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Il Pdl apre un nuovo fronte nei confronti del governo Monti. Con un blitz in Commissione Ambiente del Senato, il Popolo della libertà ha imposto all'ordine dei lavori la discussione di tre disegni di legge che hanno mirano a riaprire i termini dell'ultimo condono edilizio del 2003.

Primi firmatari dei provvedimenti sono due senatori campani del partito, Carlo Sarro e Gennaro Coronella, e il Commissario regionale, Nitto Palma, ex ministro della Giustizia. La tentazione di riaprire i termini del condono per cercare di fermare le ruspe nella regione italiana probabilmente più devastata dall'abusivismo edilizio non è nuova. Già nel febbraio scorso il Pdl (con il sostegno di Fli) aveva cercato di infilare una simile norma "ad regionem" (sarebbe valsa per la sola Campania) all'interno del decreto "milleprororoghe", ma il tentativo era naufragato 1 grazie all'opposizione di Pd, Idv e Lega.

Questa volta l'escamotage usato sarebbe la necessità di "riparare" il danno subìto dai cittadini campani, in relazione alla decisione della Corte Costituzionale che nel 2006 ha censurato una legge varata dalla Regione Campania per differire i termini di sanatoria legati all'ultimo condono. Ma proprio in quanto la Consulta ha respinto la possibilità di un "condono regionale", in caso di approvazione le proposte avanzate oggi in Commissione Ambiente del Senato porterebbero al varo di un quarto condono edilizio nazionale, valido anche per le edificazioni abusive avvenute nelle aree vincolate. "Il procedimento di demolizione - si legge ad esempio in uno dei ddl - è comunque differito anche nel caso in cui sia stata accertata la violazione di vincoli paesaggistici, salvo che sia stato concluso il procedimento di adozione del nuovo piano paesaggistico".

Per Roberto Della Seta, capogruppo del Pd in Commissione Ambiente, "è quasi surreale che in un paese come il nostro, assediato da condizioni diffuse di dissesto idrogeologico e abusivismo, specie al Sud, una grande forza politica come il Pdl tenti di riproporre lo strumento del condono, che nella storia recente dell’Italia ha più volte mostrato il suo effetto principale, cioè di alimentare ulteriormente la spirale delle costruzioni illegali e del business delle ecomafie. Gli abusi edilizi vanno perseguiti e demoliti, specie se come in Campania e in gran parte del meridione riguardano aree pregiate e vincolate".

Le possibilità che l'iniziativa lanciata oggi a sorpresa a Palazzo Madama sembrano essere ben poche e il Pd già annuncia battaglia. Ma oltre a un problema ambientale, di legalità e di sicurezza del territorio, la sortita dei senatori campani del Pdl apre come detto anche una questione prettamente politica nei rapporti tra il primo partito di maggioranza e il governo. Contenzioso che si va ad aggiungere ad un lungo elenco di temi motivo di conflitto, dalla giustizia alla riforma del lavoro. "Mai più condoni edilizi, spero di inserire in norma un divieto assoluto", era stata infatti una dei primi impegni assunti dal ministro dell'Ambiente Corrado Clini pochi giorni dopo il suo insediamento.

MILANO — È dall'alto, con le fotografie aeree, che si vede l'avanzata del cemento e dell'asfalto, della mano dell'uomo che cancella prati, coltivazioni e boschi, con una media quotidiana di 13 ettari, pari a venti campi di calcio. Ma è dal basso che deve arrivare la salvezza del territorio, con i 1.546 comuni della Lombardia chiamati «a non tacere, metro quadro dopo metro quadro, il verde sacrificato sull'altare del business edilizio e delle grandi opere», dice Damiano Di Simine, presidente regionale di Legambiente, alla vigilia della presentazione (oggi al Pirellone) del «Rapporto 2012 sui consumi di suolo». «Ogni sindaco renda noto quanta terra dilapida ogni anno, firmando licenze edilizie e incassando oneri di urbanizzazione. Una trasparenza già prevista per legge, eppure disattesa: tanto che solo un comune su dieci rivela questo dato. Ma così non si conoscerà mai l'entità vera del disastro».

