Cresce l'abusivismo: senza permesso un'abitazione su dieci
Donato Antonucci -Il Sole 24 Ore
Un fenomeno che non conosce crisi. Tra quelli europei, il nostro Paese registra uno dei più alti livelli di abusivismo edilizio. I dati del Cresme per il 2009, che il Sole 24 Ore anticipa nel grafico qui a fianco, stimano un totale di 27mila abitazioni illegali, pari al 9,6% del totale. Ed evidenziano, in prospettiva storica, punte allarmanti in coincidenza dei condoni edilizi. Il tutto mentre il piano casa traccia nuove vie per realizzare legalmente molte delle piccole opere che spesso, in passato, erano attuate in modo abusivo (o regolarizzare abusi già effettuati: un punto sul quale i comuni saranno chiamati a vigilare). D'altra parte, a fronte dell'estrema rigidità formale delle disposizioni di legge, vi è anche la diffusa consapevolezza che un abuso edilizio difficilmente corre il rischio di essere demolito, per una serie di ragioni giuridiche (e pratiche) che i professionisti conoscono bene.
Segnalazioni mancate.
Innanzitutto, raramente si assiste alla denuncia dei vicini, che generalmente tollerano il fenomeno, salvo i casi di dissapori legati a vicende di violazioni che invadono le altrui proprietà. E così, molti abusi semplicemente restano sconosciuti. Del resto, i privati non hanno obbligo di denuncia. Obbligo che invece costituisce uno specifico dovere per i pubblici ufficiali e per gli incaricati di pubblico servizio (polizia municipale, funzionari di uffici tecnici comunali e del catasto). Così come per i notai, cui venga richiesto di rogare atti concernenti immobili abusivi, e per il direttore dei lavori. Nella prassi, però, le risorse per i controlli d'iniziativa dei comuni sono scarse. La conseguenza è che molti abusi vengono scoperti solo quando sono già stati ultimati, con tutti i problemi legati alla demolizione: se il privato non provvede spontaneamente, i comuni devono anticipare le spese e poi cercare di recuperarle. E la carenza di fonti a volte rinvia gli abbattimenti.
Le violazioni.
Quando venga accertata la violazione delle norme di legge e di regolamento in materia urbanistico-edilizia, delle prescrizioni degli strumenti urbanisticio delle modalità esecutive fissate nei titoli abitativi, l'articolo 27 del testo unico dell'edilizia (Dpr n. 380/2001) impone ai funzionari comunali di ordinare l'immediata sospensione dei lavori, che avrà effetto fino all'emanazione dei provvedimenti sanzionatori definitivi, da adottare e notificare ai responsabili entro i successivi 45 giorni. Le sanzioni amministrative e penali sono contenute negli articoli da 30 a 48 del testo unico. Nel caso di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, l'articolo 31 stabilisce che se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi entro 90 giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune, che poi provvederà alla demolizione o all'eventuale riutilizzo del bene. Sino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, però, il responsabile dell'abuso o l'attuale proprietario dell'immobile può tentare di ottenere il rilascio di un permesso in sanatoria, a patto che ci siano i requisiti (si veda la scheda). Accanto alla sanatoria che è una procedura a regime negli anni si sono succeduti tre condoni di carattere eccezionale, che hanno reso possibile sanare anche quegli abusi che non fossero conformi agli strumenti urbanistico-edilizi.
La sospensiva.
Il meccanismo si inceppa quando si tratta di applicare le procedure. Le amministrazioni comunali spesso impiegano tempi lunghi nell'istruire le pratiche di accertamento di conformità di condono. E, comunque, il titolare di un abuso edilizio che venisse stanato dal comune avrebbe ancora molte carte da giocare. Infatti, contro i provvedimenti amministrativi di sospensione dei lavori, di irrogazione di sanzioni o di rigetto della richiesta di accertamento di conformità o dell'istanza di condono, si può fare ricorso in sede commissariati di p.s., amministrativa o giurisdizionale (la più praticata). Insieme al ricorso al Tar, o con atto separato, si può chiedere l'emanazione di misure cautelari (la cosiddetta istanza di sospensiva): misure cautelari che vengono quasi sempre concesse dato che la demolizione comporterebbe quel «pregiudizio grave e irreparabile» richiesto dalla legge e che sospendono per anni l'efficacia di un ordine di demolizione. Se poi anche il ricorso alla fine dovesse essere rigettato, c'è sempre la chance dell'appello davanti al Consiglio di Stato, con la possibilità di ottenere - anche qui - la sospensione dell'esecuzione di una pronuncia sfavorevole. In pratica, solo al termine del giudizio d'appello si potrà procedere alla demolizione del manufatto o alla concreta immissione in possesso da parte del comune. Ai tempi lunghi dei comuni si sommano quelli della giustizia amministrativa, ove non è infrequente, ancora oggi, l'esame di ricorsi sul condono del 1994.
Il disastro normalizzato di Fregene
Giuseppe Strappa – Corriere della Sera
Qualche giorno fa gli agenti della Polizia ambientale e forestale, su provvedimento del tribunale di Civitavecchia, hanno posto i sigilli su quaranta abitazioni costruite tra il lungomare di Fregene e viale Viareggio per «lottizzazione abusiva in aree a tutela paesaggistica».
Il balletto dei ricorsi è solo iniziato, tra accertamenti di responsabilità e verifiche di sub deleghe, ma fin d’ora colpiscono due aspetti della vicenda.
Il primo è l’esiguità dei provvedimenti rispetto alla vastità delle distruzioni in atto, perché l’intera località sembra colta, da tempo, da un’inarrestabile attività costruttiva.
Certo, quegli ultimi resti di un paesaggio selvatico calpestati dalle volgari villette sequestrate, colpiscono l’occhio ed il cuore. Ma anche le più composte costruzioni che spuntano come funghi nelle aree verdi finiscono per dare un poderoso contributo alla rovina del paesaggio. E qualora fosse provato che tutte hanno rispettato le procedure, i piani, le norme, la contraddizione emergerebbe in tutta la sua allarmante evidenza: l’obbiettiva, progressiva, inaccettabile distruzione di uno straordinario patrimonio naturale sarebbe stata compiuta nel pieno rispetto delle leggi.
Il secondo aspetto che preoccupa di questa vicenda è l'assenza di proteste, la «normalizzazione» del disastro.
L’assalto alle coste ha, da noi, una tradizione antica. Ma decenni di battaglie civili hanno dimostrato, almeno, come fosse chiaro il confine tra profitto privato e diritti dei cittadini. Da allora qualche cosa sembra cambiato nel profondo delle coscienze.
Anni di condoni e di incertezza del diritto hanno minato quelle verità. Lo stesso termine «speculazione edilizia» è divenuto un relitto linguistico. Perché, del resto, non posso costruire una villetta in un'area protetta? Quando lo Stato finirà per darmi ragione o, almeno, per perdonarmi con una strizzatina d’occhio?
C’è voluto un esposto di Italia Nostra e quasi due anni d’indagini del pubblico ministero Pantaleo Polifemo per fermare, per ora, lo scempio. Ma, nel sonno delle coscienze, vedremo come andrà a finire.
La relazione di esordio del neo-presidente dei costruttori napoletani (Acen) ha avuto l´utilità di rilevare con attenzione i difetti e le incongruenze dell´urbanistica regionale e alcune inefficienze amministrative del Comune di Napoli.
Ovviamente lo fa in maniera partigiana, traguardando la metà più conveniente del bicchiere, sia per quanto riguarda i diversi dati sul deficit di abitazioni, di infrastrutture, sia sui ritardi di ordine burocratico che non favoriscono gli investimenti, sia sui provvedimenti emergenziali, come il piano casa, che, nonostante dichiarati urgenti, tardano a partire. Su alcuni di questi temi vale forse la pena offrire un contributo.
Malgrado qualche recente timido scatto in avanti del consiglio regionale, era quasi inevitabile che il cosiddetto piano casa, che sarebbe meglio chiamare "piano edilizia", finisse nel magma di fine legislatura. E non si tratta di sole questioni di tipo "politico".
Con l´incongruenza e l´insipienza delle norme interamente deregolative in essa contenute, questa legge si è quasi subito manifestata, da un lato, di difficile applicazione e poco snella e proficua per gli investitori, dall´altra avrebbe addirittura messo in discussione la quantità non trascurabile di progetti, piani attuativi e programmi integrati che, sebbene rallentati (e spesso mortificati) dalle regie inadeguate degli enti pubblici, stanno mettendo in campo milioni di euro, in genere privati, a cui le norme-papocchio del "piano edilizia" non avrebbero certo fatto bene. Molti attori economici, anche all´interno dell´Acen, sono coscienti di questo virus contenuto nella legge e di certo non si sono affaticati più di tanto nel promuoverla e nel sostenerla attraverso le consuete metodologie e azioni lobbistiche.
Il caso Napoli può essere un utile esempio. Rivelandosi ancora una volta migliore delle tante critiche che lo vogliono obsoleto e da demolire, il Piano regolatore vigente dal 2004 ha consentito e sta consentendo, all´interno del territorio cittadino, una quantità di trasformazioni urbane (molte delle quali vedono proprio l´Acen in prima linea) che danno attuazione agli scenari previsti dal piano, muovendosi all´interno di regole chiare, univoche e, in parte, anche ragionevolmente flessibili. Vediamo i dati.
Il numero delle iniziative in corso, in attuazione del Prg, è di circa 200.
I Piani urbanistici attuativi (Pua) e i Grandi progetti urbani (Gpu) approvati o adottati sono 24, per una superficie di 8.079.335 mq, con urbanizzazioni per 788.648 mq.
I Pua e i Gpu in corso di adozione sono 8, per una superficie di 1.322.570 mq, con urbanizzazioni per 165.345 mq, quelli ancora in istruttoria sono 16, per una superficie di 3.018.420 mq e urbanizzazioni per 386.595 mq.
L´investimento per realizzare le attrezzature, le residenze e le infrastrutture in essi previste, è tutto a carico dei privati, così come a carico dei privati sono le opere compensative, le urbanizzazioni, spazi e attrezzature interamente cedute al pubblico.
La superficie destinata a urbanizzazioni derivanti dall´insieme delle iniziative già in corso ammontaa 2.945.981 mq, che corrisponde al 23 per cento del deficit dei cosiddetti "standard" calcolato e previsto dal Prg.
Questa immissione di spazi pubblici comporterebbe un incremento di circa 3 mq nella dotazione media per abitante in termini di attrezzature pubbliche, che rappresenta circa il 50 per cento dell´attuale.
Non è difficile ipotizzare che le norme factotum del "piano edilizia" sarebbero entrate a gamba tesa nei già complicati processi di attuazione, alterandone l´iter, innescando varianti a ripetizione e, soprattutto, mettendo in discussione proprio la parte "pubblica", e cioè quelle attrezzature e servizi che, con le regole del piano, i privati investitori dovranno obbligatoriamente cedere al Comune. E invece, come prevede espressamente il "piano edilizia" queste sarebbero le prime a essere derogate e a saltare assieme a indici di fabbricabilità, altezze massime, rapporti di coperture, e tutto l´armamentario urbanistico, forse un po´ vecchio, ma che serve ancora a regolare una crescita e una trasformazione sensata dei tessuti urbani.
Anche per quanto riguarda il semplice 20 per cento di allargamento delle villette si avanzano dubbi da più parti e le stime che misuravano, a livello nazionale, un impatto complessivo del provvedimento di 60 miliardi, sono oramai riviste al ribasso (su questo concordano anche i vertici nazionali dell´Acen).
A una scala diversa, lo stesso discorso vale anche per gli altri Comuni. La mole non piccola di programmi e progetti già in parte operativi, quindi, è senz´altro una positiva base di partenza sulla quale costruire un rilancio strutturale dell´attività edilizia a Napoli e in Campania. I ritardi amministrativi e lo stallo burocratico devono diventare problemi da risolvere e non pretesto per confidare ancora una volta nel solito provvedimento straordinario, nell´ennesima variante, in ulteriori sussidi.
6 Novembre: sono passati sette mesi dal terremoto e la periferia della città va lentamente ripopolandosi anche se ancora più di ventimila persone sono ospitate negli alberghi della costa. Le scuole hanno riaperto negli edifici ristrutturati o nei cosiddetti MUSP (strutture provvisorie) e gli studenti frequentano regolarmente le lezioni, nonostante debbano percorrere ogni giorno molti chilometri in mezzo ad un traffico incontrollabile. La costruzione delle famose “case di Berlusconi” procede con qualche ritardo ma circa 1000 famiglie le abitano già e le altre dovrebbero avere l’assegnazione entro Gennaio.
Tutto bene dunque: è questa l’immagine veicolata dal Governo e ripresa dalla gran parte dei mezzi di informazione che parlano di compimento della prima fase di ricostruzione. In realtà a L’Aquila non è iniziata nessuna ricostruzione ma solo la costruzione di nuovi quartieri e villaggi, che sono peraltro privi di ogni struttura di servizio o di socialità. Tutta la città dentro le mura, il cosi detto centro storico che era abitato da 17.000 persone, è tuttora inaccessibile, se si escludono alcune arterie riaperte per motivi di viabilità, e nessuno può entrare nella propria abitazione senza la presenza dei vigili del fuoco. Le macerie non sono state rimosse e proprio ieri il Prefetto richiamava l’urgenza di questo problema segnalando che di questo passo la ricostruzione durerà 50 anni!
Il presidente Berlusconi, in visita ieri all’Aquila per la 24ma volta, lo ha rassicurato con una brillante idea: trasformare le macerie in collinette ricoperte di verde per abbellire il paesaggio. Nessuno ha ancora aperto una discussione pubblica su come e quando ricostruire il centro storico coinvolgendo i cittadini che pure stanno dando prova di uno straordinario attaccamento alla città. Nel frattempo le lungaggini burocratiche hanno impedito l’inizio dei lavori per la riparazione delle case della cintura periferica che sono meno compromesse. L’arrivo dell’inverno fa prevedere che tutto sarà rinviato alla prossima primavera.
Le cose non vanno meglio se guardiamo alla ricostruzione sociale. Il problema del lavoro rimane il più serio. Gli artigiani, i commercianti stanno faticosamente cercando di riprendere le loro attività, ma mancano gli spazi perché all’interno dei nuovi caseggiati non ci sono luoghi da utilizzare a questo fine e gli spazi riservati ai servizi attendono ancora progetti e risorse. Le fabbriche, già sofferenti per la crisi economica, tardano a riprendere la loro attività e anche l’edilizia locale e regionale non ha avuto ancora possibilità di incrementare la propria occupazione perché le imprese interessate alla costruzione dei nuovi insediamenti abitativi sono prevalentemente del Nord. Gli stessi lavoratori pubblici corrono il rischio di veder ridimensionati gli organici per la riduzione della popolazione.
L’Università, che, oltre ad essere un importante polo culturale e scientifico, costituiva una grande risorsa economica per la città, rischia un grave ridimensionamento degli iscritti, e conseguentemente dei docenti e degli impiegati, perché non ci sono risposte adeguate alla richiesta di alloggi per gli studenti fuorisede che pure avevano rinnovato la loro iscrizione. In questo contesto la Regione Lombardia ha costruito uno studentato di 120 posti letto che Formigoni ha inaugurato ieri alla presenza di tutte le autorità cittadine e dell’immancabile Bertolaso, affidandone la gestione non all’azienda per il diritto allo studio, come sarebbe stato logico trattandosi di soldi pubblici, ma alla Curia che ha già dichiarato che, per l’assegnazione dei posti, non si atterrà alle graduatorie formulate dagli uffici universitari.
Come si vede il terremoto ha distrutto molte certezze ma non l’intreccio tra potere pubblico e gerarchie ecclesiastiche.
A sette mesi dal terremoto, inoltre, gli aquilani non possono ancora contare su un Ospedale efficiente. Molti servizi sono ancora nelle tende, il laboratorio è costretto a mandare a Teramo gli esami batteriologici, le sale operatorie lavorano a ritmi ridotti, i posti letto disponibili sono meno di un terzo del necessario, i servizi di riabilitazione hanno dovuto ridurre drasticamente le prestazioni ai disabili. Eppure molte parti dell’Ospedale sono riparabili e riutilizzabili; la domanda che viene spontanea è perché, se è stato possibile costruire in 20 giorni un aeroporto per il G8, non sia stato invece possibile rendere agibile l’Ospedale in 7 mesi.
Potrei continuare ancora a lungo a citare problemi irrisolti che nessuno nomina ma penso che le cose dette fino a qui siano sufficienti a riconfermare che un terremoto è un evento catastrofico che lascia dietro di sé distruzioni materiali e sociali di grande rilevanza, tanto più se distrugge una città capoluogo di Regione ricca di storia e di monumenti. Pensare che si possa rispondere a questa situazione con un ottimismo di facciata, piuttosto che affrontando la realtà e chiamando all’impegno tutte le risorse dei cittadini, è una colpevole superficialità che rischia di condannare L’Aquila ad un futuro di mediocre cittadina di provincia e gli aquilani ad un vissuto di memorie senza prospettive.
Il link al sito sinistra-democratica.
«Éindiscutibile che gli stadi italiani siano i peggiori d’Europa e non c’è bisogno di frequentare quelli di Champions League per capirlo. Basta guardare agli impianti di Inghilterra, Germania o Spagna per rendersi conto quanto siamo lontani da una realtà appena discreta. I nostri sono stadi scomodissimi e obsoleti ». Sono parole di Sergio Campana, avvocato e presidente dell’Assocalciatori e riassumono l’anomalia italiana. Primo punto: nessun club di serie A e B è proprietario dello stadio dove gioca. Secondo punto: nessuna società ha sfruttato le possibilità offerte dall’organizzazione di Italia ’90, a parte Roma (Olimpico rifatto) e Milano (terzo anello a San Siro), con due impianti che sono considerati di alto livello da parte della Federcalcio europea e dove si sono giocate due finali di Champions League. In qualche caso, come a Bari, è stato costruito uno stadio bello, ma poco funzionale, soprattutto in rapporto alla capienza (60 mila spettatori). Terzo punto: non ci si è resi conto per tempo che la tv stava svuotando gli stadi: i primi segnali erano già apparsi chiari negli anni Novanta; l’introduzione del digitale terrestre (gennaio 2005) ha completato l’allontanamento della gente dal calcio visto dal vivo, trasformandolo in uno spettacolo da consumare in salotto davanti al televisore.
