Per polemizzare con Salvatore Settis, Maria Rita Lorenzetti e Riccardo Conti arrivano a scrivere che “le regioni hanno contrastato da sole” l’iniziativa del governo per il piano casa. Tutte le regioni? Anche la Campania? Anche il Veneto? E la benemerita azione regionale è avvenuta “in un assordante silenzio anche della stampa più progressista, dell’opposizione politica e di intellettuali”. Basta sfogliare la cartella di eddyburg relativa al piano casa (La barbara edilizia di Berlusconi) per rendersi conto che, al contrario, oltre a noi di eddyburg, Italia Nostra, una parte non residuale della stampa fra cui la stessa Unità, il giornale sul quale scrivono i due autorevoli esponenti dell’Umbria e della Toscana, da subito, implacabili, hanno scritto e suscitato iniziative contro il piano casa di Berlusconi, tali da produrre anche “ravvedimenti” in extremis (v. il caso Campania).
Non tutte le leggi regionali prodotte da questa sciagurata iniziativa sono uguali nei contenuti, tutte però condividono un’arretratezza culturale di fondo. Quella che fa scrivere a Lorenzetti e Conti che la tutela significa chiudere “i beni culturali e ambientali in un’ illusoria teca di vetro”, e che ricicla un’uguale ipocrisia demagogica nell’affermare che “sinistra significa attenzione per gli edili che perdono il posto di lavoro” riproponendo il vecchio ricatto dell’alternativa inconciliabile fra sviluppo/occupazione e tutela del territorio.
La lezione di alcuni dei più avanzati stati europei (Germania e paesi nordici innanzi tutto) che da anni creano migliaia di nuovi posti di lavoro investendo sulle energie rinnovabili e su riqualificazioni urbane e territoriali, la lezione di Obama che sta spingendo il più potente stato del mondo verso una grandiosa riconversione industriale (e culturale) in senso ecologico, sapevamo da tempo che sarebbe rimasta inascoltata da un governo culturalmente così rozzo a livello economico, sociale, imprenditoriale come quello attuale.
Duole constatare che simili argomenti che auspicavamo archiviati da vent’anni, siano riproposti da due amministratori di primo piano del centrosinistra.
Toscana e Umbria hanno territori meravigliosi: solo con una tutela integrale dei quali possono continuare ad alimentare un’economia duratura e solida perché fondata innanzi tutto sull’elementare principio della salvaguardia del bene che si vuole utilizzare.
Oltre che culturalmente suicida, una crescita edilizia quale quella prefigurata dal piano casa, è economicamente avventurosa, miope e arcaica.
Ma probabilmente elettoralmente redditizia.
Siamo proprio sicuri che Salvatore Settis abbia ragione quando parla di «fai da te» delle regioni rosse sul piano casa? Le sue recenti osservazioni, prodighe di imprecisioni, sono il frutto di un'interpretazione estremamente soggettiva e confusa della vicenda. Francamente ci lascia stupefatti che un esperto della materia possa prender per buona la propaganda del governo più che la realtà.
Il così detto "Piano casa 2" era una vera emergenza per il territorio, che le regioni hanno contrastato da sole in un assordante silenzio anche della stampa più progressista, dell'opposizione politica e di intellettuali. La sinistra deve rappresentare un universo di valori e interessi che unisce esigenze strategiche e culturali (paesaggio, territorio, sviluppo di qualità delle città), soprattutto in regioni come le nostre, considerate «perle» quanto a valori paesistici, storici, artistici. E qualcuno ne porterà pure il merito se queste regioni, che si sono sviluppate in un periodo in cui, per citare come Settis Romano Prodi, «la devastazione del territorio continua e sarà ricordata anche fra molti secoli come il documento più buio dell'Italia del dopoguerra» hanno mantenuto questo prestigio e bellezza.
Se le soprintendenze hanno agito in tutta Italia, la differenza fra regioni con elevata qualità del paesaggio e regioni meno virtuose l'avrà fatta qualcun altro. Che sia la sensibilità di governi locali, che fin dagli anni 50 hanno trovato, con professionisti e intellettualità, una chiave di sviluppo pianificato dei sistemi territoriali?!
Crediamo che la vera tutela sia lavorare per una società moderna, dinamica, che non chiude i beni culturali e ambientali in una illusoria teca di vetro, prossimi al deperimento. Ma, ecco l'odierno paradosso: Toscana ed Umbria, che si avviano ad approvare il Codice del paesaggio, sono anche le prime regioni che hanno adottato le misure urgenti per l'edilizia. Ciò non solo per un senso delle istituzioni che ci ostiniamo a considerare come un valore fondamentale mentre dal governo, come rileva giustamente anche Settis, non arrivano segnali sul tema. Ma anche perché "sinistra" significa attenzione per gli edili che perdono il posto di lavoro, per i problemi congiunturali, argomenti che sono, invece, utilizzati soltanto come bandiere dal centrodestra.
La nostra scommessa è stata tenere insieme regole urbanistiche e manovre anticongiunturali, ricondurre nelle regole gli interventi d'urgenza. Noi non abbiamo mitigato il male minore, ma cambiato la natura degli interventi proposti, atti a far saltare, magari dal basso, quello che resta dell'assetto urbanistico italiano a favore di un saccheggio edilizio. Sfidiamo Settis a trovare un solo punto all'interno delle leggi regionali toscane ed umbre, pur a termine di 18 mesi, in cui si permetta di agire in deroga al codice del paesaggio che si tratti degli ulivi umbri, dei dolci profili toscani o altro.
I due autori sono rispettivamente Presidente della Regione Umbria e Assessore della Regione Toscana
si veda anche il commento di Maria Pia Guermandi
Ieri sera, officiato dal gran ciambellano Bruno Vespa, è stato celebrato il trionfo di Berlusconi, l’uomo che mantiene tutte le promesse, descritto qui minuto per minuto. L’occasione era l’inaugurazione ad Onna, delle “Case assolutamente definitive”, così le ha definite Guido Bertolaso, per i primi terremotati. Il capo della protezione civile ha aggiunto che “entro la fine del mese saranno smontate tutte le tendopoli in Abruzzo e tutti gli sfollati saranno sistemati nelle abitazioni”. Silvio Berlusconi ha così potuto affermare “Era una promessa ardita ma l’abbiamo mantenuta. Speriamo che servano solo per poco tempo, ma queste case sono case dotate di ogni ben di Dio. C’è anche il sapone, la carne e le coperte. C’è proprio tutto”.
Per provare a fare un po’ di chiarezza tra la cortina fumogena mediatica che ha visto Totò-Berlusconi e Peppino-Vespa protagonisti di Porta a Porta, diciamo che ieri sono state inaugurate le prime casette di legno provvisorie: 94 appartamenti prefabbricati di varia metratura costruiti dalla Provincia Autonoma di Trento e montate dalla protezione civile trentina, grazie ai 5,2 milioni di euro della Croce Rossa Italiana, che ospiteranno oltre 200 persone, una più una meno. Dove sia il “merito” di Berlusconi, la “grande promessa mantenuta” e il grande evento che giustificava una diretta tv in prima serata con la modifica del palinsesto di 3 reti (Rai1, Rai3 e Cabale 5) è un mistero purtroppo facilmente spiegabile.
A fronte di 200 e più persone che da stasera hanno una casetta (provvisoria) di legno la popolazione assistita, dati al 13 settembre della Protezione civile, è di 36.456 persone, di cui 11 mila ancora in tenda, 15,5 mila in albergo e oltre 9 mila ospiti in case private. L’enfasi di questa inaugurazione ha una ragione, secondo Bertolaso, Berlusconi e Vespa: mai in nessun paese al mondo dopo 162 giorni dal sisma c’erano i primi rientri a casa. A parte il fatto che non è una casa ma un Map di legno, c’è un paese al mondo dove si riuscì a fare ancora più in fretta. Questo paese si chiama Italia: nel terremoto del 1980 in Irpinia, infatti, dopo 122 giorni dal terribile sisma che fece migliaia di morti, furono consegnate a Laviano, vicino Salerno, 150 casette in legno tipo chalet con 450 persone sistemate. Il sindaco di allora, Rocco Falivena, dice che “A maggio dell’81 tutti gli sfollati, nessuno escluso, riuscirono ad avere il salottino, la camera da letto riscaldata, il piccolo patio con giardino. In tutta franchezza quella di Onna mi sembra una zingarata”.
Ma una zingarata la possiamo perdonare, dato che – dice Berlusconi mentre Vespa si frega le mani – tra pochi giorni consegneremo le Case costruite dal Governo ai senza tetto. 4.000-4.500 C.A.S.E., Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili. A fine settembre, se tutto va bene, saranno consegnati i primi 4 lotti, circa 20 edifici. Per gli altri, la previsione slitta di giorno in giorno, e ora si parla di “fine anno”. Prendiamo per buona questa promessa. Queste abitazioni riusciranno a soddisfare circa 14 mila persone. Facendo una stima a naso, visto che dai sopralluoghi al 3 settembre viene fuori che su 70 mila edifici privati 36.501 agibili e 34 mila non agibili, di cui oltre 22 mila praticamente distrutti o inabitabili per un lunghissimo periodo, le C.A.S.E. non basteranno per tutti. Finalmente lo ammette anche la protezione civile.
Infatti ieri, proprio mentre inaugurava le 94 casette provvisorie di legno, Berlusconi firmava l’ordinanza 3806, stabilendo che il sindaco dell’Aquila dovrà individuare, con proprio decreto, i nuclei familiari che ne avranno diritto, stilando una classifica dei terremotati, in cui i “privilegiati” saranno quelli che hanno avuto dei familiari morti, o un disabile in famiglia, ecc. E per gli altri? Dal cappello a cilindro del premier, su pressione del preoccupatissimo Sindaco de L’Aquila, ecco spuntare i Map, i moduli abitativi provvisori. Le vecchie, care casette di legno. Del tutto uguali a quelle trentine inaugurate ad Onna ieri. Saranno circa 2.300, di cui – dice la protezione civile – circa 1.300 consegnate entro settembre. Le altre, si vedrà.
Tra Map (casette di legno) e C.A.S.E., 18 mila o al massimo 20 mila abruzzesi troveranno un tetto (provvisorio) entro la fine dell’anno, se tutto va lisco come l’olio. All’appello mancano quindi 16-18 mila persone. Alcuni forse torneranno nelle loro case, nel frattempo tornate agibili. Ma per molti l’inverno passerà in albergo, nelle caserme della Guardia di Finanza o chissà dove. Quindi un’emergenza costosissima (circa 900 milioni di euro: questo sì, un vero record!) che voleva evitare i container passando dalle tendopoli alle “case”, avrà successo solo utilizzando alberghi (pagati dal contribuente), caserme o chissà che altro. Ma la vera domanda a cui il premier sfugge è. quando inizia la ricostruzione? Quel momento in cui tutti hanno un tetto provvisorio (si chiamino C.A.S.E, Map, Container, sistemazione autonoma o altro) e si ricostruiscono le case. Quelle vere.
A quello che si vede andando in giro per L’Aquila e dintorni e per quello che se ne sa, oggi, a 162 giorni dal sisma, non si è fatto quasi nulla. L’Aquila, Onna e tutti gli altri paesi sono cumuli di ruderi, transennati e inaccessibili. Un monumentale ammasso di rovine, in attesa che qualcuno se ne occupi. Per la ricostruzione “leggera” sugli edifici parzialmente o temporaneamente inagibili, l’ordinanza n.3779 del 6 giugno era imprecisa ed incompleta, e si sono accumulati un po’ di ritardi. Ma è sulla ricostruzione “pesante”, quella dei 22 mila edifici distrutti, che al momento c’è il vuoto. Dice Bernanrdo de Bernardinis, il vice di Bertolaso, che “noi ci occupiamo dell’emergenza, al Sindaco e al presidente della regione spetta il coordinamento dell’attività di ricostruzione. Sarà vero, ma con quali soldi? Perché, dopo aver previsto, nel Decreto Abracadabra, una dotazione tra i 2 e 4 miliardi per la ricostruzione “pesante” a carico del Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia reale gestito dalla presidenza del Consiglio, il governo si è dimenticato di questi soldi nella legge di assestamento del bilancio di luglio 2009.
Mentre Vespa e Berlusconi brindano sulla “promessa mantenuta”, molti sostengono che con gli 883 milioni di euro spesi finora per alberghi, tendopoli e piano C.a.s.e., si potevano acquistare container extra-lusso e case in legno che avrebbero permesso a tutti i 36 mila un appartamento più che dignitoso, davvero provvisorio e removibile, entro settembre 2009. E il patrimonio di moduli abitativi sarebbe tornato utile per future emergenze. L’urbanista Giovanni Nimis, protagonista della ricostruzione post-sismica del Friuli, che ha scritto un libro sulle “terre mobili”, critica il modello Bertolaso dicendo che “Siamo ritornati al tradizionale centralismo, quello del disastro del Belice, con il trasferimento coatto delle popolazioni, le costruzioni ex-novo e lo stato che decide tutto. Fu un fallimento che aveva alle spalle un’idea di stato ottocentesco e si nutriva delle illusioni di demiurghi che decidevano dall’alto della loro sapienza quale fosse il bene delle popolazioni sinistrate. Poi, con il Friuli, il modello è stato capovolto: lo stato finanziava, ma erano regioni e comuni a gestire il come ricostruire. E le popolazioni potevano intervenire su soggetti politici a loro più vicini e condizionarne le scelte. Ora in Abruzzo si torna indietro di quarant’anni.”
Speriamo che ci sia un po’ di esagerazione. Speriamo che tra qualche tempo, fossero pure anni, di queste riflessioni si possa sorridere, parlando di pessimismo disfattista. Ce lo auguriamo di cuore, soprattutto per gli amici dell’Abruzzo. Che per allora saranno tornati nella loro vera casa, speriamo, da un pezzo. Grazie a Silvio Berlusconi e con la collaborazione di Bruno Vespa. Con sapone, carne e coperte. Tutto.
«Richiesta recupero macerie e riapertura percorsi nel centro storico. Richiesta autorizzazione per posizionamento temporaneo chiesa in legno in località San Giustino. Richiesta case in legno per Pescomaggiore, Paganica e altre località della Circoscrizione». Il presidente De Paulis è scuro in volto. «Ma come si fa a discutere di "recupero macerie" il 14 settembre, cinque mesi e mezzo dopo il terremoto? Perché dobbiamo chiedere oggi che ci portino casette di legno in cui ripararci e una chiesa fatta con assi di pino per pregare? Paganica è stata sigillata il 6 aprile, come un pacco postale, e ancora non è stata riaperta. Si doveva discutere il 7 o 8 aprile, questo ordine del giorno. Solo così avremmo potuto ricominciare».
Oggi il premier Silvio Berlusconi arriverà a due chilometri da qui. Consegnerà 94 alloggi in casette di legno - costruite dalla Provincia di Trento con un finanziamento della Croce rossa - ai 200 sopravvissuti di Onna. Lenzuola firmate, una torta con spumante e un biglietto di auguri: «Serena vita nella nuova casa». «E così - dice Ugo De Paulis - chi guarda la tv penserà che qui tutto è stato risolto. E invece Paganica sta morendo e come noi stanno morendo i centri storici dell’Aquila e delle sue 64 frazioni. C’è anche chi sta peggio di noi: nel centro di Tempera, ad esempio, non è rimasta pietra su pietra. E pure noi rischiamo di perdere tutto: un centro senza abitanti diventa un cimitero. Le case che sono rimaste in piedi rischiano di essere abbattute dalle altre abitazioni pericolanti».
Manca solo la cenere, nella nuova Pompei di Paganica. Le strade sono però invase da pietrisco e polvere portate giù dalla parte alta del paese dagli ultimi temporali. Come in una macchina del tempo, sembra di tornare al 6 aprile. Il silenzio è assoluto. In via Roma 2 c’è una casa di tre piani i cui muri si stanno piegando verso un’abitazione più bassa, intatta, al civico 3. Una scossa, o il vento di una burrasca, faranno crollare i muri e distruggere anche la casa agibile. Nel vicolo Sdrucciolo dei Perigli ci sono metri di macerie. Anche vico del Golfo è bloccato dalle pietre. In vicolo del Pizzicagnolo le macerie coprono una Fiat bianca. In via degli Angeli il palazzo al civico 44 sta crollando sulle case del 38 e del 40. «Ormai l’inverno è alle porte e ci chiediamo: cosa troveremo a primavera? Qui bisogna portare via le macerie, abbattere le case pericolanti, riaprire almeno alcune strade. Si sono persi troppi mesi e noi stiamo perdendo anche la speranza di rientrare nelle nostre case. Nel disastro, eravamo stati fortunati. Abbiamo avuto cinque morti, a Paganica, ma solo perché quella sera c’era la Via Crucis nel centro storico e alle 23, quando si stava tornando a casa, è arrivata una forte scossa. Tanti allora si sono messi a dormire in macchina o nelle aie». Ci sono ancora le locandine sui muri. Annunciano i «Festeggiamenti in onore di S. Giustino patrono e Santa Maria d’Appari». «Fino al 1927 eravamo un Comune - dice Ugo De Paulis - ora siamo una frazione e non contiamo nulla. L’Aquila pensa solo a se stessa. Le ordinanze che autorizzano i lavori sono arrivate soltanto a luglio, i soldi per la ricostruzione sono stati stanziati solo per le case fuori dalle "zone rosse". Questo, per Paganica e tutti gli altri centri, è un certificato di morte».
Ottomila abitanti, nella circoscrizione. Tremila nelle tende, 2.000 al mare, 3.000 nelle case o «lì attorno, dentro a casette o container». Milleottocento persone andranno nella Case con le piattaforme antismiche, gli altri passeranno l’inverno in hotel o in quelle case che, come per miracolo, sono tornate agibili. In tutto l’aquilano fino a tre giorni fa non si poteva entrare nelle abitazioni classificate B e C, poi un’ordinanza ha stabilito che si può rientrare mentre sono ancora in corso i lavori di riparazione. Fatti i conti, ci si è accorti che i 15.000 posti letto nelle Case (che dovrebbero essere pronti entro Natale) non sarebbero bastati per le 36.354 persone ancora assistite dalla Protezione civile in tendopoli, hotel o case private. «Siamo allo sbando - dicono i Comitati dell’Aquila, 3,32, Rete Aq, Collettivo 99 e Colta, in una lettera inviata al Presidente della Repubblica - perché non si è saputo e non si è voluto dare priorità alla ricostruzione ma alla costruzione del nuovo. E così le comunità sono smembrate e il centro storico resta immerso in un silenzio spettrale».
Anche le «zone rosse» di San Gregorio, Fossa, San Demetrio e di decine di altri Comuni e frazioni sono ferme, come in un tragico flashback, all’alba del 6 aprile. «Noi della Protezione civile - dice Bernardo De Bernardinis, vice capo del dipartimento - abbiamo dovuto affrontare l’emergenza, e l’abbiamo fatto. Entro la fine dell’anno 25 - 30.000 persone avranno un tetto, non un container. Nel centro storico aquilano abbiamo lavorato per la messa in sicurezza di chiese ed edifici pubblici. Anche in altri centri stiamo lavorando perché si possano raggiungere, in sicurezza, le case ancora agibili. Ma per la ricostruzione del centro storico aquilano il sindaco è il soggetto attuatore. E per tutta la ricostruzione, quella detta pesante, la delega è affidata al presidente della Regione, sempre in concerto con il sindaco». Ma c’è chi non vuole più aspettare. «In queste ore - dice Eugenio Carlomagno, direttore dell’Accademia di Belle arti e fra i fondatori dell’associazione Centro storico da salvare - si sta discutendo ancora dove mettere le macerie della città, come se la scossa fosse arrivata ieri. Il sindaco aspetta Renzo Piano e gli architetti giapponesi. Noi diciamo che qui non deve arrivare nessuno: dobbiamo darci da fare, e subito. Facciamo consorzi, fra pubblico e privato, cominciamo a togliere le macerie, ad abbattere le parti pericolanti, a ricostruire. L’inverno è alle porte. La neve negli anni scorsi è stata tenuta lontano dal centro storico perché 20.000 camini buttavano calore. Quest’anno i camini sono spenti e rotti, e faranno entrare la pioggia. Il freddo - qui si va anche a meno 10 - farà gelare l’acqua e spaccherà le pietre. Alcuni privati hanno cercato di coprire i tetti rotti con dei teloni di plastica, ma il primo vento forte li spazzerà via. E si buttano via i soldi. Si spendono anche 300.000 euro per mettere in sicurezza un palazzo, poi se ne dovranno spendere 150.000 per smontare i ponteggi e solo allora si farà l’abbattimento. Perché non farlo subito, questo abbattimento?». La speranza è ormai merce rara, fra le antiche pietre dell’Aquila. «Le banche hanno fatto un accordo con la Cassa depositi e prestiti per finanziare con 2 miliardi la ricostruzione. Ma noi del centro storico siamo tagliati fuori. Quando saremo autorizzati a chiedere un finanziamento, ci diranno: siamo spiacenti, i denari sono finiti».
