“Il piano casa non funziona perché le regioni lo hanno reso troppo vincolistico”. La campagna stampa dei grandi quotidiani nazionali era iniziata con questo efficace slogan non appena si comprese che il regalo che Berlusconi aveva fatto alla rendita immobiliare riguardava un ristretto numero di persone. Invece di ragionare con onestà intellettuale sul fatto che la produzione edilizia in questo paese ha superato il limite di guardia e rischiamo un generale e irreversibile svalutazione immobiliare, la classe dirigente, incapace di pensare ad una prospettiva per uscire dalla crisi, non ha fatto altro che chiedere ulteriori deroghe urbanistiche, e cioè altri ricchissimi regali in termini di rendita immobiliare.
L’amministrazione regionale del Lazio è molto sensibile ai voleri del mondo della speculazione edilizia. Ne ha infatti avuto il prezioso appoggio per vincere le elezioni e ora le cambiali sottoscritte devono essere onorate. Così l’assessore all’urbanistica Luciano Ciocchetti (Udc) ha illustrato le linee del nuovo piano casa del Lazio. Rispetto a quello già molto generoso approvato dall’intrepida giunta Marrazzo aumentano ancora i premi di cubatura: ai proprietari di abitazioni verrà data la possibilità di aumenti compresi tra il 20 e il 50%. Ai proprietari di edifici industriali verranno invece concessi due strepitosi regali, un aumento del 30% delle volumetrie esistenti e il cambio della destinazione d’uso: appartamenti invece di linee di produzione.
Facciamo un esempio. Un’attività industriale di media grandezza ha una dimensione pari a 100 mila metri cubi, e cioè 12 mila metri quadrati di superficie coperta. Oggi, nella crisi industriale che viviamo le attività industriali hanno una rendita molto bassa: quei metri quadrati possono valere al massimo 1 milione di euro. Si pensi ad esempio che a Detroit la crisi industriale del comparto automobilistico ha provocato un collasso delle quotazioni immobiliari produttive dai 2000 dollari del 2008 agli attuali 60 dollari!
Ma torniamo nel Lazio. I capannoni hanno, come noto, altezze di 9 metri, con il cambio di destinazione d’uso si potranno realizzare tre piani di abitazione, e cioè il triplo della superficie esistente: 36 mila metri quadrati invece dei 12 di partenza. Poi, con il gentile regalo del 30% concesso dalla Polverini, la superficie totale arriverà a 47 mila metri quadrati. Il valore delle abitazioni nella periferia romana sono pari a circa 4 mila euro al metro quadrato: il capannone che valeva 1 milione con il piano casa regionale raggiunge i 188 milioni di euro. La Polverini ha inventato la gallina delle uova d’oro.
Ad esclusivo favore della speculazione però. Perché l’effetto dello sciagurato piano casa sarà quello di favorire inevitabilmente l’abbandono delle attività produttive e cioè l’ulteriore aggravarsi della crisi produttiva ed economica della regione. Quale imprenditore può ancora avere la voglia di rischiare investimenti in un qualsiasi settore produttivo se di fronte alla speculazione immobiliare viene aperta un’immensa autostrada? Sono venti anni che, colpo dopo colpo, sono state smantellate tutte le regole di governo del territorio e della tutela dell’ambiente. I piani regolatori che, con tutti i limiti che ben conosciamo, tentavano di delineare un futuro condiviso alle nostre città sono stati sostituiti concetti come la “valorizzazione immobiliare” e “l’accordo di programma” per superare ogni previsione urbanistica.
Lo stato liberale, che pure aveva a cuore l’iniziativa economica privata, aveva trovato nell’urbanistica un efficace punto di equilibrio tra interessi della collettività e interessi della proprietà, limitandone lo strapotere e imponendo vincoli. Oggi siamo in un’altra prospettiva sociale e culturale e tutto questo viene cancellato. Così la collettività deve rassegnarsi a subire sempre e comunque il dominio della proprietà immobiliare. In quale altro paese europeo, infatti, è la proprietà a decidere che i ceti meno fortunati dovranno vivere in luoghi desolati - come sono la totalità delle aree industriali - invece che in città dove si può vivere meglio? In nessuno, solo nell’Italia dominata dalla speculazione.
Con il piano casa delle regione Lazio tocchiamo con mano che, se non si taglia il dominio della rendita immobiliare – dominio che è bene precisarlo non esiste negli altri paesi della civile Europa - il nostro declino economico e civile non si interromperà. Il problema non è Berlusconi: il vero nodo che stringe alla gola l’Italia è quello di un’opposizione politica incapace di avere un’idea di sviluppo lungimirante in grado di favorire gli investimenti produttivi veri. In questi anni di liberismo urbanistico trionfante la sinistra non ha saputo costruire una visione critica alternativa, limitandosi ad inseguire il centro destra. Ed anche oggi che si toccano con mano gli effetti della cancellazione dell’urbanistica con l’espulsione dalle nostre città di centinaia di migliaia di famiglie verso periferie lontane, il tema dell’urbanistica è sempre più assente dalla politica.
Il ripristino delle regole del governo delle città e del territorio è il primo elemento per poter rilanciare lo sviluppo produttivo del nostro paese. Altro che piani casa: bisogna urgentemente chiudere la fase del sacco urbanistico dell’Italia.
Capannoni dismessi, centri commerciali senza clienti, aree industriali in disarmo. Con il Piano Casa che la Regione si accinge ad approvare, qualsiasi immobile, anche il più malmesso, potrà essere trasformato nella gallina dalle uova d’oro: una bella palazzina fitta di appartamenti, da vendere o affittare a prezzi di mercato, tranne una quota del 30% da dare in locazione a canone agevolato.
E’ questa una delle innovazioni - insieme all’aumento dei premi di cubatura per le attività artigiane (dal 10 al 20%) e alla possibilità di sopraelevare - messe a punto dall’assessore all’Urbanistica Luciano Ciocchetti di concerto con l’assessore alla Casa Teodoro Buontempo. Ventritré articoli che scardinano e rendono aggirabili, nel Lazio, tutti i piani regolatori dei Comuni: un complesso sistema di deroghe e varianti che sembrano confezionate apposta per fare un regalo al sindaco Gianni Alemanno e alla sua più volte dichiarata intenzione di modificare il Prg della capitale.
Ma cominciamo dall’inizio del documento. Cioè dall’articolo 2, che definisce gli ambiti di applicazione. Rispetto al Piano Casa della giunta Marrazzo, l’esecutivo di centrodestra strizza l’occhio ai «furbetti» del mattone: non solo per gli edifici «ultimati e legittimamente realizzati» si possono infatti effettuare interventi di ampliamento, ristrutturazione, sostituzione edilizia con demolizione e ricostruzione in cambio di cubatura (dal 20 fino al 50%), ma pure per quelli «oggetto di richiesta di concessione in sanatoria» per i quali «sia stato rilasciato relativo titolo abilitativo» oppure sia stato «autocertificato». Una norma che mette sullo stesso piano chi rispetta la legge e chi preferisce chiudere un occhio, tanto un condono prima o poi arriva.
Come non bastasse, aree ed edifici tutelati da vincoli paesaggistici perdono la loro inviolabilità: basta ottenere uno specifico nulla osta dalla «soprintendenza competente». Idem per casali e complessi rurali storici, che potranno essere abbattuti e ricostruiti, come pure gli immobili già esistenti nelle aree protette. Un esempio per tutti: nel parco dei Castelli romani (finora esentato dall’applicazione del Piano Casa) tutti e 400mila i residenti, volendo, potranno allargare le proprie villette dal 20% (entro un massimo di 62,5 metri quadrati) fino al 35%.
Ma il vero atto sovversivo, quello che fa saltare tutte le previsioni urbanistiche dei Comuni, è l’articolo 3bis: «Interventi finalizzati al cambiamento di destinazione d’uso da non residenziale a residenziale». Laddove, «in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici ed edilizi comunali vigenti o adottati», sarà possibile ampliare del 30% qualsiasi tipo di edificio a destinazione non residenziale (purché dismesso) a due condizioni: che il cambio di destinazione d’uso a residenziale riguardi «almeno il 75% della superficie utile lorda esistente» e che, «al fine di agevolare le richieste di alloggi in locazione a canoni calmierati, almeno il 30% della superficie oggetto di intervento sia destinata alla locazione per 20 anni, con possibilità di riscatto a partire dal decimo anno, a un canone determinato sulla base di criteri» decisi dal Comune. Col risultato mettere a rischio ogni progetto urbanistico, contenuto nei vari prg cittadini.
Altra chicca. L’articolo 7, «Programmi integrati di riqualificazione urbana e ambientale», che i Comuni potranno adottare, di nuovo, «anche in variante della strumentazione urbanistica vigente» sulla base di «iniziative pubbliche o private, anche su proposta di privati, consorzi, nonché imprese e cooperative». Progetti volti, in sostanza, «al rinnovo del patrimonio edilizio e al riordino del tessuto urbano attraverso interventi di sostituzione edilizia con incrementi volumetrici e modifiche di destinazione d’uso di aree e di immobili». Eccolo lo strumento che consentirà ad Alemanno di radere al suolo e ricostruire Tor Bella Monaca. Una delle operazioni più sostenute dalla lobby dei costruttori.
Di Carlo: "Così si distrugge l’urbanistica della città"
Intervista di Paolo Boccacci
«Questa è chiaramente un’ipotesi di modifica della legge scritta dalla parte più retriva e più estremista che si occupa di edilizia nel Pdl. È come se ci fossero le impronte digitali di coloro che l’hanno scritta difendendo gli interessi del partito del cemento. E posso fare degli esempi precisi che descrivono bene l’operazione»
Mario Di Carlo, Pd, ex assessore regionale alla Casa e vice presidente della Commissione Urbanistica della Pisana, non ha dubbi: la nuova legge è un regalo ai costruttori.
«Il primo dato da considerare» aggiunge «è clamoroso: il responsabile della struttura tecnica del Comune prende il posto del sindaco e del consiglio comunale e le decisioni sui piani di recupero vengono sottratte all’assemblea elettiva».
E gli altri esempi?
«Sulle aree vicine al mare si possono demolire edifici costruendo altrove con un premio di cubatura addirittura del 50%, ma mentre la giunta precedente prevedeva la cessione dei terreni sulla costa che diventavano di proprietà comunale, ora invece rimangono dei proprietari, con l’unico obbligo di renderli fruibili pubblicamente. Ma c’è dell’altro che può distruggere i piani regolatori del Comuni, compreso quello di Roma».
Che cosa?
«La trasformazione della destinazione d’uso dei capannoni che diventeranno case con un premio di cubatura del 30%. Tutti quelli che hanno comprato, pagandoli profumatamente, terreni edificabili, avranno la concorrenza dei padroni delle ex strutture produttive dove, tra l’altro, spesso le attività si fermeranno con il risultato di licenziare gli operai, penalizzando anche l’occupazione».
Un altro nodo è quello della possibilità di ristrutturare quartieri interi anche con progetti di privati.
«La cosa assolutamente inaccettabile è che si aprirà anche un mercato generalizzato dei diritti edificatori. Mi spiego meglio: mentre prima il premio di cubatura andava al singolo proprietario, adesso in questo caso il 50% va calcolato su tutti gli edifici compresi nel piano di recupero. Per cui anche chi non demolisce vende la cubatura al proprietario accanto, che invece abbatte e ricostruisce, per permettergli di aumentare i metri cubi».
Postilla
Di tutto, di più: nella nuova versione del piano-casa Polverini style, la pulsione alla deregulation si esprime in termini così violenti da travalicare verso una vera e propria sovversione delle regole non solo urbanistiche, ma pure democratiche, laddove, ad esempio, scavalca le prerogative delle assemblee elettive (Consigli comunali).
Giustamente il titolo sottolinea quella che, con un provvedimento di tal genere, diventerebbe automaticamente l’area a maggior rischio: l’agro romano.
Da troppo tempo obiettivo di appetiti edificatori purtroppo sostenuti in maniera bipartisan da ammnistratori e politici, l’agro romano si appresta a divenire palestra privilegiata dei mirabolanti effetti del piano casa berlusconiano.
E a poco serviranno le armi ormai spuntate degli organi di tutela che appena qualche mese fa introdussero, su un’ampia zona dell’agro fra Laurentina e Ardeatina, un vincolo paesaggistico in virtù del quale il ministro Bondi si autoattribuì il titolo di difensore del paesaggio romano.
Come prevedemmo da consumate Cassandre (v. l’opinione del 2 dicembre: Avviso di vincolo), la versione finale di quel vincolo, accogliendo quasi tutte le osservazioni presentate e con l’introduzione di alcuni funanbolismi lessicali da manuale, depotenziò drasticamente la valenza di quel provvedimento di tutela. In attesa che acconcio provvedimento ne compisse il sovvertimento: il cerchio si chiude. (m.p.g.)
GROSSETO — Vent’anni di solitudine tra le montagne di Marche e Umbria. La galleria della Guinza, poco più di un buco cementificato teatro di rave party, discariche abusive e scorribande notturne, è da tempo un monumento in negativo, l’emblema della «grande incompiuta», la Grosseto-Fano, codice stradale E-78, conosciuta dai più come «Strada dei due Mari». Un sogno progettato più di mezzo secolo fa, ma rimasto in parte nella fase onirica, per mettere in contatto il Tirreno e l’Adriatico attraverso l’Appennino. Qui, nel «buco nero» della rete stradale che avrebbe dovuto rendere più vicine Marche, Umbria e Toscana, l’altro ieri è iniziata la protesta che per tre giorni unisce istituzioni, cittadini, imprenditori, industriali, sindacalisti, politici e parlamentari di tre Regioni (Toscana, Umbria e Marche) e 5 Province (Perugia, Pesaro-Urbino, Arezzo, Siena, Grosseto).
Tutti uniti appassionatamente, tra comizi, tavole rotonde, ma anche bistecche, concerti dal vivo e bicchieri di buon vino, per protestare a pancia piena e sollecitare i lavori a volte lentissimi e spesso inesistenti dell’infrastruttura.
C’è anche un accampamento davanti alla galleria più isolata d’Italia. Tende dove trascorreranno la notte alcuni degli amministratori arrivati a decine dalle tre Regioni attraversate dalla «strada dimezzata». Siamo nel paese di Mercatello sul Metauro, cinquecento metri di altezza, tra le province di Pesaro-Urbino e Perugia, dove appunto sorge la galleria incompiuta e dove è iniziata la riscossa.
«È solo l’inizio, vogliamo indignare tutta l’Italia per questo spreco di denaro pubblico e questi ritardi incomprensibili — dice il presidente della Provincia di Pesaro Urbino, Matteo Ricci —. Noi resteremo qui sino a domenica. Poi ci saranno altre iniziative sino a quando l’opera non sarà completata. È troppo importante per i nostri territori, sarebbe un balzo in avanti per imprese, industrie, lavoratori e liberi professionisti e naturalmente per il turismo».
Solo per la galleria incriminata sono stati spesi 60 milioni di euro e ancora mancano asfalto e illuminazione. La seconda ferrovia [sic], quella sull’altra carreggiata, non è stata neppure finanziata. E non è un esempio isolato. Nei 251 chilometri di lunghezza della «Due Mari», da Grosseto a Fano, sono diversi i lotti di completamento non finanziati in Toscana e nelle Marche. In Umbria, poi, non è stato progettato niente.
Per concludere la strada ci vorrebbero ancora quattro miliardi di euro. Troppi. Lo ha ribadito lo stesso ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, che ha detto di lavorare a un project financing, l’unico modo per ottenere denaro fresco dei privati. Con il risultato di un probabile pedaggio sull’arteria.
Si vedrà. Intanto ieri «il popolo della Guinza» ha discusso, organizzato tavole rotonde, proposto e riproposto, pensato e progettato. E approntato bracieri succulenti, ascoltato musica sino a tardi per poi dormire al fresco delle tende. «Una manifestazione bipartisan senza bandiere politiche — spiega Marco Vinicio Guasticchi, presidente della Provincia di Perugia —; le Province che si vuole cancellare sono protagoniste di un nuovo modo fare politica. Qui si consuma la rivolta costruttiva degli amministratori».
Oggi e domani si continua con parlamentari, amministratori regionali, industriali. Stamani, all’alba, per i coraggiosi delle tende sveglia e colazione al campo davanti al «buco nero». E preghiera laica affinché il miracolo si compia.
IL SOTTOATTRAVERSAMENTO ED IL NODO FERROVIARIO:
ALCUNE QUESTIONI DI INTEGRAZIONE
A SCALA METROPOLITANA E REGIONALE
1. Nodo ferroviario e trasformazioni territoriali
Le realizzazioni della nuova stazione ferroviaria di Belfiore e del vicino sottoattraversamento urbano rappresentano trasformazioni di grandissimo rilievo non soltanto per la Città di Firenze, ma anche per la sua area metropolitana, e più in generale per la Toscana.
Esse infatti sono destinate a modificare profondamente i profili di accessibilità urbani, metropolitani e regionali, soprattutto in relazione alla mobilità di medio-lunga percorrenza, influenzando così l’evoluzione urbanistica e territoriale di ampie parti di città.
Pertanto, la definizione di questi interventi dovrebbe accompagnarsi ad una approfondita riflessione sul ruolo svolto dalle stazioni – e più in generale dal sistema di trasporto ferroviario – alle differenti scale territoriali. Il problema infatti non è soltanto assicurare una adeguata progettazione architettonica al fabbricato viaggiatori, o minimizzare gli impatti urbanistici ed ambientali degli scavi sotto il centro storico fiorentino; si tratta anche di definire approfonditamente le modalità di inserimento del nuovo impianto – e dei nuovi servizi – nel complesso quadro funzionale della mobilità di livello locale ed intermedio. Considerata la rilevanza delle trasformazioni attese, lo scopo dovrebbe essere quello di ovviare, almeno in parte, alle macroscopiche distorsioni che nel corso degli ultimi decenni hanno caratterizzato lo sviluppo di un’area metropolitana sempre più dipendente dai sistemi di trasporto motorizzati individuali.
2. La nuova stazione AV di Belfiore
e la gestione del nodo ferroviario fiorentino
La soluzione prescelta per l’attestamento dei treni ad alta velocità nell’area urbana di Firenze assume come punto fermo la realizzazione di una infrastruttura ad essi dedicata, formata dal sottoattraversamento e dalla nuova stazione di Belfiore.
Tale soluzione persegue in via prioritaria obiettivi di funzionalità ferroviaria, volti a superare l’attuale ripartizione di attestamenti fra le tre stazioni di Santa Maria Novella, Rifredi e Campo di Marte, certamente non ottimale sia dal punto di vista sia della circolazione dei convogli, sia della congruenza con l’assetto urbanistico fiorentino.
La nuova stazione diventerà, in sostituzione dei tre scali citati, l’unico attestamento dei treni AV dell’intera Toscana, tendendo così a configurarsi come polo di massima accessibilità a livello regionale. Nel contempo, visto il suo carattere sostanzialmente specializzato a servizio di poche categorie di treni, essa non potrà che qualificarsi come “quarta” stazione di un sistema di scali urbani già oggi piuttosto articolato, e carente sotto il profilo della reciproca integrazione funzionale. Queste due circostanze sono destinate a porre complesse questioni di coesistenza con i servizi di trasporto pubblico esistenti, facenti capo alle altre stazioni. Si tratta, da un lato, dei servizi ferroviari regionali, che continueranno probabilmente a fruire soprattutto della stazione di Santa Maria Novella, alleggerita dai vincoli indotti dalla circolazione dei treni di lunga percorrenza, e dall’altro, della futura rete tranviaria, che proprio in questa stazione troverà il suo principale nodo di corrispondenza urbano.
In questo senso, sarebbe quanto mai necessario chiarire, in via preventiva, quali debbano essere le relazioni tra i diversi servizi ed i corrispondenti impianti, sapendo che i servizi di lungo raggio traggono molta della loro ragion d’essere dall’integrazione con efficienti sistemi di adduzione metropolitana e regionale. Infatti, è evidente che, per sostenere efficacemente il trasporto ferroviario, i treni AV non dovrebbero collegare soltanto Firenze a Roma e Milano, ma anche Arezzo a Bergamo e Scandicci a Pozzuoli. Un obiettivo di questo genere richiede evidentemente adeguati sistemi di corrispondenza nelle grandi stazioni metropolitane, da configurare come grandi hub della rete ferroviaria nazionale, adottando orari sincronizzati secondo l’esempio della Svizzera, della Germania, dei Paesi Bassi e di molti altri paesi europei.
Un chiarimento di questo genere richiederebbe una chiara definizione del modello di esercizio da sviluppare all’interno del nodo, che indichi con chiarezza quali debbano essere le linee di servizio del sistema cadenzato regionale (memorario), identificando anche le fermate da effettuare ed i corrispondenti capilinea urbani. Traendo spunto dall’esperienza di moltissime aree metropolitane europee, tale modello potrebbe comprendere anche un piccolo numero di linee ad elevata frequenza, sviluppate sul modello della RER parigina o delle S-Bahn tedesche (vedi figura seguente), a sostenere la mobilità di carattere più strettamente metropolitano utilizzando la potenzialità di circolazione liberata sulla rete storica deviando i treni di lunga percorrenza sulla nuova linea AV.
Sulla base di un tale esercizio, sarebbe possibile chiarire il ruolo delle quattro stazioni urbane, avendo comunque cura di precisare le modalità di interscambio tra i diversi ranghi di servizio, in assenza del quale la rete ferroviaria tenderà inevitabilmente a segmentarsi in più sistemi non integrati fra loro, con notevole limitazione dei benefici generati da investimenti pubblici tanto importanti, quali quelli richiesti dalla realizzazione della dorsale AV Milano-Bologna-Firenze-Roma.
3. Potenzialità e limiti del sottoattraversamento urbano
(in un contesto di rete)
Le riflessioni relative al modello di esercizio del sistema ferroviario a scala metropolitana e regio-nale non potrebbero trascurare poi il sottoattraversamento urbano, che appare funzionalmente legato alla stazione AV di Belfiore. E’ importante infatti sottolineare che, nel caso di Firenze, il tunnel scavato sotto il centro storico verrà utilizzato esclusivamente da treni a lunga percorrenza, che lo percorreranno senza effettuare fermate intermedie.
Si tratta di una scelta peculiare, che non trova molti riscontri europei: più spesso, in altre metropoli come Monaco di Baviera, Francoforte o Zurigo, la realizzazione dei sottoattraversamenti ferroviari urbani si è orientata soprattutto a supporto dei servizi regionali e metropolitani: i tunnel presentano in questi casi numerose fermate intermedie, che consentono di amplificare ad intere conurbazioni i vantaggi di accessibilità ottenuti rispetto ai centri storici (vedi foto seguente).
Nel caso fiorentino, nessuna riflessione sembra essere stata finora sviluppata sul ruolo potenzialmente attribuibile ad infrastrutture tanto costose, anche rispetto alle esigenze della mobilità locale. Pesa anche in questo caso la sostanziale assenza di chiari riferimenti programmatici relativi allo sviluppo dei servizi ferroviari afferenti al nodo, considerati nel loro complesso.
4. Alcune riflessioni conclusive
L’ampio dibattito sviluppatosi nell’ultimo decennio, relativamente all’attestamento fiorentino dell’alta velocità ferroviaria, ha esplorato numerosi temi di sicuro rilievo per l’assetto urbanistico ed ambientale della città. Nel contempo, esso ha forse lasciato in secondo piano questioni altrettanto importanti, che riguardano l’inserimento dei nuovi impianti all’interno del sistema di trasporto metropolitano e regionale. Ne derivano alcune potenziali incongruenze, tali da ridimensionare considerevolmente i benefici generati da interventi assai costosi per la mano pubblica.
Una più approfondita riflessione, relativa al necessario riassetto del sistema degli attestamenti ferroviari urbani, ed alle potenzialità di sviluppo dei servizi metropolitani, pare oggi più che mai necessaria, anche alla luce degli obiettivi di riordino della mobilità locale intorno al sistema di trasporto pubblico.
La definizione di un modello di esercizio, capace di guidare lo sviluppo dei servizi ferroviari e metropolitani, rappresenta un passaggio tecnicamente ineludibile per definire prospettive di sviluppo del nodo ferroviario, adeguate alla complessità delle problematiche attuali. La disponibilità di un coerente modello di questo genere consentirebbe peraltro di programmare lo sviluppo del nodo per fasi funzionali successive, assicurando al contempo:
- la migliore funzionalità dei servizi nell’assetto infrastrutturale odierno, caratterizzato dalla compresenza di più stazioni principali (Santa Maria Novella, Rifredi, Campo di Marte);
- una più attenta identificazione delle prestazioni che dovranno essere conseguite dai potenziamenti infrastrutturali futuri;
- e in definitiva un miglior inserimento funzionale dei nuovi impianti all’interno del sistema di trasporto urbano, metropolitano e regionale.
