettore di polizia fu turbato dalla denuncia della donna che in lacrime teneva strette per mano le sue bambine. La sua sensibilità trovò una sponda nel rigore di Cafiero De Raho, che diresse subito le prime indagini. Le microspie nelle auto di servizio registrarono brani da polizia deviata. Una banda che non cercava gli abusi edilizi per reprimerli, ma per imporvi tangenti. Racket in divisa sull´edilizia abusiva. Il pm Paolo Itri con la collega Raffaella Capasso, in tempi record, ha già portato alle soglie del processo cinque capitani, 18 tra sottufficiali e agenti, funzionari e imprenditori. Tra questi, Bernardo Falco, protagonista dei primi due sequestri dei carabinieri: è stato infatti aperto il secondo squarcio sulla città abusiva di Varcaturo. Gaetano Maruccia, comandante provinciale, si era raccomandato con tutti i reparti: occhio all´illegalità diffusa, come agli abusi edilizi non sempre perseguiti dalla polizia urbana nei piccoli comuni. Gli ordini di Maruccia sono stati tradotti dalla compagnia di Giugliano in una operazione che fa scoprire volumi immensi di cemento illegale sul litorale flegreo. Il capitano Alessandro Andrei ha diretto anche le operazioni del terzo sequestro, ieri. Un nuovo parco abusivo, ma quanti ne risulteranno ancora? La tecnica di indagine concede risultati immediati e sorprendenti. Michele Membrino, nuovo comandante dei carabinieri di Varcaturo era appena arrivato: scoprì in un lampo le prime case fantasma. Sovrappone gli aerofotogrammi attuali con quelli registrati in Comune nel 2003. Migliaia di metri cubi di cemento appaiono oggi dove cinque anni fa c´erano rarissime costruzioni. Zone che si sono popolate senza uno straccio di licenza. Intuibile la rete di complicità, se assicura certificati di residenza agli inquilini, collegamenti con le condotte idriche e la rete fognaria, c´è chi paga le bollette per una casa che ufficialmente non esiste. Risultano infatti ancora terreni agricoli.
I carabinieri hanno puntato ieri sulle villette di Lorenzo Russo, un imprenditore che conoscevano già. A Licola ha un albergo. Il nome lascia immaginare turismo romantico: Hotel Cupido. Non ha trovato subito le chiavi del cancello, fatto aprire dal capitano Andrei con una spranga di ferro. Si schierava contro anche Irma, una femmina di maremmano, bella ma evidentemente ostile. Dice Lorenzo Russo a "Repubblica": «Il Comune di Giugliano non funziona. I carabinieri hanno trovato il mio albergo senza una licenza che devo avere da tempo. Ora spero che si chiarisca tutto in breve tempo. Io lavoro per mettere qualcosa da parte per i miei figli». Ma queste ville, peraltro ben rifinite con legno pregiato, sono abusive. «No», replica, a mani giunte. «Mi creda, ho pagato il condono case». E l´abuso dov´è? Sostiene Russo: «Nei terreni lottizzati, non so in che modo». Si insiste: quei terreni qualcuno li ha comprati. E l´uomo del "Cupido" dice la sua: «Ho comprato io i terreni. Gli atti? Un notaio in una piazza di Bagnoli». Non ricorda altro. Né sa indicare il proprietario di un terreno attiguo. Incolto. «Vorrei saperlo anch´io. L´avrei comprato». Nel parco una fabbrica di scarpe, dà lavoro a sei famiglie. Fogna abusiva, regolari le bollette. Rapporto già inviato al procuratore aggiunto Aldo De Chiara, specialista dell´antiabusivismo.
Ma come si è diffusa tanta illegalità? L´ex sindaco Francesco Taglialatela osserva. «La corruzione dei vigili urbani dà un motivo sostanziale. Ma c´è anche altro. Abbiamo istruito le procedure per acquisire altri immobili abusivi e demolirli. Io non ci sono più, non so a che punto siano. Subito le demolizioni, come deterrente». Il prefetto ne discuterà il 10 settembre con il nuovo sindaco, Giovanni Pianese. L´orientamento è acquisirle al Comune, senza abbatterle, se compatibili con ambiente e sicurezza. Lo sono. Ben fatte e di lusso, anzi. Che qualche scheletro vi sia, lo dice solo il costo dell´affitto. Per duecento metri quadri su due livelli, 350 euro. Quanto pagano gli immigrati per un solo posto letto in una stanza a sei. Le vie dell´illegalità sono infinite.
Cento metri quadri in una notte. Si ripete ad agosto l’Olimpiade dell’edilizia clandestina. I primatisti delle costruzioni illegali sono ancora a Pianura. Ma qualcosa sta cambiando, confida un tassista che d’estate diventa imprenditore. E cosa cambia? «È più facile trovare la manodopera, basta andare in una certa piazza».
Quale? «Prima, era Porta Capuana. Ora piazza Principe Umberto». Si guarda intorno: «Se ci spostiamo, posso parlare meglio...». Chiede di allontanarci. «È un lavoro pulito questa volta, ma non si sa mai». Ha una squadretta di operai, si sono fermati per mangiare, devono rifare la cucina di un ristorante in una zona non facile, «qui i guappi o ci sono o ci fanno», ha paura. Il tassista-imprenditore guida con prudenza nel buio di un’attività che d´estate rende molto. «Quello del muratore di Ferragosto è il più bel mestiere per chi ha necessità o buona volontà, e per chi ci sa fare». Le squadre, dice lui, sono di almeno dieci elementi. «Sei maestri e quattro manovali, questa è la paranza perfetta per un lavoro importante. Non come il mio, è robetta, e non c’è niente di male. I sei maestri si devono conoscere, sono quasi sempre gli stessi ogni anno, il capo cerca i manovali a piazza Principe Umberto. Alle sette, sette e mezza. Prima arrivavano da Caivano con i pullman delle Tpn, le tramvie Provinciali. Ora anche da altri posti. I migliori piastrellisti. Ma ci sono ora gli ucraini, ragazzi che pavimentano 50 metri al giorno e non sono più grezzi, ma precisi, rifiniti». Ne indica uno: è l’unico che beve birra.
«Costano 70 euro al giorno, anche 60. Si spiega il lavoro da fare, si fissa il prezzo, e l’operaio monta in macchina». Un mercato di uomini. Lo racconta come se fosse normale. Più penoso quello di Lago Patria, dove alle 7 la corriera da Mondragone scarica i disperati: prostitute polacche e manovali per i lavori nelle masserie, anche abusivi di edilizia, bianchi e neri, quelli che sanno far poco, solo carne da lavoro, 30 euro al giorno.
Le tecniche, spiega un ingegnere: «È un mondo da combattere, perché non si dà tempo al calcestruzzo di essiccare. Le prove si fanno dopo 28 giorni. Cosa volete che siano poche ore? È un pregiudizio per la costruzione, chi commissiona un lavoro abusivo è un incosciente». Rivela ancora: «Di sera si porta il materiale. Lo si accumula. Sotto Ferragosto, all´imbrunire, si montano le casseforme di legno, all’interno si posiziona il ferro, si getta quindi il calcestruzzo, è poi la volta dei mattoni forati che formano il cosiddetto tompagno, all’alba è tutto pronto, si passa all’intonaco. Una notte, anche centro metri quadrati se ci sanno fare».
L’illegalità ha un costo. Il privato che affida un lavoro senza licenza lo sa. L’ingegnere, sempre più sdegnato: «Non c’è progetto, non c´è licenza, non c’è niente. Né legalità ma neanche sicurezza. Lavorano i cottimisti. La parte più delicata è quella del calcestruzzo. Per un’opera modesta occorrono almeno cinque betoniere. Se arrivano i controlli, sono sequestrate. Si paga tutto al doppio, in anticipo e tutto al nero». Le tariffe. «In condizioni regolari 150 euro a metro quadro. Dipende dalle zone. Massimo 200. Per le costruzioni abusive giusto il doppio, dai 300 ai 400 euro. E se arrivano i vigili? «I soldi li perde chi commissiona il lavoro».
Ma arrivano i vigili? La sezione Antiabusivismo è al Vomero Alto. Comandante Antonio Baldi, da vent´anni. Per esperienza e preparazione tecnica è considerato tra i migliori in Italia. Ma i vigili sono pochi: 124. D’estate, quando le ferie coincidono con gli scempi più gravi, diventano 50. Ferie, mancanza di risorse per gli straordinari, anarchia ormai conclamata in attesa del nuovo comandante, Luigi Sementa: sono buoni motivi perché una metropoli si arrenda all’illegalità? «I vigili fanno molto e bene. Ovvio, nei limiti umani», Antonio Baldi fa da scudo alle critiche. I controlli sono stati troppo modesti in rapporto al fenomeno, rigorosi e impeccabili però valutando le forze disponibili. La sezione ha scoperto nel 2007 oltre 160 mila metri cubi di costruzioni abusive, su un suolo di 74 mila metri quadri. L’ufficio di Baldi vanta 75 mila pratiche aperte con denunce. Pianura peggio di tutte tra le Municipalità. Le demolizioni sono in calo, nonostante l’ingaggio di un generale in pensione, Antonio Gagliardo.