Domani Berlusconi consegnerà le prime nuove case ai terremotati dell’Aquila. A cinque mesi dal sisma si tratta di un indubbio successo dell’intervento nell’emergenza. Per contro questa inaugurazione, giustamente festosa per quanti sono restati finora nelle tendopoli, rischia di suonare come una pietra tombale sulle speranze di veder un giorno risorgere il centro storico e la rete dei borghi medievali che con esso si integravano. Via via che si accenderanno le luci nelle abitazioni installate nella cinta periferica e nelle altre zone limitrofe, ancor più angoscioso apparirà quel buco nero, dove sorgeva un tempo la città vera e propria, con i suoi edifici storici, le sue cento chiese, i palazzi, l’università, il Comune, la Provincia, le botteghe, i portici animati giorno e notte. Ancor più assurda apparirà la solitudine di quell’unico anziano abitante che ha rifiutato di lasciare la sua casa, rimasta miracolosamente in piedi, lo storico Raffaele Colapietra, tramutatosi suo malgrado in una icona della testardaggine abruzzese.
Questa infausta divaricazione tra emergenza e futuro urbano è il frutto di una scelta voluta dal governo e subita passivamente dall’opposizione, tranne alcuni rappresentanti degli enti locali, tra cui spicca la brava e coraggiosa presidente della Provincia, Stefania Pezzopane.
Il perché è presto detto. Il governo ha voluto affrontare la catastrofe senza ricorrere ad alcuna misura di finanza straordinaria, come invece avevano fatto quasi tutti i governi italiani, confrontatisi con i vari terremoti, da quello di Messina in poi. Questa volta le risorse sono state reperite nel bilancio ordinario, soprattutto depauperando i fondi destinati al Mezzogiorno.
Era evidente che i mezzi sarebbero sì e no bastati per affrontare l’emergenza, peraltro con un notevole grado di efficacia assicurato dalla Protezione civile. Una decisione dettata dall’imperativo ideologico di una destra ostile per principio ad ogni maggiorazione fiscale, anche quando le ragioni siano sacrosante (una addizionale Irpef spalmata su dieci anni, una cifra infima pro-capite).
Così, mentre va avanti il piano per l’emergenza e alle case antisismiche si aggiungeranno 3000 casette di legno (che dovrebbero un giorno passare agli studenti fuori sede), e mentre i terremotati ancora senza fissa dimora saranno ospitati nelle famose strutture della Guardia di Finanza e in qualche altra caserma (ma sembra restino 8000 persone ancora non collocate), ebbene L’Aquila vera e propria rimane come un gigantesco relitto, abbandonato dopo il naufragio.
La strategia avrebbe potuto essere ben diversa: affrontare l’emergenza immediata, come si è fatto, e, ad un tempo, preparare almeno i progetti urbanistici di ricostruzione e restauro per un prossimo futuro, fissato in calendario, cominciando dagli edifici pubblici, oggi tutti abbandonati, apprestare una legislazione rapida per facilitare l’iniziativa privata di recupero, reperire i fondi indispensabili senza rigettare la leva fiscale straordinaria. Soprattutto puntellare da subito gli edifici pericolanti ed operare quegli interventi rapidi per tamponare il degrado ulteriore che, con l’avvento prossimo della stagione fredda, è nell’ordine delle cose.
Non lo si è fatto ma l’operazione mass-mediatica è egualmente vincente. Berlusconi con il supporto di Bertolaso e del G8 è riuscito a dare il meglio. La sinistra si trova in altre faccende affaccendata. Frattanto gli aquilani possono anticipare de visu lo scenario di una futura Pompei tra la Majella e il Gran Sasso e visitare la «zona rossa», il vecchio centro della città, dalla Villa Comunale a piazza Duomo, addentrarsi per via San Bernardino e via Castello, dove è stato aperto un passaggio, sgombrando le rovine qualche metro in là. Come in un museo il transito, naturalmente pedonale, è permesso ai visitatori per qualche ora al giorno, sotto la sorveglianza dei pompieri. Dalle case abbandonate, dai negozi chiusi, dalle chiese in rovina non può venire alcun segno di vita.
Mancheranno le case, non le statue. Quando Silvio Berlusconi, a fine settembre (magari il 29, compiendo gli anni), inaugurerà le palazzine condominiali dette "C.a.s.e." nelle frazioni aquilane di Bazzano e Cese di Preturo, i cinquemila nuovi e fortunati inquilini che si saranno piazzati in testa alla classifica delle assegnazioni, avranno davanti agli occhi un esempio (non il peggiore) di maniacalità berlusconiana. Una trentina di statue in marmo "ordinate" due mesi fa dal presidente del consiglio in persona a uno stupefatto sindaco di Carrara, con un semplice telefonata: «Caro sindaco, chi meglio di voi può regalare un po' di statue per i terremotati dell'Aquila?».
Domanda retorica e risposta inevitabilmente favorevole. Unico margine di discrezionalità lasciata al primo cittadino del capoluogo apuano era il soggetto: «A piacere». Le principali aziende carraresi sono ora al lavoro, per rispettare i tempi del regalo richiesto dal premier. Cui preme rispettare la promessa fatta: «A settembre i terremotati potranno avere delle abitazioni confortevoli e belle», assegnandosi un nuovo record mondiale per scolpirlo nel marmo. Poco importa ciò che sta dietro le statue.
In questi giorni le tendopoli dell'Aquila stanno chiudendo, a iniziare dalla più grande, piazza d'Armi. Tutto come annunciato, tutto fatto molto in fretta: mercoledì 2 settembre l'avviso agli sfollati, giovedì l'inizio dell'esodo dei volontari della regione, venerdì la festa di saluto (con karaoke), da sabato i trasferimenti. Non tutti gradevoli e graditi, soprattutto per chi si è visto assegnare una località troppo lontana. Qualcuno ha protestato, qualcun altro non si è mosso. I più sono partiti: per la caserma di Coppito, Avezzano, Tagliacozzo, Ovindoli, Ofena. Ieri a piazza d'Armi c'erano ancora una trentina di persone, quasi tutti anziani e "stranieri", ma se ne andranno presto, anche perché le cucine da campo hanno chiuso i battenti, i bagni sono stati quasi tutti rimossi e quelli rimasti non vengono più puliti, i volontari della Protezione civile dell'Emilia Romagna se ne sono andati tutti, come quasi tutti i loro colleghi delle altre regioni (da aprile e per tutta l'estate ne sono passati 121.000 in tutto l'Abruzzo, dal 10 settembre ce ne sono 800).
Mentre tutto è rimasto nelle mani dell'apparato centrale diretto da Bertolaso, in compagnia dell'esercito. Sono loro che gestiscono lo smantellamento dei campi. Anche facendo il muso duro.
E' Bertolaso, naturalmente, che coordina il tutto. Con un duplice obiettivo: rispettare - almeno formalmente - gli annunci del Presidente del consiglio, evitare che l'emergenza alloggi esploda. Il capo della Protezione civile sa benissimo che il "piano C.a.s.e." non basta. Anche se si calcola che oltre 10.000 aquilani (il 15% della popolazione residente prima del 6 aprile, studenti fuorisede esclusi) abbia trovato una sistemazione per conto proprio nei paesini della cintura e pur considerando che qualche altro migliaio sia rientrato nelle proprie abitazioni (superando un po' di paure), resta il fatto che al 10 settembre le persone assistite erano ancora 37.000: 15.200 in alberghi, 9.600 in alloggi privati, 12.300 nelle tendopoli.
L'obiettivo del "piano C.a.s.e" è fissato a quota 15.000 e comunque non sarà raggiunto prima di febbraio-marzo, perché se Cese e Bazzano sono quasi pronti, gli altri cantieri hanno una tempistica più lunga (e in inverno, visto il clima, non si potrà costruire anche di notte, come si è fatto quest'estate in barba a regolamenti e contratti). Per questo, pur mantenendo il "punto" dell'inaugurazione settembrina da esibire al mondo intero (insieme alle statue), la Protezione civile sta in realtà cambiando i piani e tornando un po' indietro rispetto a quella che sembrava essere un'ideologia indiscutibile: niente container o case provvisorie.
Del resto la realtà è sempre stata un po' diversa da quella enunciata dal duo Bertolaso-Berlusconi. Basta andare a Onna che, essendo divenuta uno dei simboli del terremoto abruzzese, ha potuto derogare dal "piano Case" e batterlo sul tempo, affidandosi alla provincia di Trento e ai suoi costruttori che il 15 settembre inaugureranno un villaggio di 92 casette sorte accanto al borgo da ricostruire, sufficienti per tutti gli abitanti del paese colpito. Ma la stessa cosa è successa - con meno clamore - in molti altri comuni colpiti, costringendo solo il capoluogo alla legge dei nuovi condomini considerati risolutivi della Protezione civile. Che ora - dopo aver a lungo respinto le richieste dei comitati, delle autorità locali - ha aperto alla costruzione di abitazioni provvisorie. Dal primo settembre sono ammessi (anzi, sollecitati) i Map (Moduli abitativi provvisori), in sostanza casette in legno: si stanno già individuando i siti per mille di queste abitazioni.
Non basterà ancora per accogliere tutti durante l'inverno. Così gli alberghi aquilani "offriranno" (si fa per dire) il 75% dei loro posti letto agli sfollati per i prossimi quattro mesi, mentre verranno requisite in via provvisoria (e affittate a prezzo di mercato) le case sfitte. Poi qualcun altro andrà in caserma a Coppito (ce ne sono già 500, ma si arriverà a quota 1.500). Insomma, smembrando comunità vecchie e nuove (persino le tendopoli lo erano diventate) e con un po' più di elasticità rispetto all'inizio, tutti - più o meno - avranno un tetto durante l'inverno.
E, così, il "capolavoro" di Bertolaso è completo: Berlusconi può esibirsi al mondo, l'emergenza continua ma è sotto controllo, le tensioni - quando ci sono - si scaricano nelle "invidie" tra sfollati su presunti privilegi. E lui è sempre più popolare: firma autografi, veste delle sue magliette il maestro Muti, dà il calcio d'inizio a partite di football... quasi una star. Che può permettersi di non rendere pubblico fino alla vigilia dell'apertura scolastica il decreto con i criteri per l'assegnazione delle abitazioni di Bazzano e Cese di Preturo. Criteri che ha già deciso, ma che tiene sul suo tavolo per non dare al mugugno il tempo di diventare protesta (figurarsi, proposta).
E tenere tutto in sospeso, governando con le concessioni e i dinieghi di un signore feudale. Il problema - ulteriore - è che a fine anno Bertolaso e i suoi dovrebbero lasciare il campo alle amministrazioni "normali", ponendo fine all'emergenza e iniziando il tempo della ricostruzione. Difficile crederlo, impossibile immaginarlo guardando ciò che resta del centro storico attraverso il percorso di visita aperto qualche giorno fa: cinquecento metri per sfollati e turisti del terremoto, dove l'Aquila ricorda Pompei.
L’AQUILA — Ci vivevano 20 mila aquilani, oggi invece milleduecento gatti, secondo l’ultimo censimento del Comune. Felini veri e propri, non un modo di dire. È il centro storico dell’Aquila, cinque mesi esatti dopo il terremoto del 6 aprile. «Silenzio tombale, finestre che sbattono, tende che volano agitate dal vento, ormai sembra un posto abitato solo da fantasmi...».
C’è grande tristezza nella voce di Stefania Pezzopane, presidente della Provincia dell’Aquila.«Sono preoccupata — confessa la Pezzopane — perché tra poco verrà la neve e molte case, molti monumenti, non sono stati ancora puntellati. Se arriva un’altra scossa, oppure una forte pioggia, quei muri rischieranno seriamente di crollare». Il presidente, così, lancia l’allarme: «Il centro storico è stato abbandonato. Perché mancano le risorse e anche gli uomini sul campo sono di meno rispetto ai primi mesi. Finita l’emergenza, infatti, molti vigili del fuoco hanno lasciato l’Aquila per fare rientro nelle loro caserme sparse per l’Italia. Però, qui da noi, i problemi restano. E sono ancora enormi...».
La città, va detto, con i suoi 3 milioni di metri cubi da demolire e 1.500 puntellamenti da fare, prova lo stesso a reagire. Nonostante la situazione sia difficilissima: 16.500 lavoratori in cassa integrazione, 1.500 piccole e medie imprese della «zona rossa» ormai ferme da cinque mesi, a spasso anche i 100 ambulanti storici di piazza Duomo. Un’altra risorsa era l’università: con 28 mila studenti iscritti (la metà «fuorisede»). Erano loro, soprattutto, ad animare la «movida» aquilana e il suo indotto: bar, ristoranti, turismo, servizi. Chissà se (e quanti) torneranno.
Ma tant’è. Ieri, con un’ordinanza, il sindaco Massimo Cialente ha voluto riaprire alcune strade del centro, per dare comunque un segnale di rinascita: via Zara, i Quattro Cantoni, corso Vittorio Emanuele, via Signorini Corsi, via Tedeschi, via San Bernardino, piazza Duomo. Già a giugno Cialente aveva riaperto il primo varco (corso Federico II) e così ieri, passeggiando per le vie picchettate, gli aquilani per qualche ora si sono ripresi un altro pezzetto di cuore (in serata c’è stata pure una fiaccolata in memoria delle vittime, la prima dopo 5 mesi a sfilare per le strade del Centro).
Oggi pomeriggio, a 150 giorni dal sisma, arriverà il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che visiterà il nuovo villaggio di Onna (costruito a tempo di record) e poi assisterà al concerto di Riccardo Muti nella caserma di Coppito. Il corteo presidenziale passerà anche per via XX settembre, la strada dove sorgeva la Casa dello Studente, la via dei 18 morti in una notte sola: ai lati sono rimaste le macerie.
«Dopo il G8 di luglio — incalza il presidente della Provincia Pezzopane — i Grandi del Mondo s’impegnarono ad adottare ciascuno un monumento della città. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, promise di prendersi carico della chiesa di Santa Maria Paganica; il premier spagnolo Zapatero s’interessò al Castello; Carla Bruni in Sarkozy disse di volersi occupare della chiesa delle Anime Sante. Benissimo, ora però speriamo che mantengano gli impegni».
Il sindaco Cialente condivide le preoccupazioni della Pezzopane: «Ci vorrebbero 3 miliardi di euro per rimettere a posto monumenti, chiese, edifici pubblici. Purtroppo i soldi non ci sono e dunque non sarà facile compiere il miracolo. A Noto, i siciliani furono bravissimi a ricostruire la loro cattedrale crollata, ma noi a L’Aquila solo in centro abbiamo almeno 25 basiliche da restaurare. Senza contare gli edifici storici: palazzo Carli, palazzo Margherita, la scuola De Amicis, il cortile di palazzo Dragonetti, le bellezze distrutte di via Roma. Eppoi l’Auditorium, il Teatro, la Biblioteca. Così, visto che a suo tempo non si è voluta la tassa di scopo, ora confido molto nella prossima Finanziaria...
». Cialente dice che sono ben 3.600 ore che non dorme: 5 mesi, appunto. «Stiamo facendo i salti mortali — racconta —. Per fortuna anche le grandi banche, le singole Regioni, le Province, perfino i Cavalieri del Lavoro, si stanno facendo avanti per adottare ciascuno un monumento. Le difficoltà, però, sono tantissime». Un esempio? «Ho chiesto di assumere in Comune 120 persone per seguire le migliaia di pratiche della ricostruzione, rimborsi, finanziamenti, controlli dei cantieri, ma ancora non mi arriva l’ok dall’amministrazione centrale », accusa il sindaco.
Riflette, dal canto suo, Stefania Pezzopane: «Bene hanno fatto governo e Protezione civile. È stato giusto, fin qui, concentrare ogni sforzo per realizzare le case provvisorie a beneficio di migliaia e migliaia di persone (entro il 28 settembre saranno consegnate le prime 13 palazzine antisismiche, mentre in vista dell’autunno cominciano a chiudere le tendopoli e in molti hanno già traslocato nella caserma del G8, ndr ). Però, poi, servirà un impegno altrettanto straordinario per mettere mano al degrado del Centro...», ammonisce il presidente della Provincia.
«Ci vuole un salto di qualità — conclude Gianni Chiodi, presidente della Regione Abruzzo e commissario per la ricostruzione del patrimonio culturale —. Finora, infatti, c’è stata troppa frammentazione nel processo di governance . Intrecci di funzioni, responsabilità, competenze. Bisognerà cambiare. Davanti ci aspettano dieci anni duri di lavoro, ma dico subito che non basterà ricostruire la città così com’era. Per l’Aquila urgono nuovi scenari».
Si parlerà del piano casa per i giovani al Consiglio dei ministri di oggi, anche se le misure annunciate da Silvio Berlusconi non sono ancora state tradotte in un articolato pronto per l'esame collegiale del Governo.
Fonti di Palazzo Chigi confermano che aggi il tema potrebbe emergere nell'ambito di una più generale discussione imperniata su terni economici e ricordano che la misura annunciata dal premier si raccorda al più ampio progetto del social housing. Progetto cui collabora anche l'agenzia del Demanio, che, come riporta l'agenzia Radiocor, sta portando avanti il censimento dei beni demaniali - aree e immobili - passibili di un utilizzo e di una riconversione all'insegna dell'edilizia a basso costo. Allo stesso fine contribuiranno anche le strutture gestite dagli ex Iacp, con la vendita, anche ai giovani sposi, con mutuo a tasso agevolato, o con la demolizione e costruzione di nuovi edifici. Il patrimonio ex lacp interessate dal piano conta circa un milione di appartamenti,
Non è, però, ancora terminata la mappatura del Demanio, per selezionare il parco aree al servizio del piano casa, E' poi scontato che per il piano serva la collaborazione di Regioni e Comuni, sia per le procedure urbanistiche che per l'individuazione di ulteriori aree a basso costo.
Fondamentale poi il ruolo dei privati, che hanno preso molto sulk serio l’ultimo annuncio di Berlusconi. «Ned abbiamo parlato a lungo questa mattina in un incontro anche con il mondo delle cooperative», riferisce Claudio de Albertis, presidente dei costruttori di Milano (Assismpredil), la città che più di altre sta sperimentando le soluzioni di social housing. «I1 ragionamento di Berlusconi é giusto - giudica de Albertls - oggi ci vogliono interventi di grandi dimensioni, con prodotti pensati per singole categorie, come appunto le giovani coppie. Un esempio è quello che si è fatto in Abruzzo, dove si é realizzato un prodotto in tempi rapidi che costa meno». C'e pero ancora molto da fare, secondo il presidente dei costruttori privati milanesi, su vari fronti: «Il quadro normativo é quella del 1950, sotto il profilo architettonico, igienico-sanitario e tecnologico», Sul prodotto «bisogna aprire il confronto a progettisti per lavorare sull'innovazione di qualità e di prestazione. All'Aquila ho visto progetti molto belli da un punto di vista architettonico. C'è effettivamente una nuova stagione che si apre». «C'è poi il problema finanziario, risolvibile con un mix di possibilità per mantenere basso il costo del denaro, e in ogni caso con l'equity di imprese e operatori», l poi c'è la gestione: se si pensa al riscatto o al patto di futura vendita, la gestione pesa per anni sull'operatore privato.