La memoria sul nodo AV di Firenze, redatta il 13 settembre per il comitato IDRA, è stata distribuita nel corso di una commissione del Consiglio Regionale toscano. Il testo, completo di immagini è scaricabile in calce.
GELA - In quanto tempo si può costruire secondo voi una casa di tre piani? In un anno? In due? In Sicilia, c´è qualcuno che l´ha fatto in ventuno giorni e in ventuno notti. E fra pilastri e muri portanti ogni particolare è stato ben curato e rifinito, nelle stanze di sotto e anche in quelle di sopra, in cantina, in terrazza. Per il momento il signor N. F. nella sua casa non ci potrà abitare - è stato denunciato sette volte per abusivismo e per sette volte i carabinieri hanno messo i sigilli all´immobile - ma lui sa già che prima o poi lì dentro farà entrare la sua numerosa famiglia.
Siamo tornati a Gela dopo un lungo distacco e quaggiù, estremità aspra che si affaccia sul Mediterraneo, è ancora difficile capire se il vero miracolo sia quello riuscito al signor N. F. che in meno di tre settimane ha visto nascere il suo palazzo oppure quell´altro inseguito dal 1968 e finalmente apparso alla città intera in questa fine d´estate. Si materializzerà a tutti il prossimo 24 settembre con tanto di timbro e pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale: dopo quarantadue anni di attesa anche Gela avrà il suo piano regolatore generale, dopo quarantadue anni di scorribande edilizie anche a Gela si dovrà costruire secondo legge come nel resto d´Italia.
Il problema del signor N. F. forse era proprio questo: fare in fretta, avere pronto il suo nuovo alloggio prima del 24 settembre 2010. Prima del piano regolatore.
La guerra delle case in Sicilia non è mai finita e se volete scoprirne di più seguiteci in questo viaggio che s´inoltra in una casba, una delle tante sull´isola, Gela come metafora dell´abusivismo più primitivo, un marchio di capitale del male che si porta dietro per una faida mafiosa ormai lontana e un oggi scivoloso ma non più disperato, appeso al desiderio di non morire di cemento.
E allora eccoci ancora nella Gela delle sue incoerenze più violente, dove fra le mura di Caposoprano cercano la tomba di Eschilo e dove intorno a una casa color rosso pompeiano in via dell´Ara Pacis il paesaggio urbano è un gigantesco blocco di tufo giallo, cubi, scheletri, porte e finestre murate che si inseguono fino a quando la casa a tre piani di N. F. svetta in un cielo blù dove non si spingono nemmeno i fumi del Petrolchimico.
La prima volta hanno sequestrato il cantiere a gennaio, quando le ruspe scavavano ancora per le fondamenta. Il giorno dopo qualcuno ha violato i sigilli e qualcun altro ha continuato a spostare terra. Sono arrivati altri sigilli e sono stati chiamati altri operai, nuove denunce e tre imprese che si sono alternate per i lavori anche con il buio. Al diciottesimo giorno a N. F. è stato notificato l´obbligo di firma, ogni mattina e ogni sera costretto a passare in caserma. Ma alla fine la sua casa adesso è la, come lui la voleva.
Quello di via dell´Ara Pacis è uno dei 174 edifici sequestrati dall´inizio dell´anno a Gela (nel 2009 erano stati 192), quando la frenesia costruttiva è divampata un´altra volta. In vista del Piano regolatore la giostra del mattone ha ricominciato a girare.
Dalla via dell´Ara Pacis scendiamo verso il lungomare e fra la collina e le dune di sabbia, all´angolo di via Federico II°, i gelesi hanno assistito a un altro miracolo: una villetta di cento metri quadri con i tetti spioventi come uno chalet di montagna, tirata su fra le palme. «Il proprietario del terreno non sapeva niente fino a quando non gli è stato notificato l´ordine di demolizione, un altro è andato lì e ha costruito», racconta Giampiero Occhipinti, il comandante della sezione di polizia giudiziaria dei vigili urbani che indaga sui crimini urbanistici. Spiega Occhipinti: «Rispetto al passato gli abusi sono cambiati: prima costruivano solo nuove case, adesso la metà degli abusi riguardano sopraelevazioni, secondi e terzi piani». Come la palazzina di fronte all´assessorato urbanistico, in via Chopin. Piloni, travi e un altro tetto «spuntato» prima di Ferragosto.
Ma se una volta, 30 o 40 anni fa - quando Enrico Mattei ha portato gli stabilimenti dell´Eni e Gela ha cominciato a vivere il suo sogno texano, dilatandosi esagerata e fino a contare 100 mila abitanti - tutti dicevano che era abusivismo «di necessità», in questi mesi si fanno case fuorilegge per figli e nipoti, ville e villoni. E tra almeno 20 mila immobili costruiti senza uno straccio di autorizzazione e almeno 16 mila richieste di condono insabbiate, non è mai stato demolito neanche un muretto. E´ un altro dei miracoli di questa città in bilico fra lo sprofondare nel passato e la voglia di cambiare. «Adesso però si volta pagina», giura Angelo Fasulo, avvocato che è sindaco da tre mesi, «adesso c´è uno strumento urbanistico di programmazione generale vero. Sappiamo cosa dobbiamo fare e dove dobbiamo farlo». Avverte il sindaco: «Non è più il tempo delle incertezze né il tempo di pensare che per costruire una casa bisogna trovare l´amico giusto. Ora c´è solo la legge da rispettare, ci saranno delle demolizioni, Gela deve tornare quello che era prima: una bella città della Sicilia».
Purificare il territorio, eliminare gli orrori. Ma come? Il nostro viaggio ci trasporta a Scavone, sfioriamo le palazzine pericolanti dell´Istituto Autonome Case Popolari - da una dozzina di anni disabitate, abbandonate, carcasse che pencolano minacciose davanti ai lidi dove montagne di sabbia scendono a picco su un mare verdastro - e poi a Settefarine, che è il tracciato più antico del labirinto gelese. Via Boccanegra, via Ghirlandaio, via Juvara, via Indovina. Non c´è un albero, solo il tufo giallo che acceca e che soffoca. E poi le strade dei santi: via Santa Rita, via San Cristoforo, via San Giuseppe, via San Camillo. Case una attaccata all´altra, una dentro l´altra. «Tutta colpa di chi ci ha amministrato: non hanno dato regole, nessuno si è mai preso una responsabilità, l´assessorato all´Urbanistica non ha mai funzionato, lì dentro ognuno fa quello che gli pare», denuncia Giovanni Peretti, un imprenditore che per vedere approvato il progetto del suo albergo ha dovuto aspettare otto anni. Su e giù ogni giorno fra l´assessorato all´Urbanistica e il niente, una terra di nessuno che ha favorito i furbi e i ladri. E i soliti funzionari dell´Urbanistica. Sempre gli stessi. Sfregiata più dalla burocrazia che dalla mafia, Gela si contorce nelle sue deformità.
Lunedì 13 settembre - il giorno della cerimonia di presentazione del piano regolatore - alla procura e alle redazioni dei quotidiani locali è arrivato un anonimo. La lettera di un abusivo: «Sono proprietario di un terreno con destinazione d´uso agricolo... per 25 anni ho fatto istanza per variare la destinazione ma mi hanno rigettato la domanda perché non c´era il Piano regolatore». L´anonimo racconta che ha provato ad acquistare una casa - in cooperativa, edilizia popolare - ma gli sarebbe venuta a costare più di 220 mila euro. Concludeva: «Così per avere un tetto nella stessa periferia nord, visto che il Prg non arrivava mai, sono diventato un abusivo».
Abusivi non si nasce ma si diventa, anche a Gela che ha sempre avuto una mala fama. Ma da questo settembre tutto cambierà, vero? «L´abusivismo non è una calamità naturale e non è necessariamente frutto di una mentalità, qui ha avuto inizio in un periodo ben determinato e ha avuto delle ragioni ben determinate, questo ha sedimentato abitudini», risponde il procuratore capo della repubblica Lucia Lotti che ha dichiarato una guerra senza tregua a piccoli e grandi scempi. E soprattutto a chi favorisce o protegge il business di mattone selvaggio.
Da qualche mese a Gela sequestrano anche gli impianti che forniscono calcestruzzo agli abusivi. A qualcuno viene dato il divieto di dimora in città. Ad altri, come al signor N. F., l´obbligo di presentarsi due volte al giorno in caserma. Ma tra una firma e l´altra sul librone dei «sorvegliati», come abbiamo visto, ha trovato il modo di farsi - e di corsa - la sua nuova casa.
Negli ultimi mesi gli umori dell’opinione pubblica sono stati sollecitati da annunci a sorpresa relativi a nuovi strumenti normativi e amministrativi finalizzati a ravvivare il settore dell’edilizia privata e pubblica. Si è cominciato nuovamente a parlare di “piano casa”. Espressione questa – sia detto per inciso – un po’ sfortunata, visto che a causa di un “piano casa” nel 1986, si dovette dimettere il sindaco di Milano Carlo Tognoli e, nel 1990, fu arrestato l’imprenditore Salvatore Ligresti.
In ogni caso, si deve sgombrare il campo da un equivoco: la locuzione “piano casa” – che ciclicamente ricorre – indica oggi due politiche diverse.
La prima è un programma nazionale (o meglio, una serie di programmi) per l’offerta di abitazioni a favore di una serie di categorie deboli, attraverso “la costruzione di nuove abitazioni e la realizzazione di misure di recupero del patrimonio abitativo esistente” (art. 11, d.l. n. 112 del 2008, conv. nella l. n. 133 del 2008 e d.p.c.m. 16 luglio 2009). Questa vicenda esula dalla nostra narrazione.
La seconda – quella di cui ci occupiamo – designa invece una strategia di deregolazione, che si è sovrapposta (in termini logici e cronologici) al programma di edilizia residenziale di cui al d.l. n. 112/08 cit..
1. Alcuni principi fondamentali in materia di governo del territorio
Prima di esaminare il secondo “piano casa”, è utile soffermarsi brevemente su alcuni principi che presiedono al “governo del territorio” e alla tutela del paesaggio. Principi che sono stati palesemente violati da questa disciplina.
Il governo del territorio – menzionato nell’art. 117, comma 3, Cost., tra le materie di legislazione concorrente – è materia ampia che comprende anche l’edilizia e l’urbanistica (Corte cost. n. 303 del 2003, § 11.1; sui limiti della materia, cfr. es. Corte cost., n. 383 del 2005 e n. 327 del 2009). I legislatori regionali, in conseguenza, nel dettare regole in tema (ivi comprese quindi l’edilizia e l’urbanistica), devono rispettare i principi fondamentali individuati con legge (o con altra norma avente valore di legge) dello Stato.
La legge dello Stato contenente i principi fondamentali ha la funzione – oltre che di garanzia derivante dalla procedura parlamentare – di individuare elementi di uniformità che si impongano alla normativa regionale (cfr. es. Corte cost., 196 del 2004, cit., §20). In questo ambito, la differenziazione è ammessa, entro i limiti rappresentati, appunto, dai principi fondamentali a tutela di valori unitari.
In assenza di una legge quadro, si pone però il problema di stabilire con sicurezza quali siano i principi fondamentali che si possono desumere dalla vigente legislazione statale. Al riguardo, si registrano numerose incertezze pratiche e teoriche. Non mancano però alcuni punti fermi. Se ne indicano due: il principio del piano e quello della centralità della pianificazione comunale.
Quello del piano è, in realtà, un meta-principio che permea di sé tutta la materia. In base ad esso, il governo del territorio si attua, di regola, attraverso piani. Le collettività locali (comunali, provinciali e regionali) devono cioè prefigurare le loro esigenze di tutela, di uso e di trasformazione del territorio attraverso atti giuridici vincolanti (con Giannini: “disegni ordinati di condotte future composte di più elementi combinati ...”) che considerino la totalità dell’ambito spaziale di competenza (Corte cost. n. 378 del 2000, n. 379 del 1994, 327 del 1990).
Ciò è stabilito con chiarezza lapidaria dall’art. 4, l. n. 1150 del 1942: “la disciplina urbanistica si attua a mezzo dei piani regolatori territoriali, dei piani regolatori comunali (…)”. E tutte le leggi regionali – comprese quelle di nuova generazione (approvate dopo la legge cost. n. 3 del 2001) – sino a oggi hanno confermato, nonostante numerose differenze, la centralità dei piani nel governo del territorio.
Si tratta di un principio non sempre debitamente individuato e valorizzato dalle varie giurisdizioni. Spesso politici, amministratori e accademici lo hanno considerato vetusto e superato dalla regola (pratica) della preminenza del progetto (il piano come insieme dei progetti), di cui è conseguenza la miserevole condizione di ampie porzioni d’Italia.
In ogni caso, quello del piano è principio fondamentale della materia e – se correttamente inteso e soprattutto se effettivamente praticato – ha implicazioni di primaria importanza. Innanzitutto il piano costituisce un essenziale strumento per la conoscenza (fisica, culturale, economica ecc.) del territorio e delle sue dinamiche complessive ed è quindi una garanzia di razionalità dell’azione amministrativa. Ma – cosa ancor più importante – esso, dopo la Costituzione, invera il principio democratico, in primo luogo, perché è imputato a organi rappresentano le collettività interessate (consiglio regionale, provinciale e comunale); in secondo luogo, perché le procedure di adozione e approvazione garantiscono trasparenza delle decisioni e partecipazione dei cittadini all’assunzione delle scelte; in terzo luogo, perché il piano è lo strumento che assicura una relazione fisiologica tra ciascuna collettività locale (complessivamente considerata) e il territorio sui essa è insediata.
Questo principio inoltre consente di governare il pluralismo amministrativo, evitando che si giunga alla frammentazione del territorio. Attraverso le procedure di adozione e l’efficacia differenziata (e reciproca) dei vari livelli di pianificazione (regionale, provinciale e comunale), le esigenze delle diverse collettività si armonizzano, dando vita a un contesto regolativo coerente.
In sintesi, questo principio preclude alle norme regionali di consentire l’autorizzazione di trasformazioni (rilevanti) che non siano il frutto di una preventiva, adeguata e specifica ponderazione degli effetti sul territorio e sulla collettività insediata, attraverso un procedimento ispirato a rigidi criteri di pubblicità e imputato a organi che siano espressione diretta della (o delle) collettività interessate.
Il secondo principio fondamentale rappresenta una conseguenza di quanto ora detto e riguarda la centralità del Comune nella gestione del territorio. Se in base al nuovo titolo V, parte II della Costituzione, Comuni, Province e Regioni, in quanto enti autonomi (ossia esponenziali di collettività politiche), devono essere titolari di funzioni amministrative relative all’assetto del territorio, in base al principio di sussidiarietà (art. 118, comma 1, Cost.), ai Comuni devono essere assicurate tutte le funzioni di pianificazione e di vigilanza che non necessitino di esercizio sovracomunale. In altri termini, la legislazione regionale deve individuare gli interessi che devono essere amministrati nei piani regionali e provinciali, in quanto essenziali per le rispettive comunità; tutti gli altri devono di regole essere attribuiti ai “Comuni, principali titolari dei poteri pianificatori in materia urbanistica nonché dei poteri gestionali” (Corte cost., n. 196/04).
Né va trascurato che il principio di sussidiarietà si affianca e si sostiene vicendevolmente con quello della garanzia dell’autonomia comunale. Sul principio di autonomia in connessione con l’urbanistica, si era già pronunciata la Corte costituzionale sotto la vigenza del precedente titolo V, parte II della Costituzione: "il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere"; ciò in quanto l’art. 128 (oggi abrogato) garantisce “l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse regioni" (cfr. Corte cost. n. 83 del 1997 e n. 378 del 2000).
In questa materia, come noto, l’autonomia comunale (e provinciale) è stata ulteriormente rafforzata. Tanto è vero che, per opinione unanime, i compiti comunali di gestione del territorio sono oggi considerati come funzione fondamentale dei Comuni; funzione che, in quanto tale, è oggetto di legislazione esclusiva dello Stato e non può quindi essere oggetto di eccessiva compressione da parte della legislazione regionale (art. 117, 2 c., lett. p, Cost.).
In base a questo principio, quindi, è precluso alle leggi regionali di privare i piani urbanistici comunali di adeguati ed effettivi spazi di manovra, potendo, al più, prevedere la sottrazione di alcune competenze in considerazione di “concorrenti interessi generali, collegati ad una valutazione più ampia delle esigenze diffuse nel territorio” (Corte cost. n. 378/00 cit.). Le leggi regionali sono tenute cioè a valutare “la maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi coinvolti” (Corte. Cost. n. 286 del 1997), e non possono in alcun caso rendere inoperanti i piani comunali che – essendo espressione di funzioni fondamentali – sono garantiti direttamente dalla legge statale, in funzione dell’autonomia comunale.
Infine, un cenno alla tutela del paesaggio. Innanzitutto si deve ricordare che il paesaggio – da intendere in base all’art. 9, Cost., “come la morfologia del territorio” – riguarda “l'ambiente nel suo aspetto visivo”: aspetto che ”per i contenuti ambientali e culturali che contiene (…) è di per sé un valore costituzionale” (Corte cost. n. 367 del 2007 e n. 272 del 2009), che, in quanto tale “va rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali” (Corte cost. nn. 183 e 182 del 2006).
Vi è qui pacificamente competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. s), contemperata però da tecniche di coordinamento (es. intese, forme di copianificazione) e dal principio per cui è legittimo “(…) di volta in volta, l'intervento normativo (statale o regionale) di maggior protezione dell'interesse ambientale” (Corte cost., n. 62, n. 232 e n. 336 del 2005 e n. 182/06 cit.).
In materia, quindi, è escluso che le leggi (e conseguentemente gli atti di pianificazione) regionali possano prevedere livelli di protezione del paesaggio inferiori a quelli stabiliti da norme dello Stato.
2. Genesi del “piano casa”: l’intesa tra Governo e Conferenza unificata del 1° aprile 2009
E’ ora possibile passare al “piano casa” per verificarne la compatibilità con i principi sommariamente richiamati. Dato che “natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise …”, conviene soffermarsi anzitutto sulla sua genesi.
Del “piano casa” si è discusso nella Conferenza unificata del 25 marzo 2009 a proposito dell’ampliamento di abitazioni monofamiliari e bifamiliari. Il Governo aveva predisposto una bozza di decreto legge. Ma presidenti di Regione e sindaci – premesso che il tema dell’ampliamento delle abitazioni è molto importante e avvertito dall’opinione pubblica – hanno manifestato perplessità e preoccupazione per l’emanazione di un decreto legge in questa materia, che è di legislazione concorrente, e hanno chiesto un approfondimento congiunto dell’argomento. Si è così deciso di istituire un tavolo tecnico-politico.
Il 31 marzo (o il 1° aprile: la data non è chiara) si è giunti a un’intesa in sede di Conferenza unificata; intesa ai sensi dell’art. 8, l. n. 131 del 2003, per “favorire l’armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni”. Si è trattato quindi di un accordo politico.
In base all’intesa, le Regioni si sono impegnate ad approvare nel termine di 90 giorni leggi che: a) consentano interventi fino al 20% della volumetria di edifici residenziali uni-bi familiari o comunque di volumetria non superiore ai 1000 metri cubi per un massimo di 200 metri cubi, al fine di migliorare anche la qualità architettonica e/o energetica; b) consentano, allo stesso fine, interventi straordinari di demolizione e ricostruzione con ampliamento per edifici a destinazione residenziale entro il limite del 35%; c) semplifichino e accelerino l'attuazione di detti interventi.
Le leggi regionali possono però individuare ambiti in cui detti interventi sono esclusi o limitati; gli interventi inoltre, salva diversa decisione, possono avere validità temporalmente definita, comunque non superiore a 18 mesi. In caso di inerzia o ritardo il Governo e il presidente della giunta regionale interessata “determinano le modalità procedurali idonee ad attuare compiutamente l'accordo, anche ai sensi dell'art. 8, comma 1, della legge n. 131/2003”.
Il Governo, dal suo canto, si è impegnato a emanare, entro 10 giorni, un decreto legge “i cui contenuti saranno concordati con le Regioni e il sistema delle autonomie” per “semplificare alcune procedure di competenza esclusiva dello Stato” e per “rendere più rapida ed efficace l'azione amministrativa di disciplina dell'attività edilizia”. Il decreto legge non è stato emanato, anche perché non si è trovato un accordo sul suo contenuto con le Regioni e con il sistema delle autonomie.
Non di meno ad oggi ben sedici Regioni hanno legiferato sul punto, in maniera ovviamente disomogenea.
3. Profili di incostituzionalità
Questa “cronachetta” dimostra innanzitutto l’incostituzionalità, dal punto di vista formale, di questa politica. Essa infatti non è stata preceduta da una legge dello Stato che prevedesse la dequotazione del principio di pianificazione; come visto, meta-principio della materia.
Con l’intesa del 31 marzo, il principio della pianificazione è stato (temporaneamente?) sostituito con il suo opposto, con quello cioè della generalizzata depianificazione: vengono consentiti aumenti di volumetria a prescindere dal riferimento al piano urbanistico, prendendo a parametro le sole cubature (legittimamente) esistenti in un dato momento. Tanto è vero che la formula ricorrente nelle leggi regionali attuative dell’intesa è che sono ammessi interventi “in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali”, o simili.
La cosa è inaccettabile da diversi punti di vista. Per rimanere agli aspetti costituzionali, si deve osservare che il principio della depianificazione, in quanto nuovo principio della materia, avrebbe dovuto semmai essere introdotto da una norma statale di rango legislativo.
Però con furbizia (e incoscienza), si è ritenuto di poter aggirare l’ostacolo rappresentato dalla legge dello Stato, in sua vece stipulando un’intesa in sede di Conferenza unificata: l’intesa tra il Governo, i presidenti delle Regioni e alcuni (2) rappresentanti dei Comuni e delle Province ha sostituito una legge del Parlamento, eludendo nel contempo il controllo del Presidente della Repubblica. Insomma, un accordo politico tra il Governo e gli esecutivi regionali, con l’avallo di sparute rappresentanze di giunte comunali e provinciali, ha tenuto luogo di una legge.
Le possibili spiegazioni di questo modo di procedere sono due. Sciatteria, superficialità e insensibilità istituzionale. Oppure la contrapposizione concettuale tra legalità costituzionale (finta e chiusa) e “legittimità di una volontà realmente esistente” (dimostrata dall’ampio consenso al “piano casa” nel sistema delle autonomie e tra gli elettori) e fondata sull’emergenza economica; ma questo modo di ragionare (e di governare) richiama alla mente tetri scenari e ideologie degli anni ’30. Probabilmente entrambi i motivi hanno animato i diversi protagonisti della vicenda.
E’ vero che il Governo avrebbe voluto emanare un decreto legge (forse per accaparrarsi i meriti dell’operazione) e che questa idea ha incontrato la ferma opposizione della Conferenza unificata. Ma in base all’intesa del 31 marzo, il decreto avrebbe dovuto contenere non un principio fondamentale della materia (quello della depianificazione provvisoria), ma strumenti di semplificazione di procedimenti di competenza esclusiva dello Stato. Il ricorso al decreto legge, inoltre, sarebbe stato illegittimo per carenza evidente dei requisiti del “caso straordinario di necessità e d'urgenza” (sul che, cfr. Corte cost. 171 del 2007); e certamente non avrebbe surrogato questa carenza la retorica dell’emergenza economica in generale, e quella del settore edilizio, in particolare. Infine, in base all’intesa, al di fuori di ogni previsione costituzionale, il contenuto del decreto legge avrebbe dovuto essere concordato con le Regioni e il sistema delle autonomie.
Vale solo la pena di aggiungere che la mancanza di una norma statale di principio, sta portando a una vera Babele urbanistica.
Ma al di là delle differenze di carattere sostanziale tra le norme regionali (es. circa i limiti volumetrici), va segnalato che il “piano casa” nei fatti ha violato il secondo principio fondamentale sopra ricordato, ossia quello della centralità del Comune nel sistema del governo del territorio.