I carabinieri si sono occupati anche di abusi edilizi a Ferragosto, scoprendo lavoratori clandestini. Un imprenditore arrestato. Ma si annuncia un autunno di estremo rigore, con il "Mistrals", un satellite che rileverà le modifiche degli immobili di ora in ora. Appare molto deciso anche l’assessore comunale Felice Laudadio, docente universitario e amministrativista di grido. «Alcuni quartieri sono sotto particolare controllo. Certi abusi sono stati ormai mirati e a settembre si procederà alla demolizione. Chiaia e Posillipo i primi».
A Posillipo gli specialisti della polizia urbana hanno avuto singolari contrasti di opinione. Una signora non l’ha ammesso. Un appartamento realizzato dietro la struttura principale. «Le assicuro: è una stalla». Ma lei è una professoressa, perché la stalla? «Voglio diventare coltivatrice diretta».
ROMA - "Una vera e propria truffa" sono queste le parole con cui il segretario nazionale del Sunia, il Sindacato Unitario Nazionale Inquilini ed Assegnatari, Luigi Pallotta, definisce il decreto approvato ieri alla Camere, mentre il piano casa annunciato dal ministro Tremonti viene accusato di essere "l'ennesimo sostegno ai costruttori nostrani che per effetto della crisi vedono crollate le compravendite".
Con il decreto sostiene il Sunia, "si tolgono 550 milioni di Euro destinati nel 2007 all'emergenza abitativa, ed in particolare alle famiglie disagiate sottoposte a sfratto, per destinarli ad un fondo nazionale che dovrà finanziare un piano casa tutto da definire entro sei mesi, che dovrà successivamente essere attuato dalle Regioni e dai Comuni".
Gli alloggi poi, secondo il sindacato saranno "in proprietà, quindi, che non servono a nulla e vanno nella direzione opposta alla necessità che lo stesso governo e gli stessi costruttori hanno, sino a poche settimane fa, dichiarato: quella di costruire e recuperare alloggi in locazione a canoni sostenibili dai redditi delle famiglie in cerca di abitazione".
"O il Ministro nella fretta non si è accorto che nel testo è scomparsa la parola 'locazione' da quello che dovrà essere il futuro piano casa - continua Pallotta - oppure non conosce le esperienze europee di social housing che sono in larghissima parte per l'affitto e non per la proprietà. Nella realtà dei fatti e non delle dichiarazioni - conclude il Sunia - vengono tolti i fondi da quella che invece era una prima concreta risposta all'emergenza abitativa, fatta non solo di soldi ripartiti fra le Regioni".
"Come se non bastasse - prosegue - vengono sottratti altri 280 milioni già destinati ad alloggi in locazione a canone sostenibile, nei contratti di quartiere, a dimostrazione ulteriore di quale indirizzo il governo intende dare alla politica abitativa".
Per ben due volte Bertinotti, intervenendo in televisione come leader di Sinistra Arcobaleno, propose il ritorno ad una sorta di Piano Fanfani, ultimo episodio – a suo dire – di intervento pubblico in campo residenziale in Italia. Gli scrissi facendogli rilevare che così cancellava persino la memoria degli interventi attuati dal centro-sinistra col Piano decennale per la casa finanziato dalla Legge 865/71, fortemente voluta soprattutto dal lombardiano Michele Achilli, di cui pure per contiguità di origine politica avrebbe dovuto conservare il ricordo; che il senso politico di quel modo di intervento era radicalmente all’opposto del populismo episodico del Piano Fanfani, proponendosi invece un’edilizia popolare come quota programmata (40-70%) dell’insediamento totale previsto nei PRG.
Mi fece rispondere che avevo ragione e se ne scusava.
Vedo ora che analogo obnubilamento affligge Fuksas, già suo amico e strenuo sostenitore, ancorché oggi trasmigrato in altri lidi amicali, etico-sociali e politici, dopo averlo visto da Presidente della Camera esibire la spilla pacifista ad una parata del 2 giugno. Che volete: ognuno ha le sue suscettibilità, le sue inclinazioni, i suoi interessi da tutelare.
Mi rimane, però, un dubbio atroce: sarà stato uno dei due a condizionare l’altro in simili obnubilamenti della memoria storica e sociale ? E quale dei due sarebbe meno grave e preferibile l’avesse fatto ?
Giusto comunque preoccuparsi di cosa potrà succedere col faustiano “patto col diavolo” indotto da Expò 2015 a Milano: il nodo della questione sta proprio lì. Fondazione Fiera – egemonizzata da CL/Compagnia delle Opere – ha acquistato quasi un milione di metri quadri di aree agricole attigue al Nuovo Polo fieristico e la provvidenziale (?) occasione di sei mesi di Expò nel 2015 gliele renderà nel 2016 trasformate in aree edificabili ! Non è solo l’enorme guadagno (che pure ci sarà) a preoccuparmi, ma l’obiettivo di egemonia che con ciò CL persegue: per trovare casa a prezzi ragionevoli a Milano bisognerà passare genuflessi dalle cooperative di Compagnia delle Opere e di quanti verranno a patti con essa. Lo sanno bene i dirigenti di Coop Lombardia che hanno accolto il generoso invito a far parte del Consiglio direttivo di Fondazione Fiera; lo sanno bene gli architetti che attorno a queste occasioni di lavoro vedono svilupparsi il proprio futuro professionale !
E questo l’esito del fanfanismo del Terzo Millennio: l’assetto insediativo che ne sortirà sarà solo una variabile dipendente, quale che sia l’ecologismo e l’altermondialismo di cui si vorrà rivestirlo.
Che lo sappia bene Fuksas non mi sorprende, tutto concentrato com’è ad esaltare il suo ruolo di egocentrismo demiurgico, quale che ne sia l’occasione.
Ma la Sinistra riuscirà mai a ritrovare il senso di un proprio pensiero autonomo sul progetto della città e sul suo uso sociale?
Adesso si comprende perchè Bertinotti, a proposito di politica della casa, è rimasto così arcaico da riferirsi al Programma Ina Casa. Si comprende perchè ha mancato di riferirsi alla ben più compiuta strategia delineata, a partire dalla legge 167/1962 (quartieri integrati nell'ambito delle zone d'espansione dei PRG), con le successive leggi per la programmazione dell'edilizia abitativa pubblica, per il recupero dei quartieri e delle case degradate e sottoutilizzate, e infine per il controllo del mercato privato (equo canone). L'ignoranza, si può supporre adesso, non era sua, ma dei suoi consiglieri.
Le misure previste dal governo rafforzano e indeboliscono al tempo stesso l'edilizia pubblica. La scelta di vendere le case popolari agli assegnatari è solo apparentemente una soluzione per le difficoltà, anche finanziarie, degli Iacp. In realtà, la liquidazione del patrimonio e la convivenza forzata di proprietari e di inquilini che appartengono invece a fasce sociali problematiche finiranno per creare le premesse per l'ingovernabilità del sistema. Soprattutto nelle grandi realtà urbane, dove più acuti sono i problemi e maggiori i bisogni.
Il nostro sistema di protezione sociale ha una “prima linea” piuttosto sguarnita. Ogni intervento che vada a rafforzarla colma una lacuna e ci avvicina all’Europa.
La manovra finanziaria varata in giugno dal governo si occupa anche di edilizia pubblica, rafforzandola e indebolendola al tempo stesso. Nel saldo finale, tuttavia, sembra prevalere il segno negativo. Il giudizio non riguarda solo la quantità di alloggi a disposizione per tutelare i giovani e la fascia più debole della comunità, ma anche e soprattutto il destino finale dell’edilizia sociale. La scelta di vendere le case popolari agli inquilini rappresenta solo apparentemente una soluzione capace di risolvere le difficoltà, anche finanziarie, in cui si trovano gli istituti autonomi case popolari. In realtà, la liquidazione del patrimonio e la convivenza forzata di proprietari e di inquilini appartenenti a fasce sociali problematiche finiranno per creare le premesse per la complessiva ingovernabilità del sistema, soprattutto nelle grandi realtà urbane, dove più acuti sono i problemi e maggiori i bisogni.
L'edilizia sociale nella manovra
Il decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008 contiene due norme sull’edilizia sociale che pure è da tempo competenza delle Regioni e non più dello Stato.
Il Piano casa, previsto dall’articolo 11, riprende interessanti modelli di carattere “sussidiario”, già adottati da alcune Regioni italiane, ad esempio la Lombardia e il Trentino, e previsti dall’ultima Legge finanziaria, all'articolo 1, comma 1154. Contiene infatti una serie di disposizioni per la realizzazione di alloggi secondo le logiche della finanza di progetto, ovvero riducendo al minimo indispensabile il ricorso a risorse gravanti sui bilanci pubblici.