Fra le dodici province lombarde, la maglia nera spetta a Milano. Quella in cui ogni giorno «spariscono 20.063 metri quadrati di suolo, pari a 1,2 volte piazza Duomo». Quella dove «in dieci anni — denuncia Legambiente — la crescita dell'urbanizzazione ha riguardato 7.323 ettari: come se fosse nata una città grande come metà della superficie urbana di Milano, mentre nell'intera provincia la popolazione è cresciuta di soli 180 mila abitanti». Una provincia in cui sono scomparsi 6.839 ettari agricoli: «Se fossero tutti coltivati a frumento, produrrebbero un raccolto per 40 mila tonnellate di pane, sufficiente per sfamare 800 mila persone», spiega Di Simine.

Ma come arginare l'avanzata del cemento? «Con una strategia in tre mosse. Primo: con sgravi fiscali per le ristrutturazioni, per chi edifica su aree dismesse, per chi demolisce e ricostruisce su una stessa area; con un inasprimento fiscale invece per le nuove costruzioni su aree vergini. Secondo: vincolando gli oneri di urbanizzazione alle relative opere, così da evitare che i sindaci li utilizzino fino al 75% per pagare altre spese. Altrimenti, in tempi di tagli, il cemento diventa una fonte di introiti su cui far leva per far quadrare i bilanci». Terzo: con una legge che salvaguardi il suolo, come quella di iniziativa popolare che giace nei cassetti del Pirellone da tre anni».

Sui tempi lunghi della legge, che dovrebbe aprire un nuovo corso nella difesa del verde, Daniele Belotti, assessore regionale al territorio, spiega che «l'iter è fermo, perché prima occorre attendere che tutti i comuni abbiano approvato il proprio Pgt (Piano di governo del territorio), lo strumento che manderà in pensione i vecchi piani regolatori». Un cammino che però procede a passo di lumaca: «Infatti solo il 51% l'ha approvato, il 14% l'ha adottato, mentre il 36% è ancora in alto mare». Eppure corre il conto alla rovescia verso l'ultimatum del 31 dicembre: poi che succederà per i comuni sprovvisti di Pgt? «In quei comuni non si potrà più edificare — risponde Belotti. — In attesa di quella scadenza non possiamo introdurre una legge sul consumo di suolo che modifichi le regole, altrimenti rischieremmo di essere sommersi da una valanga di ricorsi al Tar».

Titolo originale: M&S launches 'shwopping' schemeScelto e tradotto da Fabrizio Bottini

La principale catena di distribuzione di abbigliamento del paese lancia una campagna per evitare che un quarto dei capi acquistati nel Regno Unito finisca nel cassonetto. Marks & Spencer chiede alla clientela di riportare quanto già acquistato, usato o non troppo gradito, quando si compra qualcosa di nuovo, a sostegno di una nuova tendenza battezzata “shwopping”. Per dare avvio a una cultura del “compri uno, regali uno” che poi vedrà i vecchi capi rivenduti o comunque riutilizzati o riciclati dall’associazione Oxfam. Secondo il Ministero dell’Ambiente, I consumatori britannici buttano via due milioni di tonnellate l’anno di abbigliamento, la metà delle quali finisce direttamente in discarica.

Si tratta però di qualcosa che ha subito scatenato i timori dei piccoli operatori del volontariato e dei loro negozi, che potrebbero così perdere una fonte di approvvigionamento, oltre ai dubbi sui problemi logistici di un grande operatore che si trasforma in una specie di deposito di enormi quantità di abiti buttati via. Il programma si inserisce nella più vasta collaborazione fra M&S e Oxfam, che dura dall’inizio del 2008 e ha già visto oltre dieci milioni di capi regalati, per un valore che si calcola in circa dieci milioni di euro. Regalando vecchi capi Marks &Spencer ai negozi Oxfam si avevano in cambio buoni acquisto da 7 euro per la catena di abbigliamento. Stavolta, anche senza incentivi economici, la clientela dovrebbe essere invogliata a portare vecchi capi nei 342 punti vendita M&S del paese.

