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Dai palazzi condominiali alle villette, dalle seconde case ai residence. Ed ancora: i villaggi turistici, i lidi e i camping, i palazzotti costruiti su aree demaniali. La Calabria non è solo terra di ecomostri. La Calabria «è tutta un ecomostro». Lo dice uno studio della Regione sulla cementificazione dei suoi 700 chilometri di spiagge.

Documento che restituisce una fotografia impietosa dello scempio, con un abuso censito per ogni 100-150 metri di costa. I casi individuati dagli esperti dell’assessorato all’Urbanistica sono 5 mila 210.

Nella sola provincia di Cosenza sono stati rilevati 1156 abusi (il 22,19%), a Catanzaro 548 (il 10,52%), a Crotone 915 (il 17,56%), a Reggio 2093 (il 40,17%) e a Vibo 498 (il 9,56%). È anche stato possibile stabilire che, tra i casi individuati, 412 si trovano in aree per le quali il Piano d’Assetto Idrogeologico definisce «gravi condizioni di rischio idraulico». Per quanto riguarda i vincoli ambientali, «si riscontra che 54 casi individuati ricadono all’interno di Aree Marine Protette, 421 in Siti d’interesse comunitario e 130 nelle Zone a protezione speciale».

«Offese al territorio», vengono definite dal gruppo di lavoro che mette insieme docenti universitari, tecnici e giovani professionisti. E sono di tipo legale (ovvero legittimato dalla originaria inclusione nei Prg); di tipo legalizzato (cioè compreso in varianti e parzialmente sanato); e infine completamente illegale (in area demaniale, protetta e instabile). In certi casi si tratta, addirittura, di opere di proprietà pubblica come interi pezzi di lungomare. Ai fini dell’indagine sono state effettuate decine di migliaia di sopralluoghi, verifiche negli enti locali, agli uffici del catasto e del genio civile. Sono state realizzate schede dettagliate su "Costa Viola", "Costa dei Gelsomini", "Riviera dei Cedri" o "Area Grecanica". Nomi che evocano paradisi ambientali, ma che nei fatti sono segnate dalle ferite di decenni di incuria, di complicità, di connivenze. Documenti che rappresentano la sintesi delle speculazioni di imprenditori senza scrupoli, delle mafie del mattone e della cultura, diffusa, dell’illegalità «domestica».

Gli oltraggi sono presenti su spiagge e scogliere, non soltanto in contesti fortemente urbanizzati come Reggio Calabria, ma anche in zone di pregio e turisticamente note come l’area di Tropea, la costa di Scilla, la Locride, l’area di Soverato e, in particolare, l’area di Isola Capo Rizzuto e del Crotonese. Che, in larga parte, paradossalmente è vincolata come Riserva Marina Protetta ed area archeologica. In quest’ultima zona si addensa ben il 52% degli abusi illegali compresi in aree marine protette.

La Regione, attingendo ad un Accordo di Programma Quadro (Apq), finanziato con 5 milioni di euro dallo Stato, ha già deliberato l’abbattimento di 9 ecomostri. Ma non è sempre semplice. I proprietari fanno ricorsi, si appellano ai mille cavilli della legge, hanno frotte di legali pronti a brandire il codice.

L’assessore regionale Michelangelo Tripodi si dice, comunque, determinato: «Ora abbiamo una fotografia precisa dello scempio. Butteremo giù tutto quello che è possibile, dimostrando come l’abuso non paghi e che in Calabria sta crescendo il senso della legalità e dell’ambiente». Poi: «Non consentiremo più che certe cose avvengano tanto che elaboreremo una specifica Carta dei vincoli». Infine, «cercheremo di risanare i guasti». Tripodi afferma che un ruolo importante lo giocheranno i Comuni: «La Regione ci mette i fondi, ma gli enti locali dovranno attivarsi con i propri piani di risanamento». Per il presidente regionale di Legambiente, Antonino Morabito, «ora bisogna essere conseguenti». Servono, insomma, «tempi rapidi nelle demolizioni e, altrettanto, per le fasi di risanamento. Servono le regole e chi le faccia rispettare».

Il “Piano casa” della Regione Lombardia, come delle altre Regioni, ha origine dall’intesa del 31 Marzo 2009 raggiunta nella Conferenza Stato-Regioni ed Enti Locali promossa dal Governo, che avrebbe dovuto tradurne il contenuto in un decreto-legge entro dieci giorni dalla sottoscrizione dell’accordo: impegno poi non mantenuto anche per dubbi di costituzionalità sull’iniziativa. E’ opportuno peraltro richiamare le finalità e i contenuti dell’accordo per verificare se il progetto di legge regionale li riprenda in modo più o meno coerente.Si tratta, come è noto, di un intervento che si propone il “rilancio dell’economia” allo scopo di “rispondere anche ai bisogni abitativi delle famiglie” introducendo “incisive misure di semplificazioni procedurali dell’attività edilizia”.

In vista di queste finalità, l’intesa Stato-Regione-Enti Locali si è attestata sui contenuti seguenti:

a) interventi di ampliamento della volumetria esistente, entro limiti definiti, ai fini di migliorare “ la qualità architettonica e/o energetica degli edifici”;

b) consentire interventi straordinari di “ demolizione e ricostruzione di edifici residenziali con ampliamento sino al 35%”: anche qui con finalità “di miglioramento della qualità architettonica, dell’efficienza energetica e dell’uso di fonti energetiche rinnovabili“;

c) introdurre forme semplificate di procedure.

Gli interventi sono esclusi nel caso di edifici abusivi, nei centri storicio in aree di inedificabilità assoluta. Spetta inoltre alle Regioni escludere o limitare gli interventi nel caso di beni culturali o nelle aree di pregio ambientale e paesaggistico. Questa disciplina straordinaria avrà durata non superiore a 18 mesidall’entrata in vigore delle leggi regionali.

Il principio sotteso (anche se non esplicitamente dichiarato) è quello che l’attuazione del “piano-casa” avrebbe una capacità di trascinamento sull’economia complessiva, secondo quanto dice anche un vecchio detto popolare.

Senonchè la saggezza popolare andrebbe aggiornata e verificata, confrontandola con i caratteri recenti degli interventi immobiliari nel nostro paese, basati su una crescente aggressività speculativa, senza alcun rispetto non diremo per le esigenze sociali, ma nemmeno per la salvaguardia di quelle preesistenze territoriali che costituiscono un patrimonio di tutti.

Inoltre non si può dimenticare che la crisi finanziaria globale ha avuto, almeno negli Stati Uniti, origini strettamente legate proprio allo sviluppo immobiliare. Infine, come ripetono da tempo gli economisti. l’attività immobiliare è quella che restituisce di meno alla collettività in termini di sviluppo economico, trattenendo invece la più alta percentuale (sino al 50%) alla pura rendita dell’operatore. Basterebbero queste considerazioni per avanzare sospetti sulla efficacia odierna dell’edilizia come motore per un rilancio socio-economico di carattere generale.

Va aggiunto che – per quanto concerne i Comuni – una buona parte di essi attribuisce all’edilizia un ruolo “virtuoso” di aiuto alle proprie finanze mediante i contributi di urbanizzazione. Non si tiene però conto che si tratta di un sollievo momentaneo, giacchè a medio e a lungo termine ogni aumento di densità edilizia in quartieri già costruiti è destinata a portare conseguenze negative sulla qualità della vita dei residenti: aggravando fenomeni già congestivi nelle città medie e grandi che si tradurranno in aumenti, non quantificabili ma ingenti, per le spese comunali da impiegare nei settori dei servizi, della sorveglianza e del traffico, ecc..

In sintesi, favorire oggi l’edilizia al di là di quanto consentono piani regolatori già ora altamente permissivi equivale a rovesciare debiti sulle generazioni future.

3.- Per quanto concerne poi in particolare la Regione Lombardia, già interessata da un’area metropolitana estesa a gran parte delle aree di pianura, con Comuni in cui il consumo di suolo copre già attualmente per percentuali altissime l’intero territorio comunale, significa eliminare in anticipo ogni possibile contenuto pianificatorio alla L.R. 12/05 che soltanto ora comincia ad essere attuata. Significa fra l’altro negare ogni attività istruttoria alla VAS, al piano delle regole e dei servizi dei nuovi PGT, che saranno inutili o partiranno già superati dai fatti. Allo stesso modo diventano inutili gli attuali PRG, se possono essere superati gli indici di densità fondiaria e i rapporti di copertura, addirittura sino al 50%, senza che sia preventivamente verificato il necessario aumento di aree per verde e servizi, che potrebbero essere anche impossibili da reperire. Viene infine ignorata l’autonomia comunale, dato che ai Comuni non è consentito sottrarsi al piano casa, ma solo intervenire con limitati poteri integrativi o modificativi. L’unico potere concreto dei Comuni sarebbe quello di individuare limitate parti del loro territorio dove il piano-casa non si applica; tuttavia, come prevede il 6° comma dell’art. 5, la relativa motivatadelibera del Consiglio Comunale deve essere esercitata entro il termine (dichiarato perentorio) del 15 Settembre 2009 (sic!).

***

Passando ora alle osservazioni di maggior dettaglio sul testo del progetto di legge, si rileva quanto segue, osservando comunque ancora che la “valorizzazione” e “qualificazione” del patrimonio edilizio esistente hanno perso per via anche quelle finalità di miglioramento complessivo che – per quanto generiche e inadeguate – secondo l’accordo Stato-Regione-Enti Locali giustificavano gli interventi di deroga a qualsiasi regola urbanistica. Tali giustificazioni erano – lo ripetiamo – il miglioramento della “qualità architettonica” e di quella energetica, la riqualificazione di aree urbane degradate, oltre alla promessa di risorse straordinarie per l’edilizia residenziale pubblica al fine di “soddisfare il fabbisogno delle famiglie o particolari categorie, che si trovano nella condizione di più alto disagio sociale e che hanno difficoltà ad accedere al libero mercato della abitazione”.

Nel piano casa lombardo, le finalità di ordine sociale sono confinate all’art. 4 del progetto di legge, e previste come “riqualificazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica”, nei quali tuttavia l’intervento diretto degli enti proprietari rimane comunque condizionato alla allocazione di risorse pubbliche straordinarie di cui non è traccia nel testo della Regione, mentre anche l’accordo Stato-Regioni dichiara che il sostegno potrà essere individuato “compatibilmente con le condizioni di finanza pubblica” , che notoriamente non nuotano nell’oro. Risulta però ammesso nei quartieri ERP anche l’intervento dei privati, mediante il convenzionamento di cui agli artt. 17 e 18 del DPT 6 Giugno 2002, N. 380, che ha notoriamente un limitato effetto calmieratore dei prezzi di vendita e delle locazioni, ma certamente non risponde al fabbisogno delle famiglie “che si trovano nella condizione di più alto disagio sociale”. E’ anzi singolare che non si parli mai di edilizia convenzionata per gli interventi di cui agli artt. 2 e 3 del progetto di legge.

Aver confinato le finalità sociali ad una eventuale futura individuazione di risorse per l’edilizia residenziale pubblica ha comunque il pregio di non confondere le idee: confermando che gli interventi di cui all’art. 2 e 3 risponderanno esclusivamente alle regole del mercato, basate di norma su caratteri speculativi, con prezzi elevati e liberi di vendita e locazione. Non risulta nemmeno che gli interventi dell’art. 3 siano limitati, o preferiti, nel caso in cui vengano disposti su “aree urbane degradate” da riqualificare. Di conseguenza le giustificazioni residuali del “piano casa” lombardo rimarrebbero unicamente il miglioramento della “qualità architettonica e/o energetica

Su questi due argomenti, tuttavia, si può obiettare che esiste già ora, per tutte le nuove costruzioni, una rigida normativa per il contenimento di energia, a cui corrisponde un “limitato” premio volumetrico (L.R. 33/07). Cosa accade con il piano-casa? Si sommano i due incentivi? Inoltre è certo che ogni intervento di sopralzo (in questo caso assai più radicale dei sottotetti) è destinato ad alterare negativamente l’architettura originaria (ove esista); certo, non a migliorarla.

ART. 2 – Quali sono le “parti inutilizzate” di un edificio che non abbia destinazione agricola o produttiva? Spazi non affittati, e quindi inutilizzati solo in via temporanea? Alberghi chiusi ? Edifici terziari senza mercato? Non si riesce a capire. L’utilizzo dei seminterrati potrebbe essere opportuno, a patto che gli spazi posseggano le condizioni regolamentari di abitabilità. Nelle aree destinate all’agricoltura, il recupero di parti inutilizzate (ossia di tutte quelle già adibite ad usi connessi al lavoro agricolo) per destinazioni residenziali o ricettive (ma non alberghiere?) avrà come conseguenza la perdita di un immenso patrimonio storico lombardo, ossia quello costituito dalle grandi cascine.

ART. 3. e 5. – L’intervento su abitazioni mono-bifamiliari, del tutto svincolato da esigenze del nucleo familiare che vi risiede, cambierà totalmente l’aspetto e l’impatto urbanistico di interi quartieri, trasformando ville e villette in condomini.

Soprattutto fa paura l’effetto devastante che può conseguire agli interventi previsti dai commi 2, 3, 4 e 5, che ci auguriamo vengano drasticamente rivisti.

Anzitutto sorprende che gli interventi siano ammessi (senza limiti) anche entro i piani territoriali di coordinamento dei parchi regionali, ed egualmente nelle zone con vincolo paesaggistico o comunque di grande pregio ambientale: quali le sponde dei laghi lombardi già oggi a rischio per l’alta permissività di molte amministrazioni comunali.Per quanto attiene ai parchi regionali, la disposizione del 1° comma dell’art. 5 è particolarmente inaccettabile. Si dice espressamente che la deroga alle previsioni del piano del parco deve garantire “il rispetto del codice civile e delle leggi per la tutela dei diritti dei terzi“: come se queste normative si potessero invece disattendere in tutti gli altri casi! Inoltre deve essere rispettato “il paesaggio“; ma come può esserne assicurato il rispetto consentendo contemporaneamente la deroga al piano del parco, che ha la finalità di proteggerlo

Nell’art. 3 (anche qui, in deroga ai principi dell’accordo Stato-Regioni) gli interventi sono ammessi anche nei centri storici per gli edifici residenziali “non coerenti” con le caratteristiche della zona. Cosa significa? Si ricorda infatti, che nei centri storici, gli unici edifici “non coerenti” sono quelli di edilizia recente, che normalmente devono la loro incoerenza alla circostanza di essere più alti, più densi o comunque sproporzionati rispetto al contesto e alla cortina di edifici antichi. Vogliamo dunque premiarli perchè vengono sostituiti con edifici più alti e più densi, al di fuori di qualsiasi rapporto con l’area circostante?

Al 5° comma, l’aumento ulteriore di volumetria per gli interventi che assicurino un “congruo equipaggiamento arboreo” o “giunte arboree perimetrali” non necessita ulteriori commenti; così come al 6° comma, la previsione che gli interventi potranno superare sino al 50% l’indice di densità fondiaria e l’indice di copertura previsti dallo strumento urbanistico è destinato, come già si è fatto cenno, a rendere obsoleto ogni piano regolatore.

Comma 9 – Viene affermato il rispetto della sola normativa antisismica: ciò significa che tutte le altre normative tecniche che non vengono nominate (da quelle impiantistiche a quelle strutturali o a quelle stesse di contenimento energetico) possono essere disattese?

Da ultimo, si ribadisce che il progetto di legge viene imposto ai Comuni, ai quali sono delegati compiti secondari e di efficacia marginale. Non esisterà alcuna possibilità a livello comunale, dopo il 15 Settembre prossimo (ossia praticamente subito, considerato il periodo estivo) di escludere gli interventi su parti del territorio comunale – ad esempio per le aree di grande impatto paesaggistico – o comunque di limitarne la portata.

E’ possibile soltanto che il Comune, sulle istanze o DIA, entro trenta giorni, sottoponga l’intervento singolo a “specifiche condizioni e modalità tecniche”; infine l’art. 2 demanda ai Comuni di “verificare l’eventuale ulteriore fabbisogno di aree pubbliche e servizi”; e inoltre (sempre entro il 15 Settembre 2009) di dare prescrizioni per il “reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali e verde“.

Come si deve leggere questa disposizione? Nel senso che, se mancano le prescrizioni entro il termine brevissimo concesso, tutti gli interventi di ampliamento o di sostituzione di edifici sono esonerati dal prevedere, ad esempio, i posti auto di pertinenza obbligatori per legge? E poi, perchè il fabbisogno di aree pubbliche e servizi urbani indotto dalla legge è definito come meramente “eventuale“?.

Se si possono superare sino al 50% gli indici di densità edilizia , ciò significa che – necessariamente - il Comune dovrà aumentare gli standard per la

«Berlusconi ha dato l'input presentando il suo pacchetto sull'edilizia, non potevamo rimanere passivi. Così abbiamo legiferato dal basso». Paolo Di Vetta, portavoce dei Blocchi Precari Metropolitani, è uno dei promotori, insieme agli altri movimenti per la casa capitolini (Coordinamento di lotta, Action, Comitato e Asia Rdb), della proposta di legge «sul diritto all'abitare» presentata ieri all'ex teatro Volturno di Roma. Sotto gli occhi degli assessori regionali Luigi Nieri e Mario Di Carlo.

Come è nato il percorso?

Prima erano coinvolti solo i movimenti e comitati di quartiere poi si sono aggiunti urbanisti e architetti. La nostra non è solo una proposta sull'emergenza abitativa ma parla di una nuova idea di città, intesa come bene comune.

Cosa avete proposto alla Regione?

Il ritorno del pubblico. Chiediamo che la giunta costruisca 100mila alloggi di edilizia sovvenzionata e che destini una somma non inferiore a 1,3 miliardi di euro per programmi mirati al diritto all'abitare. Poi, tra le proposte, ci sono il recupero del patrimonio dismesso e il vincolo per la realizzazione di nuove cubature edilizie solo alle aree nelle quali esistono già opere di urbanizzazione.

L'incontro com'è andato?

Il giudizio è positivo. Sia Di Carlo che Nieri hanno valutato seriamente la proposta di legge d'iniziativa popolare prendendo sul serio soprattutto l'impianto. Qualche attrito con Di Carlo è nato sulle vendite delle case popolari, scelta che lui vuole perseguire. Ma a fronte di una situazione in cui non vengono costruiti alloggi, mettere in vendita il poco patrimonio pubblico esistente è criminale.

Cartolarizzazioni, housing-sociale, svendita del demanio pubblico... l'emergenza casa in questi anni è stata sempre delegata ai privati.