L'annuncio del premier non convince 1'Anci. «Del progetto cento cîtta avevo sentito parlare tre anni fa, quando una delegazione del governo Prodi, insieme a imprenditori, si recò in Cina per studiare un progetto per il contenimento della forte ondata migratoria che dalle campagne portava la popolazione cinese verso le città - commenta il presidente della consulta Casa dell'Anci, Roberto Tricarico -, Evidenetemente il governo Berlusconi intende mutuare quel progetto adattandolo all’Italia, che invece dovrebbe lavorare per usare lo spazio esistente al Nord come al Sud, conseguente al processo di deindustrializzazione del Paese».
Ha ragione Rosa Serrano (la Repubblica, 28 agosto) di parlare di «fai-da-te» delle regioni sul «piano-casa», con conseguente «giungla di regole». Ma c’è di più. L’accordo-beffa del 1° aprile (data ben scelta, non c’è che dire) prevedeva una precisa sequenza: il governo s’impegnava a emanare entro 10 giorni un decreto-legge di «semplificazioni normative», di fatto un maxi-condono edilizio preventivo; le regioni avevano poi tre mesi di tempo per emanare le proprie norme. Cinque mesi sono passati senza che il governo abbia emanato il suo decreto; intanto, come ha scritto Rosa Serrano, «sono 12 le leggi già pronte, altre 8 allo studio», ma alla scadenza di tre mesi di cui all’accordo del 1° aprile solo due regioni (Toscana e Umbria) e la provincia autonoma di Bolzano avevano emanato la propria legge. È dunque evidente che l’accordo del 1 aprile è saltato.
Una cosa hanno in comune le norme regionali, varate o da varare: sono illegittime, perché prevedono deroghe al Codice dei Beni culturali e ad altre leggi dello Stato, dunque vanno oltre la competenza delle regioni. L’ordine logico e cronologico è quello previsto il 1° aprile: prima una legge-quadro statale, dopo le leggi regionali, di natura attuativa. Se il governo le impugnasse alla Corte Costituzionale, cadrebbero con un sol colpo di bowling, ma è improbabile che accada. Due gli scenari possibili: primo, il governo aspetta che tutte le regioni abbiano fatto la propria leggina per poi «adeguarsi» con una legge nazionale giustificata, esautorando il Parlamento, come l’esito di una spinta dal basso. Secondo scenario: la norma nazionale non viene mai emanata, il governo fa finta che l’accordo del 1 aprile sia un surrogato della legge e, in connivenza con le regioni, omette di impugnare le loro leggine davanti alla Corte, come dovrebbe.
In questo teatrino della politica, vittima della beffa è il paesaggio come bene comune, cioè noi. L’aggiunta di volumetrie vietate fu l’oggetto dei condoni edilizi di Berlusconi deprecati dalla sinistra; ma ora le regioni «di sinistra», sbandierando la dubbia etica del male minore, difendono il proprio piano-casa con un argomento miserevole: perché esso consente devastazioni minori di quelli delle regioni «di destra». La differenza fra destra e sinistra non è dunque nel rispetto delle leggi, ma nella misura in cui esse vengono violate. Per esempio l’Umbria, la cui presidente Lorenzetti aveva dichiarato all’Unità che il piano-casa di Berlusconi «favorisce l’abuso e distrugge il territorio», ha prodotto una legge che legittima persino l’abbattimento degli uliveti (in Umbria!) in favore di progetti edilizi. Italia Nostra ha denunciato il «piano per la cementificazione dell’Umbria» alla Commissione Europea per infrazione del principio di sviluppo sostenibile, e ha chiesto al governo di impugnarlo per incostituzionalità.
La convergenza fra governo e «opposizione» non è un caso, è il cuore del problema. La nuova disciplina di tutela del paesaggio, che prevede la pianificazione congiunta Stato-Regioni e «il minor consumo del territorio», è in un Codice bipartisan, prodotto da due governi Berlusconi e da un governo Prodi. Ma non meno trasversale è stata la decisione di rinviarne tre volte l’entrata in vigore, ora prevista al 1° gennaio 2010. Intanto, la devastazione dell’agro romano continua quale che sia il segno politico delle amministrazioni regionale e comunale. L’ottimo rapporto 2009 della Società Geografica Italiana (curato da Massimo Quaini) analizza il caso di Malagrotta, luogo di nuove lottizzazioni con 50.000 abitanti e di alcuni ipermercati, ma anche di una raffineria petrolchimica e della più vasta discarica d’Europa, che assorbe ogni giorno 5000 tonnellate di rifiuti, compresi (fino al 2008) i fanghi di depuratori e fogne: la gloriosa Campagna romana è diventata un paesaggio di morte. L’amministrazione dei beni culturali ha dato da poco un ottimo segnale con un vincolo di tutela paesaggistica (applicando per la prima volta l’art. 138 del Codice) sul vasto territorio a sud di Roma (fra Laurentina e Ardeatina), dove casali, torri e acquedotti ancora connotano un paesaggio amato da Goethe e Stendhal. Eppure Comune e regione sono subito scesi in campo: per Alemanno il vincolo è un «fulmine a ciel sereno», per la regione Lazio è inaccettabile perché «non tiene conto della pianificazione intrapresa». Destra e sinistra accorrono in soccorso dei palazzinari che vogliono cementificare anche questo lembo prodigiosamente (quasi) intatto di Campagna. Il Ministero ha finora resistito, e questo vincolo sull’agro romano, per la sua straordinaria importanza, ha ormai il valore di un simbolo e di una cartina di tornasole. Questa istruttiva vicenda mostra che l’amministrazione dei beni culturali (lo Stato) ha a cura la tutela del paesaggio molto più delle amministrazioni locali; la partita fra Stato e regioni è assai più decisiva della differenza di colore politico fra Veltroni e Alemanno o fra Storace e Marrazzo.
Il paesaggio è il grande malato d’Italia. Il rapporto Istat 2009 registra un incremento del costruito di 3,1 miliardi di metri cubi nel decennio 1995-2006, nonché l’evoluzione in senso meramente consumistico del rapporto popolazione-territorio, che va verso «la saturazione territoriale, in nessun caso sostenibile». Ma i dati Istat sono approssimati per difetto: nel 2008 l’Agenzia del Territorio ha scoperto un milione e mezzo di fabbricati abusivi, una vera megalopoli fantasma (Paolo Biondani sull’Espresso del 6 agosto). Come ha scritto Romano Prodi, «la devastazione del territorio continua e sarà ricordata anche fra molti secoli come il documento più buio dell’Italia del dopoguerra» (Il Messaggero, 26 agosto). Una situazione così drammatica impone di fermarsi a pensare. E’ necessario ripartire dai valori della Costituzione: il paesaggio come bene comune, luogo identitario, orizzonte del benessere e della qualità della vita. Nell’incultura e incoerenza diffuse in tutte le forze politiche, resta un soggetto che può e deve riaffermarlo con forza. Noi, i cittadini.
Il provvidenziale flop (per ora) del piano casa versione Bassolino è l’ultimo episodio di una complessa partita che il centrosinistra campano sta giocando da quindici anni con se stesso e con il suo elettorato di riferimento.
All’inizio c’è il piano regolatore di Napoli, un piano subito accusato di dirigismo, e che invece rappresenta il più alto momento di democrazia partecipata che la città abbia mai conosciuto. Le scelte che quel piano proponeva furono infatti discusse in decine di assemblee pubbliche con i cittadini, le associazioni, gli operatori economici. Fu in quei mesi che il centrosinistra costruì le basi del consenso, con l’assessore De Lucia che finì inevitabilmente per divenire il volto più credibile e apprezzato della nuova amministrazione, probabilmente più ancora dello stesso Bassolino.
Incredibilmente a questo punto, invece di raccogliere i frutti del lavoro svolto dedicandosi seriamente all’attuazione del piano, lo stesso centrosinistra, che governa anche la provincia, propone un piano territoriale che sconfessa completamente il Prg del capoluogo. Tra le altre cose, il piano provinciale cancella del tutto il Parco delle colline di Napoli, la grande infrastruttura verde nata per tutelare i 2.200 ettari di boschi e masserie miracolosamente scampati al sacco edilizio, e al suo posto rispolvera le vecchie lottizzazioni. Succede il finimondo. Per bloccare il piano provinciale le associazioni ambientaliste, gli agricoltori, i comitati locali si riuniscono in un coordinamento permanente. Per un mese i media nazionali seguono con risalto la vicenda, che si conclude con le dimissioni dell’assessore, il ritiro del piano provinciale, e le pubbliche scuse su Repubblica del segretario regionale Ds.
Il centrosinistra accusa il colpo e si rimette al lavoro, anche per dimostrare di aver appreso la lezione. Viene allora il turno della Regione, che propone un piano territoriale (il primo dopo quarant’anni) che fa sua la strategia di Napoli, mettendo al sicuro centri storici, paesaggio e territorio rurale, puntando tutto sulla riqualificazione dell’esistente e sul recupero delle aree dismesse e inquinate, mettendo finalmente un freno al consumo di suolo. Così come avvenuto per il Prg di Napoli, il piano regionale viene discusso in numerose conferenze e assemblee pubbliche, con migliaia di osservazioni, valutate e controdedotte una per una. Sull’onda della massiccia partecipazione il piano viene approvato dal consiglio regionale quasi all’unanimità, in una versione addirittura migliorata rispetto a quella licenziata dalla giunta.
E’ a questo punto della storia che spunta fuori la scellerata proposta di piano casa in versione vesuviana. Una proposta incredibile che, travalicando i contenuti dell’accordo Stato-Regioni, liberalizza di fatto la riconversione abitativa delle aree produttive, anche di quelle attive, affidando l’iniziativa alla proprietà fondiaria, in deroga ai piani vigenti, esautorando a tempo indeterminato sindaci ed amministratori. Ancora una volta sarebbe il de profundis per il Prg di Napoli e per il piano regionale fresco di approvazione, se non ci fosse l’energica reazione delle associazioni, anche di quelle professionali, che reclamano il ritiro del provvedimento, o almeno la sua radicale modifica. Il consiglio regionale, convocato ad oltranza per l’approvazione, preferisce a questo punto soprassedere, grazie alla decisa presa di posizione della Sinistra, e di pochi consiglieri più avvertiti del Pd. Se ne riparlerà a settembre (cioè ora).
La morale, se è possibile trovarne una in tutta questa scombinata vicenda, è un po’ desolante, ed è quella di un centrosinistra spaventato dai suoi successi, infastidito dal consenso, fragile e disorientato quando scopre che le cose che fa sono troppo distanti da quelle appuntate nell’agenda del satrapo col cerone.
ROMA - Il federalismo si è materializzato con il piano casa. Sono dodici le Regioni - compresa anche la Provincia autonoma di Bolzano - che hanno già approvato una legge per consentire l’ampliamento o la ricostruzione di immobili. L’accordo Stato-Regioni prevedeva che entro il 10 aprile sarebbe stato emanato un provvedimento d’urgenza per semplificare, fra l’altro, le procedure abilitative e permettere l’avvio sprint dei lavori di estensione delle abitazioni esistenti. Il decreto legge non è arrivato ma l’idea lanciata dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi di invertire il trend negativo del settore delle costruzioni - concedendo cubature aggiuntive ai proprietari che volevano allargare o ricostruire i loro edifici - non è rimasta sulla carta. Così le Regioni hanno fatto da sole. Con regole differenti e con possibilità di ampliamenti che, in molti casi, vengono estesi anche ai fabbricati non residenziali. E alle dodici potrebbero aggiungersene presto altre: sono infatti otto i disegni di legge delle giunte regionali che saranno sottoposti nei prossimi mesi all’approvazione dei rispettivi consigli.
Il primo tassello del piano casa federale lo ha messo la Toscana, limitando i premi di ampliamento a edifici mono e bifamiliari o, in ogni caso, con una superficie non superiore ai 350 metri quadrati. In pratica, l’aumento del volume del 20% non può superare i 70 metri quadrati. Disco rosso, invece, per gli immobili adibiti ad attività produttive. Di tutt’altro tenore la legge del Veneto, molto più generosa. Il bonus per ampliamento degli edifici viene riconosciuto nei limiti del 20% del volume se destinati ad uso abitativo e del 20% della superficie coperta se utilizzati, ad esempio, per l’esercizio di attività economiche. E in alcune ipotesi è ammessa la realizzazione di un corpo edilizio separato. Il piano casa veneto premia, inoltre, operazioni di abbattimento e ricostruzione degli edifici costruiti prima del 1989, con aumenti di volume (per le case) e di superficie (per gli edifici non residenziali) fino al 40%, in deroga agli strumenti urbanistici, a condizione, però, che gli interventi siano compatibili con la destinazione urbanistica dell’area, non modifichino l’utilizzo degli edifici e impieghino tecniche di edilizia sostenibile e fonti di energia rinnovabile. Sia gli ampliamenti che le ricostruzioni sono subordinate al via libera da parte dei Comuni: entro il 30 ottobre 2009 dovranno decidere se e con quali ulteriori limiti e modalità applicare la nuova normativa regionale. Per entrambi gli interventi edilizi, il contributo di costruzione è ridotto del 60% nell’ipotesi di edificio destinato a prima abitazione del proprietario. Gli interventi non possono essere realizzati per gli edifici situati all’interno dei centri storici.
Il Lazio, invece, ha approvato il piano per l’edilizia nella seduta del 6 agosto. Potranno ampliare la loro casa del 20% i proprietari di immobili con volume non superiore a mille metri cubi. L’incremento massimo per l’intero edificio sarà di 62,5 metri quadrati. Il "premio cubatura" del 10% scatta anche per gli edifici a destinazione non residenziale utilizzati per artigianato e piccola industria con superficie non superiore a mille metri quadrati. Ma non si potrà cambiare la destinazione d’uso per dieci anni. Nelle zone agricole, i benefici previsti dalla legge potranno essere utilizzati solo dai coltivatori diretti, dagli imprenditori agricoli a titolo professionale e i loro eredi.
Alcune normative prevedono poi dei superbonus di ampliamento collegati, spesso, a miglioramenti della prestazione energetica o a interventi anti-sismici. Ad esempio, la legge regionale dell’Emilia Romagna stabilisce che, per gli edifici esistenti al 31 marzo 2009 con una superficie non superiore a 350 metri quadrati, l’allargamento è ammesso fino al 20% in più e, in ogni caso, fino ad un massimo di 70 metri quadrati. Sarà possibile estendere l’immobile entro un massimo del 35% (e comunque fino a 130 metri quadrati) applicando i requisiti di prestazione energetica in tutto l’edificio e non solo sulla parte ampliata.
Vedi l'accurata analisi di Legambiente
Solo una tenda è rimasta a cercare di salvare l'antico diritto dell'uso civico dei terreni dell'Appennino! La questione è: l'ultima casa rimasta a Vallibona, piccolo nucleo abitativo nella valle di Campanara, è stata occupata anni fa da uno dei fondatori dell'associazione Nascere Liberi. Dopo il foglio di via e le denunce per occupazione di proprietà della Regione, l'occupante ha fatto il passo di lasciare la camera che abitava nello stabile. Da giugno però dopo un periodo ospitato in giro, l'occupante ha deciso di tornare a Vallibona e proseguire l'occupazione montando una tenda. Ma convocato dai carabinieri, gli è stata incolpata la mancanza di fissa dimora, togliendogli così la possibilità di rinnovare la carta d'identità e di votare. Ha chiesto allora la residenza nella tenda, cosa dal punto di vista legale dovuta. Ma le autorità tergiversano, e il 20 agosto gli è stata consegnata dai vigili una raccomandata della Comunità Montana, organismo che gestisce il demanio per conto della Regione (il vero proprietario), in cui l'occupante è diffidato dal permanere nel territorio pubblico di Vallibona rendendo quindi impossibile il soggiorno in tenda sul terreno. La diffida pare non sia affatto legittima, e l'occupante sta cercando in tutti i modi di far valere i propri diritti: si è appellato al difensore civico, e ha contattato varie associazioni della zona. Invitiamo tutti coloro che oltre a difendere i diritti dei cittadini vorrebbero il recupero degli antichi borghi lasciati andare in rovina e poi ceduti per poche lire alla speculazione, a mobilitarsi. Avvieremo una raccolta di firme per sensibilizzare l'opinione pubblica, e speriamo in una forte partecipazione al presidio, con tante tende montate. Vorremmo che quest'azione diventasse un esempio della volontà della gente a non lasciarsi espropriare la montagna, grande bene collettivo: gli occupanti non vogliono diventare proprietari, chiedono soltanto di poter riabitare e salvaguardare le vecchie costruzioni abbandonate, di riportare a un uso agricolo rispettoso il territorio del demanio abbandonato a un'incuria irresponsabile. Per il recupero di Vallibona
Sono fra coloro che hanno duramente criticato il ‘piano casa’ del governo perché inutile rispetto agli obiettivi dichiarati, distruttivo del paese e immorale. A differenza di altre Regioni, fra cui spiccano i congruenti estremismi di Veneto e Campania, la Regione Toscana lo ha tradotto in una buona legge. La LR 24/2009, infatti, ha il merito fondamentale di permettere l’ampliamento o la riedificazione solo di una parte del patrimonio edilizio esistente e solo all’interno degli strumenti urbanistici vigenti; impedisce con ciò l’aspetto più nefasto del disegno berlusconiano, il colpo di spugna sulla pianificazione del territorio e il via libera a ogni forma di speculazione.
Più precisamente, la legge limita gli interventi di ampliamento ai casi in cui già i piani regolatori permettono la ‘ristrutturazione edilizia con incrementi volumetrici’. Quanto agli interventi di demolizione e ricostruzione, questi sono possibili esclusivamente sull’edilizia abitativa, senza cambio di destinazione. Inoltre, i provvedimenti non si applicano nei centri storici o nelle parti del territorio ad essi assimilate, a immobili vincolati o dichiarati di interesse storico-culturale dagli strumenti urbanistici, nei parchi o nelle riserve naturali, in zone di pericolosità idrogeologica e all’interno dei piani attuativi. Viene così disinnescata la peggiore pillola avvelenata del disegno di legge statale, la possibilità di riconvertire i capannoni dismessi o inutilmente costruiti con la Tremonti bis, e magari da ricostruire con la Tremonti ter, come residenze ed uffici. Se si considera, inoltre, che tutti gli interventi sono condizionati dall’utilizzazione di tecniche di sostenibilità ambientale e di risparmio energetico (nonché dall’eliminazione delle barriere architettoniche), si può sostenere che la legge, se correttamente applicata, potrebbe avere un impatto positivo sul patrimonio edilizio regionale. Un risultato non di poco conto e addirittura brillante se confrontato a quanto legiferato dalle altre regioni.
Chi critica la legge, sostenendo che comunque la Regione Toscana avrebbe potuto ignorare il ‘piano casa’ del governo, trattandosi di materia di esclusiva competenza regionale, non tiene conto che un rifiuto secco, data la popolarità dell’abuso edilizio, sarebbe stato un suicidio politico. Il fatto che la Regione Toscana abbia approvato rapidamente la legge (con l’astensione dell’opposizione), a mio parere - e in ciò dissento da altre osservazioni critiche - è stata una mossa intelligente che ha chiuso la questione prima che si scatenassero le pressioni di proprietari, costruttori, cooperative, professionisti e del potente battaglione edilizio.