L’esempio di Torino
Adesso il calcio italiano sta cercando di riguadagnare il tempo perduto nei confronti degli altri Paesi europei. In un clima di incertezza assoluta, è iniziata la corsa all’ideazione di nuovi stadi o alla ristrutturazione di quelli vecchi. In verità, soltanto la Juve si è mossa con determinazione e con un progetto chiaro che fra 600 giorni le consentirà di inaugurare il vecchio stadio delle Alpi, completamente rifatto e di proprietà. Il disegno di legge Crimi è il prodotto di un’intesa trasversale fra maggioranza e opposizione: è stato approvato all’unanimità dalla Commissione Cultura del Senato, dopo un lungo lavoro di emendamenti e salterà il passaggio in Aula. Ora passa alla Camera, ma con profonde modifiche rispetto al momento della presentazione. Nei giorni scorsi il sottosegretario ai Beni culturali, Francesco Giro, aveva pubblicamente spiegato le perplessità del proprio dicastero: «Siamo di fronte a provvedimenti di legge che permettono una nuova impiantistica sportiva, ma anche dell’altro. Bisogna essere persone serie e pensare a proteggere il nostro patrimonio artistico. L’accordo di programma permetterà ai Comuni di andare in deroga, cioè di operare varianti al piano regolatore. Si potranno realizzare non soltanto gli stadi, ma anche appartamenti e palazzine in terreni al momento considerati inedificabili. Per questo occorre cautela. Capisco la fretta delle società calcistiche, ma qui si sta parlando di altro. Dobbiamo essere rigorosi, seri e responsabili ». Il disegno di legge non ha convinto tutti, anche all’interno del mondo sportivo, ai massimi livelli istituzionali.
San Siro: sì, no, forse
Juventus a parte, il quadro (modificabile) è questo. Il Milan è deciso a restare a San Siro, dopo ristrutturazione totale: 75 skybox sul primo anello, un ulteriore anello intermedio, per far spazio a nuove soluzioni commerciali (negozi e ristoranti), uno spazio adiacente allo stadio per lo shopping. La scelta nasce dalla considerazione che San Siro ristrutturato ha le stesse potenzialità di uno stadio moderno. Il presidente dell’Inter, Massimo Moratti, ha costituito una commissione di esperti, per essere pronto a realizzare un nuovo stadio nel caso in cui la legge dovesse rendere vantaggiosa la costruzione di un nuovo impianto (il progetto c’è già e da tempo). Ma anche Moratti non è del tutto convinto della necessità di lasciare San Siro, unico impianto, con l’Olimpico di Roma e il San Nicola di Bari, in grado di ospitare un (eventuale) Europeo.
Roma, Firenze e Bologna
Il caso più controverso è quello di Roma, dove i due club vogliono abbandonare l’Olimpico. A settembre, la Roma ha presentato un progetto per il nuovo stadio, intitolato a Franco Sensi, che dovrebbe sorgere in zona Massimina, lungo l’Aurelia. La struttura, ideata dall’architetto Gino Zavanella, dovrebbe ospitare 55-60 mila spettatori; gli appartamenti e il centro commerciale più grande d’Europa devono avere tutte le autorizzazioni urbanistiche e non sarà facile. È tutto da verificare il progetto dello stadio della Lazio, che dovrebbe sorgere in zona Tiberina, esposta al rischio di esondazioni. Il progetto di Alfonso Mercurio prevede la realizzazione di una cittadella dello sport, con case, hotel, shopping center: 2 milioni di metri cubi impegnati.
Il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, ha spiegato che «non avere uno stadio è come avere una società senza gli uffici». Da sette mesi gli architetti scelti dal presidente stanno studiando come rifare totalmente il San Paolo.
Ma il primo progetto di un nuovo impianto è della Fiorentina. È da più di un anno che Diego Della Valle ha illustrato le caratteristiche della cittadella viola: stadio da 40-50 mila posti, centro commerciale, hotel, parco a tema calcistico. Lo stadio è destinato a sorgere nell’area Castello, ancora sotto sequestro da parte della magistratura.
Giovedì il vertice fra le istituzioni, il Bologna e la Federcalcio sul nuovo stadio è finito con una bocciatura del progetto del nuovo impianto, perché ritenuto «non conforme agli interessi pubblici ».
A Genova, invece, non c’è chiarezza sull’area sulla quale dovrebbe sorgere il nuovo stadio.
L’equivoco di Euro 2016
In questo clima di incertezza, si è fatto strada un equivoco, che nessuno sembra in grado di cancellare: secondo questa tesi, rifatti gli stadi, sarebbe automatica l’assegnazione all’Italia, che ha già perso l’edizione 2012, dell’Europeo 2016. Niente di più sbagliato, perché stadi funzionali sono la condizione necessaria, ma tutt’altro che sufficiente per aggiudicarsi la manifestazione (la prima edizione a 24 squadre). C’è tempo fino al 15 febbraio 2010 per ufficializzare la candidatura, ma la concorrenza è fortissima: Francia, Turchia, Norvegia- Svezia. Occorre un impegno diretto del governo e soprattutto la certezza che verranno rispettati i tempi di costruzione dei nuovi stadi. Niente di più difficile, in Italia, come si è visto anche per il Mondiale ’90.
Si parla poco ormai del post-terremoto aquilano. E’ passata la consegna del silenzio o del “tutto va ben” assoluto. Ma qual è la situazione reale al di là del taglio di qualche nastro? Ecco un “diario” estratto dalle cronache locali del “Messaggero”, per lo più di Claudio Fazzi.
Lunedì 26 ottobre: nuova scossa di terremoto semina panico. Quanti sono rimasti fuori dalle assegnazioni di case e qui lavorano o hanno figli a scuola chiedono camper e container. Rifiutano di trasferirsi lontano. I costruttori locali denunciano: i siti che ricevono le macerie sono inesistenti. Quelli aperti hanno prezzi troppo alti. Così c’è chi scarica nei dirupi, lungo i torrenti o sopra altri cumuli. La Protezione Civile rimborsa soltanto le perizie geologiche.
Martedì 28: Il Rettore dell’Università dell’Aquila, Ferdinando di Orio: è pronto a dimettersi qualora “le giuste attese degli studenti restassero ancora inevase” per servizi e alloggi. Ha scritto una lettera al presidente Napolitano. Sospendere le iscrizioni “avrebbe significato la morte dell’Università aquilana” che dà lavoro a oltre mille persone.
Mercoledì 29: anche il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, minaccia di dimettersi, ma per problemi di giunta. Denuncia il grave ritardo nei lavori per l’Ospedale. Teme che si voglia, anche così, declassare l’Aquila. Tarda la ristrutturazione del laboratorio di analisi. “Sul blocco operatorio bisogna lavorare 24 ore su 24”. Cialente è pure preoccupato per la diffusione dell’influenza A nelle zone del sisma.
Giovedì 29: rapporti tesi fra consiglieri aquilani e Protezione Civile. Gli assistiti risultano così divisi: 8.637 in case private, 13.178 fra alberghi e caserme, 2.276 in tenda. Il Progetto case tanto sbandierato ha accolto per ora circa 2.000 persone fra Bazzano, Cese e MAP.
Venerdì 30: il sottosegretario Gianni Letta afferma: “L’Aquila è una città che non deve morire”. Aggiunge che “se non finisce l’emergenza, non può cominciare la ricostruzione”.
Sabato 31: la Caritas dell’Aquila esprime grande preoccupazione perché nell’area del sisma ci sono quartieri nuovi, nati in pochi mesi, e zone, invece, spopolate. Così si propone di “incontrare le famiglie che si sono spostate” e di “aiutare i parroci a ricostruire le comunità”. Preservare le comunità: è il problema di fondo di ogni post-terremoto.
Domenica 1 novembre: bufera all’interno del Pdl abruzzese, il coordinatore regionale Piccone afferma che “Pescara è il vero capoluogo d’Abruzzo”. “Affermazione offensiva, ingiusta e vile”, commentano dall’Aquila il sindaco Cialente e la presidente della Provincia Pezzopane. Sopravvissuta al crollo della Casa dello studente, Antonella, pugliese, racconta: “Nessuno mi ha mai ascoltata e sono senza una stanza.”
Nel nostro tempo vediamo morire l'estetica. «Le arti nascono, si consolidano e scompaiono perché uomini insoddisfatti vanno al di là del mondo delle espressioni ufficiali e dei festival della sua povertà» (Hurlements en faveur de Sade, giugno 1952). Da un secolo a questa parte, ogni pratica artistica muove da una riflessione sulla sua materia e finisce in una riduzione ancora più estrema dei propri mezzi (esplosione finale della parola, o dell'oggetto pittorico. Il Cinema ha seguito lo stesso processo, accelerato dal precedente delle arti più antiche). L'isolamento di qualche parola sul bianco dominante di una pagina in Mallarmé, la fuga che mette in evidenza l'opera meteorica di Rimbaud, la folle diserzione di Arthur Cravan attraverso i continenti, o il risolversi del dadaismo nella partita a scacchi di Marcel Duchamp sono le tappe di una stessa negazione di cui oggi dobbiamo depositare il bilancio.
L'Estetica, come la Religione, potrà metterci molto tempo a decomporsi, ma le sopravvivenze non hanno alcun interesse. Dobbiamo semplicemente denunciare la speranza che potrebbe ancora essere riposta in queste soluzioni retrograde. È questo il senso della nostra manifestazione contro Chaplin dell'ottobre del 1952. L'Arte Moderna ha il presentimento di un al di là dell'estetica e lo esige, le sue variazioni formali ne annunciano la venuta. A questo proposito, l'importanza del Surrealismo consiste nel fatto di aver considerato la Poesia un semplice mezzo per attingere a una vita nascosta e più valida. Ma il mattino conserva poche tracce delle costruzioni oniriche incompiute. Gli anni passano borghesemente nell'attesa del «caso oggettivo» di passanti improbabili, di rivelazioni incerte.
Due generazioni non possono vivere della stessa scorta di illusioni. Il Lettrismo di Isou è stato una specie di Dadaismo in positivo. Propone una creazione illimitata di nuove arti attraverso meccanismi stabiliti. Nell'inflazione dei valori comunemente spiegati, queste discipline perdono anche l'ultimo barlume di interesse. Le arti si esauriscono nelle loro ricchezze residue, o continuano per ragioni di commercio. «Ogni giorno si creeranno forme nuove; non si farà più la fatica di provarle, di esplicitare la loro resistenza tramite opere valide... Ci si spingerà più lontano per scoprire altre fonti secolari che verranno abbandonate, a loro volta, nello stesso stato di virtualità inesplorata. Il mondo rigurgiterà di ricchezze estetiche di cui non saprà che cosa farsene» (Isou, Mémoires sur les forces futures des arts plastiques et sur leur mort, marzo 1951). Dopo il processo all'accademismo idealista, e l'esclusione dei suoi sostenitori, scrivevo: «Tutte le arti sono giochi volgari che non cambiano nulla» (Notice pour la Fédération française des ciné-clubs, novembre 1952). Il nostro disprezzo per l'Estetica non è una scelta. Al contrario, eravamo piuttosto dotati per amarla. Siamo arrivati alla fine, ecco tutto. (...)
Dentro una camera astratta
Lo Scenario ci colma e ci determina. Anche nello stato attuale abbastanza penoso delle costruzioni cittadine, esso è generalmente molto al di sopra degli atti che contiene, atti rinchiusi nelle linee imbecilli delle morali e di un'efficacia primaria. Bisogna giungere a uno spaesamento attraverso l'urbanesimo, a un urbanesimo non utilitario o più precisamente concepito in funzione di un altro uso. La costruzione di ambienti nuovi è la condizione fondamentale per altri atteggiamenti, altri modi di comprendere il mondo. Lo stesso desiderio segue il suo corso sotterraneo in più secoli di sforzi liberatori, dai castelli inaccessibili descritti da Sade fino alle allusioni dei surrealisti, a quelle case complicate, con lunghi corridoi bui, in cui avrebbero voluto abitare. Il fascino - nel senso più forte di questo termine - che continuano a esercitare i grandi castelli del passato, i villaggi circondati da palizzate dei bei tempi del Far West, le case inquietanti del porto di Londra - cantine comunicanti con il Tamigi - o i dedali dei templi indiani, non deve essere lasciato a una fiacca e occasionale rievocazione cinematografica, ma utilizzato in costruzioni nuove e concrete.
Il prestigio esercitato dai Ragazzi terribili su un'intera generazione deriva dal clima creato dalla costruzione inusitata di un luogo, e dalla decisione di viverci in maniera esclusiva: una camera astratta, una città cinese dai muri fatti di paraventi. «Una sola camera, isola deserta circondata di linoleum». Una frase dell'opera rivela chiaramente tutte le opportunità di avventura che possono essere contenute in una casa a seguito di un «errore» nei progetti classici dell'architettura: «Avevano notato una delle sue singolari virtù, e non la minore; la galleria andava alla deriva in tutti i sensi, come una nave ormeggiata a una sola ancora.
Quando ci si trovava in una qualsiasi altra stanza, diventava impossibile situarla e, allorché vi si penetrava, rendersi conto della sua posizione in rapporto alle altre stanze» La nuova architettura deve condizionare tutto: una nuova concezione dell'arredamento,dello spazio e della decorazione in ogni stanza;un nuovo utilizzo delle sensazioni termiche, degli odori, del silenzio e della stereofonia; una nuova immagine della Casa (scale, cantine, corridoi,aperture) che dovrà essere estesa alla nozione di complesso architettonico, unità più grande della casa attuale e che sarà l'unione di vari edifici - dall'esterno nettamente separati - contribuendo a creare un clima, o un contrasto tra vari climi. Utilizzando altre arti, a uno qualsiasi degli stadi del loro passato, come oggetti pratici di accompagnamento, l'architettura tornerà a essere quella sintesi delle arti che ha segnato le grandi epoche dell'Estetica. Tutti gli esempi già esistenti di questi complessi presentano un'architettura barocca: contro il genere «armoniosa presentazione delle forme» e contro il genere «massimo confort per tutti». (Come immagina i bisogni degli uomini Le Corbusier?)
L'Architettura in quanto arte esiste solo se evade dalla sua nozione utilitaristica di base: l'Habitat. È abbastanza automatico constatare che in questa disciplina, in cui tante opere sono state limitate da un'intenzione utilitaristica (buildings giganteschi per alloggiarvi più persone possibili o cattedrali per pregare), l'orientamento allo stesso tempo gratuito e influente di cui parlo è da qualche tempo annunciato dal meraviglioso palazzo ideale del Postino Cheval, certamente più importante del Partenone e di Notre Dame messi insieme; e dalle stupefacenti realizzazioni che permette la più avanzata tecnica dei materiali: muri ad aria compressa,tetti di vetro, eccetera. (...)
L'Urbanesimo, considerato come mezzo di conoscenza, annetterà tutti i campi minori che smetteranno da quel momento di interessarci in quanto tali. E utilizzerà allo stesso tempo l'ultimo stadio delle arti plastiche per decorare strade, piazze, terreni abbandonati, foreste improvvise - e gli esiti della poesia dismessa per nominarli (Viale Jack lo Squartatore, Quartiere Nobile e Tragico, Via dei Castelli di Luigi II di Baviera, Vicolo del Cane Andaluso, Palazzo di Gilles de Rais, Via Sbarrata, Cammino della Droga). Farà il miglior uso delle luci tramite le finestre, delle vie totalmente buie, dei fiumi dissimulati e dei labirinti aperti di notte.
Il problema dell'ozio
Il futuro è, se si vuole, nei Luna Park costruiti da grandi poeti. Per tornare al caso delle città esistenti, molti quartieri possono essere rapidamente sottratti al loro uso. A Parigi, l'Ile Saint Louis può essere conservata così com'è, ma facendo saltare i ponti e popolandola in tutto di una ventina di persone, nomadi tra gli appartamenti deserti. Ci sono anacronismi di lusso, oggi, che costano più cari. Una cosa ancora più rapida: utilizzare alcune sorprendenti insegne al neon come macello, aborto, ristorante pessimo. Perché mai si dovrebbe escludere il senso dell'umorismo? Va da sé che queste città si estenderanno con l'evoluzione della condizione attuale dell'Uomo, utilizzato e salariato.
Il Destino è Economico. La sorte degli uomini, i loro desideri, i loro «doveri» sono stati interamente condizionati da questioni di sussistenza. L'evoluzione macchinica e la moltiplicazione dei valori prodotti permetteranno nuove condizioni di comportamento e le reclamano fin da ora, quando il problema dell'ozio comincia a porsi con un'urgenza a tutti evidente. L'organizzazione dei divertimenti per una folla che è un po' meno assoggettata a un lavoro ininterrotto è già una necessità di Stato; anche quando queste persone si accontentano di divertimenti del tipo Parc des Princes per le loro domeniche sinistre.
Dopo qualche anno passato a non fare nulla nel senso comune del termine, potremo parlare del nostro atteggiamento sociale d'avanguardia, perché in una società ancora provvisoriamente fondata sulla produzione abbiamo voluto preoccuparci seriamente solo dei divertimenti. Persuasi che le sole questioni importanti del futuro riguarderanno il gioco via via che la disaffezione per i valori assoluti della morale e dei gesti crescerà, abbiamo giocato in questa attesa per le strade povere dei fatti permessi; nei boschetti di mattoni del quai Saint Bernard, di cui ricreiamo la foresta. Ma applicando a questi fatti nuove intenzioni di ricerca - un metodo il cui discorso non è ancora stato scritto - si potrà dedurne le leggi, vagamente intuite, delle sole costruzioni che in effetti ci importano: situazioni sconvolgenti di tutti gli istanti.