La rendita fondiara è un potere forte che sta ingabbiando la politica e ha modificato la governance. Il loro interesse a speculare prevale su tutto. Con il gioco delle new-town che si ripete: il pubblico mette l'area, il privato porta i soldi e i palazzinari costruiscono con grandi profitti. Il prodotto finale guarda solo ad inquilini solvibili che si possono permettere di pagare 500-600 euro al mese. Prima di nuovo cemento, di cui una parte rimane inutilizzato, esigiamo il recupero degli immobili esistenti. Sia pubblici che privati. La casa è un pezzo importante del reddito di una persona, lo pretendiamo a scapito della rendita.

Non credi che Veltroni abbia aperto la strada ad Alemanno lasciando Roma con un piano regolatore che di fatto regalava la capitale agli speculatori?

Non proprio. Veltroni ha di certo sottovalutato il problema casa e sopravvalutato i "furbetti del quartierino" facendo prevalere i loro interessi. Alemanno invece porta avanti, in maniera ambigua, un ragionamento sociale. A parole si dimostra sensibile e promette alloggi popolari. Nei fatti, a differenza del minimo tentativo di Veltroni, non ha un piano. Come se non capisse l'emergenza. C'è una fascia di persone che non riesce ad accedere né al mercato dell'affitto né a quello delle vendite. E gli ultimi dati sugli sfratti parlano di proprietari che, non fidandosi più del pagamento, decidono preventivamente di rescindere il contratto.

E il governo nicchia sugli sfratti.

Stiamo arrivando alla fine della proroga per le categorie protette. Dopo la situazione sarà esplosiva, a Roma e non solo. Per questo i movimenti lanciano una campagna radicale per il blocco degli sfratti. Ci vediamo nella città.

Nota: sul medesimo tema si veda qui anche l'articolo di Eddyburg per Carta (f.b.)

I giorni che stiamo vivendo dentro la sfortunata Repubblica Italiana, oscurata da quasi tutte le televisioni e disinformata da quasi tutti i giornali (anche se si intravedono le prime crepe nella diga che fino ad ora ha trattenuto e nascosto il liquame del regime) sono talmente vergognosi da renderci prigionieri di un dilemma: o parli solo del "casino Italia" come ha opportunamente intitolato Libero, o parli d’altro. Per esempio della folla esasperata di cittadini dell’Aquila e dell’Abruzzo che hanno sfidato la militarizzazione imposta alla città dai pasdaran della Protezione civile e sono venuti a Roma, davanti al Parlamento a dire la verità. Ovvero la loro vergogna e il loro imbarazzo per essere stati visitati e intrattenuti, a fari accesi e sotto le telecamere, da un finto capo del governo che in realtà era un abile imitatore e anzi, presumibilmente, un nemico giurato del buon governo. Quando si sono accorti del falso, dopo mesi di vita impossibile nelle tende gelate di notte, invivibili nella pioggia e roventi di sole, una specie di Guantanamo venduto per salvezza, sono venuti a Roma in cerca di verità. Non l’hanno trovata. Anche nei palazzi del potere, anche quando non ci sono feste indecorose a pagamento, non c’è il vero capo del governo, uno che accorre quando deve, promette quel che può, e mantiene subito e con rigore le promesse. C’è solo, lontano, incapace, furibondo e distratto "come uno che non sta bene" (fonte: Veronica Lario) l’attore che promette tutto e non sa mantenere niente.

Questo giornale ha dato ai lettori la cronaca di ciò che è accaduto davanti a Montecitorio, di quella folla costretta a rendersi conto della beffa subita dal governo, e dunque dallo Stato italiano, nel peggior momento della loro vita, uomini e donne, giovani e non giovani, che prima, nella loro vita, si erano dedicati alla famiglia, al lavoro, alle professioni, costretti adesso a sfilare con cartelli e striscioni come se esigessero un di più mentre denunciavano il niente. In quelle stesse ore, dentro Montecitorio, si celebrava l’altra parte della vergogna: una maggioranza parlamentare muta e succube di un governo che si occupa di trasporti per feste ma non di terremotati, e che tranquillamente promette la luna, tanto è un argomento di canzoni, non di politica. La vergogna era questa: la legge in discussione era per "Gli interventi urgenti in Abruzzo" e mancava di tutto. Mancava di soldi, di progetti, di idee, aveva saltato interi settori di attività essenziale (le scuole) e interi blocchi di cittadini, i cosiddetti proprietari di "seconde case" che non saranno ricostruite benché siano al secondo e al quarto piano dell’edificio la cui ricostruzione è teoricamente prevista. Non fissava date e non garantiva scadenze.

Tutta l’opposizione (Pd, Italia dei valori, Udc) si è impegnata, emendamento dopo emendamento, a riempire le inaccettabili omissioni, le inspiegabili incompetenze, a correggere l’ovvia e offensiva inutilità della legge. Lo spettacolo triste, durato per tre giorni, è stato il silenzio disciplinato della maggioranza di governo, uomini e donne solitamente vivi e aggressivi ridotti a una assemblea ottusa che non ascolta, non vede, non decide. Ha già deciso il governo. E così, come se questo fosse l’ultimo Parlamento, come se nessuno di questi parlamentari avesse un dopo in cui rendere conto e un elettorato che vorrà sapere, ogni emendamento dell’opposizione, per quanto utile e necessario è stato respinto, anche se diceva che non c’è più università, che è urgente ricostruire la Casa dello studente, che l’ospedale va rimesso in grado di funzionare, che dopo un simile terremoto è assurdo e impossibile distinguere fra prime e seconde case, che i soldi non bastano per cominciare, che occorrono date certe della ricostruzione, fasi realistiche, dati veri, sia per buona organizzazione sia per dare speranza.

Lo spettacolo di ciò che è accaduto dentro Montecitorio, mentre fuori una folla di cittadini normali e per bene, è costretta a gridare la sua indignazione, era anche più desolante. Una parte sorda, cieca e muta del Parlamento taceva, evitava ogni confronto, si auto-proibiva qualunque discussione, respingeva in silenzio anche le proposte ispirate a esperienza, mitezza, buon senso. Il governo dello spettacolo aveva già fatto la sua tournée all’Aquila. Sta preparando, a carico dei disperati cittadini dell’Aquila il nuovo mega-spettacolo del G8. I parlamentari del partito di governo sono stati declassati a loggione. Tacciano, ignorino, lascino lavorare chi sa fare spettacolo. L’ultimo Parlamento ha abbassato la testa in segno di umile assenso.

Per fortuna non tanti nell’opposizione pensano ancora che sia estremista dire "no". In tanti si rendono conto, finalmente, che "no" è l’unica risposta possibile.

Trascorrono gli anni, in Italia sono cambiate tante cose, ma un problema resta sempre lo stesso nella sua drammaticità: il rischio per molte famiglie di subire lo sfratto dall’abitazione. Anzi, gli ultimi dati statistici fotografano un espandersi dell’emergenza, se è vero che nel 2008 le richieste di esecuzione sono aumentate di oltre il 25%, salendo a quasi 140.000. E le cifre, denunciano i sindacati, sono solo provvisorie e destinate ad aumentare viste le difficoltà attraversate dai lavoratori in tempi di crisi mentre l’ormai pluriennale tendenza al rincaro degli affitti non accenna a fermarsi nonostante la recessione economica.

In base ai dati preliminari diffusi dal ministero dell'Interno l’anno passato su un totale di 51.390 nuove sentenze di sfratto (+17,14% sul 2007), la maggioranza assoluta, oltre 40.600, sono state per morosità. Le richieste di sfratto presentate dagli ufficiali giudiziari alla forza pubblica per eseguire gli sfratti sono state 138.040, con un aumento rispetto al 2007 del 26,13%. Gli sfratti eseguiti sono stati invece 24.996, l'11,25% in più rispetto al 2007.

IL CASO DI ROMA

Da qui, si è detto, l'allarme dei sindacati. Il Sicet, l’organizzazione che rappresenta gli inquilini della Cisl, cita alcuni esempi eclatanti: a Venezia gli sfratti emessi sono saliti del 261%. In Emilia, Modena ha visto un'impennata del 50% delle richieste di esecuzione. Mentre a Roma si è arrivati a 53 mila (+171%). Numeri che hanno portato il Lazio al top della classifica regionale con oltre 54 mila richieste e un'impennata del 160%. Dati «preoccupanti» anche a Napoli con 1.800 esecuzioni. Palermo e Catania sono invece ai primi posti in Sicilia con rispettivamente 1.700 e 2.400 sfratti.

In controtendenza, invece, sembra muoversi la Lombardia: le richieste sono state lo scorso anno circa 28.000, il 28% in meno rispetto al 2007. Ma in questo caso i sindacati sostengono che i dati devono essere valutati come assolutamente provvisori e destinati a crescere. Quanto a quel che sta accadendo nell’anno in corso, le previsioni sono tutt’altro che ottimistiche.

I TIMORI PER IL 2009

«Il 2009 sarà peggiore: - sottolinea il segretario generale del Sicet, Guido Piran - prevediamo una ulteriore crescita per i provvedimenti di sfratto stimabile tra il 15 e il 20% e tutta nel capitolo della morosità. Per questo, la prossima scadenza della proroga degli sfratti del 30 giugno deve essere colta come opportunità «per comprendere anche la morosità. Il problema non deve essere solo rinviato di qualche mese. Serve un fondo di contributi per l'affitto finanziato con più risorse e una maggiore offerta di case di edilizia pubblica assieme ad una nuova legge sulle locazioni private che riduca il costo degli affitti».

L'Unione inquilini parla di «frana sociale» e di «Italia sotto sfratto e sempre più povera». Per il segretario nazionale Walter De Cesaris «da questi dati si evince il fallimento delle politiche di liberalizzazione dei canoni e di privatizzazione dei patrimoni pubblici. È giunto il momento di una profonda inversione di rotta».

Da qui le proposte dell’Unione inquilini:«Il sindacato presenta quattro richieste essenziali per affrontare l’emergenza: blocco generalizzato degli sfratti, compresi quelli per morosità; riduzione del 50% degli affitti; stanziamento subito di un miliardo di euro per il sostegno all'affitto; realizzazione di almeno un milione di case popolari a canone sociale».

Oggi il presidente del consiglio sarà nuovamente in visita a l'Aquila «per verificare lo stato d'avanzamento dei lavori del post-terremoto». Avanzamento è una parola forte, più che altro Berlusconi potrà verificare come si disgrega una comunità. E farsi molto riprendere dalle sue televisioni.

Ieri centinaia di abruzzesi hanno fatto per la prima volta visita a Roma «per chiedere la ricostruzione di città e paesi». Anche ricostruzione è una parola forte, soprattutto di fronte a un Decreto avaro e autoritario. Avaro, perché le risorse sono molto al di sotto del necessario. Autoritario, perché impone tutto dall'alto, esalta la pratica dell'emergenza e riduce a sudditi i cittadini. Avarizia e autoritarismo si tengono stretti per mano.

Secondo il governo i terremotati d'Abruzzo dovrebbero affidarsi a qualche «gratta e vinci» in più per veder risollevare le loro case; confidare nelle disposizioni del presidente del consiglio per essere risarciti dei danni subiti; aspettare le ordinanze di Bertolaso per sapere se e dove ci saranno scuole in cui studiare, uffici e fabbriche in cui lavorare. Quanto ai loro amministratori locali, il ruolo previsto è di farsi da parte, o fare i passacarte.

Non che il governo sia impazzito. Anzi, persegue una logica precisa. Quella di sempre. Riduce la spesa pubblica ad azzardo privato: così niente «tassa di scopo» per la ricostruzione ma via libera a lotti e lotterie. Declassa una città da bene comune a insieme di proprietà individuali: così nessun piano di riedificazione urbana ma tanti risarcimenti ad personam, sperando che l'urgente bisogno di un tetto spinga all'esodo e lasci il campo libero per nuovi affari immobiliari. Trasforma l'amministrazione del territorio in gestione dell'ordine pubblico: così cancella il ruolo degli enti locali mentre accentra tutte le decisioni a palazzo Chigi, usando la Protezione civile come longa manus di un potere incontrollabile.

Chi ieri ha manifestato a Roma tutto questo lo sa bene. Cerca di spiegarlo al paese, anche senza la copertura mediatica su cui può invece contare Berlusconi. Sanno - le donne e gli uomini delle tendopoli - che in queste settimane si decide il loro futuro e quello della loro terra. Sanno anche che - nello stato in cui sono ridotte le istituzioni e la rappresentanza - dalla politica non potrà venir loro un grande aiuto. Ma hanno dalla loro le conoscenze per contestare i bluff berlusconiani e una possibilità. Un G8 che il presidente del consiglio vorrebbe vetrina di propaganda, ma che potrebbe invece essere palcoscenico di un fallimento sotto gli occhi del mondo. Comunicarlo nel modo giusto sarà decisivo. «Yes, we camp», c'era scritto su uno degli striscioni di ieri: chi ha detto che solo Berlusconi sa usare le televisioni?

«Casette a settembre? Ma chi sei, Megggaiver!!!». Bruno ha 23 anni, è un aquilano doc da due mesi senza casa e oggi, in piedi davanti a Montecitorio, racconta con questo cartello la sua rabbia. MacGyver, il ragazzo dalle mille risorse, era il suo eroe dei fumetti, quello che realizzava sogni e risolveva guai. Secondo Bruno solo MacGyver, al massimo della forma, potrebbe consegnare le “famose” casette ai terremotati d’Abruzzo. Figurarsi Berlusconi, o Bertolaso, che al suo eroe non assomigliano neanche un po’.

Si smonta, finisce in pezzi un’altra, forse la più importante delle promesse-certezze del premier. «Il 15 settembre consegneremo le prime case, a novembre nessuno sarà più in tenda» ha ripetuto Berlusconi nella sue tredici visite all’Aquila. Falso. Non vero. Anzi, mai stato vero. La verità è che sarà un Natale in tenda. O in albergo, viste le temperature nell’altopiano dell’Aquila, Non lo dicono i soliti calcoli a spanna dei soliti disfattisti criticoni. Lo dice, da sempre, anzi lo documenta da maggio, il «CRONOPROGRAMMA GENERALE», la tabella di marcia, giorno per giorno, capitolo per capitolo, del rivoluzionario progetto C.A.S.E che sta per Complessi antisismici Sostenibili Ecocompatibili, le famose casette che dovranno diventare un tetto per circa quindicimila sfollati. E’ anche l’unico capitolo finanziato nel decreto con 530 milioni di euro.

Il Cronoprogramma consegnato dalla Protezione Civile e vistato dal governo a maggio dice chiaramente che le case saranno consegnate a fine dicembre comprese arredi e collaudi. Come se dopo otto mesi di campeggio forzato uno potesse ancora andare a vivere in modo precario. Tutto questo sempre che due voci cardine del Cronoprogramma, «realizzazione degli alloggi» e «opere di urbanizzazione» (fogne, allacci gas e luce, strade di accesso), prendano il via tra la prima e la seconda settimana di luglio. In pieno G8. Difficile immaginare ruspe e camion in giro per l’Aquila, che ha due strade, mentre nella caserma di Coppito si riuniscono i grandi della terra.

«Il problema - racconta un funzionario della Protezione Civile - è che tutto il Cronoprogramma è già saltato perchè le opere di cantierizzazione dovevano cominciare il 10 di maggio. Siamo al 16 giugno e mi risultano avviate, da circa dieci giorni, solo a Bazzano e Ocre. Un ritardo normale di fronte a un intervento di questo genere». Il fatto è che da questo ritardo (la cantierizzazione), ne derivano altri. E’ l’effetto domino. «Le operazioni di scavo, fondazioni e messa in posa delle piastre dovevano cominciare, secondo Cronoprogramma, il 25 maggio ma non sono ancora cominciate».

Certo, magari sarà anche possibile consegnare un pugno di case a settembre, facendo lavorare gli operai giorno e notte. Ma sarà una goccia rispetto alle venti aree, attualmente zone di campagna, che devono diventare villaggi autonomi con scuole e farmacie e negozi. Anche sindaco e presidente della Provincia non ci credono più. «Purtroppo - dicono Cialente e Pezzopane ricevuti ieri alla Camera dal presidente Fini mentre in aula veniva discusso il decreto e fuori duemila aquilani urlavano «basta bugie» - le casette non saranno pronte per settembre. Si parla di ottobre, forse, più facile dicembre».

«Berluscò, non te fare revedè a l’Aquila» si leggeva ieri su uno dei tanti cartelli. Ci torna oggi. Dopo l’approvazione definitiva del decreto. Che garantisce solo 5 mila casette, un po’ di gratta e vinci, rinvia negli anni la ricostruzione del centro storico e non prevede risarcimenti a chi non è residente, una ricostruzione groviera visto che il 40 per cento delle abitazioni sono di aquilani che vivono altrove. Soprattutto non dice nulla a piccoli commercianti e medie imprese che erano il tessuto della città e ora non sanno più cosa sono.

La Proposta di legge di iniziativa popolare sul diritto alla casa e all’abitare a Roma e nel Lazio è la prima del genere nella Regione. Presentata venerdì 12 giugno nel corso dell’ultima tappa della carovana «Città bene comune», la proposta di legge, che si compone di sedici articoli, non nasce negli assessorati o nelle commissioni di via della Pisana ma da una idea maturata dalla stessa carovana che, a sua volta, come in un incastro di scatole cinesi, lancia, nella sua stessa costituzione, una originale idea di autogoverno del territorio. Difatti, contemporaneamente, lancia anche una seconda legge popolare che riguarda la scabrosa questione dei rifiuti. La carovana nasce dall’incontro tra i comitati di quartiere e la miriade di associazioni che in questi anni si sono opposti allo strapotere della rendita dando vita alla «Rete del mutuo soccorso» e alla Rete dei movimenti per il diritto all’abitare composta da Action, Bpm, Coordinamento cittadino di lotta per la casa, Comitato obiettivo casa.

A questo primo nucleo, in occasione della preparazione della Conferenza urbanistica del 29 febbraio scorso, si sono aggiunti comitati, associazioni e cittadini incontrati nelle diverse tappe del viaggio che, peraltro, è cominciato molto tempo fa. Molti, infatti, hanno in comune l’opposizione alle politiche urbanistiche di Veltroni culminate nell’approvazione del Piano regolatore generale, nei primi mesi del 2008, che a loro giudizio ha prodotto un consumo insensato di territorio, ha peggiorato la qualità della vita cittadina e non ha dato risposte all’emergenza abitativa. L’attuale giunta Alemanno, aggredendo l’agro romano, continua nella stessa direzione, quella di costruire la città secondo i soli dettami della rendita. L’idea della legge d’iniziativa popolare nasce dalla convinzione che l’unica manovra urbanistica possibile sia ripristinare il ruolo pubblico nel programmare e risolvere l’emergenza abitativa e la vivibilità urbana.

