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Prima i ragazzi si ritrovavano lungo la scalinata di S. Bernardino, sedevano a gruppetti, sguardi, qualche parola, gli amici, le amiche, lo struscio fino al Corso Vittorio e a piazza Duomo e al ritorno ancora la scalinata, monumentale, di pietra bianca, stile barocco, custodita ai lati dalle edicole dei santi. Alle spalle la basilica, intorno le montagne e il Gran Sasso. I primi amori. Il posto più sicuro e più bello del mondo. Questo prima, prima del terremoto.

Oggi i ragazzi si ritrovano al bar del centro commerciale. «Ed è molto triste, loro, i ragazzi, stanno diventando tristi...» dice il sindaco Cialente guardando la dolce discesa della scalinata ora piena di erbacce, detriti, le edicole ingabbiate nel legno e nel ferro. S.Bernardino è uno dei luoghi che fanno l’anima dell’Aquila, da generazioni testimone silenzioso di amori e passioni, delusioni e pezzi importanti di vita. «L’Aquila non ha più i suoi luoghi. Prima uscivi e non ti sentivi mai solo. Adesso passiamo la giornata in macchina. Come se voi a Roma la passaste sul raccordo anulare...».

L’Aquila oggi, un anno dopo, è ancora un non-luogo dove ti incontri e non chiedi come stai ma «tu cosa sei? A, B, C...», la classifica del danno delle abitazioni. Se sei E, che significa casa distrutta, sei in quello che il sindaco chiama «tunnel esistenziale». Da cui è difficile uscire. Aumenta l’uso degli psicofarmaci all’Aquila e nel cratere terremotato. Se ricostruire vuol dire anche ritrovare i luoghi dell’anima, quelli dove ti riconosci e ti senti a casa per sempre, la ricostruzione dell’Aquila può ripartire anche da questa scalinata. Riconsegnarla ai giovani. E al futuro. Riprendersi il passato. È urgente. Come, forse più, di tutto il resto.

Per la scalinata dei primi amori, dei sogni e dei progetti servono con urgenza centomila euro. «Non li ho» dice il sindaco, «mi devo inventare qualcosa. Lo devo ai ragazzi di questa città».

«Riprendiamoci l’Aquila» è scritto sul tendone bianco montato in piazza Duomo diventato la bandiera e il fortino della riconquista del centro storico proibito. Gli aquilani ci lasciano carriole e secchi, pensieri, idee, rabbia, progetti. È un luogo. Una stanza tutta per loro.

Un piano in nove mosse. È questo che ha in mente il sindaco e che il Capo della struttura di missione Gaetano Fontana ha spiegato in un libretto di 32 pagine intitolato: «Primo programma di intervento sperimentale con fattibilità a breve termine». Riguarda il centro storico dell’Aquila, 170 ettari ancora pieni di macerie, alberi sradicati e materassi marci. «Il sisma dell’Aquila è stato un evento oltre che drammatico anche molto complesso» dice il prefetto Franco Gabrielli. «Se escludiamo i quartieri fuori dalle mura, solo il centro storico è in assoluto il più grande d’Italia rispetto al numero di edifici vincolati». Non ci sono precedenti, nè con il Friuli nè con l’Umbria. Solo se si ha chiaro questo, si può capire perchè è così difficile ricominciare. Il Primo programma di intervento ha individuato sei aree, sei spicchi della zona rossa «più facilmente aggredibili». Dicono proprio così: aggredibili, come se il centro storico fosse diventato un nemico da combattere. Da aggredire, appunto. Andando in senso orario, partendo da ovest: zona Banca d’Italia-Belvedere; zona Lauretana; Santa Maria di Farfa; Porta Napoli est e Porta Napoli ovest.

Sulle mappe i confini sono già perimetrati. Si tratta di aree dove le case hanno in genere danni lievi (B-C, poche E), dove è possibile garantire l’allaccio di acqua, gas e luce e raggiungibili sia a piedi che con i mezzi. Luoghi dove è possibile riportare la vita e le persone. Quando? «Dal momento in cui si comincia servono tra i 60 e i 90 giorni». Ci sono anche i soldi, 2 miliardi e duecento milioni, gli unici stanziati finora. «Lo dico dal primo giorno, serve la tassa di scopo altrimenti i progetti sono solo parole» taglia corto Cialente.

Piano in nove mosse, si diceva. Le ultime tre riguardano altrettanti luoghi simbolo della città: piazza Duomo solo in parte recuperata; piazza Palazzo, dove era la sede del comune; piazza Repubblica, quella delle prefettura sulle cui macerie sono stati fotografati i grandi del mondo e relative first ladies. I simboli del potere religioso, civico e statale. Ma il sindaco vuole prima di tutto la gradinata di San Bernardino. Lo deve ai giovani. E al futuro di tutti.

Si vedano i video sul sito dell'Unità

Interventi liberi nelle case. con il rischio di danni e contenziosi. il governo vuole il boom edilizio a tutti i costi. ma ora persino architetti e costruttori lo bocciano

Nella migliore delle ipotesi è una presa in giro, nella peggiore è una catastrofe: l'ennesima deregulation edilizia varata d'urgenza dal governo tre giorni prima delle elezioni regionali è stata sommersa da un diluvio di critiche. Alle contestazioni degli ambientalisti (tutti), dei migliori urbanisti e dei più attenti politici dell'opposizione (pochi), si sono aggiunte le denunce, inattese e pesantissime, dei professionisti del mattone: per costruttori e immobiliaristi l'annunciata liberalizzazione rischia di rivelarsi "inutile come il piano casa", mentre per architetti e tecnici è comunque "un pericolo per la sicurezza". Sotto accusa c'è l'emendamento sull''attività edilizia libera', che da venerdì 26 marzo consente di modificare le case degli italiani senza alcun permesso o verifica pubblica e senza neppure un progetto firmato dall'ultimo dei geometri.

In un Paese dove più di metà dei cittadini vive in zone a rischio di frane, alluvioni, terremoti o eruzioni, l'esigenza di regole e controlli è sentita da tutti, subito dopo i disastri. Poi, seppelliti i morti, si ricomincia a costruire. Senza regole. Anzi, a unificare gli ultimi trent'anni di legislazione edilizia è un'ideologia turbo-liberista che ha come bandiera proprio l'assenza di controlli, descritti come ostacoli allo sviluppo.

L'emendamento-scandalo, inserito a sorpresa nel decreto-incentivi e firmato personalmente dal premier Berlusconi con i ministri Tremonti, Scajola e Calderoli, è entrato in vigore il giorno stesso della pubblicazione. Sotto lo slogan della 'semplificazione', prevede, in generale, che "gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo". Per i lavori interni alle abitazioni, ad esempio per abbattere una parete, il precedente testo unico del 2001 si accontentava della 'Dichiarazione di inizio attività' (Dia): si presentava un progetto, firmato da un tecnico responsabile e s'informava il Comune, che aveva pochi giorni per controllare e bloccare i fuorilegge. Di fatto, il caos delle competenze e il sovrapporsi di norme continuava a rendere ogni minimo intervento un'odissea senza confronti con alcun paese civile, almeno per gli italiani rispettosi delle regole. Di qui tante oneste richieste di uscire dalle trappole delle burocrazie edilizie, spesso corrotte. È da questo malessere reale che nasce la semplificazione targata 'casa Silvio'.

D'ora in poi 'l'interessato' a rifare un'abitazione, secondo l'equivoca formulazione dell'emendamento, non ha più bisogno di niente: né di un progetto né di un tecnico che si assuma la responsabilità. Per gli interventi 'straordinari', basta mandare una 'comunicazione' al Comune, anche per e-mail, limitandosi a indicare l'impresa che si 'intende' utilizzare. E per le 'opere di manutenzione ordinaria' non serve neanche quella: si chiamano i muratori e basta, senza dire più niente a nessuno.

"È una leggina irresponsabile nel vero senso della parola", denuncia Edoardo Zanchini di Legambiente: "Senza un progetto, non c'è più un responsabile tecnico. L'impresa edile è comunque svincolata, perché esegue gli ordini del proprietario. Il quale in teoria resta l'unico responsabile, ma normalmente non ha le competenze necessarie a stabilire, per esempio, se sta facendo abbattere una parete portante anziché un tramezzo. Mentre il Comune, senza la Dia, non sa più cosa succede e perde il potere d'intervento. L'abolizione di ogni regola crea gravissimi problemi di sicurezza soprattutto per chi vive in condomini a più piani: d'ora in poi ogni inquilino dovrà fidarsi non solo dell'onestà, ma anche delle capacità tecniche del vicino. L'unica certezza è un aumento delle liti, dei lavori in contrasto con le norme europee sul risparmio energetico e, in prospettiva, dei crolli e dei disastri impuniti".

"Totale contrarietà a ogni insensata deregolamentazione edilizia": anche il Consiglio nazionale degli architetti boccia con parole severe "una demagogica semplificazione amministrativa" che nasconde "un condono mascherato dell'abusivismo" e "induce gravissime conseguenze per la sicurezza del patrimonio edilizio". Sempre secondo gli architetti, "l'assenza di ogni controllo di professionisti abilitati determinerà la proliferazione di interventi di scarsa qualità tecnica, senza alcuna garanzia per l'utente e la collettività, in totale dispregio delle tutele per i lavoratori".

Zanchini misura così il salto berlusconiano dalla semplificazione al Far West: "Regioni come la Toscana autorizzano già ora perfino nuove costruzioni con la semplice Dia, ma in un quadro di regole precisissime e rigorose responsabilità tecniche. Con il decreto del governo, invece, la sicurezza è salva solo a parole. Nei fatti si chiama il proprietario ad autocertificare che non c'è pericolo. E lo si lascia libero di affidare i lavori anche alla ditta individuale ai margini della legalità, che magari subappalta in nero, o al muratore straniero con la partita Iva. E quando crollerà il palazzo, nessuna autorità saprà più dire chi debba risponderne". Insomma, più macerie per tutti: il precedente piano di 'semplificazione', del resto, sospendeva perfino le norme anti-sismiche e fu ritirato solo dopo il terremoto in Abruzzo.

Dall'altra parte della barricata, costruttori e immobiliaristi sono insoddisfatti per motivi opposti. L'obiettivo proclamato dal governo è lo stesso del piano casa: battere la crisi stimolando un nuovo boom edilizio. Ma i primi a non crederci sono i potenziali beneficiari. Non potendo abolire le Regioni o i terremoti, infatti, il decreto legge ha dovuto riconfermare che restano valide, almeno sulla carta, "le disposizioni regionali e comunali più restrittive" e tutte le "norme antisismiche, antincendio e di sicurezza". Se questo fosse vero (ma l'emendamento non è chiaro, per cui si annunciano interpretazioni elastiche, forzature e cause a valanga), l'obbligo di presentare un progetto tecnico controllabile dal Comune dovrebbe sparire solo in Sardegna e Friuli, dove le giunte di centrodestra avevano già abolito la Dia. Nelle altre 18 regioni, secondo 'Il Sole 24 Ore', l'applicazione è incerta o da escludere. Per cui, se davvero restano salve le regole più severe, la liberalizzazione si applica sicuramente solo dove è superflua e quindi inutile.

"Il decreto legge sulla deregolation in casa è destinato a finire nel nulla: la semplificazione è una storia già scritta, quella del piano casa", è l'eloquente commento di Corrado Sforza Fogliani, presidente di Confedilizia, che già teme un bis del grande programma berlusconiano annunciato il 6 marzo 2009. Il piano casa prometteva di rilanciare l'Italia con due colate di cemento: subito, aumenti di cubatura per i privati già proprietari; in futuro, migliaia di nuovi alloggi popolari da costruire con soldi pubblici. Al primo appello hanno risposto in pochi, come ricorda Italia Nostra, "grazie ai limiti imposti da Regioni e Comuni che hanno rifiutato di svendere i centri storici per fare cassa". Il piano casa è stato un flop perfino in Veneto, che con il governatore Giancarlo Galan aveva strappato a Liguria e Lombardia il record della cementificazione, con punte di oltre 50 milioni di metri cubi l'anno.

Per l'edilizia pubblica, il governo ha stanziato 377 milioni, che però attendono ancora i gestori dei fondi. Mentre la Corte Costituzionale, lo stesso 26 marzo, ha demolito quattro pilastri del piano belusconiano. Punto primo: cancellando un furbissimo 'anche', i giudici delle leggi hanno ristabilito che i soldi dello Stato si potranno spendere solo per dare alloggi ai poveri e ai bisognosi, e non 'anche' per progetti diversi. Secondo: le case popolari le faranno le Regioni. Terzo: basta "procedure d'emergenza" sul modello Bertolaso o appalti senza gara come per le "infrastrutture strategiche". Quarto: è incostituzionale per la seconda volta (il governo ci aveva già provato nel 2005) imporre la svendita di alloggi Iacp calando dall'alto "convenzioni con società private" o strane "semplificazioni".

Delusi dalle promesse, anche i piccoli e medi costruttori riuniti nell'Ance cominciano a sentirsi stretti fra due fuochi. In alto c'è una specie di cupola di big che bruciano miliardi con le grandi opere berlusconiane. E ora, con la deregulation, a scottare è anche la concorrenza dal basso delle micro-ditte pronte a tutto per spartirsi i lavori casalinghi. Mentre la Direzione nazionale antimafia, nell'ultimo dossier, denuncia che "l'edilizia resta in assoluto il settore più inquinato da imprese criminali".

In Italia, secondo l'Agenzia del territorio, nel 2009 le vendite di immobili sono crollate dell'11,3 per cento. Mentre la Cgil-Fillea registra centomila disoccupati in più e "almeno 300 mila lavoratori in nero". Con 27 morti nei cantieri solo tra primo gennaio e 19 marzo 2010: uno ogni tre giorni.

Gli economisti ricordano che la più grave recessione mondiale dal 1929 è stata causata da "un eccesso di credito all'edilizia", che troppe banche hanno pensato di coprire con un'overdose di finanza creativa. Ma allora perché il governo ripropone di curare la crisi con iniezioni 'omeopatiche' di cemento? Vezio De Lucia, uno dei maestri dell'urbanistica italiana, risponde così: "È una posizione ideologica, non economica. C'è un pensiero unico neoliberista che in Italia è dominante da trent'anni. Anche a sinistra pochi ricordano che l'autunno caldo del 1969 era nato dalle grandi manifestazioni per la casa degli operai emigrati al Nord. Tra gli anni '60 e '70 ministri come Sullo, Bucalossi e Mancini ebbero il coraggio di limitare l'oscenità della speculazioni immobiliari con leggi che favorirono l'edilizia pubblica, sancirono la separazione tra proprietà fondiaria e licenza di costruire, vincolarono i parchi ancor prima dei piani regolatori. La controriforma urbanistica è iniziata negli anni '80, con i primi accordi in deroga previsti della legge Signorile e con l'edilizia contrattata dai costruttori di Tangentopoli. Da allora anche nelle regioni rosse si è diffusa una generale sudditanza al neoliberismo della nuova destra: al buon governo del territorio, del verde e del paesaggio, alla cultura delle regole si sostituisce l'ideologia dell'assenza di controlli, del profitto privato come unico valore. E qualcuno si meraviglia ancora dell'ennesima deregulation berlusconiana? In Lombardia, in Veneto, in quasi tutto il Paese ha stravinto l'edilizia senza regole. In Italia l'urbanistica è morta".

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 12 marzo 2010, ha impugnato la l.r. Calabria, n. 5 del 2010, di attuazione dell'Intesa sancita in data 1° aprile 2009 (c.d. piano casa).

La legge regionale calabra presenta però una peculiarità: essa è non stata approvata dal Consiglio regionale – organo legislativo della Regione (art. 121, Cost.) – ma dal Presidente della Giunta regionale, quale commissario ad acta. Il Governo, infatti, visto il mancato recepimento dell’intesa del 1° marzo, ha fatto ricorso – per la prima volta, a quanto consta – ai poteri sostitutivi di cui all’art. 120, comma 2° Cost., incaricando il presidente della Regione a porre in essere “ogni idonea attività, anche di natura legislativa” per assicurare il recepimento del piano casa in Calabria. La vicenda risulta allarmante da diversi punti di vista, ma soprattutto se si ricorda che i poteri sostitutivi di cui all’art. 120 Cost., secondo la Corte costituzionale, si riferiscono “a emergenze istituzionali di particolare gravità, che comportano rischi di compromissione relativi ad interessi essenziali della Repubblica” (Corte cost. n. 43 del 2004).