La norma del decreto legge definisce nel dettaglio i potenziali beneficiari, individuandoli in un’area adiacente a quella del tradizionale disagio sociale più acuto, ovvero tra soggetti che possono sostenere canoni contenuti, ma comunque in grado di coprire i servizi del debito e gli oneri connessi alla finanza di progetto: le giovani coppie a basso reddito, i nuclei monoparentali, gli studenti, gli sfrattati. La stessa norma prevede la possibilità di utilizzare strumenti di finanziamento, come i fondi immobiliari, e il ricorso a incentivi di tipo urbanistico-edificatorio per coinvolgere i privati e ampliare l’offerta di edilizia sociale (anche l’urbanistica, per inciso, è competenza delle Regioni e non dello Stato).
Il secondo intervento, previsto all’articolo 13, riguarda invece misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico delle Regioni. In particolare, l’indicazione è che si semplifichino le procedure per l’alienazione degli immobili degli istituti autonomi case popolari (Iacp), comunque denominati. Il secondo comma dello stesso articolo prevede che il valore degli immobili, da cedere agli assegnatari, sia definito con riferimento al canone di locazione pagato.
La previsione del decreto legge appare per molti aspetti problematica e contraddittoria.
Il primo aspetto riguarda il rapporto Stato-Regioni. Tutta la norma appare come una evidente invasione di campo di stampo “antifederalista”. Se il fondo previsto al comma 9 dell’articolo 11 sarà erogato alle Regioni con vincolo di destinazione, il provvedimento potrebbe risultare in conflitto rispetto ai pronunciamenti della Corte costituzionale in materia di rapporti finanziari Stato-Regioni. È poi probabile che non tutte le realtà territoriali si muoveranno con tempestività e sensibilità adeguate, soprattutto se le risorse dello Stato saranno, come sembrano, di consistenza modesta rispetto alle ambizioni del Piano casa. (1)
Il secondo aspetto riguarda l’impatto che potrà avere la combinazione delle misure previste all’articolo11 rispetto a quanto indicato nell’articolo 13.
L’articolo 11 allarga il patrimonio dell’edilizia sociale, con il ricorso a strumenti innovativi per l’esperienza italiana, ma l’articolo 13 prevede l’alienazione dell’esistente. Come già è avvenuto in passato, probabilmente si assisterà a una vendita a prezzi di favore, una svendita, da cui si ricaveranno risorse modeste. Occorrerà alienare almeno cinque alloggi per reperire le risorse necessarie a costruirne uno. E se la procedura si reiterasse nel tempo, è facile prevedere che nell’arco di qualche decennio, a forza di svendere l’esistente per finanziare il nuovo, l’edilizia sociale delle Regioni finirebbe per essere cancellata.
Una resa definitiva
Vi è poi un altro aspetto da rimarcare. La scelta di vendere sembra segnare la resa definitiva del pubblico come soggetto gestore dell’edilizia sociale. La crisi che attraversa gli istituti autonomi case popolari è nota e grave. Da anni, il patrimonio decade qualitativamente per assenza di adeguate manutenzioni. L’occupazione abusiva o in sub-affitto di alloggi è frequente. La morosità ampia. L’impunità diffusa. La responsabilità di tutto ciò va ricondotta in primo luogo a una normativa del settore concepita quando l’edilizia sociale era intesa come lo strumento in grado di garantire un alloggio ad ampie fasce di operai, artigiani e dipendenti pubblici. Per anni la “casa popolare” è stata intesa come un modo diverso per essere comunque proprietari: canoni molto contenuti, diritto alla permanenza anche con redditi abbastanza elevati, possibilità di subentro nell’alloggio da parte dei figli.
Il contesto economico-sociale è ora mutato e il modo migliore per valorizzare il patrimonio esistente dell’edilizia sociale è accrescere il turn-over degli alloggi. Oggi, i canoni sociali risultano per tutti gli inquilini estremamente modesti, e non solo per i più poveri. Un loro adeguamento è fattibile e consentirebbe di recuperare flussi consistenti di risorse da destinare a manutenzioni e nuove realizzazioni. Si potrebbe anche superare l’attuale rapporto di tipo amministrativo tra Iacp e inquilini, sostituendolo con un regolare contratto di affitto a condizioni convenzionate e di durata definita, anche se rinnovabile nel tempo se permangono le stesse condizioni economico-sociali. Agendo sulle soglie di permanenza e creando adeguati incentivi al rilascio di alloggi, soprattutto se di ampia superficie rispetto alle mutate esigenze di nuclei di vecchi occupanti, si potrebbero rendere disponibili appartamenti per nuove famiglie.
Questa strada si scontra ovviamente con interessi consolidati e ben rappresentati. Èperò in grado di dare una prospettiva a una politica sociale che rischia altrimenti di spegnersi, anche se potenzialmente e giustamente associata a una seconda componente di natura più sussidiaria, come quella implicita nel modello basato sulla finanza di progetto. Inoltre, la linea indicata dal decreto legge produrrà effetti sulla gestione stessa dell’edilizia pubblica. Difficilmente la vendita riguarderà tutte le unità di un singolo immobile. Di norma, vi saranno situazioni in cui, all’interno dello stesso edificio, convivranno proprietà pubblica e proprietà privata, inquilini abbienti che si sono comperati l’alloggio e altri che non se lo sono potuto permettere. Compariranno gli interessi di finanziatori privati che stipuleranno patti di futura vendita con assegnatari in età avanzata. Ci saranno nuclei di proprietari o persone che pagano canoni di mercato, per alloggi ormai privati, accanto a ex detenuti o tossicodipendenti, inviati dai servizi sociali. E tutto ciò sarà più accentuato nelle aree urbane, dove più necessaria è la presenza di edilizia pubblica da “prima linea”.
La compresenza di inquilini proprietari e inquilini ex-detenuti non ci sembra l’aspetto più preoccupante di queste norme. L’autore trascura invece un aspetto molto grave sotto il profilo urbanistico (e dell’equità). Le norme dell’articolo 11, commi 5 e 7 (vedi l' allegato in calce), consentono infatti agli operatori privati di realizzare alloggi usufruendo di aree e di “diritti edificatori” pubblici e di alienarli a prezzi di mercato dopo dieci anni. In parole povere: dispongo di un’area che il piano urbanistico destina all’agricoltura o a spazi pubblici (standard); mi impegno a realizzare “edilizia sociale”; il comune mi dà il “diritto edilizio”, e quindi la possibilità di costruire alloggi; li affitto per dieci anni ai prezzi stabiliti e poi ne faccio ciò che voglio. Prima dell’egemonia berlusconiana si chamava sordida speculazione immobiliare. Oggi si chiama “edilizia sociale”.
Allegato
Stralcio dal Decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, "Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria"
Art. 11. Piano Casa
1. Al fine di superare in maniera organica e strutturale il disagio sociale e il degrado urbano derivante dai fenomeni di alta tensione abitativa, il CIPE approva un piano nazionale di edilizia abitativa, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro per le politiche giovanili, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Il Ministero trasmette la proposta di piano alla Conferenza unificata entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto.
2. Il piano e' rivolto all'incremento del patrimonio immobiliare ad uso abitativo attraverso l'offerta di alloggi di edilizia residenziale, da realizzare nel rispetto dei criteri di efficienza energetica e di riduzione delle emissioni inquinanti, con il coinvolgimento di capitali pubblici e privati, destinati prioritariamente a prima casa per le seguenti categorie sociali svantaggiate nell'accesso al libero mercato degli alloggi in locazione:
a) nuclei familiari a basso reddito, anche monoparentali o monoreddito;
b) giovani coppie a basso reddito;
c) anziani in condizioni sociali o economiche svantaggiate;
d) studenti fuori sede;
e) soggetti sottoposti a procedure esecutive di rilascio;
f) altri soggetti in possesso dei requisiti di cui all'articolo 1 della legge n. 9 del 2007;
g) immigrati regolari.
3. Il Piano nazionale ha ad oggetto la realizzazione di misure di recupero del patrimonio abitativo esistente o di costruzione di nuovi alloggi ed e' articolato, sulla base di criteri oggettivi che tengano conto dell'effettivo disagio abitativo presente nelle diverse realtà territoriali, attraverso i seguenti interventi:
a) costituzione di fondi immobiliari destinati alla valorizzazione e all'incremento dell'offerta abitativa, ovvero alla promozione di strumenti finanziari immobiliari innovativi e con la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati, articolati anche in un sistema integrato nazionale e locale, per l'acquisizione e la realizzazione di immobili per l'edilizia residenziale;
b) incremento del patrimonio abitativo di edilizia sociale con le risorse derivanti dalla alienazione di alloggi di edilizia pubblica in favore degli occupanti muniti di titolo legittimo;
c) promozione da parte di privati di interventi ai sensi della parte II, titolo III, del Capo III del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;
d) agevolazioni, anche amministrative, in favore di cooperative edilizie costituite tra i soggetti destinatari degli interventi in esame, potendosi anche prevedere termini di durata predeterminati per la partecipazione di ciascun socio, in considerazione del carattere solo transitorio dell'esigenza abitativa;
e) realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia sociale e nei sistemi metropolitani ai sensi del comma 5.