Tuttavia il comportamento dei Comuni che ne dovranno dare attuazione può inficiare le potenzialità positive della legge. Sarebbe, infatti, una iattura se le amministrazioni locali rendessero più permissivi gli strumenti urbanistici o riclassificassero in basso le categorie di intervento sul patrimonio edilizio, in particolare nel territorio rurale, per ampliare e rendere possibile ciò che la Regione ha voluto limitare. E qui torniamo ad un punto dolente, al vero nodo di fondo che mette in crisi sistematicamente le buone intenzioni di governo del territorio della Toscana espresse anche nel PIT recentemente adottato come piano paesaggistico: la delega totale ai Comuni delle politiche urbanistiche reali e la altrettanto totale assenza di controlli e sanzioni, di fronte a plateali violazioni della legge e ad azioni non solo illecite, ma criminose e ripetute nel tempo. Vi è un caso esemplare che interessa un Comune situato in quel ‘patrimonio collinare’ che il piano paesaggistico definisce come ‘invariante strutturale’. Il Comune è Casole d’Elsa: qui la lettura dei verbali della Procura della Repubblica, da poco resi pubblici, dipinge un quadro drammatico e pone interrogativi non solo sulle possibilità, ma anche sulla volontà di controllo da parte degli organismi regionali in presenza di clamorose, insistite, ricorrenti e impudenti violazioni della legge. Il tema è cruciale dal momento che il piano paesaggistico adottato limita drasticamente il potere delle soprintendenze in merito alle autorizzazioni paesaggistiche (ormai richieste solo in casi particolari), trasferendo di fatto ogni potere ai Comuni. Se ciò interessa a qualche lettore di Eddyburg, questo sarà il tema di un prossimo intervento.
Sull’argomento vedi anche Piano casa alla Toscana, in “Eddyburg per Carta” http://eddyburg.it/article/articleview/13341/0/293/
L’Aquila è morta, ora. Nessuno si azzarda a stimare quanti soldi, quanto lavoro, quanto tempo servirà per rimettere in piedi una città che, circondario compreso, contava centomila abitanti. Un problema che per adesso non si pone nessuno: la priorità, dicono alla Protezione Civile e al Comune, è risolvere l’emergenza, far uscire prima dell’inverno dalle tendopoli le quasi 20.000 persone ancora alloggiate nei campi, riaprire le scuole. Ma dopo l’emergenza si rischia di trovare un deserto economico, sociale, urbanistico.
Oggi la «popolazione assistita» dal commissario straordinario Guido Bertolaso ammonta a 47.961 persone: 19.857 nelle tendopoli, 18.729 negli alberghi, 9.631 in case private. Di questi 48.000 sfollati, 27.886 vivevano in case attualmente del tutto inagibili (il 30,7% del totale). Circa 15.000 (4500 entro la fine di settembre, altrettanti dopo il 16 ottobre, e poi a seguire) finiranno nei 4950 appartamenti delle C.A.S.E. antisismiche realizzate in 19 aree, alcune distanti anche diversi chilometri dall’Aquila. Altri 5000 circa andranno nelle case sfitte, ne sono state censite 2600; 1000 negli alloggi usati per il G8 nella Caserma di Coppito della GdF. Altri 5000 torneranno nelle loro abitazioni classificate A, ovvero con danni inferiori a 10.000 euro. Il resto andrà negli alberghi o in case affittate utilizzando il contributo di 600 euro al mese della Protezione Civile. E l’emergenza dell’inverno sarà superata con sistemazioni «dignitose e confortevoli», come ha detto Guido Bertolaso.
Numeri che non tranquillizzano molti aquilani, a cominciare dalle associazioni che aderiscono al Comitato 3.32 (l’ora del sisma del 6 aprile) che hanno sempre contestato la filosofia Bertolaso delle C.A.S.E., chiedendo piuttosto di imitare quanto si fece in Umbria e Marche: sistemazioni temporanee in casette/container, ora moderne e abbastanza confortevoli, e contestuale avvio della ricostruzione delle case danneggiate. Una strada considerata ancora percorribile. «Le C.A.S.E. - spiega Sara Vegni, del “3.32” - sono state localizzate senza alcun confronto con gli aquilani e senza alcun riguardo per le esigenze delle persone. La risistemazione degli edifici A, B e C, quelli poco o nulla danneggiati, è completamente ferma anche per le procedure confuse e complesse stabilite dal commissario. Si sta strappando alle sue radici un’intera popolazione, sparpagliandola fra l’entroterra e la costa, e avviando una guerra tra poveri per avere le C.A.S.E.». Guerra tra poveri - 15 mila posti per 23 mila potenziali richiedenti - che verrà resa più spigolosa dai criteri per adesso definiti dal Comune dell’Aquila per l’assegnazione: saranno favorite le famiglie con molti figli, molti anziani, e disposte a coabitare, ovvero per definizione le famiglie di stranieri o immigrati. Una donna single con madre anziana a carico in pratica non avrà speranze. Uno dei molti grattacapi da risolvere per il sindaco Massimo Cialente (Pd), di fatto senza reali poteri di governo in questa fase di emergenza.
Il sindaco Cialente - lo incontriamo emaciato, stanchissimo - è il sindaco di una città che non esiste più. «Era dal terremoto del 1908 di Messina e Reggio - spiega Luigi Vicinanza, direttore del quotidiano abruzzese “il Centro” - che non veniva colpito in modo tanto distruttivo un grande capoluogo». Un capoluogo, spiega l’urbanista Vezio De Lucia, animatore del «Comitatus Aquilanus» (anch’esso contrarissimo alla filosofia Bertolaso), «che era già fortemente diffuso. Ma che viveva grazie a un centro storico eccellente, qualificato, ricco, che attirava 15.000 studenti universitari da tutto il Sud assicurando qualità della vita e buona offerta formativa. Un centro storico che oggi non esiste più né si pensa di riattivare. Con le C.A.S.E. ha prevalso la logica della diaspora».
Ad alimentare l’economia e la vita della città, oltre agli universitari che rendevano L’Aquila tanto vivace, c’era un tessuto imprenditoriale debole, con un polo dell’elettronica già in crisi da anni. Dopo il sisma, le imprese locali non sono riuscite a inserirsi (se non in minima parte per l'edilizia) nelle attività legate all’emergenza. Persino il latte distribuito nei campi viene da fuori, anche la manodopera per le C.A.S.E. non è aquilana, nel circondario sono piovute aziende da tutta Italia. Francesco Manni, direttore dei costruttori dell’Ance dell’Aquila, è ottimista per il futuro: «Avremo spazio e lavoro per tutti, la ricostruzione sarà una cosa gigantesca». Antonio Cappelli, direttore dell’Unione Industriali, ricorda però che ora sono in cassa integrazione circa 7000 persone. E discrimina tra un’industria manifatturiera (elettronica esclusa) che «si è rimessa in moto» e un terziario (specie il piccolo commercio e l’artigianato) del tutto paralizzato.
Molti sfollati non hanno letteralmente i soldi (anche 10-20 mila euro, che verranno rimborsati) da anticipare alle ditte per sistemare le case A e B. Molti terreni agricoli vengono comprati da speculatori, e venduti in lotti dove sorgono casette di legno a blocchi di favelas. E come chiariscono alla Protezione Civile, «la vera ricostruzione sarà un problema immenso, ci possono volere dieci, venti o cinquant’anni». I soldi arriveranno, si spera. Sarà questa la speranza per L'Aquila? «La verità - conclude amaro Vicinanza, che seguì a suo tempo il sisma e il dopo-sisma in Irpinia - è che un terremoto non è mai un’occasione di sviluppo. E’ un disastro e basta».
L’introduzione dell’articolo 14 (legge obiettivo per il turismo di qualità) nel Decreto sulla competitività, proposto dall’on. Crosetto (FI) merita qualche ulteriore considerazione. La proposta di cedere in concessione a privati beni demaniali costieri per un periodo di 90 anni al fine di impiantare strutture alberghiere di qualità e case da gioco, per contribuire al decollo dell’economia del Mezzogiorno, in deroga a qualunque previsione urbanistica e di tutela vigente, è la cosiddetta ciliegina sulla torta. La trovata si inserisce infatti perfettamente in quella linea di pensiero e di azione più volte esplicitata dall’attuale maggioranza politica al governo del paese sintetizzabile nell’obiettivo di rastrellare risorse economiche comunque e dovunque, senza andare troppo per il sottile.
La famosa cartolarizzazione, cioè la vendita del patrimonio immobiliare pubblico, con la conseguenza di un gran numero di sfratti agli inquilini di case di proprietà di enti pubblici, per non parlare delle implicazioni squisitamente culturali sulla alienazione del patrimonio edilizio storico; la deregulation in campo urbanistico con l’ingresso sempre più invasivo del privato nelle decisioni urbanistiche, consacrato nella legge nazionale sul “governo del territorio” nota come legge Lupi, fortunatamente bloccatasi per mancanza di copertura finanziaria, sono alcune delle performances più significative dell’attuale maggioranza politica al governo del paese.
A onor del vero l’insofferenza verso le regole dell’urbanistica (i cosiddetti lacci e lacciuoli che impediscono la libera iniziativa degli imprenditori privati) si è manifestata da più di un decennio e ha prodotto il varo di strumenti urbanistici che prevedono l’affermazione del partenariato pubblico-privato, il ruolo crescente del partner privato e la deroga sistematica alle norme contenute negli strumenti urbanistici. Ci riferiamo ai cosiddetti “programmi complessi” tra cui si annoverano i PIT (Programmi integrati di intervento) i PRUSTT (Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio); iniziative promosse da privati, spesso sostenute da finanziamenti europei, con percorsi molto accelerati di progettazione e di approvazione, a scapito della qualità progettuale e della trasparenza delle procedure.
Sulle questioni accennate non ci è sembrato cogliere un grande interesse e un adeguato atteggiamento critico da parte delle forze politiche del centro-sinistra, che sono sembrate tendenti a sposare tout-court le innovazioni, dimenticando forse che la paleo-urbanistica, tradizionalmente affidata al soggetto pubblico, nonostante alcune innegabili rigidezze, garantiva almeno irrinuciabili fasi di pubblicizzazione delle scelte urbanistiche e di democrazia partecipativa alle scelte stesse (pubblicazione dei piani, osservazioni e opposizioni dei cittadini e dei soggetti portatori di interessi collettivi come le associazioni culturali, ambientaliste, etc..). Le procedure accelerate, gli “sportelli unici” e i “silenzi-assenso” rendono molto difficile l’informazione e la conoscenza delle iniziative proposte dal privato di turno.
Nell’art. 14 proposto dall’on. Crosetto troviamo tutti gli ingredienti di cui sopra tendenti a spianare la strada del privato, ma gli stessi contenuti e obiettivi erano stati dichiarati più volte in precedenza dall’on. Miccichè, in varie interviste rilasciate da quando ha assunto la carica di Ministro per la Coesione Territoriale (?) con particolare riferimento allo sviluppo del Mezzogiorno.
Ascoltando e leggendo le interviste dei suddetti politici c’è da chiedersi in che misura essi conoscano il Mezzogiorno, le relative angosciose problematiche, le straordinarie risorse territoriali, ancorchè sottoutilizzate, e che cosa intenda il Ministro Miccichè per “coesione territoriale.”
Il Mezzogiorno, come è noto, è una terra di forti squilibri e di grandi contraddizioni: abbandono e spopolamento delle aree interne; congestione delle aree costiere; inquinamento marino di natura antropica; carenza di infrastrutture territoriali di collegamento; dissesto idrogeologico; carenza idrica; crescita dissennata delle città con croniche carenze di attrezzature e servizi pubblici; degrado e abbandono dei centri storici; dismissioni industriali e crollo degli indotti; agricoltura precaria. A ciò fa da contraltare la ricchezza del patrimonio naturalistico, paesaggistico, storico, archeologico, culturale, ubicato anche in aree interne e poco conosciute; la qualità architettonica e paesaggistica dei centri storici; la gastronomia e alcune piccole produzioni pregiate che cominciano ad affermarsi; una nuova attitudine imprenditoriale nel settore dell’agriturismo e del turismo rurale che utilizza una piccolissima parte della grande quantità di manufatti storici diffusi nel territorio. Da non dimenticare, ovviamente, l’ipoteca della criminalità organizzata su qualsivoglia iniziativa.
L’art. 14 mette su carta le intuizioni del Ministro Miccichè sul ruolo salvifico del turismo d’élite per il decollo del Mezzogiorno, tramite le procedure deregolatorie di cui si è già detto e che sono state evidenziate da altri commentatori sulla stampa nazionale.
E’ stato evidenziato giustamente anche che l’impresa mafiosa, che è l’unica ad avere capitali da investire nel Mezzogiorno, correrebbe a vele spiegate a cogliere le opportunità offerte dalla nuova normativa, ivi compresa la possibilità di aprire case da gioco, che come tutti sanno, servono egregiamente a ripulire il denaro di provenienza sospetta.
Ma i problemi sono anche altri e investono il ruolo che può avere realisticamente il turismo per contribuire allo sviluppo economico delle comunità del Mezzogiorno. Infatti la crisi dei sistemi produttivi tradizionali sembra affidare lo sviluppo del territorio delle regioni meridionali quasi esclusivamente all’incremento delle economie derivanti dall’attività turistica, invocata sistematicamente, ma in maniera piuttosto astratta, nei documenti delle forze politiche e sempre più presente nei progetti di sviluppo locale, anche se in forme disorganiche e di dubbia efficacia.
A tali manifestazioni di indirizzo programmatico non è comunque corrisposta una crescita del settore turistico come rivelano dati e statistiche recenti; infatti, il turismo, per diventare una attività produttiva di rilievo, deve fare parte di un progetto politico complessivo, in grado di intervenire non solo su tutta la filiera dell’offerta turistica, ma anche sulla riqualificazione del territorio, sul ripristino dell’equilibrio ambientale, sull’integrazione dei collegamenti territoriali, sull’incremento della portualità, etc…
L’offerta turistica del Mezzogiorno, al centro del Mediterraneo, che costituisce uno dei più grandi bacini turistici esistenti, dove confluisce il 35% del turismo mondiale, è ancora poco articolata per genere con prevalenza del turismo balneare, caratterizzata da una breve durata (il periodo di luglio e agosto) e concentrata su poche località da sempre inserite nei circuti turistico-balneari tradizionali.
Sicuramente non basta il cosiddetto turismo d’élite (alberghi a cinque stelle, campi da golf e case da gioco) specie se destinato a congestionare ulteriormente le fasce costiere a dare una spinta significativa e sana allo sviluppo delle comunità del Mezzogiorno.
Una autentica sensibilità verso la “coesione territoriale” dovrebbe indurre il governo a occuparsi del Mezzogiorno in maniera più organica, guardando anche alle risorse potenziali espresse dalle aree interne come parchi e riserve naturali, aree archeologiche, centri storici, produzione agricola ed eno-gastronomica di qualità; risorse straordinarie, che comunque non riescono ancora a fare “sistema” e a diventare attrattori di varie tipologie di turismo.
Il Ministero della “coesione territoriale” forse dovrebbe iniziare ad applicare sul campo la ragione sociale che lo definisce.
Incrementare il turismo. Fare del turismo il volano della ripresa. Imparare a sfruttare l’Italia, paese particolarmente adatto - per le sue eccezionali qualità storiche, artistiche, paesistiche, climatiche - a un turismo d’élite non meno che a un turismo di massa. Eccetera. Sono auspici con insistenza ricorrenti sulle bocche di politici di ogni livello, leader di partito, ministri, presidenti di regione, sindaci di piccoli comuni periferici. Puntualmente seguono, pronunciate con virtuosa convinzione, frasi del tipo “Anche perché il turismo non inquina”, “Molto meglio che alimentare consumi inutili”. Eccetera.
Nessuno, ch’io sappia, ha mai avuto nulla da obiettare. Incredibile. Nessuno sembra riflettere un attimo sulla sorte di città uniche e preziose (vedi Firenze, Venezia, il centro storico di Roma, ma gli esempi potrebbero essere infiniti) addirittura stravolte dal turismo di massa. E non solo per via delle folle stipate e faticosamente semoventi all’interno di stradine minime, vicoli e callette, nati quando gli umani erano meno di un decimo di quelli oggi viventi sulla Terra, e solo una quota minima di loro abitava in città, la maggioranza essendo allora residente e operante nelle campagne. Stradine vicoli callette che addirittura la massa dei visitatori impedisce, a sé e agli altri, di vedere, e che d’altronde pur restando (quando accade, e accade sempre più di rado) gli stessi di quattro cinque sei più secoli fa, nella struttura muraria, nelle facciate, nei tetti, negli infissi, risultano radicalmente trasformati, privi di senso, se la bottega del vecchio artigiano è stata sostituita da un fast food, e il negozio d’abbigliamento di antica tradizione si è trasformato in una jeanseria, e accanto a una celebre cattedrale staziona una bancarella traboccante di “ricordini” in alabastro e finto murano, e dovunque c’è un minimo di spazio sono tavoli e sedie di caffè trattorie pizzerie a occuparlo, e i rifiuti si ammucchiano in libertà e in vigoroso aumento.
Nessuno sembra ricordare che è stato il turismo, ricco o povero, di massa o d’élite, la causa prima della mostruosa cementificazione delle coste, non solo italiane, ma spagnole, greche, turche, nordafricane, e via via del mondo intero, invase da alberghi albergoni pensioni seconde e terze case. Che sempre il turismo, nelle sue diverse pratiche e accezioni, alla caccia di sempre nuovi e più lontani “paradisi incontaminati”, è tra i responsabili dell’abbattimento di foreste millenarie per far posto a villaggi turistici e centri commerciali, del dissesto ecologico di interi arcipelaghi, e (con il moltiplicarsi di natanti di tutti i tipi e misure, di porti grandi e piccoli, di depuratori malfunzionanti o inesistenti, di bagnanti distratti o maleducati) del crescente e sempre più allarmante inquinamento dei mari di tutte le latitudini; e quindi della distruzione di irripetibili fondali, della perdita di un altissimo numero di specie vegetali e animali, il corallo in primis, di uno squilibrio cui non pochi studiosi attribuiscono anche tsunami sempre più numerosi e violenti.
Men che meno qualcuno sembra considerare quale cospicuo apporto alla generale crisi ecologica rappresenti la mobilità che per definizione al turismo appartiene, qualunque sia il mezzo di trasporto. Automobile, con relativa produzione di gas serra, e insieme crescita esponenziale di produzione di macchine, di autostrade, di problemi di traffico urbano ed extraurbano, di malattie dell’apparato respiratorio. Aereo, con analogo ma enormemente più alto contributo all’effetto serra, e non piccolo contributo alla cementificazione del mondo mediante la moltiplicazione di aeroporti di ogni dimensione. Treno, con minore ma non trascurabile impatto ambientale connesso al numero crescente dei convogli, all’apertura di nuovi tunnel, all’alta velocità, e così via.
So benissimo, nel dire queste cose, di attirare la dura riprovazione non solo di quanti, direttamente o indirettamente, sul turismo di massa vivono e prosperano, ma anche di coloro che lo vedono come una conquista sociale, come il diritto di accesso da parte di tutti (o quasi) a quello che era privilegio di pochi, come nuova opportunità esperienziale e cognitiva da annoverare sul piano del diritto alla scuola e al sapere nella sua interezza, come strumento di sensibilizzazione e arricchimento mentale. Ma siamo certi che questa sia la funzione, e questo sia il risultato, del tipo di viaggi e vacanze “tutto compreso”, così come vengono organizzati e offerti, a prezzi di “assoluta competitività”, insomma il tipo di turismo più diffuso, in quanto accessibile a quelle masse che un tempo dal turismo erano escluse?