In ogni caso, la l.r. cit. stabilisce che i principi e gli obbiettivi contenuti nell'intesa del 1° aprile “sono integralmente recepiti nell’ordinamento legislativo regionale” (art. 1, comma 1) e che la giunta regionale deve adottare, entro sessanta giorni, “ogni conseguente disciplina attuativa di natura regolamentare, nel rispètto degli obbiettivi individuati all'articolo precedente”.

Il Governo però non si è ritenuto soddisfatto e – oltre ad avere sollevato conflitto di attribuzione con il presidente della giunta regionale quale commissario ad acta per violazione dei principi di leale collaborazione – ha impugnato detta legge innanzi alla Corte costituzionale, in quanto, di fatto, produrrebbe un ulteriore “differimento dei termini per la concreta attuazione dell'intesa” (così il comunicato stampa del Dipartimento per gli affari regionali).

Il piano casa, in realtà, è un laboratorio di illegalità costituzionale.

Chiunque può riprendere questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it

A Brema, a differenza che a Roma o Milano, sanno che se togli le auto e non vuoi che la città si fermi devi offrire qualcosa in cambio. Tipo più mezzi pubblici, più piste ciclabili, più car sharing. Una politica a tre punte che nel 2008 ha fatto registrare, per la prima volta, un’inversione di tendenza: il numero delle macchine ha cominciato a diminuire (-1,6%) nonostante un lieve aumento della popolazione (+0,2%). Ma il vero vincitore, in questa guerra di spostamenti decimali, è stato il trasporto pubblico che ha segnato una crescita del 3,6%. È uno dei casi di eccellenza raccontati in La corsa della green economy. Come la rivoluzione verde sta cambiando il mondo di Antonio Cianciullo e Gianni Silvestrini (Edizioni Ambiente, 201 pag., 14 euro). Il libro, scritto dall’inviato di Repubblica assieme a un ricercatore del Cnr, fa una vasta rassegna internazionale di come la corsa all’innovazione ecologica sta cambiando sia i connotati delle città più avvertite che quelli di molte aziende. C’è l’ennesima conferma della civiltà scandinava, con il primato di Stoccolma dove una fermata di trasporto pubblico non è mai più lontana di trecento passi. Come se non bastasse, se il tram non passa entro venti minuti, il passeggero mancato ha diritto a prendere il taxi gratis. Quando si dice trattare il cittadino come un cliente. Oppure la scoperta del record di Friburgo, dove ci sono più biciclette che abitanti e sulle strade vige la regola dei terzi: un terzo alle bici, un terzo ai mezzi pubblici e un terzo alle auto. Qualità della vita a parte, la rassegna si occupa anche della qualità del capitalismo. L’americana Firstenergy, per dire, invece di investire 380 milioni di dollari in una centrale a carbone esistente ha preferito metterne 200 milioni su un impianto a biomassa. Tra il passato remoto e il futuro prossimo non ha avuto dubbi su dove puntare. Lo stesso non si può dire dell’Italia, con il suo discusso ritorno al nucleare.

«Una scommessa azzardata anche sul piano economico» la definisce Maurizio Ricci, giornalista di lungo corso a Repubblica, nel suo Atlante ragionato delle fonti di energia rinnovabili e non (Muzzio editore, 176 pag., 19 euro). Una serie di illuminanti reportage alle radici dell’energia. Da quello che rimane dei super-pozzi di petrolio, dall’Arabia Saudita allo Yucatan, a quello che sarà delle promesse più pubblicizzate, dall’idrogeno alle biomasse. «Da una parte ci sono gli alti costi» spiega Ricci, che ha visitato le centrali atomiche più moderne del mondo, «dall’altra resta il fattore sicurezza. Il rischio che qualcosa vada storto è basso ma in quel caso i danni sarebbero altissimi e, per definizione, mondiali, che non si fermano alle frontiere. Tantopiù che non esiste ancora un vero organismo di controllo internazionale: perché l’Aiea intervenga deve essere invitata da un governo». Alternative verosimili, non buone solo per il libro dei sogni del buon ecologista? «Intanto bisogna puntare sull’efficacia della rete. Perché è vero che né il sole né il vento, in un determinato luogo, ci sono sempre ma è anche vero che da qualche altra parte, in quel momento, splenderà e soffierà. Il trucco, quindi, è fare una rete abbastanza vasta e intelligente per prendere l’energia da dov’è e distribuirla dove serve, in un flusso il più possibile costante. È quello, ad esempio, che fa il progetto Desertec che vuole far arrivare l’energia prodotta in Africa in Europa». Se c’è una cosa che non lo convince, tra le applicazione rinnovabili più reclamizzate, è l’auto a idrogeno. «Perché prendere elettricità per creare idrogeno da cui estrarre elettricità?», si chiede uno degli esperti che ha intervistato. «Con 100 chilowattora di elettricità un’auto elettrica fa 120 chilometri, una a idrogeno 40». Insomma, meglio evitare giri inutili per costosissime fuel cells e attaccarsi direttamente alla corrente.

Nel frattempo i Paesi più orientati al futuro preparano ambiziosi cambi di guardia. Entro dieci anni, ora è il libro di Cianciullo la fonte, le fonti rinnovabili in Germania supereranno il settore automobilistico quanto a fatturato. E nel mondo gli impianti eolici creati nel 2009 hanno prodotto più energia delle centrali atomiche installate negli ultimi cinque anni. Risultati che non arrivano per caso. Nei pacchetti di stimolo per rivitalizzare l’economia c’è chi ha preso la quota verde sul serio e chi no. In Cina hanno investito il 37,8% in quel settore. In Germania il 13,2. In Italia l’1,3. Se ci impegniamo un decimo, poi non possiamo pretendere chissà che.

Varato, colpito e (quasi) affondato. E’ cominciata sotto i peggiori auspici la navigazione del decreto sulle cosiddette liberalizzazioni edilizie, fraseologia elegante che in sostanza vuol dire: possibilità di ristrutturare casa senza dire niente a nessuno, senza alcuna autorizzazione preventiva delle autorità pubbliche (la famosa Dia, Dichiarazione inizio attività) e, cosa peggiore e preoccupante, senza l’ausilio di alcun progettista professionista, architetto, ingegnere o geometra che sia. Con tutto ciò che ne consegue in termini soprattutto di sicurezza non solo per il proprietario dell’immobile, tentato magari di picconare per ignoranza perfino i muri maestri. Ma anche per i vicini. In pratica una specie di finto piano casa o, peggio, un pericoloso condono edilizio mascherato e preventivo, l’ennesimo in un paese malato di furbizia edile e sfregiato dall’abusivismo.

LA NORMA.

La norma era stata varata in tutta fretta dal Consiglio dei ministri il giorno successivo alla clamorosa protesta del Comitato di presidenza dell’Ance (Associazione dei costruttori della Confindustria) composto dai rappresentanti delle associazioni territoriali dei 100 capoluoghi italiani. Il decreto era stato elaborato dal ministero dell’Economia di Giulio Tremonti con un intento elettorale duplice, non dichiarato, ma evidente: strizzare furbescamente l’occhiolino ai proprietari di case desiderosi di rimettere alla chetichella le mani sulle mura domestiche e nello stesso tempo far balenare a pochi giorni dal voto regionale l’occasione di lavori per una categoria di 34 mila imprese stremata dalla crisi e imbufalita. Invece di accattivarsi le simpatie di proprie-tari e costruttori, a cose fatte quel testo rischia di essere un boomerang per il governo perché non accontenta nessuno e non risolve niente. Non accontenta soprattutto i costruttori che si sentono addirittura presi in giro. I 100 dirigenti dell’Ance avevano chiesto a Berlusconi roba seria: lo sblocco del piano casa preparato dall’esecutivo un anno fa e poi abbandonato al suo destino senza l’ausilio di quel decreto di semplificazione che avrebbe dovuto essere un viatico per la partenza. E poi la ripresa del programma di piccole e medie opere immediatamente cantierabili e infine l’avvio del piano per l’edilizia scolastica e carceraria. Il governo ha risposto con un decretino che riguarda gli interventi edilizi minimi, alla portata di aziendine artigiane e anche più piccole, magari sprovviste perfino del Durc, documento unico di regolarità contributiva non previsto come obbligatorio dal testo governativo.

I DUBBI.

Quella norma, inoltre, è di incerta applicazione. Vale solo in quelle regioni in cui non sia in vigore una normativa di diverso orientamento in materia, per esempio per quanto riguarda l’obbligo della Dia. Sono solo 2 le regioni italiane che si trovano in queste condizioni: il Friuli e la Sardegna. Ma dal momento che lì hanno già escluso l’obbligo della Dia, il decreto del governo è del tutto inutile anche per loro. Un clamoroso flop. E infatti i costruttori dell’Ance sono tutt’altro che soddisfatti. Il presidente del Veneto, Stefano Pellicciari, per esempio, ha confermato la protesta di piazza dei suoi associati subito dopo Pasqua per ribadire tra l’altro al governo la richiesta di un finanziamento straordinario sull’invenduto, cioè su quelle case costruite a iosa soprattutto nel nordest che nessuno compra causa crisi e che ora pesano come un macigno finanziario sul groppone dei costruttori.

GLI ARCHITETTI.

Sul fronte dei contrari ci sono, infine, i professionisti del settore edile completamente ignorati dalla norma e presi in giro. Nella fase di elaborazione del testo i rappresentanti del Consiglio degli architetti avevano raccomandato che fosse previsto l’obbligo di un progetto da parte di un tecnico per scongiurare interventi pericolosi e il rispetto delle norme antisismiche, sanitarie e paesaggistiche. Nonostante le assicurazioni verbali, quell’obbligo, però nel testo finale non c’è. Ieri sono tornati alla carica gli architetti di Roma che annunciano un’azione di pressione sul governo per cambiare il decreto: “Vorremmo che la politica si ricordasse che esiste in Italia un mondo delle professioni portatore di valori e competenze utili per il bene di tutti”.

Nelle cassette della posta del Piano C.A.S.E. all’Aquila è comparso questo volantino. Che è uno degli esempi di come si faccia comunicazione-shock in un’area emergenziale. Le 17mila persone che hanno avuto gli appartamenti del piano C.A.S.E. ricevono in prima persona la campagna elettorale del premier e del suo PdL. Una campagna personalizzata e impietosa, che specula, una volta di più, sulla facciata positiva e buona del Governo del Fare. Ricordiamo ancora una volta cosa significhi, all’Aquila, "aver fatto".

Punto primo. “Fare”, durante un’emergenza, è un dovere, non un favore. Le case del Progetto C.A.S.E., imposte dall’alto con decreto, pensate pochi giorni dopo il terremoto e formalizzate il 28 aprile 2009, sono in comodato d’uso; sono costate più o meno 2700 euro al metro quadro; sono state costruite in deroga a vincoli urbanistici e leggi sugli appalti; sono temporanee nell’assegnazione agli sfollati ma permanenti quanto a consumo del territorio; sono state gestite e costruite secondo la logica dell’emergenza e dell’urgenza e dell’indifferibilità dei lavori proprie della Protezione Civile; hanno visto – come relazionano i Servizi Segreti in parlamento il primo marzo, come scrivono su Terra, come sosteneva da mesi il giornalista di Libera Angelo Venti su Site.it - il forte interesse delle ditte mafiose o con rapporti con la mafia; sono state sbandierate ai quattro venti, con numeri falsati e gonfiati; nascono come “non luoghi”, in quanto non integrati nel tessuto sociale, economico e paesaggistico; 4 siti su 19 scaricano (o perlomeno hanno scaricato per mesi) le acque scure nel fiume Aterno; genereranno all’Aquila un sovradimensionamento abitativo di circa 4500 appartamenti. Il tutto in una città di settantamila abitanti. Un vero e proprio patrimonio da gestire e a rischio fallimento.

Ma nel frattempo, le case del progetto C.A.S.E. vengono anche utilizzate per la facciata governativa: fuori dall’Aquila, per mostrare quanto sia forte questo governo del fare. Dentro l’Aquila, vengono usate per riscattare il “dovuto” ringraziamento da parte di chi ha avuto le C.A.S.E. Con il voto. Esattamente come Denis Verdini, coordinatore del PdL indagato per l’inchiesta sul sistema gelatinoso, chiedeva il ringraziamento degli Aquilani in piazza alla manifestazione del PdL. Il confronto, poi, con l’Umbria e le Marche del 1997, è ridicolo e continua a non tener conto del fatto che con minor tempi e minor costi si poteva dare alle persone una sistemazione provvisoria che le rendesse attive per la propria ricostruzione. Senza usare i container del 1997, ma utilizzando Moduli Abitativi Rimovibili.

Infine. In Umbria i Sindaci e gli enti locali e i cittadini sono stati i veri protagonisti della ricostruzione. Per ricostruire, in sicurezza, com’era e dov’era. Con il volantino, cala il sipario: è l’ultimo atto dell’operazione mediatica sull’Abruzzo, è un volantino che ha il sapore della propaganda a ogni costo, anche sulle vite altrui. E forse anche della beffa, per gli sfollati che sono strumento e oggetto di pubblicità.

Passeggiando sul lungomare li riconosci subito: i terremotati (brutto termine: ma ormai è entrato nel nostro vocabolario) hanno qualcosa di diverso dai residenti, e dai primi villeggianti. Roseto degli Abruzzi è una bella cittadina turistica: in questi giorni, poi, l’Adriatico, è azzurro come i mari lontani che vediamo sui poster delle agenzie di viaggi. Anche gli alberghi dove gli sfollati hanno trovato rifugio sono tutti di buona o eccellente qualità: tre stelle, quattro stelle. Ma sui volti dei terremotati sono impresse domande insistenti: quando tornerò? Ritroverò un lavoro? Che futuro avranno i nostri figli? Si coglie un sentimento di inquietudine: che il provvisorio diventi definitivo.

Nel 1981 un collega inglese, a un anno esatto dal terremoto dell’Irpinia, scrisse: «Voi italiani avete un maledetto gusto per le ricorrenze», ed è vero. Ma aiuta a ricordare. E a far sapere che, dodici mesi dopo quella scossa del 6 aprile che devastò l’Abruzzo, 5.336 persone sono ancora negli alberghi; altre 1.070 sono sempre sulla costa, ma in appartamenti privati; 926 sono sistemate in due caserme. In totale, 7.332 persone che non hanno ancora riavuto la loro casa, e non hanno neppure avuto una casa di legno. Bisognerebbe aggiungerne altre quindicimila che hanno trovato ospitalità da parenti o amici, qualcuno in roulotte.

Non è che il governo non abbia fatto nulla, anzi. La ricostruzione è molto indietro, ma quanto a sistemazione dei senza tetto, è stato fatto molto più che in passato. È che il terremoto è una cosa terribile che ai nostri occhi resta terribile solo quando sulle macerie sono accesi i riflettori: spenti quelli, ci dimentichiamo. Alla gente colpita il futuro genera incertezza, il passato paura.

Ci racconta Arnaldo Centi, un pensionato che incontriamo sulla passeggiata: «Quella notte? Ricordo il tremare, la luce che va via subito. Ho chiamato i figli che dormivano, il terrore che non fossero vivi, l’intonaco del soffitto caduto sul viso. Sono vivo, e mi considero fortunato. Uno del mio paese è scampato al crollo, ma il giorno dopo è morto di infarto. La paura è tremenda».

All’hotel Marechiaro ci accolgono con sospetto: il proprietario ci spiega che è stata qua una troupe della tv, è rimasta sua ospite per alcuni giorni, ha intervistato tutti gli sfollati e poi ha mandato in onda solo le dichiarazioni di chi si lamentava. «Uno schifo - dice Giovanni Speranza, 56 anni, uno degli ospiti dell’albergo - quella trasmissione è stata uno schifo. Qui l’accoglienza è ottima, più del dovuto. Non sono di nessun partito, ma secondo me questo governo non ci ha fatto mancare niente. Chi dice il contrario è un bugiardo, sono quelli che vorrebbero avere sempre tutto gratis. Io mi sono sentito trattato bene, non posso pretendere di più. La mia casa dell’Aquila ha lesioni non gravissime e non avevo diritto alla nuova abitazione antisismica: ma mia figlia, che è sposata, l’ha avuta. Settantacinque metri quadrati, si sta bene. Per me Bertolaso è un grande uomo e Berlusconi si è comportato da signore: quello che ha promesso, l’ha fatto».

È lo Stato che paga gli alberghi: «Con calma, ma paga», dice il proprietario dell’hotel Palmarosa: «Ho avuto qui fino a 180 persone, adesso molte di meno. Sono rimasti soprattutto gli anziani». Quelli che lavorano devono fare i pendolari con L’Aquila: è un disagio, ma per loro l’autostrada è gratis. «Stiamo bene, non paghiamo nulla», dice Pasquale Nardecchia, 86 anni: ci racconta che correva in bicicletta con Coppi, Olmo e Fantini.Lo Stato paga l’albergo anche alla sua badante, che è rumena e alle difficoltà è abituata. Si chiama Viorica Chivu, è parente del calciatore dell’Inter che ha avuto un brutto infortunio: ci chiede se sappiamo come sta, sembra più preoccupata per lui che per lei.