L'Internazionale Lettrista ha pubblicato nel febbraio del 1953 un volantino la cui aggressività disperata trovava giustificazione nell'ultima frase: «I rapporti umani devono avere a fondamento la passione, oppure il Terrore». Una passione che tuttavia è difficile trovare nelle nostre «frequentazioni» (...); noi vogliamo situarla nel rinnovamento costante del mondo dove sconosciuti si incontreranno ovunque, se ne andranno senza mai crederci, semplicemente tra il tragico e il meraviglioso delle loro passeggiate terrestri. (...) Sparsi nel secolo, si manifestano i segni di un nuovo comportamento. Gridano nel frastuono. A margine della Storia, di quelle bombe gettate dai piccoli nichilisti russi impiccati a quindici anni; o nel racconto chiuso dei Ragazzi terribili e del loro incesto incompiuto, o nel modo commovente e burlesco di vivere di qualche persona che ho conosciuto bene. Bisogna dare una descrizione completa di questi comportamenti e giungere fino alle loro regole. La pista di una vita gratuita è più volte emersa, e viaggiatori frettolosi l'hanno seguita senza più tornare indietro - come Jacques Vaché che scriveva: «Il mio obiettivo attuale è quello di portare una camicia rossa, un foulard...».
Traduzione di Monica Fiorini.
postilla
Perfettamente nel solco delle avanguardie del ‘900, anche questo testo coglie e anticipa al loro primo palesarsi alcune tendenze che, oggi, anche noi pecoroni vediamo mature ed evidenti, tanto evidenti da essere diventate vita quotidiana. Basta scorrere uno qualunque dei paragrafi per trovare immortalati i caratteri essenziali dei nostri ambienti commerciali, di intrattenimento, i territori-vetrina che ci scorrono costantemente davanti, direttamente o proiettati su qualche schermo reale (il finestrino dell’auto, della metropolitana) o catodico.
Nessuna sorpresa, visto che proprio lo stesso brodo di coltura delle avanguardie produce sia i percorsi individuali di resistenza alle nuove macchine dell’immaginario, sia quelli in grado di sfruttarlo con vari livelli e meccanismi di suggestione e dominio. Più interessante invece notare come nella fase più matura, almeno di consapevolezza, che stiamo attraversando oggi, in questo inizio di terzo millennio, inizino ad emergere più chiari i percorsi di resistenza diffusa alla trappola dell’immaginario etero diretto, di autogestione individuale dello spazio urbano reale e virtuale, in forme diverse da quelle della classica “riappropriazione” istituzionale, che però ne possono diventare un complemento.
Recentissimo esempio il conflitto, al tempo stesso giocato sul piano dell’immaginario più assoluto, e della concretezza istituzionale e ambientale, della Battaglia di Pinewood: il set cinematografico dentro/contro il territorio. Come recita qualunque locandina seria: “vedere per credere” (f.b.)
La (non) santa alleanza tra pubblico e privato rischia di schiacciare i nostri aeroporti sul modello autostradale, notoriamente poco virtuoso. Se ne discute poco, con tutta l’attenzione mediatica concentrata sul problema dello smarrimento dei bagagli, ma ciò che sta succedendo negli scali italiani è quantomeno paradossale. Della qualità e del costo dei sevizi forniti - nel complesso modesti - sembra importare assai poco alle nostre autorità di settore. In compenso, conta sempre di più una sola logica: fare molti investimenti sempre e comunque. Anche se la crisi attuale li rende certamente non tutti inutili, ma neppure tutti urgenti. E forse per questa peculiare pulsione ad annunciare grandi investimenti vi sono solide spiegazioni economiche. Innanzitutto, negli aeroporti gli investimenti sono potenzialmente molto redditizi e privi di rischi reali, in quanto garantiti dalle tariffe che pagano i passeggeri, direttamente o indirettamente.
Quando compra un biglietto aereo, il passeggero sovente ignora che sta pagando anche gli aeroporti, sia per la gestione che per gli investimenti. Mentre chi prende il treno non paga nemmeno tutti i costi di gestione. Gli aeroporti sono in parte pubblici (la Sea ad esempio è del comune di Milano) e in parte a capitale misto come Torino, Firenze e Venezia, o completamente privati come gli Aeroporti di Roma della famiglia Benetton. I fratelli di Ponzano Veneto sono anche concessionari di Autostrade per l’Italia, che gestisce il 70% del traffico autostradale a pedaggio nel nostro paese.
E anche degli investimenti autostradali gli utenti ne pagano la gran parte e, in alcuni casi, persino molto più del 100%. Perché anche qui ci sono molte autostrade pubbliche o semipubbliche. Dunque, aeroporti e autostrade sono potenzialmente grandi fonti di reddito, pubblico e privato, e gli utenti hanno poca scelta e non sanno esattamente se pagano il giusto oppure no. Questa situazione genera una spinta a un’alleanza pubblico-privato assai poco innocente, dove si riesce a massimizzare i ritorni economici, senza contraccolpi di consenso sociale. Insomma, un capolavoro di marketing e sedicente “capitale di rischio”.
Però la redditività delle infrastrutture (dette “monopoli naturali”) dovrebbe essere oggetto di regolazione pubblica, come l’energia o le telecomunicazioni, per difendere gli ignari utenti da possibili spoliazioni dei monopolisti (“rendite di monopolio”), o dalle loro inefficienze se prevalgono obiettivi politici, come l’eccesso di forza lavoro, i consigli di amministrazione gonfiati, gli appalti e subappalti a imprese “amiche”. Inoltre, visto che anche gli investimenti li pagano gli utenti, il regolatore pubblico dovrebbe verificare che si facciano solo quelli necessari, e senza sprechi di sorta (ai minimi costi, non con granito rosso di Svezia e moquette di vero leopardo). Da qui, la necessità della creazione di autorità indipendenti di regolazione, invise sia ai monopolisti che alla sfera politica, che non ha molto voglia di regolare se stessa e rinunciare alle relative rendite. Nel caso dei trasporti, la politica si è adoperata con successo per evitarne il varo, anche se c’era un vago impegno nel programma di Romano Prodi.
Tornando agli aeroporti, recentemente è stato deciso un curioso aumento “ponte” delle tariffe che devono pagare gli utenti: tre euro per quelli grandi; due per quelli medi e uno per quelli piccoli. Questo, senza alcuna verifica se le diverse gestioni aeroportuali siano efficienti o no. Insomma: aumenti uguali per tutti, efficienti e inefficienti, in attesa di firmare poi i soliti “contratti di programma” di lunghissima durata. L’Antitrust si è vanamente opposta a queste lunghissime durate, che generano uno strapotere negoziale dei concessionari, senza alcuna motivazione tecnica, ed eliminano la possibilità di bandire gare periodiche per l’affidamento delle concessioni. Inoltre, questi “contratti di programma” saranno tutti centrati sui futuri investimenti, ma dell’efficienza gestionale si parla pochissimo.
Ora, l’organo di regolazione “facente funzione” della mancante autorità, ovvero l’Enac, dichiara di essere in difficoltà a valutare anche solo i piani di investimento che gli saranno sottoposti. Quegli aumenti arbitrari rischiano così di diventare permanenti. Le compagnie aeree ovviamente protestano, ma l’assenza di un’Autorità indipendente li priva di un avvocato essenziale. E lo Stato ha già dimostrato di poter intervenire pesantemente, e contro le regole del mercato, nella vicenda Alitalia. Logico, allora, essere molto prudenti. D’altronde anche per la regolazione delle autostrade è andato in scena un film molto simile: dopo lunghissimi conflitti e dibattiti, la regolazione stessa del settore è stata di fatto cancellata; gli investimenti saranno fatti direttamente dai concessionari (“in house”) e pagati dagli utenti sostanzialmente a piè di lista. Questa non santa alleanza tra pubblico e privati sembra perciò destinata a un analogo “successo” anche nel settore aeroportuale. Il tutto, naturalmente, a danno del cittadino-utente.
L’autore è ordinario di Economia Applicata al Politecnico di Milano
Il Piano Casa della Regione Campania non garantisce la tutela del vasto patrimonio edilizio di interesse storico e architettonico che allo stato attuale non è ancora vincolato dal Codice dei Beni culturali; di conseguenza, esso non garantisce la tutela dei numerosi paesaggi campani che proprio da tale patrimonio traggono valore e identità.
Si sperava che il testo portato in Consiglio regionale fosse il frutto di un lavoro condiviso in commissione Urbanistica, scaturito dall´esame delle osservazioni costruttive inoltrate da qualificati istituti e associazioni operanti nel settore dell´urbanistica e della tutela ambientale, preoccupati per gli effetti negativi innescati in maniera casuale dagli incrementi dei carichi abitativi e da trasformazioni edilizie diffuse e poco attente al valore del nostro patrimonio edilizio di qualità.
Sono essenzialmente due gli interventi straordinari che possono avere effetti davvero disastrosi su numerose e importanti aree campane al momento fragili per carenza normativa: l´ampliamento di volumetria e la demolizione e ricostruzione di edifici di interesse storico e/o architettonico ancora privi di vincolo ai sensi del decreto legislativo 42/2004 e, per aggravio di pena, ubicati in aree non ancora classificate come zone A, in zone (agricole e no) prive di vincolo di inedificabilità assoluta o non collocati in riserve e parchi nazionali e regionali.
In poche parole potremmo perdere una mole di quegli edifici monumentali e di quella edilizia minore di valore, che, pur essendo ancora privi di vincolo, svolgono un ruolo essenziale, quello di fornire la misura del tempo e dunque della storicità dei luoghi; e, in uno con la componente naturale, di definire, poi, l´identità del paesaggio.
Che ne sarà, ad esempio, degli arcaici paesaggi della Piana Campana laddove il millenario disegno delle centuriazioni romane si coniuga ancora a filari di pioppi, strade rurali, termini lapidei e antiche masserie superstiti, che coralmente compongono ancora un paesaggio antico e allo stesso tempo vitale? Sarà la fatiscenza dei manufatti a determinarne il destino? Che ne sarà di Ischia, già collassata da una urbanizzazione selvaggia, che ha provocato una diffusa messe di case, separate ormai solo da piccole frange di verde: si dovrà saturare del tutto fino a formare un unico agglomerato urbano coincidente con l´intero territorio isolano? Purtroppo potremmo citare numerosissimi esempi. È noto, infatti, che il patrimonio culturale italiano - in particolare monumenti e paesaggi - è tutelato solo in piccola parte rispetto alle reali potenzialità: per la sua estensione, infatti, censimenti e catalogazioni vanno a rilento così come le complesse procedure di vincolo.
Che cosa fare dunque per dare un contributo alla salvaguardia della nostra regione? Innanzitutto accettare il principio culturale che il rilancio dell´edilizia non può avvenire a danno del nostro patrimonio paesaggistico. Per ottenere ciò occorre promuovere nei territori di riconosciuta qualità attività legate al restauro, limitare, inoltre, gli interventi di ampliamento e di sostituzione all´edilizia post-bellica, esprimere con chiarezza nel testo (onde evitare future controverse interpretazioni) che i due interventi suddetti non possono essere realizzati nei territori soggetti alla disciplina dei piani territoriali paesistici di cui alle leggi 1497/1939 e 431/1985 e in quelli vincolati ai sensi del Dlgs 42/2004.
È inoltre fondamentale accelerare i processi di conoscenza del territorio regionale per individuare e tutelare aree e manufatti di rilevante interesse. Una maggiore estensione della tutela prevista dal Codice dei Beni culturali appare in ogni caso uno strumento-paracadute da attivare per salvare il salvabile, soprattutto se in sede regionale non si dovesse ritenere di accogliere gli emendamenti volti a garantire la conservazione del nostro patrimonio culturale, per lo più ancora ufficialmente sconosciuto.
Un piano casa perpetuo, che di fatto è operativo da oltre vent’anni. Il sacco edilizio di città e campagna perennemente appaltato al partito dei «calce-struzzi». Una colata continua di condomini, capannoni, magazzini e centri commerciali, che fa balzare il Veneto in cima alla classifica delle regioni più edificate. E’ la transizione dalla scintillante «locomotiva» del Nord Est alla partita doppia della betoniera.
Con l’implosione dell’impresa familiare e il default delle logistiche strozzate dalla stretta del credito, il cemento armato rimane l’unica «benzina». Fonte «naturale» di guadagni, rendite, favori e voti; strutturalmente al riparo dagli scossoni di ogni mercato. Funziona al di là della recessione e degli schieramenti politici.
Il Veneto gioca la partita della crisi puntando (ancora) sull’asso pigliatutto del mattone. Alimentando una bulimia edilizia patologica, che divora migliaia di ettari di territorio ogni anno. Oltre 290 milioni di metri cubi di edifici residenziali direzionali e commerciali costruiti dal 1983 al 2006 sono il bilancio dell’economia «impalcaturiera» del Nord Est imbullonata sulle gru. Cemento armato che si traduce in un giro di appalti milionario: più che vitale per enti locali preoccupati di raddrizzare bilanci votati al rosso. Ma anche per l’affollato giro d’affari di costruttori e immobiliaristi con l’acqua alla gola. Muove la cazzuola dell’edilizia «in chiaro» e stende anche la malta di quella «criptata». Politicamente è la «colla» dell’ unico vero «partito del Nord».
L’effetto collaterale è un territorio irrimediabilmente degradato, banalmente omologato dal Bellunese al Polesine, violentato nei tratti somatici dell’identità non solo paesaggistica. Sotto i metri cubi di calcestruzzo, acciaio e bitume spariscono per sempre campi, paludi e aree boschive. Insieme alla rete idrica, «stuprata» da passanti, bretelle, raccordi e direttissime.
Il piano casa regionale varato a luglio spara il colpo di grazia al precario equilibrio ecologico. Sulla carta, il provvedimento non serve. Il patrimonio immobiliare dei 581 comuni veneti copre il fabbisogno abitativo fino al 2022, immigrati compresi. «Nelle sole province di Padova e Treviso le aree urbane ormai corrispondono al 20% del territorio. Una quantità enorme che non ha eguali in nessun altra regione italiana» spiega Sergio Lironi, urbanista di Legambiente. Sul tavolo, i dati del Centro ricerche economiche sociali di mercato per l'edilizia e il territorio e gli studi della Cassa edile artigiana veneta: dal 1999 al 2008 quasi 340 mila nuove abitazioni. Sono 135 milioni di metri cubi di cemento armato.
«E’ il risultato della filosofia dell’urbanistica contrattata, del caso per caso e giorno per giorno. Una gestione dei piani caratterizzata da continue varianti e deroghe ha consentito l’arrogante prevalere degli interessi privati delle grandi società immobiliari dando via libera alle logiche speculative – denunciano gli ambientalisti - La città tentacolare si è sparpagliata nel territorio cancellando luoghi identitari, risorse ambientali e beni culturali. E degradando la qualità del vivere quotidiano».
Ma non c’è solo il lato B della mitologica polis diffusa: a puntellare l’ossatura edile c’è soprattutto la sconfinata melassa di capannoni, centri commerciali, attrezzature «di servizio» e «rurali» solo nei registri dei catasti.
Un boom mai regolato nemmeno dal «libero» mercato, volontariamente sordo al paradigma domanda-offerta. Nel lustro 2002-2007 sono stati costruiti oltre 114 milioni di metri cubi in depositi e magazzini poi svuotati dalla crisi. Si è edificato troppo (oltre 275 metri cubi per ogni nuovo abitante) e male: «La dispersione insediativa ha distrutto risorse naturalistiche, agronomiche e paesaggistiche fondamentali, con tipologie e costi che non corrispondono alla domanda reale, usando tecnologie obsolete non adeguate agli standard energetici e di comfort ambientale stabiliti dall’Unione europea» puntualizzano a Legambiente. Con un lassismo «colposo» da parte di enti locali pronti a incamerare Ici e oneri di urbanizzazione barattando pezzi del territorio.
L’incredibile numero di varianti urbanistiche presentate nel solo 2005 rende l’idea di una morbosa frenesia costruttiva: 1.276 richieste di scostamento dai piani comunali (+ 220% rispetto alla media degli anni precedenti) fanno impressione. Si appoggiano a 389 Piruea (piani di riqualificazione urbanistica e ambientale) attuati nel biennio 2005-2006: la soluzione più semplice per accontentare la voglia di «villettopoli» dei veneti.
Chilometri di bifamiliari a schiera, versioni economiche di Milano2 e residence metropolitani diventano però un miraggio per chi vive sulla soglia della povertà. Immigrati, giovani coppie e pensionati affollano le graduatorie degli alloggi popolari.
Domande sostanzialmente inevase. Le cifre della Direzione regionale per l’edilizia abitativa registrano un migliaio di assegnazioni a fronte di 16.500 richieste. Nei comuni schiacciati dalla tensione abitativa è una lotteria: il 99% di chi chiede una casa ad affitto calmierato non riceve risposta. Per ora, gli enti locali riescono ad arginare l’esercito di poveri ufficialmente conclamati: 20 mila potenziali morosi schivano lo sfratto grazie ai contributi pubblici.
Dal 2002 al 2007, le volumetrie ultimate hanno superato gli 89 milioni di metri cubi. Uno stock di tutto rispetto: dovrebbe bastare ad accomodare circa 600 mila nuovi abitanti, compresi i 78 mila immigrati del Trevigiano. Senza contare lottizzazioni già approvate e concessioni da tempo operative.