Infatti, l’effettività della funzione pianificatoria comunale è stata (nella migliore delle ipotesi) sospesa da questa manovra. L’intesa del 31 marzo costituisce dunque una palese violazione dell’autonomia comunale, ossia del rapporto (costituzionalmente garantito) tra la collettività e il suo territorio. Basta una rapida lettura delle leggi regionali (e delle deroghe ivi previste) per verificare questa affermazione. Né si deve trascurare che il ruolo dei Comuni risulta del tutto trasfigurato: è stato limitato (peraltro neanche in tutte le Regioni) essenzialmente all’individuazione, entro un termine perentorio, delle aree in cui gli incrementi di volumetria non sono ammissibili. Il Comune, dunque, da asse portante del sistema della pianificazione territoriale stato trasformato in un soggetto munito di un limitatissimo potere di interdizione; potere, peraltro, sottoposto a termine di decadenza.
In ogni caso, in mancanza dei principi fondamentali, il ruolo delle amministrazioni comunali (ossia il ruolo del piano comunale) in relazione all’attuazione del “piano casa” è stato rimesso alla scelta delle singole Regioni che, senza alcun limite, hanno potuto calibrarne (o eliminarne) i compiti. Come detto, ciò, nell’attuale contesto, è però inammissibile, costituendo una evidente compressione della sfera di autonomia che la Costituzione riconosce ai Comuni.
Tuttavia, detto per inciso, alla Conferenza unificata del 31 marzo era presente solo il sindaco di Roma (e il rappresentante dell’ANCI), mentre erano assenti gli altri tredici sindaci che ne fanno parte (cfr. il verbale della Conferenza unificata n. 7/2009).
Infine – e veniamo al terzo principio – questa politica si pone in pieno contrasto con le regole che presiedono alla tutela del paesaggio. Al riguardo, l’intesa del 1° aprile – oltre a stabilire l’inapplicabilità degli incrementi di volumetria agli edifici abusivi, nei centri storici e in aree di inedificabilità assoluta – prevede che le Regioni possono escludere o limitare tali interventi con riferimento a beni culturali e alle aree di pregio ambientale e paesaggistico. In sostanza, l’accordo ha superato la qualificazione del paesaggio in termini di “valore unitario” che necessita di un ”indirizzo unitario”, che a sua volta, secondo la Corte costituzionale, giustifica l’attribuzione allo Stato della competenza legislativa in materia di tutela del paesaggio. L’intesa ha rimesso la scelta alle singole Regioni.
E le leggi ragionali non hanno mancato di operare scelte ampiamente differenziate. In generale, esse non hanno chiarito i rapporti tra incrementi volumetrici e normativa sul paesaggio, al massimo, in alcuni casi, hanno specificato che gli incrementi di cubatura devono essere compatibili con le norme del d.lgs n. 42 del 2004; in molti casi nulla è stato detto; in altri ancora sono stati addirittura ammessi interventi “in deroga alle previsioni dei piani territoriali di coordinamento dei parchi regionali”.
Ma il richiamo alle norme del codice del paesaggio (ossia alle disposizioni relative ai singoli beni sottoposti a tutela), da un lato è pleonastica, perché è evidente che le leggi regionali non possono incidere sull’applicazione di norme statali. Dall’altro lascia irrisolto un problema molto importante: quello del ruolo che gli strumenti amministrativi a tutela del paesaggio (quelli di vecchia generazione e i pochi adottati a seguito del d.lgs 42/04) svolgono in questa vicenda. Non è infatti chiaro se le deroghe previste dalle leggi regionali riguardino anche le prescrizioni dei piani paesistici e paesaggistici (si pensi ad esempio, alle misure necessarie per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione del territorio, ovvero all’individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate) o se esse devono essere considerate inderogabili.
E’ quindi evidente che, di fatto, le norme regionali – nel pretendere, nel migliore dei casi, il solo rispetto del codice – finiscono per interferire con il complesso processo di predisposizione e di attuazione dei piani paesaggistici. Con ciò concretando un’ulteriore violazione del dato costituzionale, ma anche un’operazione di grave arretratezza culturale.
Quanto detto dimostra innanzitutto che il sistema delle Conferenze (Stato-Regioni e Conferenza unificata) concretizza forme consociative ancora più opache e allarmanti di quelle che l’Italia ha conosciuto negli anni passati. Questa vicenda rappresenta un esempio concreto del mutamento in atto della forma di governo, nel senso della emarginazione del Parlamento a favore del sistema delle Conferenze; ciò produce una rilevante alterazione delle dinamiche democratiche stabilite dalla Costituzione.
Da più parti si sottolinea la necessità che il patrimonio edilizio italiano sia rinnovato e reso compatibile con il sistema ecologico; si sollecitano azioni pubbliche in tal senso. Ma è prioritario che tali politiche siano conformi alla Costituzione: il principio di legalità deve coprire sia la fase normativa sia quella amministrativa; deve cioè pervadere le norme di legge, gli atti di pianificazione, i provvedimenti abilitativi, le attività di vigilanza e di repressione. E' invece tristemente noto che nella gestione del territorio il principio di legalità stenta ad affermarsi, specie (ma non solo) nel Centro-Sud. E' quindi indispensabile il rilancio della cultura della legalità territoriale. Infatti, solo questa cultura potrà portare un vero e duraturo sviluppo economico.
E’ poi necessario che le politiche territoriali siano concepite e gestite con serietà e rigore, in modo da essere affidabili per i cittadini e per gli operatori, ma soprattutto in modo da essere al servizio della collettività e del suo benessere. Nel nostro caso tutto ciò non è avvenuto, per responsabilità che si possono equamente distribuire tra il Governo e il sistema delle Conferenze (e dei soggetti che di esse fanno parte, anche se assenti).
Ecco perché l’operazione “piano casa” è un gigante con i piedi di argilla. Non è affatto improbabile che un singolo (perché animato da spirito civico o, più prosaicamente, perché leso nei suoi diritti) o un’associazione avvii un giudizio avverso una dichiarazione di inizio attività relativa a un ampliamento di volumetria: innanzi al giudice potrà far valere l’inconsistenza dell’impianto giuridico sotteso al “piano casa”, anche attraverso il rinvio alla Corte costituzionale della legge regionale pertinente.
Il sistema istituzionale – con intensità e toni diversi – ha eccitato l’opinione pubblica (e alcuni settori economici) sul tema degli ampliamenti delle volumetrie, ingenerando aspettative di varia natura. Se l’iniziativa avrà successo (se si apriranno molti cantieri), l’eventuale (e a mio parere, non improbabile) crollo dell’edificio non potrà che produrre confusione, insicurezze e contenziosi.
Si dimostrerà in tal modo che il “piano casa” è, in realtà, un’impostura. Il tutto – come spesso accade – a spese del territorio.
Le città sono sempre più grandi. E nel 2050 quelle con oltre 10 milioni di abitanti saranno 27
di Federico Rampini
Chongqing e Chennai, Karachi e Lagos, Dhaka e Kinshasa: è ora di cominciare a imparare questi nomi, a situarli sul mappamondo, a fissarli nella gerarchia geopolitica delle nostre notizie. Il pianeta è avviato verso una nuova rivoluzione: il trionfo delle mega-metropoli. Entro i prossimi quarant´anni ci saranno almeno 27 super-concentrazioni urbane, avviate alla soglia dei 20 milioni di abitanti, alcune delle quali oltre i 30 milioni. E´ una trasformazione che avrà ripercussioni in ogni campo: dagli stili di vita ai consumi culturali, dall´energia all´ambiente, fino agli equilibri politici e ai sistemi di governo. Uno studio che sta per uscire negli Stati Uniti, "The World in 2050" dello scienziato Laurence C. Smith, geografo della University of California Los Angeles, getta una nuova luce sulle conseguenze di questa profonda trasformazione.
"The World in 2050", fondato su proiezioni demografiche ormai ad alto livello di precisione, disegna un pianeta dove «non soltanto il baricentro di ricchezza e potere si sposta da Occidente verso Oriente, ma emerge di prepotenza anche il Sud», con l´America latina e una sorprendente Africa. «Cambiano drasticamente la natura e il ruolo dei flussi migratori». E la lotta per le risorse naturali si spingerà verso frontiere sempre più distanti: «La conquista del Nuovo Nord» (per le riserve d´acqua contenute nei ghiacci dell´Artide, e i giacimenti di gas-petrolio sotto la calotta polare) o la sfida per la colonizzazione dello spazio.
In parte tutto questo è già iniziato, avviene sotto i nostri occhi. Nel 1950 c´erano solo due aree metropolitane oltre la soglia dei dieci milioni, New York e Tokyo. Già oggi quella soglia è superata da decine di altre mega-città, molte delle quali nei paesi emergenti. Il 2010 è stato infatti l´anno del sorpasso storico città-campagna, è la prima volta dalle origini della civiltà umana che gli abitanti delle zone urbane hanno superato i contadini e gli altri residenti rurali. Ma il mutamento verrà accelerato nei prossimi anni, con ripercussioni ben più sconvolgenti sul mondo in cui vivranno i nostri figli e nipoti. Per esempio, "metropoli" è un termine di origine greca e che noi associamo a un modello di vita affermatosi in Occidente: il Rinascimento vide il fiorire delle città-Stato in Italia, nel Settecento Napoli era una delle capitali più popolose d´Europa, l´Ottocento e il Novecento sono segnati dai grandi progetti urbani delle capitali imperiali come Vienna e Parigi, Londra e Berlino. E oggi uno dei trend che spingono verso la megalopoli è nato ancora in Occidente: è il ritorno in città delle nuove generazioni di americani.
La confluenza tra crisi economica, nuovi modelli di consumo, immigrazione, ribaltano l´American Way of Life. Nel mezzo secolo precedente le città americane si erano svuotate di abitanti: la middle class si era spostata verso i "suburbs" con le villette a schiera, i quartieri residenziali delle periferie, mentre i centri urbani erano zone di uffici la cui popolazione scompariva la sera. Ora è in atto il movimento inverso: i vincoli energetici, l´alto costo dei trasporti, ma anche l´attrazione dei giovani per i consumi culturali (musei, teatri, cinema) hanno innescato un grande esodo di segno opposto. Rafforzato dagli immigrati che tendono anch´essi ad affluire verso i centri urbani.
L´area metropolitana New York-Newark vede risalire la popolazione e avrà anch´essa sorpassato la soglia dei 20 milioni nell´orizzonte 2050. La sua unica rivale del 1950, Tokyo, farà ancora meglio: è avviata ai 36 milioni di abitanti nei prossimi 40 anni. Tra le città storiche anche Londra e Parigi sono nel club destinato agli oltre 10 milioni. Ma il revival delle metropoli nei paesi di vecchia industrializzazione è solo un pezzetto della storia, e non il più importante. Il boom delle mega-metropoli è trainato soprattutto dai paesi emergenti. Il binomio sviluppo-urbanizzazione torna a funzionare perfettamente, solo che il centro della crescita economica è altrove. La Cina di "The World in 2050" avrà un Pil di 44.500 miliardi di dollari, nettamente superiore a quello degli Stati Uniti (35.000 miliardi). Subito dietro l´America sarà incalzata dal prossimo inseguitore, l´India con 27.800 miliardi di dollari di Pil. In quinta posizione il Brasile pronto al sorpasso sul Giappone mentre nessun paese europeo si piazzerà nel quintetto dei leader.
Demografia ed economia andranno a braccetto, perciò non stupisce ritrovare così tante mega-metropoli del futuro in India: Mumbai con 26 milioni, Delhi con 22,5 milioni, Calcutta venti, e Chennai (ex Madras) oltre i dieci. In Cina le misurazioni del geografo Smith sono già superate dalla realtà. Pechino ad esempio, sulla carta si vede attribuire "solo" 14,5 milioni di cittadini ma in realtà sfiora già i venti perché la sua popolazione è "esondata" oltre il sesto anello del raccordo anulare e la capitale cinese si è annessa di fatto numerose municipalità limitrofe. Per la stessa ragione non compare negli schermi radar del Dipartimento Geografia di Ucla la mega-metropoli che è già oggi la numero uno mondiale, Chongqing sul fiume Yangzé: 30 milioni. Ma i geografi di Los Angeles catturano perfettamente il nuovo trend che porta all´esplosione urbana in Africa - con Kinshasa, Lagos e il Cairo tutte ai vertici mondiali - e in America latina dove San Paolo e Città del Messico sono proiettate oltre la soglia dei 20 milioni. In tutto, su 9,2 miliardi di abitanti della terra nel 2050, ben 6,4 miliardi vivranno nelle città.
Il balzo più prodigioso lo farà proprio l´Africa: con 1,2 miliardi di residenti nelle sue metropoli, il continente nero concentrerà quasi un quinto di tutta la popolazione urbana del pianeta. Mentre oggi sono appena il 38% gli africani che vivono in città. Sorprendenti, o sconcertanti, anche le mutazioni negli equilibri generazionali. Paesi che oggi associamo a una popolazione molto giovane, conosceranno un invecchiamento rapido: nei prossimi 40 anni l´età media in Messico e in Iran aumenterà di 15 anni, in India di 14 anni, in Cina di 10 anni. Tra i meno esposti all´invecchiamento ci saranno gli Stati Uniti a causa dell´immigrazione: nel 2050 l´età media degli americani sarà aumentata solo di 4 anni. Notevole, per le stesse ragioni, l´exploit del Canada: «Una crescita delle popolazione sei volte più veloce della Cina».
Proprio per questo Laurence Smith prevede che «la competizione per attirare gli immigranti globali sarà un elemento chiave nel successo o nel declino delle nazioni». Il bacino mondiale a cui attingere per rinnovare la propria forza lavoro, si farà meno abbondante via via che gli stessi paesi emergenti diventano più ricchi e meno giovani. Nelle società avanzate le mega-metropoli sono la soluzione di gran lunga più efficiente per un uso razionale delle risorse (il consumo pro capite di energia e di acqua è inferiore al modello dei sobborghi-diffusi), però "The World in 2050" invita a non farsi illusioni: «Le fonti rinnovabili come l´energia eolica e solare per quanto in forte crescita non basteranno a soddisfare quei bisogni energetici». I poli demografici ed economici delle mega-metropoli saranno i nuovi protagonisti nella competizione mondiale per l´approvvigionamento di petrolio, gas, acqua potabile. «Di qui la corsa tra le potenze per imprimere il proprio dominio sovrano sul Nuovo Nord, l´Artico, poi su altri pianeti», prevede il geografo californiano.
Infine un interrogativo politico: «Un mondo dove la popolazione sarà concentrata nelle mega-metropoli vedrà prevalere il modello di Singapore o il modello di Lagos?». Ovvero: simili concentrazioni di abitanti potranno essere governate socialmente solo da sistemi paternalistico-autoritari? O prevarrà invece uno sviluppo caotico, gravido d´instabilità politica, come in molte nazioni africane? In un mondo avviato verso quel tipo di migrazioni di massa dalle campagne verso le città, il modello autoritario cinese eserciterà il suo fascino anche su altri continenti. Inoltre l´immigrazione in Occidente sarà sempre più di origine asiatica, visto che su 100 persone che nasceranno da qui al 2050, ben 57 saranno asiatiche.
"Quanti rischi per la salute in quei mostri di cemento"
intervista a Cesare De Seta, di Valeria Fraschetti
«Finché continuerà a mancare la cultura della pianificazione tra coloro che le governano, le megalopoli resteranno luoghi inconciliabili con la sostenibilità ambientale e dove la nostra salute sarà sempre più minacciata». Cesare De Seta, scrittore ed esperto di architettura contemporanea, non appare affatto ottimista di fronte allo tsunami urbano in corso sul pianeta, dove già oggi la metà della popolazione vive nelle città.
Professore, è possibile prevedere un´inversione di tendenza?
«Temo di no. Il mestiere del vivere continua ad apparire più facile in città. Nonostante condizioni di vita spesso infernali, i grandi centri urbani non smetteranno di essere dei magneti economici per coloro che vogliono fuggire dalla miseria. Queste spaventose spinte migratorie sono incontrollate e stanno creando delle metastasi urbane. È un fenomeno che va assolutamente controllato»
Come?
«Bisogna creare dei sistemi capaci di accogliere queste masse di cittadini. Ad esempio pianificando una rete di città-satellite, come fecero gli inglesi dopo la seconda guerra mondiale. Grazie alla loro cultura di "planning", acquisita con l´esperimento delle "new towns", crearono una rete urbana che ha evitato di trasformare Londra in una megalopoli sconfinata»
E oggi non vede esempi promettenti nel mondo?
«Purtroppo no. C´è un totale disinteresse da parte dei governi urbani dove, tra l´altro, la cultura della pianificazione è generalmente assente. Basta appunto vedere quello che accade in città, tipo Città del Messico e San Paolo, dove nessuna istituzione si preoccupa di pensare al futuro».
A Vancouver hanno lanciato un progetto di "densificazione urbana" nella convinzione che con più abitanti in città si ridurranno gli spostamenti in auto e quindi le emissioni di CO2. Può funzionare, secondo lei?
«Dipende. Se il traffico in città non verrà né governato né arginato, anche attraverso la creazione di una rete funzionale di trasporti, allora tutto sarà inutile».
Quali sono le conseguenze a livello sociale di quelle che lei chiama "metastasi urbane"?
«Un esempio drammatico è quanto accade a Parigi, che pure è una città ben governata, ma circondata da un anello di miserabili banlieues, dove la marginalizzazione razziale e economica crea insofferenza che periodicamente sfocia in disordini».
L’Aquila, Collemaggio. La basilica plasmata dai terremoti
Ugo De Angelis - Osservatore Romano
Il forte legame tra la comunità aquilana e il suo territorio ha origini lontane, come la genesi della civitas nova che Pierre Lavedan, nella sua monumentale opera L'urbanisme au Moyen Age, non tardò a definire «una delle più grandi e riuscite creazioni urbane in Europa occidentale». Questa meravigliosa città, nata nel 1254 per volontà di Corrado IV, viene inserita nell'ambito di un importante contesto territoriale percorso da un fitto e strategico sistema viario. La successiva furia distruttrice avvenuta nel 1259 a opera di Manfredi ebbe uguali solo negli ormai noti eventi sismici. Dice Buccio di Ranallo: «Nè casa vi rimase, nè pesele, nè ticto». Dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento nel 1266, il francese Carlo I d'Angiò consentì alla «rea villanaglia» di rifondare la città contro le insistenti richieste dei «gentili homeni». Tale evento si inserisce in una vicenda tutta «popolare», dove la città si deve difendere dai nobili che rivendicano titoli feudali. Occorre inoltre sottolineare che questo «nuovo impianto» a forte impronta «ippodamea» secondo cioè uno schema planimetrico a maglia ortogonale nasce sul modello di sviluppo cistercense delle bastides, diffusosi dal xii secolo nel sud-ovest della Francia.
La città viene suddivisa in quattro «quarti», ognuno ripartito in spazi regolari costituiti da aree comuni e lotti di terreno per l'abitazione e l'orto, destinati a facilitare l'insediamento dei villici provenienti dai centri fondatori, subito dopo aver realizzato la piazza, la chiesa, la fontana, cioè quegli interventi pubblici che a tutt'oggi chiamiamo opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Nella costruzione della città emerge una nuova forma di pianificazione, concepita da una rete di relazioni che supera il perimetro delle mura, in un ben congegnato sistema di area vasta (i contadi), caratterizzato dall'interazione territoriale tra intus et extra moenia. I neo-cittadini portano con sé la loro identità culturale e il proprio modello del villaggio d'origine, il che a ragione potremmo definire una ben riuscita operazione di «delocalizzazione» urbanistica. Il rapido inurbamento e il conseguente sviluppo socio-economico della città si devono anche al ruolo avuto dal vescovo aquilano nel favorire l'insediamento dei religiosi, alla sua autonomia politico-amministrativa e al regime di privilegi di cui godeva l'industria della pastorizia e dello zafferano, che più tardi arrivò all'apice di una fiorente attività commerciale. Ma nel 1294 la città è protagonista di un evento straordinario: il mite e umilissimo eremita Pietro Anglerio o Angeleri, detto da Morrone (1209-1296), per i più oggi ricordato come «il Papa del gran rifiuto», viene eletto al soglio pontificio e il 29 agosto incoronato ad Aquila, città a lui «più cara fra tucte le terre», proprio in quella basilica Santae Mariae de Collemadio, che venti anni prima aveva voluto dedicare all'Assunta.
L'inizio della costruzione, che si vuol far risalire alla data del 1287, aveva impegnato per diversi anni i suoi monaci di Santo Spirito della Maiella e la fiera popolazione della nuova città. Aquila per oltre due mesi fu la capitale spirituale del mondo cattolico. Durante il suo breve pontificato, Celestino V istituì la «Perdonanza», che ancora oggi offre l'indulgenza plenaria a tutti i fedeli che annualmente dal 28 al 29 agosto si rechino nella chiesa di Collemaggio pentiti e riconciliati. Non si trattò solo di un importante atto di carattere spirituale ma di una vera e propria riconciliazione cittadina, di rilevante significato politico e sociale. Pietro, il Papa del popolo di umili origini contadine, ottiene così da Carlo II d'Angiò il perdono degli aquilani ribelli e l'unificazione amministrativa, ratificata con il diploma del 28 settembre del 1294 che contribuì notevolmente a proiettare l'attività economica della città entro il grande circuito commerciale europeo. Carla Bartolomucci, in un suo recente libro, fa un'accurata analisi della basilica di Santa Maria di Collemaggio e ne interpreta i numerosi rifacimenti causati dai frequenti disastrosi terremoti succedutisi nel tempo. La chiesa deve la sua fortuna architettonica alla particolare, raffinata geometria di pietra bicroma della facciata, nonché alla pregevolezza dei tre portali e dei tre rosoni.
L'impianto basilicale costituito da tre navate, nel 1972- 1974 ha subito un discusso restauro, anche se sarebbe pi appropriato parlare di una sorta di tentato ripristino: l'organismo è stato sottoposto a una ulteriore trasformazione con la liberazione dalle aggiunte barocche post-terremoto del 1703 e l'innalzamento delle navate a favore di un «restituito» spazio trecentesco, sicuramente più luminoso e austero ma, secondo il nostro modesto parere, forse più incline al falso storico nel senso «brandiano» del termine; mentre il transetto, illuminato dalla bassa cupola coperta a tetto prima del recente sisma, conservava ancora le vecchie reminescenze barocche. Il coro centrale prolungato e due cappelle laterali, di cui una contenente il sepolcro di Celestino V, opera del 1517 di Girolamo da Vicenza e realizzato con i fondi messi a disposizione dai «Lanari dell'Aquila», completano l'impianto absidale. Sul lato nord in corrispondenza della navata sinistra è collocata la Porta Santa, realizzata verso la fine del XIV secolo, che ogni anno apre alla cerimonia della Perdonanza celestiniana. Recentemente la facciata è stata liberata dagli ultimi ponteggi ed è quindi tornata al suo originario splendore a conclusione di un accurato restauro, iniziato nell'autunno del 2007 su iniziativa della Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici per l'Abruzzo. Il terremoto del 6 aprile 2009 ha gravemente danneggiato ancora una volta l'organismo strutturale della basilica e causato il crollo del transetto, che già a seguito del sisma del 1958 era stato demolito e ricostruito dal Genio civile (1960-1962).
Il 28 aprile 2009 Papa Benedetto XVI, visitando la basilica duramente colpita dal sisma, ha reso omaggio al santo Pietro Celestino, ponendo sulla sua urna il proprio pallio pontificio in ricordo della visita. Il cammino della ricostruzione appare ancora lungo e pieno di incognite, soprattutto per reperire i notevoli fondi necessari a un accurato intervento di consolidamento strutturale e di ripristino dell'organismo centrale della Basilica, nell'ambito di un intervento di recupero che dovrà essere esteso all'intero complesso monumentale. La storia dei principali eventi sismici della città dell'Aquila dal 1315 a oggi, fa intuire quanto sia stata importante la tenacia e lo sforzo degli aquilani nella ricostruzione della propria città, alimentata da quel contributo proveniente dal fiorente sviluppo economico determinato dall'istituzione di franchigie e concessioni a favore delle attività produttive locali. Oggi, in un contesto di corsi e ricorsi storici, non sarebbe possibile programmare piani straordinari per finanziare la ricostruzione post terremoto nelle aree colpite dal sisma? L'eremo celestiniano di Sant'Onofrio al Morrone nei pressi di Sulmona, oltre a custodire la memoria di Pietro, espone un'iscrizione attribuita a una religiosa poetessa arcade, la principessa Aurora Sanseverino, che termina con queste parole: «Qui parla il verbo al core. Entri chi tace, perché il solo silenzio è qui loquace».