Sono qui tutti da aprile, maggio dell’anno scorso. Il rischio è quello di lasciarsi andare. Stare in albergo è comodo e confortevole, non bisogna preoccuparsi di nulla, ma la noia è sempre in agguato. Riconosci quelli che non reagiscono anche da come sono vestiti: se resti in tuta tutto il giorno è un brutto segno, passi la giornata davanti alla tv.

«Sì, bisogna stare attenti a non morire dentro», dice Manfredo Nanni, pensionato, ospite all’hotel Marechiaro. «Ne ho approfittato per realizzare un mio vecchio desiderio e ho scritto un romanzo. E poi sono istruttore di fuoristrada, qui a Roseto c’è un club, ho potuto tenere dei corsi». È uno di quelli - e dobbiamo dire che sono la maggioranza - che non si lamentano: «Mi hanno sempre trattato bene, non solo nell’albergo ma in tutta Roseto: abbiamo trovato grande solidarietà, ci incoraggiano, nei negozi ci fanno lo sconto. I disagi? Certo che ci sono ma non si può dare la colpa al governo. C’è stato un terremoto! Vorrei vedere quelli di Haiti se sono stati trattati come noi».

Ci sono certamente anche colpe dell’uomo: ma vanno ricercate nel passato. Manfredo Nanni assume le sue: «Sono un architetto ed ero direttore tecnico dell’Ater, l’istituto delle case popolari dell’Aquila. Devo dire che anche noi tecnici non abbiamo pensato al terremoto per troppi anni. Rispettavamo le normative, certo, ma non erano adeguate al rischio di un sisma. E sa perché? Perché il 1915, l’anno del terremoto di Avezzano, era lontano. E il terremoto dell’Aquila del 1703 ancora più lontano. E quello del 1463 ancora di più. È questa abitudine a dimenticare che ci ha rovinati. Adesso non dobbiamo perdere la memoria».

L’Aquila da qui sembra ancora molto lontana. Più che nello spazio, nel tempo: chissà quando tornerà a essere una città. Il rischio di perdere la memoria riguarda tutti noi. «Noi - scrisse Enzo Biagi tornando dal Belice - che abbiamo il problema del parcheggio o di come riempire il tempo libero, non possiamo continuare a ignorare la delusione e la rabbia di chi ha il problema di vivere». (3 - continua)

Ritorno a L'Aquila, città fantasma che fatica a trovare il suo domani

Michele Brambilla – La Stampa, 21 marzo 2010

Ci siamo dimenticati dell’Aquila, o almeno abbiamo pensato che da quelle parti le cose andassero, se non bene, molto meglio. Abbiamo visto in tv la consegna delle casette antisismiche, la gente sorridente, abbiamo sentito la canzone che dice domani è già qui, e di nuovo la vita sembra fatta per te. Così ci siamo distratti. Ma L’Aquila è una città fantasma, e il domani chissà quando arriverà.

Il centro – che sono 170 ettari, e che di fatto è tutta L’Aquila: il resto sono 63 frazioni sparse qua e là – è morto. Non c’è una sola casa abitata. Quelle poche rimaste agibili non possono riaprire perché mancano i servizi – l’acqua, il gas – e perché c’è sempre il rischio che crolli qualche edificio accanto. Quattro milioni di tonnellate di macerie attendono di essere portate via. Si lavora, non è che non si lavori: ma gli operai, i vigili del fuoco e l’esercito sono ancora impegnati nella prima emergenza: puntellare, mettere in sicurezza.

Anche i negozi e gli uffici sono tutti chiusi. I commercianti hanno affisso agli ingressi maliconici cartelli. I più fortunati hanno scritto: «Ci siamo trasferiti a»; altri sono fatalisti: «Speriamo di rivederci presto». Dei tanti ristoranti, nessuno è aperto. La sera andiamo fuori città, in un posto che si chiama «La cascina del viaggiatore». Era un bell’edificio antico: deve essere abbattutto e ricostruito da zero. Il proprietario ha messo su, lì a fianco, un capannone prefabbricato per non fermarsi: «Ho speso centomila euro – ci spiega – e quando ricostruirò l’edificio originario avrò al massimo un contributo di ottantamila euro. Non solo: sarò costretto a demolire questo capannone». Anche gli alberghi sono tutti chiusi, eccetto uno che è di nuova costruzione e che è stato ulteriormente messo a posto per il G8. E lì che stiamo, con un gruppo di sfollati.

Scene ordinarie di un post-terremoto, si dirà. Ma non è così. Ci sono stati altri terremoti – il Friuli e l’Irpinia, ad esempio – che hanno fatto dieci volte i morti che ha fatto questo di un anno fa in Abruzzo; ma avevano colpito tanti piccoli o piccolissimi comuni. Questa volta è stato spazzato via un capoluogo di regione, con 70 mila residenti più 28 mila studenti. Per questo la ricostruzione qui sarà molto, molto più lunga e difficile. Questa volta sono stati distrutti perfino i centri del comando, quelli della prima assistenza e della normale amministrazione: la prefettura, la sede della regione e della provincia, le caserme, gli ospedali, le scuole. Una regione intera si è trovata all’improvviso senza testa.

E se i morti sono stati solo 308 – Iddio ci perdoni quel «solo» – è stato anche perché nella tragedia c’è stata una fortuna. Ci dice il prefetto Franco Gabrielli: «Lei pensi se non fosse successo la settimana santa, cioè quando quasi tutti gli studenti se n’erano già andati da L’Aquila per le vacanze. Oppure se fosse successo in quella settimana ma di giorno, con le chiese piene». Anche Stefania Pezzopane, la presidente della Provincia la cui foto con Obama ha fatto il giro del mondo, non riesce a togliersi il pensiero di che cosa sarebbe successo se la scossa, anziché alle 3,32 della notte del 6 aprile, fosse arrivata di giorno: «Penso agli uffici del centro, tutti pieni di gente al lavoro. Penso a mia figlia, che sarebbe stata a lezione alla scuola De Amicis, che è crollata». Di quella notte ha un ricordo che non cancellerà: «Abbiamo viste le crepe aprirsi nelle mura e siamo scesi giù, io mio marito e mia figlia, insieme con altre centomila persone».

Senza tetto sono rimasti in 67 mila. Per ridare loro rapidamente una casa – e una casa dignitosa, non un container – è stato fatto uno sforzo obiettivamente senza precedenti. Nelle C.A.S.E., che vuol dire Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili, e che sono più note come «le case di Berlusconi», abitano oggi 13.408 persone. Nei M.A.P. (Moduli abitativi provvisori: sono le casette di legno donate dalla Croce Rossa e montate dalla protezione civile di Trento) ce ne stanno altre 4.295. Negli alberghi sulla costa e in altre strutture (caserme) ci sono tuttora 7.332 persone. Poi ce ne sono 15 mila che hanno trovato ospitalità da parenti o amici, in casa o in roulotte. Fate un po’ di conti e vedete che, su 67 mila, solo 27 mila sono già tornati nelle loro case. E’ diventata familiare una nuova classifica: edificio A vuol dire piccoli danni; B e C danni seri con inagibilità temporanea; le case segnate con la E hanno danni strutturali e devono essere abbattute; le case F hanno una «inagibilità indotta»: vuol dire che potrebbero essere abitate ma stanno vicino ad altri edifici a rischio crollo (come dicevamo, è un caso frequente nel centro storico). C’era anche la D, ma segnava i giudizi sospesi: non ce ne sono più.

Nel centro storico è scoppiata la protesta. Prima quella del popolo delle chiavi, che voleva la riapertura della zona rossa. Poi quella del popolo delle carriole, che ha cominciato sua sponte a rimuovere le macerie. Ci si lamenta perché la ricostruzione è ferma. E’ un disagio profondo e reale: ma quanto diffuso? «Siamo passati da qualche migliaio ai 700 rilevati l’ultima volta dalla questura», dice il prefetto Gabrielli. Ma non è questione di numeri: «E’ che come al solito l’Italia si divide in due curve di ultras, c’è chi dice che è stato fatto tutto e chi dice che non è stato fatto niente. Io rivendico il diritto a una via di mezzo e dico: molto è stato fatto, moltissimo resta da fare». Non bisogna snobbare la protesta, dice il prefetto, ma bisogna anche riconoscere che «è stato fatto uno sforzo eccezionale per sistemare al più presto i senza casa». Ma non solo quelli: «E i 1600 ragazzi che sono stati rimessi a scuola entro il 5 ottobre, con la realizzazione di 32 strutture prefabbricate e la messa in sicurezza di 59 edifici lesionati? I signori delle carriole non dicono nulla su questo? Oggi le scuole dell’Aquilano sono fra le più a norma d’Italia: lo sa che prima del terremoto molte non avevano neanche l’impianto elettrico in regola? Anzi, lo sa che molte scuole non risultavano neppure al Catasto? Si vuol far credere che qui, prima del 6 aprile 2009, fosse tutto un paradiso. La verità è che questa zona non deve ri-partire: deve partire, perché per molte cose era già ferma».

Per Gabrielli ci vorranno cinque anni per avere «un ritorno significativo di vita nel centro». Il problema delle macerie è di difficile soluzione perché «non è materiale che si possa tirare su con il caterpillar: c’è di tutto, amianto compreso». Ci sono anche pietre che non possono essere buttate: «L’Aquila è, con Arezzo, la città più vincolata d’Italia; e il quinto centro d’arte del Paese». La ricostruzione deve far marciare insieme il rispetto di questa storia con le norme antisismiche. Ma c’è un’altra ricostruzione ancora più urgente. Il terremoto ha ammazzato un’economia che già aveva qualche problema. Un dato: nel bimestre maggio-giugno del 2008 in provincia dell’Aquila le ore di cassa integrazione furono 800 mila. Nello stesso bimestre maggio-giugno del 2009, cioè subito dopo il terremoto, sono diventate sette milioni e mezzo. E i commercianti, gli artigiani, le partite Iva non hanno neppure la cassa integrazione. Anche per questo, non solo per le macerie, L’Aquila è in ginocchio.

[ 1-continua]

Ritornare a casa: Il fragile sogno degli eterni sfollati

Michele Brambilla – La Stampa, 22 marzo 2010

Mentre stiamo per suonare ai campanelli delle casette antisismiche dove vivono gli sfollati, ci viene in mente una battuta di Eugenio Montale: «Sarei contento se istituissero l’undicesimo comandamento: non seccare il prossimo». Con quale faccia andiamo a chiedere a un terremotato come sta? Eppure gli aquilani confermano nei fatti ciò che si dice di loro: gente fiera e gentile, sa soffrire con dignità e non mette alla porta nessuno.

La signora Marilena Ascaride vive con il marito e i due figli di 13 e 9 anni nell’appartamento numero 7 di Coppito 2. Racconta la sua storia: «Abitavamo qui vicino, nel complesso il Moro delle case Ater, che sono le case popolari dell’Aquila. Era una bella casa, pagavo 500 euro al mese di affitto. Adesso è catalogata con la lettera E: vuol dire che è una delle più danneggiate. Ci hanno mandati in albergo a Tortoreto, i miei genitori sono ancora lì. Noi dal 29 gennaio siamo qui. Com’è? La tv fa vedere che è tutto a posto e tutto bello, ma qui non è bello niente».

Come quasi tutti gli aquilani passa subito al tu: «Che cosa ti devo dire? Qui non pago nulla, ma non si sa fino a quando. Ci sono ancora scosse, quasi tutti i giorni: si sentono tanto perché la casa è fatta apposta per oscillare e non crollare. Per carità di Dio: ho due bagni, gli arredi sono più che dignitosi, c’è perfino il videocitofono. Ma non sono a casa mia. Vedi, il governo e la tv hanno dato un’immagine di efficienza e di rapidità. Ma la gente non la percepisce così. Forse hanno voluto fare troppo in fretta, forse era meglio darci una sistemazione più economica e provvisoria e cominciare a ricostruire le case danneggiate. Chi abitava in centro dovrà restare qui almeno dieci anni». Le chiediamo come campa: «I miei figli vanno a scuola all’Aquila. Io faccio la parrucchiera e avevo un negozio in centro: distrutto. Adesso ho riaperto a Pettino. La gente viene a rifarsi i capelli? Sì, un po’ di vita sta riprendendo. Ma la sicurezza dello stipendio non te la dà più nessuno».

Coppito è una frazione dell’Aquila. C’è un piccolo centro storico. A un paio di chilometri il governo ha realizzato Coppito 2 e Coppito 3, e subito si è ironizzato: «Berlusconi torna agli inizi, quando fece Milano 2 e Milano 3». Siccome in Italia ormai su ogni questione si ragiona per schieramenti, c’è chi ha esaltato queste C.A.S.E. (complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili) come un miracolo di san Silvio e chi l’ha buttata in burletta, parlando di casette di Biancaneve e di piazzata propagandistica. A vederle, dentro e fuori, a noi vien da dire semplicemente questo: sono case certamente fatte in fretta e di incerta resistenza nel tempo, ma sicuramente sono infinitamente meglio dei container, delle casette di legno e di tutte le altre sistemazioni solitamente adottate per un dopo terremoto. Sono palazzine di due piani, costruite su piastre sorrette da piloni, diciamo così, «elastici»: come palaffitte insomma, e gli esperti assicurano che resisteranno a qualsiasi scossa. Costruite in diciannove aree diverse, hanno garantito a 13.408 persone di passare un inverno al caldo e senza paure.

Non tutti hanno condiviso: c’è chi pensa che la costruzione di queste case, e la loro consegna-lampo, abbiano portato via troppo tempo e troppe risorse, così da rinviare una ricostruzione che poteva essere già avviata: «Forse si potevano consegnare alloggi più provvisori, forse con più casette di legno e meno case in muratura si poteva velocizzare l’intervento nei centri storici. Ma penso che non si potesse fare altrimenti: dare un tetto è stata considerata un’emergenza prioritaria rispetto alla rimozione delle macerie. E poi queste C.A.S.E. resteranno nel patrimonio del territorio», dice la presidente della provincia Stefania Pezzopane, del Pd. Il disagio non è dovuto alla qualità delle case, che è più che buona, ma ad altro: «L’Aquilano – dice ancora Stefania Pezzopane – ha la caratteristica di essere una terra antica con un forte radicamento della popolazione. Nel momento in cui il terremoto espelle la gente dal territorio in cui vive, si creano problemi di identità. La gente vive accanto a persone che non conosce, si sente sradicata».

«Ringraziando Iddio non ci possiamo lamentare»: è la frase ricorrente fra gli abitanti delle C.A.S.E. Distinguono il dolore dalla lamentela. Soffrono per essere sradicati, ma sono consapevoli che ad altri è andata peggio. «Io sono di centro sinistra – ci dice un pensionato che chiede di non pubblicare il nome – ma devo riconoscere che il governo ha agito meglio di quanto sia stato fatto in passato, con altri terremoti. Poi però ha rallentato. L’impressione è che Berlusconi abbia agito da imprenditore: ha fatto tanto e subito, poi ha un po’ tralasciato».

La nuova casa di Maddalena Colaianni, a Coppito 2, dentro è ancora più bella della prima che abbiamo visto. Per dire: parquet e soffitto in legno. Due stanze: ci vivono quattro persone. Lei, suo fratello e i suoi genitori. Papà è molto malato: «E tremo al pensiero di dover chiamare un’ambulanza di notte: qua attorno non hanno ancora asfaltato. Ringraziando Iddio stiamo bene, però… Per carità, noi ringraziamo il governo. Ma vogliamo tornare a casa. Abbiamo l’impressione che i lavori siano fermi». Sono arrivati qui in un giorno speciale: era il 25 dicembre.

Non ci hanno detto quanto dobbiamo restare. Sappiamo che almeno per diciotto mesi non dobbiamo pagare l’affitto. Le bollette invece sì, ed è giusto». Racconta che nemmeno una tragedia collettiva come un terremoto ferma i disonesti e gli approfittatori: «C’è gente che si è fatta dare la casa e ha cercato di subaffittarla perché aveva un’altra sistemazione propria. Per fortuna li hanno beccati». Brutte storie di una guerra fra poveri. «E’ stato – ci dice Maddalena – un periodo triste».