Cinque anni fa la deregulation edilizia era parsa un’enormità perfino a palazzo Ferro-Fini, tanto che la legge urbanistica regionale del 2004 limitava le aree agricole trasformabili in terreni con altra destinazione d’uso. «Uno stop praticamente inutile: perché consentirà comunque di sottrarre all’agricoltura altri 93 milioni di metri quadrati nei prossimi 10 anni» osservano gli ambientalisti.
L’impatto della valanga di lottizzazioni si rileva calcolando l’impronta ecologica rilasciata da 4,9 milioni di veneti. La misura del territorio biologicamente attivo per equilibrare produzione, consumo, assorbimento dei rifuti ed emissioni inquinanti è un’efficace cartina di tornasole. Ne risulta un’«orma» abbondantemente oversize: 6,43 ettari equivalenti per abitante fanno impallidire la media nazionale ferma a quota 4,3.
E poi c’è l’impatto atmosferico della «betoniera» a ciclo continuo: 1,9 milioni di abitazioni emettono 7,2 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Basterebbe mettere a norma i fabbricati per risparmiare all’ambiente 4, 4 milioni di tonnellate di anidride carbonica.
Ma a Nord Est non si cambia rotta. Per Legambiente «Il piano casa si rivela un sistema di regole diverso in ogni regione. Spiccano la Toscana e la Provincia di Bolzano, che hanno praticamente bloccato l’attuazione, e il Veneto con la Sicilia, da subito paladine di un’applicazione generosa, con premi in cubatura dispensabili a qualsiasi tipo di edificio dovunque e comunque collocato. In pratica il piano casa regionale diventa una scorciatoia per risollevare le sorti del mercato edilizio, senza un’idea capace di muovere il settore fuori da una crisi che non è congiunturale».
Preoccupa anche la troppo generica indicazione energetica per ottenere l’ambito «premio» di volume. Molte regioni hanno stabilito un tetto massimo di mille metri cubi per gli ampliamenti. In Veneto, invece, non c’è mai limite.
Scheda
Valido per due anni con aumenti fino al 50%
Il piano casa del Veneto (L.R. 14/2009) è stato approvato dal consiglio regionale il 1 luglio scorso. La prima stesura del programma edilizio includeva la possibilità di ampliamenti nei centri storici, interventi poi esclusi nella versione definitiva. Altre correzioni hanno riguardato il depennamento delle seconde case e il ruolo dei Comuni nell’applicazione della norma. Il piano consente aumenti di cubatura «ordinari» del 20%, che salgono al 30 % in caso di demolizione e successiva ricostruzione. Possono raggiungere il 40% se si utilizzano criteri di bioediliza o fonti rinnovabili. Se gli interventi sono oggetto di un piano attuativo la quota può arrivare al 50%. La riduzione degli oneri (60%) sarà applicabile solo per le prime case. Per avviare i lavori non servirà più il permesso di costruire, ma una semplice Dia. Le norme si applicano anche a edifici non residenziali e ai condomini. Non concorrono alla cubatura totale dell’edificio pensiline e tettoie, purché finalizzate all’installazione di impianti fotovoltaici o di energia rinnovabile. I Comuni hanno tempo fino al 30 ottobre 2009 per stabilire eventuali limitazioni all’applicazione della legge. Se i municipi non si pronunceranno, la Regione nominerà un commissario con il compito di far deliberare l’amministrazione locale. La validità delle norme del piano casa veneto è stata fissata a due anni.
Qui la legge del Veneto in corso di distruzione. E qui la delibera della resistenza del sindaco Domenico Finiguerra.
È possibile migliorare le nostre città? E renderle più competitive sul piano turistico e culturale? Sono domande su cui da anni, con le trasformazioni urbane del postfordismo, si concentrano le forze di sociologi e di esperti del cosiddetto city-marketing. Intanto, anche in Italia, come nel resto del mondo, qualcosa sta cambiando nel segno della riconversione. E i cittadini lo sanno, a giudicare da un’indagine coordinata da Ezio Marra dell’Università Bicocca di Milano con la collaborazione di altri atenei (Calabria, Torino, Piemonte Orientale). La ricerca verrà presentata in un convegno che si terrà oggi alla Bicocca e in cui confluiscono due sondaggi. Il primo, raccolto a Milano, Genova e Torino, si riassume in un’altra domanda: «Le piace vivere nella sua città?». Il secondo indaga sull’immagine dell’Italia da parte dei turisti francesi, tedeschi e britannici.
Soffermandosi sull’idea dell’Italia all’estero, non si può dire che resista lo stereotipo del Belpaese tutto sole, spiagge e mare se è vero che tedeschi, francesi e inglesi affermano di essere attratti ormai in gran parte dalle nostre città. Dunque, secondo gli studiosi è lì che bisogna puntare per un più efficace marketing turistico. Infatti, se si osservano quali sono i simboli associati ai singoli centri urbani non troviamo nulla che si discosti molto dai luoghi sacri tradizionali dell’arte e della cultura. Con qualche segnale incoraggiante che sa di novità: per esempio, a Genova ha fatto molto bene, fino a cambiarne la percezione anche all’estero, l’ideazione dell’Acquario in occasione delle Colombiadi (con un milione e centomila visitatori l’anno). E a Torino giova l'immagine di città del cinema, il cui Museo, all’interno della Mole, è la maggiore attrattiva per gli stranieri insieme con il Museo Egizio, specie dopo l’intervento di illuminazione artistica ad opera Dante Ferretti. Sono bastati pochi interventi mirati per raddoppiare le visite negli ultimi tempi.
Non altrettanto, come segnala Ezio Marra, si può dire di Milano, le cui potenzialità culturali si concentrano soprattutto sul Duomo (il 25 per cento dei turisti che sono arrivati nel capoluogo lombardo ricorda la Madonnina), ma non sul Cenacolo, i cui visitatori curiosamente non superano la metà di quelli (600 mila) che annualmente a Torino frequentano l’Egizio. Milano, però, a differenza delle altre città italiane, che godono essenzialmente delle attrazioni lasciate dal loro passato, ha una carta ben radicata nella contemporaneità commerciale. E se chiedete a cento stranieri che cosa evoca loro la città di Manzoni, 17 risponderanno lo shopping e 13 la moda. Il che in termini tecnici si definisce «riposizionamento».
In genere non sfiorisce la leggenda dell’Italia eden del cibo e del vino (da cui il 90 per cento dei forestieri sembra ampiamente appagato). Ma a questo proposito la domanda chiave, per lo straniero che già conosce le nostre città, è: ritornerebbe? E qui a volte sono dolori. Se 8 su dieci rispondono affermativamente per Venezia, Roma e Firenze, 7 per Milano e per Verona (le cui iniziative in ambito lirico o, ultimamente, lirico- pop sono fondamentali), per gli altri centri si scende tra le 5 e le 6 risposte positive. Ciò significa in tutta evidenza che gli altri non hanno gradito troppo. C’è poi una complicata tabella con ascisse e ordinate, definita tecnicamente «Matrice di similarità », che, adeguatamente interpretata (dallo stesso Marra), offre elementi interessanti: segnala, per esempio, che i tedeschi vorrebbero un’alleanza turistica Milano-Verona, mentre i francesi sarebbero più contenti se venisse loro offerto un pacchetto Milano-Torino.
E veniamo ai questionari rivolti agli autoctoni. Stando alle interviste realizzate dal gruppo di studio, emerge subito una consapevolezza impensabile solo una decina d’anni fa. Se prima i capoluoghi del Nord venivano definiti dai loro abitanti come centri esclusivamente industriali, oggi avanza la coscienza di vivere in città dalle forti potenzialità tecnologiche, artistiche e culturali. Lo spiega Chito Guala, professore di Sociologia a Torino: «I mega-eventi hanno rigenerato le città: le Colombiadi del ’92 e poi Genova Capitale europea della cultura nel 2004, ma soprattutto le Olimpiadi invernali a Torino nel 2006 hanno avuto un effetto determinante sull’immagine urbana. A Torino l’effetto è stato indubbiamente più duraturo, si pensi che in tre anni i biglietti venduti per l’accesso ai musei della zona centrale sono raddoppiati ». Non siamo al livello di Barcellona, su cui i Giochi Olimpici del ’92 hanno avuto risultati catartici. Ma qualcosa è successo se oggi oltre l’80 per cento dei torinesi e dei genovesi considera la propria città votata alla cultura e all’arte più che all’industria. «Succederà probabilmente anche a Milano con Expo 2015», auspica Guala. Ma su questo bisogna ancora lavorare: pochi all’estero sanno che Milano è destinata ad ospitare l’Expo, si va dal 3 per cento dei francesi al 10 per cento degli inglesi.
Vivibilità e attrattività future si giocheranno, sempre secondo i cittadini, su alcune iniziative-simbolo come la riqualificazione dell’acqua, un elemento su cui si investono molte speranze: basta vedere alla voce Navigli (Milano), sponde del Po (Torino), vecchio porto (Genova), che nove intervistati su dieci considerano luoghi-chiave di rilancio. E su percentuali di quasi unanime consenso si assestano le voci: musei, cultura locale, eventi e spettacoli. Insomma, se i cittadini dovessero scegliere su cosa puntare, si concentrerebbero a occhi chiusi sull'ambiente e sull'arte.
Se Milano è percepita da 6 abitanti su 10 come la città dei grandi eventi internazionali, è pochissimo apprezzata per la qualità della vita. Ma sette milanesi su dieci sono contenti di viverci, mentre solo due genovesi su dieci cambierebbero volentieri città, e quasi esclusivamente per motivi di lavoro. A smentire i cliché sulla sicurezza, arriva poi un’altra tabella, da cui si desume che solo il 20 per cento è preoccupato dalla criminalità: a Milano i problemi urbanistici più gravi sembrano essere, piuttosto, il traffico e l’inquinamento, più o meno come a Torino e a Genova.
Ma la percezione della propria città viene riassunta molto adeguatamente dalle coppie aggettivali che sono state sottoposte agli abitanti. Vediamo un po’. Milano per i milanesi e Torino per i torinesi sono città moderne. Vecchia è invece Genova per i genovesi. Nove milanesi su dieci ritengono di abitare nel caos e però in un luogo di ricchezza. A differenza dei torinesi che si considerano essenzialmente poveri. Milano è abbastanza organizzata, internazionale, soprattutto dinamica, poco solidale e un po’ triste oltre che pericolosa. I genovesi si percepiscono più allegri e solidali dei torinesi, ma quasi immobili. In compenso, l’allegria supera sempre la tristezza e la vivacità il grigiore. Chissà se all’estero sono d’accordo.
Il Comune di Cassinetta di Lugagnano ha approvato la sua “delibera di resistenza” al Piano Casa Berlusconiano in salsa Formigoniana. Al netto delle popolarissime stanze del figlio a risparmio energetico, i fronti che la legge regionale lombarda apre sono molti. Ma quello più grave è sicuramente l’introduzione spinta del concetto culturale della deroga: In una legge di soli 5 articoli, la parola deroga appare 6 volte (deroga agli strumenti urbanistici, deroga ai regolamenti edilizi, deroga ai piani territoriali di coordinamento dei parchi regionali). L’anticamera dell’abuso? il preludio di un nuovo condono?
Una deroga concessa dal livello regionale che è una vera e propria ingerenza, una violazione della titolarità dei comuni in materia di pianificazione urbanistica. A fronte di una crisi economica mondiale che è anche effetto dell’eccesso di offerta immobiliare, si mette in campo l’ennesima ricetta a base di cemento. La cura peggiore del male. L’ultimo bicchiere di vino al viandante ubriaco.
Facendo leva sulle perenni e croniche difficoltà economiche dei comuni, si indica quale migliore soluzione ai problemi di bilancio la possibilità di trasformazioni da industriale/artigianale a residenziale, con incremento di volumetrie fino al 30% e i conseguenti oneri di urbanizzazione per le casse comunali. Una norma che si presta molto a diverse e controverse interpretazioni. Che rischia di aggiungere confusione al già caotico mondo giuridico in cui vive l’edilizia e l’urbanistica.
Insomma, l’ennesimo passo indietro che rischia di allontanarci ulteriormente rispetto al traguardo della pianificazione urbanistica e territoriale fatta nell’interesse generale e collettivo, spingendoci, come se non fosse già abbastanza, nell’opposta direzione.
POTENZIALITA’…
Il “piano casa” lombardo se non integrato/applicato da parte dei Comuni, per un anno e mezzo, consente di aumentare di un quinto le volumetrie degli edifici costruiti. Nei parchi si potrà demolire e ricostruire in deroga ai piani di coordinamento. Anche nei centri storici, come pressoché ovunque nel territorio lombardo, si potrà ampliare e ricostruire (+20% o 30% di volumetria) sostituendo gli edifici esistenti che non si adattano al contesto storico e architettonico. Fuori dai centri storici si potrà incrementare la volumetria esistente del 3O%. In caso di «congruo equipaggiamento arboreo» pari almeno a un quarto del lotto interessato, l’incremento di volumetria ammesso sarà del 35%. Si potranno convertire in residenza i capannoni industriali e artigianali – non commerciali e terziari – per una quota pari alle volumetrie definite dagli indici residenziali del luogo.
… E POSSIBILI RESISTENZE
Ma il provvedimento della Regione Lombardia, predisposto dall’Assessore leghista Davide Boni, prevedeva la facoltà per il Comune di deliberare (entro il 15 ottobre) in ordine ad alcune limitazioni e all’applicazione concreta del cosiddetto “Piano Casa”. Facoltà di cui l’Amministrazione Comunale di Cassinetta di Lugagnano ha deciso di avvalersi, alla luce del proprio PGT (Piano di Governo del Territorio) che ha come sua prerogativa principale l’azzeramento del consumo di suolo el’eliminazione di nuove aree di espansione urbanistica, nonché l’attenzione e la spinta al recupero del patrimonio esistente, la promozione dell’agricoltura e la valorizzazione del paesaggio ambientale e architettonico.
TRASFORMAZIONI
La legge regionale consentiva la possibilità di individuare zone industriale e/o artigianale da classificarsi a specifica destinazione produttiva secondaria ove è possibile l’applicazione del Piano Casa. Il Comune di Cassinetta di Lugagnano non ha individuato ne trasformato la destinazione d’uso di nessuna area.
ESCLUSIONI
Con motivata deliberazione i comuni potevano individuare parti del proprio territorio nelle quali le disposizioni della legge non troveranno applicazione, in ragione delle speciali peculiarità storiche, paesaggistico-ambientali ed urbanistiche, compresa l’eventuale salvaguardia delle cortine edilizie esistenti. Il Comune di Cassinetta di Lugagnano ha così escluso dall’applicazione del Piano Casa: il Centro Storico (e tutte le zone interessate dal Piano del Colore), i Piani di Recupero Obbligatori individuati dal Piano di Governo del Territorio, i Piani di Recupero vigenti.
ONERI DI URBANIZZAZIONE
Secondo la legge lombarda, la ripresa edilizia andrebbe incentivata tramite uno sconto sugli oneri di urbanizzazione che potrebbe arrivare fino al 50%. L’amministrazione non ha ritenuto opportuno operare una discriminazione tra interventi ordinari ed eventuali interventi da realizzarsi ai sensi del Piano Casa, concedendo a questi ultimi una riduzione del solo 0,1% (10 euro ogni 1000 euro).
VERDE E PARCHEGGI
La delibera del comune di Cassinetta di Lugagnano ha stabilito che gli interventi attuati secondo la legge regionale devono essere dotati di spazi a parcheggio e verde privato nelle misure stabilite dalle vigenti norme tecniche attuative dello strumento urbanistico comunale, senza possibilità di monetizzazione, e che in difetto di tali spazi gli interventi non potranno essere ammessi.
Ecco emanata dal presidente della Regione Veneto la circolare esplicativa della legge regionale n° 14 del 29.09.2009 che, meglio conosciuta come “piano casa”, è ufficialmente denominata come segue: “intervento regionale a sostegno del settore edilizio per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifica della legge regionale 12 luglio 2007, n. 16”. Il titolo sa tanto da scusatio non petita: la ridondante definizione e l’utilizzo del tanto abusato termine “sostenibile” manifesta la chiara intenzione di giustificare una misura almeno discutibile qualificandola come intesa a un nobile fine.
La contraddizione principale della legge (che, ricordiamolo, arriva dopo tre condoni edilizi) viene esplicitata dalla stessa circolare nella quale si legge che “pare opportuno specificare che la LR 14/2009 non è una legge urbanistica né edilizia pur avendo contenuti che incidono significativamente sulla disciplina di queste materie ma è , prima di tutto, una legge economico e finanziaria”. Infatti “la legge, di carattere straordinario, prevale sulle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali, nonché sulle altre leggi regionali in contrasto con essa”. Rimane ai Comuni la potestà di deliberare (entro il 30 ottobre 2009) se e con quali limiti e modalità applicare le disposizioni; trovano, invece, immediata applicazione gli interventi sulle “prime case”.
Evitando di entrare nel merito di temi quali l’opportunità della normativa o dell’indifferenza al problema della necessità di alloggi popolari, analizziamo alcuni aspetti della legge regionale, alla luce della recente circolare.
In primo luogo è previsto, in deroga a strumenti di ogni ordine, l’ampliamento degli edifici esistenti (come definiti dalla stessa circolare) nei limiti del 20 % del volume se destinati ad uso residenziale e del 20 % di superficie coperta se destinati ad uso diverso.
E’ poi ammessa la demolizione e ricostruzione degli edifici legittimi realizzati prima del 1989; la demolizione e ricostruzione può prevedere aumenti fino al 40% della cubatura e fino al 40% della superficie coperta a seconda delle destinazioni, percentuali che possono essere elevate fino al 50% nel caso della ricomposizione volumetrica nell’ambito di un piano attuativo.