4. L'attuazione del Piano nazionale e' realizzata con le modalità di cui alla parte II, titolo III, del Capo IV del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, ovvero, per gli interventi integrati di valorizzazione del contesto urbano e dei servizi metropolitani, ai sensi dei commi da 5 a 8.
5. Al fine di superare i fenomeni di disagio abitativo e di degrado urbano, concentrando gli interventi sulla effettiva consistenza dei fenomeni di disagio e di degrado nei singoli contesti, rapportati alla dimensione fisica e demografica del territorio di riferimento, attraverso la realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia sociale e nei sistemi metropolitani e di riqualificazione urbana, anche attraverso la risoluzione dei problemi di mobilità, promuovendo e valorizzando la partecipazione di soggetti pubblici e privati, con principale intervento finanziario privato, possono essere stipulati appositi accordi di programma, promossi dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, per l'attuazione di interventi destinati a garantire la messa a disposizione di una quota di alloggi, da destinare alla locazione a canone convenzionato, stabilito secondo criteri di sostenibilità economica, e all'edilizia sovvenzionata, complessivamente non inferiore al 60% degli alloggi previsti da ciascun programma, congiuntamente alla realizzazione di interventi di rinnovo e rigenerazione urbana, caratterizzati da elevati livelli di qualità in termini di vivibilità, salubrità, sicurezza e sostenibilità ambientale ed energetica. Gli interventi sono attuati, attraverso interventi di cui alla parte II, titolo III, Capo III del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, mediante le seguenti modalità:
a) trasferimento di diritti edificatori in favore dei promotori degli interventi di incremento del patrimonio abitativo destinato alla locazione a canone agevolato, con la possibilità di prevedere come corrispettivo della cessione dei diritti edificatori in tutto o in parte la realizzazione di unità abitative di proprietà pubblica da destinare alla locazione a canone agevolato, ovvero da destinare alla alienazione in favore di categorie sociali svantaggiate, di cui al comma 2;
b) incrementi premiali di diritti edificatori finalizzati alla dotazione di servizi, spazi pubblici e di miglioramento della qualità urbana;
c) provvedimenti mirati alla riduzione del prelievo fiscale di pertinenza comunale o degli oneri di costruzione e strumenti di incentivazione del mercato della locazione;
d) costituzione di fondi immobiliari di cui al comma 3, lettera a), con la possibilità di prevedere altresì il conferimento al fondo dei canoni di locazione, al netto delle spese di gestione degli immobili.
6. Ai fini della realizzazione degli interventi di cui al presente articolo l'alloggio sociale, in quanto servizio economico generale, e' identificato, ai fini dell'esenzione dell'obbligo della notifica degli aiuti di Stato, di cui agli articoli 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità Europea, come parte essenziale e integrante della più complessiva offerta di edilizia residenziale sociale, che costituisce nel suo insieme servizio abitativo finalizzato al soddisfacimento di esigenze primarie.
7. In sede di attuazione dei programmi di cui al comma 5, sono appositamente disciplinate le modalità e i termini per la verifica periodica e ricorrente delle fasi di realizzazione del piano, in base al cronoprogramma approvato e alle esigenze finanziarie, potendosi conseguentemente disporre, in caso di scostamenti, la diversa allocazione delle risorse finanziarie pubbliche verso modalità di attuazione più efficienti. Gli alloggi realizzati o alienati nell'ambito delle procedure di cui al presente articolo non possono essere oggetto di successiva alienazione prima di dieci anni dall'acquisto originario.
8. Per la migliore realizzazione dei programmi, i comuni e le province possono associarsi ai sensi di quanto previsto dal testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. I programmi integrati di cui al comma 5 sono dichiarati di interesse strategico nazionale al momento della sottoscrizione dell'accordo di cui all'accordo di cui al comma 5. Alla loro attuazione si provvede con l'applicazione dell'articolo 81 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 e successive modificazioni ed integrazioni.
9. Per l'attuazione degli interventi previsti dal presente articolo e' istituito un Fondo nello stato di previsione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, nel quale confluiscono le risorse finanziarie di cui all'articolo 1 comma 1154 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 nonche' di cui agli articoli 21, 21-bis e 41 del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, convertito con modificazioni dalla legge 29 novembre 2007, n. 222. Gli eventuali provvedimenti adottati in attuazione delle disposizioni legislative citate al primo periodo del presente comma, incompatibili con il presente articolo, restano privi di effetti. A tale scopo le risorse di cui agli articoli 21, 21-bis e 41 del citato decreto-legge n. 159 del 2007, ivi comprese quelle già trasferite alla Cassa depositi e prestiti, sono versate all'entrata del bilancio dello Stato per essere iscritte sul Fondo di cui al presente comma, negli importi corrispondenti agli effetti in termini di indebitamento netto previsti per ciascun anno in sede di iscrizione in bilancio delle risorse finanziarie di cui alle indicate autorizzazioni di spesa.
Art. 12. [omissis]
Art. 13. Misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico
1. Al fine di valorizzare gli immobili residenziali costituenti il patrimonio degli Istituti autonomi per le case popolari, comunque denominati, e di favorire il soddisfacimento dei fabbisogni abitativi, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto il Ministro delle infrastrutture ed il Ministro per i rapporti con le regioni promuovono, in sede di Conferenza unificata, di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, la conclusione di accordi con regioni ed enti locali aventi ad oggetto la semplificazione delle procedure di alienazione degli immobili di proprietà dei predetti Istituti.
2. Ai fini della conclusione degli accordi di cui al comma 1, si tiene conto dei seguenti criteri:
a) determinazione del prezzo di vendita delle unità immobiliari in proporzione al canone di locazione;
b) riconoscimento del diritto di opzione all'acquisto in favore dell'assegnatario unitamente al proprio coniuge, qualora risulti in regime di comunione dei beni, ovvero, in caso di rinunzia da parte dell'assegnatario, in favore del coniuge in regime di separazione dei beni, o, gradatamente, del convivente more uxorio, purche' la convivenza duri da almeno cinque anni, dei figli conviventi, dei figli non conviventi;
c) destinazione dei proventi delle alienazioni alla realizzazione di interventi volti ad alleviare il disagio abitativo.
3. Nei medesimi accordi, fermo quanto disposto dall'articolo 1, comma 6, del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, può essere prevista la facoltà per le amministrazioni regionali e locali di stipulare convenzioni con società di settore per lo svolgimento delle attività strumentali alla vendita dei singoli beni immobili.
Il testo integrale del DL 112/2008 e raggiungibile qui
ROMA - Ci sono le ville e le villette, i capannoni industriali e i centri commerciali, i magazzini e gli spazi espositivi. C’è un reticolo di cemento che invade silenziosamente il territorio, si chiama tecnicamente "dispersione urbana" o, più ottimisticamente, "città diffusa". È la fine della divisione tra città e campagna a cui si assiste ormai da anni, è l’avvento della città unica, senza confini. Milano, Roma, Napoli, Torino sono gli agglomerati più vasti dove si assiste all’espansione continua nello spazio circostante. Una trasformazione geografica epocale che dilaga senza incontrare ostacoli, un’aggressione dei terreni dovuta anche alla svendita incontrollata di pezzi di territorio messa in atto dai comuni, autorizzata dai sindaci per fare cassa.
In Italia l’80 per cento della popolazione vive ormai nel 5 per cento del territorio, lo sottolinea il rapporto 2008 della Società geografica italiana "L’Italia delle città, tra malessere e trasfigurazione". In duecento pagine i curatori fanno un’analisi di quello che sta accadendo sul suolo, ai paesaggi. Le città sono cambiate, dicono i geografi, per l’immaginario collettivo sono ancora quelle di un secolo fa, ma a quell’idea corrispondono ormai solo i centri storici, al posto della vecchia urbs ci sono agglomerati senza confini e senza gerarchie.
«Il 5 per cento del territorio italiano è occupato da agglomerazioni urbane dove vive l’80 per cento della popolazione mentre il 7 per cento degli abitanti occupa il 20 per cento», spiega Giuseppe Dematteis, coordinatore del rapporto e professore di Geografia urbana al Politecnico di Torino. «Fuori dalle grandi agglomerazioni c’è una dispersione che consuma suolo con danni rilevanti per la campagna e il paesaggio, per la mancanza di infrastrutture. È una devastazione permessa dai comuni che danno le autorizzazioni pur di ricavare risorse, i comuni infatti concedono autorizzazioni per costruire case in zone agricole o mettere fila di capannoni lungo le strade, per questo incassano gli oneri di urbanizzazione e l’Ici, sono cifre enormi, a cui si aggiungono tutte le collusioni tra costruttori e amministratori». Su questa svendita del territorio non ci sono dati: «Il grosso del cambiamento c’è stato fino agli anni 70, con le ondate migratorie, ma non è mai terminato e continua l’aggressione di terreni sempre più rari».