Viaggi per gruppi massicci, organizzati come catene di montaggio, secondo tempi strettissimi e obbligati, tappe di un giorno o due quando non addirittura di poche ore in famose città d’arte e soste di qualche minuto di fronte ai monumenti più significativi, il tutto a volte sostituito da un giro in bus con la voce della guida a indicare il Colosseo, il Louvre, il Partenone. Sempre però lasciando largo spazio a foto e filmati, e puntualmente prevedendo visite al vecchio mercatino o al nuovissimo shopping center per gli acquisti ricordo, includendo nel programma ristoranti “etnici” con cibi tradizionali da tempo adattati ai gusti dei visitatori, serate in locali di folklore anch’esso debitamente riveduto e corretto; in un sapiente gioco di rimando e accumulo tra mercato turistico e tutti i possibili mercati collaterali. Quanto può tutto questo contribuire all’apertura mentale, all’arricchimento culturale, al fervore immaginativo di una persona? E analogamente - fatta salva la “ricreazione” fisica - quanto può servire a questi scopi la vacanza in terre sempre più lontane, che proprio l’afflusso turistico non solo rende sempre più somiglianti all’occidente (nell’edilizia, nel traffico, nella cucina, nell’intrattenimento, nella crescente disponibilità di merci di produzione occidentale appunto) ma separa dal contesto generale del paese, in un processo che non ne risana ma ne contamina e squilibra la realtà, sovente creando due economie parallele, una (relativamente prospera) in dollari, l’altra (poverissima) in moneta locale?
Il fatto è che il turismo è soggetto a quel processo di assimilazione di ogni attività individuale e sociale alla merce (alla progettazione, alla produzione, alla commercializzazione, al consumo delle merci), che sempre più definisce sotto ogni aspetto l’attuale forma del sistema capitalistico, cioè il neoliberismo; il quale solo all’aumento del prodotto finalizza il proprio agire, del tutto trascurandone i contenuti, la qualità, le conseguenze. E’ un processo che riguarda ormai la totalità dei servizi, inclusi quelli che più dovrebbero restarne immuni, in quanto riguardano quella che Engels chiamava “produzione delle persone”, appunto distinguendola dalla produzione di merci: cioè non solo sanità, istruzione, ricerca scientifica, informazione di ogni tipo, ma anche le tante altre attività che hanno una significativa ricaduta sociale e culturale, che intervengono nella formazione dell’immaginario e dell’inconscio collettivi, di cui anche il “divertimento” in tutte le sue manifestazioni (ivi compreso il turismo) è parte non certo secondaria.
C’è qualcosa da fare? Non molto, temo, finché le sinistre non si accorgeranno che adeguarsi alle politiche economiche della destra, continuando a inseguire crescita, competitività, profittabilità, ecc., imponendo la quantità come categoria portante del nostro esistere, così come oggi accade, ci sta conducendo alla catastrofe, e non solo ambientale. Dopotutto il turismo, così come viene proposto e praticato oggi, appartiene a questa logica. Forse però, anche senza uscire da questa logica (cosa per ora difficilissima), si potrebbe riflettere che puntare sul continuo aumento del turismo per la ripresa economica, significa distruggere proprio quello che fa del nostro paese una meta turistica privilegiata, e dunque pervenire all’effetto opposto.
O si potrebbe almeno smettere di affermare che il turismo non inquina?
All'Aquila in questi giorni il clima sta cambiando, di notte la temperatura precipita e presto farà troppo freddo per vivere in tenda. La gente è preoccupata e comincia ad arrabbiarsi, ma tiene ancora la voce bassa: nei campi, luoghi di concentramento coatto dove le persone dipendono completamente dall'assistenza, non ci si può riunire, il regolamento lo vieta. E senza confronto è difficile far emergere il dissenso, soprattutto quando le necessità in gioco sono irrinunciabili. Specialmente quella delle case, che mancheranno a lungo, nonostante le promesse di alloggi subito per tutti. A quattro mesi dal sisma gli aquilani sfollati continuano a essere moltissimi: più di 60.000, di cui 45.000 assistiti tra alberghi, case affittate e, soprattutto, le tendopoli, dove vivono ammassate ancora almeno 20.000 persone.
Tra pochi giorni si conoscerà il numero delle case inagibili. I cittadini residenti in edifici dichiarati tali avevano infatti tempo fino al 10 agosto per presentare la domanda di assegnazione della casa. Ai richiedenti verranno attribuiti dei punti e, sulla base della graduatoria, si farà l'assegnazione. Ma non ci saranno case per tutti. Infatti, solo 13.000 potranno alloggiare nelle palazzine del progetto Case (Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili) che stanno sorgendo come funghi nel territorio del comune dell'Aquila. La sorte degli altri, meno fortunati, non si conosce. Per ora non c'è traccia di un concreto piano di requisizione degli alloggi sfitti o invenduti, non danneggiati o ripristinabili, che sono molti e potrebbero ospitare gran parte dei senza tetto. Non solo, gli interventi di recupero degli edifici meno compromessi stentano a partire, da un lato per le contraddizioni tecniche delle diverse ordinanze, dall'altro per i contributi che non arrivano ancora e che, comunque, riguarderanno solo i proprietari di prime case.
Invece, l'unica soluzione abitativa che sta prendendo alacremente forma, per merito degli operai delle ditte subappaltatrici che lavorano fino a notte, è il progetto Case, la new town distribuita sul territorio, tanto sostenuta da Berlusconi e Bertolaso. L'affidamento dei lavori è stato fatto in fretta: in regime di ordinanza si saltano via tutte le prescrizioni legislative sulle aggiudicazioni. Il progetto non prevede una vera e propria nuova città, come si disse all'inizio, ma tanti insediamenti più piccoli e meno invasivi, sparsi però nel vastissimo e assai differenziato territorio del comune dell'Aquila. In teoria una scelta migliore, in pratica uno scempio ambientale che innescherà un processo di allontanamento della popolazione da quel che resta della città. Infatti, molti dei 19 siti individuati dalla protezione civile (di concerto col comune) per le nuove palazzine prefabbricate, poggiate come palafitte sui piloni delle piattaforme antisismiche, non sono vicini alla città, bensì dislocati nella campagna circostante o, addirittura, arrampicati sulle pendici del Gran Sasso. «Il problema è proprio quello del posizionamento. Una localizzazione più razionale e meno attenta agli interessi economici, fondata su un criterio di prossimità alla città e sulla difesa delle specificità ambientali, avrebbe garantito agli aquilani sradicati un minimo di continuità con la propria storia spezzata, il mantenimento dell'identità e, soprattutto della socialità», come ci spiega Antonello Ciccozzi, docente di antropologia culturale all'Università dell'Aquila. Invece, quando si è trattato di scegliere dove collocare i costosissimi insediamenti (circa 3000 euro a mq), «della qualità della vita e del rapporto indissociabile tra esistenza e luogo non si è ricordato nessuno».
Il territorio comunale aquilano non potrebbe essere più vario: non solo il bellissimo centro storico oggi zona rossa interdetta alla popolazione (dove vivevano però circa 6000 persone), l'ampia periferia frutto di un'urbanizzazione non pianificata (nei cui palazzi e condomini viveva invece la maggior parte degli sfollati), la zona industriale a est e ovest, ma anche larghe zone rurali e frazioni montane poco popolate, comprese nel Parco Nazionale. Una di queste è Camarda, sulla strada che sale sul Gran Sasso. Di fronte al paese di pietra arrampicato sul monte stanno cominciando i lavori di Case. Due immense gru dominano il paesaggio, finora protetto dai vincoli del Parco. Le ruspe hanno già sbancato il terreno: resiste solo una quercia secolare, difesa strenuamente dai pochi abitanti del paese. Davanti a Camarda presto sorgeranno 4 o 5 palazzine destinate ai senza tetto aquilani con meno punti, che saranno sradicati da un contesto cittadino e trasferiti all'interno di un vero e proprio non luogo, una tipica periferia suburbana delocalizzata all'interno di una comunità montana «con effetti di completo spaesamento», spiega Ciccozzi.
Se la scelta di Camarda appare del tutto irragionevole, l'insediamento previsto ad Assergi, pochi chilometri più in alto verso il traforo, crea non meno problemi. Anche se l'individuazione del sito tra i monti ha una specie di giustificazione: in quel posto vi erano ancora i resti fatiscenti delle baracche utilizzate, più di vent'anni fa, dagli operai che hanno scavato il traforo, abbandonati dall'ultima impresa impegnata nella grande opera, Impregilo, che non si era curata di bonificare la zona, forse nemmeno dall'amianto. Adesso il progetto Case ha permesso il recupero ambientale: al posto delle baracche sorgeranno i consueti piccoli condomini che, per ora, rovineranno soltanto il paesaggio ma, più avanti, quando tra qualche anno gli aquilani deportati rientreranno a casa, si trasformeranno in contesti degradati, ben più invasivi delle baracche. Il discorso della degenerazione vale per tutti gli insediamenti, anche i più vicini alla città, che si teme diventino, nel tempo, contenitori di ogni sorta di emarginazione.
Nessuno fiata davanti a questo progetto, anzi lo si guarda come una panacea. Il rischio è essere tacciati di disfattismo o, meglio ancora, accusati di esser tutti comunisti. «Qui ci stanno aiutando, mica si può sputare sul piatto in cui si mangia».
Ma dove vanno gli aiuti, ci si chiede seguendo Ciccozzi, che parla della catena distorta della solidarietà e dice che «chi aiuta, alla fine, in varia misura aiuta anche sé stesso». E, richiamando la teoria della Shock Economy di Naomi Klein, spiega che «le grandi catastrofi sgretolano il tessuto sociale non solo le case. Favoriscono il capitalismo di conquista, che subito programma investimenti. Invece bisognava mettere al centro la difesa della qualità della vita, porsi il problema di ricucire la socialità interrotta, tutelare l'identità dei luoghi e delle persone». A chi conveniva il costosissimo Progetto Case imposto dall'alto senza negoziazione? Perché non sono stati espropriati i terreni più vicini alla città, le cui quotazioni cresceranno subito e saranno preda di facili speculazioni? E, soprattutto, perché non si è perseguita la strada della requisizione degli alloggi vuoti, che avrebbe aiutato anche le piccole imprese locali? Ad Assergi, ad esempio, un grande edificio mai completato domina con la sua mole tutta la valle. Un ecomostro da abbattere che, intanto, poteva essere reso abitabile con poco sforzo e gran risparmio di denaro pubblico e beni comuni, in primo luogo il paesaggio.
Due sono state le notizie principali in Sardegna, nelle prime settimane di Agosto. Di peso ed interesse diverso esse mi hanno offerto l’occasione di una riflessione.
La prima, non molto importante, è l’appello di Briatore contro la cosiddetta “tassa sul lusso” in Sardegna; un appello che sicuramente si presta a facili ironie: in ogni caso il suo nocciolo è che il turismo dei ricchi porta benessere.
La seconda, molto importante, è l’annuncio che fra due anni si chiuderà la base militare della Maddalena; e qui mi sono ricordato che il Presidente della Sardegna Soru da tempo ha condotto questa benemerita battaglia (ed anche quella sulle servitù militare), ma che tra le sue proposte per l’economia della Maddalena c’è il cosiddetto turismo di lusso (o dei ricchi: riassumibile nella formula “hotel a cinque stelle e campi da golf”).
In un certo senso, nonostante le polemiche tra loro, vi è forse un “comune sentire” fra Briatore e Soru.
Non voglio paragonare il faccendiere Briatore, che pure è persino simpatico (a parte il rispetto che va tributato a chi ha avuto al fortuna ed il merito di essere scelto come fidanzato da Naomi Campbell), ma che miliardario (billionaire) probabilmente non è, a Soru.
Soru miliardario lo è per davvero: è stato tra i primi cento ricchi del mondo nella classifica di Forbes, ma soprattutto è un grande imprenditore, capace di innovazione e visione (un innovatore nel senso che gli dava Schumpeter).
Ma sembrano entrambi convinti che il turismo buono sia quello di lusso.
Questo vorrei porre in dubbio.
Lo faccio anche considerando un’altra iniziativa del Presidente Soru: quella relativa al “Bando per la cessione, riqualificazione e trasformazione di ambiti di particolare interesse paesaggistico del parco geominerario della Sardegna”.
È un bando che prevede la vendita di edifici in “luoghi ormai abbandonati da molti decenni, che sono stati nel passato centro di importanti vicende operaie e industriali, costituiti da villaggi operai raccolti attorno a piccole chiese, palazzine direzionali, edifici scolastici, che si affiancano alle grandi strutture legate all'attività estrattiva, imponenti laverie, pozzi, giganteschi impianti industriali. Sono le architetture di un'epoca passata che sorgono in una zona costiera, in gran parte intatta, un vero spettacolo della natura.”
Si tratta di 260.000 metri cubi, da destinare “a strutture alberghiere ricettive con annessi centri benessere, strutture sportive e per il golf, interventi di miglioramento ambientale e di forestazione, realizzazione di strutture di supporto alla fruizione turistica dei siti di archeologia industriale eventualmente insistenti su tali aree.”
Anche qui ci si immaginano le cinque stelle, mentre il golf è esplicitamente citato.
Vero è che l’elenco delle destinazioni d’uso è “esemplificativo e non esaustivo”, come è stato precisato in un dei “quesiti e chiarimenti”, ma esemplificare significa appunto “proporre ad esempio”.
Ci sono delle considerazioni di tipo generale: perché vendere e non dare in concessione o gestire direttamente o con una società mista?
Ci sono considerazione legate ai quei luoghi: perché vendere quelle straordinarie architetture che sono luoghi di grande rilievo storico, culturale ed identitario (io le ho conosciute attraverso il film di Cabiddu, Il figlio di Bakunin)? Perché destinare a “strutture per il golf” zone estremamente “sensibili” per le emozioni e le memorie, che poi sorgono in una zona costiera “che è un vero spettacolo della natura”, estremamente sensibile dal punto di vista ambientale?
Ma quello che non mi convince, che mi pare non meditato, banale e non motivato è il convincimento che traspare qui, come in molti altre proposte, secondo cui il “turismo di lusso” è un buon turismo.
Non è così; in linea generale, almeno.
Non lo è (certamente) da un punto di vista ambientale: l’impronta ecologica del turista di lusso è enorme e assai fetida.
Non lo è (io credo) da un punto di vista economico: tende a creare ghetti autosufficienti, occupazione di bassa qualità e di tipo servile, servizi di tipo “internazionale” e non legati ai luoghi, incentiva il turismo “mordi e fuggi” dei voyeurs, è egoista e tendenzialmente stagionale, provoca aumenti di prezzi, privatizza spazi pubblici.
Può darsi che in altri tempi non ci fossero alternative, ma quella era l’epoca in cui si veniva mandati in Sardegna per punizione e non per premio.
Il turismo “buono”, sostenibile ambientalmente ed economicamente, non si distingue per fascia di reddito, ma per il rapporto che ha con i luoghi.
Facciamo degli esempi.
È buono il turismo dei giovani e degli studenti, che magari spendono poco, ma si muovono sul territorio, interagiscono tra loro e con i residenti e si affezionano e tornano e ne parlano.
È buono il turismo “elitario” di persone ad alto reddito (in genere non strettamente “ricchi”) che cercano situazioni e sensazioni “speciali”, che hanno cultura e rispetto per i luoghi e che hanno bisogno di servizi ad alto valore aggiunto.
È buono il turismo fedele si persone a reddito medio, magari di pensionati, che “si affezionano” ad un luogo, tornano anno dopo anno, magari nei periodi non di punta, magari per risparmiare (è la propensione al risparmio uno dei fattori possibili di successo di azioni per “destagionalizzare”.
In genere è buono un turismo di “cittadini”, ovvero di persone che si sentono a casa loro e che perciò danno oltre che prendere e che si mescolano ai residenti e che vivono un po’ della loro stessa vita; tra loro forse qualche ricco vero cui proporre qualche cinque stelle o qualche bell’hotel de charme (che tra l’altro non sono tutti a cinque stelle).
Certo nella miscela necessaria per una massa critica si dovrà scontare per un po’ una quota di turismo omologato (ricco, povero e medio), ma una “politica del turismo” punta non tanto ad aumentare questo tipo di turismo, ma a lavorare per migliorare questo turismo e a competere per attrarne un altro.
La giusta battaglia che in altre epoche è stata fatta per evitare di “diventare un popolo di camerieri” può aver condotto a qualche guaio ambientale , ma aveva un senso ed esprimeva una necessità anche economica; un buon turismo è un turismo senza troppi camerieri (con tutto il rispetto e la stima per i camerieri, anche perché esistono camerieri di grande qualità e di grande valore aggiunto che è bene avere e – a quel livello – è anche un buon mestiere).
Un buon turismo non è una mono-cultura.
Un buon turismo è un’attività economica che si integra con altre.
E allora è bene essere prudenti e non seguire i luoghi comuni, ma è opportuno “calcolare” (come avrebbe detto forse Leibniz).
Ad esempio dire “basta seconde case” non è la stessa cosa di dire “facciamo più alberghi”; può darsi che qualche volta sia così e senza dubbio basta con altre seconde case, ma delle seconde case che ci sono già cosa ne facciamo? Che se ne stiano vuote per 335 giorni all’anno? E se magari un alcuni contesti, fossero proprio quelle case gli “alberghi” che servono?
Ad esempio “più occupazione nel settore del turismo” non è sempre una cosa positiva; c’è occupazione e occupazione: ci sono posti di lavoro servili e precarie indotti dal “turismo di rapina” (come giustamente lo ha definito il Presidente Soru) e ci sono quelle prestigiose e di qualità.
Che tipo di turismo serve per una “buona occupazione”?
Intanto partiamo da qui: vendere per un turismo così (che forse non distinguerebbe la Sardegna da Marrakesh, come dice giustamente il Presidente Soru) proprio quei luoghi della Sardegna sud-occidentale tra il Guspinese e il Sulcis Iglesiente, non è neppure un affare, credo.
Non mi riferisco al fatto che 40 milioni di euro siano pochi o tanti; non lo so.
Mi riferisco al fatto che il turismo possibile ed utile in quei luoghi è un altro; per luoghi carichi di storia, c’è bisogno di sobrietà e di rispetto; i luoghi della memoria vanno conosciuti ed assimilati, recuperati poco a poco e delicatamente, man mano che si bonificano, trasformandoli in un processo che crei una comunità di persone che imparano a conoscerli e ad amarli, persone che da sempre hanno vissuto in quei luoghi e persone che li hanno visitati una sola volta.
Esperienze sagge e di successo non mancano.
Un passo indietro: prima di vendere, pensiamo a cosa è meglio.
Con la capacità di visione delle persone creative, con la capacità di correggere i propri errori delle persone intelligenti: insomma con le doti dell’imprenditore schumpeteriano.
Anche se piuttosto datato, il testo che segue mantiene un notevole interesse, se non altro perché – come molti altri già proposti in questa sezione – offre un punto di vista non convenzionale. Non convenzionale almeno per chi di solito vede solo alcuni aspetti del problema: il territorio, l’ambiente, la società locale, le abitudini consolidate ecc.
Dei parchi tematici ci siamo già occupati secondo vari aspetti: questo è quello più direttamente economico, e probabilmente più “onesto” nel presentare scenari, che invariabilmente vedono trionfare la concentrazione di capitali, l’omologazione di comportamenti e stili di vita, la ricchezza sociale ridotta a folklore da vendere nei chioschi all’ombra di qualche pupazzone.
Al limite dell’inquietante, la digressione finale (che secondo me anticipa con eleganza concetti del genere “liberismo compassionevole”) dove i parchi tematici diventano paladini della conservazione dell’ambiente, della società locale, delle tradizioni e di non si sa bene cos’altro. Al limite dell’inquietante, ma presumibilmente molto “venduta”, visto che poi rivediamo concetti del genere sbucare sempre dai comunicati ufficiali delle amministrazioni locali, sempre ammantati di “identità”, “tutela”, “occupazione”.