Vogliamo sperare che la storia sia maestra di vita, confidando almeno in un annuncio programmatico di recupero del patrimonio storico e monumentale dell'Aquila, perché non resti solo il silenzio a parlare più delle parole. Il cammino della ricostruzione appare ancora lungo e pieno di incognite Soprattutto per reperire i notevoli fondi necessari a un intervento di consolidamento e di ripristino dell'organismo centrale.
Euro previsti per l’Aquila: zero. Qui i soldi dell’8 per mille
Feruccio Sansa - Il Fatto quotidiano
Tre miliardi e mezzo di euro. Meno di quanto costerà il Ponte sullo Stretto sponsorizzato dal centrodestra. Meno di un terzo della spesa prevista per la mega autostrada Mestre-Orte-Civitavecchia (voluta da tutti, dal Pdl al Pd). E’ quanto servirebbe per evitare la morte di una città: L'Aquila. Davanti alla basilica di Collemaggio - con la sua facciata trecentesca che fino al 6 aprile 2009 guardava un grande prato e una città piena di vita e di studenti - oggi intorno è buio: migliaia di case ridotte a ombre, coperte dalla vegetazione. Eppure, in una serata d'inizio settembre, ecco arrivare centinaia di persone, uscite dalle abitazioni prefabbricate, arrivate dai paesi vicini dove si sono trasferite dopo il terremoto. Alla fine saranno pi di mille. Per una sera L'Aquila sembra vivere di nuovo. La città assiste insieme con Sabina Guzzanti alla proiezione del suo film Draquila, dedicato al terremoto. Un'ora e mezza di pellicola, e poi il dibattito che non finisce mai: due ore, nonostante il freddo, perché qui tutti hanno voglia di parlare, di scambiarsi idee, timori. E, magari, anche un poco di speranza. Certo, fa uno strano effetto guardare se stessi, la propria storia in un film. Si osserva e poi si discute.
Non c'è spazio per gli slogan, per la propaganda: se alzi lo sguardo dal telone del cinema all'aperto, ti ritrovi davanti palazzi crollati, macerie. L'Aquila è ancora in rovina. E in fondo la domanda per tutti gli abitanti è sempre la stessa: La nostra città ha un futuro? Il pubblico punta gli occhi verso Sabina Guzzanti e i suoi ospiti: Gianfranco Cerasoli, responsabile Uil Beni culturali; Gianni Lolli, deputato del Pd; Stefania Pezzopane, ex presidente della Provincia; Giusi Pitari, esponente dei comitati degli abitanti; Angelo Venti, giornalista, e Antonello Ciccozzi, docente di Antropologia culturale all'Università degli studi dell'Aquila. Nessuno ha una risposta al timore che anima la folla. Ma ognuno porta un tassello per capire che cos'è il presente, prima di affrontare il futuro. L'Aquila è una delle venti città d'arte d'Italia, racconta Cerasoli, e lo sguardo di tutti va alla facciata di Collemaggio. Aggiunge: Secondo le stime per ricostruire il centro storico servirebbero tre miliardi e mezzo. Mormorio tra la folla. Già, perché, riferisce Cerasoli, nell'intero bilancio dello Stato ci sono appena 70 milioni di euro per la conservazione del nostro patrimonio . E per L'Aquila? Nel 2009 la Protezione civile aveva previsto 50 milioni di euro, ma ne sono arrivati 20 .Il peggio, però, deve ancora arrivare: Oggi non c'è nemmeno un centesimo.
Più d'uno anche tra il pubblico sussurra: All'inizio venivano tutti, oggi che siamo di fronte al fallimento della ricostruzione non si vede più nessuno . Il ministro Sandro Bondi è assente , latitante , dicono qui. Si parla delle imprese coinvolte nella ricostruzione. Certo, c'è la Cricca, ma ci sono anche costruttori in odore di mafia, come ricorda Angelo Venti. I pochi finanziamenti che arrivano a L'Aquila rischiano di finire alla criminalità organizzata, più che agli aquilani. Impossibile non denunciare gli sprechi, come le indennità milionarie dei commissari straordinari: Invece di nominare un commissario, magari inutile, si potrebbe recuperare un intero palazzo . I cittadini chiedono una soluzione, un'indicazione concreta. Stefania Pezzopane ci prova: Il governo ha orrore della parola tasse.
Ma per salvare L'Aquila bisogna chiedere l'aiuto di tutti gli italiani. In passato quando una città, una regione hanno dovuto affrontare grandi tragedie, tutto il Paese li ha aiutati. Adesso non bisogna abbandonare l'Abruzzo . Come, allora? Il mezzo usato finora è stato quello di una tassa di scopo, destinata cioè espressamente alla ricostruzione della nostra terra.
Non è la sola ipotesi. Sabina Guzzanti, insieme con Pezzopane e Cerasoli, propone un'altra strada: Si potrebbe anche ricorrere all'8 per mille, quella fetta (oltre un miliardo di euro) del gettito Irpef che ogni anno viene divisa tra lo Stato e le diverse chiese. Si parla stringendo il microfono e sperando che le parole in qualche modo arrivino fino a Roma. Mille persone incollate allo schermo e al palco per più di tre ore. Per parlare e per sentirsi! almeno una sera, di nuovo città! Poi L'Aquila ritorna deserta.
«Ci hanno trattato come terremotati del Sud». Giusi Pitari, la docente anima del «popolo delle carriol e » , avverte che l e sue parole van capite bene. Che non c'è retropensiero razzista. Che lei semmai sta tutta dalla parte dei meridionali e che questa idea dei «terremotati del Sud», visti come una plebe da trattare come plebe, è nella testa di chi l'ha gestito, quest’anno e mezzo trascorso dalla notte in cui l'Appennino diede lo scrollone che devastò l'Aquila¸ straziò altri 56 comuni, uccise 308 persone.
«Presidente, grazie a lei siamo dei terremotati di lusso», disse colmo di stralunata riconoscenza uno degli sfollati a Silvio Berlusconi, in visita mesi fa al prefabbricato della «primaria» intitolata a Mariele Ventre, l’animatrice dello Zecchino d'oro. E come lui la pensano buona parte degli abitanti delle «case vere, belle, eterne» (parole del Cavaliere) tirate su a Bazzano in via Mia Martini e nelle altre 18 new town sparpagliate intorno al capoluogo. E in questi due giudizi opposti c’è la sintesi di come venga visto oggi il bilancio dell’operato del governo, della Regione, del Comune, della «macchina» dei soccorsi nel suo insieme.
Da una parte la venerazione per il Messia Azzurro di chi magari viveva in una casa di pietra «pittoresca» ma decrepita e si è ritrovato in un alloggio decente con una torta e lo spumante in frigorifero. Dall’altra l’insofferenza di quanti hanno trovato insopportabile essere trattati «come sudditi un po’ bambini invitati a "godersi il campeggio" e "divertirsi negli alberghi al mare" e magari "partire in crociera", come disse proprio Berlusconi in una conferenza stampa, mentre facevano tutto loro, a modo loro, per interessi loro».
Di qua quelli che mettono le lenzuola alle finestre con scritto «Silvio, fatti clonare per i nostri figli». Di là quelli che, riconosciuto il «miracolo» delle new town, fanno comunque notare come non solo «i prati verdi e fioriti con gli alberi d’alto fusto» si sono presto spelacchiati perché «erano stati messi giù in tutta fretta per le telecamere», ma forse sarebbe stato meglio restare un po’ di più «come i friulani» in strutture provvisorie pur di avviare subito la ricostruzione dell’Aquila e dei paesi «com’erano e dov’erano».
Cosa che avrebbe consentito anche di arginare l’assalto di quegli sciacalli immortalati dal dialogo infame intercettato la mattina del 6 aprile 2009 fra Pierfrancesco Gagliardi e suo cognato, il direttore dell’impresa «Opere pubbliche e ambiente», Francesco De Vito Piscicelli: «Qui bisogna partire subito in quarta. Non è che c’è un terremoto al giorno». «No, lo so». «Così per dire, per carità, poveracci». «Va buò, ciao». «O no?» «Eh certo, io ridevo stamattina alle tre e mezza dentro il letto». «Io pure. Va buò, ciao».
«La verità è che il terremoto è stato l’occasione colta al balzo per una speculazione su 200 ettari di terreni. A costo di assassinare la memoria, la dignità, la cultura di un popolo», accusa Alessandra Mottola Molfino, presidente di Italia Nostra che da mesi tempesta il governo denunciando «la mancanza d’un piano unitario di interventi sul centro storico dell’Aquila e della sua cintura di centri minori».
A dire il vero il Cavaliere, data la precedenza assoluta alla sistemazione nelle C.a.s.e. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili, ma potrebbero chiamarsi «Ghe-pensi-mi», tanto è riconoscibile la firma) una promessa l’aveva fatta. Questa: «Certo, per la ricostruzione di tutti gli edifici compresi anche quelli storici, ci vorranno degli anni ma l’impegno è quello di concludere tutto entro la legislatura». Non era successo anche in Friuli, del resto, che le chiese e palazzi storici erano stati tirati su «com’erano e dov’erano» solo dopo i primi interventi per l’emergenza, le fabbriche, le infrastrutture?
A parte i dubbi di oggi sulla durata della legislatura (settimane? mesi?) l’ottimismo berlusconiano, per realizzarsi, avrebbe bisogno davvero di un miracolo. Perché, spiega l’architetto Luciano Di Sopra che firmò il piano friulano, «è vero che a Osoppo, Gemona e Venzone la ricostruzione degli edifici storici distrutti cominciò tre anni dopo, ma i cantieri possono essere aperti solo alla fine di un percorso che deve iniziare molto prima. Deve avere leggi quadro, regolamenti, stime accuratissime dei danni, ripartizioni dei compiti, parametri, modelli, prezzari definiti… E più tardi si parte con questo lavoro, più tardi si aprono i cantieri. È come quando hai una macchina rotta: se la aggiusti subito è un conto, se la lasci ferma per anni diventa complicatissimo».
Certo, lassù in Friuli c’era una Regione a statuto speciale che aveva qualche agilità e potere in più. Che rivendicò subito la volontà di gestire tutto autonomamente. Qui è più complicato. Fatto sta che l’8 maggio 1976, trentacinque ore dopo il sisma, la Regione Friuli aveva già la sua prima legge. Qui, dopo la prontezza della risposta iniziale e l’intervento di una Protezione civile trasformata da Guido Bertolaso in una tambureggiante «macchina da guerra», c’è stato sotto questo profilo, dicono i critici, il vuoto.
La prova? L’accusa dice che è nelle date. Passano sei mesi dal terremoto prima che il 22 dicembre 2009 il governo decida di creare una Struttura di Missione per la ricostruzione, coordinata dal governatore di centrodestra Gianni Chiodi. Un altro perché questa struttura sia costituita materialmente il 2 febbraio 2010. E ancora sei perché arrivi il primo euro. Che appare solo il 10 agosto 2010, quando il Tesoro deposita 714 milioni sul conto speciale della Banca d’Italia. Esattamente 490 giorni dopo lo schianto.
La colpa? Un po’ di tutti. Del governo, ma certo anche delle autorità locali, Regione, Comune e Provincia, che non li hanno mai chiesti ufficialmente, dicono alla Protezione civile. L’unica cosa certa è che la ricostruzione, per tutto questo periodo, resta ferma. Mentre a L’Aquila il clima si fa incandescente. L’8 luglio, il giorno dopo le bastonate in piazza a Roma ai manifestanti aquilani, Berlusconi sbotta: «La ricostruzione spetta agli enti locali, al Comune e alla Regione. Il governo doveva dare i finanziamenti, cosa che è stata fatta».
Il problema è che l’Aquila ha un centro storico enorme. E un numero di edifici vincolati inferiore, in Italia, soltanto ad Arezzo. Bisogna camminarci, per le strade deserte, fra le macerie, le catene che tengono insieme gli edifici squarciati dalle crepe e i ponteggi luccicanti, per vedere come la ferita butti ancora sangue. C’erano 27 mila universitari, per metà fuorisede, tra queste strade piene di macerie. Sui muri dei viottoli morti leggi ancora graffiti pieni di vita: «Buongiorno principessa!», «Giulia è solo te ke voglio», «Amore 80 voglia di te!». Chissà dove sono finiti, i ragazzi che scrissero quelle frasi. Qui sono rimasti soltanto i fantasmi.
Intendiamoci, sarebbe indecoroso non riconoscere come 14.356 persone, stando agli ultimi dati (anche se molte sono ancora costrette a vivere negli alberghi o sistemazioni di fortuna) siano state sistemate a tempo di record nelle 19 aree del progetto C.a.s.e. Anche se sono legittime le perplessità sulla scelta di mettere in ogni abitazione tutto ma proprio tutto compresa la tivù ultrapiatta ma non una libreria. E lo è anche chiedersi se non sia stato un po’ costoso costruire quelle abitazioni a 2.700 euro al metro quadro contro una spesa media in zona di circa 900. Ma le case sono là.
Il dubbio che agita non solo Italia Nostra ma anche il sindaco o l’assessore (ed ex presidente provinciale) Stefania Pezzopane è semmai quello che forse il piano new town è stato «fin troppo» miracoloso. Come fosse una strategia edilizia già decisa per la prima occasione utile. Racconta il sindaco (e vicecommissario) Massimo Cialente: «La mattina dell’8 aprile Berlusconi scende dall’elicottero e ci dice: adesso costruiremo delle case sicure in una nuova città, una new town. Io scuotevo la testa, e chiedevo: ma le "nostre" case? Disse: hai coppie giovani, ci sono molti studenti, potrai metterci loro… In quel momento aveva in testa una sola new town. Voleva rifare l’Aquila da un’altra parte. Qualche giorno dopo Bertolaso mi confermò: Tremonti aveva trovato l’area. Quella del vecchio aeroporto».
L’incubo, dice la Pezzopane («e non chiesero niente a me che avevo le competenze urbanistiche») era quello «di finire come Gibellina», morta, abbandonata e trasferita altrove. Per di più in un terreno paludoso. Riprende il sindaco: «Ci opponemmo con tutte le forze. Riuscimmo a ottenere che invece si creassero "solo" nuovi insediamenti nelle aree degli altri comuni terremotati. Da medico, diciamo che invece di farci tagliare la gamba ce la siamo cavata con l’amputazione di un alluce. Dolorosa ma limitata».
Il lungo sonno dell’Aquila ferita sotto i detriti, ecco ciò che non fa dormire Antonio Perrotti, Giusi Pitari, Annalisa Taballione e gli animatori del comitato «3 e 32». Il difficile deve ancora cominciare. Lo dicono, paradossalmente, i tre monumenti (tre!) eretti in ricordo del terremoto assai prima che fossero rimosse le macerie che quel terremoto lo ricordano da sole. Lo dice la statua di Sallustio tra i tubi Innocenti di piazza Palazzo alla quale hanno messo in mano una pala: pensaci tu, se sei capace. Qui, per ora, nonostante gli appelli, le denunce, le manifestazioni, le assemblee dei cittadini (vietate nelle tendopoli, insieme con il caffè, gli alcolici e la Coca-Cola (!), perché «eccitanti») o le proposte avanzate dai giovani architetti e tecnici del Collettivo 99, c’è poco o niente.
Per ora ci si è limitati a suddividere il centro storico in «aggregati». Dove la ricostruzione dovrebbe esser gestita in modo consorziato dai condomini. Piccolo dettaglio: la legge prevede la copertura integrale dei danni subiti dall’«abitazione principale». E qui sorge il primo problema, perché l’Aquila è piena di seconde case. Di più: la natura di questa «copertura» non è chiara affatto. Sono stati chiesti pareri all’Avvocatura dello Stato e all’Authority dei lavori pubblici. Stessa risposta: per come è formulata la norma, trattasi di finanziamento statale. Come tale, può essere utilizzato solo facendo gare nazionali per importi oltre il milione e addirittura europee per quelli che passino i 4,9. Una follia. Tanto più che non c’è probabilmente edificio di grande pregio, diviso in sette o otto abitazioni, che non richieda somme simili.
A parte i tempi, ve l’immaginate un condominio bandire una gara internazionale, pubblicare l’avviso sulla Gazzetta ufficiale di Bruxelles, istituire una commissione per aprire le buste e affrontare gli inevitabili ricorsi? Un delirio. In plateale contraddizione, accusa il «popolo delle carriole», con quanto il Cavaliere aveva garantito l’8 agosto 2009 in conferenza stampa: «Chi vuole procedere alla ricostruzione in proprio si presenta alla banca, presenta il preventivo o la prima fattura dell’impresa cui ha affidato i lavori e riceve immediatamente senza alcuna altra pratica aggiuntiva i soldi necessari». Sì, magari! I privati che vogliono riparare le case meno danneggiate e classificate A e B, in realtà, devono avere (ovvio) l’approvazione del Comune. E sempre il Comune pagherà l’impresa, sulla base dello stato di avanzamento dei lavori.
E’ da febbraio, quando fu infine creato il commissariato alla ricostruzione, che il suo responsabile tecnico, Gaetano Fontana, ex direttore dell’Associazione costruttori, chiede sia risolto l’inghippo. Niente. Ora il governo si sarebbe deciso (il contributo statale andrebbe inteso come un «indennizzo», al riparo dalla procedura delle gare) a fare chiarezza. Con un’attesissima legge speciale magari con una tassa di scopo? Macché: con un emendamento al decreto Tirrenia! Direte: cosa c’entra la Tirrenia? Niente, appunto.
A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina, dice il vecchio adagio. Sussurrano dunque i bene informati, fra cui politici con rilevanti responsabilità amministrative, che lo schema era già predisposto. Il centro storico dell’Aquila sarebbe stato ripartito in una ventina di zone, ognuna delle quali assegnata a un gruppo di imprese: ci avrebbero pensato loro a fare i progetti, farli approvare e ricostruire.
Fantasia? Guai se non fosse così. Intanto però la ricostruzione del capoluogo abruzzese ha gettato il mondo dei costruttori locali in uno stato di agitazione mai visto. Senza dire dei ripetuti allarmi sui rischi di infiltrazioni della criminalità organizzata. Rischi denunciati ad esempio da «Libera» e dal giornale online www.site.it di Angelo Venti. Un esempio? La scoperta che una ditta impegnata nei puntellamenti, guidata da amministratori «padani» per non dar nell’occhio, aveva 13 dipendenti su 15 con precedenti di camorra.
Va da sé che in una situazione come questa, che richiederebbe un asse solidaristico «alla friulana», divampano polemiche feroci. Di qua, nei Comuni di centrosinistra, lamentano l’inerzia della Regione, che si sarebbe limitata ad assecondare il volere di Berlusconi rinunciando perfino a emanare una propria legge. Di là, alla Regione, si lagnano per l’inefficienza dei sindaci che pur avendo la delega alla ricostruzione non hanno manco provveduto (dicono loro che non è chiaro: chi paga?) a rimuovere le macerie. Sia chiaro: farebbe tremare i polsi anche a Churchill o a Napoleone la ricostruzione dell’Aquila. Ma colpisce il tempo necessario a definire una stima dei danni. Elemento decisivo, spiega Luciano Di Sopra, per pianificare la continuità finanziaria degli interventi. A maggio 2010 il Cavaliere parlò di 7-8 miliardi. Poi, guardando quanto si era speso per il terremoto di Umbria e Marche, ne sono stati aggiunti quattro o cinque. Finché Gaetano Fontana ha spedito un appunto a Chiodi. Con una cifra tanto dettagliata, per il capoluogo, da apparire surreale: 10 miliardi, 530 milioni, 449.727 euro e 50 centesimi. Per le sole chiese sarebbe necessario un miliardo e 300 milioni. Per i palazzi privati vincolati, un miliardo e 859 milioni. Per le case del centro storico, 2 miliardi e 224 milioni.
Poi, naturalmente, c’è il resto. Compresi gli altri 56 Comuni. Il conto finale, potete scommetterci, sarà astronomico. Per non parlare dei tempi.
Non che di soldi non ne siano arrivati. Anzi. L’emergenza ne ha fatti girare parecchi. Per l’esattezza, ben 2 miliardi e 196 milioni. Finiti anche nel centro storico aquilano. Sotto forma soprattutto di bulloni. L’operazione dei puntellamenti non è ancora conclusa (è all’80%) ma si sono spesi già 70 milioni in catene e ponteggi. Nuovi di zecca, molti firmati «Marcegaglia». Comprati sulla base dei prezziari ufficiali: 25 euro a snodo, compresi i tubi e la messa in opera.
Il nodo, scusate il gioco di parole, è proprio lo snodo. Lo vedi da alcuni dettagli. Come la messa in sicurezza di un portoncino in un palazzo davanti alla chiesa di S. Pietro. Dove di snodi, con la necessaria pazienza, se ne possono contare complessivamente 44. Per un totale, su quel solo portoncino, di 1.100 euro.
Più snodi ci sono, più il costo sale. In alcuni casi non si può farne a meno. In altri, a vedere l’ardimento di certi grovigli di tubi, ti vengono dei dubbi: mah... C’è un episodio che dice tutto. A Roio il padrone di una casa praticamente crollata e di nessun valore storico aveva deciso di darle due botte finali e ricostruirla. Niente da fare. All’arrivo con la ruspa, la sua casa la stavano ingabbiando in una selva di tubi: 80 mila euro. C’è poi da stupirsi se Cialente ha deciso di istituire una commissione per capire come sono stati spesi tutti quei quattrini?
«Ecumò ce hao di paja?». Così disse la vecchia terremotata, sotto gli occhi di padre David Maria Turoldo. I soccorritori le avevano appena consegnato un paio di coperte e dei viveri e lei voleva sapere: «E adesso cosa devo pagare?». Spiegava il frate poeta che lì c'era il senso di tutto: «Una ricostruzione, per essere vera, perché sia segno di civiltà e abbia un valore, non può essere regalata. Una ricostruzione si paga e basta: allora ha un valore. Una cosa si deve fare con le proprie mani, allora la si ama». Quindi «è bene che non ci sia dato nulla in regalo».
Sia chiaro: non è che lo Stato non abbia fatto la sua parte, dopo la doppia randellata che il sisma diede alle colline delle prealpi carniche il 6 maggio e l'11 settembre del 1976 uccidendo 989 persone alla prima conta più tutti quelli morti nelle settimane seguenti negli ospedali. Anzi, per una volta la macchina pubblica, Stato, Regione, Provincia, Comunità collinare e Comuni furono all'altezza della sfida. Al punto che Italo Calvino si sbilanciò a scrivere che «i responsabili politici lavorarono unitariamente mettendo insieme quei tesori di impegno, di finezza, di pazienza e di moralità che occorrono per il successo di una battaglia politica perché questo era l'imperativo categorico dettato dalla loro coscienza». Senza badare, per una volta, alle tessere.
Quali siano i risultati, lo dice una passeggiata nel cuore di Gemona, lo stesso descritto allora da Gianni Rodari, il nostro Hans Christian Andersen, in un reportage per Paese Sera tra le «macerie di una cittadina che fu già bellissima, e ora è soltanto un groviglio pauroso. Il vecchio storico borgo è crollato da 48 ore, ma sembra morto da secoli. Le stradine preziose, i vicoli pittoreschi sono soltanto torrenti di detriti, le case sventrate, schiacciate, frantumate, è già come se non fossero state abbattute da questo terremoto ma da un altro, cento anni fa o da un bombardamento in qualche guerra». Era impressionato, Rodari: «Non si vede più nessuno piangere il secondo giorno dopo il terremoto. La fine di quello che c'era è una cosa accaduta in un tempo già lontano. È cominciata un'altra cosa. Non si sa ancora che cosa sarà».
Eccolo qui com’è, oggi, il cuore di Gemona. Il Duomo, il palazzetto gentilizio che ospita la ricca cineteca del Friuli, le stradine, le piazzette... Certo, le foto di allora con quegli ammassi di macerie dicono che quasi nulla è davvero «originale». Insomma, la «purezza» delle pietre antiche non è poi così antica. Se chiedi alle persone se avrebbero preferito buttar via tutto e tirar su una new town, però, ti guardano di traverso.