Roma, la sua area metropolitana e i maggiori comuni del Lazio sono in emergenza abitativa: decine di migliaia di famiglie vivono in condizioni inaccettabili, in edifici impropri, in assistenza alloggiativa. Migliaia sono sottoposte a procedura di sfratto in corso. Un numero sempre maggiore vive in quartieri sempre più periferici e sempre più privi di servizi sociali. Eppure, in questi anni si è costruito moltissimo, agli stessi ritmi degli anni ‘80, nonostante la popolazione non sia sostanzialmente cresciuta. Ma si sono costruite solo case per il mercato privato ed è stata abbandonata l’edilizia sociale pubblica. Il recentissimo rapporto annuale Istat ha certificato che, a fronte della realizzazione di oltre 3 miliardi di metri cubi di edifici nel periodo 1995-2006, la percentuale di case pubbliche è stata dello 0,7 per cento. In Europa supera mediamente il 30 per cento. E, mentre gli altri paesi cercano di tornare alle politiche pubbliche, l’Italia sembra voler continuare le politiche di demolizione di qualsiasi regola. E le proposte del cosiddetto «Piano Casa» del governo Berlusconi servono solo a incrementare la rendita.

La legge di iniziativa popolare propone la realizzazione in sei anni di centomila alloggi pubblici. È un impegno oneroso per il quale viene previsto, nella proposta, lo stanziamento di circa 8 miliardi di euro. Inizia ora la raccolta delle firme necessarie per l’iter istituzionale di una proposta di legge di iniziativa popolare [va ricordato, peraltro, che il Lazio non si è ancora dotato di una legge ad hoc così come previsto dallo Statuto regionale] ma i promotori già sanno quale sarà la prima obiezione delle istituzioni: non ci sono i soldi. Per questo, propongono di dirottare in questa direzione quelli che dovrebbero venire investiti in opere inutili come l’autostrada Roma-Latina. La legge blocca, inoltre, la svendita del patrimonio pubblico in atto da anni «per risanare i conti pubblici». Per questo, si propone di adottare politiche di risparmi della spesa pubblica. Ma risolvere il problema della casa non basta più. Di fronte all’imponente fenomeno di espulsione da Roma di oltre centomila famiglie nel periodo 1991-2006, l’attuale situazione è che sempre più cittadini vivono in zone periferiche prive di servizi di qualità. Mentre Roma si spopola e in centro si chiudono i servizi per mancanza di popolazione, nella periferia metropolitana non c’è la città. Mancano scuole, servizi alle persone, perfino le opere di urbanizzazione.

La legge propone due parallele politiche: reintrodurre la residenza pubblica nella città esistenti così da rivitalizzarle con azioni di recupero del patrimonio pubblico dismesso o sotto utilizzato. E portare i servizi nelle periferie delle città. Si prevede un piano di realizzazione di servizi pubblici che consente a tutti i cittadini pari opportunità di accesso e punta a recuperare prioritariamente il costruito inutilizzato all’interno delle città così da non costringere molte famiglie a vivere in case senza città e a riempire di abitanti le parti di città ormai vuote per il grande esodo di questi anni. Il diritto all’abitare si completa con il diritto alla mobilità sostenibile: centinaia di migliaia di pendolari raggiungono il centro di Roma per motivi di lavoro impiegando tre ore al giorno per gli spostamenti. Anche in questo caso, occorre far entrare l’Italia in Europa: nessun quartiere potrà essere costruito se non esistono già linee di trasporto su ferro. Basta con i quartieri che nascono in ogni angolo della campagna e obbligano all’uso dell’automobile.

La legge, infine, tocca due ulteriori punti: la riconversione dell’immenso patrimonio edilizio costruito verso l’istallazione di tecnologie energetiche appropriate e le graduatorie di accesso. Il limite di reddito per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica destinata all’assistenza abitativa, a partire dal primo bando successivo alla approvazione di questa legge sarà portato a 20 mila euro [la diminuzione prevista nell’art. 21 della L. 457/78 è determinata in 10 mila euro per ogni componente del nucleo familiare produttore di reddito, e in 6 mila per ogni ulteriore familiare a carico]. Infine, si impegna la Regione Lazio ad attuare la legge entro la definizione del passaggio di competenze, in materia edilizia, al Comune di Roma così come previsto dalla legge istitutiva di Roma Capitale.

Per allargare ancora di più la possibilità di discuterne, oltre che nel corso dei sei mesi previsti per la raccolta delle firme per la presentazione di una legge di iniziativa popolare, Carta offre uno spazio sul sito e nelle pagine di CartaQui. [Il testo completo della proposta di legge popolare su www.carta.org].

Il terremoto è senza dubbio, per la severità e la globalità del suo impatto, l’evento di origine naturale più disastroso. Alcuni numeri e qualche considerazione consentono di delineare le dimensioni del problema che tale evento rappresenta per il paese: 30mila terremoti nell’ultimo millennio, oltre 200 dei quali assolutamente distruttivi, un’impressionante sequenza di eventi causa, solo nel’900, di 120.000 vittime. Anche in termini economici è un fenomeno devastante: 75 miliardi di Euro è stato valutato l’ammontare, probabilmente sottostimato, delle risorse impegnate nell’ultimo quarto di secolo per la ricostruzione.

I terremoti di minore intensità che hanno colpito il Paese in questi ultimi decenni hanno impegnato quantità di risorse relativamente più contenute, ma hanno segnato un incremento percentualmente molto consistente rispetto agli standard precedentemente seguiti nel valutare e risarcire il danneggiamento. Insomma, il post terremoto-costa sempre di più (e non sempre a causa di una migliore qualità degli interventi); questo vuol dire che se ci trovassimo di fronte ad un altro terremoto dell’Irpinia, che da solo assorbì oltre 30 miliardi di Euro, sarebbe davvero un problema complesso risolverlo con le stesse logiche risarcitorie dell’ultimo più piccolo evento (per esempio San Giuliano di Puglia). Sempre più, quindi, l’ammontare delle ingenti risorse per la ricostruzione diviene comparabile con quanto necessario per l’avvio di una diffusa ed incisiva azione di prevenzione che consentirebbe di limitare i danni ma, soprattutto, determinerebbe le condizioni per subire un minor numero di perdite di vite umane.

Per il terremoto dell’Aquila si apre ora il problema della ricostruzione; prime valutazioni del danno economico cominciano a circolare e a preoccupare. La prima individuazione dei comuni terremotati, nel numero di 49, è stato preannunciato che potrà essere integrata e, come sempre è successo, le isosiste (linee che racchiudono aree di pari intensità dell’evento) del terremoto corrono il rischio di diventare qualcosa di elastico, in grado di essere tirate da una parte e dall’altra, e con esse i maggiori costi della ricostruzione.

In questi tragici giorni si è ripetuto fino allo sfinimento che questo è un paese a elevato rischio sismico. Si è detto molto anche riguardo alla altissima vulnerabilità del nostro patrimonio edilizio, soprattutto quello più vecchio, per caratteristiche tipologiche e costruttive degli edifici che costituiscono i circa 22mila centri storici, ben oltre la metà dei quali situati nei comuni ad alto rischio.

La vulnerabilità riguarda, oltre le abitazioni, anche un insieme di altri oggetti presenti sul territorio: il sistema infrastrutturale, quello industriale e produttivo, le reti dei servizi; persino quegli edifici che sono stati individuati come strategici ai fini di protezione civile non sono in gran parte costruiti “a prova di terremoto”. E poi ci sono l’edilizia illegale, cioè abusiva, e le costruzioni fatte ignorando la legalità, disattendendo le norme edilizie o, più semplicemente, rubando. L’Italia ha anche una forte esposizione, determinata dall’alta densità di popolazione, soprattutto quella associata alle criticità del sistema urbano di molte grandi città. Infine, la diffusa presenza di un enorme patrimonio storico, artistico e culturale che non è nemmeno solo un patrimonio “nostro” ma piuttosto dell’umanità, che non riusciamo a proteggere. L’evento del ’97 in Umbria e Marche, di intensità comunque limitata, ha fortemente danneggiato circa 600 chiese e, emblematicamente, la basilica di S. Francesco d’Assisi, mettendo in evidenza proprio il problema della conservazione e tutela del patrimonio culturale, per nulla protetto dall’impatto del terremoto. Il 6 aprile a L’Aquila le cose son andate nello stesso modo.

A fronte di questa sintetica ma sufficientemente sconfortante rappresentazione delle dimensioni e delle specificità del problema sismico in Italia, l’unico momento in cui tutti vogliono parlare di terremoto, quello dopo l’ultima catastrofe, non pare offrire spunti confortanti circa la determinazione espressa sul piano politico-istituzionale. Tale determinazione dovrebbe esprimersi nel lungo periodo, indispensabile per impegnare su un concreto programma di azione chi possiede le necessarie competenze, e dovrebbe essere gestita con quella logica oggi desueta che si chiama continuità dell’azione amministrativa, che vorrebbe significare un certo grado di indipendenza nei confronti dell’avvicendarsi dei livelli di governo di questo paese. Cosa, questa, poco vista in passato e mai in questa seconda Repubblica.

E’ d’altronde illusorio che la questione, possa essere affrontata mettendo in campo un solo strumento. Dalle pagine dei giornali e dai teleschermi, come dopo ogni terremoto, arrivano tranquillizzanti annunci circa l’immediata entrata in vigore della nuova normativa sismica e dei nuovi criteri di classificazione del territorio, senza tuttavia spiegare che si tratta di norme e criteri che sostanzialmente andranno ad incidere solo sulle nuove costruzioni, quelle che debbono ancora essere costruite. Poiché queste saranno poche, essendo stato costruito in questo paese il costruibile, il risultato sarà, nell’arco dei prossimi decenni, assai modesto in termini di riduzione del rischio. D’altronde, come si diceva, è arcinoto che lo zoccolo duro del problema sismico in Italia è l’edificato più antico. E su questo poco si dice, poco ci si impegna in tempo di quiete, per una certa insensibilità al tema e per l’incapacità, a cui sopra si accennava, di varare e perseguire un lungimirante programma di prevenzione.

Eppure le conoscenze ci sono, sono state prodotte in questi ultimi trent’anni attraverso l’impegno di alcuni soggetti (progetti finalizzati, gruppi di ricerca, istituti, servizi, etc.) che si sono proposti e avvicendati sulla scena della riduzione del rischio sismico; soggetti quasi tutti oggi scomparsi, non sempre sostituiti o sostituiti bene, che hanno utilizzato risorse pubbliche, in qualche caso ingenti. Questo patrimonio di know how consentirebbe di portare a soluzione, sotto il profilo tecnico-scientifico e operativo, il problema sismico del paese, ma in gran parte resta inutilizzato proprio perché un deficit di competenza e di determinazione politica non ha consentito di realizzare la necessaria funzione di trasferimento della conoscenza in azioni concrete.

Allora, se davvero si vuol avviare un percorso, necessariamente lungo e costoso, di riduzione del problema sismico nel paese si deve recuperare quanto prodotto in termini di conoscenza e di strategie, sempre messo da parte tra un terremoto e l’altro, e sempre rispolverato, magari per stralci scarsamente funzionali, nel dibattito post evento. Si ripropone allora un sintetico elenco di cose da fare, alcune delle quali particolarmente complesse, ma certamente indispensabili.

  1. conferimento di idonei livelli di protezione per le nuove costruzioni attraverso l’aggiornamento della classificazione sismica del territorio e della normativa tecnica; riconsiderazione dei criteri di controllo progettale e realizzativi nell’edilizia in zona sismica;
  2. riduzione del livello di vulnerabilità dell’edilizia più antica e dei centri storici; del patrimonio artistico e culturale; delle strutture strategiche di P.C. e di quelle destinate ad uso pubblico;
  3. contrasto del fenomeno dell’ edilizia illegale ed abbandono della pratica dei condoni edilizi; adozione di strumenti di pianificazione a carattere ordinario per conseguire, nel tempo, un riassetto del territorio che tenga conto delle problematiche poste dal rischio sismico;
  4. intervento costante sui livelli di comunicazione, informazione e sensibilizzazione della popolazione, indispensabile all’avvio di una più incisiva azione prevenzione ed alla ottimizzazione dei comportamenti in emergenza;
  5. intervento normativo per la definizione dei livelli di danneggiamento e, conseguentemente, dei criteri di indennizzo per la ricostruzione propedeutico al coinvolgimento del mercato assicurativo quale supporto all’enorme impegno dello Stato nel risarcimento, nell’ambito di un quadro generale di riduzione della vulnerabilità del patrimonio edilizio;
  6. verifica ed ottimizzazione degli standard di intervento in emergenza attraverso l’adozione degli strumenti di pianificazione.

Su ciascuno di questi punti ci sarebbe moltissimo da dire (solo qualcosa ha avuto un minimo di approfondimento in quanto ho già scritto -e magari su quello che scriverò ancora- per www.eddyburg.it, la cui redazione ringrazio per l’ospitalità) ma per tutti si può ribadire che ognuno è certamente indispensabile; alcuni poi, come si diceva, sono anche molto, molto complessi da realizzare.

Ma, d’altronde, complessa e obiettivamente difficile è la scelta di fondo, tutta politica, che si deve fare sulla sicurezza dei cittadini.

A fronte delle tante condizioni di insicurezza in cui oggi, non importa se più o meno di ieri, si vive, vi è un monte di risorse limitato, molto limitato per fare prevenzione, sia che si tratti di catastrofi “naturali”, sia di salute, di morti bianche, di stragi del sabato sera o altro ancora. Dopo l’esplosione di un’emergenza si scoprono sempre cose che si sarebbero dovute fare e non sono state invece fatte; poiché l’ultima emergenza è sempre la più importante, all’opinione pubblica indignata si promette ogni volta che quella cosa non succederà più, che finalmente la prevenzione avvierà a soluzione il problema, senza purtroppo tener conto del quadro d’insieme.

Su questi temi occorrono scelte precise incalzate da quanto sta in queste ore accadendo circa le richieste di molti comuni dell’Abruzzo per avere comunque una quota di risorse in questo dopo terremoto, per mettere in sicurezza il loro patrimonio edilizio anche se non danneggiato. Si manifestano cioè situazioni che tipicamente esplodono quando un problema grosso resta troppo a lungo non governato; situazioni determinate delle enorme difficoltà nel conciliare la sensibilità della gente con il rigore della logica che punterebbe invece ad investire risorse in prevenzione nell’ambito di un quadro generale di priorità d’intervento, esclusivamente in base alle valutazioni di rischio da tempo disponibili.

Emerge così, dalle vicende dell’Aquila, soprattutto un’esigenza di chiarezza rispetto a quanto si potrà fare subito per quelle popolazioni in così grande difficoltà, e di quanto si potrà anche fare, in prospettiva, per determinare una condizione di maggiore sicurezza per quella tanta parte del paese che con il rischio, in modo più o meno consapevole, oggi convive.

Su eddyburg, dello stesso autore e sullo stesso tema:

La prevenzione che non c'è

La fortuna dell'Italia

Millecinquecento alloggi pronti e disponibili a L'Aquila e provincia. Offerti a prezzo "politico" per accogliere i terremotati. Erano i giorni immediatamente successivi la grande scossa del 6 aprile e l'associazione dei costruttori edili abruzzese metteva sul piatto dell'emergenza la sua disponibilità: quelle case appena terminate potevano servire a ridurre il danno, offrendo un tetto, almeno provvisorio, ai 60 mila sfollati. Forse l'Ance s'era fatto prendere la mano dall'afflato solidale che attraversava l'Italia - con donazioni, concerti, offerte e quant'altro. O, forse, aveva fatto male i conti. Fatto sta che quei 1.500 alloggi, che teoricamente avrebbero potuto ospitare dalle 3.000 alle 5.000 persone, sono progressivamente diminuiti di numero giorno dopo giorno, fino a sparire nel nulla. Contemporanemente, mentre si andava definendo la mappa dei danni e delle inagibilità (circa il 40% delle abitazioni private), lievitava il prezzo per gli affitti delle case rimaste intatte.

Scemata l'attenzione, digerita l'emergenza, diradatesi le visite del Presidente del Consiglio a L'Aquila, il campo è stato occupato interamente dalle tendopoli della protezione civile, dall'esodo verso gli alberghi della costa adriatica o - nel migliore dei casi - dal rifugiarsi presso qualche parente con una stanza in più. E il terremoto è rientrato nella normalità di un paese in cui l'edilizia è uno dei più grandi business. Anche se a volte costruito su fragili fondamenta, come l'Abruzzo dimostra e l'Ance ben sa, in attesa che la magistratura scopra i responsabili di ciò che è successo alla Casa degli studenti e "dintorni".

Ma è una ben strana normalità. Lo si nota nel deserto e immobile centro storico dell'Aquila, nella vita difficile delle tende e degli alberghi, nella frantumazione del tessuto economico e nel procedere a singhiozzo della pubblica amministrazione. Ma lo si legge anche nei passaggi istituzionali, a partire dal "Decreto Abruzzo" che - dopo il varo del Senato - la prossima settimana passa alla Camera per il via libera definitivo. Anomali e inediti sono i criteri di gestione, gli obiettivi, le procedure, declinando in chiave emergenziale le tre questioni di fondo: il quando (i tempi della ricostruzione), il quanto (i fondi messi a disposizione), il come (la filosofia e le modalità del lungo viaggio verso la normalità). Sapendo che un terremoto - come un crack economico - ridefinisce tutto e mai si torna allo stato quo ante: può andare come è successo in Umbria (un "sogno" per molti abruzzesi) o finire come l'Irpinia o il Belice (un "incubo" per tutti).

Due fasi, da qui al 2033

Il provvedimento del governo - molto criticato a sinistra, dagli amministratori aquilani e dai comitati che martedì protesteranno sotto il Parlamento - è sostanzialmente diviso in due parti: l'emergenza (dall'accoglienza sfollati all'edificazione delle "casette temporanee") che si dovrebbe concludere a fine 2009 e la ricostruzione vera e propria i cui tempi si allungano fino al 2033.

Cominciamo con l'emergenza. Piantate le tende, sistemati gli sfollati sulla costa, innestata la retromarcia sulle new town, il governo si è posto l'obiettivo di realizzare abitazioni per 12.000 persone: costruite su 20 siti sparsi attorno all'Aquila, si chiamano "Case", alludente acronimo che sta per "Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili". In sostanza un serie di belle casette, costo previsto 530 milioni di euro. La consegna ha anche una sua road map: 900 abitazioni ogni quindici giorni a partire dal 15 settembre.