A poche decine di metri ci sono, ricostruiti a tempo di record, due edifici importanti. Uno è la Curia: la notte del 6 aprile anche il vescovo era rimasto senza tetto. L’altro è un edificio diventato simbolo non solo della tragedia, ma anche dello scandalo delle costruzioni sciagurate: la casa dello studente. L’hanno ricostruita in novanta giorni. Si chiama Residenza Universitaria San Carlo Borromeo perché viene dalla regione Lombardia. Ha 120 posti letto, stanze doppie con bagno, sale studio, pannelli solari e ovviamente è antisismica. Sembra un residence di montagna, in legno chiaro. «E’ stato fatto davvero un lavoro eccellente», dice la signora che gestisce, Roberta Carvelli. E ci pare vero. Questa resterà: non è una soluzione provvisoria. Come invece lo sono le «case di Berlusconi», che probabilmente rimarranno alla storia come il miglior intervento di un governo italiano per far fronte a un’emergenza. Ma la gente che ci vive ha un solo pensiero: tornare a casa. Ci vorrà, crediamo, molto tempo.

(2 – continua)

Paradosso l’Aquila: «Puntellati anche edifici che saranno demoliti»

Jolanda Bufalini – l’Unità, 22 marzo 2010

Il presidente commissario Chiodi alla testa delle carriole è sembrato veramente troppo ai cariolanti che hanno dato vita alla protesta delle macerie, «Non ci piace essere strumentalizzati», dice Giusi Pittari, docente universitaria. L’Aquila, ore 9 e 30, quarta domenica di protesta e di lavoro. Quinta, se si conta la mattina in cui gli sfollati hanno appeso le chiavi delle loro case alle transenne che delimitano la zona rossa. Scope, pale e carriole ma a piazza Duomo sono ancora pochi i “lillipuziani” che hanno deciso di riappropiarsi della città con i loro mezzi antichi e poveri. È presto e, soprattutto, nella confusione del movimento spontaneo, molti erano al Castello, all’altro limite del centro storico: anche dal Castello gli aquilano sono entrati nella zona rossa, per portare nelle loro piazze, insieme ai bambini, fiori e palloncini colorati. Gianni Chiodi invita ad andare nella prima piazza liberata con l’aiuto di esercito e vigili del fuoco. Si forma il corteo ma decide di svoltare a destra, nel cuore più devastato della città: piazza dei nove martiri. È in condizioni disperanti, non ci sono solo macerie, da spalare c’è tanta immondizia e plastica abbandonata. Pranzo in piazza e “spazi aperti”: circa 400 persone si sono divise in dieci gruppi di lavoro.

È la tecnica della “Semi open space technology” per cercare di garantire al movimento partecipazione e capacità di decisione. Non si passa nei vicoli ingombrati dai puntelli e non si entra nei palazzi puntellati fitti fitti. Dentro, imprigionati, rimangono gli oggetti da recuperare, le macerie lasciate lì dalle ditte di demolizione o quelle causate dai crolli. Ci ha fatto i conti Claudio Persio, funzionario dell’università al patrimonio, che da mesi recupera al rettorato, nella facoltà di lettere, in quella di medicina interna a San Sisto, archivi e libri, computer e oggetti. «La vita delle persone è nelle carte», pensa Persio. E con le carte recuperate, per esempio, si è potuta ricostruire la carriera del personale docente e non docente che doveva andare in pensione. Però ci sono posti dove non si riesce a passare «e io, che sono un montanaro del soccorso alpino, ti assicuro che mi muovo bene». Ci ha fatto i conti anche Giuseppe Sordini, restauratore, quando è entrato a palazzo Dragonetti per cercare di recuperare dei mobili su incarico della famiglia.

Quelle prigioni di ferro sono molto costose: il prezzo si calcola a 28-30 euro a nodo e i nodi sono moltissimi, lungo le facciate dei grandi edifici. Ma non sempre sono utili, perché, spiega Antonio Gasbarrini, «hanno puntellato pure edifici da demolire» e possono anche essere «pericolosi- ragiona Alberto Aleandri, imprenditore - perché possono rovinare lo stabile, se sono messi senza criterio». Ci sono paesi, racconta Mauro Zaffiri, «dove si puntellano anche le baracche, perché i sindaci non si assumono la responsabilità di demolire. Ma arrivi al paradosso di puntellare una stalla che vale 5000 euro mentre la puntellatura ne costa 20.000» «Hanno fatto - spiega l’architetto Antonio Perrotti - grandi operazioni specifiche settorializzate: il progetto CASE, le demolizioni, i puntellamenti. Invece, nella ricostruzione si dovrebbe operare in modo congiunto, come è stato fatto in Umbria: liberi il fabbricato dalle macerie all’esterno poi puntelli per poter entrare, valuti la situazione..». E invece? «Invece tutti i sindaci prendono ditte a chiamata diretta, pagano a consuntivo, i controlli sono superficiali, manca il coordinamento tecnico e il progetto lo fa la ditta». Il risultato? «Ci sono troppi nodi e troppi tubi, sono puntellamenti sovradimensionati e, alla fine, temo che costeranno più del progetto CASE».

E anche spuntellare sarà difficoltoso e questa «è un’arma di ricatto che hanno le ditte verso le amministrazioni, poiché la ditta che li ha messi sarà l’unica a sapere dove metter le mani». Le tirantaure, spiega Perotti, «sono messe spesso in modo opinabile e non definitivo, perché è chiaro che se una catena passa attraverso porte e finestre dovrà essere tolta, mentre poteva essere sistemata lungo i muri di spina in modo da poterla lasciare anche dopo». Perotti ha lavorato a San Demetrio nella commissione allargata sulle demolizioni: «Facevamo una valutazione dello stato di consistenza e poi si procedeva a una demolizione mirata. Ora non c’è nessuna valutazione, si appalta tutto a esterni, non c’è una verifica di costi- benefici». Un anno è andato perso per il centro storico dell’Aquila. e anche per gli altri piccoli centri, dalla storia millenaria che fanno da corolla al nucleo principale, da Paganica a Tempera, a Camarda, Pile e tanti altri. Solo dalprimo febbraio si è costituita l’unità di missione che dovrebbe guidare la ricostruzione. Costituita però, solo formalmente, perché dovrebbe essere composta di trenta persone e ce ne sono solo otto, compreso l’autista. È ospite degli uffici della Regione Abruzzo a Roma in un paio di stanze e, già gli otto reclutati, ci stanno stretti. Gaetano Fontana, che guida l’unità di missione, ha presentato le linee guida per la ricostruzione, non ancora ufficializzate. Ma obiettano dal collettivo 99, formato da architetti, ingegneri, sociologi antropologi, «non c’è un’idea se non quella di riparare ciò che è andato distrutto, mentre abbiamo bisogno di progetti che facciano tornare a vivere la città».

Collettivo 99: «Senza un’idea di città i giovani andranno via»

Intervista di Jolanda Bufalini a Marco Morando – l’Unità, 22 marzo 2010

Incontriamo Marco Morante vicino all’Agip, poco distante dallo svincolo autostradale. È così che ci si trova nella città terremotata, non ai portici, come si faceva una volta, nel cuore antico ed elegante del centro. Di fronte c’è ancora un grande spazio verde. Ma per poco perché è già cominciata la costruzione della mensa dei poveri e di una chiesa. Ultimo «gesto muscolare» di Bertolaso in favore della curia. Marco Morante è uno degli animatori del Collettivo 99, giovani architetti, ingegneri, antropologi, sociologi che si sono riuniti subito dopo il terremoto per elaborare proposte che abbiano la forza di dare una prospettiva alla città. «La scelta di costruire qui - dice - è un brutto segno. Non per quello che si costruisce, la mensa dei Celestini, ma perché questo è un punto strategico della città. Di questo era convinto anche il sindaco, qui doveva venire verde pubblico e altri servizi».

C’è un elemento esistenziale importante nell’impegno di questi giovani professionisti: «Abbiamo elaborato delle proposte e le abbiamo inviate al sindaco Cialente, all’architetto Fontana, anche perché o si lavora intorno a delle idee, a un progetto che tutti possano seguire e controllare anno per anno, oppure che senso ha restare a l’Aquila». Resterà, pensa Marco, «solo chi non può far altro». Loro, intanto, del Collettivo 99, hanno messo in piedi collaborazioni con le università e le facoltà di architettura di Parigi, Venezia, Firenze, Cesena, il Politecnico di Milano, Pescara. L’idea è quella di una«riconversione sostenibile, sul piano ambientale, energetico, sociale». L’Aquila, spiega Marco Morante, era, urbanisticamente, un unicum. Il nucleo intorno al Castello era il punto di riferimento per la corana dei piccoli centri. Con il progetto CASE hanno negato questo suo ruolo. Ora si vende a Fintecna e la prospettiva è una Disneyland.

L’Aquila, scontro dopo le accuse del vescovo

Giuseppe Caporale – la Repubblica, 22 marzo 2010

«L’Aquila muore se continua ad essere lasciata sola...». Il grido d’allarme (lanciato ieri dalle colonne di Repubblica) del vescovo ausiliare dell’arcidiocesi dell’Aquila, Giovanni D’Ercole, irrompe nel dibattito sulla ricostruzione post-sisma, proprio nella quinta domenica di protesta del popolo della carriole, e a due settimane dall’anniversario della tragedia del 6 aprile. «Le macerie sono ancora a terra - aveva detto il presule nell’intervista - la gente costretta a vivere lontana dalle loro case è giustamente esasperata: non si può far più finta di niente».

E, ieri, a fargli da eco sono arrivate le dichiarazioni del sindaco delll’Aquila, Massimo Cialente: «Siamo sull’orlo della bancarotta, il governo deve intervenire. La sospensione delle tasse che abbiamo avuto dal primo gennaio al 30 giugno attualmente non ha copertura finanziaria per 463 milioni di euro». Per il deputato abruzzese del Pd Giovanni Lolli «la ricostruzione del centro storico de L’Aquila e degli altri paesi non può essere lasciata nelle mani delle amministrazioni comunali: è un problema dello Stato». Lolli ha ricordato, poi, che il ministro Bondi, rispondendo a una sua interrogazione, ha fatto sapere che «solo per 12 monumenti sono stati raccolti pochi spiccioli, mentre i beni monumentali sono 1.700 nelle zone terremotate. Solo scelte forti da parte dello Stato possono rispondere a problemi come quelli che abbiamo a L’Aquila. In mancanza di queste, continueremo a sentirci abbandonati e a protestare».

Sulle parole di D´Ercole (l’uomo che il Vaticano ha inviato a L’Aquila per affiancare il vescovo locale nella ricostruzione delle chiese distrutte dal sisma) è intervenuto anche il presidente dei senatori Pdl, Maurizio Gasparri. Spostando però l’oggetto della polemica: «Ha ragione il vescovo quando sottolinea la gravità dei ritardi delle amministrazioni locali a L’Aquila. L’ho sentito telefonicamente e ho raccolto il grido di dolore perché, mentre l’intervento nazionale è stato tempestivo ed efficace, le amministrazioni locali appaiono inerti». Per Gasparri, «l’azione dell’esecutivo ha dovuto colmare anche in questi giorni le inefficienze di chi, sul posto, organizza manifestazioni invece di dare un contributo fattivo all’opera di ricostruzione». Dichiarazioni «gravissime, scorrette e ingiuste» le ha subito bollate il sindaco Cialente.

Per il senatore Stefano Pedica, Idv, «il grido lanciato da monsignor D’Ercole coinvolge tutta la società civile italiana, e non può essere ignorato dal mondo politico italiano senza distinzione di colore». A smorzare la polemica è intervenuta la Curia dell’Aquila: «Dispiace - si legge in una nota - che un’intervista rilasciata per mettere in luce l’impegno dei cittadini aquilani, desiderosi di ricostruire la propria città, sia stata presentata come un atto di protesta. Le difficoltà ci sono ma per un pastore quale è monsignor D’Ercole è chiaro come sia prioritario non arrabbiarsi ma promuovere il dialogo e far sì che tutte le forze (cittadini e istituzioni) siano coinvolte per il bene di tutti».

Intanto, piazza Palazzo, zona simbolo del centro storico dell’Aquila, dopo due giorni di lavoro da parte dell’esercito, è stata completamente liberata dalle macerie. Le carriole ieri hanno lavorato in piazza Nove Martiri. Per tutta la giornata i manifestanti hanno lavorato alla rimozione dei detriti, ma non solo. Per festeggiare il primo giorno di primavera migliaia di persone hanno affollato le vie principali della città, colorando strade e piazze con fiori e palloncini.

La realizzazione di un aeroporto è sempre una ghiotta occasione per i proprietari di terra, le imprese di costruzione ed i cosiddetti pubblici amministratori. Non a caso alcuni vecchi scandali aeroportuali sono associati al nome di un sindaco, Ciancimino/ Palermo, Favaretto Fisca /Venezia.

Se l’operazione che è stata avviata attorno all’aeroporto di Venezia Tessera può essere accomunata a queste vicende, delle quali condivide la “filosofia” di rapina delle risorse pubbliche e di speculazione su aree agricole, essa contiene però alcuni elementi nuovi che sarebbe opportuno non ignorare, perchè incideranno pesantemente, e non solo per la gigantesca dimensione degli interventi previsti, sulla organizzazione del territorio e sul suo governo.

Tra i dogmi dell’urbanistica postmoderna c’è quello secondo il quale gli aeroporti determineranno la localizzazione degli affari e lo sviluppo urbano del ventunesimo secolo, “così come le autostrade hanno fatto nel ventesimo, le ferrovie ed i canali navigabili nel diciannovesimo, i porti nel diciottesimo”. Partendo da questa sintetica ricostruzione del legame tra infrastrutture di trasporto e città, e dalla constatazione che il traffico aereo è ormai solo una minima parte, e non la più vantaggiosa, delle attività di un aeroporto, l’economista John Kasarda ha elaborato lo schema della nuova forma urbana, denominata Aerotropolis, che sta emergendo attorno agli aeroporti.

L’invenzione urbanistica dell’economista Kasarda

Secondo Kasarda, non si tratta più di attrezzature aeroportuali esistenti che si ingrandiscono per ospitare altre funzioni - alberghi, ristoranti, centri commerciali, cliniche, musei, campi da golf – fino a diventare una sorta di piccola città, ma di vere e proprie nuove metropoli progettate attorno all’aeroporto.

Mentre la tradizionale metropolis consiste in “un centro degli affari ed alcuni anelli di sobborghi di pendolari, il centro di aerotropolis è l’aeroporto” da cui partono una serie di corridoi sui quali, per circa 30 chilometri, si innervano nuclei di uffici e residenze.

Inoltre, e soprattutto, mentre le metropoli sono cresciute disordinatamente, lo sviluppo di aerotropolis non è spontaneo, ma deve essere accuratamente pianificato per poter generare i profitti che il mercato si aspetta. Kasarda e i suoi seguaci, che hanno fondato una apposita rivista Global Airport Cities per documentare e promuovere il diffondersi di aerotropolis in diverse parti del mondo, riconoscono che ogni situazione presenta specifiche peculiarità, ma ritengono alcune precondizioni indispensabili per il successo. Tra queste, irrinunciabili sono la disponibilità di aree libere (greenfields), una gestione privata degli aeroporti, un ingente investimento pubblico che garantisca mezzi di trasporto “dedicati” (airtrain – airbus), ed una sinergia di intenti tra i diversi soggetti decisori per attirare gli investitori.

Non stupisce, quindi, che gli esempi additati a modello siano alcune città asiatiche dove governi “forti hanno potuto decidere con pochi vincoli sociali e ambientali” (Cina), stanno rapidamente privatizzando gli aeroporti (India), o hanno integrato la pianificazione di aerotropolis con quella delle free economic zones (Corea).

Un giudizio positivo viene elargito anche alle città che, grazie a incentivi finanziari brillantemente definiti “tax holidays”, hanno saputo attirare funzioni e attività diverse, dalle cittadelle della moda ai distretti del gioco d’azzardo, dai parchi tematici ai centri congressi.

Torniamo a Venezia

Il che ci fa tornare a Venezia, dove, filtrata attraverso l’ottica di aerotropolis, l’operazione Quadrante Tessera assume un significato più preoccupante di quello di una normale speculazione immobiliare e, quindi, non dovrebbe essere affrontata con la riduttiva speranza di contrattare una qualche riduzione delle cubature progettate.

Venezia ha/è già un parco tematico, i progetti per il gioco d’azzardo e i congressi non mancano, uno dei candidati alla carica di sindaco è il presidente della società che gestisce l’aeroporto e che si è accaparrata un vasto patrimonio fondiario, e l’altro si è dichiarato comunque favorevole ad un grande waterfront. Se il futuro di aerotropolis a Venezia è in buone mani, non altrettanto si può dire di quello di chi ci vive e lavora.