E così a Venzone, dove puoi vedere forse l'espressione migliore di quella filosofia che dominò la ricostruzione: «dov'era, com' era». Dov'era e com'era è il possente muro di cinta, dov'era e com'era è la porta di accesso al borgo, dov'erano e com'erano sono i palazzi allineati lungo la strada principale. Ma soprattutto, bellissimo, dov'era e com'era è il Duomo, che era stato inaugurato nel 1338 da Bertrando di Saint -Geniés, patriarca-guerriero di Aquileia e dopo avere barcollato alla prima botta sismica di maggio, era stato annientato dalla seconda di settembre.
Architetti, restauratori, ingegneri, storici dell’arte ed esperti vari erano tutti d'accordo: danni troppo gravi, impossibile ricostruire. Meglio fare una chiesa nuova. Qualcuno andò oltre, proponendo di coprire il paese intero con una gran cupola di plastica. Mai, dissero gli abitanti. E quando arrivarono le ruspe, sbarrarono loro la strada. E firmarono in massa (630 su 650 adulti) una petizione: com’era e dov’era. La leggenda, raccolta per Epoca da Gualtiero Strano, narra che a un certo punto il sovrintendente tentò di mettere in riga il prete, Giovan Battista Della Bianca: «Lei stia sul suo altare a dire la messa che a fare gli architetti ci pensiamo noi». E quello: «Se siete inefficienti faremo noi anche gli architetti». Finì che i cittadini recuperarono tutte le pietre del loro Duomo, le caricarono sui furgoni e le carriole e le sparpagliarono in un grande campo: 7.650 pietre. Numerate una ad una grazie alla perizia fatta dopo la prima scossa.
«Ognuna di queste pietre, quando il Duomo fu edificato, costò una giornata di lavoro a un uomo: 7.650 pietre sono 7.650 giorni», spiegò il pievano, «Venti anni di fatiche, sudori, sofferenze non potevano finire in discarica». Ci misero anni, i venzonesi, ad averla vinta. Ma ora il Duomo è lì. E chissà che rivederlo non abbia salvato delle vite. Le statistiche degli anni seguiti alla catastrofe, infatti, dicono che lo spaesamento tra i sopravvissuti più fragili fu tale da far impennare i suicidi fino a raddoppiare (11,6 contro 5 ogni centomila abitanti) la media nazionale.
Non solo a Gemona, Osoppo o Venzone fu sconfitta la teoria delle new town: «Secondo l'ingegnere autore della prima bozza del piano urbanistico — ricorda l'architetto Luciano Di Sopra, che del «modello Friuli» fu uno dei protagonisti come firmatario del piano di ricostruzione —, il sisma dava l'opportunità di abbandonare le zone danneggiate e trasferire la popolazione lungo l'asse Udine-Pordenone, con una ricostruzione resa più rapida dall'impegno integrale della prefabbricazione edilizia per realizzare nuovi edifici antisismici».
Impugna un libro scritto dopo essersi occupato di varie catastrofi in giro per il mondo compreso inizialmente («ma non facevo parte di nessuna cricca partitica e mi fecero fuori») il sisma in Irpinia. Si intitola Il costo dei terremoti. E’ pieno di cartine: «E’ stata una mania sovietica quella di spostare gli abitanti in new town permanenti — ammicca immaginando l'effetto che può fare a Berlusconi —. E’ il modello Belice. Ecco cosa hanno fatto a Montevago, Salemi, Salaparuta... Per non dire di Gibellina, spostata a una trentina di chilometri di distanza lasciando spazio ad architetti e artisti che avevano in testa modelli di periferie del Nord Europa. Il risultato è lì. Prendete Venzone e Gibellina Nuova. C'è qualcuno che pensa che andasse fatta la scelta siciliana?».
Corsi e ricorsi storici. La stessa scelta era stata fatta nell'isola dopo il terremoto che nel 1693 aveva devastato la Valle di Noto, causato almeno 60 mila morti e raso al suolo 25 centri. Fra i quali Occhiolà, feudo del principe di Butera. Il quale decise di spostare il borgo, di chiamarlo Grammichele e di prendere a modello la fortezza di Palmanova. In Friuli. «Non ripetiamo il Belice», titolò il Corriere il giorno dopo il terremoto ai piedi della Carnia. Eppure non erano solo gli ingegneri «sviluppisti» a essere perplessi sulla possibilità di restituire la vita a quei paesi. «Non posso dimenticare l'incubo che a quattro mesi dal sisma domina in questa città morta», scriveva ai primi di settembre da Gemona il nostro Alfredo Todisco senza immaginare che giorni dopo sarebbe arrivata la seconda batosta, «Restaurare Gemona sarebbe come restaurare Ercolano o Pompei».
Ma si sa come sono i furlani: teste dure. Lo sa Vienna che, come spiega il professor Salimbeni nella pagina seguente, ebbe modo di assaggiare di che pasta erano fatti nel 1848, in occasione dell'eroica difesa della fortezza di Osoppo, uno degli episodi purtroppo meno noti del Risorgimento. Lo scrisse mezzo secolo fa, spiegando che i canadesi distinguevano gli italiani «in due grandi categorie: quelli del Friuli e gli altri», Gianfranco Piazzesi. Affascinato, lui, toscano di questo «popolo di emigranti plasmati con sapienza dal parroco: fatti apposta dal buon Dio per rifornire la comunità nazionale di muratori, di carabinieri e di domestiche. Un popolo che risolveva molti problemi e non ne creava nessuno».
Decisero di far le cose a modo loro e le fecero. Senza che ancora esistesse, così come la conosciamo oggi, la Protezione civile. Senza le scorciatoie emergenziali che oggi sono ritenute assolutamente indispensabili. Senza esibizioni muscolari. Senza l'alone mistico di uomini della Provvidenza. Bastò il buon senso e l'efficienza di Giuseppe Zamberletti, il sottosegretario che forse avrebbe potuto dare di più a questo Paese se non lo avessero fatto fuori alla prima occasione. Bastò la saggia decisione andreottiana di delegare il più possibile alla Regione e ai Comuni. Bastò una netta divisione dei compiti settore per settore. Bastò la collaborazione (questa sì una fortuna irripetibile) di quei 57mila militari che in quegli anni in cui c’era ancora la Cortina di ferro erano acquartierati nelle caserme a ridosso della frontiera jugoslava.
Determinante, certo, fu lo spirito dei friulani. Basti ricordare quanto disse anni fa l'allora presidente regionale, il dc Antonio Comelli: «Prima pensammo alle fabbriche, al lavoro, alla produzione. Poi alle case. Ricordo ad esempio che l'anno dopo il terremoto prelevammo 300 o 350 miliardi dal fondo per la ricostruzione per l'autostrada Udine-Tarvisio che era arrivata solo fino a Gemona. La gente era ancora nelle baracche. Pensammo: è giusto farlo, ma questa è la volta che ci linciano. E invece la gente capì: occorreva ripartire abbinando ricostruzione e sviluppo». Una scelta difficile, ma compresa: «Molti rinunciarono ai contributi statali. Chi aveva un danno non troppo grave si vergognava un po' a chiedere soldi che magari servivano da altre parti». Il contrario di quanto sarebbe accaduto pochi anni dopo in Irpinia con l'allargamento dei comuni colpiti: alla prima conta 36, all'ultima 687. A un certo punto il Gazzettino confrontò le due catastrofi. Itinerari opposti: fatti 100 i finanziamenti al momento del disastro, sette anni dopo gli stanziamenti per Gemona o Buja erano ridotti a 38, quelli per Sant’Angelo dei Lombardi o Nusco erano saliti a 132.
Di soldi dallo Stato, comunque, anche in Friuli, ne arrivarono: al 31 dicembre ‘ 95, quando la ricostruzione poteva ormai considerarsi conclusa, il pallottoliere si fermò a 12.905 miliardi. Nove miliardi di euro d’oggi. Un settimo dei 66 spesi in Campania. Certo, i friulani ci misero forza e cuore. Ma quanto hanno pesato, sui fallimenti in Belice e in Irpinia, le scelte diametralmente diverse della politica, che certo non possono essere superficialmente addebitate alla «pigrizia» dei siciliani e dei campani?
Marco Fantoni se lo ricorda come fosse ieri mattina, quel 6 maggio. Tutti i capannoni dello stabilimento di Osoppo in cui produceva mobili e pannelli furono devastati dalla botta: «Sulle prime ci venne da piangere: un disastro. Ma era inutile star lì a lagnarci. Era un giovedì sera. Mentre organizzavamo nel piazzale un centro per le roulotte per ospitare le famiglie dei dipendenti, abbiamo cominciato a consolidare con dei tiranti l'unico capannone rimasto in piedi e a portarci i macchinari che ancora potevano essere riparati. Il lunedì mattina ripartimmo con la produzione. Un mese dopo brindammo al primo mobile della rinascita».
Dice che no, non ha chiarissimo se il terremoto abbia dato un'accelerazione allo sviluppo delle aziende della zona e in particolare della sua: «Va' a saperlo... Eravamo già ben avviati. Fu una sfida, questo sì: dovevamo mostrare di essere più forti della sfortuna». Certo è che al momento della scossa i dipendenti erano 310 e il fatturato di 6 miliardi di lire. Dieci anni dopo, i primi erano saliti a 510 e il secondo a 49. Un'impennata proseguita (360 milioni di euro nel 2007) fino alla grande crisi internazionale.
Fortuna dovuta a una pioggia di aiuti pubblici? «Mica tanto — risponde il figlio Giovanni, già presidente degli industriali friulani —. I contributi a fondo perduto sui danni accertati furono pari al 30% del danno subito per le aziende distrutte e al 20% per quelle danneggiate». Finanziamenti? «Fino a 12 anni con 3 di preammortamento al tasso del 4%. La Regione, certo, faceva da garante. E questo aiutò. I soldi, però, li abbiamo dovuti restituire». Anni buoni, dopo la botta. Buonissimi. Sospira: «Diciamo che per certi aspetti il terremoto più grave forse forse è quello finanziario di questi tempi». Che ha costretto l'azienda a ricorrere in modo massiccio ai contratti di solidarietà. Un destino comune a buona parte delle imprese friulane.
Dice una recentissima relazione degli uffici regionali che la produzione industriale del Friuli-Venezia Giulia è diminuita del 4,7% nel 2008 e addirittura dell’11% nel 2009. Senza risparmiare praticamente nessuno. A partire dal settore del mobile, che da queste parti è sempre stato una locomotiva. All’inizio del 2009 il calo, secondo Edi Snaidero, si aggirava sul 20-25%. Colpa degli ordinativi dai mercati extracomunitari, diminuiti nel 2009 di quasi il 7%. Letteralmente crollate le esportazioni in Russia: -55,8%. Incassata la mazzata più pesante negli Stati Uniti, la società ha reagito buttandosi sul mercato asiatico e lanciando modelli di cucine low cost con l'obiettivo di conquistare una fetta del mercato presidiato dalla Ikea. Auguri.
Nei primi tre mesi del 2010 c’è stata una certa ripresa. E l’aumento tendenziale su base annua della produzione industriale ha toccato punte del 12%. Con una ripresa nei fatturati (precipitati nel 2009 del 13,8%) oltre il 6,2%. Ma dire che la tempesta sia finita non si può. E se un po’ di fiducia sembra essere ritornata, molti imprenditori si leccano ancora le ferite. A fine 2009 il numero delle aziende iscritte alle Camere di commercio della regione era sceso per la prima volta da tanti anni sotto le 100 mila unità. Uno shock: in dodici mesi ne erano sparite 1.629. Con un tasso di mortalità più elevato della media nazionale e la scomparsa nel solo manifatturiero di 289 imprese: dalla siderurgia alla lavorazione dei metalli, dai mobili ai beni di consumo. Con una parallela impennata dei disoccupati: 34.700. Il doppio rispetto a tre anni fa.
Altri, con quei nuvoloni ancora addensati all'orizzonte, la vedrebbero nera. Eppure, dopo essere usciti alla grande dall'apocalisse del 1976, i friulani fanno mostra di ottimismo. Questione di carattere. Quello che colpì anche Riccardo Bacchelli. Un carattere che secondo il grande scrittore sarebbe stato temprato dall'essere sempre vissuti, i friulani, in un'area a cavallo fra il mondo tedesco, quello slavo, quello italiano e in definitiva avendo sempre l'immagine «immanente» di un terremoto, un'invasione, una guerra. Insomma, dall’esser sempre stati «sotto la bocca dei cannoni».
E’ durata poco la possibilità di parlare seriamente del recupero delle periferie romane (e di quelle italiane) aperte dalla proposta del sindaco Alemanno sulla demolizione del quartiere di Tor Bella Monaca. E’ infatti entrato in campo il teorema Berlusconi ed ha mandato tutto all’aria. Quando è in difficoltà, come noto, il primo ministro la “butta in caciara” come dicono a Roma, sparandole sempre più grosse, tipo che la crisi economica è finita, come afferma indisturbato da due anni.
Quando poi le difficoltà perdurano, tira fuori l’arma di distruzione di massa: è colpa dei comunisti. In un trasmissione radiofonica Alemanno-Berlusconi è nuovamente intervenuto sulla questione del recupero del quartiere romano affermando che Tor Bella Monaca è un quartiere sovietico! E che ci sia lo zampino del primo ministro è fuori di ogni dubbio. Alemanno appartiene alla cultura della destra sociale che conosce le difficoltà delle periferie e mai si sarebbe espresso in modo tanto improvvido. Sono tre –tra gli altri- i maggiori protagonisti della realizzazione del quartiere, Lucio Passarelli, Carlo Odorisio e Pietro Barucci.Tre persone di grande livello, dietro cui si nascondevano esponenti dei soviet nostrani. E chi l’avrebbe mai pensato, visto il loro profilo culturale?
L’affermato studio Passarelli ha ad esempio progettato e realizzato negli anno ’70 il bellissimo ampliamento dei Musei Vaticani. Paolo VI ha dunque chiamato un cosacco del Don a piazza San Pietro. Odorisio è stato uno stimatissimo imprenditore edilizio, una persona di grande equilibrio che ha contribuito alla costruzione di alcuni tra i migliori quartieri pubblici, nonostante –scopriamo- provenisse dalle lontane steppe. Pietro Barucci, infine, è uno dei più importanti architetti italiani che a Tor Bella Monaca ha progettato tra l’altro un bellissimo edificio. Alemanno-Berlusconi ha dunque preso un abbaglio comico! Ma è più interessante ragionare sui motivi reali dell’uscita. E’ che la cultura della destra liberista incarnata da Berlusconi non riesce ancora a fare i conti con la presenza dello Stato nella società. Al pari dei fondamentalisti raccolti intorno alla famiglia Bush, l’unico vero obiettivo che perseguono è quello di distruggere sistematicamente il ruolo e le prerogative pubbliche.
Tor Bella Monaca nasce negli anni ’80 per dare una casa vera alle centinaia di famiglie romane che ancora vivevano in baracche da terzo mondo. Solo l’intervento dello Stato può risolvere questi gravissimi problemi sociali. Chi vuole oggi demolire questo ruolo pubblico non è soltanto un mestatore, ma è anche fuori dal tempo. Da quando è emersa in tutta la sua rilevanza la crisi finanziaria mondiale è stato un susseguirsi di ricorsi agli aiuti di Stato, dalle banche al settore delle abitazioni. Lo stesso Marchionne, come ha documentato il Fatto Quotidiano di qualche giorno fa, non avrebbe conseguito i successi nel rilancio della Chrysler se non avesse potuto sfruttare consistenti aiuti delle autorità federali.
La destra berlusconiana conferma dunque ancora una volta di essere un’eccezione nel panorama mondiale: fa fatica a metabolizzare concetti e ruoli che negli altri paesi sono invece scontati. Con l’aggravante di nascondere la reale portata dei problemi in campo. Tor Bella Monaca, come tantissimi altri interventi pubblici realizzati negli anni delle grandi riforme, è infatti circondata da informi quartieri speculativi e –nel centro sud- abusivi. Quei quartieri pubblici nacquero proprio per realizzare viabilità, scuole e verde che nelle lottizzazioni private non erano stati realizzati. Avevano insomma svolto un ruolo di supplenza nei confronti della speculazione edilizia. Oggi si punta il dito soltanto contro i quartieri pubblici per nascondere l’amara verità che il sacco edilizio d’Italia è stato compiuto dalla speculazione edilizia e dall’abusivismo. Della necessità e dell’urgenza di rendere più umani questi quartieri nessuno parla: è più facile prendersela con il pubblico.
Senza nascondere, ovviamente, che anche i quartieri pubblici presentano errori di realizzazione e necessità do interventi di riqualificazione, ma sempre a partire dall’oggettività e dal rispetto della condizioni di vita degli abitanti e dalle loro esigenze. Resta l’amara constatazione che non appena si aprono a fatica spazi di discussione sui problemi reali dell’Italia - e lo stato delle nostre periferie urbane è sicuramente uno di questi - il mondo politico tira fuori l’ideologie senza senso e senza storia al solo scopo di continuare il comodo balletto. E’ davvero ora di farla finita con il teatrino della politica.
La sortita ferragostana del sindaco di Roma in vacanza a Cortina (“Raderò al suolo Tor Bella Monaca e la ricostruirò”) ha raccolto l’applauso sonoro dell’architetto (divenuto, per qualche foglio, urbanista) Paolo Portoghesi aduso a correre in soccorso del vincitore e dell’Ordine degli ingegneri, oltre che del suo partito, il Pdl. Mentre hanno detto un chiaro “no, grazie” i residenti del quartiere, i parroci, urbanisti, economisti, specialisti (non mancano) della cosiddetta “edilizia di sostituzione” praticata anche in Italia (a Torino Mirafiori, per esempio, e anni fa nelle periferie napoletane come San Pietro a Patierno). Vediamo cosa caverà ora dal cilindro Alemanno. Forse un privato potente al quale regalare fior di cubature (in più) per demolire e ricostruire “Torbella” altrove? Il sospetto viene quando si osserva che il quartiere è stato edificato sulla tenuta dei conti Vaselli i quali reclamano tuttora maxi-indennizzi dal Campidoglio per gli espropri subiti. Tuttavia, secondo l’ex assessore all’Urbanistica, on. Roberto Morassut, il costo della gigantesca operazione – coinvolgerebbe 3 milioni di metri cubi e 180 ettari di suoli – sarebbe pari a circa 4 miliardi di euro. Una follia. Né si saprebbe dove mettere nel frattempo oltre 30.000 persone.
In realtà - come ha mostrato il Tg3 guidato dall’urbanista Paolo Berdini – Tor Bella Monaca ha bisogno di investimenti per eliminare una sporcizia intollerabile, per fare manutenzione edilizia, migliorare le scuole, dare vita alle piazze, ai luoghi di socializzazione, offrire un trasporto pubblico collegato al centro che non sia soltanto il bus sulla Casilina distante 3 Km, e così via. Senza dire che il “sindaco della sicurezza” ha assistito impassibile alla soppressione, grazie a Tremonti, del presidio di Ps al centro del grande quartiere romano.
Se Gianni Alemanno avesse riproposto con forza questi problemi nel contesto di un piano di investimenti pubblici avrebbe compiuto un gesto avveduto. Ancora una volta invece siamo davanti ad una politica fatta di annunci poi puntualmente disattesi, in cui è maestro indiscusso Silvio Berlusconi. Si lancia uno slogan ad effetto, Confindustria e alcuni sindacati plaudono, talune corporazioni brindano. Poi, che succeda o no qualche cosa di concreto non ha molta importanza: l’illusionismo finanziario trionfa nel Paese che, del resto, si è tenuto per un ventennio Mussolini e chissà quanti anni ancora l’avrebbe lasciato a Palazzo Venezia se, imitando Francisco Franco, il duce avesse evitato l’errore mortale della guerra assieme ad Hitler.
Dopo quasi settant’anni siamo tornati lì, nei pressi del 25 luglio 1943? Certo, molti italiani sembrano aver scordato le conquiste concrete della democrazia, i diritti e i doveri, la prassi stessa, di una democrazia vera e partecipata.
Anche Milano ha la sua Tor Bella Monaca. È il Giambellino, quartiere di case Aler d’inizio secolo, d’immigrati vecchi e nuovi, di alloggi popolari e di degrado. Troppo degradato per sperare di cambiarlo. «Stiamo verificando se ci sono situazioni che possano richiedere interventi di questo tipo», dice Letizia Moratti, in visita a una casa confiscata alla mafia e assegnata a un’associazione non-profit, e rispondendo a una domanda dei cronisti sul tema di eventuali demolizioni dei quartieri più a rischio. Il sindaco non fa nomi, e anzi, subito dopo, ingrana la retromarcia: «Verificheremo, valuteremo, studieremo. Al momento comunque non c’è nessun progetto concreto». Sono però i suoi assessori a confermare che Palazzo Marino è intenzionato a seguire la via «romana » . L’assessore alla Casa, Gianni Verga, cita un precedente che può fare scuola: «Via Fetrinelli. Per togliere l’amianto dalla case bianche abbiamo trasferito un bel numero d’inquilini. Tra pochi mesi interverremo nelle torri di via Tofano, a Baggio. E poi nelle casette di via Barzoni al Corvetto».
Ma la vera sfida si chiama Giambellino-Lorenteggio. Verga conferma che si tratta di una soluzione ancora da studiare e da verificare, ma l’intenzione è quella: «Lì, al Giambellino, gli alloggi Aler sono troppo fatiscenti e degradati. Ristrutturare rischierebbe di essere uno sforzo inutile». L’idea allora è di demolire con chirurgica precisione. «Interventi mirati, non vogliamo mica distruggere un intero quartiere», assicura l’assessore. Si lavorerà di bisturi prima d’azionare le ruspe.
L’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli, dice che «per ora il tema è solo quello di realizzare nuovi alloggi popolari in sostituzione di quelli più non più riqualificabili». «Via Cogne, via Civitavecchia, via Ovada: potremmo prevedere di riservare una quota delle case convenzionate in realizzazione proprio a chi dovrà traslocare dai vecchi quartieri Aler». D’accordo «in linea di principio» anche il vicesindaco Riccardo De Corato. Che mette però l’accento sulla necessità di trovare soluzioni condivise con i residenti sfrattati «causa degrado»: «La mappa dei quartieri a rischio è facile facile», suggerisce: «Stadera, Corvetto, San Siro. Solo per fare tre nomi di altrettante zone dove le case Aler sono ormai troppo vecchie».
Insorge intanto l’opposizione. Roberto Cornelli, segretario metropolitano del Pd, è durissimo: «Le periferie di Milano hanno bisogno di servizi e attenzione alla qualità della vita. Dopo 5 anni di governo è allarmante che il sindaco Moratti voglia abbattere interi quartieri e non precisi nemmeno di quali luoghi stia parlando».
La demolizione del quartiere, auspicata da Alemanno, quale sintomo di un male maggiore
Edoardo Salzano (audio), una delle voci più autorevoli dell'urbanistica italiana, afferma che «i problemi della città andrebbero seguiti nel tempo, con un'attenzione continua». La proposta del sindaco di Roma Gianni Alemanno di demolire il quartiere di Tor Bella Monaca e riqualificarlo, sarebbe solo un particolare caso di una pratica edilizia generalizzante. «Se il progetto fosse quello di rendere più vivibile le periferie romane, si farebbe come si fa negli altri paesi o si è fatto in altri tempi in Italia: coinvolgere i cittadini in una discussione sui problemi e sui modi per risolverli».
La diffusione della “cultura dell'abitare” è l'intento che da decenni muove Edoardo Salzano, urbanista d'esperienza e fondatore del sito eddyburg.it, punto di riferimento del settore. Non rientrerebbe in una politica vicina al cittadino la proposta lanciata dal sindaco di Roma Alemanno di demolire e ricostruire il disagiato quartiere di Tor Bella Monaca. «Bisogna capire se la città deve essere organizzata, perché gli uomini vivano meglio o semplicemente per far aumentare il PIL», sostiene Salzano.
Il buon senso civile. L'esempio di Berdini
L'urbanista sostiene che «il nodo della questione, di cui nessuno sulla stampa quotidiana ha parlato, è capire in che modo si considera la città. Se si demolisce per poi ricostruire, c'è chi specula e non ci si occupa seriamente dei problemi degli abitanti». In tal senso un esempio viene dall'ingegnere Paolo Berdini, in un articolo apparso ieri sul Manifesto: «Il merito di Berdini è di aver usato parole di buon senso, che quindi risultano strane. Parla concretamente, come si fa negli altri paesi dove le questioni urbane sono seguite per costruire e progettare sistematicamente la città».