La città diffusa, è scritto nel rapporto, è una realtà non soltanto italiana ma nel nostro Paese ha assunto una pervasività e un’intensità uniche, come nelle aree di industrializzazione nel Centro-Nord. Città che si ramificano, si dissolvono dando vita a un altro fenomeno incontrollato, quello della dispersione abitativa. «È terribile vedere le aree di pianura invase da case», dice Edoardo Salzano, urbanista che ha dedicato molte analisi e battaglie allo sprawl. È questo il termine inglese usato già negli anni Cinquanta per la crescita urbana senza regole. «Nelle altre città europee c’è una linea netta tra città e campagna, da noi c’è una linea continua autorizzata dalle leggi. Il fenomeno, che è sempre esistito, è andato via via peggiorando, un decreto alcuni anni fa, consentì di utilizzare i finanziamenti derivanti dagli oneri di urbanizzazione per il bilancio comunale, da quel momento i sindaci con difficoltà di cassa hanno aumentato il numero delle concessioni edilizie. Ora come se non bastasse c’è stato il decreto legge del giugno scorso, di cui nessuno ha parlato, che impone a comuni, province e regioni di fare l’elenco delle proprietà immobiliari per venderle o metterle a reddito, risorse pubbliche devono essere trasformate in qualcosa che renda». Intanto il territorio si trasforma e diventa altro. Addio quindi alla città e addio anche alla campagna. Al loro posto ecco le aree metropolitane, la regione-urbana, le città-regioni, termini burocratici per esorcizzare il fantasma della megalopoli.
Siamo un Paese a cui ogni tanto viene somministrata dai partiti di centro destra una sbornia che viene amplificata da mass media e che poi, quando ci si sveglia, lascia dietro di sè un bel gran mal di testa. E’ il caso della sbornia delle tasse su cui c’è stata anche una battaglia elettorale vinta da Berlusconi il quale ora si trova a dover mantenere le promesse fatte, tra le quali la riduzione delle tasse su salari e stipendi e sulla prima casa e delle aliquote IRPEF (se ci saranno le condizioni economiche). Se il buon giorno si vede dal mattino, le recentissime decisioni del governo relative alla riduzione delle tasse su una quota marginale dei salari e stipendi e dell’eliminazione dell’ICI sulla prima casa fanno prevedere nubi e temporali.
Mentre con la prima manovra lo Stato rinuncia ad incassare un parte del prelievo fiscale relativo alle componenti variabili del reddito da lavoro dipendente privato, con la seconda si ridistribuisce reddito proveniente dalla fiscalità generale a favore di ceti abbienti, che possedendo case non certo popolari, potrebbero continuare a pagare anche l’ICI.
A scanso di equivoci chiariamo subito che non siamo strenui difensori di questa imposta locale visto che essa, per l’importanza che ha assunto sul gettito delle casse comunali, ha concorso a incentivare una continua crescita della cementificazione del territorio. Riteniamo infatti che non sia più prorogabile una riforma complessiva della fiscalità locale che, pur prevedendo forme importanti di prelievo dalla rendita fondiaria ed urbana, consenta di disincentivare e frenare le crescenti espansioni urbane che i comuni favoriscono per fare cassa.
Stante la situazione di status quo in atto, vogliamo qui richiamare in particolare l’attenzione sulle conseguenze che l’eliminazione dell’ICI sulla prima casa comporterà per i Comuni, anche a fronte di trasferimenti equivalenti da parte dello Stato. Anzitutto occorre evidenziare che questa decisione va in direzione esattamente contraria a quanto si va sostenendo da anni a proposito dell’autonomia finanziaria dei Comuni dato che questi si troveranno a veder dipendere ancor di più le proprie entrate dai trasferimenti dello Stato, con buona pace di chi predica contro il centralismo romano! Ma fin qui qualcuno direbbe: poco male, visto che anche la manovra sull’ICI relativa alla prima casa prevista dalla finanziaria di Prodi, va nella stessa direzione.
Tuttavia per le casse comunali la differenza tra l’intervento del centro sinistra e quello del centro destra è sostanziale ed essa sta nel fatto che se le minori entrate dei Comuni derivanti dalla soppressione dell’ICI sulla prima casa saranno compensate da una somma pari a quella incassata nel 2007, verranno penalizzati fortemente tutti quei Comuni in cui in questi anni le Amministrazioni si sono date da fare per ridurre le aliquote ICI per la prima casa! Si premieranno così i Comuni che hanno le aliquote al massimo (7 per mille) e si penalizzeranno quelli che le hanno ridotte o che hanno deciso di mantenerle ai livelli minimi. Come manovra non c’è male. In assenza di una complessiva riforma della fiscalità locale, avverrà che i Comuni penalizzati cercheranno di compensare le minori entrate aumentando l’addizionale comunale all’IRPEF, urbanizzando ulteriormente il territorio con capannoni vari, rendendo costosa la sosta delle autovetture mettendo parchimetri ovunque (come già fanno molti comuni medi e grandi) ed a sperare di ricavare somme consistenti dalle multe connesse alle infrazioni del codice della strada (vedasi l’estensione del ricorso all’autovelox).
Ora che è uscito sulla Gazzetta Ufficiale il decreto fiscale (DL. 27 maggio 2008 n 93) è possibile leggere anche le cifre ed analizzare cosa si è penalizzato. Anzitutto si evidenzia che “le modalità di rimborso ai Comuni per il taglio dell'Ici valgono solo per il 2008, e non più per l'intero triennio 2008-2010, come previsto nella prima bozza del decreto fiscale. Anche la cifra è leggermente ridimensionata: scende da 2.600 milioni a 1.700 cui vanno aggiunti però, nella nuova formulazione, 823 milioni del primo taglio ICI operato dal Governo Prodi. In tutto 2.523 milioni” (Il sole 24 ore). Poiché questa è la somma che si intende trasferire ai Comuni per il mancato gettito dell’ICI senza dover provvedere a reperire nuove entrate, il decreto Tremonti prevede di fare tagli sul versante delle spese. I soldi arrivano da fondi stanziati nella finanziaria per capitoli di spesa che non ci saranno più e che riguardano le infrastrutture del sud, il trasporto locale, l’ammodernamento della rete idrica, l’ambiente, le politiche sociali.
Ciò detto sui tagli delle spese previste, su cui ci sarebbe già molto da dire, rimane ora la questione delle entrate e, ciò, al fine di esaminare la redistribuzione del reddito che viene operata con il decreto. Per far questo occorre tener presente alcune cose importanti.
Anzitutto spendiamo due parole sull’ICI, ossia sul fatto che questa imposta locale sui patrimoni immobiliari, rappresentando una entrata per le casse comunali (fra le più importanti) basata sul valore catastale di essi, consentiva, sia attraverso l’applicazione differenziata delle aliquote che attraverso il diverso valore catastale degli immobili, di incidere sulle rendite immobiliari e di effettuare prelievi che in un certo qual modo potevano essere considerati progressivi rispetto al reddito dei loro proprietari. In altre parole si poteva in buona misura far concorrere di più alle entrate comunali (e quindi alle loro spese) coloro che abitano in case di lusso, signorili o comunque non popolari e che pertanto si presumono essere percettori di redditi medio alti ed a far pagare di meno coloro che invece abitano in case popolari o certamente non di lusso che invece percepiscono redditi modesti o bassi. Come vede si tratta di un imposta che risponde anche ad un principio di equità previsto dall’art. 53 della Costituzione che recita: “…tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Orbene ricordiamo che grazie alla manovra di Prodi, che agiva sul versante delle detrazioni e non delle aliquote, si era riusciti a non far più pagare l’ICI a circa il 40% di proprietari di prime case che abitano in alloggi modesti aventi un basso valore catastale e, perciò, appartenenti a persone a basso reddito (lavoratori dipendenti e pensionati). La manovra Berlusconi, con l’eliminazione delle aliquote sulla prima casa, va ora a beneficiare il rimanente 60%, ossia coloro che sono proprietari di case aventi un valore catastale medio ed alto e che pertanto si presume dispongano di redditi medio-alti. In questo modo tutti vengono messi sullo stesso piano. Certamente si obietterà che il mancato aggiornamento del catasto ha forse consentito a proprietari di alloggi per niente modesti o popolari di beneficiare della manovra di Prodi, tuttavia si deve ricordare che la recente riforma del catasto che ha permesso di trasferire ai Comuni o loro raggruppamenti, la sua gestione diretta, dà loro la possibilità di provvedere al suo aggiornamento e, quindi, di eliminare le disparità presenti.
Tolte dunque ai Comuni le risorse economiche connesse a questa imposta, rimaneva da risolvere il problema di dove reperire le risorse necessarie da trasferire ai Comuni per compensare queste minori entrate e consentire così di sostenere le spese che essi fanno.