Chiunque può riprendere questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it

In Abruzzo “la sostanziale dipendenza delle massime istituzioni tecniche dei Beni Culturali dalla Presidenza del Consiglio, organo eminentemente politico, ha lasciato non pochi strascichi e perplessità”, col “sorprendente disinteresse della Protezione Civile a servirsi della collaborazione di istituzioni e persone altamente qualificate”. Così l’autorevole rivista d’arte tedesca “Kunst Chronic” nel rapporto sull’Aquila e dintorni di due validi studiosi Valentino Pace (Università di Udine) e Andreas Thielemann (Biblioteca Hertziana), con molte schede puntuali. Sono i frutti del ribaltamento - voluto, per ignoranza ed esibizionismo, dal presidente Berlusconi - dei criteri seguiti in Umbria-Marche dove la Protezione Civile si occupò dei soccorsi, mentre per monumenti e centri storici la regìa fu del Ministero: direttore generale Mario Serio, commissari tecnici e Soprintendenze.

Qui, invece, nota “Kunst”, non si è nemmeno risposto alle offerte delle Facoltà di Lettere e di Ingegneria dell’Aquila, e delle Scuole di specializzazione della Sapienza (Beni culturali e Restauro). Rimandati a casa gli “Amici di Cesare Brandi”, in testa Giuseppe Basile gran coordinatore dei restauri in Assisi, e niente tecnici qualificati accanto ai volontari. Per questo le macerie sono ancora lì e la ricostruzione dell’Aquila è ferma. “Gravissima”, notano Pace e Thielemann, “resta la situazione di tutti gli edifici scoperchiati, lo stesso Duomo, S.Maria di Collemaggio e S.Maria Paganica, le cui macerie, già bagnate dalla pioggia e comunque minacciate dai rigori invernali, debbono essere ancora attentamente vagliate”. Insomma, un autentico disastro.

Pdl e Udc all´attacco sul piano casa

Lombardo: "Evitata la loro sanatoria"

di Antonio Fraschilla

«Abbiamo evitato una sanatoria, adesso siamo pronti per un´altra battaglia sulla riforma degli Ato rifiuti e contiamo sul sostegno dei democratici, che sulle riforme ci verranno incontro». Il governatore Raffaele Lombardo, sotto attacco da parte di Udc e Pdl dei lealisti che sul piano casa parlano di «affari loschi e clientele», difende la legge votata dalla maggioranza variabile dell´Ars formata da Mpa e Pdl Sicilia con il sostegno del Pd e, e punta dritto al riordino del sistema di gestione dei rifiuti.

Anche ieri tutti i parlamentari di Udc e Pdl, che durante la votazione del piano casa sono usciti dall´Aula per protesta, hanno attaccato il governatore, denunciando «interessi poco chiari». Sul banco degli imputati è finito un emendamento del governo poi ritirato, che prevedeva la delocalizzazione: cioè la possibilità per chi ha costruito in terreni inedificabili, come Pizzo Sella, di abbattere e ricostruire altrove. Emendamento sostenuto anche dal Pd: «Da quanto accaduto in aula - dice il capogruppo dell´Udc all´Ars, Rudy Maira - è chiaro che il Pd è diventato parte integrante del governo Lombardo. L´impegno messo dal Pd nell´elaborazione del ddl e nella difesa degli emendamenti più sospetti, fanno capire che questo partito è portatore di interessi non trasparenti». Ancora più duri i toni del presidente della commissione Ambiente e territorio, Fabio Mancuso (Pdl): «Il Pd ha difeso norme scandalose che avrebbero consentito il sacco edilizio di Palermo»». Anche per Toto Cordaro (Udc) «dietro ad alcuni emendamenti c´erano affari poco chiari e dobbiamo ringraziare il deputato Cateno De Luca che in Aula ha spiegato bene cosa stava per fare Lombardo». «A un certo punto in Aula volavano foglietti con emendamenti riscritti più volte - dice il capogruppo del Pdl, Innocenzo Leontini - Cracolici è intervenuto più volte contraddicendosi»».

Il governatore invece è raggiante e rimanda al mittente tutte le accuse: «Siamo stati noi a evitare una mega sanatoria, bocciando emendamenti presentati dal Pdl - dice Lombardo, che ieri insieme all´assessore all´Industria Marco Venturi ha annunciato lo sblocco del fondo da 55 milioni di euro per il commercio - Riproporremo la delocalizzazione in un altro disegno di legge, perché per noi è una buona idea per ripulire il territorio devastato dall´abusivismo è dell´incuria, come accaduto in molti Comuni della fascia Tirrenica che hanno consentito di costruire accanto ai fiumi. Non capisco l´arringa fatta dal deputato Cateno De Luca, che ha votato molti emendamenti».

Lo scontro comunque è subito ripreso ieri in Aula per l´avvio della discussione sull´altro disegno di legge molto atteso, quello della riforma degli Ato rifiuti. L´assessore Piercarmelo Russo, relatore del testo che prevede la riduzione degli Ato da 27 a 9 e l´affidamento ai Comuni dei contratti di servizio, ha parlato chiaramente «d´infiltrazioni mafiose nel trasporto dei rifiuti e negli appalti esterni»: «La relazione della commissione bicamerale parla di loschi affari di Cosa Nostra sul termovalorizzatore di Bellolampo - dice Russo - La riforma va attuata perché sta portando al dissesto i Comuni». In Aula si sono ripetuti le stesse posizioni che sul piano casa, con Udc e Pdl contrari e il Pd spaccato: «Adesso andiamo avanti sul terreno delle riforme, e sono certo che avremo il sostegno del Pd, a partire dal riordino degli Ato», dice Lombardo.

Il Banco di Sicilia sospende alle imprese delle zone alluvionate di Messina anche il versamento delle quote interessi sui mutui. La sospensione, che deve essere richiesta dagli interessati, viene attivata da marzo e durerà fino al prossimo 31 ottobre, cinque mesi in più di quanto previsto dall´ordinanza diramata lo scorso 27 novembre dalla presidenza del Consiglio. In ottobre la banca del Gruppo Unicredit aveva attivato la sospensione per 12 mesi delle rate dei mutui alle famiglie e delle quote capitali dei mutui alle imprese.

Il "sì" travagliato dei democratici via libera tra malumori e mugugni

di Massimo Lorello

C´è un deputato del Partito democratico che martedì voterà contro il piano casa. La legge tornerà in aula per il varo definitivo. Di solito è un atto formale, ma non per il Pd che sulla norma che sdogana gli ampliamenti per le abitazioni mono e bifamiliari ha rischiato di lacerarsi. Giovanni Barbagallo ha deciso di votare no. Gli altri deputati, invece, garantiranno l´approvazione definitiva della legge. Ma Antonello Cracolici (capogruppo) e Davide Faraone (protagonista della stesura degli emendamenti più rilevati) parlano di «grande successo», di «risposta alle aspettative dei siciliani» e di «stagione delle riforme ormai avviata», tra i loro colleghi di partito c´è chi la pensa in maniera diametralmente opposta.

«Questa norma è un´occasione mancata - attacca Bernardo Mattarella - Una leggina che serve solamente a recepire quanto previsto dall´accordo con lo Stato. La Sicilia, peraltro, è l´ultima regione ad adeguarsi. E laddove è già in vigore, la legge ha prodotto risultati irrilevanti. Le riforme sono un´altra cosa, non scherziamo. Questa legge ha pure aggirato i paletti che il mio partito aveva posto. Noi non volevamo i parcheggi sotterranei nelle aree a verde agricolo e non volevamo nemmeno che la norma fosse estesa alle attività produttive. Io voterò a favore perché il gruppo deve restare compatto, ma evitiamo di considerare questa legge una riforma».

L´unico «no» che arriverà dal Pd per la votazione finale è di Giovanni Barbagallo che dice: «È l´ennesima occasione mancata. Nella nostra regione non c´era bisogno di aumentare il volume edificato, già superiore alla media nazionale, ma di incrementare il verde, ridurre le frane, consolidare gli edifici costruiti nei centri storici e nelle zone a rischio sismico e idrogeologico». E invece, «non solo non si affrontano i temi della sicurezza e del risanamento, ma addirittura, si danneggia ulteriormente il nostro territorio».

Pino Apprendi voterà «sì» ma senza nascondere le sue riserve: «Abbiamo vissuto mesi difficili - dice - con la tragedia di Giampilieri e il dramma di San Fratello. Sarebbe stato opportuno che il mio partito si battesse immediatamente contro il dissesto idrogeologico. La legge sul piano casa si poteva fare dopo, ma l´impegno del nostro gruppo almeno ha neutralizzato tutti i tentativi di sanatoria indiscriminata provenienti dagli altri partiti».

E con i paletti del Pd, «è venuta fuori una buona legge», afferma il vicepresidente dell´Ars, Camillo Oddo, che precisa: «I parcheggi sotterranei potranno essere realizzati nelle aree a verde agricolo che ricadono esclusivamente nel perimetro urbano, quanto all´estensione della norma anche alle attività produttive ritengo sia una scelta sacrosanta. Nella mia provincia, Trapani, per esempio, ci sono numerose aziende che inquinano - per quello che producono, non potrebbero fare altrimenti - e che sono vicine al mare. Con questa legge potremo farle trasferire nelle aree industriali. Non capisco come si possa essere contro».

Il segretario del Pd, Giuseppe Lupo, si concentra piuttosto sugli attacchi esterni, cioè dell´Udc e del Pdl lealista e replica: «Hanno devastato la Sicilia e adesso piangono lacrime di coccodrillo. Il Pd ha dato un contributo importante all´approvazione della legge esclusivamente nell´interesse dei siciliani. La legge rispetta l´ambiente, può attivare investimenti nell´edilizia e rilanciare l´occupazione del settore che nel 2009 ha avuto una riduzione del 18 per cento».

Si può ancora vivere senza Grandi Eventi? La risposta l’ha data ieri sera al Tg5 il grandeventista Bertolaso: no. Egli intende proporre l’Abruzzo terremotato come sede delle Olimpiadi invernali 2018. Dopo il G8, i Giochi della neve. E perché non anche il Nobel, la Champions, il Giubileo, l’ostensione della Sindone e magari l’Expo? Attualmente è destinata a Milano, ma è giusto che vi rimanga solo in caso di terremoti dalle parti di Cinisello Balsamo. Altrimenti meglio spostarla all’Aquila o sul Lambro inquinato, sempre che la Protezione Civile non intenda già farvi disputare le gare di canottaggio delle Olimpiadi estive.

Il Cile dovrebbe affrettarsi a chiedere i prossimi campionati del mondo di calcio e Haiti la sede permanente dell’Onu, prima che la stessa venga trasferita accanto a un inceneritore di Napoli. Nessuno mette in dubbio la bellezza delle montagne abruzzesi. A lasciare esterrefatti è l’ideologia del Grande Evento aspira-soldi come unica soluzione per risolvere i piccoli e grandi disastri della vita. Solo la fiaccola olimpica potrà togliere le macerie dal centro dell’Aquila? Parrebbe di sì. In fondo, quattro anni dopo, i torinesi rimpiangono ancora quei quindici giorni da favola in cui gli autobus arrivavano puntuali e i bar restavano aperti a mezzanotte. Si proceda quindi con il decreto Bertolimpionico. Articolo 1: l’Italia è un Grande Evento permanente. Articolo 2: Balducci e Anemone sono nominati commissari straordinari fino a esaurimento dei fondi.

"Mi sembra - si legge ancora sul cartello - di essere in una clinica. Non vedo l'ora di uscire, di riavere la mia vita". "Noi dentro, le macerie fuori", è lo slogan di Lidia Carlomagno. "Per la prima volta - dice - riusciamo a fare vedere che i cittadini dell'Aquila esistono e alzano la voce. Ci hanno sparpagliato nelle new town e negli hotel al mare. Per undici mesi non abbiamo contato nulla. Gli altri decidevano e noi dovevamo pure ringraziare. Da oggi tutto cambia". Sono davvero tanti, questi nuovi scariolanti, arrivati non per scavare bonifiche ma per portare via le macerie dalle loro case. Carriole che diventano i simboli di protesta, quasi di rivolta contro chi per quasi un anno non ha capito che i terremotati erano prima di tutto cittadini.

Terza domenica in centro, e stavolta i corsi Federico II e Vittorio Emanuele sono pieni come quando l'Aquila non era spezzata e dopo mezzogiorno finiva la Messa grande in Duomo. Nell'unico bar del centro, i Fratelli Nurzia, non si riesce ad entrare. Ci sono i Comitati ma ci sono anche gli aquilani arrivati dalle new town e dagli hotel del mare. "Abbiamo preso una sola macchina - racconta Gianfranco Scaramella, sfollato ad Alba Adriatica - per dividere le spese. Per la prima volta, oggi, ho visto la gente sorridere". Si può sorridere davvero perché non si vedono solo macerie. C'è una doppia catena umana che parte dalla piazza del Duomo e arriva fino a quella del Comune. Da qui partono i secchi pieni e arrivano quelli vuoti, portati da migliaia di mani. In mezzo, come in passerella, le carriole con i rifiuti già separati: legni e tegole, pianelle e carta, lavatrici.

È una catena umana che ricorda il dolore delle prime ore, quando le pietre passavano di mano in mano per liberare i feriti. Tre bambini, Valerio, Gloria e Sofia, hanno portato le carrioline e i secchielli da spiaggia e con le facce serie serie trasportano via due pietre e un sasso. "È la prima volta - dice la loro mamma, Francesca Orzieri - che tornano qui dove sono nati. Noi adesso abitiamo nelle Case di Sant'Antonio, sessanta metri quadrati. Abbiamo un tetto. Punto. Non c'è un bar, un chiosco, un'edicola. Per qualsiasi cosa devi salire sull'auto. Cosa vuol dire non avere il centro? Si immagini Venezia che non è più Venezia ma solo Mestre. E noi che abbiamo le Case per tanti saremmo anche i fortunati. Ma se sei qui vuol dire che la tua casa è distrutta".

"Fuori gli sciacalli / dalla città". "In piazza devo andare / la mia città / devo liberare", gridano i ragazzi del comitato 3.32. Quelli di "Un centro storico da salvare" raccolgono firme (2800 in tre ore) per chiedere una "tassa di scopo" e trovare i soldi necessari per ricostruire l'Aquila. "Non hanno fatto nulla per mesi - dice Eugenio Carlomagno - e adesso si meravigliano della nostra protesta. Abbiamo rifatto i conti: con interventi nei tempi giusti, oggi un 30-40% degli abitanti del centro potrebbe essere tornato a casa. Adesso le imprese si accapigliano per fare i lavori futuri: ci sono ditte piccole che si sono fatte assegnare 36 puntellamenti, tecnici che per le case B e C si sono assicurati 200 progetti. Come faranno a prepararli?".

C'erano solo gli applausi, un tempo, per il presidente del Consiglio e i suoi uomini presenti ad ogni inaugurazione. Ora l'aria sembra cambiata. "Anche chi ha trovato un tetto antisismico - dice Antonietta Centofanti, portavoce del comitato Vittime casa dello studente - non sopporta più che il centro dove c'è la sua casa continui ad essere blindato. E poi ci sono state le telefonate e le risate dei palazzinari. C'è stato uno scatto di orgoglio. Sul sito del Pdl hanno scritto che noi aquilani siamo ingrati e piagnoni perché dopo tutto quello che è stato fatto ci permettiamo di protestare. Noi ringraziamo i volontari e diciamo che - per le cose che ha costruito - lo Stato ha fatto solo il proprio dovere. I nuovi appartamenti non sono "le casette di Berlusconi": sono stati costruiti dallo Stato con i soldi di chi paga le tasse".

Va avanti per ore, la catena umana. In testa tanti hanno un cappello fatto con un giornale, come i muratori, e la scritta: "L'Aquila rinasce dalle sue macerie". "Finora la protesta non era esplosa - racconta Lina Calandra, ricercatrice alla facoltà di Lettere - perché eravamo piegati dai lutti e dalla perdita di lavoro. E poi siamo stati divisi: chi nelle new town, chi mandato al mare, chi alla ricerca di un lavoro in altre province... Ora i nodi vengono al pettine perché anche i più "fortunati", quelli mandati nei nuovi villaggi antisismici, non vedono un bambino giocare fuori con altri bambini, non un anziano parlare con altri anziani".