I lavori sono appena all'inizio e già in molti dubitano che questa tempistica possa essere rispettata. In più c'è un dato che lascia allibiti: se gli sfollati sono circa 60.000 e anche ipotizzando che la maggioranza di essi potrà rientrare nelle vecchie abitazioni (ammesso e non concesso che la soglia delle case inagibili non superi il 40% del totale), appare evidente che le nuove strutture saranno sufficienti ad accogliere più o meno la metà di chi avrebbe urgente bisogno di un tetto. Facile pensare che si riuscirà solamente a svuotare le tendopoli - ma con un ritmo troppo lento rispetto ai rigori invernali che qui si fanno sentire presto -, mentre rimarrà inalterata la situazione degli sfollati sulla costa. E poi? Una volta finita la costruzione delle "Case" che succederà? Il decreto, su questo non dice nulla. Semmai demanda tutto alla fase 2, quella della ricostruzione (su cui torneremo prossimamente), come dice ben poco su scuole, ospedali e assistenza.

Anche sul terreno dei finanziamenti per quest'opera "provvisoria" ci sono delle incongruenze. Il decreto che sta per essere varato stanzia 1.152 milioni di euro per il 2009, coperto in parte con il bonus famiglia (300 milioni), con varie riduzioni di spesa su altre voci del bilancio pubblico (altri 300 milioni) e soprattutto con le maggiori entrate di giochi e lotto (472,5 milioni). Quest'ultima voce è quella cui è demandata tutta la fase 2, cioè la ricostruzione: allo scopo già si stanno spremendo le meningi illustri studiosi per varare nuove formule "d'azzardo di stato" e mercoledì scorso si è tenuto a Roma un vertice di esperti in poker cash, bet exchange e videolottery. Il futuro dipenderà da loro ed è fin troppo facile dire che sarà una lotteria. Ma tornando ai finanziamenti per il 2009, mentre la parte del leone è riservata al fondo della protezione civile per l'assistenza alle popolazioni (580 milioni), la parte riservata alla costruzione dei moduli abitativi è di 400 milioni, 130 sotto il costo complessivo, rimandando all'anno successivo lo stanziamento di altri 300 milioni. Facile intuire che ciò ricadrà sui tempi di realizzazione del "Case", anche perché la road map di Bertolaso è già in ritardo rispetto all'avvio dei lavori.

Il progetto "Case", in realtà, lascia molta gente "per strada" e fa rientrare dalla finestra l'idea delle "new town". Il futuro di questi 20 micro-villaggi con i loro 4.500 alloggi incrocia quello del centro storico dell'Aquila e dell'Università (la principale "impresa" cittadina). Una volta svuotate dagli abitanti - quando, tra un po' d'anni, potranno ritornare in possesso di una casa vera e propria - le "casette" sono destinate ai circa 10.000 studenti fuori sede che fanno dell'Ateneo aquilano uno dei più ricercati della Penisola. Ammesso che, nel frattempo, quegli studenti non siano migrati altrove, visto che in gran parte alloggiavano nel centro storico. Dove sicuramente non torneranno più e non solo per i tempi del tutto incerti della ricostruzione, ma anche perché al "centro" è riservato un destino del tutto diverso che stimola gli appetiti delle finanziarie pronte a "valorizzare" a modo loro ciò che ci sarà dopo le macerie.

La rabbia degli amministratori

Una nuova idea di città, il dopo-terremoto come occasione per ridefinire il "diritto di proprietà". Che è, poi, la filosofia di tutto il "Decreto Abruzzo". Quella che fa più arrabbiare gli amministratori locali, come la presidente della provincia Stefania Pezzopane: "L'impostazione emergenziale, segnata da un forte accentramento dei poteri nelle mani del commissario (leggi Protezione civile e Presidenza del Consiglio, ndr), è servita al governo per millantare la propria efficienza, ma non offre risposte vere alla popolazione". Perché? "Perché - risponde la presidente - le risorse sono poche e solo per il progetto 'Case', sulla ricostruzione è tutto aleatorio e perdipiù gli enti locali sono completamente esautorati. Non contano nulla e hanno le casse vuote".

Per cambiare qualcosa c'è ancora un po' di tempo, fino all'approvazione parlamentare del decreto. Ma Pezzopane è pessimista: "Nell'ultima sua visita a L'Aquila Berlusconi aveva assicurato che il governo avrebbe trovato il modo di finanziare le casse degli enti locali svuotate dall'emergenza terremoto. Passate le elezioni, la promessa sembra svanita. All'ultima audizione parlamentare abbiamo chiesto una serie di modifiche per coinvolgere nella gestione della ricostruzione le autorità locali e la popolazione. Meno di un'ora dopo, in commissione, la maggioranza ha bocciato tutti gli emendamenti che avevamo proposto". Del resto Berlusconi lo aveva promesso: "A L'Aquila ci penserò io". In tutti i sensi. (1-continua)

Presentata dal Pdl la proposta di legge sull'edilizia urbana: «Una rivoluzione anche per l'economia»

È la rivoluzione delle facciate. Dei volumi, delle linee, del cemento che dovrà sposare il risparmio energetico e - si legge nella proposta di legge del Pdl - soprattutto l'ambiente, regalando qualità alle case degli italiani. Mauro Pili, deputato e primo firmatario della proposta, lo definisce un «piano Marshall da 128 miliardi di investimenti e 750 mila nuovi posti di lavoro» nei prossimi due anni. Si chiama “Riqualificare l'Italia”, una rivoluzione edilizia pensata per riattivare il tessuto economico così sfilacciato del nostro Paese attraverso una gigantesca operazione di ristrutturazioni, demolizioni e ricostruzioni. Cemento vincolato: «Restituiamo all'Italia un patrimonio edilizio migliore, puntando sulla tutela ambientale - con attenzione al risanamento antisismico - e mettendo il freno a regali volumetrici senza miglioramento energetico», dice Pili, ieri accompagnato dal deputato sardo Paolo Vella e dal capogruppo in commissione Ambiente Agostino Ghiglia (Pdl).

CHI RIGUARDA Come anticipato nei giorni scorsi, la proposta di legge - che potrebbe diventare un maxi-emendamento al decreto “Casa qualità” già sul tavolo del Governo - «rilanciare l'idea del presidente Berlusconi», dice Pili, e riguarderà, oltre alle case mono e bifamiliari, anche «interi quartieri» che, attraverso piani di riqualificazione elaborati dai Comuni, potranno diventare delle isole nelle città «a consumo energetico ridotto». Rispetto alle prime indiscrezioni, quindi, ecco spuntare anche i palazzi, ma anche in questo caso il “premio” in maggiore volumetria potra essere garantito solo dall'impiego di materiali che permettano il risparmio di energia.

L'IMPATTO AMBIENTALE Il meccanismo di premialità volumetrica sarà questo: per le ristrutturazioni sarà possibile realizzare (in tutto il Paese) una cubatura maggiore del 20 per cento, mentre le demolizioni e totali ricostruzioni il premio sarà fino al 35 per cento in più, ma «soltanto se ai lavori si accompagnerà una ristrutturazione energetica con la relativa classe». A, B, o C, sottolinea Pili, classi lontanissime da quella G, sotto la quale ci sono il 95 per cento delle abitazioni italiane. Per le case in questa classe (la più cara , secondo lo studio allegato alla proposta di legge) si spendono in media 2.300 euro all'anno per 150 metri quadri. Mentre il passaggio alla classe A si spenderebbero 200 euro. Un passaggio fatto di materiali naturali, che permettono un risparmio di energia, e di pannelli per produrre energia alternativa. Per quanto riguarda le emissioni di CO2, secondo il testo della legge «passerebbero da 35 Kg per metro quadrato all'anno a 5,8 kg».

I NUMERI La proposta di legge, se non dovessero aumentare i permessi di lavori, di ricostruzioni o nuove concessioni (l'opzione zero, secondo i proponenti) riguarderebbe oltre 746 mila edifici, 15.500 da demolire e ricostruire, 59 mila sarebbero gli edifici che sorgerebbero.

GLI ALBERGHI Le strutture ricettive legate al turismo: «La proposta riguarderà anche il turismo con la riconversione energetica degli alberghi e il relativo incremento di volume», dice Pili, non certo in linea con l'ipotesi di Piano casa della Regione Sardegna.

GOVERNO E REGIONI «Lo Stato ha la responsabilità di legiferare», ha detto ieri Pili, «essenzialmente, per motivi ambientali, comunitari e fiscali». Se il deputato Ghiglia si augura che le Regioni «recepiscano il più possibile questa proposta di legge (il cui viaggio parlamentare sarà agevolato dal grande consenso che ha già ottenuto), Pili ha sottolineato che in materia di paesaggio, sono le Regioni a decidere: «Di volta in volta, si troverà l'intesa». Previsione ottimistica.

Come facilmente prevedibile, è stato rapidamente approvato il disegno di legge n. 64 “anticrisi” in Friuli Venezia Giulia, già commentata su eddyburg.it, che è ora diventato la LR n. 11/2009.

Sostanzialmente invariate sia le norme per lo “sconto” sulle tariffe dovute dalle aziende per i controlli e le istruttorie funzionali al rilascio dell’AIA, sia quelle sull’esenzione dalla procedura VIA per i “piani straordinari di emergenza” approvati con ordinanze del Presidente del Consiglio ai sensi della L. 225/1992, oppure con analoghi provvedimenti regionali. Piani che dovrebbero riguardare interventi di protezione civile, ma che sono già stati utilizzati, negli anni scorsi, per fare tutt’altro.

Le opere “strategiche”

Rispetto al testo iniziale del disegno di legge 64, sono state invece apportate alcune modifiche alla parte (il Capo II) che concerne le cosiddette “opere strategiche”. Modifiche inserite con un emendamento trasversale, sottoscritto anche dai gruppi di opposizione, tant’è che la legge è stata alla fine votata a larga maggioranza, con l’astensione di PD, IdV e Sinistra Arcobaleno e con l’unico voto contrario di un consigliere del PRC (che pure della SA fa parte).

La stesura definitiva del Capo II pone un limite – del tutto teorico – alla validità delle procedure speditive previste nella legge “anticrisi”, vale a dire (art. 6, c. 2) “fino al completamento della riforma urbanistica e all’entrata in vigore del nuovo strumento di pianificazione generale regionale”, il che equivale ad un rinvio alle calende greche. Nessun disegno di legge in materia urbanistica è stato infatti presentato e l’orizzonte temporale indicato dall’assessore competente (Federica Seganti, Lega Nord) per questa riforma e per la predisposizione del nuovo Piano territoriale regionale – che forse non si chiamerà più così – coincide con la fine del 2010…

Entro 120 giorni dall’entrata in vigore della legge, la giunta regionale approva “in via preliminare” (art. 6, c. 3) l’elenco delle opere strategiche e lo sottopone al Consiglio delle autonomie, e alla competente commissione del consiglio regionale, i quali hanno 30 giorni per esprimere il primo un’intesa, la seconda un parere vincolante. La giunta regionale può però “prescindere motivatamente” dall’intesa, mentre se entro 30 giorni non arriva il parere della commissione, si prescinde anche da questo: facile immaginare cosa succederà, in un consiglio regionale dove il centro-destra gode di una solidissima maggioranza. Nella migliore delle ipotesi, tutto si ridurrà ad un mercanteggiamento tra forze politiche ed enti locali, per l’aggiunta – non certo per l’eliminazione! - di qualche ulteriore opera “strategica” rispetto all’elenco predisposto dalla giunta.

Gli atti di pianificazione del “Sistema dei trasporti”, inoltre, prevalgono (art. 7) sui piani regolatori comunali e su tutti i piani di settore regionali, compresi quelli approvati in attuazione di leggi statali: si tratta quindi, tra l’altro, anche dei piani paesaggistici e di quelli per la gestione dei siti di interesse comunitario della rete “Natura 2000”. Se i Comuni non adeguano prontamente i propri strumenti urbanistici alle previsioni del “Sistema dei trasporti”, interviene la Regione in via sostitutiva. Insomma: infrastrutture über alles. Resta ovviamente da vedere se i suddetti atti di pianificazione saranno veramente tali o se – come appare più verosimile – si tratterà di meri elenchi di infrastrutture da realizzare. Del resto, nulla dice la legge in merito alle procedure partecipative e valutative (VAS ecc.) concernenti il “Sistema” suddetto.

D’altro canto, la semplice approvazione del progetto preliminare di un’opera dichiarata “strategica”, costituirà variante automatica al PRGC (art. 7 c. 6) e potrà trattarsi naturalmente anche di tutt’altra cosa rispetto alle infrastrutture previste nel “Sistema dei trasporti”.

Ai Comuni viene invece concesso (art. 7, c. 10) di adeguare i propri piani regolatori alle previsioni dell’intesa Stato - Regione di cui alla L. 443/2001 (cioè la Legge obiettivo), anche “nelle more dell’efficacia degli atti di pianificazione del Sistema dei trasporti”. Intesa che contiene la previsione di varie mega-infrastrutture ad altissimo impatto ambientale, economico e sociale (TAV, autostrada Carnia - Cadore, ecc.): ma in tempi di servilismo generalizzato, perché negare a Sindaci e Consigli comunali la possibilità di acquisire meriti nei confronti della Giunta regionale, e della lobby delle costruzioni, dimostrandosi più realisti del re? Del resto, l’iniziale – ancorché timida - opposizione dell’ANCI al disegno di legge n. 64, è prontamente rientrata dopo le modifiche apportate nel testo definitivo.

Anche altri atti di pianificazione e programmazione regionale di settore (per esempio in materia di rifiuti, di energia, ecc.) possono poi essere scaturigine di opere “strategiche” (art. 8), anch’esse di conseguenza prevalenti sugli strumenti urbanistici comunali, a condizione però che nella formazione di tali piani o programmi di settore sia stata garantita “la partecipazione del pubblico e degli enti locali interessati” (condizione che invece per il “Sistema dei trasporti” non è prevista).

I Comuni potranno infine (art. 9) proporre alla Giunta regionale di dichiarare “strategici”, con le conseguenze del caso, anche interventi puntuali – di qualsiasi genere e natura, quindi anche privati– “che richiedono una tempestiva realizzazione dei lavori qualora non siano utilmente esperibili le procedure ordinarie di legge”.

Il “piano casa”.

Nel frattempo, è in dirittura d’arrivo pure il “piano casa”. Un disegno di legge dovrebbe essere approvato a giorni dalla giunta regionale, per passare poi all’esame del consiglio.

Oltre ad una serie di agevolazioni per piccoli interventi edilizi, l’assessore Seganti ha annunciato che il provvedimento ammetterà aumenti di volumetrie per gli edifici esistenti fino ad un massimo del 20 per cento, ma già il PDL insorge per chiedere il 35 e – perché no? – anche il 40 per cento.

Si annuncia quindi un’aspra battaglia nella maggioranza di centro-destra sull’ammontare della percentuale prevista. Silenzio dalle opposizioni, almeno finora.

Oltre ai soliti rompipalle ambientalisti, sul piano casa anche qualche altro segmento della “società civile” potrebbe forse farsi sentire: in teoria almeno gli urbanisti, il mondo accademico e gli ordini professionali (dopo l’assordante silenzio sull’”anticrisi”). In teoria … in pratica vedremo. Di certo si potrà contare su eddyburg per diffondere l’informazione e la riflessione sull’argomento.

E la crisi?

Ma tutto questo affannarsi per il rilancio dell’edilizia, servirà almeno a superare la famigerata crisi economica, rilanciando la mitica crescita? É lecito dubitarne.

É più probabile che tutto si risolva nel colpo di grazia al territorio di una regione che già da molti anni ha rinunciato al ruolo di avanguardia, in materia urbanistica, ricoperto negli anni ’70 (l’epoca del Piano urbanistico regionale generale, a tutt’oggi non sostituito da alcun altro strumento di pianificazione d’area vasta!). Una regione che sempre più si sta omologando ai peggiori esempi italiani, primo fra tutti il vicino Veneto. Importa qualcosa di ciò alla classe dirigente – non soltanto politica, ma anche economica, culturale, accademica, ecc. – locale? Nulla evidentemente: tanto, quando gli effetti delle scelleratezze odierne diventeranno evidenti a tutti, con colate di cemento ed asfalto in ogni dove, tutti costoro avranno passato la mano ad altri.

Nel sito www.wwf.it/friuliveneziagiulia, sezione “documenti”, il commento delle associazioni ambientaliste sul DDLR 64 “anticrisi”, il cui testo è disponibile nel sito della Regione Friuli Venezia Giulia ( www.regione.fvg.it), sezione “Consiglio”, sottosezione “iter delle leggi”. Nello stesso sito, sezione “leggi” della home page, è disponibile anche il testo della LR 11/2009.

L'articolo 2, comme 1, del Ddl della Regione Veneto a sostegno del settore edilizio recita così: “[…] in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali comunali provinciali e regionali, è consentito l'ampliamento degli edifici esistenti nei limiti del 20 per cento del volume se destinati ad uso residenziale e del 20 per cento della superficie coperta se adibiti ad uso diverso (nostra sottolineatura)”. Unico limite, quello disposto dal comma 2: “L’ampliamento di cui al comma 1 deve essere realizzato in contiguità rispetto al fabbricato esistente; ove ciò risulti materialmente o giuridicamente impossibile potrà essere autorizzata la costruzione di un corpo edilizio separato, di carattere accessorio e pertinenziale”.

Proviamo ad applicare questa regola a uno qualsiasi dei capannoni esistenti nelle migliaia di zone industriali e artigianali del Veneto. Poiché il "non residenziale" comprende tutte le altre destinazioni, sarà permesso realizzare uffici, centri direzionali o alberghi che non necessariamente devono svilupparsi su un solo livello. Perché dunque non andare all'insù? Il limite infatti riguarda la superficie coperta, non l'altezza. 5 piani? 10 piani? e perché non 100 piani? basta avere terreno libero all'intorno dell'edificio originario e la superficie utile si può moltiplicare per 5, per 10, per quanto si vuole. E naturalmente se ne può cambiare l'uso a piacimento perché in nessun punto è stabilito che l'ampliamento debba avere la medesima destinazione del fabbricato originario. Così leggeremo "offresi, in ampliamento di carrozzeria, palazzo di 20 piani da adibire ad albergo o sede di multinazionale".

Proviamo ad applicare la stessa regola ad una azienda agricola. Si prende una stalla, una porcilaia, una tettoia (la legge è vaga su questo) et voilà. Si amplia e si cambia la destinazione d'uso, senza limiti in altezza. Se poi, l'edificio, è costruito prima del 1989 e non è adeguato "agli attuali standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza" (come è molto probabile che sia una porcilaia...) l'ampliamento è del 30% di superficie coperta, oppure del 35% se si fa ricorso all'energia rinnovabili. Per usufruire anche di quest'ultima opportunità, basterà installare un pannello solare (costo: 5.000 euro) e il gioco sarà fatto. La porcilaia si trasformerà a piacimento, potendosi ingrandire in pianta del 35% e in altezza fin dove si riesce....