Avendo deciso di non ricorrere all’istituzione di una nuova tassa, i soldi non potevano che provenire dalle entrate generali dello Stato che, come mostrano i dati del Ministero delle Finanze, provengono per lo più dalle entrate tributarie (che nel bilancio di previsione del 2008 rappresentano il 63% delle entrate di competenza) ed in particolare dal gettito IRPEF (che a sua volta rappresenta il 36,7% delle entrate tributarie stesse). Un gettito questo che a seguito della cronica massiccia evasione ed elusione fiscale proviene oggi in gran parte dai redditi da lavoratori dipendenti e pensionati, ossia da coloro che hanno un prelievo certo e diretto alla fonte. E’ da questi soggetti infatti che vengono i soldi che andranno a compensare i Comuni per le mancate entrate dell’ICI.
Orbene, una volta dirottate le entrate tributarie dello Stato verso i Comuni e soppresse le spese che si prevedevano di fare, i Comuni ora potranno finanziare le proprie spese non più fruendo di entrate derivanti da una imposta progressiva sul valore del patrimonio (e perciò sul reddito), in cui anche coloro che dispongono redditi superiori alla media, contribuiscono a pagarli, bensì solo grazie ai soldi che prevalentemente provengono dalle tasche di lavoratori dipendenti e pensionati.
Queste categorie di persone si troveranno così a pagare anche per conto di chi ora, grazie alla soppressione dell’ICI su case di un certo valore, non pagheranno niente.
Se questo è l’antipasto del federalismo fiscale, c’è di che stare poco allegri!
In Italia è dall´inizio degli anni ‘60 che non si pensa ad un piano per l’abitazione a basso costo. Da Fanfani in poi, dagli albori del primo centro-sinistra, si è persa la nozione di quello che saremmo divenuti, e la stupida illusione di una crescita economica all’infinito ha creato danni gravissimi all’equilibrio del pianeta. Giulio Tremonti è in grado di proporre un piano che abbia senso etico e non di mercato per risolvere il dramma della mancanza di abitazioni.
In un calcolo semplificato in Italia mancano 3 milioni di abitazioni da dare in affitto a canone controllato per una popolazione di 8 milioni circa di italiani in cerca di abitazione, e fra 4 e 5 milioni di emigranti legalmente riconosciuti o cosiddetti clandestini. I grandi temi sono abbandonati. La città, il suo modificarsi, il metabolismo naturale dei luoghi urbani, demolizioni e ricostruzioni, cambiamenti, emergenze, parchi e boschi, luoghi per vivere….. sembrano superati dalle chiacchiere di un paio di perdigiorno che si mettono, senza competenza, a dibattere sugli architetti più o meno noti.
Guardano l’architettura come panorama selvaggio in cui gli abitanti di questo paesaggio sono presi dalla smania di media o dalla droga del potere! La questione è ben altra. In Italia si è persa completamente la dimensione del progetto. Si confondono ruoli e metodi. Si pensa che un tema, un’idea siano già trasformati in realizzazioni. Come nel caso dell’Expo del 2015, meritatamente conquistata dalla città di Milano, tempi e progetti non fanno parte della cultura delle nuove classi dirigenti. Se già ci si dotasse di un gruppo di esperti (non contate sul sottoscritto per ragioni deontologiche), parte di una commissione italiana e internazionale, con la quale dialogare e costruire ipotesi, sarebbe già un bene. E poi che si dia immediatamente incarico ai rappresentanti dei poteri locali di decidere l’organizzazione e i tempi della realizzazione. Credo che se dovessi scegliere qualcuno per avere la certezza che tempi e soldi siano perfettamente congrui, sceglierei qualcuno che ha esperienza di grandi opere urbane.
In Italia non si è formata una classe di committenti pubblici capaci di imprese importanti. Nel nostro paese c’è stata sempre una grande confusione tra progetto, costruzione, sviluppo e gestione. Pochissima attenzione per la manutenzione futura delle opere. Nessun metodo che può divenire modello riproducibile di una sana amministrazione del territorio. L’occasione ha voluto che Milano diventi punto d’ascolto e osservazione per l’intera comunità nazionale. Che Milano diventi anche il luogo in cui l’effimero possa rimanere permanenza di qualità e architettura. E che l’evento si trasformi in un respiro nuovo che dia al territorio milanese la massa critica necessaria per gestire e governare la regione più ricca d’Europa.
Gli amministratori e i politici non hanno brillato in Italia negli ultimi decenni per lungimiranza. La politica sembra impietrita di fronte alle ragioni dell’insicurezza e del degrado urbano. Gli architetti hanno in molti rinunciato alla responsabilità che un progetto rappresenta in sé. Ci si è concentrati sulle tre torri di Citylife declinando in una parodia del moderno tutto l’odio che alcuni esprimono contro l’architettura contemporanea. Ma ci si dimentica ancora una volta che le abitazioni costruite intorno alle torri degli uffici sono il reale fulcro economico dell’operazione. Si ignora la bruttezza (che qualcuno ha denunciato) dell’orrore del quartiere costruito su metà dell’ex Maserati. Il disordine urbano di questo come tanti altri esempi di frettolosa e stupida riconversione delle aree industriali dismesse deve essere considerato il fondo a cui negli ultimi anni è arrivata l’architettura e l’urbanistica.
La scarsa qualità è quasi sempre genuflessa alla rapace volontà della speculazione immobiliare. La stessa che ha reso gran parte degli architetti imbelli e senza desiderio di battersi per il progetto e contro la stupefacente ignavia del potere pubblico. I critici, i sociologi, gli antropologi si facciano avanti e si battano anch’essi non con facili argomentazioni contro gli architetti migliori, ma dimostrino il loro reale impegno facendo sentire la voce degli intellettuali in difesa di un territorio saccheggiato e privato di risorse. Che attacchino la speculazione e l’assenza di etica nella gestione del territorio.
La casa d’emergenza che provocatoriamente e necessariamente rappresenta l’estremo limite a cui l’incuria dell’uomo ha consegnato gran parte del territorio del pianeta, è la risposta minima ai disastri e alla nuova condizione dell’ambiente. Ma l’obiettivo rimane sempre quello di costruire un habitat in cui ci si ritrovi. Luogo delle democrazie possibili. Superate le critiche e le guerre di religione, ci ritroveremo sempre a ricercare la dimensione possibile per vivere insieme e per far convivere persone di differenti etnie, culture ed economie. La critica non deve sconfinare nel nichilismo, ma aiutare a ridisegnare la casa dell’uomo. Se l’uomo avrà una casa, avrà anche un lavoro e avrà anche i suoi libri e la sua musica. La cultura è parte di questo progetto. La città deve ritrovare gli elementi che oggi le sono mancanti, la qualità dell’habitat, il verde e l’aspetto "ludico". La città non è soltanto luogo dove si lavora o si commercia, ma anche un luogo di cultura e di esperienza. È aperto il dibattito, sono aperte le danze.
Milano 2015 è destinata a divenire un esempio e modello per un’intera comunità? O al contrario ci ritroveremo ancora una volta nella nostalgia di un passato improbabile o nella scarna utopia?
postilla
Difficile non concordare in linea di massima con la ricognizione da alta quota di Fuksas, che anticipa il suo prossimo intervento sul tema alla Triennale di Milano, dove al momento sono in corso due iniziative sulla casa già ripetutamente riprese da questo sito. Ma il volo necessariamente alto dell’architetto romano sfuma su alcuni dettagli, che a ben vedere tali non sono, che la storia ha già ampiamente chiarito, e che anche la cronaca conferma. Innanzitutto l’evocato piano Fanfani-case e il patto col diavolo stipulato a suo tempo fra buona parte della cultura architettonico-urbanistica e lo stato: molto lavoro, in cambio della rinuncia ad alcuni principi. Primo fra tutti quello di una vera coerenza fra gli interventi per le case economiche e un ordinato assetto del territorio, ben riassunto - per chi ha voglia di rileggerselo - in un lungo saggio di Ludovico Quaroni: “Città e quartiere nell’attuale fase critica della cultura ” (La Casa, n. 3, 1956). Forse non è un caso, che Fuksas richiami un esempio tanto noto e in qualche modo celebrato, quanto arcaico nelle culture che hanno contribuito a definirlo, nella realtà e nell'immagine (non ultime le mostre e le pubblicazioni di qualche anno fa, dove si decantavano le qualità dei "villaggi" ma spariva praticamente la città circostante). Un'esperienza, quella dell'Ina-Casa, che quasi nulla aveva a che spartire, con strategie successive di molto più ampio respiro dal punto di vista sia urbanistico che sociale. E tutto in un ambiente che in linea di principio non copriva di insulti qualunque riferimento alla pianificazione territoriale. Oggi come sa chiunque, il contesto è molto diverso. Diciamo pure ostile ad approcci non settoriali.