Ci sono abbracci fra chi non si rivedeva da mesi, c'è la gioia di vedere i bambini correre attorno alla fontana nel pezzo libero di piazza Duomo. "Ci siamo arrabbiati - dice Paolo S. - perché da mesi sentiamo parlare di ricostruzione e invece qui non si è ricostruito nulla. Il centro sta collassando. Sono arrivati tardi alla manifestazione perché via XX Settembre è stata chiusa per pericolo di frana". "Io qui in centro avevo un bar - racconta Monica A. - e voglio riaprirlo proprio lì dov'era. Non voglio un container in periferia. Se ce ne andiamo noi, il nostro centro sarà occupato dagli speculatori". In piazza Duomo due drappi neri annunciano per il Venerdì Santo la "Solenne processione del Cristo morto". In corso Federico ci sono i cartelloni del film: "Gli amici del bar Margherita". Ma il Venerdì Santo è quello di un anno fa, il film era programmato il 6 aprile 2009. A L'Aquila si vive come in una macchina del tempo. Per fortuna ci sono Valerio, Gloria e Sofia che ridono contenti perché hanno rifatto il giro e hanno portato fuori altre due pietre e un sasso.

«Ideazione penitenziaria» è stato il tema non proprio lieto di un convegno che si è svolto venerdì scorso a Trieste, indetto dal Sidipe, il sindacato dei direttori delle carceri italiane. Tema del consesso le «carceri galleggianti» per le quali la Fincantieri ha presentato un progetto nella speranza di ottenere nuove commesse pubbliche. Il gioiellino carcerario, che evidentemente sta molto a cuore all'amministratore delegato di Fincantieri Giuseppe Bono, è una piattaforma di 126 metri di lunghezza, 33 di larghezza, 25 di altezza, per 25 mila tonnellate di stazza lorda. Collocato in un porto o in un arsenale e collegato con la terra, potrebbe ospitare 640 detenuti in 320 celle. Costo un centinaio di milioni e tempo di realizzazione 24 mesi. Un'idea che sembra brillante per risolvere in tempi brevi e in mancanza di più seri interventi legislativi il problema del sovraffollamento dei penitenziari dove si accalcano 67mila detenuti in 43mila posti.

Pare che ai direttori dei penitenziari il progetto di Bono sia piaciuto. Ma subito si sono alzati alti lai di alcune città, a cominciare da Genova, che non gradiscono «Alcatraz» nei loro porti. E soprattutto sul business penitenziario di terra ha già messo le mani la cricca delle emergenze, che notoriamente propende per il cemento. Il piano per far fronte all'emergenza carceraria, annunciato nel dicembre scorso dal ministro Angelino Alfano, ha trovato subitanea accoglienza nell'articolo 17 ter del decreto sulla Protezione Civile Spa, pur modificato dopo l'esplosione dello scandalo, che conferisce poteri totali al commissario Franco Ionta, che può individuare le aree per la realizzazione dei nuovi penitenziari e derogare alle norme urbanistiche, a quelle sugli espropri, al limite nei subappalti, con la Protezione Civile che sceglie progettisti, assegnatari degli appalti, direttori dei lavori e quant'altro. Così è facile prevedere che le 47 «palazzine» per accogliere 21mila detenuti saranno di cemento e in terraferma, con una torta di 600 milioni da spartire tra la cricca. La quale al business carcerario si applica già da anni.

Tre carceri in costruzione in Sardegna, ad esempio, sono stati dati in appalto secretato da Angelo Balducci, deus ex machina del sistema e oggi detenuto, indovinate a chi? A tre delle imprese coinvolte nello scandalo della Protezione Civile: l'Anemone, la Giafi di Valerio Carducci e la Opere Pubbliche, la società di uno di quelli che ridevano nel letto la notte del terremoto dell'Aquila. Gran parte dei lavori per i penitenziari di Sassari, Tempio e Cagliari sono stati dati in subappalto. Il risultato è che, nonostante l'urgenza che dovrebbe giustificare la deroga a tutte le leggi, sono in costruzione da sei anni, come hanno documentato Guido Melis e Donatella Ferranti, deputati Pd della Commissione Giustizia della Camera. In compenso, Anemone ha già incassato 26 milioni, Carducci 31e Piscicelli 39, su un totale complessivo previsto in oltre 200 milioni Per cui si mettano l'anima in pace Bono, la Fincantieri e i sindacati che vogliono salvare l'occupazione cantieristica. Il business cementiferocarcerario è già segnato.

«Quello che è stato fatto all’Aquila non si era mai visto finora in Italia». Apriti cielo! Raccontano di nasi storti e di occhi roteanti verso l’alto, scandalizzati. Succede se, metti una sera a Milano, in uno di quei salotti con i camerieri indiani e l’antiberlusconismo che si porta bene su tutto, come un blazer blu... Succede se un architetto di fama indiscussa, come Pierluigi Nicolin, 68 anni, professore al Politecnico e con un curriculum che lo ha visto intervenire dopo i terremoti del Belice e di Napoli, butta lì un commento del genere.

Architetto, che cosa si è lasciato scappare?

«Quello che conta è ciò che uno vede, mica altro. E ho detto quanto ho visto. Ero andato là come architetto. Senza nemmeno presentazioni, perché volevo essere autonomo nel giudicare».

Parliamo allora di ciò che lei ha visto fare dagli uomini di Guido Bertolaso.

«Ho visto gente con un perfetto controllo del territorio, ho visto giovani sulla cui professionalità non c’era nulla da eccepire, ho visto l’impegno profuso dalle loro squadre locali, ma anche la solidarietà di quelle provenienti da altre parti d’Italia. Una cosa così non l'avevo mai vista prima. Soprattutto in meno di otto mesi. E ammetto di esserci andato con dei pregiudizi, come mi aspettassi di vedere ben altro».

E invece?

«Ora la periferia dell’Aquila è di gran lunga meglio di com’era prima, e parlo di quelle costruzioni brutte e scadenti che si trovano di norma nelle periferie. Il prodotto della speculazione. Invece, questi nuovi quartieri con le case appoggiate sui sostegni antisismici che nascondo oltretutto anche la bruttura dei parcheggi, mi sono parsi una soluzione interessante. Non mi saranno piaciute tutte, però, suvvia...».

Perdipiù tenendo conto dei tempi.

«Sì, i tempi contano. Ma vorrei ricordare anche la qualità, l’attenzione a cose che non si erano mai viste prima in situazioni simili, come la cura del paesaggio senza però snaturarlo, o le soluzioni di risparmio energetico. Un insieme di autentiche novità che ti fanno dire: qui dietro si vede l’opera di una industria delle costruzioni».

Altri ricordi, quelli di Belice e Napoli?

«Non se ne parla nemmeno, di fare paragoni. Pensi che quando mi avevano mandato in Belice, la gente stava nelle baracche già da dieci anni. E a Napoli è stata una storia ancor più complessa, farraginosa, che insomma... (ride di cuore, ndr) ha incrementato addirittura il debito pubblico italiano, quella roba lì».

L’Aquila e il suo centro. Pensa dovrebbe continuare a esserci un ruolo per la Protezione civile?

«Purtroppo ora il compito della Protezione civile mi sembra finito».

Perché dice purtroppo?

«Perché in Italia c’è una diffusa cultura della conservazione che fa diventare tutto perfezionista e burocratico, rendendo le cose molto sofisticate. Che poi significa complesse e lunghe».

Mentre la sua ricetta per l’Aquila qual è?

«Prima di tutto non bisogna fissarsi sul concetto “com’era e dov’era”. Come da una crisi se ne esce diversi, così anche da un terremoto. Non significa raderla al suolo, ma non si può lavorare in una situazione simile usando i criteri normali della Sovrintendenza. Con questa diffusa ipersensibilità al passato si finisce per rallentare a tal punto le cose che poi, anche una volta fatte, chessò tra vent’anni, la città sarebbe un fantasma. Bisogna fare in fretta o l’Aquila non si riprenderà più. Quindi bisogna affidarsi a persone credibili».

Ce ne sono, in Italia? E chi sono?

«Diciamo che conosco un sacco di persone intelligenti (ride di nuovo, ndr). Peccato che raramente, in Italia, finiscano al posto giusto».

Non le chiedevo di fare i nomi.

«Li farei, se fossi incaricato di farli. L’Italia è piena di architetti, anche se non proprio tutti bravi. Ma di bravi ce n’è. E anche di colti. Peccato che poi il sistema spesso li emargini. È una delle fregature italiane. Perdipiù ricorrente».

Lei si considera di sinistra, oppure...

«Anche questa è una roba tipicamente italiana. Dà la misura di come siamo messi. Perché devo essere filo berlusconiano se dico che una cosa ha funzionato? Sono le rogne dei tempi difficili... Ma siccome sono abituato a far funzionare la testa e a cercare di rimanere lucido, ripeto di non poter negare ciò che ho visto all’Aquila. Mi vergognerei di me stesso».

La chiesa romanica di San Pietro di Coppito è stata in piedi bene o male sette secoli, sfidando i terremoti che hanno più volte devastato la conca dell'Aquila. Fino al 6 aprile 2009. Adesso ti viene incontro sventrata, uno spettro nella città deserta, quasi un "fermo immagine" del sisma. Sbriciolati gli affreschi medievali, il campanile ridotto a un mozzicone, la campana di bronzo schiantata a terra, simbolo di una comunità espropriata della sua anima. Pier Luigi Cervellati gesticola da dietro un cumulo di macerie, in mezzo al sagrato: «Lei non ci crederà, ma questa è una fontana del Quattrocento. Le hanno scaricato addosso quintali di detriti, come una pattumiera. È uno sfregio intollerabile. Ma lo sanno, questi signori, cosa rappresentano per la gente di qui le fontane? Sono la loro identità, insieme alle chiese e alle piazze». Il professor Cervellati, bolognese, architetto e urbanista tra i più autorevoli, è all'Aquila con una delegazione di Italia Nostra, tra cui il segretario generale Antonello Alici e l'ex-presidente Giovanni Losavio, impegnati in una battaglia per il recupero del centro storico del capoluogo abruzzese. Non pretendono vincoli anacronistici, semplicemente che oltre a costruire a tempo di record quartieri satellite con le tecnologie antisismiche più sofisticate si pensi a salvare e far rivivere il cuore antico della città, come chiedono quelli che nella "zona rossa" abitavano e lavoravano fino alla tragica notte del 6 aprile, e che cominciano giustamente a perdere la pazienza.

«Immota manet» dice il motto sullo stemma della città. Più immota di così: da quasi un anno l'Aquila è imbalsamata, con tutte le sue ferite aperte, avviluppata in una ragnatela di ponteggi. E trentottomila aquilani sono ancora senza casa. Camminiamo lungo la via Sassa, tra facciate sbrecciate di palazzi cinquecenteschi e barocchi, cornicioni penduli e bifore pericolanti, facendo lo slalom in mezzo a mucchi di macerie. Non c'è un'anima in giro, a parte qualche vigile del fuoco e qualche operaio al lavoro. Hanno riaperto la sede della Banca d'Italia, il caffè dei fratelli Nurzia (quelli del famoso torrone), un'enoteca in piazza del Duomo. Per il resto, soltanto lucchetti, transenne e saracinesche abbassate. Cervellati allarga le braccia: «Quando ponteggi e puntellature verranno rimossi, le murature crolleranno. E spesso questi interventi sono pure sbagliati, i tubi entrano nelle finestre, non si potranno più fare lavori all'interno. È una forma di accanimento terapeutico dal costo enorme. E adesso, con la fine del regime commissariale, regione ed enti locali devono preparare piani di recupero. Operazioni immani, ci vorranno mesi se non anni per poter riabilitare la città storica. Ammesso che ci si riesca».

Leggiamo sulla guida rapida del Touring, edizione 1975: «L'Aquila, m. 714 ab. 60131, capoluogo di provincia e di regione, sede arcivescovile. Città principale dell'Abruzzo per arte e storia, situata sopra il declivio di un colle sulla sin. dell'Aterno, in un'ampia conca cinta da alte montagne (catene del Gran Sasso e del Velino-Sirente). Conserva la bella impronta medievale... Fondata attorno alla metà del secolo XIII... si arricchì di numerose architetture religiose, che ora caratterizzano il volto della città».

Chiosa Cervellati: «L'Aquila è uno splendido esempio di quella rinascita urbana e religiosa che l'Italia ha vissuto tra il mille e il milleduecento. Una città-territorio, che a quei tempi si identificava nel Comitatus Aquilanus, una forma di insediamento a rete. Non per niente si favoleggia di novantanove castelli, novantanove chiese, le novantanove cannelle della fontana più famosa di qui. Chiesa piazza e strade formano un bene immateriale unitario, le parrocchie sono un punto di riferimento territoriale e della socialità, per credenti e non credenti. E guardi in che stato sono. Scoperchiate, a pezzi, ingombre di pietre e calcinacci. E dopo un anno, nessuno ha ancora neppure cominciato a restaurarle. Hanno fatto vedere in tv il presunto salvataggio della chiesa del Suffragio: l'elicottero che appoggiava delicatamente una cupola in fibra di carbonio. Eccola lì, la vede? Certo ripara dalla pioggia, ma il tamburo che sta sotto è lesionato, non so quanto potrà reggere. Ora io domando: il vescovo ha intenzione di riaprire le chiese? Nel regime del concordato, la manutenzione spetterebbe allo Stato. Ma io ho sentito con le mie orecchie il segretario generale dei Beni culturali dire che il restauro del duomo di Venzone in Friuli, dopo il terremoto del 1976, è un simulacro, una cartolina illustrata. Come la Fenice e il Petruzzelli. Io non credo che lo Stato possa abdicare alla sua funzione di tutela. Non c'è bisogno di manuali di restauro, basta un po' di buon senso. Certo se non si numerano le macerie, se si fa un cocktail di pietre e calcinacci, ricostruire poi sarà una missione impossibile». Le cifre fanno venire i brividi: quattro milioni di tonnellate di pietre e mattoni da rimuovere, che potrebbero presto salire a cinque. «Ci sono fondi pubblici? – si interroga Cervellati –. In che misura possono contribuire i proprietari?

Nell'incertezza nascono leggende metropolitane: è vero o non è vero, per esempio, che l'ignoranza porta a vendere le case antiche e a trasferirsi nelle New Town?».

Intanto, oggi i cittadini del centro storico si preparano a invadere pacificamente – come domenica scorsa – la zona transennata, questa volta armati di carriole e cassonetti per cominciare a rimuovere un po' di detriti. Li guida un redivivo "Comitatus Aquilanus", che si richiama polemicamente ai padri fondatori. Sobillati dai mercanti di voti, in vista delle prossime regionali? Può darsi. Ma poi vai nei paesi distrutti, col sindaco in tuta ginnica alla Bertolaso, e la gente ti avvicina, ti grida in faccia la sua rabbia, e non sono agit prop. Cosa scriveranno sulla guida del Touring del 2015, o del 2075? E dove porteranno i turisti? A visitare le New Town?

Sono diventato in queste settimane un appassionato lettore di intercettazioni telefoniche, a tratti avvincenti («la cronaca è letteratura sotto pressione» - diceva Oscar Wilde). I molti riscontri che provengono dai densi, disinvolti dialoghi tra i protagonisti della nuova corruzione aiutano a capire i metodi usati per il controllo della spesa in opere pubbliche. Se si osserva con cura si capisce che in questa competizione non è solo in gioco la conquista di maggiori risorse da parte di imprese concorrenti, da fare crescere con trucchi vari. Non è il solito balletto tra corrotti e corruttori. La contiguità tra politici, soggetti attuatori e imprese evidenzia l’egemonia di queste ultime. Con un danno supplementare per la collettività. Infatti per fare tornare bene i conti è importante per le imprese orientare le scelte relative all’investimento, decidere quali opere servono e non solo quanto costano.

L’esito è molto deprimente tenendo nello sfondo la propensione evidente a estendere il procedimento dalle emergenze alla ordinaria gestione. Le politiche di spesa - e pure di uso del territorio -sono subite da chi dovrebbe decidere nell’interesse pubblico. Se a L’Aquila si interviene in quel modo - nel dopo terremoto - è perché l’imprenditore x o y è riuscito a fare prevalere la sua convenienza. Preferisce, è facile immaginarlo, la costruzione di nuove case alle mille rogne della ricostruzione nel centro storico.

Il bel libro curato da Georg Frisch ( «Non si uccide così anche una città», edito da Clean) tempestivo e attualissimo dopo le novità - le brutte storie del G8 di La Maddalena hanno un seguito a L’Aquila? – spiega la gravità della rinuncia a operare nella parte vecchia della città. In questo quadro tra emergenze e urgenze si è fatta strada facilmente l’idea che sia cosa buona affidare la progettazione esecutiva direttamente alle imprese -togliendo tutti i controlli - con gli esiti sconvolgenti che abbiamo visto. Così il senso che attribuiamo al progetto - presidio del procedimento amministrativo- viene meno perchè tutto si dissolve a beneficio dell’incremento dei costi. Pure il coinvolgimento di stelle più o meno luminose dell’architettura, non riuscirà a eliminare le ombre oscure che resteranno sui costi di opere frutto di procedimenti illeciti. È in fondo il trionfo della de-regolazione che si rispecchia già nella crisi della pianificazione urbanistica: le varianti contrattate (o i fai-da te dei piani casa) dicono della indifferenza diffusa verso il governo del territorio e la tutela e la cura del patrimonio paesaggistico che servirebbero a limitare le troppe emergenze e quindi l’attività della Protezione Civile.