Dare voce ai cittadini
Il problema, secondo Salzano, non è l'iniziativa di Alemanno in sé e per sé, quanto «il modo che hanno i politici italiani, a partire da quelli di Destra, di affrontare le questioni della città, spesso mero pretesto per fare delle “sparate”. La cosa non ha nessun senso: è semplicemente distruttiva». Occorrerebbe un coinvolgimento maggiore e partecipato della società civile, un «lavoro lunghissimo» che però darebbe «spazio, voci e servizi a quella pluralità di centri in cui i cittadini stanno ricominciando a fare politica. Sto parlando dei comitati, dei gruppi di cittadinanza attiva e delle associazioni presenti sul territorio».
(ami) 2010-08-26 08:55:26
Qui, cliccando sull'apposito simbolo, potete sentire l'intervusta in audio
Finalmente le periferie romane si fanno largo nell'immaginario cittadino. La proposta del sindaco Alemanno di demolire Tor Bella Monaca è poca cosa e strumentale. Ma permette, come ha più volte chiesto questo giornale, di porre finalmente al centro della discussione lo stato disastroso delle tante torbellamanaca che non hanno la forza di rompere il silenzio colpevole della politica.
La sfida è dunque aperta perché alle dichiarazioni del primo cittadino dovranno seguire necessariamente atti concreti e si aprirà una sfida che - nell'interesse della città - abbiamo il dovere di riempire di contenuti. Lo faremo partendo da una critica radicale dei presupposti culturali con cui il sindaco intende operare, quando parla della bontà del «modello Garbatella», e cioè della piccola borgata che all'inizio degli anni '20 del secolo scorso fu costruita dall'Istituto per le case popolari per dare alloggio agli operai della nascente zona industriale Ostiense.
Garbatella è un luogo bellissimo oggi, non quando fu costruita. All'epoca soffriva di isolamento e di mancanza di servizi pubblici che sarebbero venuti soltanto con le dure rivendicazioni degli abitanti. Un solo esempio. Nella metà degli anni '30, furono costruiti da un grande architetto come Innocenzo Sabbatini tre edifici collettivi per ospitare gli abitanti del centro storico devastato dalla follia del piccone demolitore mussoliniano. Ogni famiglia aveva una stanza, la cucina e i bagni erano in comune. Un modello la Garbatella? Ma quando mai! Lo è diventata perché tornata la libertà le famiglie hanno preteso che venisse trasformata la tipologia e venissero fatti alloggi con tutti i crismi. Chiesero poi altre scuole, giardini pubblici, servizi sociali e culturali.
È il tempo, la fatica sociale e gli investimenti pubblici che l'hanno resa bella.
Tor Bella Monaca non è degradata soltanto perchè piove dentro le case (problema verissimo, ma che si può risolvere con la manutenzione), ma perchè ha scuole con soffitti cadenti e pavimenti sconnessi. Ha parchi sporchi e disadorni che di notte diventano luoghi da malaffare. Non ha piazze. È piena di casi sociali gravi e non ha più un servizio sociale degno di questo nome per i tagli alla spesa pubblica. È piena di bambini handicappati che non hanno più l'ausilio a scuola per bontà della Gelmini. Altro che demolizione. L'unica ricetta è applicare veramente il modello Garbatella: intervenire con un paziente lavoro di costruzione della città pubblica. Investire risorse economiche.
Fare un infinito numero di piccole opere: migliorare lo stato delle scuole; creare spazi sportivi gestiti con competenza e disinteresse; creare una rete di percorsi pedonali e ciclabili protetti che permettano ai bambini di andare a scuola senza pericolo. Interrare strade pericolose. Creare servizi di trasporto moderni ed efficienti: per arrivare alla via Casilina (tre chilometri di distanza) si impiegano quaranta minuti di bus, quando passa. Insomma per cambiare le periferie occorre creare la città pubblica. La demolizione è una comoda scorcatoia che non risolve alcun problema: quattro anni fa fu sperimentata al Laurentino 38. Sono saltati tre ponti e il degrado è identico a prima.
Alemanno è costretto a percorre la scorciatoia della demolizione perchè altrimenti dovrebbe fare i conti con la cultura dominante il suo partito (ed anche del Pd, purtroppo)che ancora crede che la ricetta per risolvere i problemi urbani sia quello di affidarne le sorti ai «privati». È quanto sostiene il faro dell'urbanistica del Pdl, l'onorevole Maurizio Lupi, che da tempo ha presentato una proposta di riforma che equipara gli speculatori con le amministrazioni pubbliche. Il dibattito che si aprirà sulle periferie dovrà fare i conti con questa devastante cultura.
Vorremmo infine ricordare che la tanto osannata Garbatella è figlia del grande pensiero degli inizi del secolo scorso, incarnato meglio di chiunque altro da Luigi Luzzatti. In quel lontano periodo c'era la consapevolezza che le città erano organismi pubblici da governare con idee e lungimiranza. Oggi la politica bipartisan ha sostituito i Luzzatti con ogni sorta di guitti e speculatori. Il patrimonio immobiliare dell'Istituto case popolari di Roma è stato ad esempio affidato alla società Romeo. Non è così che si salverà Tor Bella Monaca.
la Repubblica
"Abbattere Tor Bella Monaca", a Roma è polemica
di Paolo G. Brera e Rory Cappelli
«Tor Bella Monaca? Va rasa al suolo e ricostruita». Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, dice che sarà la sua «Rivoluzione d´Ottobre» (proprio così, quella bolscevica): «Dobbiamo demolire quegli obbrobri e ricostruire sul modello della Garbatella», trasformando la più degradata e violenta delle borgate romane nello splendido quartiere d´edilizia popolare realizzato nel Ventennio, un idillio di villette con giardini che oggi costano un occhio. Addio ai casermoni di cemento e ai laghi d´asfalto, addio a sporcizia e delinquenza, promette il sindaco in un intervento a "Cortina Incontra" travolgendo la sonnolenta politica estiva capitolina. «Un piano così gigantesco non lo ha mai realizzato nessuno al mondo: costerebbe uno sproposito e non eliminerebbe il degrado», taglia corto l´urbanista Paolo Berdini, ricordando che non è proprio uno scherzetto abbattere un quartiere con 35mila residenti che sopravvivono nelle case popolari: «Praticamente una città come Velletri, ma senza servizi sociali e senza manutenzioni».
«Una boutade estiva e un´inutile propaganda», la bolla il centrosinistra ricordando che, nonostante le promesse elettorali di abbattere e ricostruire Corviale - un serpentone di degrado assoluto con 1.200 appartamenti - «a metà del suo mandato il sindaco non ha demolito e ricostruito un solo metro cubo». «Prima che ci riesca, i romani abbatteranno lui alle elezioni», chiosa Massimiliano Valeriani (Pd). E a sentire gli abitanti di Tor Bella Monaca sembrerebbe proprio così: «Qui non ci manca niente, abbiamo anche l´orto. Tutta Roma ci invidia» si fermano a dire Veronica e Perla, mentre con la spesa rientrano a casa passando nei lunghi camminamenti del retro delle "torri": la prima indossa un ciondolo d´oro con la croce celtica, la seconda una maglietta con la faccia del duce stampata sopra. «Certo, poi ci sono molti problemi» dice Perla agitando la mano avanti e indietro come un rapper newyorkese. «Per esempio la sporcizia: venisse a pulire Alemanno, invece di pensare a buttare giù le nostre case».
Sull´idea di Alemanno sono intervenuti in tantissimi: «Se una decisione del genere dovesse essere presa per un mero fatto estetico» ragiona il critico e scrittore Alberto Asor Rosa «tre quarti della Roma post bellica dovrebbe essere abbattuti». C´è anche chi plaude trovando la «proposta coraggiosa e all´altezza delle problematiche della zona» come ha detto Michele Placido, l´attore che ha legato il proprio nome alla conduzione artistica del Teatro Tor Bella Monaca. Anche l´architetto Paolo Portoghesi ha "benedetto" l´idea del sindaco spiegando che si era «partiti dall´idea di un quartiere modello: è diventato un ghetto senza vitalità. Si capisce che dietro l´idea di Alemanno c´è la scelta di imboccare la strada per cambiare la città senza commettere gli errori del passato».
E Alemanno, intanto, rilancia: «Chi parla di una boutade estiva si sbaglia: a fine ottobre presenteremo un masterplan della zona e faremo un referendum con i residenti. Il costo? Puntiamo a edificare le aree circostanti con premi di cubature da dare ai costruttori, senza esborsi per il Comune». «I conti non tornano - replica Berdini - i residenti in eccesso dove pensa di trasferirli, in una città con diecimila famiglie in occupazione abusiva?».
Corriere della Sera
Cittadini ostaggio di periferie malate
di Giangiacomo Schiavi
Ci sono posti che diventano frontiere dell’invivibilità. Milano, quartiere Corvetto: vigili accerchiati e aggrediti da giovani teppisti. Roma, Tor Bella Monaca: porto franco di illegalità. Ma i casi aumentano ogni giorno anche ai margini di altre città, dove con il degrado cresce la paura dei cittadini onesti. E se abbattessimo le periferie?, ha proposto il sindaco di Roma, Alemanno, annunciando un progetto per tirar giù le torri ghetto di Tor Bella Monaca. Tra boutade estive ed emergenze vere, con la bagarre politica si riapre la questione sicurezza. Ma non basta dire «rottamiamo i ghetti invivibili» per uscire dall’emergenza che penalizza gli abitanti dei quartieri difficili, dove rimbomba periodicamente la parola «coprifuoco» e dove la presenza delle forze dell’ordine è considerata prioritaria per garantire la vivibilità. Tor Bella Monaca, a Roma, è un’enclave malata dove i problemi irrisolti si sono accumulati negli anni insieme alle risse, allo spaccio, alle aggressioni, alle occupazioni abusive e dove gli interventi di recupero sono risultati fallimentari per l’incapacità di portare nel quartiere servizi, cultura, assistenza sociale e creare quel mix abitativo in grado di rompere l’omertà collusa sulla quale prospera l’illegalità.
È così anche a Milano, nelle zone rosse dell’emergenza abitativa, dentro gli osceni tuguri del quartiere Stadera, nell’isola della droga di via Capuana a Quarto Oggiaro, o nelle vie perdute del Corvetto, dove gli appartamenti si occupano con il passaparola mentre l’anziana titolare va in ferie, e guai a chi sgarra o denuncia, perché si bruciano le auto come niente o compaiono subito scritte minacciose sulle porte.
È da questi spazi privati di una vera socialità, in qualche caso ridotti a squallidi dormitori dall’immigrazione clandestina, che bisogna partire per chiudere la ferita aperta delle nostre periferie. Abbattere è stata una parola tabù fino a pochi anni fa, ma in certi casi oggi la richiesta la fanno le stesse Aler: i costi per rimettere a nuovo i grattacieli coi muri sgangherati e cadenti sono più alti di una ricostruzione vera e propria. Tanto varrebbe buttar giù qualche muro, cancellando così anche la vergogna dell’urbanistica sbagliata degli anni Sessanta.
Ma queste operazioni, sicuramente vantaggiose per l’edilizia e per l’estetica, necessitano di qualcosa d’altro per restituire una dignità abitativa e un’anima ai quartieri, per dare a chi ci vive onestamente la sensazione di non essere figli di un dio minore: servono negozi, scuole, asili, centri culturali, più controlli e più vigili. La parola rottamare porta con sé l’idea negativa dell’inutilità: meglio sarebbe dire salvare. Per dare davvero una mano ai cittadini che, a Roma come a Milano, chiedono di essere ascoltati e aiutati.
Corriere della Sera
«Tor Bella Monaca sarà rasa al suolo»
di Paolo Foschi
ROMA — «È solo demagogia, è il solito annuncio che non avrà alcun seguito», urlano dal centrosinistra. «No, è un progetto vero e presto lo presenteremo», replicano dal Pdl. Dopo le polemiche per la tassa sui cortei, accende il dibattito politico anche la nuova proposta di Gianni Alemanno: radere al suolo e ricostruire il quartiere degradato di Tor Bella Monaca, periferia est della Capitale.
Il sindaco anche stavolta ha lanciato l’idea dal palco della manifestazione estiva Cortina Incontra. Lo ha fatto domenica sera in pillole, annunciando solo a grandi linee il piano. E ieri ha dettato un primo embrionale cronoprogramma: «Non è una boutade estiva, ci stiamo lavorando da mesi e a ottobre presenteremo il master plan agli abitanti. Non è una questione estetica ma funzionale, in quella case piove dentro. E noi non vogliamo cacciare i residenti, ma spostarli in appartamenti di qualità. Penso a una città-giardino sul modello della Garbatella». Nel piano del sindaco invece non c’è la demolizione del serpentone di «Corviale, quello è un discorso diverso».
Due architetti di calibro, e cioè Paolo Portoghesi e Massimiliano Fuksas hanno espresso già parere favorevole, anche se condizionato. «Non vale la logica della tabula rasa - ha detto Fuksas - ma bisogna lavorare con cesello e attenzione. Abbattere alcune zone, riqualificarne altre». E Portoghesi: «È una buona iniziativa, ma poi bisogna ricostruire con qualità». Resta l’incognita dei fondi: il bilancio del Campidoglio è in profondo rosso. E il centrosinistra affonda il coltello nella piaga: «Sono progetti velleitari, la giunta Alemanno non è riuscita a realizzare un solo metro cubo di nuovi alloggi popolari», ha sottolineato Roberto Morassut, assessore all’Urbanistica ai tempi di Walter Veltroni sindaco. E dal Pd ricordano che «appena eletto Alemanno voleva spostare la teca di Meier dell’Ara Pacis a Tor Bella Monaca, ora vuole radere al suolo il quartiere. Il prossimo anno che cosa proporrà?». Stefano Pedica, segretario regionale dell’Idv, rincara la dose: «Parole, parole, parole. Dove sono i 6 mila nuovi alloggi popolari promessi in campagna elettorale?». Fra i contrari c’è anche i l critico e scritto Asor Rosa, ex dirigente del Pci: «La proposta andrebbe commentata con una risata. Perché allora andrebbero abbattuti 3 quarti della Roma post bellica. Anziché abbattere Tor Bella Monaca, il comune investa sui servizi . . . » . Rosa Russo Iervolino, sindaco di Napoli, ha invece espresso parere favorevole.
Nel centrodestra, molti i sostenitori. «Idea realizzabile e concreta», ha sintetizzato Francesco Giro, sottosegretario ai Beni culturali. Secondo Vittorio Sgarbi, «Alemanno ha ragione, ma la sua proposta rischia di restare simbolica e senza conseguenze pratiche». Vena polemica invece nelle parole di Teodoro Buontempo, assessore regionale alla casa nella giunta Polverini: «Bene, a patto che non sia solo un proclama di Ferragosto».
Corriere della Sera
Spaccio e pestaggi Il quartiere milanese dei ragazzi gangster
di Gianni Santucci
MILANO — «Se qua si mettesse una targa per ogni balordata, ormai non ci sarebbe più spazio sui muri», sorride a mezza bocca un anziano, si gira da una parte e dell’altra, poi indica e mormora: «In quest’angolo hanno massacrato una brava persona, un uomo che s’era solo lamentato per un motorino sul marciapiede». Quell’uomo aveva 52 anni, s’è fatto un mese in rianimazione e, quattro anni dopo, porta ancora addosso i danni di quel pestaggio. L’ultima targa della memoria nera del Corvetto starebbe venti metri più giù, al centro del quartiere, dove sabato sera un maghrebino s’è ritrovato con la faccia spappolata dai calci per aver oltrepassato la linea che segna spazi, regole e comportamenti dello spaccio. Si gira l’angolo e nell’altra strada, dopo la rissa dell’altra sera, un vigile è stato circondato e assalito da una ventina di persone del quartiere, che hanno «liberato» un arrestato. Ieri gli agenti sono tornati in cinquanta, in borghese, e hanno arrestato due di quelli che hanno partecipato alla rivolta. Erano rimasti nelle loro strade, all’estrema periferia Sudest di Milano. Qui dove i ragazzi che vogliono fare i gangster urlano «Corvetto comanda» (l’hanno fatto anche sabato, mentre «salvavano» il loro compagno dalle manette).
È tutto in una manciata di strade e nemmeno un chilometro quadrato d’asfalto, il Corvetto. Con una memoria criminale stratificata da decenni. Uno dei pochi posti della città dove si reagisce ai controlli e alle forze dell’ordine. Uno dei ragazzi arrestati ieri ha 25 anni, precedenti per rissa, spaccio, rapina; era agli arresti domiciliari ma sabato sera è uscito comunque a picchiare il vigile; ieri pomeriggio gli investigatori l’hanno trovato ancora in strada. Quando li ha visti s’è messo a scappare; quando l’hanno preso l’ha fissati e è rimasto muto (è in carcere anche per l’evasione). L’altro arrestato è ancora più giovane, 22 anni. Un minorenne è stato identificato e denunciato. C’era bisogno di dare una risposta immediata all’aggressione e ora il sindaco, Letizia Moratti, dice: «A Milano non ci sono zone franche».
Sembrano una sequenza di freddi dettagli di cronaca, le storie del Corvetto, ma dicono qualcosa in più: raccontano che negli ultimi quattro anni, in questo quartiere, è cresciuta una generazione di ragazzini che ha avuto il suo «battesimo del fuoco» assaltando nel 2006 il comando di zona della polizia locale. E che poi, mese dopo mese, ha picchiato, spacciato, sparato. Il Corvetto è chiuso in una ventina di strade che in pomeriggio d’agosto si percorrono a piedi in un paio d’ore e restituiscono la memoria di una violenza quotidiana: il disabile massacrato con la sua stampella in piazza Gabriele Rosa perché s’era lamentato dopo che avevano investito il suo cane; una pistola e un fucile a pompa scaricati contro un addetto alla sicurezza di una discoteca che aveva rifiutato l’ingresso nel privé (in via Fabio Massimo); gli otto motorini bruciati all’inizio di corso Lodi l’anno scorso come sfregio ai rivali di spaccio, i maghrebini di piazza Ferrara, che è a 500 metri di distanza. È anche il quartiere del «coprifuoco», dove dall’inizio di agosto un’ordinanza del Comune ha ridotto gli orari d’apertura di bar, kebab, centri massaggi: «Non risolverà tutto — spiega il vice sindaco, Riccardo De Corato — ma il nuovo provvedimento porta più presenza e attenzione su alcuni punti critici della zona. Le istituzioni devono lavorare insieme e oggi dobbiamo ringraziare la Procura che ha dedicato un magistrato alle pratiche per sequestrare le case affittate in nero a decine di immigrati clandestini». Come succede in un intero palazzo di via Bessarione, dove si dorme a turni, di giorno e di notte.
La storia criminale del Corvetto è ormai un palinsesto di livelli sovrapposti e rappresenta in qualche modo l’evoluzione della malavita al Nord. Questo quartiere, dagli anni Settanta, è stato un feudo dei clan della mafia siciliana. All’epoca, in via Romilli, per coprire i traffici di droga aveva aperto un negozio di tessuti Gaetano Fidanzati, che a Milano è stato arrestato lo scorso dicembre (era considerato l’ultimo grande vecchio di Cosa Nostra in libertà). Proprio intorno al Corvetto, poco prima dell’arresto, erano arrivati a cercarlo con una serie di blitz i carabinieri di Palermo. I vecchi clan hanno però abbandonato da anni il controllo del territorio, e la violenza di oggi sembra più sporca e più gratuita.
La notte scorsa le pattuglie dei vigili sono tornate in strada per i controlli, c’era anche il comandante della polizia locale, Tullio Mastrangelo: «Stiamo lavorando — dice — per arrivare a identificare l’intero gruppo della rivolta». I controlli stradali servono più che altrove, al Corvetto, perché il quartiere è una delle centrali di smistamento di auto e moto rubate in tutta Milano (gli italiani lavorano con i clan zingari). Nel 2006 fu proprio il sequestro di alcuni motorini a scatenare la banda del Corvetto in un pomeriggio di guerriglia. Con la violenza dicevano : « Qui c o mandi a mo noi». Alcuni di quei ragazzi allora erano minorenni, altri non furono processati perché c’era l’indulto. In questi quattro anni stanno finendo in carcere uno dopo l’altro.
La Stampa
Demolire Tor Bella Monaca
di Flavia Amabile
Forse era una provocazione ferragostana,o forse no, e l’idea di Gianni Alemanno è davvero destinata a cambiare un pezzo di Roma. «Tor Bella Monaca va demolita, rasa al suolo». L’aveva definita «una cisti urbana» e spiegato che «è necessario demolire e ricostruire ampie aree della città, recuperando anche terreno urbano». La platea ascoltava, piuttosto stupita. In molti avevano pensato ad un’esagerazione, alla voglia di catturare un titolo sui giornali.
In realtà ieri Alemanno ha confermato ogni parola e aggiunto anche qualche dettaglio annunciando un master plan e un referendum: «Sbaglia chi pensa che sia una boutade estiva: a fine ottobre presenteremo un master plan della zona e faremo un confronto diretto con i residenti, anche con un referendum, perchè vogliamo attuare una urbanistica partecipata e non calata dall’alto».
Se urbanistica partecipata deve essere, allora l’idea è già morta perché gli abitanti di Tor Bella Monaca non hanno mostrato molto entusiasmo all’idea di veder distrutte le loro case. «Invece di pensare a queste cavolate spenda i soldi per costruire dei centri a buon mercato per le famiglie che non se lo possono permettere, in modo che i ragazzi possano andare tranquillamente a fare attività sportiva e toglierli così dalla strada». E, un altro: «È tutta una speculazione per poter lavorare, prendere appalti, subappalti, sub subappalti, e i poveri disgraziati vivono sempre come vivono». Oppure: «Quando è venuto qui a prendere voti non doveva radere al suolo Tor Bella Monaca!»
Alemanno vorrebbe abbattere le torri e alcuni dei lunghi palazzi orizzontali del quartiere, e poi ricostruire non con i grattacieli ma sulla falsa riga della città giardino, modello Garbatella. «I grattacieli servono - spiega - per realizzare servizi e non residenze. Lo schema edilizio verticale è fallito. Penso per Tor Bella Monaca a case come quelle della Garbatella», cioè basse e con ampi spazi verdi.
Questione di estetica, certo, ma non solo, tiene a precisare Alemanno. «Nelle case di Tor Bella Monica ci piove dentro, la qualità di vità dei cittadini è pessima perchè spesso si tratta di prefabbricati spinti, e tra una lastra e l’altra ci sono crepe ed infiltrazioni. Forse Asor Rosa questo aspetto non lo conosce».
È stato anche affrontato il versante economico: «Puntiamo ad edificare le aree circostanti con premi di cubature da dare ai costruttori, quindi senza esborsi per l’amministrazione comunale». Diversa per il sindaco la situazione dell’altro quartiere periferico di Corviale. «Non c’è un problema funzionale, non piove dentro le case. C’è un problema di organizzazione bisogna abolire il condominio unico e crearne diversi, puntare sui servizi. Su questo sono d’accordo con Asor Rosa, non si può abbattere soltanto per un pregiudizio estetico».
Si parlava di un progetto urbanistico, di una proposta tecnica ma il mondo politico ha risposto secondo blocchi compatti e contrapposti come se già fosse in corso una pre-campagna elettorale. Il via libera govenativo arriva con Francesco Giro, Pdl, sottosegretario del ministero ai Beni Culturali.
Ma le voci a favore sono davvero tante, da Buontempo a Gramazio. E Massimiliano Lorenzotti, tessera del Pdl in tasca e presidente dell’VIII municipio, quello di Tor Bella Monaca, in totale disaccordo con i suoi amministrati, si augura che sia «un sogno che si possa realizzare» perché «Tor Bella Monaca è diventato un ghetto, un quartiere insicuro con sacche di microcriminalità, tanto che le persone per bene non riescono a viverci, non c’è più vita sociale. La manutenzione è poi difficilissima, perchè gli edifici sono vecchi e mal costruiti».
Ironia e condanna da parte dell’opposizione.«Con quali soldi fare una nuova Tor Bella Monaca?» Se lo chiede il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della Commissione affari europei e dirigente del Pd di Roma. Oppure Luigi Nieri, ex assessore alle periferie del Comune che ricorda il fascino degli sventramenti fascisti anche sulla maggioranza attuale.
ed ecco che cosa ne pensano alcuni architetti
Fra gli entusiasti innanzitutto Paolo Portoghesi che a Roma ha costruito la Moschea. «Un’ottima idea, auspicabile - commenta - Perchè Tor Bella Monaca è uno dei grandi fallimenti dell’urbanistica romana degli anni ’70/’80. Ormai è un ghetto senza vivibilità. e consuma energia in modo terribile perchè realizzato con modelli di prefabbricazione sbagliata. Costa meno abbatterlo e ricostruirlo che riqualificarlo».