Va evidenziata la modifica della nozione stessa di ristrutturazione: il piano casa prevede che in caso di demolizione e ricostruzione possano essere mantenute le distanze precedenti, incidendo sulla consolidata prassi derivata da decenni di evoluzione normativa e da decenni di giurisprudenza, in base alla quale tutto ciò che è qualificato come “aliquid novi” deve rispettare i distacchi previsti dalle normative nazionali e dagli strumenti urbanistici. Va evidenziato che questa è una disposizione non legata agli interventi da realizzare con il “piano casa” ma a regime. Quindi con una normativa che ha valenza economica finanziaria si va ad incidere sulla delicata questione dei distacchi in probabile contrasto, ad esempio, con l'articolo 9 del decreto interministeriale 1444/1965, che stabilisce le distanze minime tra i fabbricati.
Dagli interventi suddetti non sono esclusi i fabbricati ricadenti in zona agricola anche nel caso in cui l’edificio non sia più funzionale alla conduzione del fondo, in aperto contrasto con quanto disposto dalla legge urbanistica regionale se non altro nelle more di approvazione del primo Piano di assetto del territorio. Nello specifico per la prima casa di abitazione ricadente in zona agricola è ammesso l’ampliamento calcolato non sulla volumetria esistente, ma sulla volumetria massima realizzabile.
Inoltre, le disposizioni si applicano anche a edifici soggetti a specifiche forme di tutela (ad es. “gradi di protezione”) a condzione, in questo caso, che gli interventi siano conformi alla normativa statale e regionale e agli strumenti urbanistici e territoriali.
Di immediata applicazione, infine, la facoltà di realizzare pensiline o tettoie destinate all’installazione di impianti solari e fotovoltaici, le quali non concorrono a formare cubatura nel caso in cui la superficie coperta non superi i 60 mq.
Evidenti sono le distorsioni che tale normativa comporta e i rischi ad essa connessi. Emergono subito il fallimento della pianificazione territoriale ad ogni livello e il fallimento degli intenti della nuova legge urbanistica regionale. Viene inoltre da chiedersi a cosa siano servite tutte le verifiche attuate dagli uffici tencici negli anni passati, per garantire la corretta attuazione dei piani regolatori generali con particolare riferimento al loro dimensionamento.
Quali, inoltre, i risultati attesi? Il “piano casa” viene proposto dai media come indirizzato a favorire la ripresa del settore edilizio e a permettere alle famiglie che hanno una casetta di aggiungere la stanza per il secondo figlio senza la difficoltà dei soliti “lacci e lacciuoli”.
Premesso che, gli interventi su case a schiera o condomini sono praticamente resi impossibili dal necessario accordo di tutti i proprietari, entriamo nel merito dell’equità della norma. L’ampliamento di volume o superficie è proporzionale all’esistente. Come sempre accede in questo paese, chi più ha più avrà: chi possiede una villa di 2000 mc potrà realizzarne ulteriori 400; chi invece possiede un piccolo alloggio, forse riuscirà a realizzare un ripostiglio (per realizzare il quale magari aveva potenzialità edificatoria residua).
Per non parlare di cosa si intende per ampliamento, considerato che la circolare ribadisce che, qualora l’ampliamento compromettesse “l’estetica del fabbricato”, è possibile effettuarlo su un corpo edilizio separato di carattere accessorio e pertinenziale: chi verrà ritenuto depositario della conoscenza necessaria per decidere se l’ampliamento compromette l’estetica del fabbricato non è dato saperlo.
Rimane poi la questione della difficoltà economica in cui versano molte famiglie italiane in questo momento: chi avrà comprato una casa accedendo ad un mutuo, non avrà presumibilmente difficoltà ad impegnarsi economicamente per un ampliamento?
A vantaggio di chi andrà, allora, questa misura (sempre ammesso che vi siano nel territorio le risorse per investire)? Un vantaggio limitato per chi possiede una casa monofamiliare modesta; un grosso vantaggio per chi possedere una grande villa; rimane nebuloso il possibile vantaggio per chi possiede un’attività commerciale essendo gli edifici con questo uso esclusi dai benefici qualora gli interventi “siano volti ad eludere o derogare le disposizioni regionali” (non è dato sapere chi valuterà tutto questo); un enorme vantaggio per chi possiede alberghi e attività produttive. Viene da chiedersi dove sia finita la volontà di fermare il consumo indiscriminato del territorio veneto sottesa alla cosiddetta “Legge blocca capannoni” (LR 35/2002) emanata dalla Regione Veneto in attesa della Legge urbanistica regionale 11/2004.
Un enorme vantaggio, infine, andrà agli avvocati, vista l’altissima probabilità di contenziosi con particolare riferimento alle distanze.
Interessante è, poi, la questione dell’onerosità e delle opere di urbanizzazione. Il comma 4 della LR 14/2009 subordina gli ampliamenti all’esistenza e all’adeguatezza (o il previsto adeguamento) delle opere di urbanizzazione primaria; si specifica che l’eventuale carenza è superabile solo con l’adeguamento delle stesse nei modi consentiti dalla legge. Ad una prima lettura sembrerebbe che sia concesso realizzare in deroga una serie di interventi che incidono pesantemente sul carico urbanistico, previo il pagamento di un contributo di costruzione in misura eventualmente ridotta nelle quantità e modi previsti dai Comuni (salvo che per la prima casa per la quale casistica il contributo è da subito ridotto del 60%; notare che attualmente, ai sensi degli art. 17 comma 3 lettera b. del Testo unico per l’edilizia, gli ampliamenti fino al 20% del volume di case monofamiliari sono esentati dal pagamento del contributo di costruzione) e che, qualora non vi siano le necessarie opere di urbanizzazione queste dovranno essere adeguate non si sa da chi (dal comune?) e non si sa con quali risorse considerata la possibilità della riduzione del contributo di costruzione.
Infine, con riferimento alla retorica della riduzione dei tempi della burocrazia, tanto cara al centro destra, evidenzio che le opere consentite dal Piano casa, avrebbero dovuto essere attuate con Denuncia di inizio attività, intenzione pericolosissima rilevato che, come sa bene chi opera negli uffici tecnici della pubblica amministrazione, la verifica dei requisiti oggettivi (parametri, vincoli, ecc…) da parte dei tecnici progettisti (che nel caso della denuncia di inizio attività si sostituiscono alla pubblica amministrazione nell’attestazione della conformità dell’opera in progetto), in molti casi è errata, certamente anche a causa della complessità dei regolamenti edilizi e le abissali differenze fra i comuni.
In merito al necessario titolo abilitativo, la circolare esplicativa chiarisce che, nella Regione Veneto, rimane la facoltà di realizzare le opere previste dal piano casa con DIA, ma è possibile presentare in alternativa Permesso di cCostruire. Addirittura la presentazione dell’istanza di permesso di costruire è obbligatoria qualora si intenda eseguire un intervento che in parte esuli dall’ambito di applicazione della legge speciale.
Se da un lato questa decisione riduce il rischio di errori (più e meno voluti) nella valutazione dei requisiti per la realizzazione delle opere, dall’altro viene eluso l’obiettivo della riduzione dei tempi che rimangono quelli della normale istanza di un permesso di costruire.
La scelta potrebbe comportare un enorme carico di lavoro per gli uffici tecnici comunali, peraltro ridotti notoriamente all’osso grazie al patto di stabilità, viste sia la quantità delle pratiche che potrebbero pervenire presso i comuni, sia la complessità delle verifiche da effettuare. Ricordo che la percentuale di ampliamento realizzabile è legata alla prestazione energetico-ambentale da valutare mediante il complesso di 34 criteri. Ovviamente, tutto ciò, con lo scopo dell’osannata semplificazione.
Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore, e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it
L'ultima impresa sospetta viene dalla Campania. Ha preso lavori per 44 milioni di euro, a leggere bene assetti societari e bilanci è tutto in regola, tutto pulito, certificazione antimafia compresa. Ma il sospetto, molto fondato, degli investigatori dell'antimafia è che dietro un paravento apparentemente legale si nasconda un tentacolo della camorra spa. Che certo non poteva farsi sfuggire il grande business della ricostruzione dell'Abruzzo. Il 15 ottobre i parlamentari della Commissione antimafia sono rimasti a bocca aperta quando investigatori della Dia e magistrati della procura nazionale hanno illustrato il primo dossier su mafie e ricostruzione. Tre ditte sono state già bloccate (“Fontana costruzioni”, di San Cipriano d'Aversa, “Di Marco”, di Carsoli, e la “Icg” di Gela), ma i nomi sono molti di più.
L'ultimo blitz nei cantieri del progetto “C.a.s.e.” sabato scorso con l'individuazione di almeno altre quattro imprese diretta emanazione o in collegamento con mafia e camorra. Ma il lavoro è ancora lungo. “Perché – spiega un investigatore – non troveremo mai una ditta con dentro gli assetti societari nomi compromessi. Il gioco è più complesso. Si parte da una azienda capofila e si arriva ad un ginepraio di subappaltatori, sigle e nomi che rimandano ad altri nomi. La grossa impresa nazionale che si aggiudica lavori importanti, quando scegli il subappalto bada solo al prezzo basso. Non si pone altri problemi”.
Sarebbero almeno una ottantina le ditte “sospette” pronte a spartirsi una torta da 169 milioni di euro, a tanto ammontano i subappalti del dopoterremoto. E i controlli? Scarsi e contraddittori. Durante la visita della Commissione antimafia ha fatto scalpore la vicenda di una gara d'appalto per la fornitura di calcestruzzo. Tre lotti vinti da un’impresa insospettabile che per una subfornitura si è però rivolta alla “Sicabeton”, una società segnalata in una sorta di black list il 20 maggio dalla Direzione nazionale antimafia, un elenco di ditte che hanno avuto problemi di collegamenti con soggetti mafiosi. In una informativa si faceva riferimento a un ex direttore tecnico che negli anni ottanta sarebbe stato legato ad Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra ai tempi di Totò Riina. Il 2 giugno la Prefettura de l'Aquila sconsiglia alla Protezione civile l'impiego della “Sicabeton”, salvo poi cambiare idea il 19 giugno. Ora quell'impresa può ricevere l'ordine di subfornitura.
Il 25 agosto nuovo cambio di scena: la “Sicabeton” deve essere tenuta fuori. Una confusione evidente che certo non aiuta la lotta alle infiltrazioni mafiose.
Ma a favorire l'ingresso di imprese “in odore” nel più grande cantiere d'Europa, sono le stesse leggi del governo. All'articolo 2 del decreto per la ricostruzione dell'Abruzzo si affida al capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, il potere di assegnare appalti con procedura negoziata, senza bando di gara, nonché la possibilità di subappaltare fino al 50% delle opere. Tutto in deroga alle norme del codice sugli appalti.
Un decreto del capo del governo avrebbe dovuto definire le modalità per la tracciabilità dei flussi finanziari, nonché la costituzione di un elenco di fornitori e prestatori di servizio non a rischio di inquinamento mafioso. “Ma tutto ciò – denuncia il senatore Luigi Li Gotti, di Italia dei valori – non è avvenuto. L'articolo 2 del decreto è stato applicato, il sottosegretario Bertolaso ha proceduto ad affidare appalti con subappalti fino al 50%”. Li Gotti ricorda la visita della Commissione parlamentare antimafia. “Il quadro emerso delinea uno scenario preoccupante. La ricostruzione attira le mafie, nascono società, aprono uffici, si formano complessi intrecci, il danaro ha cominciato a scorrere, imprese a rischio mafioso si affacciano e ricevono incarichi di lavoro senza bandi di gara”.
Un allarme lanciato anche da Vittorio Cogliati Dozza, presidente di Legambiente. “Il fatto che vi siano aziende edili riconducibili alle cosche non solo nei subappalti ma anche titolari degli appalti per i lavori del progetto Case, dimostra che la vigilanza del governo ha fatto fiasco. Ma, accanto alle forze dell’ordine, è importante che ci sia interesse alla legalità e alla trasparenza. È per questo che l’‘Osservatorio Ricostruire pulito’, che abbiamo istituito con Libera e Provincia, chiede agli aquilani di segnalare qualsiasi situazione che possa indurre al sospetto”.
Il Governo del fare non fa. Non è un’opinione, lo dicono i dati sulle costruzioni. Cifre fornite non da qualche sedizioso centro studi dell’opposizione, ma dall’autorevole e da sempre filogovernativa Ance (Associazione nazionale costruttori edili). In un rapporto dal titolo “La struttura della domanda di lavori pubblici” che Il fatto quotidiano è riuscito ad avere in anteprima c’è scritto che “nel primo semestre del 2009 il numero dei bandi pubblicati e l’importo totale posto in gara subisce una nuova contrazione del 3,3 per cento in termini reali”.
Non solo: le grandi imprese fanno la parte del leone e molte medie e piccole cominciano ad avere il fiato corto. “La trasformazione della domanda verso bandi di dimensioni elevate contrasta con le caratteristiche dell’offerta” ammoniscono gli esperti dell’Ance. Per un motivo semplice: il tessuto produttivo delle costruzioni in Italia è costituito soprattutto da imprese non grandi. Delle 34 mila aziende iscritte al sistema di qualificazione, il 66 per cento può partecipare solo a gare sotto il milione di euro e addirittura l’83 per cento è abilitato per gare non superiori a 2,6 milioni.
La predilezione per i grandi appalti fa felici i soliti noti del mattone tricolore, ma fa tribolare parecchio molti degli altri. L’Ance lo scrive papale papale: “Lo spostamento della domanda verso i grandi lavori pone un problema di tenuta del tessuto produttivo”. Come dire: incalzate dalla crisi, molte aziende vedono l’orizzonte tragico del dissesto. La conclusione è lapidaria: “E’ necessario contrastare il gigantismo degli appalti”.
È una parola… Gigantismo e sistema delle imprese generali e dei general contractor sono pane e companatico delle costruzioni in Italia. Il risultato, purtroppo, non è consolante. I general contractor, a dispetto dell’inglesismo che fa moda, ripropongono un cliché stagionato e tradizionale, un metodo che in Italia si basa su una serie di elementi ricorrenti. Ma che finora ha dato esiti complessivamente negativi facendo precipitare la dotazione infrastrutturale italiana al 54esimo posto, così come certificato dal World Economic Forum.
Il primo elemento è un mix di simbiosi con la politica, una capacità di lobby strepitosa e una delega di fatto ampia e praticamente in bianco ottenuta dagli enti pubblici. Il secondo è il ricorso programmato, costante e massiccio ai subappalti. Il general contractor all’italiana, inoltre, ha comportato quasi di regola scarsità di controlli sulla qualità dei manufatti, tempi biblici di realizzazione delle opere (anche dieci volte più lente rispetto all’Europa), lievitazione dei costi in media tre volte superiori nei confronti degli altri paesi e oltretutto sopportati per intero dai bilanci pubblici. Tutto ciò si è ovviamente ripercosso sulla dotazione infrastrutturale ormai scaduta a livelli infimi.
Nel dossier preparato all’inizio d’ottobre dal Comitato tecnico infrastrutturale, logistica e mobilità della Confindustria l’arretratezza italiana è denunciata in termini chiarissimi e riguarda tutti i comparti delle infrastrutture, da quelle a supporto della mobilità e della logistica a quelle energetiche (i rigassificatori, per esempio), idriche (le dighe e gli acquedotti) e ambientali. Dal 1970 al 2006 la rete autostradale è cresciuta in Italia del 67,5 per cento, ma la Spagna ha aumentato i chilometri delle sue autostrade di 30 volte, la Francia di 6 e la Germania di 2. La crescita media annua della rete autostradale è stata del 4,3 per cento nell’Europa a 15, con punte dell’11,7 per cento in Spagna e del 6,5 in Francia. In Italia è stata solo dell’1,7.
Note dolenti anche per la dotazione ferroviaria. Annotano i tecnici della Confindustria: “Nel periodo 1970-2007 la dotazione ferroviaria è rimasta ben distante dai valori medi comunitari. Nel 2007 presentiamo ancora indici nettamente più bassi di Francia e Germania. Non solo, nel nostro paese sono stati sì realizzati miglioramenti tecnologici (elettrificazione, doppi binari, controllo ed Alta velocità), ma meno velocemente che negli altri. E la qualità scadente dei servizi ha sensibilmente inciso sulla nostra capacità d’offerta, in particolare quella dei servizi per i passeggeri che potrebbe contribuire a ridurre la congestione stradale”.
Infine il sistema dei general contractor si è caratterizzato anche per gli alti costi sociali, con una sequela di incidenti sul lavoro favoriti dall’abuso di imprese subappaltatanti di dimensioni spesso modeste scelte dalle aziende capofila non perché qualitativamente più affidabili o più efficienti. Ma proprio per l’esatto opposto, in quanto disposte a risparmiare su tutto, dalle paghe dei dipendenti alla sicurezza nei cantieri trattata con una disinvoltura disarmante e quindi ideali come alleate subordinate in appalti vinti con il criterio del massimo ribasso.
Non è una novità che la maggior parte delle morti sul lavoro in edilizia sia appannaggio proprio delle aziende di subappalto, una catena di morti stigmatizzata pubblicamente dal coro di rappresentanti delle istituzioni, dai politici e dai procuratori antimafia preoccupati per le frequenti infiltrazioni malavitose. E anche dai sindacati, i quali, però, assai raramente osano spingersi fino alla critica della radice del problema, temendo forse di mettere in discussione un sistema giudicato per certi versi discutibile, ma che dal loro punto di vista dà lavoro su larga scala e garantisce comunque il funzionamento della Cassa edile.