L’avvicinarsi della domenica a piedi del 28 febbraio procede in mezzo ad assordanti colpi di clacson. Il partito della libera marmitta, che trova la sua piena espressione in Libero e nel Giornale, è uno spontaneo partito trasversale che sembra quasi orchestrare una campagna mediatica quando enfatizza, come flop della domenica a piedi, la mancata adesione dei Comuni della Provincia di Milano. In realtà mai - credo proprio mai - questi Comuni hanno aderito a un’iniziativa del genere se non costretti dalle ordinanze regionali di Formigoni (che questa volta non c’entra). Lo avevano fatto anni fa, quando il ministero letteralmente pagava le amministrazioni affinché aderissero. Non c’è alcuna novità, e probabilmente alcuna particolare intenzionalità politica in questa non adesione. è più significativo, per stare nel milanese, che questa volta abbiano deciso di aderire Cinisello e Sesto: due sindaci di centrosinistra che hanno voluto soldarizzare con l’Anci, prima di tutto. Per il resto la lettura politica in termini di schieramento non fa capire quanto stia succedendo.

Si era detto che la Lega è contraria, ma la Lega in quanto tale non ha dato ordini di scuderia. Varese va a piedi. è vero che Verona si è sottratta al 28, ma una domenica a piedi l’ha appena fatta. E viceversa ha aderito Treviso, nella formula piena che avevamo auspicato con un appello su queste colonne, e cioè bloccando tutti i veicoli, anche quelli cosiddetti ecologici. Se andiamo nel Centro-Sud spicca il rifiuto polemico di Roma, che fa finta di non avere picchi di smog. Ha influenzato il ritiro di Napoli. Non so se il sindaco di Firenze abbia aderito per solidarietà Anci o centrosinistra. La sorpresa viene da Pescara, che chiuderà pezzi significativi di città a turno per tre domeniche, fermando anche Gpl e metano.

La geopolitica della domenica a piedi è complessa, l’annuncio viene accolto da proteste, si moltiplicano le pressioni per le deroghe, lettere ai giornali, interventi su internet, sembra una sollevazione contro. Poi la domenica esce per strada felice la gente semplice, che chiede che l’esperienza si ripeta. Non vince la gara dei click nei sondaggi in Rete, ma prevarrebbe in un sondaggio statistico. A fronte dei clacson schiacciati con furia da chi sostiene di non poter rinunciare all’auto neanche solo per 9 ore, c’è un popolo mite che non suona il clacson. Che va incoraggiato a prendere la parola.

Per aiutare Guido Bertolaso, agevolandone l'attività con il controllo dei contratti che il dipartimento della Protezione civile avrebbe sottoscritto in tutta fretta per far fronte alla più grave delle emergenze, Silvio Berlusconi rese pubblica l'ordinanza del 9 aprile 2009 in cui, all'articolo 8 comma 3, si istituiva un super comitato per la verifica dei conti. I conti del terremoto dell'Aquila. Una commissione di garanzia snella (solo tre membri) presieduta da un magistrato della Corte dei Conti.

Perfetto. Fu subito chiamato all'opera il giudice Salvatore Nottola, presidente della sezione Lazio della Corte. Magistrato di lungo corso, esperto e solerte. Nottola ora ricorda: "Fui gratificato da quella nomina e pronto a mettermi al lavoro. Trascorse alcune settimane, feci chiamare il dipartimento della Protezione civile dalla mia segretaria per sapere quando e come organizzarci. Le risposero che l'emergenza era tale da impedire una riflessione in merito". Nottola comprese e attese ancora. "Nessuno mi richiamò e allora, alla fine di luglio, ritelefonai io. Mi spiegarono ancora che la commissione di garanzia non era un'urgenza. Ne ho preso atto, e ho continuato ad attendere".

Il giudice Salvatore Nottola attende ancora di presiedere la prima riunione. La commissione non si è mai nemmeno costituita. Eppure il suo compito sarebbe stato (e tuttora lo sarebbe) decisivo anche perché oggi Bertolaso mette a verbale il proprio grande rammarico: "Sono mancati i controlli. Qualcosa può essermi sfuggito durante lo tsunami della mia vita che è stato l'anno scorso con una somma insostenibile di responsabilità ed emergenze". Tra le cose sfuggitegli al pensiero, per l'appunto, anche la nomina dei revisori dei conti indispensabili per fronteggiare l'enorme flusso di cassa. Controlli necessari per intensificare il sommario e parzialissimo lavoro di monitoraggio che la legislazione ordinaria prevede. I conti del terremoto sono gonfi come una pancia piena di cibo. Si è speso, e tanto. Bene o male? Ecco, ci sarebbe stato bisogno di una super verifica.

Si sa solo invece che dieci mesi di appalti e provvidenze sono costati un miliardo e mezzo di euro. Che questo bel torrente di danaro è servito a rintuzzare la prima emergenza senza poterla ritenere conclusa. Ad oggi seimila aquilani continuano a vivere in albergo con un costo medio pro-capite di 40 euro al giorno; 1.100 sono le persone alloggiate in caserme, 2.400 in appartamenti lungo la costa, 31mila in case in affitto. Solo questa ospitalità, secondo i calcoli che ha fatto l'Espresso, è valsa un mucchietto di quattrini: 220 milioni di euro. Colle che con il prosieguo dell'emergenza sarà agevolmente valicato.

Il Progetto C. a. s. e., gli edifici ecosostenibili e antisismici, è stato ridimensionato e poi nuovamente ampliato in corso d'opera. Pianificato per dare alloggio a 7.181 persone, alla fine aveva destinato le superfici utili solo per 5.565 terremotati, lasciandone fuori 1.616 (abitanti in case distrutte o inutilizzabili). Le C. a. s. e., queste stazioncine di transito, sono costate al metro quadrato 2.700 euro. Una cifra enorme se si considera che chi le abiterà è anche naturalmente assegnatario di un diverso e futuro contributo per la ricostruzione della sua definitiva abitazione. Poi e a parte il costo dei m. a. p., moduli abitativi provvisori (le casette in legno), e poi il resto. Anche nel resto, nel resto dei giganteschi appalti (tutto il ciclo del movimento terra, del cemento, del puntellamento, dell'incatenamento degli edifici pericolanti, delle forniture e dei servizi essenziali) avrebbe dovuto allungare lo sguardo il super comitato di controllo. Che però non è stato convocato. E non ha visto. E perciò - guarda tu ! - non ha controllato.

La promessa, solenne, arrivò lo scorso 3 novembre: “Entro tre mesi avremo mille nuovi posti letto per gli studenti L'Aquila: la metà nella Caserma di Campomizzi, altri 500 nelle casette di legno”. Parola del rettore Ferdinando Di Orio in uscita dalla Conferenza dei servizi sulla residenzialità studentesca che aveva messo a tavolino proprio tutti: Università, regione, comune, Azienda di diritto allo studio e soprattutto l'immancabile Protezione civile. In cassa, i 16 milioni di euro promessi dal ministro Gelmini e tutti i fondi ordinari e straordinari dirottati sull'emergenza.

Ora però il tempo è scaduto, e nella sede dell'Udu, Unione degli Universitari, il bilancio è sconsolato: “In realtà non è successo nulla. Al momento c'è solo una struttura a nostra disposizione, l'ex scuola superiore Reiss. Cioè 211 posti, più altri 80 promessi giusto in questi giorni. Speriamo siano veri, la situazione è pessima. Basti dire che la Reiss non ha nemmeno la mensa. Quelli di lettere fanno i chilometri tra la stanza, le aule, la mensa e ritorno. Si passa la vita ad aspettare l'autobus”. Le iscrizioni per l'anno 2009/10 sono state 23 mila, un calo del 20%. Merito di un polo universitario credibile, e soprattutto del fatto che gli studenti stavolta non pagheranno le tasse.

Ma il risparmio se ne andrà in fumo per tutti quelli che decideranno di prendere casa: circa 8 mila studenti vorrebbero fermarsi in città. “Semplicemente impossibile – spiega Michele Di Biase, dell’Udu – I posti sono pochissimi sia nelle case universitarie che negli appartamenti privati. E chiaramente i prezzi sono schizzati alle stelle. Le camere gestite dall’università vanno esaurite in un attimo, le liste d'attesa sono eterne, e se si cerca casa in giro, anche spostandosi, la singola costa almeno 200-250 euro al mese, mentre un posto in doppia o tripla non viene via per meno di 150 euro. Già a luglio, dopo il G8, avevamo proposto l'unica vera soluzione: aprire la caserma della Guardia di finanza agli studenti: 3.500 posti, una svolta.

Ma lì dentro ci sono ancora gli sfollati, idem alla Campomizzi. Per chi studia non c'è posto”. In realtà ci sarebbe anche la Casa Carlo Borromeo, un prodigio della bioedilizia sorto in soli 87 giorni grazie all'impegno della Regione Lombardia: 6,3 milioni di euro. Fu Roberto Formigoni in persona a inaugurare i 120 posti: legno ovunque e design nordico, ma in questo caso nessuna lista d'assegnazione, nessun criterio stabilito dall'università (reddito, meriti scolastici). La struttura è gestita dalla Curia, che diventerà tra trent'anni proprietaria anche del terreno, reso edificabile a tempo di record. Un’operazione che non ha convinto molti, a partire dalla Corte dei Conti della Lombardia che vorrebbe capire se l'utilizzo di fondi regionali sia un buon investimento vista la cospicua dote finale per la Chiesa (e non per i lombardi). Ma anche l'Adsu, l'Azienda per i diritti degli universitari dell'ateneo abruzzese, ha protestato: perché non lasciar gestire la San Borromeo all'Università anziché ai sacerdoti? Il Tar, presso il quale è stato depositato apposito ricorso, non ha ancora risposto.

Nel frattempo i ragazzi de L’Aquila hanno subìto un’altra doccia fredda: il bando lanciato dall'Università per realizzare una nuova casa da 600 posti, il Casale Calore di Coppito, è saltato. Ritirato a fine gennaio per una serie di errori e incongruenze definite “tecniche”. L'idea era quella del project financing: terreno dell'università, costi di costruzione accollati in gran parte a un privato (15 milioni su 20) cui cedere gli incassi per trent'anni, e poi ritorno dell'immobile ad assetscolastico. Spiega la prorettrice Giusi Pitari: “Purtroppo il bando non era perfetto, cercheremo di riformularlo, ma certo i tempi si allungano. É una risposta che vogliamo dare ai giovani e alla città: L'Aquila deve investire molto di più nello studio, questa risorsa è fondamentale da tutti i punti di vista. Perché non abbiamo ancora un piano per ricostruire la Casa dove sono morti i nostri studenti? Perché il fondo Gelmini non viene impiegato per quello che, simbolicamente e tecnicamente, sarebbe il gesto più importante della ricostruzione? Ora dobbiamo preoccuparci di trovare un letto agli studenti, e sperare che la giustizia possa trovare i responsabili della strage. Mi auguro che il governatore Chiodi sappia finalmente mettere in primo piano questo progetto”. E poi, c'è sempre un campanile che spunta: “I soldi ci sono. Usiamoli subito e bene. La regione ha appena assegnato a Teramo, città di cui Chiodi è stato a lungo sindaco, i soldi necessari a completare la sua casa dello studente. Noi qui non saremo tranquilli finché non vedremo in piedi quella de L’Aquila”.

La vicenda degli abusi edilizi e delle prime demolizioni a Ischia e Procida, è un avvenimento che rientra nella degenerazione economica, paesistica e culturale del golfo di Napoli e dei Campi Flegrei, avvenuta negli ultimi decenni. L'antica struttura sociale ha subito una devastazione tale da deformare le stesse risorse eccezionali preesistenti. Le leggi, seppure farraginose, esistono: l'opera abusiva entra direttamente nel patrimonio del Comune. Mai si è applicata la norma. Inoltre i Comuni isolani hanno eluso gli strumenti urbanistici, continuato a gestire caso per caso la sola edilizia, rifiutando tutele e sviluppo del proprio territorio. Ischia e Procida, in conseguenza dell'illecito, hanno perduto il turismo còlto richiamato dall'interesse per le popolazioni locali e dall'emozione di essere in un ambiente naturale di forte richiamo.

Per anni vi sono stati procedimenti giudiziari solo a consuntivo dell'abuso edilizio, con una precisa responsabilità condivisa: committente; progettista; appaltatore, uffici comunali competenti; commissioni edilizia e beni ambientali; amministratori a conoscenza delle operazioni di cantiere in isole tutelate.

Lo stesso Tar, intervenuto con la consuetudine di sospendere la demolizione dell'iniziale costruzione, ne consente di fatto il completamento. I controlli affidati alle amministrazioni comunali e agli organi periferici dello Stato, se sono stati affrontati, lo sono stati con assoluta superficialità. Eppure il controllo per le isole risulta semplice potendo i materiali di costruzione essere verificati, in luoghi di estesa inedificabilità, all'imbarco in terraferma e allo sbarco sull'isola.

Qui la politica è stata consenziente in modo esplicito; un abuso passa, ma migliaia documentati negli stessi condoni del privato mettono gli amministratori di fronte a una evidente correità. E quando hanno inizio alcune demolizioni il paradosso è l'equivoca dichiarazione dei sindaci, che minacciano le dimissioni. Loro, amministratori responsabili del silenzio utile alla propria gestione, al proprio potere politico. E manca da parte dei cittadini la resistenza alla perdita della propria memoria e della propria storia. Ma esiste una prospettiva da valutare con responsabilità: procedere nell'aggiornare in modo unitario il piano territoriale paesistico e il piano regolatore comunale e da qui affrontare un processo di riequilibrio dell'ambiente, oggi alterato in profondità, per recuperare un tessuto isolano inserito in un sistema urbanistico e architettonico qualitativo. Ma soprattutto deve imporsi un cambiamento nel modo di pensare dei cittadini. Serve coerenza. Solo se cambia la cultura politica anche negli organismi amministrativi ha oggi un senso la demolizione di alcuni alloggi.

Alemanno non ferma la corsa al cemento

di Paolo Berdini

Nella Germania federale della cancelliera Angela Merkel sono state da anni avviate politiche urbane per privilegiare gli interventi sul recupero del patrimonio edilizio esistente. Lì lo Stato non è stato cancellato dal liberismo senza regole: ha misurato la quantità di terreni agricoli che ogni giorno vengono consumati: 100 ettari al giorno, qualcosa come 100 stadi di calcio. In vista della scadenza del 2020 il tetto massimo è stato fissato in 30 ettari giorno. Nel 2050 non sarà possibile consumare neppure un metro quadrato di terreno agricolo: si potrà soltanto recuperare e ristrutturare l'esistente.

In Italia lo Stato è ormai un'entità astratta e ciascuno fa ormai quello che vuole. Nella Roma di Alemanno, ad esempio, dovrebbe essere attuato un piano regolatore approvato dalla precedente maggioranza veltroniana che prevede un'espansione edilizia pari a 16 mila ettari in dieci anni. Fino al 2020 si tratta dunque di 1.600 ettari all'anno; 4,5 ettari ogni giorno. Un sesto circa di quanto previsto alla stessa data per l'intera nazione tedesca!

Il gigantesco regalo alla rendita parassitaria fondiaria pensato da Veltroni, non appare evidentemente sufficiente alla nuova maggioranza. Da due anni assistiamo infatti non alla indispensabile cura dimagrante delle sconsiderate previsioni urbanistiche. Assistiamo invece ad una inarrestabile corsa ad inventare nuove occasioni di crescita urbana.

Il catalogo è lungo. Due casi in particolare. Nel 2008 è stato emanato un bando rivolto alla proprietà fondiaria per realizzare edilizia cooperativa. Possibile che sui 16.000 ettari non ci fossero aree adatte a soddisfare l'obiettivo? E in una città dove ci sono circa 50 mila famiglie in stato di grave disagio abitativo la cura più adatta era quella di costruire case in cooperativa, per loro natura adatte a famiglie che hanno un reddito sicuro, tale da permettere di accendere un mutuo bancario? Il provvedimento era dunque un altro regalo ai proprietari delle aree urbane che erano stati generosi con il candidato del centro destra durante il confronto elettorale.