Peraltro, la succitata disposizione consente di derogare alla fastidiosissima regola della distanza dai confini di zona e, a stare ben attenti, alla non meno fastidiosa regola della conformità alle destinazioni di zona. Tra le conseguenze possibili, mi sembra utile segnalarne una: se la proprietà di chi costruisce si spinge in zona agricola si potrà costruire anche fuori dai limiti stabiliti dai piani, in campagna. 10 metri? 20 metri? Anche in questo caso non è dato saperlo; e come è noto, in dubis pro reo. La legge, inoltre, chiede di adeguare le opere di urbanizzazione ai nuovi ampliamenti, ma non fa capire se anche tali opere possano andare in deroga a tutto. Se così fosse, si potrebbe edificare vicino all'esistente e collocare parcheggi e viabilità negli spazi agricoli retrostanti, senza limiti.

Penso che siano sufficienti questi pochi esempi per dare il senso della devastazione futura. Per quel che mi riguarda, offro consulenza totalmente gratuita a tutti i comuni che vorranno avvalersi della facoltà prevista dal comma 4 dell'articolo 7 di limitare o escludere l'applicazione di questa legge demenziale. Riporto qui di seguito quell’utile comma:

“I comuni, entro il termine perentorio di sessanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, possono escludere l'applicabilità delle norme di cui agli articoli 2 e 3 in relazione a specifici immobili o zone del proprio territorio, sulla base di specifiche valutazioni o ragioni di carattere urbanistico, edilizio, paesaggistico, ambientale, come pure stabilire limiti differenziati in ordine alle possibilità di ampliamento accordate da detti articoli, in relazione alle caratteristiche proprie delle singole”.

(mabaion@tin.it)

Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it

L’articolo di Francesco Indovina è stato diramato dall’associazione Città amica, quelli di Teresa Cannarozzo e di Massimo Carta sono scritti per eddyburg

Francesco Indovina

Università Iuav di Venezia

11 marzo 2009. - Un ritorno alle origini. Il cavaliere Berlusconi in ricordo dei suoi passati di “costruttore” edilizio ha elaborato un suo “piano casa” per rilanciare l’economia. Sogna che accanto al “piano Fanfani” i libri di storia possano ricordare, come di altrettanto successo, il “piano Berlusconi”, ma come tutti i sogni svaniscono all’alba. L’Italia di oggi non è quella degli anni del dopoguerra, inoltre il “piano Fanfani” era anche un piano finanziario per la costruzione di case di edilizia economica e popolare. Insomma tutto un’altra cosa, una cosa talmente diversa che sembra usurpato lo stesso titolo di piano. Non a caso si parla di “liberalizzare l’edilizia”.

Ancora con precisione non si sa bene cosa sia questo, già famoso, piano. Esso sembra formato sostanzialmente da due elementi: semplificazione e deroghe per aumento di cubatura.

Non c’è nessuno che si oppone alla semplificazione delle procedure, ma a condizioni che sotto questa veste non si contrabbandino altri meccanismi. La proposta, per quanto se ne sa, intenderebbe sostituire la “licenza edilizia”, rilasciata dal comune, con il “parere di conformità” da parte di un tecnico che con una perizia giurata dichiara la conformità dell’edificazione alle norme vigenti e al piano regolatore può permettere l’immediato inizio dei lavori. Se ne può discutere sotto condizioni. Per esempio, ma altri potranno esercitarsi, che siano drastiche le penalità per le dichiarazioni “non” conformi, con esclusione del tecnico dall’esercizio della professione per almeno dieci anni; il pagamento di una penale pari al 50% della costruzione che andrà sostenuta per il 25% da parte del tecnico e 25% da parte del proprietario, che va al Comune; la demolizione dell’edificio non in regola e il ripristino dello stato precedente a spese del proprietario. Ma questo non basta, il “parere di conformità”, sebbene giurato, non può darsi per accertato, esso andrà controllato dai tecnici comunali, senza che questo ritardi l’inizio dei lavori, e qualora risultasse non conforme l’obbligo del Comune di bloccare i lavori, senza possibilità di “modificare” il progetto, ma applicando le penali di cui si è detto prima.

La parte consistente del piano del cavaliere è tuttavia quella dell’aumento delle cubature del costruito: aumento del 20%, 30% e 35%, secondo una diversa casistica, per edifici residenziali e commerciali anche in deroga ai piani vigenti. Questa dovrebbe essere la norma che “mette il turbo” nel settore edilizio a costo zero.

Nonostante che l’incremento sia consistente non sono prevedibili i miracolosi risultati che il cavaliere Berlusconi immagina. Intanto, per quanto inventivi possano essere architetti e ingegneri, nei condomini (case a torre) per lo più appartenenti a molti proprietari che ci abitano, sarà difficilissima l’applicazione di questa possibilità. Certo qualcuno immagina di abbattere e ricostruire (la convenienze ci sarebbe) interi condomini, così un edificio di 6 piani diventerebbe un edificio di 8-9 piani, ma non sarà facile né numerosi i casi (proprietà frazionata, difficoltà di sistemazione per gli attuali occupanti, ecc.). Qualche vantaggio possono ottenerlo gli abitanti di case unifamiliari, ma, nonostante il “diffuso” le famiglie che abitano in case unifamiliari non sono un’alta percentuale. Nelle zone di villeggiatura forse ciò avverrà con più frequenza, con risultati dannosi sul piano della vivibilità collettiva, del decoro urbano e della salvaguardia del paesaggio. A questo proposito il cavaliere è molto ligio, ha sostenuto che questi incrementi sono possibili solo per gli edifici in regola anche con i vincoli paesaggistici, ma non è chiaro cosa succede di questi vincoli con l’aumento della cubatura (che sono in deroga). Detto tutto questo va sottolineato che non pare una fase in cui le famiglie sembrano disposte ad effettuare investimenti.

Dove invece la proposta potrà avere applicazione estensiva è nel settore commerciale della grande distribuzione, ipermercati, centri commerciali ecc. e qui il disastro bussa alla porta. Gli incrementi saranno consistenti, si pensi ad uno di questi centri con 3.000 metri quadri che possono crescere di altri 1000 mq. Certo anche per loro non è momento di investimenti, ma la proposta sembra permanente e quindi alla riprese avremo un’esplosione di questi interventi. Non servono oggi a rilanciare l’edilizia, ma domani per dare un ulteriore colpo alla manomissione del territorio.

In sostanza siamo alla demagogia: provvedimenti oggi sostanzialmente inefficaci, quindi inutili a promuovere l’occupazione, buoni in futuro quando ci sarà la ripresa, ma allora non serviranno per l’occupazione, con una deregulation di cui il paese non sente il bisogno.

Sarebbe utile un piano finanziario per la costruzione di case di edilizia economica per una quota di domanda assolutamente non compatibile con gli attuali prezzi di mercato (anche degli affitti). Ma di questo il governo non si occupa, pensa ai proprietari di ville, come dice lo stesso cavaliere Berlusconi.

Oscura appare la proposta del ministro Brunetta, in un articolo di giornale non si può chiarire tutto, ma l’essenziale forse sarebbe necessario, di trasformare l’affitto delle case di edilizia economica e popolare in una rata di mutuo (in sostanza passerebbe alle case a “scomputo”). Una liberalizzazione utile dice il ministro, ma non è chiaro se la rata del mutuo corrisponde perfettamente all’attuale affitto o meno. Nel primo caso, anche se costituisce un impoverimento del patrimonio pubblico e un aumento di rigidità del mercato, si potrebbe esaminare la proposta. Il secondo caso nasconde un’insidia: cosa succede se le famiglie occupanti non possono sostenere la spese per il mutuo? È un’esperienza in parte già fatta, con i patrimoni di alcuni istituti, ed è stata fallimentare e densa di espulsioni e di drammi.

Teresa Cannarozzo

Università di Palermo

21 marzo 2009 - Il 7 marzo 2009 si apprende dai media che il Presidente del Consiglio sta ideando un nuovo Piano Casa che manda in soffitta le previsioni precedenti contenute nella finanziaria del suo governo (l. 133 del 6.08.2008, Art. 11 “Piano Casa”). Berlusconi comunica trionfalmente di avere messo in cantiere un decreto legge che sarà denominato “Misure urgenti per il rilancio dell’economia attraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili”, chiamato in maniera abbastanza impropria “Piano Casa”. Una proposta che tutta l’Europa vuole copiare.

Sono scaturite furiose polemiche ma anche preoccupanti consensi come quello di Nomisma, formulato con una visione economicistica, abbastanza deludente.

Si tratta di una iniziativa deflagrante che, se andrà in porto così come annunciato, seppellirà per sempre i principi e le regole dell’urbanistica che hanno sempre avuto il fine di mediare l’interesse privato e l’interesse pubblico e spegnerà definitivamente la speranza di riqualificare città e aree metropolitane, di salvaguardare il paesaggio, di recuperare i centri storici e le periferie pubbliche: di prevedere in sintesi lo sviluppo sostenibile e la modernizzazione del paese in armonia con l’identità storica e culturale della nazione. Perché in una fase storica in cui perfino gli Stati Uniti sono addivenuti ad aderire a principi di sostenibilità climatica, energetica e ambientale, le idee del Presidente del Consiglio sono ispirate alla deregulation più totale e minano alle fondamenta l’istituto della pianificazione urbanistica che è l’unico in grado di mettere a sistema l’uso delle risorse e le necessità degli insediamenti umani.

Dalla bozza del decreto fin qui pubblicizzata emerge una visione miope, arretrata, privatistica e anarcoide dell’attività edilizia, emerge una assoluta mancanza di considerazione del rapporto tra abitanti, attrezzature, servizi e sistemi insediativi. Infatti uno dei principi cardine della pianificazione urbanistica (Decreto Interministeriale 1444 del 1968) è la regola che ad ogni abitante insediato debba corrispondere uno standard di attrezzature pubbliche: scuole, verde parcheggi, attrezzature comuni. Così come se si impianta o si ingrandisce una attività produttiva (industria o centro commerciale) deve essere prevista una quantità adeguata di parcheggi. Emerge una candida ignoranza di queste regole elementari, che andrebbero applicate per gestire la complessità e l’equilibrio delle strutture territoriali e urbane, ritenute invece aree trasformabili a proprio piacimento.

Il provvedimento, finalizzato a rilanciare l’attività edilizia, propone infatti che, in deroga agli strumenti urbanistici, ognuno possa ampliare il volume della propria abitazione del 20%; nel caso di edifici non residenziali (fabbriche, capannoni industriali, centri commerciali) si prevede invece l’aumento del 20% della superficie. Nel caso di demolizione e ricostruzione gli aumenti di volumetria e di superficie possono arrivare al 35% “a condizione che siano utilizzate tecniche costruttive di bioedilizia o di fonti di energia rinnovabile o di risparmio delle risorse idriche e potabili". Nell’indecenza più totale una foglia di fico in direzione della sostenibilità.

Gli aumenti di volumetria sono stati finora consentiti negli strumenti urbanistici tradizionali, a certe condizioni, perfino in Sicilia. La novità rovinosa e inaccettabile è che tutto questo sia possibile in deroga ai piani regolatori comunali, sulla base di esigenze solo privatistiche, al di fuori da qualunque controllo pubblico.

Infatti la procedura proposta prevede che tali iniziative si attuino attraverso una semplice dichiarazione di inizio di attività inoltrata da un tecnico, senza prevedere, pare, sanzioni per dichiarazioni mendaci.

Lo scenario prevedibile è quello di una crescita di bubboni ed escrescenze verticali e orizzontali, in tutto l’edificato, costituito prevalentemente dagli agglomerati di case unifamiliari (lottizzazioni di ville e villette), spesso costruite a ridosso le une dalle altre, intervallate da spazi liberi di dimensioni minime. L’ingrandimento della abitazione o della fabbrichetta o del centro commerciale potrà piacere ai molti che potranno sostenere i relativi costi, ma potrebbe dispiacere ai vicini e ai confinanti. Per non dire del conseguente sottodimensionamento delle attrezzature di pertinenza, come il verde e i parcheggi.

Per quanto riguarda i condomini, lo scenario è invece quello della chiusura indiscriminata di terrazze e balconi, con i materiali più diversi (tra cui primeggerà l’alluminio anodizzato a basso costo) secondo il modello delle metropoli del terzo mondo. Ma con un po’ di fantasia, che non manca ad alcuni architetti, si potrebbero incastrare anche nei piani alti (come si faceva prima per realizzare servizi igienici e cucine nelle case medioevali) volumi a sbalzo, aggiungere ramificazioni coralline, innalzare selve di torrini. Naturalmente, nel rispetto, autocertificato della stabilità degli edifici.

Per quanto riguarda la demolizione e la ricostruzione con ampliamento, nel caso degli edifici condominiali, l’ipotesi sembra poco praticabile, sia per i costi, sia per la presenza di abitanti che non saprebbero dove andare. Certo, nel caso di edifici residenziali abitati in affitto, la proprietà potrebbe decidere di mandare via gli inquilini e avere mani libere per demolire e ingrandire. La cacciata degli inquilini che già è avvenuta con la vendita del patrimonio residenziale pubblico di proprietà degli enti e che avviene in alcuni centri storici, che presentano processi di valorizzazione immobiliare, aggraverebbe il disagio abitativo delle fasce sociali più deboli.

La bozza del decreto prevede anche la liberalizzazione della modifica della destinazione d’uso degli edifici “nel rispetto della normativa relativa alla stabilità degli edifici e di ogni altra normativa tecnica, nonché delle distanze e delle disposizioni del codice civile e delle leggi speciali a tutela dei diritti dei terzi”. Il mutamento, “in tutto o in parte”, della destinazione d’uso e possibile anche “senza opere edilizie”.

Non è chiaro finora se ci saranno ambiti urbani e territoriali esclusi da questa frenetica attività di intasamento edilizio, come per es. i centri storici o gli edifici vincolati come beni monumentali.

In ultimo, rimane il problema delle cornici legislative appropriate. Il Presidente del Consiglio ha confermato il proposito di procedere con decreto-legge, benché sia ben consapevole che il provvedimento attiene ad una materia, il governo del territorio, indicata dalla riforma del titolo V della Costituzione (2001) come legislazione concorrente tra Stato e Regioni.

Ciò significa che la potestà legislativa dello Stato nella materia del governo del territorio è limitata alla determinazione dei principi fondamentali; principi che avrebbero dovuto essere enunciati in una legge nazionale di riforma organica che si aspetta dal 1942. E francamente non sembra che i contenuti della bozza del decreto legge siano spacciabili per principi fondamentali di interesse nazionale; né sembra appropriata la decretazione di necessità e urgenza. Ma il Presidente del Consiglio troverà sicuramente il modo di superare tutto quello che ostacola i suoi obiettivi. Anche per non deludere l’Europa.

Naturalmente queste proposte dissennate vellicano gli egoismi e gli individualismi largamente diffusi nella nazione, annichiliscono l’interesse pubblico e non danno nessuna risposta al problema sociale del fabbisogno abitativo, che si materializza nei disagi di migliaia di famiglie che non riescono a trovare una casa in affitto a prezzi sostenibili, nelle difficoltà delle giovani coppie in regime di lavoro precario ad accendere un mutuo per l’acquisto della prima casa, etc….

Si tratta insomma di misure a favore di un segmento sociale, economicamente dotato, in grado di migliorare (si fa per dire) la propria condizione abitativa, la propria attività produttiva. Ma certo non si tratta di dare la casa a chi non ce l’ha.

L’Italia avrebbe bisogno di ben altro: innovazione e infrastrutturazione delle città e delle aree metropolitane, reti efficienti di trasporto pubblico su ferro, recupero e riqualificazione dei centri storici e delle periferie pubbliche, tutela attiva del paesaggio e del territorio storico, coesione e integrazione sociale attraverso serie politiche di social housing. Prima di sprofondare nel terzo mondo.

Massimo Carta

Università di Firenze

22 Marzo 2009.- Finalmente possiamo disporre di una bozza di decreto (“Schema di decreto legge recante: Misure urgenti per il rilancio dell’economia attraverso la ripresa delle attività imprenditoriali edili”) sul quale compiere delle considerazioni preliminari, articolandole secondo alcuni aspetti che ci paiono particolarmente preoccupanti della proposta, finche proposta rimane e può essere corretta. Lo schema appare estremamente povero di dettagli, in un campo come quello del governo del territorio, dove la chiarezza e la assoluta limpidezza delle norme è necessaria per impedirne qualsiasi dubbia interpretazione, e per dare ai Comuni la possibilità reale di controllo delle trasformazioni. In più lo schema utilizza retoricamente come novità delle procedure già mature (i premi di volumetria derivati da una edificazione attenta al risparmio energetico, la D.I.A. già diffusa pratica di snellimento dell’iter progettuale ecc.) ingenerando qualche confusione.

Autorevoli voci di singoli architetti e urbanisti hanno ben espresso dubbi sull’eticità stessa della proposta, sottolineando ancora di più il silenzio un poco troppo prudente dei rispettivi ordini professionali; proposta che trasferisce beni comuni (il paesaggio, ad esempio) ai possessori di date proprietà immobiliari al fine di accrescerne il “valore”. Dubbi riferiti alla sua efficacia rispetto agli obiettivi che dichiara, ovvero il rilancio dell’economia, addirittura al fine di “sostenere la domanda interna di beni e servizi”, in un contesto congiunturale estremamente complesso, che solo in una narrazione semplicistica si gioverebbe di un incremento delle volumetrie/superfici edilizie. Perplessità che vanno dalla possibilità che gli strumenti di controllo previsti dallo schema possano realmente funzionare (ad esempio il vaglio di Sovrintendenze sotto organico e oberate di pratiche) al fatto che un provvedimento previsto in un lasso di tempo così definito non porti insita una inevitabile proroga.

Parco di dettagli, lo schema, ma molto chiaro nello scenario che dipinge: io credo che il Presidente del Consiglio abbia intercettato perfettamente un certo tipo di desiderio istintivo del possidente italiano (diciamo per ora piccolo, anche se appare tra le righe la possibilità di buoni affari anche ai grandi operatori immobiliari), il quale sa con certezza ciò che possiede e come aumentarne a breve il valore o le “prestazioni” in relazione alla sua natura e collocazione. In un momento delicato dal punto di vista economico come questo che attraversiamo, il provvedimento, al di là di una affermata “generalizzazione del beneficio”, è estremamente selettivo rispetto ai contesti che potrà interessare. I primi (forse i soli) ad essere stravolti dai cantieri (cantieri “poveri”, presumibilmente, che faranno dell’economia della realizzazione la loro missione, altro che qualità ecocompatibile) saranno quei contesti dove l’aumento di volumetria o superficie potrà massimizzare la resa dell’investimento in un momento in cui la liquidità è molto scarsa. I metri cubi aggiuntivi e in deroga alzeranno i tetti e occuperanno nuovo suolo laddove converrà di più: ad esempio sulle coste della consenziente Sardegna, dove una stanza in più costruita al costo medio di 900, 1000 euro al mq, può fruttare un aumento di valore fino a 3000, 4000 euro al mq. È quello sardo un esempio chiaro di come un bene pubblico complesso come il paesaggio continuerà, se questo schema verrà confermato, ad essere trasferito ai privati già possessori di valore posizionale, aumentando di contro lo svilimento generale della qualità dei servizi e della vita, e diminuendo necessariamente l’attrattività turistica del contesto, erodendo dunque anche le possibilità di future economie virtuose e sostenibili.