Fino ad ora il governo, e in particolare il ministro per le Infrastrutture, Altero Matteoli, non ha avuto orecchie che per i Grandi cavalieri del cemento. Ma la partita non è chiusa. Dopo il terremoto dell’Aquila i grandi costruttori stavano addirittura per fare cappotto con l’assenso del governo all’estensione del subappalto fino ad un tetto del 50 per cento anche per la realizzazione dei prefabbricati, entrando a piedi uniti proprio in un settore specifico di intervento delle aziende specializzate. Solo in extremis sono stati fermati. E in Confindustria, dopo aver lavorato per più di un anno al piano di riforma infrastrutturale consegnato all’inizio del mese ai ministri Matteoli e Stefania Prestigiacomo (Ambiente), hanno deciso di lasciare in bianco proprio il capitolo dell’organizzazione degli appalti non riuscendo a trovare una sintesi tra gli interessi delle imprese generali e quelli delle aziende specializzate. Tutto rinviato sperando in un accordo.
L’esito del braccio di ferro in corso stabilirà non solo quali interessi in campo saranno premiati, ma farà intuire anche la piega che potrà essere impressa al ciclo delle grandi opere e questo è l’aspetto cruciale della partita. Interessa in primo luogo le imprese perché le infrastrutture sono il retroterra per la competitività e la crescita delle aziende. Ma riguarda da vicino anche i cittadini normali, la qualità della vita, la possibilità di spostarsi in modo decente, di avere energia in quantità sufficienti e a costi accettabili e di accedere ad Internet con facilità e tempi di trasmissione da paese moderno.
«Alle new town aquilane, per come stanno sorgendo, manca soprattutto una cosa: l´essere città o parti di città». Per l´architetto Pier Luigi Cervellati, che insegna all´Iuav di Venezia, «sono agglomerati di case che non hanno minimamente l´aspetto di una città».
Cosa manca a quegli insediamenti per essere città, o parti d´essa?
«Ho visto le new town realizzate dalla Provincia di Trento: appartamenti con tutti i requisiti, sia di sicurezza sia di comfort. Ma perché un gruppo di case diventi un quartiere occorre un tessuto di servizi, occorrono trasporti pubblici, spazi pubblici, tutti quegli elementi che agevolano il formarsi di relazioni sociali e che tengono insieme una comunità».
Qualche settimana fa è stato pubblicato uno studio di Vezio De Lucia e Georg Frisch che segnalava proprio questi problemi.
«Condivido quelle preoccupazioni. Intanto non chiamerei new town quegli insediamenti. Le new town inglesi vengono realizzate dopo la guerra. Sono città che hanno una popolazione complessiva fra i 50 e i 100 mila abitanti mentre quelle più recenti ne contano da 250 a 430 mila. In Inghilterra hanno insediato cinque milioni di persone in questo modo. Ma villes nouvelles le troviamo anche in Francia. Si può discutere se siano un esperimento riuscito o meno: sono comunque città, custodiscono la complessità, persino il conflitto tipico di una città».
Perché in Italia non si è fatto nulla di simile?
«Perché da noi la crescita delle città dal dopoguerra è stata in gran parte diretta da una matrice privata e speculativa. Le new town sono il frutto di un grande intervento pubblico. In Italia si sono tentati i cosiddetti quartieri-satellite, ma sono un´altra cosa. Secondo qualcuno, comunque, dietro le new town c´è anche la suggestione delle città di fondazione realizzate in Italia negli anni Trenta».
Quindi che giudizio dà della ricostruzione in Abruzzo?
«Si è scelta una strada sbagliata. Questi insediamenti mi paiono nuclei periferici che servono solo per dormire, senza collegamenti fra loro e con quel che resta del centro storico dell´Aquila. Il cui abbandono è l´altro disastro di questa operazione».
Perché?
«Se riprendiamo l´esempio londinese vediamo che, mentre si progettavano le new town, intanto si interveniva sulla città bombardata. A volte si diradava l´edilizia, a volte si ricostruiva. Ma tutto rispondeva a un progetto. A L´Aquila non c´è un piano che immagini come sarà la città del futuro. Nel centro storico non si restaura nulla, e si va verso il suo spopolamento, che temo preluda a colossali operazioni speculative. Si dissemina invece il territorio di piccoli insediamenti che consumano suolo e la cui somma non farà mai una città».
«Ma non aggrediamo il paesaggio»
di Giulia Maria Crespi e Fulco Pratesi
(Lettera aperta al presidente del Senato, al presidente della Camera, ai senatori e ai deputati)
IlPaese guarda smarrito le immagini del disastro di Messina e si interroga sulle responsabilità e sul futuro. È evidente che una dissennata e disonesta politica territoriale è sotto accusa; non solo per quanto è successo in Sicilia ma anche per rischi idrogeologici a cui gran parte del nostro territorio è esposto. Su questo quadro allarmante pesa oggi ancora di più la sconsiderata scelta compiuta con il Piano casa, approvato nella Conferenza Stato-Regioni del 31 marzo e sulla quale abbiamo già diffuso valutazioni negative.
L’intervento, come è noto, si proponeva di contribuire al «rilancio dell’economia » con lo scopo di «rispondere anche ai bisogni abitativi delle famiglie». Questo si è tradotto nella possibilità di aumentare le cubature di ville e villette del 20% e di demolire interi edifici per ricostruirli più grandi del 30%. Tutto senza previsioni sugli impatti territoriali che potrebbero essere dirompenti: se solo un decimo degli aventi diritto ampliasse del 20% la propria casa si produrrebbe un volume di cemento di oltre 50 milioni di metri cubi! Quasi come se la città di Milano raddoppiasse in superficie e altezza.
Le finalità del Piano casa sono state fatte proprie, fino ad oggi, da 12 Regioni mentre il Governo non ha emanato quel decreto legge al quale si era impegnato nella Conferenza Stato-Regioni e che avrebbe dovuto costituire una cornice per l’operato locale. Ogni Regione, dunque, su un tema così cruciale come la pianificazione del territorio, ha fatto da sola e in totale assenza dello Stato. La lacunosità dell’intesa è quindi emersa dalla disomogeneità delle leggi regionali come se l’Italia, quando si parla di urbanistica, non fosse una sola; le possibilità di aumentare le cubature variano dal 20 al 65%; a Bolzano e in Lombardia si può liberamente intervenire anche nei centri storici mentre sia in Lombardia che in Valle d’Aosta addirittura nelle aree protette; in Veneto e in Umbria sarà possibile aumentare le cubature degli edifici industriali e nel Lazio di edifici commerciali, con possibilità di cambi nelle destinazioni d’uso per Lazio, Veneto e Valle d’Aosta; le conseguenze saranno devastanti. Molto differenti, inoltre, sono i parametri di risparmio energetico richiesti ai nuovi edifici: da standard protocollati a mere indicazioni generiche non vincolanti.
Ci troviamo oggi nella paradossale situazione in cui le Regioni hanno innovato la normativa in materia di governo del territorio in totale assenza di una legge quadro nazionale e quindi esautorando di fatto il potere legislativo del Parlamento. Perché nessuno ha sollevato dubbi di costituzionalità? Come è possibile che su tante altre questioni si discuta per mesi e sulla gestione del futuro del nostro territorio neanche un minuto? Vi sembra davvero una questione così marginale?
Questo comportamento appare esiziale sia per la palese violazione della omessa disciplina comunitaria in materia di Valutazione Ambientale Strategica, sia per il colpo mortale inferto al concetto stesso di pianificazione in quanto impone ai Comuni una deroga totale ai loro Piani regolatori. Una specie di obbligo a non curarsi della pianificazione che non è errato interpretare come un condono edilizio preventivo.
Gli effetti del Piano casa si tradurranno dunque in una nuova aggressione al paesaggio italiano, tesoro insostituibile e non replicabile e primo attrattore della più grande risorsa economica del Paese: il turismo.
Signori presidenti, a questo punto vi chiediamo di non accettare alcuna proroga al Piano casa e di agire con fermezza sui vostri partiti per porre la massima attenzione a quelle norme regionali non ancora approvate e che toccano regioni dal delicato equilibrio ambientale, quali Campania, Liguria, Sicilia e Sardegna. Vi chiediamo inoltre di avviare un dibattito che porti a nuove misure legislative che fermino il crescente degrado del territorio e del paesaggio ponendo un freno al consumo di suolo; come del resto avviene nei maggiori Paesi europei.
Nessun momento sarebbe più appropriato di questo per affrontare al più alto livello di rappresentanza politica, e dunque in Parlamento, un serio dibattito sull’uso e l’abuso del territorio e sulla tutela del paesaggio che l’articolo 9 della Costituzione pone tra i massimi capisaldi della nostra identità nazionale e che noi auspicheremmo fosse una delle priorità per chi abbiamo eletto a rappresentarci in Parlamento. In un’Italia unita nel dolore per la tragedia evitabile ci aspettiamo da tutti voi, oggi più che mai, una risposta concreta e una seria, onesta e responsabile presa di coscienza.
Giulia Maria Crespipresidente Fai
Fulco Pratesipresidente onorario Wwf Italia
Piano casa, l’Italia delle tante regole (diverse)
diAntonella Baccaro
Ampliamenti e demolizioni: 12 leggi regionali più Bolzano Cambiano i metri cubi concessi in più, i divieti e i permessi
Il federalismo entra nelle case degli italiani. E ne aumenta le cubature. L’annuncio di un Piano casa per il rilancio dell’edilizia, effettuato dal governo Berlusconi all’inizio dell’anno, seguito, a marzo, da un’intesa-quadro Stato-Regioni, ha prodotto finora 12 leggi regionali, la delibera di una Provincia autonoma e poche, pochissime pratiche.
Si è delineata intanto una sorta di «autonomia immobiliare» degli enti locali, ciascuno dei quali ha interpretato a proprio modo il canovaccio dell’intesa Stato-Regioni sui possibili aumenti di cubatura in caso di ampliamenti degli immobili, demolizioni e ricostruzioni. In quell’accordo si stabilivano solo alcuni paletti, tra cui il divieto d’intervenire nei centri storici oppure su aree di inedificabilità assoluta. Nel contempo si lasciava alla determinazione delle Regioni la possibilità di porre ulteriori limiti agli interventi in aree di pregio culturale, paesaggistico o ambientale.
Da parte propria il governo aveva promesso di emanare, nel giro di dieci giorni, un decreto-legge di semplificazione delle procedure edilizie. Ma il provvedimento non c’è ancora mentre la Finanziaria si è limitata a prorogare fino al 2012 l’agevolazione fiscale del 36% per le ristrutturazioni edilizie.
Le magnifiche sette
A tagliare per prime il traguardo del varo della legge sono state in sette: Toscana, la prima, Emilia-Romagna, Umbria, Valle d’Aosta, Piemonte, Puglia e Provincia di Bolzano. In tutti questi ambiti è già scaduto il termine entro il quale i Comuni avevano la possibilità di introdurre proprie limitazioni. A parte la Valle d’Aosta, che non ha posto alcuna scadenza alle agevolazioni, in tutti gli altri casi non si va oltre il 2011: in Piemonte ad esempio, la domanda va presentata entro quel termine, in Emilia-Romagna e Toscana la dichiarazione d’inizio attività (Dia) va depositata entro il 2010, entro la stessa data a Bolzano vanno invece iniziati i lavori. Nel merito degli interventi, Toscana, Emilia-Romagna e Umbria consentono ampliamenti del 20% per edifici residenziali fino a 350 metri quadri, chiedendo in cambio una riqualificazione energetica e l’adeguamento sismico. In Puglia si comprendono anche gli edifici rurali a prevalente uso abitativo. La Provincia di Bolzano consente un aumento di 200 metri cubi, la sopraelevazione e l’intervento, previa autorizzazione, anche nei centri storici. Qui però le demolizioni vengono concesse fino al 50% dell’immobile, ma senza premio in cubatura. In Emilia- Romagna, d’altra parte, il premio per demolire può arrivare fino al 50% se si tratta di delocalizzare un edificio «incongruo». In Toscana qualsiasi intervento è possibile soltanto se i regolamenti comunali consentono «addizioni funzionali» in base a una legge regionale del 2005.
Dall’Abruzzo alla Lombardia
Il 15 ottobre prossimo scade il termine entro il quale i Comuni lombardi potranno limitare l’applicazione della legge regionale. Termini più lunghi hanno i municipi abruzzesi, lucani, laziali e veneti. In Lombardia gli edifici residenziali mono-bifamiliari, ultimati al 31 marzo del 2005, che non superino i 1.200 metri cubi possono ottenere un premio del 20% se, nei lavori di ampliamento, sarà assicurato un risparmio energetico del 10%. Quanto alle demolizioni, è possibile un cambio di destinazione d’uso in residenziale ma senza premio volumetrico. Le domande vanno presentate entro il 15 aprile 2011. Nessun limite di tempo hanno invece i cittadini del Lazio. Qui se si abbatte un immobile che sta sul litorale, delocalizzandolo, e lo si riconverte in struttura ricettiva, si può godere di un premio del 50%. In Abruzzo ampliamenti del 20% sono consentiti solo nel caso venga assicurata l’antisismicità. In Basilicata gli abbattimenti possono godere di un aumento di cubatura del 60% se vengono adottate tecniche di bioedilizia o se si aumenta il verde del 60%. In Veneto si possono ricostruire solo gli immobili, anche non residenziali, realizzati prima del 1989 con un premio del 40%, che diventa del 50% in caso di delocalizzazione. Entro il 30 ottobre i Comuni veneti dovranno pronunciarsi sulla legge regionale, altrimenti varrà solo per la prima casa.
I fanalini di coda
Il Consiglio regionale delle Marche ha approvato il Piano casa mercoledì scorso. Le Regioni mancanti all’appello, Calabria, Campania, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Molise, Sicilia e Sardegna, hanno effettuato solo il passaggio in giunta. La Provincia di Trento non ha aderito all’intesa, confermando gli attuali contributi per le ristrutturazioni senza premi volumetrici.
Interessante il caso della Liguria che ha graduato gli aumenti di cubatura in base alla grandezza dell’edificio: +30% fino a 200 metri cubi, +20% tra i 200 e i 500, +10% tra i 500 e i mille, richiedendo l’adeguamento sismico dell’intero edificio. Un ulteriore 5% può essere ottenuto utilizzando materiale locale come l’ardesia. Limiti sono previsti per le aree delle Cinque Terre e di Portofino.
In Sardegna la giunta ha cercato di utilizzare gli incentivi per delocalizzare gli immobili siti sulla costa: un premio del 40% viene concesso se alla nuova costruzione delocalizzata si applicherà un risparmio energetico del 15%, si arriva a un +45% se il risparmio è del 20%. In Sicilia la legge consente interventi anche sugli edifici coperti da tutela, purché previa autorizzazione.
Finora il governo ha impugnato due leggi regionali: quella pugliese per un codicillo sui parcheggi e quella lucana perché introducendo l’obbligo di un fascicolo del fabbricato, aggrava gli adempimenti e gli oneri amministrativi dei privati.
Sullo stato dell’arte del Piano Casa interviene Confedilizia stigmatizzando il mancato rilancio della locazione attraverso misure come l’incentivo fiscale della cedolare secca del 18-20%: «Nei sette mesi dall’annuncio del Piano Casa — si fa osservare — quegli incentivi avrebbero dato il via alla ristrutturazione di almeno 500 mila dei 700-800 mila immobili inabitabili, attivando lavori di recupero per 7,5 miliardi di euro».
Un provvedimento per compensare i mancati introiti che il Comune incassa quando concede di costruire. Non un centimetro quadrato dei pregiati terreni comunali compresi fra il Ticino e il Naviglio Maggiore verrà dunque occupato da nuove costruzioni. Si ristruttura solo quel che già c´è. La piccola rivoluzione i cittadini amministrati da Finiguerra l´accolgono con favore: per loro vale la pena pagare un po´ più di soldi, ma avere un territorio e un paesaggio intatti. E così, quando vanno a votare per le politiche, assicurano a Pdl e Lega il 65 per cento dei voti, ma quando rinnovano il Consiglio comunale non hanno tentennamenti. La lista civica di centrosinistra guidata da Finiguerra, classe 1971, laurea in scienze politiche, direttore della Biblioteca comunale di Opera, ha preso il 51 per cento nel 2003 e il 62 nel 2007, un mese dopo aver approvato il piano regolatore.
Cassinnetta ha 1.800 abitanti. È un borgo solcato dal Naviglio, che disegna un paesaggio d´acqua dove le grandi famiglie milanesi fra Cinquecento e Settecento edificarono splendide ville, come i casati veneziani fecero sul Brenta (i Visconti Maineri, i Trivulzio, i Birago Clari Monzini, i Negri Campi). Ma Cassinetta, dichiarata Riserva della biosfera dall´Unesco (ce ne sono solo altre sei in Italia), è al centro di una regione in cui le pressioni edilizie sono imponenti. Confina con Abbiategrasso e lambisce l´estrema periferia milanese. È sulla direttrice che porta a Malpensa e potrebbe veder scorrere, a poche centinaia di metri, l´autostrada a quattro corsie che dovrebbe condurre all´aeroporto, con il corredo di svincoli, capannoni e centri commerciali che simili infrastrutture trascinano. Qui il cemento avanza a ritmi vorticosi: il 43 per cento di tutto il territorio della provincia di Milano è urbanizzato, ma Finiguerra può vantare che nel suo paese la percentuale scende al 19. E l´altro 80? Fa gola, sarebbe lo sfogo naturale di quell´incontinenza edilizia che dilaga nella "megalopoli padana", come la chiamava il geografo Eugenio Turri. Ma tutti i progetti, le pressioni, le chiacchiere suadenti vanno a sbattere contro la porta del sindaco. Alcuni anni fa la Villa Clari Monzini, gioiello dell´architettura tardo cinquecentesca, era in rovina. Venne acquistata da un immobiliarista che si presentò al Comune proponendo di costruire nel parco una sessantina di appartamenti divisi in tre palazzine. La risposta di Finiguerra fu: niente palazzine, ristrutturi la villa. E così è andata. Ora l´edificio splende con i suoi colori tenui.