Cosa accadrebbe, ad esempio, nella Milano dell’Expo 2015, nel contesto di un nuovo "patto col diavolo", fra architetti progettisti e pubblica amministrazione? È purtroppo abbastanza facile immaginarselo, anche se non nei particolari: un do ut des fra casa e territorio, fra diritti sociali e diritto all’ambiente, a partire ad esempio da un nuovo attacco alla pianificazione sovracomunale e alle aree verdi, presentate come “lusso insostenibile” o roba del genere. Si sa che, ripetute all’infinito dagli organi si informazione, anche le sciocchezze più madornali diventano verità indiscutibili, no?
E del resto non siamo soli. Anche il New Labour britannico sta tentando il colpo, anzi il doppio colpo: allentare i vincoli urbanistici (lì un pilastro della cultura e dell’identità nazionale) con la scusa dell’emergenza abitativa, e financo della lotta al cambiamento climatico. Un po’ come Veronesi a Milano, che danneggia ambiente e salute col suo Cerba, per fare ricerca sulla salute del futuro, i neolaburisti di Brown seppelliscono di cemento e asfalto “a misura d’uomo” la greenbelt, per andare incontro ai bisogni delle giovani coppie che non trovano casa, etichettando l’operazione come “eco-town”, e sostenendola anche attraverso una nuova legge urbanistica … studiata da una economista.
Coincidenza: anche Fuksas fa appello a Tremonti. Coincidenza? Mah: Fuksas è uomo di cultura. O no? (f.b.)
Cemento sulle coste: la mappa dell’abusivismo edilizio e gli ecomostri doc
Anche in materia di cemento illegale, la Campania non teme rivali. E’ infatti prima nella speciale classifica delle regioni sull’abusivismo costiero, seguita dalla Calabria e dalla Sicilia, vede più che raddoppiato il numero di persone denunciate e arrestare, ma in calo il numero delle infrazioni. Una situazione che corrisponde tutto sommato al dato nazionale: in generale si riduce il numero delle infrazioni e aumentano le persone denunciate. Un dato probabilmente indicativo dell’aumento della gravità dei reati. I casi accertati di illegalità legata al ciclo del cemento perpetrate ai danni delle coste in Italia scendono da 4.484 del 2006 a 3.975 (-11,4%), il numero delle persone denunciate passa invece dalle 2.069 del 2006 alle 5.066 del 2007 (+145%). Cresce leggermente il dato sui sequestri, da 1.322 a 1.399 (+6%).
Gli ultimi dodici mesi, dobbiamo ricordarlo, sono stati anche quelli delle ruspe della Regione Lazio che finalmente nel luglio scorso hanno tirato giù la palazzina nell’area archeologica di Gravisca a Tarquinia e nel dicembre del 2007, dopo vent’anni di mobilitazioni ambientaliste, hanno abbattuto i 21 scheletri di cemento di Isola di Ciurli a Fondi. Ma anche quelli della demolizione dell’ecomostro di Copanello e delle ville abusive di Rossano Calabro, venute giù ad aprile del 2008. Senza dimenticare il sindaco di Falerna in provincia di Catanzaro, che è intervenuto per rimuovere le scandalose case mobili abusive sulla spiaggia.
Segnali che si auspicava fossero il preludio di una stagione di ripristino della legalità, che contagiassero altri sindaci e altre amministrazioni perché si cominciasse finalmente a fare sul serio, perché iniziasse a sparire dalla mappa dei litorali italiani lo sfregio delle centinaia di scempi, dai tanti abusi diffusi ai più eclatanti ecomostri, in riva al mare. Purtroppo così non è stato, nessun effetto domino. Il cemento fuorilegge, le case abusive sulle spiagge e i grandi alberghi illegali, dalla Liguria alla Sicilia, anche questa estate faranno da sfondo alle nostre cartoline dalle vacanze.
Perché, a fronte di una manciata di vicende a lieto fine, sono purtroppo ancora centinaia gli ecomostri e le colate di cemento che deturpano indisturbati la costa italiana. E sono decine, ogni anno, i nuovi progetti che vanno ad aggiungersi alla lista delle speculazioni immobiliari, sempre in nome di interessi privati a danno di quelli pubblici.
Proprio mentre scriviamo, arriva la notizia di cui avremmo volentieri fatto a meno: per finanziare il taglio dell’Ici sulla prima casa, il governo Berlusconi ha deciso di cancellare larga parte dei provvedimenti, e relativi stanziamenti, previsti dal c.d. decreto milleproroghe del febbraio scorso. Tra questi, neanche a dirlo, si sono volatilizzati anche i 45 milioni di euro del “Fondo per la demolizione degli ecomostri”.
A.A.A ruspe cercansi. Ecco i 5 ecomostri in lista d’attesa
Giugno 2007: erano cinque gli ecomostri costieri a “tempo scaduto”, quelli per cui Legambiente chiedeva che venissero istruite le pratiche di demolizione entro l’estate dello scorso anno.
Giugno 2008: niente di fatto, sono ancora gli stessi cinque gli orrori che riproponiamo in cima alla lista d’attesa. Ancora lì, immobili, a rappresentare lo scempio del cemento abusivo che domina incontrastato interi tratti del litorale del nostro Paese. Tentativi falliti di speculazione edilizia, come quello dei grandi alberghi mai finiti di Palmaria, decine di migliaia di metri cubi di cemento che sovrastano da più di trent’anni l’isolotto di fronte a Portovenere, e di Alimuri, uno schiaffo all'immagine e al paesaggio naturalistico della penisola sorrentina che dalla metà degli anni ‘60 tiene in ostaggio una delle conche più belle del golfo di Napoli e che l’ex ministro Rutelli aveva inserito tra quelli più “urgenti”. Ma anche di abusi e lottizzazioni devastanti come le ville sul bagnasciuga ribattezzate dai turisti “palafitta” e “trenino” a Falerna Scalo, in provincia di Catanzaro, e le case degli ex assessori del comune di Realmonte in riva al mare sulla spiaggia di Lido Rossello nell’agrigentino. Oppure di vere e proprie città illegali come le migliaia di seconde case costruite negli anni settanta a Torre Mileto, 500 delle quali totalmente insanabili perché interamente sul demanio marittimo.
Nome: L’albergo di Alimuri
Luogo: località “la Conca”, Penisola Sorrentina, Vico Equense (NA)
Data di nascita: 1965
Destinazione: albergo
Dimensioni: 50 vani (in origine 100) più accessori su 5 piani (h 16 mt)
Proprietà: S.A.A.N srl
Nel 1964 viene rilasciata la licenza per costruire un albergo di 100 vani, successivamente ridotti a 50. Nel 1971 la Soprintendenza ordina la sospensione dei lavori ma il Ministero della Pubblica Istruzione (con delega ai Beni Culturali) accoglie il ricorso proposto dal titolare. Nel 1976 la Regione Campania annulla le licenze rilasciate dal Comune perché in contrasto con il Programma di fabbricazione, ma il Tar della Campania nel 1979 ed il Consiglio di Stato nel 1982 invalidano a loro volta gli atti della Regione. Nel 1986 i lavori vengono sospesi dal Comune di Vico Equense per interventi di consolidamento della roccia retrostante. A questo punto, completare l'ecomostro di Alimuri avrebbe un duplice effetto: dare corso all'ennesimo assalto al patrimonio ambientale della penisola sorrentina e rendersi responsabili di un’opera a rischio, costruita alle pendici di un costone roccioso fragile, inserito nella zona rossa dell'ultimo piano d’intervento per il dissesto idrogeologico realizzato dall'Autorità di Bacino del Sarno.
Basti pensare che i solai del complesso risultano sfondati da numerose falle provocate da ripetuti crolli di blocchi di pietra. Il 23 aprile 2003 viene stipulato un singolare accordo tra il Comune di Vico Equense e il confinante Comune di Meta, con cui quest’ultimo si assume le competenze istituzionali di tutela e salvaguardia del territorio e la concessione di demolizione del manufatto nel caso abbia esito positivo l’acquisizione pubblica dell’area. Ma l’acquisto non è mai avvenuto perché i proprietari non hanno mai dato il via libera. Nei primi mesi di quest’anno il Ministro Rutelli ha inserito Alimuri nella lista degli ecomostri da abbattere “con corsia preferenziale” e sono stati avviati negoziati per arrivare a un accordo con i titolari a cui verrebbe data la concessione per costruire l’albergo da un’altra parte.
Nome: le palazzine di Lido Rossello
Luogo: Realmonte (AG)
Data di nascita: 1992
Destinazione: residenziale
Dimensioni: 5.800 mc circa
Proprietà: Demanio – Fugallo e Fiorica
Lido Rossello è una baia della costa meridionale della Sicilia, nel comune di Realmonte in provincia di Agrigento. E’ un luogo di grande suggestione, reso unico da uno scoglio chiamato, per via di una antica leggenda, “Do zitu e da zita” (del fidanzato e della fidanzata) che si trova in mare a trecento metri dalla spiaggia. La spiaggia di Lido Rossello, proprio per la sua straordinaria bellezza, è stata al centro delle mire speculative di un gruppo di politici e di imprenditori locali, denunciati e condannati dopo la pubblicazione di un dossier di Legambiente Sicilia.