Pure, questo è il mondo con cui abbiamo a che fare, e dobbiamo tenercelo. Direi, meglio se per il collo, quando possibile. (fb)
Titolo originale The Future Role of Theme Parks in Internazional Tourism, Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini
Introduzione
Il parco a tema ha molti precedenti storici, compresi i parchi divertimenti “a giostre” in America all’inizio del ventesimo secolo, e le attrazioni installate nei giardini pubblici d’Europa.
Ad ogni modo, la nascita del parco a tema moderno è generalmente individuata nell’apertura di Disneyland, circa trent’anni fa.
La Economic Research Associates (ERA), nel corso degli anni ha portato a termine molti studi per la Walt Disney Company e, dai tempi di Disneyland, i parchi a tema si sono moltiplicati per tutto il mondo. Tutti hanno le seguenti caratteristiche base:
Recentemente, ci sono state variazioni nella formula. Esse comprendono parchi a tema rivolti particolarmente a un ambito o a un mercato, come quelli per bambini o quelli acquatici. Una seconda articolazione rispetto al parco a tema tradizionale, è quello in spazi chiusi, combinato con un centro commerciale. I più grossi esempi di questo tipo sono West Edmonton Mall in Canada, Lotte World a Seul, e Mall of America a Minneapolis.
Stato dell’arte
L’industria dei parchi a tema ha visto un’espansione internazionale piuttosto rapida negli anni recenti. La crescita si è concentrata per la maggior parte in Europa e Giappone. È piuttosto significativa la comparazione degli sviluppi negli USA con quelli degli altri mercati.
L’attività negli Stati Uniti è cresciuta per trent’anni, sino all’attuale maturità. Si caratterizza per un periodo iniziale, con Disney a fare da pioniere alla fine degli anni Cinquanta e primi Sessanta, una rapida crescita nei Settanta, e la maturità negli Ottanta. L’Europa e il Nord Asia sono al momento attuale nella fase di crescita rapida della propria attività nei parchi a tema. I paesi in via di sviluppo sono agli inizi. Anche se l’esperienza USA non può essere trasposta direttamente nei mercati esteri, si può essere ragionevolmente certi che l’Europa e il Nord Asia continueranno ad avere una forte crescita nei prossimi dieci anni, circa, e ci vorranno cinque anni o più prima di vedere qualunque crescita significativa nei paesi in via di sviluppo.
Europa
L’Europa ha già un certo numero di parchi. L’attività si è espansa in Europa occidentale con una grossa concentrazione in Germania, Francia, Benelux, e Regno Unito. Ora sta avendo luogo una espansione nell’area sud del continente, con parecchi parchi progettati o in corso di realizzazione in Spagna, Italia, Turchia e Grecia. C’è anche un certo numero di proposte per il Nord Africa e il Medio Oriente.
Al momento attuale, l’industria dei parchi tematici in Europa consiste di 19 principali centri, con un flusso annuale di oltre un milione di visitatori, e 45 centri di dimensioni minori con presenze fra 500.000 e 1.000.000 l’anno. I parchi d’Europa complessivamente generano 70 milioni di visite, con introiti di circa 1,5 miliardi di dollari. In termini di incassi, l’attività in Europa è circa 1/3 di quella degli USA.
Il mercato europeo sta cambiando, naturalmente, dopo la recente apertura del progetto EuroDisney.
Ora le chiavi di lettura del contesto europeo sono PREVISIONE, RIPOSIZIONAMENTO, ESPANSIONE, CONCENTRAZIONE.
Previsione
Ovunque i parchi tematici Disney entrino in nuovi mercati, generano significativi mutamenti strutturali nelle attività simili locali. Negli USA la prima attrazione, Disneyland, ha inaugurato questo tipo di attività. In Florida, ha trasformato una sconosciuta palude nella destinazione turistica principale d’America, e in un mercato attrattivo, e in Giappone, Disneyland Tokyo ha stimolato la crescita dell’industria locale di parchi tematici. Riteniamo che Disney avrà un significativo impatto sull’attività turistica, in Francia e in tutta Europa. Questo avverrà in sei settori chiave:
a) EuroDisney espanderà in generale l’attività dei parchi tematici in Europa, e la focalizzerà su Parigi creando un sistema di attrazione multi-parco.
b) Disney educherà il mercato riguardo al prodotto parco tematico, alla qualità dell’esperienza nel parco a tema, alla validità del sistema di ingresso a tariffa unica per un giorno di intrattenimento ad alta qualità.
c) Disney avrà la leadership del mercato riguardo ai prezzi. Questo farà si che gli altri si allineino ai livelli di Disney.
d) EuroDisney creerà una consapevolezza nei mercati. I suoi solidi e creativi programmi di mercato creeranno consapevolezza e indicheranno anche ai concorrenti metodi efficaci di marketing.
e) EuroDisney migliorerà la capacità di gestione dei parchi europei. EDL (EuroDisneyLand) creerà e formerà un bacino di managers specializzati nei parchi a tema, che in futuro potrà contribuire al miglioramento dell’efficienza del sistema europeo nel suo insieme.
f)Infine, EDL genererà un bisogno di complementarità, di prodotti in posizioni diverse nel mercato. Varie strategie di marketing e posizionamento si sono dimostrate valide altrove, in contesti condivisi coi parchi Disney.
Riposizionamento
Molti dei parchi europei si sono ampliati e riposizionati con nuova enfasi sull’investimento e sul marketing. Molte delle attrazioni europee hanno subito programmi di espansione aumentando la capacità di rides e spettacoli, aumentando i servizi come ristoranti e commercio (aree dove i parchi europei sono tradizionalmente arretrati rispetto agli USA). Sono stati attuati importanti programmi di crescita a Alton Towers in Inghilterra, De Efteling in Olanda, Gardaland in Italia, Parc Asterix in Francia, Walibi in Belgio, e in altri centri europei.
Parecchi si sono riposizionati nel mercato. Nel passato, i parchi contavano su un flusso stabile e ripetuto dall’area locale. Questo mercato rispondeva ai prezzi di ingresso bassi, alle aree da pic-nic, all’ambiente relativamente passivo, che offriva un’esperienza quasi da parco pubblico tradizionale. Attraverso i più recenti programmi di investimento, questi parchi tematici si sono riposizionati come attrazioni commerciali, con prezzi di ingresso più elevati, attirando visitatori da mercati più vasti.
Espansione
L’industria europea dei parchi tematici è stata segnata negli anni recenti da una nuova attività costruttiva. Negli ultimi quattro anni, questo sviluppo si è concentrato principalmente in Francia. EuroDisney ha aperto nel 1992, ma era stata preceduta (forse non molto saggiamente) da quattro altre nuove attrazioni: Asterix, Smurf Park, Mirapolis e Zygofolis. Disney deve ancora essere pienamente accettato dal mercato francese, anche se sta andando abbastanza bene coi turisti stranieri. Gli altri nuovi parchi francesi hanno avuto difficoltà finanziarie, a causa di errori di progetto, realizzazione e gestione. Due (Mirapolis e Zygopolis) sono falliti, diminuendo di molto l’entusiasmo di investitori e azionisti. Busch sta portando avanti il suo parco a Tarragona, Spagna, e vengono proposti altri progetti per il Sud Europa. Anche Legoland si sta espandendo verso nuovi mercati.
Concentrazione
Per ultima, c’è la tendenza alla concentrazione delle attività europee in parchi tematici, in alcuni gruppi chiave. Accade a queste attività nella fase matura, ed è stata questa la tendenza negli USA. In Europa, il processo è iniziato con l’acquisizione di molte attrazioni. Nel 1990, Madame Trussaud compra Alton Towers (Madame Trussaud possiede molti piccoli parchi in tutto il Continente, e Rock Circus a Londra). La compagnia Walibi acquista Smurf Park (ora Walibi Smurf), aumentando le proprietà nel settore a quattro parchi. Infine Accor, il maggiore operatore alberghiero in Francia, prende il controllo di Parc Asterix. Con l’unificazione d’Europa e la continua maturazione nell’attività dei parchi a tema, questa tendenza continuerà.
[...]
Parchi tematici e turismo
Veniamo ora alle correlazioni fra parchi a tema e turismo. Si tratta di relazioni complesse, che dipendono in larga parte dalla dimensione del parco, dalla sua qualità, dalla sua singolarità.
Normalmente i residenti nell’area (in un raggio da 1,5 a 2 ore) rappresentano l’80 per cento delle visite in un parco a tema tradizionale. Anche i visitatori/turisti spesso sono nella zona per altri motivi (come ad esempio la visita ad amici o parenti). Così, il fatto di avere un parco a tema non assicura di per sé automaticamente un flusso turistico. Invece, per generare un movimento di tipo turistico, un parco deve:
Posto che questi criteri siano parte del programma turistico del parco a tema, i risultati possono essere eccezionali, con un solido ritorno economico. Per esempio, a Walt Disney World il turismo è aumentato da 2,8 milioni di visitatori nel 1970 a oltre 35 milioni nel 1992. L’incremento nel numero di visitatori, solo per quanto riguardo gli spostamenti aerei, è stato di 20 milioni. Questo aumento di visitatori (in particolare di chi pernotta) ha stimolato la realizzazione di oltre 50.000 stanze d’albergo, creando impiego diretto per oltre 250.000 persone. Una storia di successo, senza dubbio, per quella che era solo una palude infestata di zanzare, comprata a un prezzo medio di 500 dollari l’ettaro. Anche strutture di dimensione più piccola, come il Polynesian Cultural Center nelle Hawaii, hanno costruito un giro d’affari stabile di circa un milione di visitatori l’anno, e una forte penetrazione nel mercato turistico.
Tendenze di sviluppo
Avvicinandoci al 2000, ci chiediamo in che modo si evolveranno i parchi a tema come elemento componente del turismo internazionale. Non si seguirà ciecamente il modello USA, ma si evolveranno nuove forme di parchi, in cui il turismo sia una importante fonte collaterale. Dal nostro punto di vista di analisi delle tendenze di sviluppo e delle nuove proposte, individuiamo i seguenti cambiamenti:
Tematizzazione nazionale/regionale – I nuovi parchi avranno una più forte tematizzazione legata alla nazione o regione che li ospita. I parchi tematici stano diventando sempre più un simbolo e vetrina per l’identità regionale, la cultura, i traguardi tecnologici. Il pericolo qui, naturalmente, è che essendo troppo seri rispetto all’aspetto culturale i parchi smettano di essere divertenti. Dobbiamo ricordare sempre ai nostri clienti che il primo obiettivo di un parco tematico è il divertimento. È questo lo “zucchero” che fa andar giù anche la pillola della cultura e dell’apprendimento.
Parte di un più ampio programma di utilizzazioni miste – Nel contesto urbano/suburbano, vediamo ora i parchi tematici e le attrazioni di grande scala progettati entro complessi commerciali regionali, insediamenti costieri a usi misti, e anche complessi con usi terziari. In ambienti meno urbanizzati, le componenti addizionali spesso comprendono strutture per la villeggiatura, parchi di bungalows, villaggi con ristoranti e strutture commerciali, centri per eventi speciali ed esposizioni.
Maggior partecipazione e interazione dei visitatori – Le nuove attrazioni sono progettate per offrire maggior controllo e partecipazione, e incoraggiare un rapporto attivo fra il visitatore e l’ambiente. Questo è un portato naturale sia delle nuove tecnologie disponibili, sia della dimostrata attrattività di questo coinvolgimento in casi come il San Francisco Exploratorium. Vengono offerti nuovi percorsi emozionanti in cui si può controllare individualmente l’intensità dell’esperienza. Altri concetti tematici saranno in futuro ancora più basati su attività di partecipazione (sport, musica) rivolte al pubblico, anziché su caratterizzazioni da personaggi dei fumetti.
Uso di esperienze simulate e realtà virtuali – Probabilmente una delle aree più eccitanti di sviluppo è quella della simulazione. Gli avanzamenti tecnologici hanno consentito ai progettisti di attrazioni di replicare realisticamente e virtualmente qualunque esperienza naturale o da effetti speciali. Combinando una qualità visuale delle immagini estremamente alta, con sedili programmati per muoversi insieme all’azione, i visitatori possono gustare in modo realistico esperienze prima impensabili in un parco a tema. Il primo esempio altamente popolare di queste tecnologie è lo Star Tours di Disneyland. Comunque, queste nuove simulazioni comprendono la discesa delle rapide in Nuova Zelanda, la corsa in macchina sulle Alpi italiane, e le gare spaziali intergalattiche. Queste simulazioni vengono prodotte ad una frazione del costo di quelle tradizionali. La tecnologia è anche più flessibile (si può cambiare esperienza semplicemente cambiando software (il film proiettato) anziché cambiare struttura). Una sfida importante, ad ogni modo, sarà quella di sfondare dal punto di vista tecnologico, mantenendo intatta l’emozione e spontaneità del rischio personale percepito e dell’interazione di gruppo.
Maggior orientamento al tema acqua – Si sta verificando un maggiore uso delle attività, attrazioni e ambienti legati all’acqua. Numerosi parchi (Ocean Park a Hong Kong; Dreamland in Australia; Walibi in Belgio) combinano un parco a tema acquatico con attrazioni e divertimenti di tipo tradizionale. Parchi con spettacoli come Sea World sono ancora popolari ma l’espansione futura sarà limitata dalle restrizioni sulla cattura e l’esibizione di mammiferi acquatici. Assistiamo ad una crescente accettazione di acquari di tipo nuovo, ad alta tecnologia, che usano tunnels in acrilico a combinare l’esperienza del panorama marino di un’immersione con quella di una “ ride” tradizionale. Alcuni saranno realizzati in oceano aperto.
Progetti per un uso con qualunque tempo/ambienti artificiali – I nuovi parchi a tema sono progettati per aver più attrazioni al coperto, percorsi a clima controllato, zone di riposo. Questo consente un più rapido ammortamento degli alti costi di investimento in strutture fisse. I nuovi parchi sono progettati con più spazi coperti per fornire una attività più prolungata oltre la stagione estiva, e più ore di apertura al giorno.
Se si guarda al futuro, e al maggior numero di turisti che si prevede viaggeranno verso nuove destinazioni (in particolare Asia-Regione del Pacifico) si prevede una crescente pressione sulle risorse ambientali e sociali delle varie destinazioni. Sta emergendo un nuovo ruolo per i parchi a tema. Per loro natura, essi sono progettati ad accogliere grandi numeri di persone entro uno spazio controllato, con impatti gestibili. Nel futuro, essi avranno una nuova funzione educativa da svolgere, nell’introdurre, guidare, sensibilizzare il turista straniero all’ambiente ospite, ai suoi valori. I parchi a tema possono diventare la nuova soglia dell’ospitalità turistica nazionale. Anziché essere visti come attrazione isolata, essi diverranno parte di un equilibrato prodotto fatto di tempo libero e inserito nel sistema turistico, che contribuirà allo sviluppo economico, all’occupazione, e alla conservazione delle risorse di un’intera regione.
Nota: forse potrà avere qualche interesse in più, ora, la rilettura del pezzo su Mediapolis Canavese, e relativi links. (fb)
C’è un’ambiguità senza soluzione nei discorsi di chi parla di turismo interno che consisterebbe nell’arte di convincere chi se ne sta al mare ad alzarsi, scuotersi il torpore di dosso ed andare verso le zone interne e impervie le quali, secondo i teorici di questo tipo di turismo, sarebbero in questo modo finalmente “valorizzate”. Insomma, traslando il turista bagnante in una zona montuosa, si vorrebbe trasformarlo da essere inanimato su una sedia a sdraio in un viaggiatore interessato ad usi e costumi diversi dai suoi, mosso dalla forza della curiosità e dotato di un’anima nuova.
Ma una creatura del genere è difficile da trovare in natura: bisogna crearla.
Bene, vediamo come dovrebbe accadere e partiamo da qualche osservazione sulle vacanze di un turista di terra e di un turista di mare, generi che sono di solito separati anche nei menù. Due categorie di pensiero diverse, due specie diverse che adesso si vorrebbero incrociare per creare una razza nuova: un ibrido molto difficile da ottenere. Serviranno l’ingegneria genetica ed investimenti ma c’è anche il rischio, manipolando i cromosomi turistici, di creare mostri imprevedibili.
Analizziamo la fisionomia che ha assunto la vacanza dalle nostre parti.
Prima di tutto qua si viene, appunto, in vacanza e bisognerebbe mettersi d’accordo proprio sulla parola vacanza che contiene una quota di significato già di per sé pericolosamente tossica.
La vacanza, etimologicamente, proviene da vacuum ovvero vuoto. La vacanza è un periodo di vuoto che può essere anche drammatico e lo si può riempire come si vuole. Perciò la vacanza riflette un vuoto oppure cerca di colmarlo: due condizione opposte.
Gli sviluppisti che vogliono divorare l’isola e trasformarla in un postribolo estivo teorizzano la vacanza vuota, coltivano e propagano il modello della vacanza vacua, senza significato. Giorni trascorsi nel nulla perché il nulla sarebbe riposo.
Gli sviluppisti, in generale se ne impipano del turismo interno. Loro non vogliono che il turista si muova dall’incubatrice turistica dove viene conservato. Considerano, si sa, il turista una merce da movimentare e il viaggio un prodotto.
Non si immagina come il turista disposto a farsi ipnotizzare nel ciclo del cosiddetto riposo vacanziero, che rende ebeti anche se per una sola settimana, possa mutare di colpo. E’ improbabile che un essere ridotto ad uno stato elementare di organismo semplice, monocellulare, che il turista, insomma, si trasformi di colpo, lasci il vuoto in cui l’hanno imprigionato e prenda la corriera attratto dalle cosiddette zone interne.
Altra definizione potenzialmente drammatica. Tecnicamente il termine è ineccepibile: sono in effetti zone interne.
Ma si trascura di dire che sono territori in via di abbandono. Insomma sono aree interne e deserte che si stanno svuotando perché tutti accorrono verso il vuoto morale dell’idea sviluppistica che affligge e impesta le coste.
Le zone interne non sono solo aree recondite, sono zone dove l’uomo nativo non si troverà più se non conservato come in un museo. Sono zone quasi morte dove la memoria dell’isola resiste, conservata da pochissimi che ancora praticano l’identità e conservano caratteri identitari. Che non diventi, appunto, un museo vivente in cambio di qualche turista.
Se, poi, quei pochi visitatori diventassero molti, allora in esatta proporzione alla “crescita” turistica, i “sardi sopravvissuti” si estinguerebbero, sostituiti da sardi finti, di plastica, simili a quei souvenir – gondolette, colossei ecc. – che si conservano nelle vetrinette di casa.
E’ perfino ingiurioso che qualcuno arrivi qua da un villaggio vacanze per vedere che esistono mondi arcaici dei quali, poi, parleranno come di un viaggio nella macchina del tempo. Loro, i turisti, erano nel proprio luna park quando li hanno prelevati e condotti a vedere per un giorno uomini e donne nella loro riserva mentre tosano oppure tessono all’arcolaio.
Insomma, è una fortuna che il cosiddetto flusso turistico – dannoso come un’infestazione – non sia orientabile verso le zone interne che, proprio perché interne, devono restare inaccessibili e devono interessare solo uomini curiosi e desiderosi di osservare un mondo e una società differente, conservativa e fragile come la nostra.
Basterebbero due, tre stagioni turistiche come quelle che qualcuno auspica per le zone interne per renderle un posto qualunque, abitato da gente qualunque, un posto uguale a tanti altri posti uguali..
Ma è solo una questione di tempo.
Il turismo distruttivo come un’invasione di locuste che gli sviluppisti desiderano per l’isola la distruggerà in modi diversi e tutti efficaci. Però cerchiamo di ritardare la fine e lasciamo in pace le zone interne.
Ci sarà una distruzione del paesaggio, una distruzione geologica, come un’effusione lavica che ricopre tutto e rende tutto grigio. Ci sarà una distruzione dei caratteri e, se esiste, della psicologia isolani che tenderanno a rassomigliare a quelli di chi viene a consumare il paesaggio come un dvd. Ci sarà una distruzione economica perché tutto dipenderà da quanti, fotocamera a tracolla, sbarcheranno nell’isola. E ci sarà una distruzione morale poiché questo modello turistico verrà condotto, spinto dalle regole della concorrenza, sino alle sue estreme conseguenze, sino alle sue forme più turpi.