Il verde è salvo, salve sono le rogge che irrigano i campi, ma per il Comune, ogni volta che svaniscono oneri di urbanizzazione (prima che arrivasse Finiguerra erano dai 100 ai 150 mila euro l´anno) si apre un buco nel bilancio. Eppure, al cemento che garantisce gli oneri, Cassinetta preferisce le tasse. Qui è stata aumentata l´Ici e adesso che l´hanno abolita sulla prima casa, Finiguerra l´ha incrementata di un punto su tutte le attività produttive. Poi ha alzato del 10 per cento il costo delle mense scolastiche e raddoppiato quello dei centri estivi. «Non abbiamo toccato le spese sociali», spiega, «ma abbiamo tagliato su tutto il resto: io prendo 500 euro mensili, i quattro assessori 70. Non abbiamo macchine di servizio, solo una Panda del 1990. Abbiamo sostituito tutte le lampadine del cimitero per risparmiare elettricità e sulla scuola materna abbiamo installato pannelli fotovoltaici».
Il Comune non ha spese di rappresentanza, tutte le iniziative culturali sono pagate da sponsor. Scatta la molla della "finanza creativa", ma invece che svendite di patrimonio pubblico e cartolarizzazioni, ecco i matrimoni in villa. A Cassinetta vengono a sposarsi da tutta la Lombardia e allora si è fatto un accordo con la proprietaria di una villa settecentesca, che offre il catering, e il Comune si fa pagare da 750 a 1.500 euro per celebrare nozze anche a mezzanotte, con passeggiata sui bordi del Naviglio.
Finiguerra è stato chiaro fin da subito con gli elettori di Cassinetta. Il suo programma prevedeva stop al consumo di suolo, bene non riproducibile e indispensabile sia per le produzioni agricole sia per i paesaggi che genera. E con quel programma ha vinto, nonostante le tasse.
Su eddyburg una cartella dedicata a Cassinetta di Lugagnano
Nella foto (di Cristina Gibelli) Domenico Finiguerra a Lodi, tra F. Bottini ed E. Salzano
Anche se nulla ancora emerge dall’informazione televisiva che ci inonda con le immagini delle inaugurazioni delle case per i terremotati dell’Aquila, il tragico fallimento dell’esperienza guidata da Bertolaso sta iniziando ad essere evidente a tutta la popolazione aquilana, anche a quella che aveva creduto alla favola delle new town. Ma proprio quando gran parte della stampa grida al miracolo della realizzazione di (poche) case in tempi rapidissimi, come è possibile parlare di fallimento? È che nella popolazione abruzzese inizia a rendersi evidente la cinica disinvoltura con cui il governo li priverà per molti anni a venire del bene più prezioso che essa aveva: le città, i borghi, i centri storici.
Una popolazione che era abituata a vivere in luoghi in cui le relazioni umane erano rese possibili e facilitate proprio dai luoghi urbani, inizia a toccare con mano che dovrà abituarsi a vivere per molti e molti anni in condizioni di isolamento sociale, con le difficoltà a risolvere anche le esigenze primarie come quelle degli acquisti o dell’uso dei servizi pubblici. In quelle che hanno chiamato spudoratamente new town esistono solo abitazioni e nessun presidio sociale. Le città si riconoscono per i servizi sociali, ma questo ai liberisti fa evidentemente orrore. Se si tiene poi conto che buona parte di quella popolazione è anziana e non è in grado di spostarsi autonomamente con l’automobile, si comprende di quale misfatto si sia macchiato il governo.
Non saranno dunque i fuochi artificiali di questi giorni a cancellare l’infamia di aver scelto deliberatamente di trasferire in luoghi isolati, senza alcun servizio pubblico, senza la minima dotazione di quelle attrezzature private che rende gradevole (o almeno meno disagevole) la vita di tanti cittadini aquilani. E la condanna della popolazione sarà senza appello perché, come racconta nel suo bel libro Giovanni Pietro Nimis (Terre mobili, Donzelli editore, 2009), le alternative esistevano. Gli straordinari esempi di ricostruzione da eventi sismici sperimentati negli altri tragici casi (Friuli 1976 e Umbria-Marche 1997) sono lì a dimostrare che in tempi contenuti e con il coinvolgimento pieno delle popolazioni locali sono stati raggiunti risultati straordinari con un consenso generalizzato. Il Friuli è un esempio celebre di rinascita di una popolazione. I centri antichi dell’Umbria e delle Marche sono di nuovo vitali e abitati. Le case sono state rese sicure. Si obietterà che le popolazioni hanno dovuto passare qualche anno in scomodi container. Ma la scomodità era resa meno acuta dalla vicinanza alla propria abitazione, dall’essere localizzati all’interno dei luoghi urbani, dalla condivisione con le stesse persone con cui si erano condivise vite di relazioni,. L’assegnazione delle case abruzzesi è avvenuta per sorteggio: la vita ridotta ad una tombola a premi in cui guadagnano soltanto coloro che stanno realizzando alloggi che costano 2.800 euro a metro quadrato a fronte dei mille con cui si costruisce in ogni luogo d’Italia.
Così, famiglie che abitavano in un luogo conosciuto e misurabile nella vita di ogni giorno saranno costrette a vivere da tutt’altra parte, in tanti luoghi periferici scelti in base alla disponibilità dei suoli e non sulla base di un ragionamento sul futuro di una comunità urbana. E questo avviene senza che nulla si sappia sui tempi e sulle modalità della ricostruzione dei centri antichi, ad iniziare da quello de L’Aquila. Insomma pochi cittadini abruzzesi si vedono assegnare una casa mentre tutti non hanno ancora alcuna certezza su quando partiranno i lavori per la ricostruzione delle loro meravigliose città. A sei mesi dal terremoto del 1997, le due regioni coinvolte avevano già deciso criteri e suddiviso i centri da ricostruire in comparti operativi. A sei mesi dall’evento del 6 aprile 2009 sono state consegnate solo poche case. Ad un ragionamento organico si è sostituito un gesto teatrale sotto gli occhi delle televisioni. La complessità della città è stata sostituita dalla semplificazione di case in desolate periferie.
In questi giorni in cui Il Manifesto sta svelando la impressionante ragnatela con cui imprese blasonate hanno inquinato tanti luoghi del nostro paese. Mi hanno colpito le frasi di un colloquio di due malavitosi che parlavano dell’affondamento delle navi dei veleni lungo le coste calabresi. Dice il primo che a causa dell’affondamento il mare si guasterà per sempre. Il secondo risponde che con tutti i soldi guadagnati potranno cercare mari lontani e puliti. L’inquinamento, insomma, non li riguarda. Anche in questo caso la distruzione chissà per quanti anni delle comunità urbane non coinvolge i decisori. Nelle periferie de L’Aquila ci andrà la parte debole della società. Mica loro.
Napoli. Esasperati da quattro mesi di cassa integrazione che coinvolge o sta per coinvolgere 400 dipendenti sui 680 in totale, giovedì mattina gli operai della Fincantieri di Castellammare di Stabia, polo navale di rilievo nazionale, hanno occupato per la seconda volta in tre settimane la statale sorrentina. Traffico paralizzato per ore da e verso le capitali del turismo della costiera amalfitana. Nelle scorse settimane cinque lavoratori dell’Alcatel di Battipaglia si sono barricati in fabbrica minacciando di darsi fuoco per la paventata chiusura dello stabilimento che da lavoro a 200 interni e 300 interinali. La protesta si è chiusa, per ora, solo dopo il blocco della cessione alla Btp Techno srl, che si temeva essere il primo passo verso la dismissione. A Pomigliano d’Arco 5 mila lavoratori della Fiat e 5 mila tute blu dell’indotto arrivano a fine mese grazie ai 200 euro supplementari alla cassa integrazione, stanziati grazie al rimescolamento di alcuni fondi regionali per progetti di formazione e pubblica utilità. La catena di montaggio, che assembla modelli di auto tagliate fuori dagli incentivi sulle rottamazioni, marcia a singhiozzo.
Nubi nere anche sul futuro di Bticino di Torre del Greco, che ha già licenziato 14 lavoratori su 250, della Metalfer di Torre Annunziata, con 100 operai che resteranno disoccupati alla scadenza della cassa integrazione a dicembre, e dell’Avis di Castellammaredi Stabia, 90 operai che sopravvivono tra cassa integrazione e progetti pubblici di integrazione al reddito. L’ultimo rapporto Istat riferisce di 108mila posti di lavoro persi in Campania rispetto al 2008. Altri 2200 posti, sostengono i sindaci dell’area torrese-stabiese in una lettera aperta al Governo, stanno per andare in fumo tra Castellammare e dintorni entro i primi mesi del 2009.
In questo quadro di crisi e di tensione, va avanti in Regione Campania un “Piano Casa” che all’articolo 5 potrebbe rappresentare il via libera verso la definitiva desertificazione industriale. La delibera licenziata a maggio dalla giunta Bassolino e in attesa di approvazione (si vota domani) in consiglio prevede, caso unico in Italia, la possibilità di riconvertire le aree industriali dismesse in aree residenziali.
Evidenti le controindicazioni: si offre un ulteriore incentivo al disinvestimento, si spunta un’arma ai sindacati nel corso delle contrattazioni – le imprese spesso non chiudono perché non è conveniente svuotare capannoni per i quali è impossibile il cambio di destinazione d’uso – c’è il pericolo di ‘premiare‘ imprenditori che dopo aver munto i soldi pubblici dei contratti d’area e degli altri strumenti di programmazione negoziata stanno cercando di abbandonare il campo. E alla finestra c’è la potentissima camorra del napoletano. Il capogruppo regionale di Sinistra Democratica, Tonino Scala, è da mesi che grida l’allarme: “E’ un provvedimentovoluto soltanto per dare ossigeno all’economia edilizia e che qui in Campania rischia di favorire solo la criminalità organizzata, l'unica che ha la liquidità necessaria ad acquistare i capannoni industriali dismessi in zone come Bagnoli o Ponticelli”.
Proprio il destino di Napoli Est, area periferica e degradata dove si concentrano grandi opere incompiute come l’ospedale del Mare, è uno dei grandi punti interrogativi degli effetti di questo piano. Un piano fermo in commissione Urbanistica da tre mesi, schiacciato dal peso di 427 emendamenti: l’ok per ora è arrivato solo per i primi quattro articoli su nove. Ma le pressioni affinché il ddl venga approvato sono fortissime. A cominciare da quelle dell’Ance, l’associazione campana dei costruttori. “Bisogna far presto – ha detto il presidente Nunzio Coraggio nel corso di un convegno organizzato per fare lobbying – superando le logiche di schiarimenti e unarigidità che non ha ragione di esistere”. In nome di una fame di abitazioni, quantificata nel corso del convegno in ben 300mila unità, gli imprenditori del mattone chiedono un’accelerazione che finora il consiglio regionale non ha impresso, rinviandodal 23 al 30 settembre la trattazione in aula (sempre se la commissione ce la farà a licenziare il tutto). Salvatore Vozza, il sindaco di Castellammare che il 4 settembre scorso ha marciato alla testa del corteo Fincantieri, da uomo di sinistra (ex deputato e segretario provinciale Pds, oggi sta con Nichi Vendola) definisce la proposta relativa alle aree industriali “assurda e inaccettabile, perché offre la possibilità a nuove speculazioni su terreno martoriato. In una terra come la nostra il diritto alla casa è sacrosanto quanto quello a un futuro fatto di lavoro e rispetto per l'ambiente". Anche il Pd, attraverso il capogruppo in Regione, il giurista Pietro Ciarlo, si è dissociato dalla delibera della giunta Bassolino, chiedendo modifiche: “Se dovesse passarela linea speculativa, meglio bloccare tutto”. Viene da chiedersi: che fine ha fatto il Bassolino che nel 2003 impugnò il condono edilizio di Berlusconi in nome della difesa del territorio? “Ha ceduto al pensiero berlusconiano – risponde l’urbanista Vezio De Lucia, assessore comunale di Bassolino ai tempi del ‘Rinascimento Napoletano’ – questo piano ha ceduto al pensiero unico del privatistico e del liberalismo: la casa piuttosto che la città, il bisogno individuale contro i valori sociali negativi”.
Pubblichiamo, in anteprima per eddyburg, il dossier completo sull’analisi urbanistica delle vicende della ricostruzione post-terremoto a L’Aquila.
E’ il contributo, già ripreso dagli organi di stampa, dovuto ad alcuni collaboratori di eddyburg e ad altri studiosi per aprire finalmente quella discussione sul destino della splendida città abruzzese fino a questo momento accuratamente evitata.
Come leggerete, l’analisi degli autori ha dovuto innanzi tutto superare l’enorme difficoltà della mancanza di dati documentali ufficiali sull’intera situazione edilizia ed urbanistica della zona. Ciò nonostante il dossier si attiene ad una precisa ed esplicitata metodologia e si pone come documento di riflessione allargata per tutti coloro che hanno ruolo attivo nelle vicende della ricostruzione e per tutti i cittadini aquilani.
Ma non solo, un’analisi come questa, oltre ad evidenziare, con rigore, le criticità presenti nelle operazioni della ricostruzione dal punto di vista urbanistico, sociale, economico, sottolinea con forza un elemento che scorre sotto traccia in questa vicenda: quella mancanza di trasparenza, quel rifiuto del confronto su basi scientificamente documentate, che, pur complesso, è l’unico strumento politicamente ammissibile in una democrazia degna di questo nome (m.p.g.)
Tutti ricordano il terremoto,fra ottobre e novembre 2002, di San Giuliano di Puglia (Campobasso), che seminò la morte nella scuola del paese:27 bambini e un’insegnante schiacciati. Il resto dell’abitato non aveva subito danni gravi.Ma Silvio Berlusconi subito parlò di una«San Giuliano di Puglia 2», avendo fissa in testa la «sua» Milano 2. Poi la cosa non andò avanti. Stavolta,col solito tecnico privato di fiducia,l’ingegner Michele Calvi (sempre Milano 2), ci ha riprovato straparlando di newtown aquilane, in realtà una congerie scollegata di banali lottizzazioni. V’è di più. «Si sono rifatti i conti e le new town sono diventate inaspettatamente (per la Protezione Civile) insufficienti. E la gente riparte per il mare». Uno show illusorio dunque.
Lo scrivono gli urbanisti Vezio De Lucia e Georg Josef Frisch, e il sismologo Roberto De Marco nel rapporto ancora inedito di cui diamo conto in anteprima «L’Aquila. Non si uccide così anche una città?». Essi affrontano, oltre all’insufficienza quantitativa delle abitazioni previste per i terremotati aquilani (senza servizi, oltretutto), il nodo dei costi della soluzione prescelta.Per ricostruire la casa com’era e dov’era (ma sicura) ai circa 7.000cittadini della zona rossa del centro storico, occorrerebbero 380 milioni di euro. Inoltre, quei cittadini dovrebbero essere sistemati provvisoriamente per il tempo necessario con Moduli Abitativi Permanenti(MAP).A quali costi? «La Protezione Civile», rispondono i tre esperti,«sta spendendo, chiavi in mano,1.000 euro per mq, mediamente50.000 euro ad alloggio MAP». Per i2.820 alloggi necessari, farebbero140 milioni di euro. Sommati ai 380 milioni precedenti, si salirebbe a circa5 20 milioni.
Il Progetto C.A.S.E. in corso di realizzazione,cioè le 20 micro-newtown, o lottizzazioni, prevede invece un costo di 2.800 euro al metro quadrato per un importo complessivo di 710 milioni di euro. Badate, si tratta di mini-alloggi: da 40 a 70 mq contro i 90 mq della media Istat. Fra l’altro li stanno rimpicciolendo per stiparne di più nei 20 lotti essendosi accorti che sono di molto inferiori ai bisogni. Quindi, per i 7.000 aquilani della zona rossa «avere una casa nelle new town costerà 440 milioni dieuro». Non è finita. C’è da calcolare il costo del temporaneo, non breve soggiorno negli alberghi della costa. Circa 8,4 milioni al mese. In sei mesi(e non so se bastino), un costo aggiuntivo di 50 milioni, da sommare ai 440 milioni di poco sopra. In totale, circa 490 milioni di euro.
Non è tutto, perché nella versione finale del decreto sul terremoto (28aprile 2009) il governo ha dovuto riconoscere ai residenti del centro storico con abitazione in E (cioè gravemente danneggiata) la totale copertura delle spese di ricostruzione e aip roprietari di seconde case in E «un ristoro di 80.000 euro». A questo punto dobbiamo sommare i 380 milionidi euro calcolati per ricostruzione e recupero della zona rossa delcentro storico ai 490 milioni per le cosiddette new town e fanno 870 milioni di euro.
Una obiezione è scontata: «Le new town sono un patrimonio edilizio a futura diversa destinazione».Già, però si tratta di alloggi definiti dalla Protezione Civile soltanto «durevoli», decisamente piccoli, più piccoli di un terzo delle abitazioni andate distrutte. E per ora non ci sono fondi per i servizi. Insomma,concludono gli autori dello studio, «non si può però essere sicuri che costruire case al costo di un appartamento dilusso sia stato un buon investimento». La ricostruzione aquilana, con tutte le declamate pretese di efficienza,costerà di più di una «ricostruzione tradizionalmente intesa».
E qui torna il discorso fatto nella prima puntata: la fretta presuntuosa con cui si è voluto agire senza tenere in alcun conto le esperienze friulane e umbro-marchigiane sarà nemica di una «buona ricostruzione». Della cui elaborazione progettuale, del resto, nemmeno si discute. Nasce allora un sospetto di fondo: questa urbanistica «di emergenza» non diventerà«permanente»? Della bella Aquila oggi in macerie che ne sarà? Prima del sisma nelle case e nei nuclei sparsi risiedeva il 34 per cento della popolazione del Comune; con le new town vi risiederà il 56 per cento. Nel centro storico abitava il 15 per cento che si ridurrà ad un misero 6per cento. Come diminuirà (dal 51 al 38 percento), a vantaggio dei nuclei e case sparse, la quota di quanti avevanocasa nelle zone urbane. Prima del terremoto, «ben due terzi della popolazione del Comune abitava nel capoluogo(centro storico e zone adiacenti),mentre solo un terzo era residente nelle frazioni e nei nuclei periferici». Con la centrifugazione prodotta dal Progetto new towns, o C.A.S.E., il capoluogo perde «un terzo degli abitanti, mentre il centro storico subisce un vero e proprio tracollo». L’Aquila sarà così trasformata in «una città più piccola contornata da venti periferie?».