Ha ragione a mio parere, infine, chi ha definito questa proposta un condono ex ante: infatti, il ruolo che avranno i Comuni in tutta Italia (entro il 31 dicembre 2001) sarà quello di tentare di redigere dei veri e propri piani di “risanamento” alle azioni di trasformazione già effettuate per allora senza un quadro di riferimento chiaro in forza dei provvedimenti proposti, in una impossibile e perversa missione di inseguimento delle trasformazioni che mortifica i migliori sforzi degli urbanisti e architetti italiani di offrire altre possibilità e altri scenari al nostro territorio già così incredibilmente compromesso.

Deroghe alla veneta

Niente è condivisibile del progetto di legge sul rilancio dell’edilizia in via di approvazione da parte della Regione Veneto. Non i presupposti (l’improvvido annuncio del presidente del consiglio), non le finalità (in apparenza il rilancio dell’edilizia a costo zero per il governo, nella realtà l’ennesima trovata per vellicare gli istinti degli italiani), non i contenuti, per le ragioni che ci accingiamo a spiegare.

Come si ricorderà, ai primi di marzo il premier Berlusconi aveva pubblicamente annunciato l’imminente approvazione di un decreto legge con il quale sarebbe stato consentito a chiunque di ingrandire la propria abitazione, anche in deroga ai piani regolatori. Ne era seguito un breve scontro con le Regioni - più apparente che sostanziale - sfociato in un’intesa unanime, stipulata nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni[[1]], con la quale venivano circoscritte le possibilità di ampliamento in deroga, demandando alle Regioni il compito di approvare celermente apposite leggi ispirate ai principi ivi concordati. La RegioneVeneto si è attivata tra le prime, predisponendo il progetto di legge 398/2009, attualmente all’esame del Consiglio regionale[[2]].

Nella proposta in questione, i limiti definiti nell’intesa Stato-Regioni sono ampiamente superati, poiché la possibilità di interventi in deroga:

- viene estesa agli edifici non residenziali (industriali, direzionali, alberghieri, ricreativi);

può comportare, nel caso di demolizione e ricostruzione, ampliamenti del 30% e - in alcuni casi - al 40% della volumetria esistente o della superficie coperta, senza alcun limite massimo;

- si applica anche ai centri storici e alle aree soggette a tutele definite dalla pianificazione comunale e provinciale e, par di capire, anche agli immobili vincolati ai sensi del Codice dei Beni culturali e del paesaggio (ex l. 1089/1939), nel caso in cui siano ottenute le necessarie autorizzazioni[ [3]];

- elude gli impegni in materia di trasparenza e sicurezza del lavoro, di cui non viene fatto alcun cenno nell’articolato.

Gli ampliamenti sono talmente consistenti e l’ambito di applicazione così esteso che la pianificazione comunale viene sostanzialmente azzerata – sia pure per un periodo di soli (!!!) due anni. Viene a mente il cosiddetto “anno di moratoria” che, prima dell’entrata in vigore della legge 765/1967, consentì di seppellire l’Italia sotto un diluvio di fabbricati.

Principi fondamentali e autonomia dei comuni vengono calpestati

La lettura del testo presentato al consiglio regionale solleva non poche perplessità.

Innanzitutto, sembrerebbe logico considerare i contenuti dell’intesa come equivalenti a quei “principi fondamentali” riservati allo Stato in base al titolo V della Costituzione, a maggior ragione per il fatto che la loro definizione è avvenuta con un accordo unanime con le Regioni. Evidentemente così non è, dato che queste ultime hanno complessivamente agito in modo disarmonico[[4]] e, nel caso del Veneto, hanno ecceduto i limiti concordati senza nemmeno esplicitare le motivazioni.

I Comuni avrebbero più di un motivo per protestare nei confronti dell’ingerenza regionale, non soltanto per l’eccessiva compressione della potestà di pianificare l’uso del territorio. La proposta di legge, infatti, da un lato consente di utilizzare autonomamente le volumetrie aggiuntive, dall’altro scarica sui comuni l’onere di adeguare le urbanizzazioni (dalla viabilità agli spazi pubblici) e per di più sottrae loro le risorse necessarie, poiché prevede un sostanzioso abbattimento dei contributi concessori. Si tenga presente che il carico urbanistico indotto da ampliamenti generalizzati del 20, 30 o 40% può essere ritenuto equivalente all’intero dimensionamento di un piano regolatore[[5]]. In una città come Mestre, in cui sono presenti circa 80.000 alloggi, gli ampliamenti in deroga potrebbero comportare, in via ipotetica, un incremento compreso fra 16.000 e 32.000 alloggi. Se anche una sola frazione delle potenzialità venisse sfruttata nel periodo considerato si produrrebbero comunque alcune migliaia di alloggi. Chi potrà mai assicurare che non saranno violati gli standard urbanistici?

Infine, con una beffarda interpretazione del federalismo, viene attribuita ai comuni la possibilità di escludere o limitare l’applicabilità delle disposizioni di legge. In altre parole, i consigli comunali possono proibire ciò che la regione ha concesso! Debbono però decidere entro sessanta giorni: “decorso inutilmente tale termine è da intendersi che non vi siano ambiti o immobili da escludere” [sic!!!]. Tempi risibili per assumere una decisione scomoda e molto impegnativa, con l’obbligo – a differenza della regione – di motivare le scelte e senza che ai cittadini sia consentito di presentare osservazioni e opposizioni alle decisioni (o mancate decisioni) dei consigli comunali. Si genera in questo modo un’evidente a-simmetria: con una semplice delibera si stabilisce se e come modificare le regole urbanistiche decise con la partecipazione dei cittadini e il concorso di una pluralità di enti.

Un testo con molte ombre

All’articolo 2 si stabilisce che “in deroga alle previsioni [corsivo nostro, ndr] dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali, è consentito l'ampliamento degli edifici esistenti nei limiti del 20 per cento del volume se destinati ad uso residenziale e del 20 per cento della superficie coperta se adibiti ad uso diverso”. Ragionevolmente si deve ritenere che la deroga riguardi esclusivamente i limiti volumetrici e le categorie di intervento, essendo fatte salve tutte le altre indicazioni dei piani. Se così non fosse, e gli interventi potessero prescindere da tutte le previsioni dei piani, assumendo come unici riferimenti la presente legge e il complesso delle disposizioni legislative e regolamentari nazionali e regionali, si produrrebbe una sostanziale anarchia dell’attività edilizia[[6]]. Possiamo sostenere, al di là di ogni dubbio, che sia da escludersi un’interpretazione estensiva?

L’articolo 3 prevede prevede – in alternativa – la facoltà di demolire e ricostruire gli edifici esistenti, mediante una “ricomposizione planivolumetrica con forme architettoniche diverse da quelle esistenti comportanti la modifica dell’area di sedime nonché delle sagome degli edifici originari”. Gli interventi possono essere effettuati anche “su area diversa rispetto al lotto su cui insiste l’originario sedime purchè avente la medesima classificazione di zona”. Stando alla lettera, non è escluso che il trasferimento possa avvenire in un’altra parte del comune: sarà consentito demolire a Mestre e ricostruire al Lido, purché in aree aventi la medesima classificazione? Peraltro, che destinazione avrà il terreno su cui insisteva l’edificio demolito e ricostruito altrove? Tornerà ad essere edificabile in base al PRG vigente, con massimo giubilo del proprietario, o diventerà “inedificabile per legge”? Nulla è detto al riguardo.

Se non lo impediranno i comuni o i vincoli architettonici, i centri storici potranno essere interessati sia dagli ampliamenti, sia dalle demolizioni e ricostruzioni. Ogni spazio libero potrà quindi ospitare volumi, in aggiunta all’esistente o a seguito di demolizione e ricostruzione di edifici. La ricomposizione planimetrica potrà anche comportare la trasformazione di annessi e manufatti fatiscenti in edifici abitativi di nuova realizzazione? Il testo della legge è molto reticente al riguardo.

Inoltre, come si applicherà una norma siffatta in ambiti disciplinati da piani attuativi vigenti (peraltro, stravolgendone l’assetto planivolumetrico e incrementandone il carico urbanistico)? E in ambiti disciplinati da piani attuativi da formare (tipicamente, un edificio dismesso del quale il PRG ammette il cambio d’uso)? Ragionevolmente, gli interventi in deroga dovrebbero essere esclusi, o tutt’al più vincolati al mantenimento dell’uso in atto, essendo ogni modifica subordinata al piano attuativo. Ma siamo certi che sia così?

Quanto alle zone agricole, poiché per legge sono i piani regolatori a disciplinare l’uso degli edifici non più utilizzati a fini agricoli, come si combinerà la disciplina di piano con le possibilità di ampiamento, demolizione e ricostruzione, trasferimento di volumetria? Si potranno demolire abitazioni, stalle e fienili, trasferendoli ove più aggrada al proprietario dei terreni? Si potrà intervenire allo stesso modo sugli edifici non residenziali (carrozzerie, officine, attività artigianali e commerciali) che già abbondano nelle martoriate campagne della pianura e dei fondovalle, spostandoli e ampliandoli secondo le esigenze dei singoli proprietari? Ragionevolmente, gli interventi in deroga non dovrebbero dar luogo a edifici con diversa destinazione, ma siamo certi che sarà così? Oppure assisteremo ad ulteriori riconversioni del patrimonio edilizio esistente, incrementando la dispersione degli insediamenti?

Infine, la legge prevede che la percentuale di ampliamento “può essere elevata fino al 40 per cento in caso di utilizzo delle tecniche costruttive di cui alla legge regionale 9 marzo 2007, n. 4 o che prevedano [chi è il soggetto? Ndr] l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile”. Prescindendo dalla sintassi perfettibile, l’installazione di un pannello solare sembra essere sufficiente per usufruire di un ulteriore bonus volumetrico. Se così fosse, si tratterebbe di un incentivo al risparmio economico, non a quello energetico: chi sarebbe invogliato ad adottare le migliori tecnologie costruttive di bioedilizia, potendo godere dei medesimi benefici di legge con la minima spesa?

Per concludere.

La riqualificazione della città esistente è probabilmente la sfida più impegnativa e urgente per una nazione come l’Italia nella quale una crescita edilizia tanto intensa quanto disordinata è stata favorita per decenni a dispetto della vulnerabilità del territorio e nell’indifferenza (o in spregio) delle sue qualità paesaggistiche. Intervenire sulle parti della città costruite in fretta e male, prive di qualità architettoniche, tecnologiche e di sicurezza e scarsamente vivibili per i cittadini più deboli, è un’ovvia necessità. Anche la riconversione del settore edilizio (non il suo rilancio!) è un obiettivo condivisibile, non soltanto per ragioni meramente economiche, ma anche per chi ha a cuore la promozione della cultura del lavoro, dei diritti, del progresso tecnologico. Ma si tratta di compiti impegnativi che non possono essere affidati ad una miriade di iniziative spontanee, in deroga alle regole, con l’incentivo a fare presto e purchessia. [7]

Non secondariamente, il complesso di piani e politiche urbane necessarie per riqualificare le città dovrebbe essere concepito come un’alternativa all’ulteriore espansione delle aree urbane, impedendo con forza ogni ulteriore edificazione nel territorio agricolo. Nulla di tutto ciò è all’orizzonte in Veneto: il piano territoriale regionale sollecita la realizzazione di consistenti espansioni produttive, ricreative e commerciali lungo l’intera rete autostradale e la legge di cui parliamo incentiva la liberalizzazione degli interventi diffusi, consolidando il caos di case e capannoni e aprendo ulteriori falle nel sistema della pianificazione, già farraginoso di suo. Qualche proprietario ne trarrà vantaggio. Certamente ne approfitteranno i costruttori più intraprendenti. Ma, per l’ennesima volta, la collettività e l’ambiente ne subiranno i danni.

Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it

[1] Intesa, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, tra Stato, Regioni e gli enti locali, sull'atto concernente misure per il rilancio dell'economia attraverso l'attivita' edilizia. (Repertorio atti n. 21/CU del 1 aprile 2009). Pubblicata sulla G.U. n. 98 del 29 aprile 2009. Per un commento, si veda la postilla di Edoardo Salzano, in http://eddyburg.it/article/articleview/12943/0/356/

[2] Disegno di legge di iniziativa della Giunta regionale in ordine a: “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per promuovere le tecniche di bioedilizia e l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile”. Licenziato il 21 aprile 2009 nella seduta n. 121

[3] Sul punto, cfr. Matteo Ceruti, Provvedimenti legislativi di rilancio del settore edilizio: il disegno di legge della Regione Veneto, http://www.verdiveneto.it/IMG/rtf/ceruti.rtf.

[4] Si veda l’articolo di Luisa Grion e Paola Coppola, pubblicato su La Repubblica del 1 giugno scorso e ripreso in eddyburg.it.

[5] In nessun punto viene impedito di frazionare e utilizzare autonomamente le volumetrie aggiuntive.

[6] Sul punto, vedi M. Baioni, Manhattan sparpagliata, in eddyburg.it.

[7] Su questo punto si veda il sito dell’associazione AUDIS di Venezia (www.audis.it) che da anni si impegna promuovere la diffusione di una cultura della riqualificazione urbana.

Ci hanno raccontato della furia del terremoto e non ci hanno spiegato che l'Abruzzo, come una parte consistente del Paese, soprattutto nel centro-sud, è seduto su un letto di cemento impastato con sabbia di mare. Imbracato da un'anima di ferro che il sale di quella sabbia si è mangiato con il tempo, rendendolo sottile e fragile come uno stuzzicadenti.

Un portavoce di "Impregilo" (già gruppo Fiat e oggi gruppo Benetton-Gavio-Ligresti) ha spiegato ieri che quella che è oggi tra le principali imprese di costruzione del Paese (è capofila per la costruzione per il ponte sullo stretto di Messina) si aggiudicò è vero nel 1991 la gara per la messa in funzione dell'ospedale San Salvatore dell'Aquila, ma è "estranea alla realizzazione delle opere di cemento armato". Che non fu lei, ma "altri, nei primi anni '80", ad impastare il calcestruzzo di quello che, dall'alba di lunedì, è il simbolo accartocciato della vergogna. Ma, evidentemente, c'è di più del San Salvatore nella catastrofe abruzzese. Racconta oggi Paolo Clemente, ingegnere della task force Enea-Protezione civile al lavoro tra le macerie dell'Aquila, che gli edifici di nuova costruzione - e per "nuova" è da intendersi fino a trent'anni - sono implosi tutti allo stesso modo. Si sono prima "seduti" sulle proprie fondamenta per poi accartocciarsi al suolo sotto il proprio peso. Di più. "Per quello che è stato sin qui possibile vedere attraverso la ricognizione tra le macerie - spiega - il collasso dei piani bassi è stato prodotto dallo schianto dei pilastri in cemento".

Perché? Paolo Buzzetti, presidente dell'Associazione nazionale costruttori edili (Ance), è persona seria. E la mette così. "Se parliamo di sollecitazioni di grado e accelerazione pari a quelle registrate all'Aquila, il cemento armato, se fatto a regola d'arte, deve reggere. Non si discute". Dunque, non è neppure un problema di rispetto di norme antisismiche. È un problema di cemento. Paolo Clemente è d'accordo. "Purtroppo è così - dice - Quel cemento non era di qualità". Incapace di assorbire e disperdere energia, si è sfarinato come pasta frolla non appena investito da una forza di accelerazione che - spiegano gli addetti - è stata, domenica notte, tutt'altro che irresistibile. "Un buon cemento - dice l'ingegnere Alessandro Martelli, responsabile della sezione Prevenzione Rischi Naturali dell'Enea, professore di Scienza delle costruzioni in zona sismica all'università di Ferrara - deve essere in grado di sostenere un carico che oscilli almeno tra i 250 e i 300 chilogrammi per centimetro quadrato. Questa è la regola che dovrebbe valere anche per edifici non proprio recenti. Diciamo dal '70 in poi".

Non è sempre così. Anzi, molto spesso non è così. Qualche nome. Qualche luogo. Nel 2003, dopo il terremoto che nell'anno precedente ha devastato Molise, diverse regioni e comuni italiani sottopongono a verifiche statiche gli edifici scolastici. In Molise, il cemento del liceo "Romita" di Campobasso non regge più di 46 chilogrammi per centimetro quadrato (è sei volte sotto la norma). In Sicilia, a Collesano, nell'entroterra di Cefalù, i pilastri della scuola superiore non vanno oltre i 68 chilogrammi per centimetro quadrato. L'asilo, i 12 chilogrammi per centimetro quadro. Il cemento - ricorda oggi chi condusse l'ispezione - si bucava con la semplice pressione dell'indice. Ciò che restava della sua anima di ferro era uno sfilaccio rugginoso e corroso.Cosa aveva messo in quel cemento chi aveva giocato con le impastatrici e le vite degli altri? E cosa hanno messo in questi anni nel cemento delle nostre case, delle nostre scuole, dei nostri uffici? E quanto ci hanno guadagnato?

Paolo Clemente risponde da ingegnere, con la rassegnazione di chi, purtroppo, sembra sveli un segreto di Pulcinella. "Normalmente, i cattivi costruttori utilizzano sabbia di mare. Costa niente, rispetto alla sabbia da cava. Il problema è che, oltre alle molte impurità, è piena di cloruro di sodio. E quei cloruri, con il tempo, si mangiano il ferro. I margini di guadagno sono alti. Diciamo che fatto 100 il costo della costruzione, chi gioca con la qualità del cemento arriva a guadagnare fino a 50, 60. Chi costruisce a regola d'arte è al 30".