Vittorio Sgarbi non è un architetto ma come esperto d’arte ha voluto dire la sua e chiesto un quartiere che sia «una seconda Eur».
Nessun architetto sosterrebbe che Tor Bella Monaca sia un capolavoro ma abbatterlo ad alcuni sembra un po’ troppo. E, senza rifiutare del tutto l’idea, propongono alternative.
Renato Nicolini, ad esempio, che quel quartiere l’ha trovato appena costruito quando è entrato nella giunta Petroselli. «Si deve seguire l’esempio francese e tedesco, costruendo sopra quello che esiste. La demolizione è impraticabile, il pubblico non ha soldi per pagarla». Per Nicolini, si può intervenire «con una finezza maggiore. Si recupera, si riqualifica, si costruisce, si trasforma. Quindi, si densifica creando spazi per la vita culturale e sociale. Ma sto parlando di un progetto da portare avanti con i privati, non con enti pubblici».
Anche Massimiliano Fuksas non è del tutto contrario. «Il quartiere di Tor Bella Monaca può essere in parte integrato, in parte abbattuto. C’è spazio per costruire nuove architetture con qualità ambientali e sociali, oltre che culturali. Fare tabula rasa è possibile, ma solo in alcune condizioni estreme. Negli altri casi, come ho verificato ad esempio durante un intervento a Marsiglia, in un grande quartiere sociale si può in alcuni casi diminuire la densità, in altri aumentarla, intervenire sull’esistente e anche abbattere gli edifici che non hanno nè qualità sociale nè qualità architettonica».
Andrea Bonessa, milanese, e idee molto diverse da quelle di Alemanno, dà ragione al sindaco di Roma. «Ma si deve avere coraggio fino in fondo e ricostruire senza più seguire la logica dei quartieri-dormitorio altrimenti è del tutto inutili abbattere».
Non è una battuta estemporanea. Con la sortita di Alemanno si è aperta una questione seria. Ne vogliamo sottolineare due elementi.
1) La proposta di Alemanno riassume tutti i connotati della politica della destra neoliberista , a proposito di residenza, di città e di società. Si distruggono le immagini di una politica volta (dal Tiburtino III al Corviale) a realizzare il diritto alla casa e alla città. Si svuota la più avanzata pratica di intervento nell'edilizia residenziale, quella avviata con la legge 167/1962 che oggi i paesi dell'Europa evoluta stanno imitando. Si demolisce patrimonio pubblico per cedere le aree alla proprietà privata, che dovrà "subire" per qualche anno qualche prezzo convenzionato per poi entrare trionfalmente in possesso di una inaspettata rendita fondiaria. Si affronta in modo meramente represssivo una questione sociale, che solo l'incuria dei governanti di ieri e di oggi ha provocato e lasciato incancrenire. Si propaganda il modello edilizio più favorevole sia al consumo di suolo che al trionfo dell'individualismo sociale. Si sprecano risorse che per anni si sono negate alla manutenzione ordinaria e, quando occorre, straordinaria. Si favorisce un pugno di imprese edilizia che da decenni hanno abbandonato ogni spirito imprenditivo per tuffarsi a capofitto nella speculazione edilizia.
2) Le risposte, possibiliste o addirittura favorevoli, di alcuni autorevoli esponenti della cultura architettonica e urbanistica rivelano a loro volta il profondo degrado nel quale, nel nostro paese, quella cultura è precipitata negli ultimi anni. L'egemonia della destra neoliberista sull'intellettualità italiana, su cui ragionava Fausto Curi sul manifesto di qualche giorno fa, sta ricevendo altre conferme. Ma su questo bisognerà tornare, riprendendo questioni che già altre volte erano emerse a proposito di periferie e "casermoni", e degli "errori" che certamente negli anni 60 e 70 sono stati compiuti, ma che sono ben diversi da quelli che permeano il senso comune (e l'ideologia di destra).
CREMONA — L’estate della quercia. Sembra il titolo d’un romanzo di Arto Paasilinna. E forse ci vorrebbe la penna dello scrittore finlandese, per raccontare le cose da non credere capitate quest’estate, sotto la grande chioma di Mina, la Nonna Quercia di Castelvetro Piacentino.Era arrivata con un po’ d’anticipo, l’estate della quercia: il primo giugno. Quel giorno, sotto le fronde, spuntarono le prime tende. Ma per capire come e perché fossero spuntate, tocca tornare a inizio primavera. Fine marzo, da Centropadane arriva il progetto definitivo del raccordo autostradale tra Cavatigozzi (Cr) e Castelvetro. Mica un temporale improvviso. Di quel progetto e di un terzo ponte cremonese sul Po, si parlava da anni. Addirittura dal 1993.
Nel 2005, l’operazione Terzo Ponte era nero su bianco. Dodici chilometri d’asfalto, ponte di 200 metri e costo di 220 milioni di euro. Da allora, però, non se ne era parlato quasi più. Fino all’inverno di quest’anno. Fu allora che si cominciò a mormorare di quella quercia, piantata più di duecento anni prima, quando di qui non passavano Tir (quasi tremila al giorno, quelli che oggi ammorbano l’aria di Castelvetro, passando dal vecchio ponte in ferro per raggiungere l’area industriale di Cremona), ma carrozze e cavalli.
Dicevano ci fosse il rischio che la tagliassero, Nonna Quercia, per far spazio al nuovo raccordo a sei corsie. Il progetto definitivo, in verità, la risparmia. Ma l’ingabbia tra ferrovia e nuova autostrada. Per farla breve, e arrivare all’estate, Nonna Quercia si ritrova in trincea. A duecent’anni suonati, diventa la bandiera della guerra al Terzo Ponte. «A rischio c’è un intero territorio – spiega Carlo Baroncelli, che insegna Scienze della terra alla Cattolica di Brescia - Il ponte, per dire, poggerebbe sull’Isola del deserto, a due passi dall’Oasi di Spinadesco: due siti ambientali protetti dalla Ue».
Le tende sotto l’enorme chioma verde diventano un po’ come quegli operai che dormono sui tetti per salvare la fabbrica. Qui ci si dorme sotto per salvare la pianta. E, da quel primo di giugno, ci dormono in tanti. «In media, almeno una dozzina di persone a settimana» dice Simone Mazzata, alla testa del comitato Salviamo Nonna Quercia. I più si prenotano via Internet. Qualcuno fa un’improvvisata. Come quella coppia milanese in viaggio per le vacanze al Sud Italia, che la prima notte di ferie l’ha voluta passare sotto Mina. Una mamma cremonese s’è accampata col figlio di 4 anni: «Lui si chiama Olmo». Nomen omen, davvero. Che viavai, nell’estate della quercia. Ciclisti che se la sono fatta pedalando da Casalpusterlengo e un’agronoma-centaura modenese che va a zonzo in moto a caccia d’alberi monumentali. Giovani dei centri sociali e bimbi per la festa di compleanno.
Illustri sconosciuti e volti noti. Tessa Gelisio al battesimo delle tende. I messaggi di Licia Colò e Dj Linus. Julia Hill, la «ragazza della sequoia», che imbuca da Oltreoceano una lettera alla quercia. Un giorno capitano gli Inti Illimani (che di ribellione un poco se ne intendono), un altro i Modena City Ramblers. In queste sere, cinema sotto le ghiande. E, domani, burattini.L’estate della quercia è roba da far invidia a tante città qui attorno, appisolate nella calura della pianura. «A conti fatti, saranno passate quattromila persone» azzarda Mazzata. Il guaio è che l’estate sta finendo e quella di Nonna Quercia rischia di finir male.
Il 21 settembre (guarda il caso) è fissata la conferenza dei servizi per il via definitivo al raccordo. A meno di dietrofront clamorosi, con l’autunno non resterà che far valere i due ricorsi al Tar di Brescia, contro la Valutazione d’impatto ambientale. Intanto, quelli del comitato hanno messo online un sito con tutto quello che c’è sa sapere sul (o contro?) il terzo ponte: www.terzoponte
Era già emerso da un paio d’anni quanto larghe fossero diventate le maglie dell’ancora mitico sistema di decisione britannico per le trasformazioni urbane e territoriali: aree classificate ufficialmente come industriali o militari dismesse che si rivelavano di fatto parchi naturali, o progetti virtuosi di densificazione urbana trasformati in palestra per archistar con emarginazione sociale. Anche il più recente e ambizioso tentativo di Gordon Brown di rilanciare il settore edilizio e la connessa ricerca climatico-energetica con le cosiddette eco-town non aveva mancato di sollevare forti contrasti, al punto che ben prima della vittoria della coalizione Tories-Libdem gran parte dei progetti era stata accantonata, fra le rivendicazioni di coerenza scientifica della TCPA e l’esultanza a singhiozzo della CPRE.
Ma nonostante qualche promettente buona intenzione del programma dei Conservatori, così come esposto in campagna elettorale, pare che alla verifica pratica le prime scelte politiche in campo urbanistico del nuovo governo stiano per peggiorare i rischi di consumo di suolo e degrado ambientale. Non ultima quella di delegare le decisioni sulla realizzazione di nuove case (la situazione abitativa del paese è piuttosto grave) alle amministrazioni locali, saltando la programmazione di scala regionale accusata di burocratismo e centralismo. Come facilmente immaginabile, le scelte locali vengono determinate da contingenze e particolarismi che spesso nulla hanno a che fare con la risposta ai bisogni abitativi, e/o con la tutela del territorio, salvo in reazione ad atteggiamenti di tipo nimby e alla sola ricerca di consensi elettorali.
Da questa emergenza nasce l’iniziativa del quotidiano, di fungere da sistematico deposito-amplificatore a scala nazionale, e raccogliere dati che spesso sfuggono ai grandi enti e associazioni (oppure che da questi non sono sufficientemente divulgati). Il meccanismo è relativamente semplice: il singolo lettore, comitato o associazione locale compila un modulo online, e quasi automaticamente la scheda si aggiunge alla banca dati pubblica, in una sorta di rapporto territoriale in continua evoluzione consultabile da tutti, senza alcun filtro se non quello redazionale. Nessuna pretesa scientifica naturalmente, ma come verificato nel caso delle eco-town solo l’osservazione puntuale e locale dei contesti è in grado di cogliere l’entità dei fenomeni, e solo una panoramica comprensiva nazionale riesce a evidenziare l’entità del problema, e stimolare consapevolezza.
Il modulo da compilare online:
nome del progetto; menu a tendina con la scelta della regione geografica in cui si localizza (Scozia, Galles, Yorkshire ecc.); tipo di progetto che si vuole realizzare; descrizione particolareggiata con particolare riguardo ai valori naturali minacciati e al tipo di tutela e riconoscimento dell’area; cosa possono fare altri lettori per collaborare; localizzazione geografica esatta della località (latitudine, per aggiungersi alla mappa in costruzione sul sito); nome del proponente il progetto di trasformazione; nome dell’amministrazione locale responsabile per il rilascio della concessione; elementi utili a contattare il compilatore della scheda.
Un impegno bi-partisan
Significativamente, all’iniziativa del Guardian aderiscono sia la responsabile Conservatrice del ministero dell’Ambiente che il suo collega Labour del governo ombra. Altrettanto significativamente, per ora tacciono dal ministero delle Aree Urbane, da cui è partita l’iniziativa delle “decisioni locali” sulla trasformazione urbanistica. Per noi, resta da chiedersi se mai sarà possibile qualcosa del genere, in un territorio dove forse più che in Gran Bretagna colpisce l’erosione determinata da dispersione insediativa e infrastrutture utili solo a chi le fa. E dove sono sicuramente più significativi gli intrecci fra ambiente, paesaggio, sedimentazioni storiche.
Sul versante bi-partisan poi, tocca accontentarsi della comune cultura con pochissime eccezioni da destra al centro a sinistra, che vede sempre e comunque in ogni mucchio di mattoni un simbolo di ricchezza e modernità. Al punto che, rimanendo in campo ambientale, suscita compiaciuto stupore anche la pietà della pur antipaticissima ministra Vittoria Brambilla per i bistrattati i cavalli del Palio di Siena. Ma lì forse c’è solo un po’ di nostalgia per certi stallieri eroi.
Una cosa è certa: visto il tipo di proprietà delle nostre testate giornalistiche, è improbabile che un’iniziativa del genere prenda piede anche da noi, almeno col respiro proposto dal quotidiano britannico. Conviene quindi seguirne direttamente l’evoluzione al sito
Piece By Piece
(su Mall anche l’articolo di Julette Jowit che raccoglie alcuni pareri sull’iniziativa)
I colpi contro il popolo aquilano non vengono soltanto dalle cariche della polizia a Roma. La scorsa settimana anche il presidente della regione e il sindaco di L'Aquila, nei ruoli di commissario e vice della ricostruzione hanno infatti picchiato duro, istituendo una commissione di "saggi" per coordinare gli interventi di ricostruzione che è un altro duro colpo alla popolazione. In perfetta sintonia bipartisan i due hanno nominato un validissimo economista come Paolo Leon, ben due sociologi (Bonomi e De Rita), nessuno storico della città e del territorio e altri tre autorevoli personaggi di cui sarà bene parlare.
Il primo è Cesare Trevisani, ad di Trevi finanziaria industriale, presidente e ad della Petreven, ad di Trevi spa, vice presidente e ad di Soilmec; vice presidente e ad di Drillmec. Sfugge, al di là della potenza di fuoco delle cariche ricoperte, il motivo della nomina. Entra infatti come referente per le infrastrutture e a noi non resta che domandarci se non c'era di meglio sul mercato degli esperti: esistono infatti decine e decine di tecnici validissimi che da decenni operano nel settore dell'innovazione tecnologica. È invece noto che siamo il paese con la più spaventosa arretratezza nel campo del settore infrastrutturale e non ci vuole la zingara per attribuire anche alla potente Confindustria un grave ritardo culturale. E chi scelgono Chiodi e Cialente? Un esponente di spicco dell'associazione, essendo Trevisani il vice presidente delle infrastrutture di Confindustria.
Solo per stomaci forti consigliamo di ascoltare l'intervista rilasciata dal nostro alla televisione regionale abruzzese in cui si esercita nel mantra confindustriale: bisogna abbassare le tasse per le imprese, etc. Tutte cose sacrosante, intendiamoci, ma che poteva declamare nel suo ruolo di vicepresidente. Invece le dice in qualità di membro di una commissione che - immaginiamo - verrà remunerata con i nostri soldi. E non è che Confindustria non fosse già dentro la partita aquilana. Anzi. A capo della struttura tecnica di missione siede Gaetano Fontana, già direttore generale del Ministero dei lavori pubblici, passato poi a direttore generale dell'Ance, associazione dei costruttori nazionali e da lì all'incarico aquilano. La pubblica amministrazione è come una porta girevole, si entra e si esce con grande disinvoltura.
Ancora più sconcertanti, se possibile, le altre due nomine. La prima riguarda Alvaro Siza, grande architetto di fama internazionale. Ma con le archistar non si ricostruiscono i centri storici ed è questa la vera urgenza aquilana. L'ennesimo grande nome chiamato soltanto per fare moina. Infine è stato nominato, Vittorio Magnano Lampugnani, anch'egli valente architetto. Grandi nomi dell'urbanistica non sono stati invece presi in considerazione. Pierluigi Cervellati, ad esempio, rese famosa l'Italia per le politiche di riabilitazione del contro storico di Bologna. Dal canto suo, Vezio De Lucia diresse la ricostruzione del centro storico di Napoli dopo il terremoto del 1980. Due urbanisti evidentemente sgraditi al circolo del pensiero unico.
Oppure si potevano chiamare i tecnici del comune di Foligno, dove a seguito del terremoto del 1997 è stato portato a termine un esemplare processo di ricostruzione senza clamori e senza grandi nomi. In questo caso, dava forse fastidio il rigore con cui si è ricostruito il volto di una città più piccola e con meno danni de L'Aquila. Oggi, infatti, si sentono affermazioni che non possono non preoccupare. Il Centro del 27 luglio riporta la seguente frase attribuita a Lampugnani: «Non si può pensare di ricostruire tutto com'era, ma occorre salvaguardare le grandi opere e i monumenti artistici presenti in città e in tutti i borghi del territorio». Forse gli aquilani che amano la loro città nella sua inscindibile unitarietà non saranno affatto d'accordo. Il dramma è che la politica bipartisan chiude ogni spazio di reale confronto. La ricostruzione è un fatto di pochi. Gli abitanti devono solo ubbidire a simili "saggi".
Quello di ieri è l'ennesimo incidente disastroso che accade sul sistema infrastrutturale di un Paese il cui governo sembra avere come unica idea quella degli appalti delle Grandi opere e delle Tav. Mentre, infatti, si investe, si discute e ci si accapiglia solo per l'alta velocità, già costata più del triplo del preventivato, si taglia tutto il resto.
Gli interessi che ruotano attorno ad alta velocità e Grandi opere costringono il Paese ad arretrare culturalmente, ecologicamente, programmaticamente e tecnologicamente. Tra l'altro in controtendenza rispetto a tutto l'occidente - e contro ogni logica - si tradiscono sistematicamente i protocolli di sostenibilità siglati con la Ue e l'Unep e, come negli Stati Uniti degli anni '50, si promuovono politiche di incremento del traffico su gomma, sia passeggeri - visti gli aumenti di tariffe sui tratti monopolizzati dai treni ad alta velocità - che merci, per la caduta di investimenti, i tagli e la riduzione di capacità. A tal proposito FerCargo denuncia come il trasporto merci su ferro si sia quasi dimezzato nell'ultimo decennio; soprattutto a causa delle politiche ferroviarie "post-spezzatino" e della gestione Rfi dell'infrastruttura, attenta solo agli spazi Tav e sempre più chiusa all'esigenze del trasporto merci,per cui si chiudono scali e si aumentano tariffe e vincoli.
Nell'Italia ad alta velocità si taglia anche il trasporto locale, per cui diminuiscono fino a sparire spese di gestione e manutenzione (vedi la tragedia odierna). Laddove i sistemi locali e metropolitani su ferro sarebbero essenziali, e non solo nelle grandi città del centro-nord. Invece al sud, dietro l'agitarsi della figurina (anzi della Grande figura) del Ponte sullo Stretto, si negano - fino ad azzerarli - i collegamenti: a parte il calo di investimenti nell'area napoletana (si consolino con l'alta Velocità Napoli-Bari), si registra il taglio dei treni a lunga percorrenza verso Calabria e Sicilia. Le due regioni sono perennemente allietate dalle chiacchiere sul ponte, ma nei relativi territori nel prossimo triennio si prevede di ridurre ulteriormente i trasporti, specie ferroviari, interregionali e interurbani.
Nello stesso Stretto di Messina si inaugura una "metropolitana del mare" sostanzialmente fasulla: è il vecchio servizio di aliscafi lievemente riadattato, ovviamente e prezzi e tariffe molto più cari. Ancora: si prevede di tagliare definitivamente l'attraversamento dello Stretto in treno nel 2012, con relativa chiusura del servizio di traghettamento. Anche i soldi (veri) per il trasporto metropolitano di Catania e Palermo sono stati scambiati con i fondi (falsi, solo annunciati ripetutamente) per il Ponte; insieme a molte altre risorse per infrastrutture ed attrezzature, anche di difesa e consolidamento territoriale.
Catastrofi come quella di ieri non sorprendano quindi, in quanto costituiscono l'ovvio risvolto delle incapaci e insipienti azioni governative. Si dovrebbe avere almeno la decenza e il buon gusto di evitare espressioni di rammarico e inchieste ministeriali per quelli che sono gli ovvi risultati delle politiche attuate.
Treni merci addio. L’Italia si avvia a conquistare anche il record di primo paese d’Europa senza un servizio cargo pubblico su rotaia. Il traguardo non è lontano e le Ferrovie fanno di tutto per raggiungerlo il più in fretta possibile. I dati forniti al Fatto dagli operatori del settore sono molto negativi. Secondo Giacomo Di Patrizi, presidente di FerCargo, l’associazione delle imprese del trasporto merci, dal 2006 al 2010 il traffico è sceso da 68 milioni di treni al chilometro a 42 milioni. Nel 2009 il calo è stato superiore al 30 per cento e quest’anno è previsto un altro arretramento dell’8. La quota di traffico su ferro è ormai appena il 6 per cento del totale delle merci trasportate, la metà della media europea. Su questa Waterloo dei binari pesa ovviamente la crisi economica, ma l’arretramento è ormai strutturale, frutto soprattutto di una scelta deliberata dalle Fs assecondata, di fatto, dal governo. Sono anni, per la verità, che la divisione merci Fs zoppica vistosamente, ma il fenomeno ha avuto un’accelerazione negli ultimi tempi ed è andata del tutto delusa la speranza che l’arrivo di un “ferroviere” alla guida dell’azienda dei treni, un tecnico come Mauro Moretti, potesse invertire la tendenza e riportare gradualmente anche il cargo italiano verso livelli europei. Alla fine del primo mandato e all’inizio del secondo, il bilancio dell’era Moretti per le merci è in netto passivo. Il nuovo amministratore tratta il settore come una cenerentola, peggio, come una zavorra di cui liberarsi perché non fa utili, proprio come il trasporto pendolari e quello passeggeri sulle lunghe percorrenze. Per Moretti, e per il governo che gli lascia mano libera, solo i treni redditizi, i Freccia Rossa , Argento e similari, sono meritevoli di attenzione. Con buona pace della natura pubblica delle Fs, azienda di proprietà del ministero dell’Economia, tenuta all’erogazione di un servizio universale per i cittadini e le merci.
IN CONTROTENDENZA
Sintetizza il presidente FerCargo: “Ci stiamo avviando verso l’estinzione del trasporto merci su ferro; il governo consente al gestore dell’infrastruttura, la società Rfi delle Ferrovie, di ridurre il numero di scali disponibili e di porre maggiori vincoli e pretendere prezzi più alti per l’accesso a quelli rimasti disponibili”. Durissima anche Assoferr, l’associazione degli operatori ferroviari intermodali: “Le Fs pensano solo all’Alta velocità passeggeri che sta progressivamente distruggendo il sistema ferroviario merci italiano sia convenzionale sia intermodale”. Per Giovanni Luciano, segretario trasporti Cisl, “il trasporto merci è dimenticato proprio nel momento in cui in Europa tutti puntano sui trasporti puliti”. Moretti finora ha affrontato il tema con una logica più da contabile che capo azienda. Invece di riorganizzare il servizio per renderlo più efficiente e conveniente, si è concentrato sul contenimento delle perdite, obiettivo senz’altro lodevole, ma strategicamente asfittico. Rispetto a un rosso di 300 milioni e passa di euro all’anno, ora la divisione merci Fs viaggia sui 200. Ma dal punto di vista dell’economia dei trasporti non è un gran risultato, perché sull’altro piatto della bilancia ci sono migliaia di imprese costrette a trasferire le merci dai treni alla strada con costi maggiori.
IL MOMENTO DEI TIR
Da aprile a queste aziende le Fs negano la possibilità di spedire singoli carri costringendole ad organizzare un treno completo. Ovvio che soprattutto le medie e piccole abbiano rinunciato ai binari e obtorto collo si siano rivolte ai padroncini dei camion e dei tir. Ancora nessuno sa quanto costerà al sistema Paese questo spostamento forzoso anche in termini di sicurezza sulle strade. Di certo, però, il costo economico complessivo sarà di gran lunga superiore dei 100 milioni di euro di minori perdite incamerati dalle Fs. E mentre le Ferrovie si ritirano dal mercato italiano, comprese le aree ricche del Nord, al loro posto si fanno avanti i colossi europei che fiutano l’affare, da Deutsche Bahnhof, le ferrovie tedesche, a Sncf, i francesi, alle ferrovie svizzere. Nel Centro e nel Sud, inoltre, è tutto un proliferare di nuove società cargo private, almeno una decina, impegnate a occupare il vuoto lasciato dall’azienda di Moretti.