Se ricordate, nella prima versione del decreto legge, si insisteva sul ruolo di Fintecna incaricata di subentrare agli aquilani con casa danneggiata che non ce la facevano a ricostruire. A tutt’oggi non c’è nessuna ombra – a differenza del modello umbro-marchigiano – di comparti omogenei perimetrati, di programmi integrati,né di consorzi obbligatori fra i proprietari per il recupero degli edifici distrutti o lesionati. Campo libero dunque, per selezione «naturale»,ai singoli, ovviamente ricchi o agiati,che vorranno qua e là recuperare mettendo in sicurezza. «Per dar vita ad una L’Aquila-land per turisti e fruitori di shopping, richiamati dalla possibilità di ammirare come erauna città preziosa prima del terremoto». Una vuota scena. Una bella occasione speculativa.
In tanta inerzia, difficilmente l’Ateneo aquilano riavrà i suo i27.000 iscritti, con parecchi fuorisede. Faticheranno Conservatorio, Accademia e altri istituti. Languiranno gli 800 esercizi commerciali dei quartieri storici. Il Tribunale è sbriciolato,l’Ospedale lesionato. Le imprese si saranno riposizionate sul territorio. Si pagherà un altissimo prezzo:la disgregazione di una comunità. Possibile che di ciò che tocca il cuore, gli elementi vitali del primo grande centro storico terremotato dopo Messina (1908) la classe dirigente,intellettuale italiana non senta il bisogno di discutere in senso positivo, progettuale? Non senta l’urgenza di sostenere quanti nelle istituzioni(il sindaco Massimo Cialente, la combattiva presidente della Provincia Stefania Pezzopane) non si rassegnano? Possibile che questo nostro Paese sia, in tutto, così sfibrato,disanimato, incapace di reagire, persinoal «tutto va ben» strombazzato da Berlusconi e dai suoi contro ognicifra, contro ogni realtà? Ma dove sono urbanisti, pianificatori, sindacati,partiti dalla parte dei cittadini?
Ma i servizi in queste «città»
dove si pensa di metterli?
Silvio Berlusconi ha detto che risponderà solto a domande serie, per esempio sul post-terremoto all’Aquila. Noi gliene poniamo altre 5 dopo quelle della prima puntata.
1) All’Aquila si stanno, di fatto, costruendo20 quartieri periferici“durevoli”, 20 nuove, confuse periferie. Con quali servizi se per questa voce non ci sono ancora stanziamenti?
2) Lo sa che, per non voler essere“tradizionali” come in Friuli o inUmbria,le case in costruzione all’Aquila(in numero insufficiente) costeranno come appartamenti di lusso?
3) Per il centro storico dell’Aquila non si parla ancora di “ricostruire”,non ci sono perimetrazioni di comparti omogenei, né programmi integrati, né consorzi fra privati: che ne sarà nel tempo del centro storico abbandonato? Diverrà una sorta di Aquilaland per turisti (e per speculatori)?
4) Non ritiene pericolosissimo chel’Aquila divenga una città più piccola con tante periferie disgregando così il cuore della comunità aquilana?
5) Se l’Aquila, dove quasi tutto è fermo,non riparte al più presto, come crede che potrà ripartire l’intera provincia e la stessa regione? V.E.
Qui è scaricabile il testo integrale del rapporto Di Frisch, De Lucia, De Marco, Liberatore
Al Comune di Viterbo esiste anche un assessore per l’aeroporto che ancora non c’è. Il nome: Giovanni Bartoletti. Ha 42 anni, un passato da ufficiale pilota e un presente da presidente del comitato per l’aeroporto della Tuscia. È stato eletto nel 2008 per il centrodestra con la lista civica «Viterbo vola» e prontamente il nuovo sindaco Giulio Marini l’ha messo in giunta. Questo per dire che Gianni Alemanno avrà pane per i suoi denti.
Il sindaco di Roma parte lancia in resta alla difesa dell’aeroporto di Ciampino contro il futuro scalo che dovrebbe portargli via il traffico low cost da e per la Capitale, evocando il fantasma di una nuova Malpensa? Ebbene, a Viterbo i suoi colleghi di partito montano le artiglierie pesanti.
Nel Paese dei campanili ognuno vuole anche la sua pista. E pazienza se già ne abbiamo (in rapporto alla superficie) il doppio della Francia, se si fagocitano l’un l’altro, se in qualche scalo i passeggeri sono rari come i canguri albini. Quando si deve perorare una causa aeroportuale non c’è politico, di destra o sinistra, che si tiri indietro.
Nel novembre 2007 un aeroplanino sorvolò Viterbo trascinando uno striscione dove c’era scritto a caratteri cubitali: «Grazie!». Di che? Ma di aver scelto la città della Tuscia come base per il terzo aeroporto del Lazio. Il ringraziamento era rivolto al ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi ma soprattutto al suo collega dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, margheritino, viterbese ex sindaco di Viterbo, che si era battuto come un leone contro Latina e soprattutto contro Frosinone. In pieno dramma psicologico Francesco Scalia, presidente anch’egli margheritino della Provincia ciociara, arrivò a minacciare le dimissioni. Ma allora Fioroni era ministro e davvero c’era poco da fare. Tanto più considerando che l’aeroporto viterbese aveva anche il sostegno di un altro pezzo da novanta della maggioranza di governo: il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti.
Lo schiacciasassi politico macinò chi contrastava il progetto, come il Comitato per il No guidato dall’ex sindaco di Soriano del Cimino, Alessandro Pizzi, che paventavano seri danni ambientali (l’aeroporto è a due passi dalle terme). Inutili si rivelarono gli appelli al leader della Margherita Francesco Rutelli e le proteste di Verdi e sinistra radicale.
C’è da dire che fra le tre soluzioni che erano state proposte l’Enav aveva chiaramente indicato Viterbo per motivi tecnici: Latina è congestionata e interferisce con Pratica di Mare e Napoli, Frosinone è in una conca fra le montagne, spesso nebbiosa. Ma c’è da dire che anche l’opposizione politica di allora non si oppose. Basti pensare che il comitato per l’aeroporto è capeggiato da un uomo di centrodestra. Per non parlare del nuovo sindaco Marini. Il quale, per inciso, è anche deputato del Popolo della libertà. E questo nonostante per legge l’incarico di parlamentare sia incompatibile con quello di sindaci di città con oltre 20 mila abitanti (Viterbo ne ha 59.308).
Non che per l’aeroporto le cose sarebbero cambiate di molto se il centrodestra non avesse vinto le elezioni: candidato sindaco dello schieramento opposto era Sposetti. Senza contare che anche alla presidenza della Provincia, in mano al centrosinistra, c’è un altro sostenitore dello scalo, ovvero l’ex segretario provinciale diessino Alessandro Mazzoli. Nato, per ironia della sorte, a Frosinone. Sulla carta, dunque, l’aeroporto è blindato. «Su questo c’è forte sintonia fra il governo, la Regione, la Provincia e il Comune », ha detto ieri il governatore del Lazio Piero Marrazzo. Quanto al rischio di creare una Malpensa in sedicesimi, è un’altra faccenda.
Innanzitutto i soldi. Per l’adeguamento delle strutture aeroportuali servirebbero circa 260 milioni. Ma è il meno. Viterbo dista da Roma circa 90 chilometri: almeno un’ora e mezzo con l’automobile e un paio d’ore con il treno. Ci sono ben due ferrovie che collegano la Capitale con la città della Tuscia, ma servono fondamentalmente il traffico pendolare e andrebbero seriamente adeguate. Per la linea delle Ferrovie dello Stato (tempo di percorrenza da un’ora e tre quarti a due ore e dieci) è previsto un raddoppio fino a Bracciano, mentre non esiste un progetto, né un finanziamento, per il potenziamento del tratto fino a Viterbo. Per la linea ferroviaria regionale gestita dalla romana Metro (tempo di percorrenza due ore e mezzo) l’ipotesi del raddoppio invece esiste. Ma bisognerà trovare altri 600 milioni di euro, e comunque per la realizzazione si parla di svariati anni.
Infine, va da sé che l’aeroporto low cost a Viterbo ha senso se si svuota Ciampino. Diversamente, non ce l’ha. Peccato che uno dei maggiori vettori, cioè Ryanair, non ne voglia sapere di rinunciare a un privilegio che in Europa non ha nessuna compagnia a basso costo: quello di un aeroporto praticamente in città. Il suo capo, Michael O’Leary, ha avvertito che se dovrà lasciare Ciampino la compagnia irlandese abbandonerà Roma: mettendo a rischio, argomento molto convincente, 3.500 posti di lavoro. E ha comunque avviato una dura resistenza legale. Nel frattempo, notizia della scorsa primavera, la Regione Lazio ha dato il via a un quarto aeroporto. Dove? Ma a Frosinone, che domande...
Lo ricordo bene: dopo i terremoti del Friuli, dell’Umbria e delle Marche - i meglio risolti fra i tanti - il dibattito sulla ricostruzione di centri storici e monumenti fu subito intenso, acceso, coinvolse, appassionò intere comunità, produsse soluzioni alla fine valide. In Friuli lo slogan della ricostruzione fu «prima le fabbriche, poi le case e le chiese». In Umbria venne corretto in «prima le chiese (“Sono le nostre fabbriche”, fece notare un vescovo saggio, attento al turismo religioso di massa), poi le case e le fabbriche». Lo fa notare il solo studio complessivo – anche socio-culturale, anche economico - sin qui prodotto sul terremoto abruzzese: «L’Aquila. Non si uccide così anche una città?». Una brochure fitta di analisi, argomentazioni, piantine, tabelle di costi, che va sotto la sigla storica di Comitatus Aquilanus.
Vi hanno lavorato intensamente soprattutto l’urbanista Vezio De Lucia, con vaste esperienze di amministratore, l’ex direttore del Servizio Sismico nazionale, Roberto De Marco, l’architetto Georg Josef Frisch, coordinatore della ricerca che pubblichiamo in anteprima.
Prima notazione: nulla delle esperienze positive antecedenti già citate è stato tenuto in conto. È prevalsa su tutto la visione «edilizia», immobiliaristica del presidente Berlusconi, attuata «militarmente» dalla Protezione Civile. Difatti, qui in Abruzzo, all’Aquila, la parola «ricostruzione » non viene pronunciata, c’è uno spettrale silenzio attorno ad essa. Anche da parte degli intellettuali (tutti ipnotizzati?), dei giornali, di quasi tutte le tv. Dove un’altra parola risulta bandita: «pianificazione ». Tutto sul territorio aquilano avviene nella più totale assenza di un disegno urbanistico complessivo, con mille episodi sconnessi e con un consumo di suoli agricoli alla fine disastroso. Il solo slogan è quello efficientistico «dalle tende alle case», o meglio «alle casette» (magari donate dai trentini).
Ma ci sono poi case o casette per tutti? Neanche per idea. Ci sono prima che arrivi novembre e magari la prima neve? Soltanto in parte. Sere fa ha fatto sensazione a Ballarò l’intervento del direttore generale del Comune de L’Aquila, Massimiliano Cordeschi, accusato dal ministro Tremonti di «esortare alla rivoluzione» soltanto per aver detto che, in conclusione, a sei mesi dal sisma, su 40.000 senzatetto, ce ne sono 26.000 fuori da ogni prospettiva di residenza che non siano gli alberghi della costa, case di parenti, o la diaspora.
Lo studiodi De Lucia-De Marco-Frisch ci dice subito che la Protezione Civile ha censito gli edifici inagibili o danneggiati. Non gli alloggi. Dato fondamentale invece per stimare la gravità del danno e quindi la «domanda di ricostruzione». Loro tre calcolano che a L’Aquila siano 15.746 gli alloggi resi inagibili, per una superficie lorda di 1 milione e mezzo di metri quadrati. Una parte rilevante dei quali nel bellissimo ed ora spettrale centro storico, nella «zona rossa »: il 63%. Sono residenze di aquilani e case per studenti fuori sede. Lo slogan della ricostruzione (se di ricostruzione qualcuno parlasse nel primo grande centro storico atterrato dopo Messina) dovrebbe infatti mettere al primo posto, fra le «fabbriche », l’Università, vero «motore» di tanta vita economica e sociale aquilana, col Conservatorio, con l’Accademia di Belle Arti e altri Istituti. Pertanto, se migliaia di studenti sceglieranno altre sedi, tutta L’Aquila ne riceverà un colpo mortale. Ma se la ricostruzione non solo non parte (rimuovendo le macerie, puntellando, progettando, ecc.), ma neppure viene nominata, quali speranze si possono dare a questi giovani affluiti qui da altre regioni? Cosa può trattenerli dal fare altre scelte? In Umbria e Marche, dopo aver sistemato, con fatica certo, i terremotati in container attrezzati e in casette prefabbricate, vennero formati dalla Regione e dagli enti locali i consorzi obbligatori fra i proprietari privati onde far partire progetti integrati e pianificati di ricostruzione «in sicurezza ». Qui siamo sotto lo zero. E anche giornali, tv, opinionisti, gli stessi partiti di opposizione non ne parlano. Paiono come annichiliti e senza voce. Peggio, senza idee.
La sensazioneche gli autori di questa ricerca hanno avuto è che il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente sia stato lasciato piuttosto solo dallo stesso Pd anch’esso come catturato dalla logica tutta «edilizia» del duo Berlusconi-Bertolaso. Da qui l’ordinanza di giugno che lasciava libertà di costruire casette provvisorie dove si poteva. Da qui il Progetto dei Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili (C.A.S.E.) che il premier un po’ chiama newn town e un po’ no, anzi si offende.˘«In buona sostanza », si legge nel rapporto, sono «lottizzazioni residenziali su 20 aree individuate dalla Protezione Civile (…), 164 edifici per un totale di circa 4.000-4.500 appartamenti che saranno adatti ad ospitare circa 15.000 persone», cioè un terzo soltanto dell’effettivo fabbisogno espresso dai cittadini del capoluogo. Adesso anche la Protezione Civile si è accorta che sono poche e allora si affanna a mandare altrove il popolo degli attendati, prima che il gelo li attanagli. Di nuovo negli alberghi della riviera adriatica. A costi notevolmente elevati. Senza che i senzatetto abbiano potuto esprimere una preferenza, senza che si sia lasciato uno spiraglio alla autodeterminazione democratica, senza che si sia potuto opporre qualcosa alla scelta centrifuga delle 20 micro-newtown e di tante altre casette sparse, a spray, sui terreni agricoli, a macchia d’olio. Il tutto a costi molto alti. Come sempre allorché non si pianifica praticamente nulla. Ne parleremo nella successiva puntata. Fermiamoci ad un costo sociale: «Una volta sgomberate le macerie e rese accessibili le case non danneggiate gravemente, solo uno su tre dei vecchi abitanti potrà tornare a casa». Più il tempo passa senza che inizi la ricostruzione e peggio è. Qui e nei centri storici minori. Sul piano oggettivo, psicologico, morale. «Non si uccide così anche una città?».
(1-continua)
Dai centri storici alle “new towns”
Cinque domande al premier
Nella conferenza-stampa di martedì Silvio Berlusconi ha detto che risponderà soltanto a domande serie, per esempio sulla consegna di case prevista il 29 in Abruzzo. L’inchiesta qui a fianco ne contiene tante di domande. Proviamo ad estrarne qualcuna:
1) Perché non si sono tenuti in alcun conto i risultati positivi della ricostruzione post-terremoto in Friuli e in Umbria-Marche?
2) Perché la Protezione Civile ha censito gli edifici e non invece gli alloggi colpiti per avere una stima più esatta dei bisogni?
3) Come mai le casette prefabbricate possono ospitare soltanto un terzo dei circa 40.000 senzatetto? E gli altri, dove finiranno?
4) È vero che nelle sue amate «new town» gli alloggi stanno fra i 40 e i 70mqe che ci si orienta sempre più verso i 40 mq?
5) Perché nemmeno si parla, per ora, di piani e progetti di ricostruzione dei centri storici, dell’Aquila in primo luogo? Cosa si vuol fare?
Tante sono le domande che urgono. Magari domanine faremo altre.
V.E.
«Proteggete le bellezze del nostro territorio dal piano casa». Questo l’appello lanciato dalla Fai a tutti i sindaci della Lombardia, a pochi giorni dell’entrata in vigore della legge che permetterà ai cittadini di ampliare, fino al 20%, la volumetria di edifici esistenti.
Entro il 15 di ottobre ogni singola amministrazione comunale dovrà decidere - e quindi comunicare alla Regione - quali aree non potranno essere interessate dall’attuazione del piano casa. Da qui la richiesta della presidente del Fondo ambientale italiano, Giulia Maria Mozzoni Crespi, che con una lettera inviata ai 1546 primi cittadini lombardi invita i Comuni a «prendere coscienza del valore del paesaggio, sia dal punto di vista culturale che ambientale».
La presidente dell’associazione ambientale dà quindi alle amministrazioni alcune linee guida da seguire nella scelta delle aree da preservare: «Bisogna difendere i caratteri identitari del nostro Paese - si legge nella lettera - . Si raccomanda quindi l’esclusione dei centri storici e di tutte le zone di particolare valore paesaggistico e ambientale». E ancora: «Ogni Comune deve attivarsi in tutti i modi per evitare l’ulteriore involgarimento e degrado del nostro territorio a causa di una legge che appare come strumento di disordine ai danni della collettività».