Paolo Buzzetti, mercoledì sarà all'Aquila con una propria commissione tecnica dell'Ance. L'associazione, oltre ad essersi offerta per la ricostruzione della Casa dello Studente, promette un'accelerazione: "Io non amo i processi sommari. Ma deve essere chiaro che non vogliamo difendere tutti. Che chi ha sbagliato, pagherà. Perché per questi signori non c'è spazio nell'Associazione. Chiederemo che venga reintrodotta una figura di controllo che accompagni la costruzione di un edificio dall'inizio alla fine. Evitando che i subappalti, da strumento necessario di duttilità, diventino il ricettacolo di furbizie e illegalità. Ma ci batteremo anche perché il Paese esca dalla logica del ribasso. Quella che spinge molti, pur di stare nel mercato, a costruire a prezzi impossibili. Ad abdicare alla qualità e alla sicurezza".

Successa la tragedia, si corre ai ripari. Con imperdonabile ritardo. Un vizio che ben conosciamo. E che in questo caso riguarda tutti i governi, di centrosinistra e di centrodestra. Le Ntc, esistono dal 2005, ma finora, almeno per gli edifici privati, non c’è l’obbligo di applicarle, perché la loro entrata in vigore è stata di anno in anno puntualmente prorogata. L’ultimo rinvio poco più di un mese fa, manco a dirlo col solito decreto «milleproroghe», lo stesso usato da Prodi nel 2007. Ogni volta i governi di turno hanno ceduto alle pressioni delle lobby dei costruttori e degli ingegneri, che chiedevano più tempo per adeguarsi alle novità e temevano l’aumento dei costi. E così, ancora oggi, tutte le abitazioni private possono essere costruite ignorando le regole più stringenti introdotte in maniera organica nel 2005 e aggiornate nel 2008 per garantire la durata e la resistenza degli edifici ai terremoti e alle altre catastrofi naturali.

Ma ora, dopo il sisma in Abruzzo, la politica si è pentita e l’altro ieri nella commissione Ambiente della Camera è stata approvata col voto di tutti, maggioranza e opposizione, una mozione che impegna il governo ad annullare l’ultima proroga, quella del 27 febbraio scorso, che posticipava l’entrata in vigore delle Ntc dal 30 giugno 2009 al 30 giugno 2010. Impegno che l’esecutivo rispetterà, probabilmente col decreto legge del «piano casa». E pensare che quando si profilava l’ultima proroga non erano mancati gli avvertimenti al governo. L’Atecap, l’associazione delle imprese del calcestruzzo più qualificate (quelle che garantiscono un prodotto certificato secondo le Ntc), aveva scritto al presidente del Consiglio, ai ministri delle Infrastrutture e dello Sviluppo, al capo della Protezione civile, al presiden­te del Consiglio superiore dei lavori pubblici e a tutti i gruppi parlamentari. Il continuo regime di proroga, si legge nella lettera del 23 febbraio, «costituisce un forte disincentivo ad applicare comportamenti e a fare investimenti in grado di garantire maggiore qualità in termini di durabilità e di sicurezza delle opere». Quindi concludeva con una domanda: «Perché rinunciare a livelli di sicurezza maggiori rispetto al passato?».

Una domanda che, a ben vedere, si trascina dal 2001, quando nel testo unico di edilizia si disponeva la successiva emanazione di specifiche tecniche per le costruzioni in zone sismiche. Erano passati 21 anni dal terremoto in Irpinia, 9 dall’alluvione in Valtellina, 3 dalla frana di Sarno. Le specifiche arrivarono solo nel 2003, ma la loro applicazione fu rinviata più volte fino al 2005, quando furono approvate le Norme tecniche per le costruzioni. Una disciplina organica che imponeva l’obbligo della certificazione di qualità per i materiali utilizzati nella costruzione. Priorità dettata dalla tragedia del 31 ottobre 2002, quando, per un terremoto neppure tanto forte, a San Giuliano di Puglia la scuola elementare si sbriciolò uccidendo 27 bambini e una maestra. Ma neppure questa volta le norme furono applicate, a causa di due proroghe. Finché si arriva al testo del 2008 e, almeno in parte, le nuove regole, che si adeguano con grave ritardo agli standard europei, cominciano finalmente a entrare in vigore. In particolare, per gli edifici di «interesse strategico», per esempio scuole, ospedali ed edifici pubblici in genere, c’è l’obbligo di utilizzare il calcestruzzo certificato. Per le costruzioni private, invece, se ne può fare a meno grazie appunto alle proroghe: si risparmia forse, ma le case non sono sicure.

Insieme agli edifici dell'Aquila la cosa più fragile, in Italia, è la memoria. Sembra quasi che i terremoti non siano un genere di catastrofe con la quale conviviamo da millenni. Soprattutto la mia generazione, ormai classe dirigente, sembra dimenticare di essere cresciuta guardando in televisione sobrie immagini in bianco e nero dei terremoti nel Belice, ad Ancona e a Tuscania, in Friuli. E poi l'Irpinia e l'Appennino umbro-marchigiano.

Ogni volta abbiamo guardato con stupore le macerie, abbiamo pianto morti, abbiamo assistito alle discussioni sulla «ricostruzione» e in alcuni casi alle successive polemiche sul cattivo uso dei fondi e su «famiglie che dopo quindici anni ancora abitano nei container». Chi poi come me è anche architetto sa bene che tecniche e normative si sono evolute e hanno cominciato a offrire, a chi voglia usarli, da un lato difese e protezioni abbastanza efficienti contro la violenza dei terremoti, dall'altro programmi e schemi di comportamento molto efficaci per impostare la ricostruzione.

Dal Friuli in poi il progresso tecnico-scientifico e la buona volontà amministrativa hanno permesso di rendere sempre più efficienti i meccanismi di prevenzione e i modi di reazione fino a un caso di ricostruzione davvero virtuosa come quella umbromarchigiana del terremoto del 1997, anche in quell'occasione caratterizzato da danni enormi al patrimonio storico-artistico e a quello edilizio. Per tutta questa serie di notizie, che i politici italiani dovrebbero conoscere bene, l'uscita del premier sulle «new town» è sembrata una di quelle da non prendere troppo sul serio, destinata a eccitare la fantasia e il fuoco di fila dei «commenti degli esperti» sui giornali piuttosto che a muovere azioni politiche e amministrative concrete.

Dati per scontati gli argomenti a favore del metodo «Aquila 2» - costa meno, si può fare più antisismica e magari più ecologica, produce occupazione e offre un'occasione di lavoro semplice e redditizia all'industria delle costruzioni - non ci vuole molto a mettere in luce le controindicazioni più pesanti: la perdita di memoria delle comunità, un territorio progressivamente popolato di città-fantasma, l'occupazione progressiva del poco suolo ancora disponibile, la distruzione di una delle ultime risorse - il turismo ambientale - che tengono in vita questo territorio.

Basta andarsi a fare un giro a Gibellina Nuova - la miglior «new town» post-sisma d'Italia costruita dal sindaco più illuminato e progressista con gli architetti più bravi e politicamente impegnati - per misurare la difficoltà di impiantare «a freddo» una comunità urbana. La città ha ancora un aspetto vagamente fantasmatico e tutti ci vanno solo per poter vedere l'indimenticabile opera di Burri, il «cretto» di cemento che imprigiona le rovine del vecchio paese. Quindi, visto che Burri non c'è più e che non possiamo pensare di riscattare centinaia di paesi abbandonati con altrettante opere di land-art, l'idea delle new-town rimane una trovata sensazionalistica e poco praticabile, se non per frammenti edilizi, addizioni specifiche che andranno a sostituire quelle costruzioni che davvero non vale la pena o non è il caso di ricostruire, all'interno di un progetto complessivo.

Brasilia e Chandighar in tutta questa discussione non c'entrano niente, sono città/opere d'arte, centri politici e amministrativi inventati a tavolino e realizzati dai maestri nel pieno dell'illusione eroica del modernismo, alimentati dal fatto di essere «nuove capitali» di giovani democrazie. L'Italia, come altri paesi, ha ricostruito se stessa centinaia di volte sulle proprie rovine, e l'impressione è che la sua identità profonda sia più in questa sua capacità di rigenerarsi e stratificare piuttosto che nel ricominciare ogni volta daccapo.

A prescindere da come si ricostruirà, l'aspetto più eclatante del sisma aquilano è certamente nel numero eccessivo di edifici recenti - costruzioni «antisismiche» in cemento armato - o recentemente restaurati che sono crollati all'istante, senza garantire nessuno di quei «rallentamenti» e «attenuazioni» del fenomeno che salvano in genere gli abitanti dai terremoti. Questa sì che è una notizia grave, soprattutto se messa insieme ad altre. Come quella che solo due anni fa l'area è stata inserita nelle zone di rischio sismico di primo grado (!), come il fatto che la normativa sismica in Italia, appena aggiornata, è rigorosa e adeguata e quindi chiaramente, in questo caso, non rispettata, come la costatazione, che non può non far pensare molto male, che tra gli edifici recenti che hanno reagito male ci sono alcuni edifici pubblici, il che vuol dire gare, appalti, ribassi eccetera.

L'Italia in passato ha fatto il gravissimo errore di separare, come fossero il bene e il male, la cultura della conservazione dell'antico da quella della progettazione del nuovo. Le conseguenze sono state gravissime: la conservazione è diventata immobilismo testardo e ottuso, il nuovo è diventato «brutto», casuale, non progettato, abbandonato a figure professionali inadeguate a un mercato spietato e impermeabile alle leggi. Per l'ennesima volta la fragilità con la quale il nostro territorio reagisce alle catastrofi naturali ci mette davanti a questo problema. Non è chiaro, dalle prime reazioni, se la risposta andrà a incidere su questa cultura e saprà trarre vantaggio dalle esperienze precedenti o se ci si limiterà a risarcire le comunità «dando aiuti» e incentivando l'industria edilizia.

Tremendo sarebbe costruire una New L’Aquila. Si distruggerebbe per sempre la sua memoria e l’eventuale ripristino dei suoi monumenti sarebbe del tutto inutile. Privati del loro ambiente diventerebbero vuoti simulacri in mezzo alle rovine. L’Aquila, al pari degli altri centri terremotati, deve essere ricostruita fedelmente, con criteri giusti, antisismici. Cercando di mantenere il più possibile le murature esistenti, rafforzandole con trefoli in ferro o altri sistemi tecnici non invasivi. Si utilizzi l’artigianato e non le imprese di prefabbricati cementizi. Non si dimentichi che è inagibile il nuovo ospedale inaugurato pochi anni fa e sono crollati lo studentato e altri edifici moderni, con struttura in cemento armato.

Le new towns non sono un modello di ricostruzione. Si faccia il confronto fra "nuova" Coventry e la piazza di Varsavia ricostruita con l’orgoglio di riconquistare la memoria del passato. La prima è diventata omologa ad altri moderni aggregati urbani, mentre la seconda è ritornata ad esser una piazza di città. In Italia c’è la nuova e, si fa per dire, modernissima Gibellina in Sicilia e Gemona e Venzone in Friuli, tutte distrutte dai terremoti. In Friuli la ricostruzione fedele è un modello. Ha gratificato gli abitanti e ha mitigato il dolore delle perdite perché ha ristabilito l’identità dei luoghi e ha rilanciato le attività economiche. L’artigiano ha dimostrato di rappresentare una risorsa troppo presto abbandonata in nome di un’industria che non ha saputo reggere l’urto della globalizzazione.

A Gibellina il concorso di grandi artisti, di insigni maestri dell’architettura moderna ha provocato lacerazioni, violente polemiche e un risultato tutt’altro che condiviso. La vecchia città, lontana 20 chilometri dalla nuova - pur abbandonata a se stessa - per quanto insieme di ruderi fra sterpaglie, è meno desolante della nuova. Forse per il Friuli l’esempio di Longarone ha insegnato che il nuovo non restituisce l’identità perduta.

Il terremoto non deve esser l’occasione per distruggere altro territorio non urbanizzato. Aggiungendo danno alla catastrofe. Al contrario, può offrire la possibilità di ripensare l’assetto urbano e territoriale che a L’Aquila, come altrove, è caratterizzato dal consumo progressivo dell’ambiente circostante. Non c’è bisogno di una nuova città. La documentazione esistente, la sapienza del lavoro artigianale, le stesse tecniche tradizionali adeguate per impedire il rischio sismico, offrono tutte le garanzie per ripristinare, pietra su pietra, strada per strada, luogo pubblico per luogo pubblico, il fascino di una città storica che nello scenario del Gran Sasso è – e potrà tornare a essere - una fra le più suggestive del nostro straordinario Paese.

Non è il tempo per realizzare new towns. Dopo il fascismo, ahimè, non siamo più riusciti a farle. Abbiamo abbandonato o stravolto quelle vecchie nei centri storici e abbiamo consumato territorio costruendo solo periferie. Migliaia e migliaia di ettari di periferia. Il furore costruttivo può essere più dannoso di quello distruttivo del terremoto. Dal primo Paese che eravamo per presenza turistica siamo oggi al quinto. Cerchiamo di non scendere ancora. E si ricordi: senza memoria non si costruisce il presente e tanto meno il futuro. Ripristiniamo i centri storici aquilani, magari con l’aiuto di tutti, per dimostrare a tutti che il nostro Paese ha ancora un avvenire, in quanto capace di mantenere il suo patrimonio storico e artistico, conservando o ripristinando i suoi insediamenti storici, senza alterare ulteriormente un territorio/paesaggio/ambiente, unico al mondo.

Ricostruire o costruire. Restaurare o cercare aree per nuovi insediamenti. Il dramma de L´Aquila e dei paesi abruzzesi interroga architetti e urbanisti. È come tornare alle radici del mestiere. Nella disgrazia, però, molti segnalano che l´Italia non parte da zero quanto a riflessioni e competenze, per esempio, sul risanamento di centri storici. Anzi, questo è uno dei settori in cui c´è sentore d´eccellenza, almeno dal punto di vista culturale.

Competenze alimentate dalle esperienze, intanto. Quelle generalmente considerate positive - Friuli (1976) e Marche e Umbria (1997). Ma anche quelle negative - Sicilia (1968) e Campania e Basilicata (1980) - quando terribili terremoti hanno prodotto soluzioni devastanti al punto da essere bollate come "un secondo terremoto". A Napoli, però (170 mila sfollati, 7 mila edifici inagibili, 170 strade chiuse), si tentò di combinare i due sistemi - risanamento e nuove edificazioni. Venne avviato il restauro del centro storico cittadino e il concetto di centro storico fu esteso ai quartieri popolari di San Giovanni a Teduccio, Barra e San Pietro a Patierno, dove vennero ristrutturati casali e altri edifici. Poi si costruirono tredicimila alloggi in aree che il Comune fece espropriare. Artefice dell´esperimento fu Vezio De Lucia: «Ereditavamo una riflessione culturale che risaliva agli anni Sessanta, alla cosiddetta Carta di Gubbio, che considerava i centri storici non solo un concentrato di monumenti, ma un tessuto urbano da tutelare nel suo complesso».

Il centro storico venne considerato il nucleo dal quale si era sviluppata in genere la città italiana. Furono messe a punto tecniche di recupero straordinariamente avanzate. La principale delle quali è l´analisi tipologica: Saverio Muratori e poi Gianfranco Caniggia e Paolo Maretto individuarono un numero limitato di tecniche costruttive standard che potevano essere riprodotte sistematicamente (larghezza delle travi, distanza fra i muri portanti, ecc.). Il primo esperimento di restauro di una parte di centro storico risale al 1972. Fu Pier Luigi Cervellati ad attuarlo a Bologna. «Quelle competenze sono il grande vanto che l´urbanistica italiana può esibire in Europa e nel mondo», insiste De Lucia, «e tornano utili in situazioni drammatiche come quella abruzzese». Tecniche analoghe vennero praticate a Gemona, in Friuli, e a Sant´Angelo de´ Lombardi, in Irpinia. E a Napoli. Laddove invece i centri storici sono stati o parzialmente o del tutto abbandonati per edificare nuovi insediamenti, i risultati sono sconvolgenti, come in quei paesi campani (Laviano, per esempio), che sfoggiano abitati informi, slabbrati, senza un centro.

Per Franco Purini, architetto e professore a Roma, «il recupero di un centro antico distrutto va attuato con metodo filologico, ma nuovi quartieri sono indispensabili». Nuovi quartieri, non nuove città. «È proprio l´antico che ce lo chiede», spiega, «perché il patrimonio edilizio del passato può non andare bene per le esigenze di sostenibilità e di sicurezza. Nuovi quartieri che però creino spazi pubblici e agevolino il formarsi di comunità». Lo spettro, invece, di insediamenti senza qualità è evocato da Guido Martinotti, sociologo urbano: «Riferirsi alle new towns è del tutto infelice. L´esperienza inglese è completamente diversa, ma ci sono voluti decenni prima che molte di esse diventassero vivibili. Centri storici come quelli abruzzesi hanno valore non solo per gli aspetti fisici, ma perché offrono un invidiabile senso comunitario».

«Una soluzione buona in assoluto non esiste», interviene Italo Insolera, fra i decani dell´urbanistica italiana. «Le esperienze migliori sono avvenute usando il lanternino». Tendenzialmente la strada maestra indicata da Insolera è quella di ricostruire un centro storico "com´era, dov´era". «Le città non si possono buttare via e rifare, sono il punto in cui convergono tante funzioni - la residenza, il lavoro, gli uffici - che non si inventano. Più che alle new towns inglesi io guarderei ai quartieri Ina-Casa, realizzati in Italia dal 1949 al 1963».

Recupero dell´antico o costruzione del nuovo? «È una falsa dialettica», sintetizza l´architetto Paolo Desideri. «Spero che nessuno immagini una costruzione ex novo come alternativa al recupero del centro storico. Il disastro di un terremoto è l´occasione inesorabile per sperimentare il moderno nel centro storico. Altro che new towns». A possibili trasformazioni pensa anche l´urbanista Paolo Berdini. Ma non d´architettura: «Le distruzioni di un terremoto possono consentire di eliminare dai centri storici le alterazioni compiute negli ultimi decenni, che comunque sono le prime ad essere crollate a L´Aquila. E anche di localizzare altrove alcune funzioni che lo soffocano, i tribunali, le prefetture, le università».

Costruire una new town all’Aquila, in tempi rapidi per dare una casa agli sfollati. Una città nuova, altrove, distante dalle strade dove sono crollati i palazzi, dove la gente ha vissuto, dove ha ricordi e radici. Lancia l’idea il premier Berlusconi, memore forse della «sua» Milano2, con un occhio alle new town inglesi, alle città satellite parigine. Ma l’idea non piace agli addetti ai lavori, dall’architetto Fuksas all’urbanista Gregotti. Dubbiosi anche psicologi e sociologi, capaci di leggere la trama delle esistenze urbane ricordando la storia recente che racconta di banlieu francesi diventate da sogno di città giardino a sobborghi in fiamme, come sottolinea il sociologo Duccio Scatolero che paventa proprio il rischio di nuovi ghetti. Lontani dalle città ideali immaginate nel Rinascimento e segnate oggi da edifici di scarso valore architettonico, un mondo a parte. Semplicemente un’altra periferia.