Il secondo provvedimento è più recente. Alla fine del 2009 si decide di costruire una manciata di case (28 mila di cui solo 3 mila alloggi popolari) e contemporaneamente si decide di venderne molte di più tra quelle esistenti. Una prospettiva fallimentare, a ben vedere: altre famiglie povere non ce la faranno ad acquistare e saranno costrette a spostarsi sempre più lontano dalla città. La differenza con l'Europa civile si vede con il paragone con Parigi. Lì il comune acquista case sul mercato immobiliare per garantire la ricchezza sociale della città. Il mercato produce per sua natura una selezione per ricchezza, la mano pubblica riequilibra questo iniquo meccanismo garantendo convivenza civile ed evitando la creazione di sacche di emarginazione sociale.

Questa sfrenata corsa all'espansione della città è poi verificabile anche in un'altra serie di provvedimenti. Mentre le città di tutto il mondo rispondono alla crisi con grandi investimenti sul sistema dei trasporti collettivi non inquinanti, il vice sindaco Cutrufo propone di costruire un «parco a tema sulla Roma imperiale» su cui costruire colossei e fori in miniatura. 50 ettari di aree agricole di Castel di Guido, vicino a Fiumicino, rischiano la cementificazione.

Le due squadre di calcio romane non riescono a riempire lo stadio Olimpico se non nell'occasione dei derby: ciononostante si propone la realizzazione di due nuovi stadi, con annessi ipermercati, alberghi e abitazioni. Aiuta in tal senso un provvedimento di legge del centrodestra approvato nel mese di dicembre al Senato senza che l'opposizione lo contrastasse efficacemente: ogni squadra di calcio potrà derogare le regole urbanistiche per fare ciò che più gli piace, case o edifici commerciali. Insieme devasteranno altri cento ettari di agro romano.

E, infine, un'ultima perla che dimostra una volta di più la distanza che separa ormai l'Italia dai paesi civili. Uno dei progetti maggiormente sponsorizzati dalla commissione Marzano - istituita lo scorso anno per indagare sul futuro della città - è stato quello di realizzare cinque isole artificiali davanti al lido di Ostia e destinarle a porti, alberghi e quant'altro. Era il 2009 e già c'erano gli inequivocabili segnali della crisi edilizia mondiale. Ma gli esperti marzaniani non se ne sono evidentemente accorti: il modello culturale di riferimento era quello di Dubai, isole per la speculazione finanziaria internazionale. Il fallimento del progetto che si è prodotto nel dicembre negli Emirati arabi dovrebbe far riflettere gli strateghi de' noantri. Ma forse ci illudiamo. Con il terzo scudo fiscale, infatti, sono rientrati in Italia circa 100 miliardi di euro. I ricchi evasori romani hanno fatto rientrare una quota di dieci miliardi e il Sole 24 Ore afferma (27. 1. 2010) che questa montagna di soldi andrà ad alimentare il mercato immobiliare. Ma non verso il recupero delle infinite aree di degrado urbanistico e sociale. Così mentre decine di migliaia di famiglie non sanno come risolvere il problema della casa, i furbi evasori punteranno ancora su una nuova devastante espansione della città.

L'esperienza del X Municipio di Roma

Requisire le abitazioni vuote si può

di Sandro Medici

Sembra imminente a Roma la consegna di 161 case popolari, acquistate con fondi comunali e regionali. Un vero e proprio avvenimento. L'ultima volta fu nel settembre del 2008, presso Tor Vergata: vennero completate quattro palazzine che per quasi sette anni languirono desolate nei nudi rustici in attesa di altri finanziamenti. Le famiglie assegnatarie si accamparono per il timore che qualcuno le occupasse abusivamente - anch'io passai un paio di pomeriggi con loro.

Così vanno le cose a Roma. A una domanda di edilizia sociale che indigna e stordisce, si risponde con una manciata di alloggi ogni tanto e qua e là. Quando il nuovo sindaco si è affacciato per la prima volta sul balconcino con vista sui Fori, carico e baldanzoso per aver espugnato il Campidoglio, annunciò che presto Roma avrebbe potuto contare su tante e nuove case popolari. Dopo quasi due anni, ne assegnerà tra breve le 161 di cui sopra. Ma continua ad annunciare che almeno altre duemila saranno disponibili nei prossimi tempi. Ovviamente, non è in grado di dire come e dove. S'intuisce che pensa di edificare qualcosina sulle aree agricole. E forse sta lavorando in gran segreto per concordare con qualche immobiliarista l'astuto scambio di edilizia sociale con volumetrie private.

Sia come sia, siccome qualsiasi trasformazione urbanistica significativa necessita di procedure fisiologicamente prolungate, la domanda abitativa sociale resterà ancora insoddisfatta per molti altri anni. E tutto ciò sempre che Alemanno voglia davvero che in città si crei un'offerta calmierata: cosa che sappiamo bene quanto sia sgradita al mercato privato, che s'indebolirebbe alquanto in presenza di una concorrenza pubblica. Insomma, senza farla troppo lunga, l'impressione è che a Roma continua a essere difficilissimo fare urbanistica in contrasto o solo in autonomia dai poteri cementizi. E se ciò è valso nel quindicennio del centrosinistra, a maggior ragione sembra imporsi in quest'ultimo biennio di affinità elettive tra la destra e il mattone.

E allora, cosa succederà? O meglio, cosa dovrebbe succedere ancora e di più, rispetto alle centinaia di stabili occupati, alle migliaia di sfratti pendenti, a quel popolo sfuggente e vagante che dorme in macchina o sugli argini dei fiumi o nelle grotte e nelle fungaie o in baracche e tende o sotto i porticati o nei sottopassaggi o negli anfratti di parchi e giardini o nei casali di campagna abbandonati o sotto le arcate degli antichi acquedotti? L'emergenza abitativa a Roma (e non solo a Roma) è insomma destinata ad aggravarsi ulteriormente. Disperatamente.

A meno che non si ricorra a una scelta politica forte. A uno strumento certo non proprio ordinario ma comunque adatto ad affrontare un'emergenza tanto rilevante. Stiamo parlando della requisizione degli appartamenti vuoti e inutilizzati, che sappiamo rappresentare una quota cospicua dell'intero patrimonio della città, esclusi intenzionalmente dal mercato per non far deflagrare la bolla immobiliare.

Noi nel X Municipio ci abbiamo provato, e tutto sommato con successo: centinaia di famiglie sfrattate sono ancora nelle case requisite. E anche la Corte di Cassazione, nell'ottobre del 2006, al termine di una tormentata vicenda giudiziaria, riconobbe la validità delle ordinanze di requisizione e la loro aderenza al sistema giuridico. Per questa ragione ci assolse, ma precisò tuttavia che i Municipi non erano titolati ad agire in tal senso, non avevano i poteri sufficienti per requisire: solo i prefetti e i sindaci possono farlo. Si può fare, insomma. Ma c'è in questa città (e in questo paese) un prefetto o un sindaco che se la senta?

EMERGENZA CASA

In dieci anni affitti aumentati del 165%

In calo le quotazioni del mattone, ma negli ultimi 10 anni i prezzi degli affitti volano: + 165%. Secondo le valutazioni di Tecnocasa nel primo semestre 2009 i prezzi degli immobili sono scesi del circa 2,8% rispetto allo stesso periodo del 2008. A fronte di ciò il mercato degli affitti non sembra essere calato: «Il significativo calo dei valori immobiliari non ha trascinato un analogo ribasso dei canoni di affitto richiesti», afferma il Sunia. Per il sidacato degli inquilini le offerte del mercato privato sono incompatibili con le condizioni reddituali. Più del 75% dei nuclei familiari che nelle grandi città guadagana meno di 20.000 euro all'anno, dovrebbe spendere quasi la totalità del reddito per l'affitto. Negli anni le difficoltà a sostnere gli alti livelli dei canoni ha portato a un aumento degli sfratti. Roma è la città che registra il maggior numero di provvedimenti: 31.111 solo negli ultimi 5 anni.

Almeno per ora la sanatoria più generosa della storia d’Italia non si farà. Gli emendamenti Sarro e Nespoli (Pdl) al decreto Milleproroghe sono stati giudicati inammissibili dalla Commissione affari costituzionali perché “non omogenei alla materia del provvedimento”. “Occorre tenere alta la guardia e occhi ben aperti - secondo Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente - perché è forte la possibilità che ricompaia sotto mentite spoglie all’interno di qualche altro atto legislativo. Il partito degli abusivi, ce lo dice l’esperienza degli ultimi decenni, è irriducibile e ci proverà di nuovo”.

Vale la pena ricordare che gli emendamenti in questione miravano a modificare e allungare gli effetti dell’ultimo condono edilizio, quello del 2003 (art.32 della 326/2003), e intervenivano sul Codice dei beni culturali e del paesaggio, il c.d. Codice Urbani. Un colpo di gomma per cancellare il divieto di sanatoria per le opere abusive realizzate in immobili soggetti ai vincoli paesaggistici delle leggi nazionali e regionali. In aggiunta anche la possibilità di chiedere la sanatoria in aree sottoposte a tutela dal Codice del paesaggio. In entrambi i casi, questo nuovo condono sarà disponibile fino al 31 dicembre 2010.

Ma c’era di più: la sospensione di tutti i procedimenti, sia amministrativi che penali, già avviati e anche in esecuzione di sentenze passate in giudicato. Vale a dire che il provvedimento sarebbe stato retroattivo e le sentenze della magistratura carta straccia. Un esempio su tutti. Le ville della mafia sulla collina di Pizzo Sella a Palermo, la collina del disonore, su cui pende un ordine di demolizione (sentenza della Corte di cassazione) dal 2002.

Postilla

Appena abbiamoo postato la nota di Legambiente un lettore ci ha inviato il testo di una nota d'agenzia nella quale il presideente Cogliati Dezza esprime il suo plauso per la realizazione dell'auditorium a Ravello. Egli afferma testualmente: "Siamo particolarmente soddisfatti - conclude il presidente di Legambiente - che, anche attraverso l'auditorium di Ravello, si stia dimostrando che e' possibile investire in opere di qualita' che rovesciano l'immagine scontata e tradizionale di un Mezzogiorno degradato. La diffusione della cultura e dell'istruzione sono una delle leve fondamentali dello sviluppo, in particolare del Sud, dove rappresentano una chiave importante per combattere le mafie e l'illegalita' diffusa''.

A noi sembra che quando l'illegalità viene dall'alto (Antonio Bassolino) ed è considerata vizietto irrilevante da intellettuali e dirigenti di associazioni ambientalistiche, non si combatta affatto la "illegalità diffusa", ma anzi la si favorisca. (Si leggano in proposito la recente "opinionee la ricca cartella dedicata a

Circola semiclandestino come un samizdat in pochissimi uffici delle Ferrovie a Roma, un documento che è una bomba. Ha un titolo anodino: “Elementi di revisione del piano ferroviario 2007-2011”, ma il contenuto è clamoroso. In quelle pagine l’amministratore Fs, Mauro Moretti, mette implicitamente il bollo aziendale su ciò che molti avevano intuito alla luce delle prime settimane di esercizio dell’Alta velocità da Torino a Salerno. E cioè che la grande e importante opera ferroviaria costata la bellezza di 40 miliardi di euro non è, come era stato promesso e come ragionevolmente avrebbe potuto e dovuto essere, il primo passo di una nuova stagione dei treni all’insegna dell’ampliamento e del rafforzamento di tutti i servizi, dalla lunga percorrenza fino ai regionali.

È proprio l’esatto contrario: uno strumento formidabile che, quando funziona a dovere, facilita e rende più veloci le relazioni sull’asse Milano-Roma-Napoli, ma solo per 74 convogli al giorno e una fetta molto ristretta di clienti, assai inferiore all’1 per cento, e a discapito della maggioranza di viaggiatori. Il calo preventivato dal documento interno Fs riguarda tutta la rete, dai convogli regionali alle medie e lunghe percorrenze, dai collegamenti internazionali al trasporto merci.

LE CIFRE DEL CALO. Ecco le cifre dell’azienda. Trasporto regionale: riduzione dei passeggeri chilometro dai 28.615 milioni previsti originariamente a 23.410 nel 2011, cioè meno 22 per cento o, detto in altro modo, un passeggero ogni cinque dato per perso. I treni chilometro scendono dai 229 milioni precedenti a 193, 20 per cento in meno. I volumi del servizio universale si riducono del 13 per cento rispetto agli anni passati e del 15 per cento nei confronti delle previsioni contenute nella prima stesura del piano 2007-2011. Drastico arretramento anche per i convogli a media e lunga percorrenza: 23.332 milioni di passeggeri chilometro rispetto ai 25.241 del 2006 e ai quasi 29 mila del piano precedente. Per il traffico internazionale, poi, si prepara un vero e proprio tonfo: meno 40 per cento.

In assenza di una decisione formale del Parlamento, nell’indifferenza del governo e mentre la politica ha la testa da un’altra parte, sui binari si sta attuando un ribaltone, una specie di silenzioso colpo di mano ferroviario strisciante. Con l’Alta velocità in versione Moretti, insomma, diventa di giorno in giorno più concreto il rischio che le ferrovie si trasformino in una cosa diversa da ciò che furono e che fino a prova contraria dovrebbero continuare ad essere, possibilmente migliorando, considerato che sono di proprietà del Tesoro e sussidiate in larga misura dallo Stato, cioè dai contribuenticon le tasse. Somigliano sempre meno ad un’azienda con il compito di offrire a tutti e a prezzi ragionevoli un servizio sociale o universale sui 16 mila chilometri di binari. E sempre di più ad una società concentrata su poche tratte redditizie, a cominciare dalla più redditizia di tutte, l’Alta velocità Roma-Milano-Napoli. I clienti maltrattati, alcune associazioni di consumatori e qualche volta, ma non sempre, i sindacati cominciano a rendersi conto sulla loro pelle di ciò che sta succedendo e cercano di opporsi.

Le Fs a doppia andatura, alla ricerca di risultati sfavillanti e sprint su poche tratte, ma sempre più povere sul resto dei binari, non sono affatto lo sbocco inevitabile dell’Alta velocità, ma il punto d’arrivo di una scelta perseguita dall’attuale dirigenza dei treni. Al netto degli sprechi e delle costose opere di compensazione costruite per tacitare le opposizioni degli enti locali, l’Alta velocità in Italia è costata molto più che altrove perché progettata proprio come elemento di un sistema più ampio, a cominciare dalle pendenze dei tracciati appenninici studiate in modo che potessero essere percorse anche da convogli normali.

I primi a mettere le mani sul documento ferroviario riservato sono stati i redattori della Voce dei ferrovieri, mensile di categoria Cisl. Conferma il segretario, Giovanni Luciano: “Gli unici segni positivi di quel piano sembra siano quelli dei ricavi ottenuti con l’aumento dei servizi a mercato e delle tariffe e con la diminuzione dei costi operativi perseguita soprattutto con un taglio di 10.500 unità”. Lo sfoltimento degli organici ferroviari in realtà sta procedendo a ritmi serrati. Nel 2000 i dipendenti erano 109 mila, 4 anni dopo furono prepensionati o invitati ad uscire 4 mila persone; nel 2006 l’organico per la prima volta fu portato sotto la soglia delle 100 mila unità e il ritmo dei tagli è aumentato con l’arrivo di Moretti alla guida dell’azienda: nel 2007 discesa a 90 mila unità, l’anno successivo vengono espulsi di nuovo 5 mila ferrovieri e nel 2009 altri 4 mila. Ora sono 81 mila. Il fatto che il ridimensionamento sia stato attuato da Moretti, manager con un passato di comunista e dirigente dei ferrovieri Cgil, non ha favorito i rapporti con i sindacati. Per la verità i rappresentanti dei lavoratori all’inizio guardavano con un occhio di riguardo il nuovo capo dell’azienda, riconoscendogli se non altro una competenza in materia che altri amministratori prima di lui non avevano affatto.

STRATEGIE. Con il passare del tempo, però, i sindacati o almeno una parte di essi, hanno cominciato a temere che i tagli all’organico non siano solo una faccenda dolorosa, ma forse inevitabile, di risparmi e razionalizzazioni, ma il primo passo di un progetto di stravolgimento della natura dell’azienda. Attacca con estrema durezza il segretario dei ferrovieri Cisl: “Tagliare servizi, chiudere impianti, portare all’esterno il lavoro dei ferrovieri e ridurre la ferrovia alla piccola Alta velocità forse da quotare in Borsa per poi provare a combattere i francesi sul Milano-Parigi, forse potrà piacere a qualcuno. A noi no. Prima di Moretti, Giancarlo Cimoli è passato da un’operazione straordinaria all’altra e quando se n’è andato, abbiamo dovuto raccogliere le macerie. Non vorremmo succedesse di nuovo”.

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