Nei primi anni Novanta, utilizzando uno strumento urbanistico scaduto e in totale violazione del vincolo paesistico, alcuni assessori del Comune di Realmonte rilasciarono a sé stessi una serie di concessioni edilizie per realizzare palazzine in riva al mare, piantando i piloni nella sabbia e sbancando la costa di pietra bianca che completava il tratto costiero. Co-intestatari della concessione edilizia erano l’assessore Angelo Incardona, i suoi familiari Leonardo e Pietro Incardona e l’allora capo dell’ufficio tecnico Giuseppe Cottone. Nel 1992 Legambiente inizia a depositare denuncie, l’ultima delle quali nel settembre 2003 a seguito di queste la magistratura annulla la concessione e blocca i lavori. Nel febbraio del 1994 l’intera Giunta Municipale, la commissione edilizia ed alcuni imprenditori vengono tratti in arresto, processati e condannati. Si attende ancora che il Comune demolisca lo scempio.
Nome: Palafitta
Luogo: Falerna (CZ)
Data di nascita: 1972 (licenza edilizia)
Destinazione: residenziale
Dimensioni: 1260 metri cubi
Proprietà: Demanio – Eredi Sonni
Nome: Trenino
Luogo: Falerna (CZ)
Data di nascita: 1968 (concessione edilizia)
Destinazione : residenziale
Dimensioni: 4.554 mc
Proprietà: Demanio – Conte
Due casi eclatanti di cemento in spiaggia, se non addirittura in mare: “Palafitta” e “Trenino” sono i soprannomi con cui i cittadini e i turisti di Falerna, in provincia di Catanzaro, hanno ribattezzato le due costruzioni realizzate sul bagnasciuga della costa calabrese.
Palafitta, con i suoi tre piani, sfida da decenni le onde essendo stato costruito direttamente sulla battigia e nei giorni di mare leggermente mosso sembra che galleggi. Una storia, quella di questo assurdo manufatto, fatta di ricorsi al TAR, di ordinanze di demolizione e sospensioni delle stesse. La licenza edilizia risale al 1972. Nel 1993 la Capitaneria di Porto di Vibo Valentia Marina, accertata l’occupazione abusiva di una zona del demanio di 770 metri quadrati (superficie necessaria a ottenere il permesso per costruire la volumetria voluta su una base di 140 mq), ha ingiunto ai proprietari di demolire le opere e ripristinare lo stato della zona. Questi hanno fatto un primo ricorso al TAR della Calabria, ottenendo nel 1994 la sospensione del provvedimento. Le verifiche della Capitaneria di Porto accertano che i permessi erano stati rilasciati in assenza dei documenti relativi alla ubicazione del progetto e che il fabbricato era stato realizzato sulla base di elaborati planimetrici falsi. Nel maggio del 1999 il Comune di Falerna dispone l’annullamento della licenza del 1972 e ribadisce ai proprietari l’obbligo di abbattimento.
Segue un nuovo ricorso al TAR che però non viene accolto: il Comune rinnova l’ingiunzione di demolizione. I proprietari non si arrendono e presentano due nuovi distinti ricorsi: uno al Consiglio di Stato e uno di nuovo al TAR, che nel 2000 accoglie ancora una volta la domanda di sospensiva.
Trenino, invece, con i suoi appartamenti a schiera realizzati direttamente sul bagnasciuga viene invaso dalla sabbia che spesso riempie completamente il piano terra. Tre fabbricati di cui la prima licenza edilizia risale al 1968 e che hanno visto succedersi diverse proprietà. Un caso di abusivismo legalizzato, perché a parte la verifica della perimetrazione del lotto, le concessioni sono state rilasciate senza il preventivo nulla osta della Capitaneria di Porto di Vibo Valentia.
Nome: Villaggio abusivo di Torre Mileto
Luogo: Lesina (FG)
Data di nascita: anni ‘70
Destinazione: residenziale – villette
Dimensioni: 2.800 alloggi lungo 10 km di costa
Proprietà: Demanio - Lesina Finanziaria spa
A Torre Mileto, in provincia di Foggia, sorge un villaggio costiero interamente abusivo, che si estende per una decina di chilometri di lunghezza nella fascia di terra che separa il lago costiero di Lesina dal mare. Il lago da una parte, il mare dall’altra, in mezzo una cerniera di cemento illegale. E' in verifica in Regione un PIRT (Piano d’Intervento di Recupero Territoriale) che porterebbe all'abbattimento di circa 800 case, portando a 100 metri dal lago e a 80 metri dal mare la fascia di rispetto ambientale. Contrari sono sia il sindaco di Lesina, che è anche consigliere del Parco Nazionale del Gargano, che vorrebbe invece ridurre la fascia di rispetto a 20 metri dalla costa, portando in sanatoria tutti gli abusi, e il presidente del Parco, che considera la demolizione delle case illegali un inutile spreco di denaro pubblico. Va ricordato che l’Ente Parco dispone da tre anni di un fondo per gli abbattimenti che giace senza essere speso. Di diverso avviso è l'assessore regionale al territorio ha invece affermato di aver istituito un fondo regionale per gli abbattimenti e che gli abusi di Torre Mileto saranno i primi a cadere. A oggi sono “solo” 900 le domande di condono presentate dai proprietari degli immobili.
Nome: Scheletrone di Palmaria
Luogo: Parco Regionale di Portovenere (SP)
Data di nascita: 1968
Destinazione: alloggi in multiproprietà
Dimensioni: 8.000 mc (dichiarati nel progetto)
Proprietà: 20 proprietari, tra società e singoli
Un enorme scheletro di cemento alto 30 metri che incombe sul paesaggio del Parco, di cui Legambiente chiede da molti anni la demolizione per recuperare un’area tra le più suggestive di Palmaria. La vicenda inizia nel 1975 quando il Sindaco di Portovenere rilascia una concessione edilizia per la realizzazione di un albergo e di un residence di 45 appartamenti, con annessi servizi e infrastrutture. Nello stesso anno la Pretura blocca la speculazione, mette sotto sequestro il manufatto e rinvia a giudizio i titolari della società lottizzatrice, il Sindaco e l'impresa. La sentenza è poi confermata anche in appello. La Giunta comunale di Portovenere vota una delibera che rigetta definitivamente la richiesta di condono presentata dai proprietari. Il 23 maggio 2002 viene raggiunto un accordo tra la Regione Liguria, il Comune di Portovenere e la Sovrintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria che sembra possa portare in breve tempo all’abbattimento dell’ecomostro, ma lo scheletro è ancora lì e continua a sfregiare da oltre 30 anni uno dei tratti di costa più belli della Liguria. Il neo-sindaco di Portovenere nel 2006 ha dichiarato che l’ecomostro sarà abbattuto interamente, spazzando via l’idea di tenere in piedi il primo piano. Nel dicembre dello stesso anno, il sindaco annuncia che la Regione Liguria ha stanziato 100mila euro per la demolizione. Speriamo che sia la volta buona.
Nota: le nostre coste, anche dove non ci sono direttamente "ecomostri" DOC, presentano comunque un paesaggio assai degradato, come racontano efficacemente su questo sito Giorgia Boca e Carla Maria Carlini; scarica di seguito la versione integrale del Dossier (f.b.)
Il tema della "casa per tutti" per la sua nobiltà e per le sue urgenze (sia quelle italiane dove negli ultimi dieci anni si è costruito abitazioni per meno della metà degli altri paesi europei, sia quelle gravissime dei paesi del terzo mondo) si presenta tanto rilevante da giustificare ogni tentativo di messa in evidenza.
Nel caso della mostra alla Triennale di Milano, Casa per tutti, con l’ambizioso sottotitolo "Abitare la città globale", il tentativo ci sembra lo spostamento del punto di vista rispetto a quelli proposti dal movimento moderno, con grandi speranze ideali di uguaglianza e di liberazione collettiva, a partire dagli anni Venti e Trenta del XX secolo. Ad essi sono dedicate nei cataloghi della mostra una serie di testi di grande interesse per il loro contenuto specifico, ma anche come termine di paragone rispetto all’attuale tensione ideologica verso una "città delle differenze". Si tratta di una sfida assai difficile in una società dove l’omogeneità sembra essere l’obiettivo strutturale al momento dell’uscita dalle povertà più disperate. Invece là dove i bisogni primari, oltre alle soluzioni abitative, sono le fognature, l’acqua, l’energia ed i servizi elementari, certo nessuna soluzione molecolare può far fronte. In qualche modo la città delle differenze sembra più una speranza alimentata da una lettura delle difficili condizioni delle periferie "sprawl" delle città europee che da quelle dei terzi mondi. Forse è questa ragione strutturale il motivo del fatto che alla serietà dei propositi dei testi e delle loro sia pur discutibili tesi, fanno riscontro una serie di proposte, che certamente senza volerlo, trasformano in burla estetica la tragicità del problema.