Perché qui non si crea dal nulla, come è stato per la capitale Brasilia. «Qui c’è una città con una lunga storia. Vedo difficile abbandonare, lasciare i ruderi come se fossero le rovine di Paestum e rifare tutto altrove. Anche perché le new town erano nate per altri motivi: decongestionare Londra o riorganizzare la periferia parigina», commenta Vittorio Gregotti. Un sogno comunque fallito secondo Massimiliano Fuksas. «Oggi nessuno le fa più perché non hanno dato risultati positivi, si è cercato di riprodurre l’effetto città senza successo: non sono campagna, non sono città».

Media Giuseppe Roma, architetto direttore del Censis che ricorda come ci provò De Gasperi a fare un nuovo quartiere per gli abitanti degli insalubri Sassi di Matera. «Ma la gente si ritrovò persa nel nuovo centro: troppo asettico, mancava la vita comune». Così propone di ristrutturare parte del centro all’Aquila - «perché in una città le radici sono tutto» - e costruire quartieri nuovi ma «con edifici di alto livello e qualità, non palazzoni popolari tutti uguali. E soprattutto sentendo la gente perché non sia un progetto calato dall’alto».

Parole confermate dall’esperienza di Fabio Oblach, architetto impegnato in Friuli dopo il sisma. «La gente venne coinvolta in assemblee durante le quali ragionò coi tecnici sulla riedificazione. E fondamentale fu la conservazione della memoria: se le case furono costruite un determinato posto c’è una ragione», dice contrario allo spostamento dei terremotati d’Abruzzo nella new town. Uno spostamento dai luoghi in cui la gente è cresciuta che può provocare una perdita di sicurezza, di identità ed equilibrio, secondo lo psichiatra Francesco Cro. Ma che può in alcuni casi lenire il dolore di chi non reggerebbe a continuare a vivere nei quartieri dove ha visto morire figli, amici, genitori.

Chi ha letto il racconto di Gateano Salvemini, che si salvò dal terremoto di Messina appeso a un davanzale, sa che dai sismi e dalle loro tragedie si possono trarre motivi per potenziare la ricerca, l’attività e la strategia anche intellettuale di un popolo. Pure Benedetto Croce perse i genitori in un terremoto e ne trasse un carattere italiano di grande equilibrio, di prudenza e di stabilità. Insomma i terremoti fanno purtroppo parte della storia del nostro paese e del paesaggio delle nostre anime, magari nascosti negli anfratti del carattere nazionale. Non sono emergenze, sono violenze naturali antiche che si affiancano alle violenze sociali, alle mafie, al brigantaggio, alla corruzione.

E però in Italia la magistratura ha giustamente avuto una grande attenzione vero il fenomeni della mafia e della corruzione: abbiamo dedicato seminari, libri, studi, campagne politiche e morali e sono nati persino dei partiti antimafia e anticorruzione. Ebbene, sarebbe ora che l’Italia si dotasse di una squadra di moralisti antisismici, di legislatori antisismici, di un pool di pubblici ministeri che mettano a soqquadro i catasti, gli assessorati all’urbanistica, le sovrintendenze, gli uffici tecnici, i cantieri. Non è possibile che ad ogni terremoto il mondo scopra stupefatto che l’Italia, l’amatissima Italia, è un Paese senza manutenzione.

A leggere i giornali internazionali di questi giorni si capisce subito che un terremoto in Italia non ha lo stesso effetto di un terremoto in Giappone. Anche quando non vengono colpite le città d’arte, come Firenze o Perugia, l’Italia in pericolo coinvolge di più di qualsiasi altro luogo. In gioco - ogni volta ce ne stupiamo - ci sono infatti la nostra bellezza e la dolcezza del vivere italiano, e poi i musei, il paesaggio� È solo in questi casi che ci accorgiamo come gli altri davvero ci guardano: non più sorrisi e ammiccamenti, ma dolore e solidarietà per un paese che è patrimonio dell’umanità.

Ebbene è la stampa straniera a ricordarci che ci sono città italiane incise dalle faglie, e dove le bare per i morti e l’inutile mappa dei luoghi d’incontro dei sopravvissuti sono i soli accorgimenti antisismici previsti. Ci sono città dove la questura, la prefettura, gli ospedali sono ospitati in edifici antichi che sarebbero i primi a cadere. Dal punto di vista sismico, della vulnerabilità sismica, non esiste un sud e un nord d’Italia, non esiste un paese fuori norma contrapposto a un paese nella norma. L’Italia, come sta scoprendo il mondo, è tutta fuori norma. Nessuno costruisce nel rispetto degli obblighi di legge che - attenzione! - non eviterebbero certo i terremoti che uccidono anche in Giappone e in California, anche dove la legge è legge. Neppure lì i terremoti sono prevedibili. Non ci sono paesi del mondo dove le catastrofi naturali non procurano danni agli uomini e alle cose.

Ma le norme antisismiche sono al tempo stesso prudenza e coraggio di vivere, sono la stabilità di un paese instabile, la fermezza di una penisola ballerina, sono come le strisce pedonali e la segnaletica stradale che non evitano gli incidenti ma qualche volta ne contengono i danni, ne limitano le conseguenze, ti mettono comunque a posto con te stesso e con il tuo destino. Colpisce invece che la sfida alla natura in Italia sia solo e sempre verbale: "immota manet" è il motto della città dell’Aquila ed è un paradosso, un fumo negli occhi, un procedere per contrari, una resistenza al destino che ne rivela la completa, rassegnata accettazione: la sola immobilità dei terremotati è la paura, è la paralisi.

Da sempre i terremoti intrigano i filosofi e gli scienziati. Si sa che dopo un terremoto aumentano i matrimoni e le nascite che sono beni rifugio, e si formano nuove classi sociali, si riprogetta la vita come insegna appunto Salvemini. Ma le catastrofi attirano gli sciacalli, economici certo ma soprattutto politici e morali. Ricordo che, giovanissimo, nel Belice vidi arrivare i missionari delle più strane religioni, i rivoluzionari seguaci di ogni utopia e i ladri d’anima. I soli che in Italia non arrivano mai sono gli antisismici d’assalto; le sole competenze che ai costruttori non interessano sono quelle antisismiche; e a nessun italiano viene in mente, invece di ingrandire la terrazza, di rafforzare le fondamenta della casa.

Siamo i più bravi a rimuovere, a dimenticare i lutti, a non tenere conto che la distruzione come la costruzione crea spazi e solidarietà. L’Italia sembra unirsi nelle disgrazie. Nelle peggiori tragedie ci capita di dare il meglio di noi: sottoscrizioni, copiosissime donazioni di sangue, offerte di ospitalità. Davvero ci sentiamo e siamo tutti abruzzesi. Ci sono familiari volti e lacrime che sono volti e lacrime di fratelli. Sta tremando tutta l’Italia. E anche se non riusciremo a dominare la forza devastatrice della natura, mai più dovranno dirci che questo è un paese fuori dalla legge. Fosse pure un’illusione piccolo borghese, da impiegati del politicamente corretto, abbiamo bisogno di applicare tutti insieme la tecnica antisismica e di misurare il ferro che arma il cemento: abbiamo bisogno di costruttori, di sovrintendenti, di legislatori e di giudici di ferro.

Le macerie dell’ultimo terremoto costituiscono uno scenario immutabile nel tempo, lo sfondo sul quale più o meno si rappresenta lo stesso copione, almeno sul piano della espressione di intenzioni. Si promette il rapido superamento dell’emergenza fino al raggiungimento di normali condizioni di vita; in tempi contenutissimi si garantisce il passaggio dalle tende alle case; infinela ricostituzione del tessuto produttivo ed infrastrutturale come occasione di sviluppo dell’area. Tutte cose mai avvenute: il ritorno ad una vita normale è lungo e doloroso; il passaggio dalle tende alle case comporta una lunga permanenza in alloggi provvisori per una costosissima ricostruzione quantomeno decennale; per l’Irpinia del terremoto dell’80 si progettò quel tipo di sviluppo che fu poi costellato di illegalità e cattedrali nel deserto. Come ultima cosa si dice che quanto accaduto non dovrà mai più capitare; e si promette un impegno inderogabile sul terreno della prevenzione sismica.

Il 28 dicembre del 2008 si è celebrato l’anniversario del terremoto di Reggio Calabria e Messina. Tante paginate di giornale sulla tragicità di quell’evento, tante commemorazioni, ma la questione su cui concentrare l’attenzione doveva essere soprattutto un’altra.

Il Governo Giolitti, terrorizzato dall’immane sciagura, pochi mesi dopo inaugurò infatti la prevenzione sismica in Italia. Da quel tragico evento in poi, chiunque avesse voluto costruire un edificio in un comune iscritto nella lista di quelli sismici, lo avrebbe dovuto fare rispettando una specifica normativa in grado di conferire una più elevata resistenza agli edifici. Da allora, dopo ogni terremoto più o meno distruttivo, nuove porzioni di territorio nazionale sono state classificate: nel 2001 il territorio nazionale appariva classificato come sismico per oltre il 70%. Ma, ad una così ampia delimitazione delle zone dove le esperienze vissute dimostravano la ricorrenza del fenomeno, non ha corrisposto un analogo riscontro in termini di azione di mitigazione del rischio: dopo un secolo di attivazione dell’unico strumento organico di prevenzione, oggi, solo il 18% degli edifici, rispetto all’intero stock di edificato, risulta sismicamente protetto.

Bene, dalle immagini di L’Aquila e dintorni emerge un’enorme assenza di sicurezza e, in queste primissime ore di post-terremoto, nel rispetto delle vittime e delle strutture di soccorso che stanno cercando di fare il loro meglio per risolvere l’emergenza, emerge una macroscopica mancanza di prevenzione, il che induce ad alcune considerazioni a caldo, salvo poi ritornare, con maggior cognizione di causa, su taluni aspetti.

Il terremoto ha colpito L’Aquila e alcuni piccoli paesi abbarbicati sui versanti della Conca dell’Aterno che danno l’impronta al paesaggio dell’Appennino centro meridionale.

L’edilizia prevalente nel centro storico del capoluogo così come in quelli di Paganica, Fossa, Onna, Barisciano è intrinsecamente fragile, vulnerabile per caratteristiche tipologiche e costruttive. Insomma, rappresenta in modo emblematico l’elevato rischio sismico di cui è affetto il Paese, dovuto al patrimonio edilizio preesistente rispetto all’introduzione della classificazione sismica del territorio che ha iscritto i comuni dell’Aquila e di tutta la sua provincia dal 1915, quando il terremoto di Avezzano causò 30 mila vittime.

E’ necessaria, dopo quest’ultimo disastro, una riflessione sulla politica di prevenzione anche per queste tipologie edilizie, per i centri storici nel loro complesso, rispetto ai quali con tutta evidenza le iniziative intraprese attraverso strumenti di defiscalizzazione a favore degli interventi di manutenzione straordinaria, che hanno riguardato anche aspetti strutturali, non hanno risolto significativamente il problema. Insomma, i centri storici, ormai in modo diffuso, sono realtà che hanno riacquistato in questi ultimi anni una forte capacità attrattiva, sia sul piano residenziale che turistico. Si riqualificano sul piano estetico, si ristrutturano nel senso della vivibilità, recuperando almeno in parte la loro indispensabilità sul piano socio-culturale, mentre purtroppo, sul piano della sicurezza, sembrano mantenere intatta la loro vulnerabilità.

E’ un problema di risorse? Certamente sì. Lo Stato avrebbe dovuto far di più onorando l’impegno, più volte assunto dopo ogni catastrofe, che la messa in sicurezza del territorio sarebbe diventata la più importante opera pubblica di questo Paese. Ma di soldi, per esempio, ai Beni culturali ne sono stati dati, di interventi ne sono stati fatti, anche qui con esiti a dir poco incerti. Allora, di fronte ai disastri delle chiese e dei monumenti del capoluogo abruzzese emerge un problema di progettazione, di capacità tecniche, di giusta sintesi tra l’esigenza di proteggere dalla distruzione ed i vincoli della conservazione.

Ed infine c’è il cemento armato. Perché gli edifici in cemento "moderni" collassano, si impilano su stessi non lasciando nessuno scampo a chi li abita? Come sostiene qualcuno è un problema più da Procura della Repubblica che tecnico. D’altronde, la normativa sismica pretende che la nuova edilizia nei comuni classificati, e quindi soprattutto gli edifici in cemento armato, consenta di salvare la vita degli occupanti, pur subendo danni, e quindi non ammette giustificazioni spendibili in linea generale. Soprattutto di fronte a ciò che è avvenuto a L’Aquila oggi, alla scuola di San Giuliano di Puglia ieri e all’Ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi l’altro ieri.

In senso generale, si può affrontare un ultimo tema legato direttamente al concetto di sicurezza oltre che, evidentemente, alla tutela del territorio. Per chi si occupa di riduzione del rischio sismico, ma in realtà anche di tutte le altre tipologie di rischio naturale, il termine "condono" rappresenta una sorta di anatema, di cupo presagio. L’abusivismo, che i condoni incrementano, soprattutto diffuso nelle aree meridionali del Paese dove più elevata è la pericolosità sismica, ha assunto dimensioni devastanti, e chi costruisce illegalmente non si preoccupa né delle qualità dell’area di sedime né delle caratteristiche strutturali. La speculazione costruisce e basta; realizza qualcosa che poi, una volta condonato, qualcuno abiterà non sapendo che un terremoto abbastanza forte lo potrà tirar giù come fosse di cartapesta. Certo, oggi un nuovo condono in Italia è improponibile, ma si affaccia la minaccia di appendici e superfetazioni di ogni tipo. Basta che non superino il 20% di quanto già costruito abusivamente e poi, magari, condonato.

Il "piano casa" del governo era una materia di discussione non esauribile nell'ambito politico, e neppure in quello dell'economia, che pure ne era un fine primario. La materia riguarda, infatti, tanto strettamente il campo urbanistico e sociale, ambientale e paesistico da far subito vedere che la discussione al riguardo non può esserne solo politica o economica.

Del "piano" si è finito, invece, col parlare ben poco. Effetto, certo, degli eventi sopraggiunti, che hanno monopolizzato l’attenzione dell’opinione pubblica, dal sisma abruzzese alla campagna elettorale, risoltasi in un dibattito su vita e opere di Berlusconi. Le speranze di chi pensava che i temi urbanistici, sociali, ambientali, paesistici, economici, politici implicati nella questione del "piano casa" costituissero un punto qualificante del confronto elettorale sono andate, così, ben presto deluse. Intanto, è proseguito, però, l’iter normativo e amministrativo del "piano". Da una parte, si dovrebbe giungere entro un certo termine a una ridefinizione dell’intervento legislativo a livello nazionale; dall’altra, le Regioni vanno preparando, per quel termine, gli interventi normativi di loro competenza, di cui quello nazionale finale dovrà fare il debito conto.

A dire il vero, e com’era prevedibile, la normativa in elaborazione presso le Regioni è varia dall’una all’altra di esse. Solo la Toscana ha già fatto la sua legge, che esclude da ogni deroga i centri storici e le case condonate e limita gli ampliamenti al 20% e solo per case uni o bifamiliari, oppure al 35% per chi demolisce e ricostruisce. In Piemonte si ammette, invece, la deroga ai piani regolatori, ma solo per "villette" uni e bifamiliari e per l’edilizia sovvenzionata al di sotto di 1000 metri cubi, sempre che si realizzi un congruo risparmio energetico. Misure di favore si prevedono pure in Veneto per la bioedilizia (fino a un + 40%) e nella Provincia di Bolzano al fine di un alto standard energetico. In Friuli-Venezia Giulia si favorisce chi acquista una casa; in Liguria si pensa a un intervento per ben 200.000 case, ma con criteri di stretta tutela del territorio, privilegiati anche in Umbria. Nelle Marche si mira soprattutto a superare la crisi dell’edilizia. In Lombardia si pensa a incrementi del 20%, raddoppiabili dai Comuni; e al 40% si pensa pure in Val d’Aosta per alberghi e ristoranti. Le misure del 20 (per le "villette") e del 35% (per demolizioni- ricostruzioni) sono previste anche in Campania, così come a cambi di destinazione per capannoni da trasformare in abitazioni. In Puglia escludono le zone di pregio storico- culturale e/o paesistico da ogni intervento, lasciando il 35%, con incentivi, alle demolizioni-ricostruzioni ecosostenibili. In Sicilia si pensa a due interventi per incrementi del 20 o 30% secondo i casi, anche in deroga ai piani regolatori, ma rispettando le norme di sicurezza. A due interventi si pensa pure in Abruzzo, ma fermando tutto, per ora, in vista di regole più severe. Trentino, Lazio, Molise, Basilicata, Calabria e Sardegna sembrano meno avanzate nel preparare le loro misure.

È necessario ora, certamente, che la discussione sul "piano casa", passato il momento elettorale, riprenda e si svolga in tutte le sue implicazioni, e, ormai, sui testi da approvare in sede legislativa. In linea di massima, i testi regionali in preparazione, come si vede dai nostri brevi cenni, si muovono, ovviamente nell’ambito fissato dall’indirizzo generale del governo. Le divaricazioni che si intravvedono sono, tuttavia, notevoli, e pongono varii problemi. Il punto principale è, come notammo per il piano del governo, che non si elaborino sotterfugi per un condono anticipato o per dissimulate sanatorie. Soprattutto, i centri storici e i beni storico-culturali e paesistico-ambientali andrebbero tutelati con norme estremamente precise. La deroga ai piani regolatori è preoccupante, se non ben definita per casi ristrettissimi e ben specificati, e così pure le portate degli ampliamenti oscillanti fin oltre il 35%. Per le demolizioni-ricostruzioni, se io abbatto un vecchio edificio con vani di grande cubatura e lo ristrutturo in vani di cubatura minore, facendone cinque piani al posto di tre, poi con l’aumento del 35% giungerò a sette piani e a un numero molto maggiore di appartamenti rispetto al 35% in più di quelli del fabbricato iniziale? E con quali ripercussioni urbanistiche e sociali. E,infine, che cosa sono le "villette "? E perché non tenere anche presenti le necessità sociali (case per studenti,, giovani sposi e simili)? Sono dubbi e sono problemi. Se, però, le Regioni del Sud, senza nulla sacrificare dei fini economici e sociali del piano, si illustrassero per norme ottime per il territorio e il paesaggio, per i beni storici e culturali, sulla sicurezza, sul piano ecosostenibile ed energetico, sarebbe molto bello. E sarebbe, poi, un modo concreto di rovesciare, su un punto strategico- politico rilevante, l’opinione negativa del paese su di esse. Un’occasione da non perdere.

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