Meno male, meno male che il turista di terra e il turista di mare sono due categorie dello spirito talmente differenti che non si incontreranno mai e che l’unico congiungimento riuscito tra terra e mare è stato e rimane, come dice Achille Campanile, quello perfetto delle seppie con i piselli.
L'articolo è comparso su la Nuova Sardegna nell'aprile 2005
All'inizio di luglio ho trascorso qualche giorno in Tunisia coi colleghi dell’Università e del Ministero per un progetto comune sulla salvaguardia e valorizzazione dei beni culturali in area mediterranea. Il progetto è attualmente fortemente sponsorizzato dal governo locale, che vi intravede la possibilità di positive ricadute per l’incremento del settore turistico: risorsa sulla quale tutto il Maghreb sta puntando molto.
In realtà il turismo rappresenta ormai il settore trainante di tutta l’economia in un numero sempre maggiore dei paesi in via di sviluppo: già Rifkin, fra gli altri, ci aveva insegnato che il turismo era destinato a divenire l’attività prevalente nel passaggio che la globalizzazione sta accelerando fortemente fra un’economia a produzione industriale ed una nella quale prevarrà la produzione culturale. In questo ambito il mutamento è già compiuto: da alcuni anni, infatti, il turismo rappresenta la prima industria mondiale; con un giro di affari di $ 500 billioni annui e il 35% dei servizi esportati, l’industria turistica rappresenta il settore che, secondo gli analisti economici, è destinato ad avere la crescita più rapida nell’economia globale: nel 2020 il traffico turistico mondiale si attesterà vicino a 1.6 billioni di arrivi. L’Europa sarà destinata a cedere il primato assoluto che tuttora conserva, pur rimanendo per molto tempo ancora una delle destinazioni preferite, anche se superata dalla Cina.
In tale contesto ben si comprendono gli sforzi che in tale direzione i paesi in via di sviluppo stanno compiendo: la torta è troppo ghiotta per poterci rinunciare, ma gli ingredienti rischiano di essere, in larga parte, molto indigesti. Così come altrove, in queste aree, il modello di sviluppo turistico largamente prevalente si sta rivelando un giano bifronte che distrugge le ricchezze sulle quali prolifera. Il capitale principale, spesso assolutamente l’unico di cui dispongano questi paesi, è costituito da una natura incontaminata e da una cultura indigena autentica: la loro salvaguardia è un problema che ci riguarda da vicino soprattutto perché noi turisti occidentali siamo fra i principali fruitori – distruttori di queste risorse. I pericoli insiti in questo modello sono stati più volte analizzati con grande lucidità anche in numerosi interventi di eddyburg (cfr. soprattutto Ravaioli), ma vale forse la pena sottolinearli ancora una volta, con attenzione particolare a contesti extraeuropei.
Cominciamo dall’urbanistica. Lungo le coste del Mediterraneo, il secolo scorso ha visto la crescita e l’addensamento di strisce a forte urbanizzazione, un vero e proprio sprawl costiero, scarsamente connesso con le zone dell’interno e fruito da una popolazione che raggiunge picchi altissimi stagionali per poi decrescere drasticamente in alcuni mesi dell’anno. In brevissimo volgere d’anni sono sorti villaggi, resorts, alberghi dalle architetture improbabili e assolutamente sciatte che nulla hanno a che fare con le tradizioni costruttive locali. Il panorama è peggiorato, in Tunisia, ma non solo, dal compresente fenomeno per cui gli spazi vuoti della costa, fra un enclave e l’altro, sono devastati da pessime costruzioni nella quasi totalità appartenenti alla tipologia della casa unifamiliare e ascrivibili ad uno stile che potremmo definire arabo modernista, sconfortante oltre che nei moduli raccogliticci che assembla, per la desolante ripetitività. Percentualmente numerosissimi, poi, all’interno di questa ‘villettopoli’ di serie b che assume il carattere di una vera e propria lottizzazione dispersa, gli scheletri di edifici: un pessimo effetto di dejà vu per chi ha anche superficiale esperienza di certe zone del nostro meridione.
Sul piano ambientale, l’irragionevole dispendio di risorse provocato da questo modello di sviluppo turistico è ben esemplificato dall’uso dell’acqua: uno studio delle Nazioni Unite ha calcolato che le risorse idriche necessarie a 100 turisti per 55 giorni, sono equivalenti all’acqua necessaria a coltivare una quantità di riso sufficiente per nutrire 100 abitanti locali per 15 anni (avete letto bene, ‘anni’).
I pacchetti all inclusive costituiscono già oggi la tipologia prevalente in Tunisia, ma non solo: i grandi operatori turistici, sempre più globalizzati, (le ‘7 sorelle’ dell’era dell’accesso?), stanno espandendo ed omologando questo tipo di offerta secondo una consolidata tecnica di progressivo controllo dei mercati. Le analisi al proposito, del resto, evidenziano come, in un pacchetto all- inclusive, circa l’80% delle spese del turista vadano a compagnie aeree, hotels, altre compagnie internazionali: alle economie locali rimangono le briciole, quindi.
Altre pesanti ricadute negative sono costituite dall’aumento del costo della vita per i locali determinato dalle richieste dei turisti, primo fra tutti quello delle abitazioni. L’industria turistica, inoltre, per lo più esclude l’imprenditoria locale di medio e basso livello innanzi tutto per la sua incapacità di investire risorse adeguate, come per la mancanza di contatti, e l’insufficiente gestione del marketing: attività anche questa largamente monopolizzata dai circuiti degli operatori finanziariamente più consistenti.
Complessivamente, infine, l’economia fondata solo sul turismo è fragile, largamente dipendente da troppi fattori esterni: crisi politiche, terrorismo, disastri ambientali, cambio delle mode. Le infrastrutture richieste dagli investitori turistici sono molto alte e richiedono sforzi notevoli da parte dei governi che spesso, con l’illusione di ritorni economici a breve termine, stornano risorse da altri settori (educazione, assistenza sanitaria, ecc.) per adeguarsi alle richieste degli investitori stranieri. Il carattere stagionale del lavoro incrementa la precarizzazione: l’incertezza della continuità lavorativa è un elemento ormai globalizzato…
Per quanto riguarda la Tunisia, la ricchezza del suo patrimonio culturale è risaputa: alcuni dei siti romani, ampiamente diffusi su tutto il territorio, sono fra i più belli di tutto il Maghreb, per non parlare delle testimonianze dell’architettura araba e dei siti berberi cinematograficamente pluricelebrati dalla saga di Star Wars. Eppure anche qui il modello ampiamente più diffuso è quello costituito da enclavi rigidamente separate dal resto del territorio. In villaggi vacanze e resorts spesso suddivisi per nazionalità e dall’accesso sorvegliatissimo (motivi di sicurezza, ci si dice) un turista non particolarmente motivato dal punto di vista culturale può trascorrere un’intera vacanza senza alcun contatto con la realtà locale se non quello costituito dalla presenza di personale autoctono e dalle serate a tema: vale a dire per 6 giorni su 7 si mangiano spaghetti e per una volta ci si traveste da beduino e si mangia cous-cous. Tali situazioni sono vissute con ostilità crescente dalla popolazione ‘esterna’, tanto più che le possibilità di lavoro che offrono ai locali si limitano a mansioni dei livelli più umili: il resto del personale (direttori, animatori, ecc.) è di ‘importazione’. A ciò si aggiunga che tali strutture sono nella quasi totalità dei casi estremamente dispendiose dal punto di vista delle risorse energetiche e ambientali: chissà perché prati all’inglese e piscine di ogni foggia e dimensione (anche a bordo mare) sono considerati imprescindibili, così come la presenza di temperature irreali dovute alla presenza costante di aria condizionata in ogni ambiente. Comincia a diffondersi anche qui la perversa moda dei campi da golf, idricamente costosissimi e per favorire i quali le amministrazioni locali non esitano ad espropriare a bassissimo prezzo terreni agricoli contribuendo ad espellere da attività di sostentamento tradizionali percentuali sempre più rilevanti di popolazione locale.
Al di fuori di queste zone franche, i turisti trasmigrano intruppati lungo gli itinerari più reclamizzati e spesso si limitano a gironzolare alla ricerca del ricordo di viaggio per medine e souk, dove i pochissimi manufatti di artigianato locale cedono sempre più spazi all’invasione globalizzante dei gadget Ferrari o di derivazione calcistica. In questi giorni di altissima presenza turistica abbiamo visitato, in perfetta solitudine, gli straordinari siti di Sufetula, Cillium, Haidra, mentre qualche straniero in più (non italico) era presente nelle famosissime aree di Dougga e Bulla Regia.
In generale, infine, l’esperienza della cultura locale diviene qualcosa di completamente asettico che può addirittura prescindere dal contatto con la popolazione locale: ciò che Daniel Boorstin definisce pseudo-evento. Ma anche laddove il contatto sia ricercato, l’istinto profondamente tradizionalista del turista tipo spinge affinchè il “colore locale” rimanga immutato anche a costo di mantenere zone di degrado. In tal senso è stato verificato, da studi recenti, come talune aree, quali il South Bronx a New York, stiano diventando meta turistica proprio perché consentono, al turista un po’ più avventuroso, il brivido dell’esperienza fuori dalle regole. Ad evidenziare quanto tali meccanismi incidano poi sulle politiche urbane delle amministrazioni locali, basterebbe ricordare il celeberrimo e nostrano affaire di Piazza della Signoria a Firenze, dove uno straordinario palinsesto archeologico messo in luce durante i lavori di ripavimentazione della Piazza è stato ricoperto a furor di popolo perché non consono alla perpetuazione dell’atmosfera medicea del luogo. I beni culturali quando sono capitalizzati a fini esclusivamente turistici sono vissuti, insomma, come esperienze chiuse scarsamente efficaci sul piano della divulgazione e dell’interazione culturale.
"Trionfo di Bacco", Museo archeologico di Sousse (Tunisia) |
Di fronte alla constatazione di un paesaggio dall’aspetto ormai diffusamente predesertico, i colleghi tunisini ci hanno sottolineato come il degrado ambientale non sia solo un fenomeno legato ai tempi moderni. L’espansione agricola dei romani distrusse buona parte delle foreste della Tunisia (dal 30% stimato in epoca romana si è arrivati a meno del 2% di oggi), con una conseguente grave perdita di biodiversità: scomparso per sempre l’ampio campionario zoologico che popolava gli splendidi mosaici di domus e villae. L’equilibrio biologico degli altipiani è stato distrutto per sempre e la Tunisia perde ogni anno all’incirca 23.000 ettari di terra coltivabile a causa dell’erosione. Le regioni del Tell dedicate alla coltura dei cereali fin dall’epoca romana sono segnate da profonde gole causate dai fenomeni erosivi e molti terreni un tempo agricoli oggi sono adatti solo a pascolo. Gli enormi consumi idrici richiesti dall’industria turistica hanno abbassato il livello dei pozzi artesiani e prosciugato le sorgenti: questa situazione è evidente soprattutto a Djerba dove le esigenze idriche degli alberghi e dei resorts dell’isola hanno minacciato la sussistenza dell’agricoltura e reso l’acqua non potabile.
A buon diritto si può affermare quindi che i turisti abbiano assunto il ruolo dei nuovi coloni delle zone costiere del mediterraneo. Certo l’attività turistica è destinata a provocare, seppur in maniera più limitata del dovuto, anche ricadute positive; così il miglioramento delle infrastrutture e dei servizi determinato e spesso imposto dalle grandi compagnie di turismo, produce, in ogni caso vantaggi anche per i residenti e le popolazioni locali e consente spesso rapidi miglioramenti di reti idriche, elettriche, stradali. Proprio perché fattore determinante e ormai irrinunciabile di sviluppo, il fenomeno va quindi piuttosto governato e ridefinito, alla luce di differenti obiettivi come quelli di salvaguardia culturale e ambientale, gli unici compatibili, del resto, con proiezioni di sviluppo economico a lungo termine. Occorre insomma uscire dall’alternativa esiziale: sottosviluppo attuale vs depauperamento a medio e lungo termine. Alla fase di stagnazione del modello Butler cui le attuali tendenze rischiano di condurre inevitabilmente queste aree e che è caratterizzata da un uso eccessivo delle risorse e dalla crescente opposizione locale oltre che all’esplicitarsi di problemi ambientali e sociali, bisogna contrapporre azioni di aggiustamento e vera e propria riduzione dei ritmi di crescita, così come imposto dalle sempre più urgenti azioni di protezione delle risorse.
Gli introiti derivati dal turismo debbono rimanere nei paesi ospitanti ed essere destinati a opere di protezione ambientale.
Qui come altrove, qui più che altrove, occorre costruire in maniera eco-compatibile. Complessivamente vi è quindi la necessità di compiere uno sforzo intellettuale per immaginare approcci alternativi, dal punto di vista urbanistico e culturale prima di tutto. In questa direzione e in tempi recentissimi, qualcosa si sta muovendo: ad esempio ad opera di gruppi di urbanisti- architetti spagnoli che propongono, oltre all’istanza ‘zero consumo’ di nuovo territorio, un sistema di azioni destinate ad attivare un turismo ‘attivo’, fondate sulla molteplicità e sovrapposizione di usi di una determinata area e creatrici di quella che viene definita “intelligenza di costa”. Analogamente, in un’altra area mediterranea dove ci si confronta da alcuni anni con le conseguenze di questo turismo invasivo, la Croazia, attraverso il Matra Projects Program finanziato dal ministero degli affari esteri olandese a sostegno del processo di trasformazione nelle aree del centro ed est europa, si sta sostenendo l’attività dell’Associazione di architetti croati che ha elaborato una serie di progetti fondati su un’impostazione ideologica alternativa ai modelli correnti. Secondo tale impostazione i cambiamenti territoriali possono essere solo il frutto di una intelligenza collettiva, debbono coinvolgere tutti i rappresentati dello spazio sociale e si pongono come fine, oltre ad un diverso modello di sviluppo del territorio, una forma di democratizzazione della società stessa.
Infine, la rete. Anche in questo ambito Internet può dare una mano dispiegando innanzi tutto le proprie potenzialità di strumento di critica attiva. La rete può innescare positivi dispositivi di autorganizzazione: così come ha contribuito ad un generale abbassamento dei costi dei viaggi aerei ed ha incrementato una reale competizione fra tour operators, così può contribuire a creare e consolidare, ad esempio, le comunità e le pratiche del turismo fair-trade, che attualmente seppur in crescita, rappresentano ancora percentuali troppo minoritarie per poter incidere sull’impatto globale. Attraverso Internet si possono diffondere notizie per itinerari meno banali e scontati e accrescere una maggiore consapevolezza nei confronti dei luoghi visitati, dando voce ad opinioni alternative e soprattutto al punto di vista dei locali e proponendo alternative ai circuiti chiusi e rigidamente consumer-oriented della maggior parte dei tour operators e della consona documentazione di viaggio oggi disponibile.
Durante una riunione di lavoro al museo del Bardo, ci sono giunte le notizie degli attentati londinesi: nello smarrimento iniziale, con sottile inquietudine, ho avvertito come i commenti dei nostri ospiti fossero improntati oltre che alla dovuta pietas nei confronti delle vittime, anche ad una sorta di neutrale constatazione dell’inevitabile. Anche lì, nella laica, occidentalizzata, modernista Tunisia, dove i rigurgiti di integralismo islamico, pur esistenti e periodicamente riafforanti come fuoco sotto la cenere, sono stati sempre stroncati, a volte brutalmente. “Non cambieremo il nostro stile di vita” abbiamo ripetuto – noi occidentali – in quei giorni, eppure l’impressione, da quei luoghi, è che se per molti aspetti non impareremo a farlo (ovviamente in altro senso da quello prefigurato da terroristi brutali), chi è dall’altra parte troverà motivi altrettanto forti del mantenimento di uno status quo.
E pensare che poche sere prima, durante il concerto di Riccardo Muti nell’anfiteatro romano di El Djem, alle 10,30 il maestro aveva interrotto ex abrupto l’esecuzione perchè il muezzin della vicina moschea potesse recitare la sua preghiera: in quell’atmosfera irreale e fantastica creata da un silenzio sospeso e dalle mille candele che illuminavano i fornici di pietra rosa una convivenza possibile era sembrata, a tutti noi, così vicina, così inevitabile.
* Il ciclo Butler ( http://www.geographyonline.co.uk/sitetour/resources/leisure/info3.html ) utilizzato per l’analisi dell’evoluzione del fenomeno turistico è contraddistinto dal succedersi delle fasi di: esplorazione, coinvolgimento dei locali, sviluppo, consolidamento, stagnazione, cui può eventualmente seguire una fase di ripresa.
A causa di una lunga serie di scelte sbagliate, a cui si sommano interventi di restauro non rispettosi delle prescrizioni su criteri e materiali, il terremoto dell'aprile scorso ha colpito un patrimonio culturale estremamente fragile. All'Aquila e nel resto del territorio hanno avuto la peggio chiese e edifici che da sempre rappresentano i picchi di vulnerabilità dell'intera area
Nella Cronica di Buccio di Ranallo, il più importante scrittore aquilano del XIV secolo, si racconta in versi la storia della città dell'Aquila, la cui fondazione risale alla prima metà del Duecento, quando furono riuniti in un solo centro gli abitanti di numerosi castelli sparsi sull'altipiano (novantanove secondo la leggenda, come le cannelle della famosa fontana). Da questa unione tra le genti derivò l'impianto originario dell'Aquila: tanti rioni uno accanto all'altro, ciascuno con una piazza, una chiesa, una fontana, le case.
Ferite nel tempo
Tra i fatti più salienti che Buccio richiama nelle sue quartine, spicca il terremoto del 1349, che solo all'Aquila fece più di ottocento morti, distrusse le mura, le case e le chiese e costrinse, come oggi, la popolazione a abbandonare l'abitato. Gli scienziati e gli storici hanno potuto ricostruire che quel funesto terremoto ebbe un'intensità pari al grado 6.5 della scala Richter e produsse danni valutabili attorno al decimo grado della scala Mercalli. Valori dunque leggermente superiori a quelli del terremoto che il 6 aprile scorso ha colpito l'Abruzzo, provocando, oltre alle vittime e ai gravissimi danni, anche nuove e forse insanabili ferite al patrimonio culturale.
Inventariando queste ferite, per valutare i costi e le possibilità di un intervento di recupero ancora tutto da progettare, osservando lo strazio e le macerie delle chiese, dei palazzi e dell'edilizia minuta, che insieme componevano il tessuto abbastanza compatto del centro storico aquilano, è inevitabile notare che mai come in questo caso la tragedia consumata fosse prevedibile se non addirittura annunciata. E non per lo sciame sismico che ha preceduto le scosse del 6 aprile o per i timori del ricercatore Giuliani. Lo prova il quadro delle lesioni e dei crolli del patrimonio culturale, che ricalca quello generato degli eventi sismici precedenti. Ma gli esperti della Protezione civile, che si erano riuniti proprio all'Aquila il 31 marzo per rispondere in modo tecnico alle preoccupazioni crescenti, avevano stigmatizzato l'allarmismo senza approntare alcun piano di sicurezza. Nessuna precauzione, benché L'Aquila sorga in uno dei territori a maggior sismicità della penisola e la sua storia sia profondamente segnata dai continui terremoti ricordati dalle fonti. Ripercorrere l'elenco è istruttivo: 1315, 1349, 1389, 1455, 1459, 1461 (che rase al suolo il paese di Onna e fu analogo per intensità a quello del 1349), 1501, 1646, 1672, 1762, 1789, 1848 1874, 1895, 1915 (che provocò più di 33.000 morti nella sola Avezzano) per arrivare a quelli più recenti.