L’impostazione del capo Fs, però, piace all’azionista unico, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che infatti tace e quindi acconsente. Il governo fa anche di peggio: non solo si rende complice della ritirata dai binari, ma favorisce in tutti i modi i padroncini dei camion. Molto più di altri esecutivi del passato, il governo Berlusconi ha scelto la strategia della gomma foraggiandola con la bellezza di circa un miliardo di euro di incentivi all’anno. A cui di recente ha aggiunto un altro regalo, infilato quasi di soppiatto nel decreto per la privatizzazione della compagnia di navigazione Tirrenia.
TARIFFE MINIME
Il dono si chiama “provvedimento sulle tariffe minime” e permette alle società di trasporto e ai camionisti di fissare un prezzo al di sotto del quale non è consentito scendere. In pratica è un assist alle intese di cartello, contro gli interessi di chi spedisce le merci. Il giorno prima dell’approvazione il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, di solito prudente e misurato, è arrivato addirittura ad invitare i parlamentari a non votare a favore del testo preparato dal governo. E anche Confindustria ha criticato la scelta, mentre il senatore Luigi Zanda (Pd) se l’è presa con il malcostume di mimetizzare provvedimenti importanti come questo all’interno di altri testi.
Il sottosegretario alle Infrastrutture, Bartolomeo Giachino, ha sostenuto la scelta pro-padroncini con un’argomentazione da antologia: “L’Italia è un paese in cui l’autotrasporto dispone di un potere e di armi che nessun altro ha nell’economia”. Come i camionisti ai tempi del colpo di Stato di Pinochet in Cile, insomma. Siccome gli autotrasportatori dell’Unatras stavano minacciando il blocco dei Tir ad agosto, con una botta di coraggio decisioni-sta il governo ha deciso di affrontarli cedendo. Li ha accontentati in pieno, fornendo loro, oltretutto, altre munizioni per presentarsi più forti al prossimo scontro e al prossimo inevitabile ricatto.
Camminare in silenzio per le strade de L’Aquila, quasi 200 persone venute da fuori, un soldato, due vigili urbani che ogni tanto si dispongono come per tenerti lontano dal rischio di un crollo, e il sindaco, davanti. Indica ma non deve spiegare. Camminare indossando il casco bianco con la scritta “visitatore”, che identifica il nuovo venuto. Ci sono caschi gialli qua e là, una decina. Ogni tanto qualcuno di loro si affianca, indica la porta socchiusa ma intatta di una casa colma di macerie (calcinacci, coperte, indumenti, pezzi di mobili, resti di un bagno, compatti come in una scultura sperimentale) e sottovoce ti dice: questa è casa mia. Lo dice al presente. I cani, all'inizio, ci stavano accanto, ai due lati. Hanno il collare sporco, incollato al pelo, il collare di cani che avevano una casa e un padrone. Adesso sono randagi. Conoscono i luoghi e gli odori, perciò sono miti e stanno il più vicino possibile agli esseri umani.
Ma riconosci i randagi perché non chiedono, non stabiliscono alcun rapporto, si muovono a testa bassa e guardano, cauti, da sotto. Le strade de L’Aquila sono trincee che si fanno più strette. E da quelle trincee si diramano vicoli invalicabili. Vedi i resti di facciate bellissime, ma spaccate nei punti in cui si forma il sostegno dell’edificio. A mano a mano che i passaggi si fanno arrischiati, i cani si premono contro gli umani per non perdere il contatto, però non mendicano. Sanno con sicurezza che questo è un disastro e guardano in basso. C'è uno scambio di poche frasi, quasi senza voce nel corteo di caschi bianchi (“visitatore”) che va avanti fra le macerie. Nessuno dei visitatori si aspettava una distruzione così vasta e così intatta. Pietre levigate dai secoli, di un colore quasi rosa, cadute dall’alto, sono state accostate con ordine ai lati dei sentieri di polvere come tante nature morte.
Distese intatte di distruzione
Lo ha fatto il popolo della carriole, cittadini che prima sono stati cacciati come intrusi o ladri di tombe, e poi hanno sfondato e hanno vinto. Contro chi? Contro soldati, polizia, Protezione civile, che pure erano qui per prestare aiuto. Continui a camminare in un paesaggio di pietre che non finisce. Per un momento resti indietro, da solo, e ti rendi conto del silenzio. I silenzio de L’Aquila lo senti all’improvviso. È un silenzio vuoto, fermo, che riguarda lo spazio e il tempo. Un silenzio che non conoscevo.
Ti guardi intorno. Vedi la distesa intatta di distruzione. Ti rendi conto che, per uno strano effetto della pioggia, del sole, dell’aria, il paesaggio di macerie si indurisce, si radica nella terra, si trasforma in un “per sempre” come Pompei o Ercolano. In questa visita inaspettata, gli abitanti espropriati dalla violenza fisica del terremoto, prima storditi, poi abbandonati, si muovono come le sole guide autorizzate delle macerie. Contro ciò che ti hanno fatto credere giornali e telegiornali, le macerie sono tutto, la distruzione ha una forza che non è stata toccata. Meno che mai dai nuovi villaggi, dalle nuove casette dotate di Tv ma prive di ogni struttura sociale (ambulatorio, scuola, farmacia, bar). Sono altrove, sono raggiungibili – anziani o no –solo con mezzi propri. Le macerie sono L’Aquila. L’Aquila è solo macerie.
Sulle macerie adesso arrivano le cartelle delle tasse. E i mutui delle macerie sono tornate a scadenza. Sono tornati anche i cittadini che erano stati sistemati negli alberghi della costa a spese dello Stato. Ora c’è la crisi, basta spese, basta albergo. Le case dei nuovi villaggi ormai sono occupate, dopo la consegna con cerimonia. D'ora in poi non si dice più “protezione civile”. Si dice destino. Chi ha avuto ha avuto.
Il silenzio, qui, è come l’acqua di una inondazione: si espande, penetra, occupa tutto il tempo e tutto lo spazio che vedi intorno, bellissimo dopo la pioggia. Per questo all’improvviso, con passione e furore, la gente grida. Lo fa nel tendone che è l’unico luogo di incontro, l’unico spazio di assemblea pubblica, fra l’accampamento dei vigili del fuoco e l’unico bar aperto.
Un anno e tre mesi di eventi falsati
Chi grida? I cittadini, decisi a rompere il silenzio, decisi ad occuparlo, decisi a far tornare la vita lungo le trincee e i vicoli bloccati della natura morta che continua a restare L'Aquila. Ma stanno gridando anche contro l'altro silenzio, quello che – con bravura – è stato imposto a tutto il Paese facendo credere (con tutta la forza del conflitto di interessi, capace di bloccare tutte le fonti di notizie vere): “L’Aquila? Problema risolto. Niente da denunciare, se mai si deve celebrare l’intervento veloce e ringraziare il governo”. A chi gridavano l’altro giorno (27 luglio) i cittadini de L’Aquila sotto il tendone, nel mezzo della loro piazza vuota? Gridavano la storia incredibile di questa città dal terremoto in avanti, un anno e 3 mesi di eventi tragici e falsati. Li gridavano a 140 deputati del Pd, che avevano deciso di venire a L'Aquila per lavori interrotti in Parlamento a causa del voto di fiducia imposto dal governo sulla legge Finanziaria. Ho detto “gridavano” perché le voci erano alte. Ma erano limpide e logiche. Raccontavano con passione a chi ascoltava, i deputati del Pd.
Abitanti declassati ad audience
È una bella scossa, per gente eletta con un progetto politico, l’incontro con un’assemblea di persone vere che hanno le facce della realtà e rendono conto di ciò che non è stato mai fatto, di ciò non è stato mai detto. Soprattutto la morsa del silenzio, dell'abbandono, della Protezione civile che è diventata guardia civile, un organo separato che fa, bene o male, ma per conto suo, con i suoi editti, i suoi divieti, le sue regole mai spiegate, sempre imposte, tutto con il sigillo non discutibile, non partecipabile, dell’emergenza. Dentro il recinto invalicabile, le macerie da non toccare, la pianificazione arbitraria, la costruzione altrove, frutto di un progetto mai discusso: i cittadini fuori, resi passivi e in attesa, che possono ricevere “regali” (così dice il benefattore), ma non possono avere diritti. E fuori gli abitanti senza casa, declassati ad audience per un enorme spettacolo, che a momenti diventa una specie di Expo mondiale, con Obama e George Clooney.
Sulla natura morta de L’Aquila viene gettato il mega-show del G8 in cui tutto è immenso, pesante, ingombrante, costoso. E non riguarda gli aquilani. Riguarda il benefattore-costruttore-presidente Silvio Berlusconi. Berlusconi ha acceso tutte le luci, occupato tutto lo spazio, ha riservato ogni ruolo per sé, dalla vittima al santo, dal governante al salvatore, dallo statista al piazzista che offre – chiavi in mano – le abitazioni modello ai senza casa secondo una lista arbitraria. Lo scorta, nella nuova veste di polizia edilizia e mediatica, il suo alter ego della Protezione civile, Bertolaso, che apre strade e chiude strade, nega e concede secondo una sua classifica di ruoli da esibire nell’evento spettacolo. Tutto ciò gli aquilani della tenda in piazza hanno raccontato agli insoliti visitatori (uno solo, Giovanni Lolli, il loro deputato che non si è allontanato di un passo, che è stato il legame e il tramite contro il rifiuto giustamente sdegnato di questa gente per la politica) non come lamento, ma come prova dell’identità riconquistata, strappata a quel grande imitatore di se stesso che Sabina Guzzanti ci ha fatto vedere nel suo film.
Qualcosa è accaduto in quella tenda
E devi per forza incontrare il sindaco Cialente. È solo il sindaco di una città, e persino di un municipio, che non ci sono più. Ma non ha mai ceduto il ruolo né a Bertolaso, né a Berlusconi. Qualcosa è accaduto nella gita a L’Aquila. Lo si è capito dal parlare irruente, per una volta appassionato di Bersani in quella tenda. È stato lo choc di incontrare veri cittadini con un vero linguaggio e veri, tremendi problemi sul luogo del disastro, invece di trattare in lingua politica con altri politici. È stata una respirazione bocca a bocca che ha fatto risvegliare e sussultare la parte presente del Pd. Il beneficio che i deputati ne hanno tratto è molto più grande del più volenteroso contributo di presenza e partecipazione che hanno voluto dare, con una decisione insolita e fortunata. Lo prova la reazione immediata e persino affannata di Berlusconi. La sera del 29 luglio ha annunciato: “Io torno a L’Aquila, torno con Bertolaso”. Quando avrà notizie più precise non credo che lo farà.
Guardando la facciata della Basilica di Santa Maria di Collemaggio simbolo della città dell'Aquila, leggermente nascosto alla sua sinistra, sorge il complesso dell'omonimo ex ospedale psichiatrico costruito tra il 1902 e il 1915. Una vera e propria piccola città sufficiente a sé stessa, uguale concettualmente agli altri manicomi costruiti in Italia in quell'epoca. Un patrimonio storico, architettonico e culturale diventato di inestimabile valore per una città d'arte ferita così profondamente dal sisma del 6 aprile e diventato insostituibile per tutte quelle associazioni cittadine che vi hanno trovato ospitalità. Un tesoro, di proprietà della Asl, che gli aquilani non vogliono perdere e su cui invece incombe un triste disegno: svenderlo con la scusa di tappare una piccola parte del buco della sanità abruzzese.
Il Colle del Maggio
Lo storico aquilano Raffaele Colapietra (comparso in numerosi film e documentari post-terremoo, compreso Draquila di Sabina Guzzanti) scrive: «...il primo Aprile 1932, a cinque mesi, come mio più degno e conveniente soggiorno, fui condotto al manicomio, a Collemaggio dove mio padre era stato chiamato a dirigere un reparto. Ero l'unico bambino in un mondo di adulti, di pazzi e di vecchi, un bambino che andava girando col suo triciclo in mezzo alle ranocchie ed alle papere in una sorta di bonaria e affollata fattoria dove arrivava l'odore acre del fieno della colonia agricola e la fragranza del pane appena sfornato...in quello che era allora un autentico villaggio di un migliaio di abitanti». Entrandoci ora - in quest'area che si estende per 150mila metri quadri, proprietà dell'Asl - pare che il tempo si sia fermato ai tempi che Colapietra descrive. Difficile non rimanere affascinati dallo stile delle maestose palazzine di inizio secolo, un tempo padiglioni della sofferenza, disposti su due lati per dividere la parte maschile da quella femminile. Un tesoro storico e architettonico immerso in una natura rigogliosa: tra gli enormi alberi presenti, dalla quercia al cedro del libano e dell' himalaya, all'ippocastano, all'abate rosso e bianco, al tiglio, vivono numerose specie di uccelli come l'allocco, la civetta, il picchio muratore e il picchio rosso e altri animali tra cui scoiattoli e ricci.
Quest'area di incantevole bellezza - che ha smesso di essere manicomio recependo la legge Basaglia nel 1991 - è diventata dopo il terremoto, grazie al lavoro delle associazioni che hanno trovato un posto al suo interno, uno spazio pubblico aperto a tutti, tra i pochi spazi di socialità rimasti oltre ai centri commerciali, fondamentale per il confronto di idee e progetti, motore propulsore per la partecipazione dei cittadini alla ricostruzione della città e dei villaggi del cratere sismico. Uno spazio pubblico necessario per dare una speranza al futuro. E a testimoniarlo sono i tanti giovani che da due giorni lo animano arrivando con tende e sacchi a pelo da tutta Italia per prendere parte al campeggio sul tema della giustizia ambientale e sociale organizzato dal centro sociale «CaseMatte». Uno spazio, però, dove nonostante tutto questo pende ancora la spada di damocle di una possibile vendita.
L'Aquila svendesi
Ad oggi quasi tutti i padiglioni presenti - inagibili dopo il 6 Aprile - sono rimasti in stato di abbandono e incuria come del resto alcuni di loro versavano già da prima. Questo nonostante l'assicurazione stipulata dalla Asl in caso di sisma, abbia fatto incassare all'azienda poco meno di 50 milioni di euro lasciando sperare a un pronto recupero dell'area anche in funzione strategica. Invece l'area dopo il terremoto viene inizialmente ignorata. A novembre si saprà che durante i mesi estivi erano altre le intenzioni e le trattative in corso. Invece di restaurare il patrimonio di Collemaggio con un intervento relativamente economico, si stava pensando ad una nuova sede per gli uffici amministrativi della Asl dell'Aquila con un appalto (mai partito) di 15milioni di euro per la cui assegnazione risultano indagati per corruzione vari imprenditori tra cui un ex assessore regionale. A settembre, piuttosto che recuperare gli edifici danneggiati, si decide allora di invadere l'area di container per dare un tetto transitorio, oltre che agli amministrativi, anche ad altre strutture già presenti nel complesso di Collemaggio prima del sisma, come l'unità territoriale dei medici di famiglia, diventati molto importanti dopo il terremoto, e il Centro di salute mentale.
Contemporaneamente, sbarca nell'area il comitato «3e32» che, nato subito dopo il sisma, in cinque mesi è diventato uno dei punti di riferimento più importanti per i giovani della città. E dà vita all'occupazione di «CaseMatte» recuperando l'ex-bar del manicomio lasciato all'abbandono da anni. Da fine agosto intanto hanno già ricominciato a vivere nell'area, ospitati in container abitativi donati dalla Protezione Civile del Trentino, più di una ventina di pazienti del centro di salute mentale fino ad allora rimasti nelle tendopoli.
Nel frattempo, con lo spoil system, la direzione dell'Asl è passata da Roberto Marzetti a Giancarlo Silveri il quale viene nominato col compito di riassorbire il buco che la Asl Abruzzo ha accumulato negli anni. L'area di Collemaggio viene dichiarata alienabile tramite cartolarizzazione per risanare il debito della sanità locale nonostante i ricavati della vendita di quel luogo siano vincolati per legge alla salute mentale. E nonostante altri progetti in tale ambito siano già stati approvati e finanziati. Come nel caso del progetto nominato «Ambiente, arte e salute» per il quale la regione stanziò nel 2006 (allora governata dal centrosinistra) circa tre milioni di euro, progetto che prevedeva un'integrazione multidisciplinare rivolta alla salute intesa come stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solo come assenza si malattia o infermità. O nel caso del progetto dell' «Albergo in via dei matti» che prevede la ristrutturazione del padiglione Villa Edoarda con finanziamento Cipe del 2005, per il quale al 6 Aprile 2009 risultava già affidato l'appalto per i lavori e che ciò nonostante non viene fatto avanzare.
Un attacco politico
I ragazzi di 3e32 che intanto svolgono un'intensa attività sociale, culturale e politica vengono sostanzialmente ignorati e delegittimati anche quando sulla scrivania del manager arriva un progetto, già firmato da altri responsabili Asl, per due borse lavoro già assegnate dalla fondazione Basaglia ai pazienti del centro di salute mentale tramite l'unico soggetto capace di gestire attività lavorative nella zona, e cioè il comitato «3e32». Niente da fare. Il manager preferisce negare lavoro a due persone pur di non riconoscere il «3e32».
Si arriva così allo scorso Maggio quando il popolo delle carriole sbarca nell'ex manicomio entrando in un locale chiuso e agibile e mostrando come non vengano utilizzati preziosi stabili senza neanche una crepa e vengano lasciati abbandonati, ancora stoccati, diversi materiali sanitari. Il manager Silveri va su tutte le furie annunciando lo sgombero di «CaseMatte» e asserendo che il debito della sanità nel frattempo è stato sanato e che gli unici acquirenti di una possibile vendita sarebbero il Comune o l'Università. Ma mentre nessuna trattativa di vendita è ancora decollata, la scorsa settimana la direzione ha deciso che il Distretto sanitario di L'Aquila, da sempre collocato a Collemaggio debba essere spostato a Paganica, in un nuovo edificio di 700 metri quadrati i cui lavori prevedono un costo complessivo di 1 milione e 400 mila euro. Decisione presa senza coinvolgere la cittadinanza, senza sentire il parere degli utenti, delle associazioni, degli operatori sanitari e sociali, e di nuovo con un grande spreco di denaro pubblico. Ancora, dopo il terremoto, si ha la sensazione che invece di riparare con poche spese ciò che c'era, si preferisce costruire ex novo per favorire chissà quali interessi.
Resistere, resistere, resistere
Per questo il prossimo 4 Agosto presso il tendone dell'assemblea cittadina di piazza Duomo, a L'Aquila è previsto un incontro chiarificatore tra vertici della Asl, istituzioni, comitati, associazioni e cittadini per tentare di fare un po' di chiarezza - forse per l'ultima volta possibile - sul futuro dell'area di Collemaggio. In un documento scritto a tre mani dall'«Associazione 180 amici», il «3e32» e l'«unità territoriale di assistenza primaria medici di base», tutti soggetti che operano nell'area, si legge che l'ex Op «per la sua centralità, il suo valore storico e simbolico, può, se riqualificato, diventare il luogo perfetto per quella salute di comunità necessaria e non opzionale, di una città distrutta nel suo nucleo più profondo, ospitando i Servizi Socio-Sanitari, il Centro di Salute Mentale, il Centro Diurno Psichiatrico, uno Studentato Universitario "Albergo degli studenti"con attività produttive a ricaduta sociale, un Campus Universitario, un Centro per il Sociale e la partecipazione, una Biblioteca Comunale, Laboratori Artigianali-Artistici, il Museo della Mente e del Ricordo, la Scuola di Restauro, l'Istituto Cinematografico ed uffici amministrativi vari». Ma se la dirigenza dell'Asl finora non ha fatto ancora chiarezza sulle sue intenzione, la popolazione sembra d'accordo: Collemaggio deve rimanere ai cittadini e continuare ad essere il cuore pulsante di una città che mai come ora ha bisogno di benessere (basti pensare che dopo il sisma l'uso di psicofarmaci è aumentato del 40%). Il cuore dell'Aquila, città che forse è ancora in coma, ma che non vuole morire.
Quattro milioni di abitazioni, 3 miliardi di metri cubi di cemento, 21 mila 500 chilometri quadrati di suolo consumato. Sono i numeri dell'aggressione all'ambiente e al paesaggio italiano realizzata negli ultimi quindici anni, dal 1995 al 2009, documentata dal dossier di Legambiente “Un'altra casa?”, presentato a Roma giovedi 15 luglio nella sede del Senato di Palazzo Bologna.
Un lavoro di grande spessore informativo che oltre ad utilizzare dati Arpa, Ispra e Istat si avvale di quelli raccolti dalle Regioni, rielaborati attraverso l'attività condotta dal Centro per le Ricerche sul Consumo di Suolo. Il risultato è un importante contributo alla conoscenza dei processi di trasformazione del territorio nazionale e dei problemi generati da un incontrollato e inarrestato sviluppo urbano ed edilizio.
Una dinamica quest'ultima per un verso assecondata da una politica di esasperata deregulation - la misura più recente è la Scia (segnalazione certificata di inizio attività) - che ha abbassato controlli, abolito programmazione e consentito uno sfrenato abusivismo; per l'altro sostenuta da una forte speculazione in grado di determinare un'impennata del valore degli immobili e dei canoni di affitto.
A tale riguardo, nelle principali aree urbane e nei Comuni limitrofi, secondo Legambiente, si è continuato ad edificare in un quadro di rialzo dei prezzi che “prescinde totalmente dai costi di costruzione (nell'ordine di 4 a 1)”. Per Giovanni Caudo, docente all'Università di Roma TRE e uno tra i relatori del convegno, in questi anni le case sono “diventate di carta”, attratte nell'orbita del mercato finanziario per alimentare più la redditività delle imprese che non i bisogni effettivi delle famiglie.
Investire sul mattone è stato infatti vantaggioso per le aziende ma non per una parte importante della cittadinanza come giovani, immigrati, lavoratori precari e anziani, obbligati a pagare affitti più cari o a sobbarcarsi, a fronte di un reddito familiare in continua diminuzione, il peso di un mutuo per una casa acquistata sempre più fuori dal perimetro cittadino. D'altro canto, il boom delle costruzioni che ha contrassegnato il periodo passato ha visto paradossalmente emergere il fenomeno dell'aumento di case vuote nella città, stimate ad un milione, e il concomitante riaffacciarsi del disagio abitativo, testimoniato da un preoccupante incremento degli sfratti per morosità (110 mila in due anni, dal 2008 al 2009).
Un “disaccoppiamento tra il costruire e l'abitare” dunque, come lo definisce Vittorio Cogliati Dezza Presidente di Legambiente, che rende evidenti le contraddizioni del modello di cementificazione, giunto ormai alla fine di un ciclo espansivo. Mentre crollano le compravendite, chiudono le imprese (15 mila), cala l'occupazione del settore (200 mila senza lavoro), cresce l'invenduto si mostrano in modo palese i limiti e gli effetti deleteri di uno sviluppo centrato sul mattone che ha deteriorato la qualità della vita delle persone e accresciuto i rischi sul piano della sicurezza idrogeologica e sismica. Periferie urbane allargate in maniera disordinata senza servizi e trasporti, dispersione insediativa con edilizia di basso livello, proliferazione delle seconde case nelle zone costiere rappresentano i capitoli fondamentali dello scempio perpetrato ai danni dell'ambiente del Belpaese che non risparmia nessuna regione, dal Veneto alla Sardegna, assumendo forme fra le più disparate e innovative.
Stadi, centri termali, gran premi, sono, secondo Andrea Garibaldi, coautore del libro “La colata”, chiamato ad intervenire nell'incontro romano, i nuovi cavalli di Troia della cementificazione selvaggia e moderna, autorizzata da molti Comuni in cambio degli oneri di urbanizzazione.;Davanti a questa arrendevolezza del potere locale nei confronti del partito del mattone, sostiene Legambiente, va richiamata la funzione di indirizzo dell'autorità centrale su temi come governo del territorio, tutela dell'ambiente e del paesaggio, diritto alla casa e accesso ai servizi essenziali.
Diverse le proposte avanzate dall'associazione ecologista per cercare di frenare la deriva e mutare il corso degli avvenimenti. Prima fra tutte la creazione di un Ministero unico che si occupi nell'insieme della questione urbana e abitativa come succede in Europa, negli Stati Uniti, Russia, Cina e India. Poi, come in Germania, per fermare il consumo di suolo, è necessario stabilire “un numero massimo di ettari di territorio trasformabile ogni anno per usi urbani”. Infine, fare case efficienti ed innovative energeticamente, per chi ne ha realmente bisogno e a prezzi accessibili, anche rilanciando l'offerta di edilizia residenziale pubblica. “Si può uscire dalla crisi solo cambiando modo di vedere”, riassume Edoardo Zanchini, responsabile urbanistica Legambiente.