Cattedrali in pericolo
Il più grave di tutti fu probabilmente il terremoto del 1703, che contò circa ottomila morti e che venne anticipato da un lunghissimo sciame sismico, proprio come oggi. Le violente scosse (6,7 della scala Richter con danni superiori al decimo grado della scala Mercalli), già in gennaio fecero crollare molte chiese: i cronisti ricordano in macerie san Quinziano, san Pietro di Sassa e san Pietro di Coppito, viste in frantumi anche oggi. A febbraio, un'altra scossa diede il colpo di grazia, facendo crollare anche le capriate del tetto della chiesa di S. Domenico, che rovinò sopra a centinaia di fedeli raccolti per la funzione. Oggi la chiesa di S. Domenico sta collassando di nuovo, anche per colpa degli interventi di restauro che hanno appesantito la copertura e irrigidito la sommità delle murature con un cordolo in cemento armato. Allora vennero giù le chiese di San Bernardino che oggi ha perso il campanile ed è lesionata nella zona absidale; San Filippo, la Cattedrale, Sant'Agostino, S. Francesco: le principali chiese della città, che abbiamo visto cedere nuovamente sotto i colpi del sisma di aprile. La cattedrale in particolare, apparentemente integra, rivela al suo interno la rovina del transetto.
Dall'altro lato della piazza, tra le più grandi e belle d'Italia, si affaccia la chiesa di santa Maria del Suffragio o delle Anime Sante, costruita dopo il terremoto del 1703 anche con il concorso di Valadier, che ne progettò la cupola. Proprio la cupola non ha resistito al trauma e versa in pietose condizioni, parzialmente recuperate da un tecnologico intervento di messa in sicurezza coperto da un leggerissimo ombrello, destinato a diventare uno dei simboli della macchina dei soccorsi guidata, in questi quattro mesi, soprattutto dagli ingegneri, che hanno anche progettato le puntellature dei vigili del fuoco. Invece, la grave e ininterrotta storia sismica dell'Aquila avrebbe dovuto produrre particolare attenzione nelle scelte costruttive e di restauro, negli indirizzi politici e culturali e, soprattutto, nella prevenzione del rischio: fatta di saggia valutazione della vulnerabilità, di opportuni presidi e di continua e paziente manutenzione. Ma la città, classificata fin dal tempo del terremoto del 1915 tra quelle più sismiche del paese, era stata in anni recenti declassata dalla zona 1 di massima pericolosità alla zona 2 di sismicità media, alla quale si attribuisce minor rischio e conseguenti minori limitazioni, soprattutto dal punto di vista costruttivo. Diminuire il grado di rischio comportava costi più bassi per l'edilizia e consentiva criteri diversi, assai più permissivi, ad esempio riguardo all'altezza dei nuovi edifici, subito cresciuti anche nelle zone meno sicure della città (l'area di Fossa ad esempio, dove si sono polverizzati i palazzi più recenti, tutta cava all'interno, come d'altronde dice il nome stesso).
Forse anche in ragione di queste scelte (a cui si sommano interventi di restauro non rispettosi delle prescrizioni su criteri e materiali), il terremoto di aprile ha colpito un patrimonio culturale estremamente fragile sia all'Aquila che nel resto del territorio dove, come sempre, hanno avuto la peggio gli edifici storici scarsamente conservati e le chiese che, nella maggior parte dei casi, rappresentano, per ragioni strutturali e morfologiche, i picchi di vulnerabilità dell'intera area. Nonostante gli sforzi individuali e collettivi, la solidarietà e la partecipazione, il sisma ha rivelato, purtroppo, anche i limiti e l'impreparazione delle istituzioni deputate alla tutela del patrimonio. A fronte del ripetersi, quasi secondo copione, dei terremoti nel nostro paese, il ministero per i beni e le attività culturali non è riuscito a strutturare nel tempo un modello di gestione del patrimonio culturale nell'emergenza sismica. Facendo, ad esempio, tesoro delle esperienze passate, come quella del terremoto del 1997 in Umbria e nelle Marche.
Solidarietà e limiti istituzionali
Da anni si ripete che ci sarebbe bisogno di una squadra operativa aggiornata, cresciuta sul campo nel corso delle precedenti emergenze, pronta a entrare in gioco al fianco della Protezione civile al momento del bisogno e in grado di trasmettere rapidamente istruzioni e competenze ai tecnici presenti sul territorio colpito, depositari, viceversa, di conoscenze indispensabili per affrontare la specificità della situazione. Ma questo non è mai stato fatto e ogni volta si riparte da zero, senza le preziose competenze ma con la contrattazione sindacale che permette a tutti, esperti e no, di partecipare al «progetto sisma». Specialmente in questa occasione, tanto pervasivamente gestita dalla Protezione civile, che ha monopolizzato ed occupato fisicamente ogni spazio, anche quelli di pertinenza del Mibac. Anche nel campo dei beni culturali, infatti, si sta compiendo, nel laboratorio emergenziale dell'Aquila, l'esautoramento delle istituzioni pubbliche, statali e non, a favore del corpo scelto della Protezione civile, che prende in carico tutto: le scelte calano dall'alto, non c'è partecipazione diretta del ministero deputato alla tutela, tantomeno delle soprintendenze locali che presidiano il territorio. Per la prima volta il vicecommissario straordinario per i beni culturali non è nei ruoli del Mibac ma dipende direttamente dalla Protezione civile. D'altronde anche il ministero sta subendo la stessa sorte di lenta ma progressiva dismissione, tra commissariamenti e drastiche riduzioni di risorse. Per l'ufficio del vicecommissario lavorano sia i tecnici delle Soprintendenze abruzzesi che quelli degli altri uffici del ministero che a turno contribuiscono alla prima speditiva valutazione dei danni, che ha l'obiettivo di fornire anche un'indicazione economica di massima, utile a prevedere le coordinate del piano di recupero.
Ma nessuno ha un quadro completo, neppure settoriale: secondo una logica eterodiretta, si procede in maniera puntuale, senza aver chiari gli obiettivi generali, se pur ci sono. Anni luce di distanza dalla necessaria multidisciplinarietà sperimentata ai tempi del Gruppo nazionale difesa terremoti del Cnr, quando si discuteva dell'opportunità di protocolli operativi e schede di rilevamento danni anche per il patrimonio artistico (beni mobili e apparati decorativi fissi) e non solo, come adesso, per i contenitori architettonici, le chiese ed i palazzi. Manca il confronto, sotto il tallone di ferro della Protezione civile, e la partita è grande e davvero difficile.
Scelte tragiche
Non si tratta, naturalmente, di restituire L'Aquila così com'era ai suoi cittadini, come ha promesso il presidente del consiglio, bensì di studiare un piano di ricostruzione che conservi il più possibile ma non si accanisca terapeuticamente sugli edifici crollati: abbia il coraggio di demolire con coscienza laddove inevitabile. All'opera ci dovrebbero essere non solo gli ingegneri ma squadre di architetti, pianificatori, urbanisti, restauratori e storici dell'arte, che potrebbero, in tempi rapidi, progettare insieme la nuova città.
Il problema vero e critico riguarda infatti i centri storici (soprattutto quello aquilano, ma il discorso vale anche per il territorio), in cui le emergenze monumentali e gli edifici vincolati non sono isolati, bensì connessi da una fitta trama di edilizia minore. Questo è il punto chiave di cui non parla nessuno. Forse si potrà restaurare la cupola delle Anime Sante ma certo non l'edilizia storica minuta, costruita con materiali poveri malamente conservati. La partita da giocare è quella della ricostruzione e riconnessione del tessuto storico: il rapporto tra architettura contemporanea e ferite aperte della città, progetto e memoria. Nel centro storico vi saranno, inevitabilmente, dei buchi che dovranno essere studiati e riempiti senza ripetere gli errori del passato.
Per far questo bisognerebbe unire tutte le forze. Invece, mentre da un lato vertici centrali dell'amministrazione che tutela il patrimonio culturale consegnano la gestione dell'emergenza alla Protezione civile, dall'altro il mondo dei musei si è mosso in autonomia. Il presidente dell'International Council of Museum (Icom) Italia ha chiesto a tutti i soci solidarietà con l'Abruzzo e i suoi beni culturali colpiti. Sulla base di un protocollo di intesa con Legambiente, che già in passato si è distinta con interventi in favore del patrimonio culturale danneggiato dal sisma, Icom indica ai soci la strada maestra del volontariato. Legambiente, intanto, si propone e viene accreditata dalla Direzione che coordina, solitamente, l'attività locale delle Soprintendenze.
Dove il ministero fatica a mandare personale qualificato, l'associazione supplisce e entra in gioco con le sue strutture di volontari con la pettorina gialla (finora 300) che si lanciano al recupero e messa in sicurezza dei beni mobili danneggiati (circa 1300). Straordinario l'impegno dei ragazzi, dei quali qualcuno avrà ben valutato le competenze, che sostituiscono operativamente gli specialisti e i tecnici.
Alla fine i volontari vuotano chiese, palazzi e musei mentre i funzionari si impegnano a schedare i beni vincolati coinvolti (a oggi circa 1600 schede) per valutare il danno e fornire cifre di riferimento alla Protezione civile, secondo indici previsti dagli ingegneri delle università accreditate, che si occupano di danni sismici. Che poi sono le stesse che producono i progetti della messa in sicurezza e, a lungo andare, anche del recupero dei monumenti. Ma quali monumenti? La prospettiva della ricostruzione cozza contro gli ostacoli e i tempi lunghi imposti dalla smisurata messe dei danni. Il Presidente del Consiglio, rifiutando sulle prime gli aiuti internazionali, aveva detto che gli stati stranieri avrebbero potuto adottare uno dei monumenti colpiti. Da parte sua, il ministro Sandro Bondi ne aveva subito individuati quarantacinque, in pessime condizioni, anche per colpa di poco opportuni interventi di restauro recenti, basti osservare la fiancata della chiesa di San Marco, che si sta aprendo come un fiore e dentro è un cumulo di rovine, per capire come i carichi di cemento armato abbiano contributo al dissesto. L'edificio sarà ingabbiato da un ponteggio, frutto della donazione del Veneto. Solo l'intervento di messa in sicurezza costerà 240.000,00 euro: i restauri chi lo sa, magari venti volte tanto.
Il calcolo, a spanne, di quanto servirà per restaurarli parla di 450 milioni di euro, che non si sono ancora trovati, nonostante gli impegni a parole. Su queste cifre bisognerebbe cominciare a riflettere, date le precedenti esperienze di mala gestione dei finanziamenti per la ricostruzione. Chi realizzerà i restauri? Chi valuterà i progetti? Chi gestirà gli appalti, in regime di ordinanza? E, soprattutto, quanti anni ci vorranno?
I grigi capannoni cementizi sfigurano già tanti paesaggi italiani. Tuttavia, con alcune delle leggi regionali partorite dal Piano Casa del Primo Immobiliarista, il cav. Berlusconi, andrà molto peggio. Nel Veneto l’ampliamento di quelli esistenti arriva al 20% della superficie coperta: uno di 5.000 mq si dilaterà a 6.000 (a 7.500 mq qualora il proprietario li adegui al risparmio energetico).
In Lombardia avverrà di peggio: chi li demolisce e li ricostruisce in toto, potrà riutilizzarli a fini residenziali. Lo prevedeva la primissima bozza del Piano Casa berlusconiano: cambiare la destinazione d’uso come cambiarsi la camicia, ma la misura (un flagello per l’urbanistica delle nostre città e periferie) era stata cassata per l’intervento della Conferenza Stato-Regioni. Tuttavia qualche Regione (vedi Lombardia) se l’è tenuta di riserva, mentre altre prevedono agevolazioni parziali. Qualcuna (vedi Piemonte) consente, entro certi limiti, di soppalcare gli amati capannoni. La Valle d’Aosta si segnala fra le più permissive, con tanti saluti alle bellezze naturali e al turismo di qualità.
Ma c’è bisogno di tutta questa fiumana di nuova edilizia? No. Il costruito è già enorme, il boom edilizio tutto di speculazione, o di seconde e terze case è durato dal 2000 al 2007, senza nemmeno sfiorare l’edilizia economica, quella sociale, per la quale siamo precipitati all’ultimo posto in Europa. Sarebbe stato quindi essenziale varare un grande piano per quel tipo di alloggi (destinati a giovani coppie, a famiglie di immigrati, ad anziani soli, ecc... ), puntando contemporaneamente sul recupero del patrimonio esistente, vuoto o degradato. Solo che il governo Berlusconi, indebitato ben oltre i pochi capelli, non ha denari da mettere nel social housing, e quindi offre agli italiani di investire in questo nuovo boom prevalentemente privato impiccandosi per una vita ai mutui. Tanto per rianimare così, nel modo più cinico, un’economia e un PIL altrimenti in netta flessione.
Avremo così una miriade di interventi che gonfiano le cubature esistenti (di un 20-30%), sopraelevano gli edifici (anche fino a 4 metri, nella solita disastrata Lombardia), consentono di demolire e trasferire altrove, con un premio del 60%, costruzioni alzate sul litorale, per esempio, del Lazio (dove le cacceranno non oso pensarlo).
Eppure a Roma un alloggio su sette è vuoto e a Milano risultano deserti ben 900.000 metri cubi di uffici che - come denuncia l’architetto Stefano Boeri, docente al Politecnico - equivalgono a 30 grattacieli Pirelli, mentre sulla città già si addensano le nuove enormi cubature dell’Expo 2015. Non siamo all’impazzimento generale?
Lo studio di Vezio De Lucia sul centro storico e sui guai provocati dai nuovi insediamenti. - Un libro di Giovanni Pietro Nimis, che curò il recupero dei paesi distrutti in Friuli nel 1976
L’Aquila aveva 54 mila abitanti nel 1951. 72 mila il 6 aprile scorso, quando fu distrutta dal terremoto. Nello stesso arco di tempo in cui la popolazione cresceva del 25 per cento, il suolo urbanizzato è esploso: da 590 a 3.100 ettari, oltre il 500 per cento in più. Sono numeri che impressionano, ma non diversi da quelli di altre città italiane. Con i nuovi quartieri previsti dal piano di ricostruzione - 20 insediamenti per 15 mila persone, 3 mila a settembre e il resto a novembre - questo meccanismo di una città che deborda e invade il territorio è in qualche modo programmato, viene stabilizzato. Risorge l’idea delle new town, molto criticata dalla cultura urbanistica quando Silvio Berlusconi ne parlò. «Invece che una, di new town ce ne saranno 20», dice Giovanni Pietro Nimis, l’urbanista che fu artefice dei piani di recupero di Gemona e Venzone, due dei principali comuni friulani distrutti dal terremoto del 1976 e la cui rinascita è spesso indicata come esemplare.
Nimis ha scritto un libretto, Terre mobili. Dal Belice al Friuli, dall’Umbria all’Abruzzo (Donzelli, pagg. 110, euro 14, introduzione di Guido Crainz), che confronta i diversi modelli di ricostruzione, addebitando a quello abruzzese il ritorno a un usurato centralismo - tutto nelle mani della Protezione civile - che risale alla fallimentare vicenda del Belice. Spiega Nimis: «I nuovi villaggi mescolano emergenza e ricostruzione e creano una situazione malata, che sembra solo voler stupire con promesse capaci di vincere le ragioni del tempo e dello spazio, cancellando l’esperienza del Friuli e dell’Umbria, dove erano state le Regioni a intervenire, delegando a loro volta ai Comuni».
In Friuli, racconta Nimis, la gente venne alloggiata nelle tende, poi si passò ai prefabbricati e nel frattempo si ricostruirono i centri storici, dov’erano e com’erano - si disse allora. Nessuno però immaginava di resuscitare i nuclei antichi «riproducendo in pochi anni la patina di secoli di storia». Quello slogan aveva anche un sapore terapeutico. «Era un proponimento enigmatico e generico», lo definisce Nimis, «ma nello smarrimento apparve l’alternativa efficace contro le proposte di chi farneticava di città ideali, di rifondazioni ex novo, di trasferimenti altrove».
Nell’inverno furono installati 20 mila alloggi provvisori e dopo dieci anni «nei centri storici erano state recuperate le strade corridoio, le quinte edilizie, le piazze. Com’erano e dov’erano: si fa per dire, perché era comunque scontata l’inautenticità». Progettare divenne una pratica sociale. Sollecitò una partecipazione popolare quasi frenetica. «Per ogni decisione era diventata obbligatoria l’approvazione di assemblee popolari: senza quella copertura i consigli comunali non deliberavano nulla». Erano gli anni Settanta, anni di grande fervore democratico (come sottolinea Crainz). Per Nimis non fu tutto rose e fiori. Per esempio si allargò lo scarto fra lo scopo individuale, richiesto nelle assemblee, di ricostruire le case, e l’interesse sociale di ricostruire le aree pubbliche. Inoltre riproporre tutto impedì di bonificare le aree periferiche cresciute male dagli anni Sessanta. Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
A L’Aquila la strada intrapresa è diversa. Gli abitanti vengono poco coinvolti e le proteste si moltiplicano. Inoltre dalle tende si dovrebbe andare direttamente in case semidefinitive. Ma che tipo di città prefigurano i 20 nuovi quartieri sparsi nel territorio? È quel che stanno studiando Vezio De Lucia e un gruppo di collaboratori (fra gli altri, il sismologo Roberto De Marco e gli architetti Georg Frisch e Paolo Liberatore), ai quali si devono i dati citati all’inizio sull’espansione della città. «Dal dopoguerra L’Aquila è esplosa in tutte le direzioni formando innumerevoli nuclei periferici», spiega l’urbanista, che dopo il terremoto del 1980 diresse a Napoli la prima fase della ricostruzione. «I nuovi insediamenti frammenteranno ulteriormente la città, con costi drammatici per i collegamenti e per il buon funzionamento dell’organismo urbano».
Nel capoluogo, secondo i calcoli di De Lucia, gli edifici inagibili sono 8.748, molta parte dei quali - 1.855 - nel centro storico. Il che vuol dire 13.258 appartamenti: «È questa la domanda di alloggi espressa dalla popolazione de L’Aquila». Ma le case in costruzione «soddisferanno meno di un terzo di quella domanda».
E nel frattempo il centro storico resta inaccessibile. Italia Nostra ha chiesto che tutto il nucleo antico della città sia vincolato. Ma, insiste De Lucia, nel centro storico «non sono state attuate misure di protezione neanche per tutti gli edifici monumentali. Gli immobili danneggiati sono avviati alla rovina. L’architrave spezzata sulla quale si legge "Palazzo del governo" certifica l’irresponsabile sottovalutazione del recupero». Tutte le energie sono destinate ai 20 nuovi insediamenti. «Nel 2001», continua De Lucia, «circa 9.500 persone vivevano ancora nel centro storico, per cui la dispersione era comunque controbilanciata. Ora non più».
Torna alla memoria il fantasma del Belice (1968). «Fu l’ultimo caso di approccio centralistico», ricorda Nimis. Un modello, ha raccontato l’urbanista Teresa Cannarozzo, che si accostava alle linee generali della politica per il Mezzogiorno, quello fallito delle cattedrali nel deserto. La ricostruzione prevedeva rifondazione di paesi e industrializzazione. I comuni vennero esautorati. Ma dopo dieci anni non era ancora iniziato nulla. I paesi distrutti - Gibellina, Salaparuta, Santa Ninfa - erano compatti, percorribili a piedi. I nuovi insediamenti, invece, misuravano anche tre volte quelli vecchi. Nel frattempo i centri storici marcivano. La grande mobilitazione popolare organizzata da Danilo Dolci e Lorenzo Barbera cercò di fronteggiare una politica ottusa, nazionale e locale. «Ma forse per quella politica c’era persino una giustificazione, non essendoci precedenti modelli», dice Nimis. Ora le esperienze, fallite e riuscite, qualcosa dovranno pur insegnare.