Non si tratta di una vera novità nel settore, perché la catena TK Maxx e Cancer Research UK per raccogliere tre milioni di euro da destinare alla ricerca per i bambini hanno già promosso la campagna “Rinuncia a un vestito”. Ma questa alleanza M&S e Oxfam link per la prima volta ha spinto i rappresentanti delle piccole associazioni che gestiscono negozi a chiedere ai donatori di non abbandonare gli esercizi minori. Cath Lee, responsabile di Small Charities Coalition, spiega: “Ottima cosa incoraggiare il riciclo in questo modo, però sarebbe una vergogna se la conseguenza collaterale fosse una diminuzione dei vestiti donati alle piccole associazioni. Ci sono enormi di vari fra i vari gruppi, e i più piccoli svolgono un ruolo essenziale, per cause locali e specifiche. Contribuiscono moltissimo nei quartieri. Chi gestisce gli esercizi volontari minori dipende in modo vitale dalle vendite di ciò che è regalato, e quindi è importante che si continui a farlo anche localmente”.

Una portavoce della Charity Retail Association aggiunge: “È confortante vedere un grande operatore partecipare a un programma concertato di riuso dell’abbigliamento attraverso le associazioni, vorremmo vederne anche altri del genere, che coinvolgono operatori minori. Ma il problema centrale è la scomparsa dei doni per i più piccoli … Una collaborazione del genere può essere una alternativa più comoda, che esclude le associazioni minori”. Marks & Spencer ha già proposto capi interamente prodotti in lana e cashmere riciclati da altri capi difettosi restituiti ai negozi. Oggi la raccolta verrebbe inviata a produttori specializzati che rinnovano la fibra pronto per una nuova confezione. Qualche settimana fa M&S ha dovuto ammettere una discutibile acquisizione da ditte messe in difficoltà dall’improvviso caldo di febbraio che aveva sconvolto il mercato di cappotti e maglioni.

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Imbarazzante, ma in sostanza prevedibile, la cautissima reazione del volontariato di fronte a una iniziativa pressoché impossibile da contestare nel merito: ambientale, perché indirettamente tutela il territorio (le discariche, i luoghi di produzione e trasformazione delle materie prime), e promuove la consapevolezza diffusa; economica perché evita uno spreco e presumibilmente abbassa costi e prezzi. Così ci vuole abbastanza poco ad arrivare al nocciolo della questione: che ruolo resta al piccolo volontariato diffuso, quello che sinora ha avuto il monopolio di tutte queste buone intenzioni? Forse quello di cercarsene di nuove, verrebbe un po’ polemicamente da dire: si è entrati in una contraddizione del sistema, scoprendo un segmento di produzione/mercato ignorato da altri, e che ora invece diventa a quanto pare mainstream . Resta aperto invece l’aspetto territoriale più diretto, i luoghi dell’operatività, il rapporto con le comunità locali, i quartieri, le reti minori di produzione/consumo. Ma qui il discorso si accosta (e come potrebbe non farlo?) sia con il ruolo più in generale della distribuzione commerciale indipendente, sia con quello di regolamentazione delle amministrazioni, cittadine e non. Adeguatamente governate e promosse, in modo si spera condiviso e non ideologico, la funzione commerciale e la sua immagine collettiva possono essere la chiave di una nuova idea di città e territorio. (f.b.)

Il dibattito sulla questione del consumo di suolo aperto su queste pagine da Arturo Lanzani ha il grande merito di aver sottolineato le relazioni con le possibilità di salvare l’Italia. L’aumento del consumo di suolo va infatti di pari passo con l’aumento delle disfunzioni urbane. Abbiamo le città più disordinate d’Europa e ciò comporta diseconomie: non attraiamo investitori stranieri perché trovano migliori condizioni localizzative in altri paesi.

Dobbiamo chiederci i motivi di questa patologia, anche perché si continuano a leggere opinioni che sostengono che l’incontrollata espansione urbana sia avvenuta “in un territorio interamente pianificato e minuziosamente normato”. E’ la rigidità della pianificazione, dunque, ad aver provocato il diluvio di cemento. E’ vero il contrario: in questi ultimi due decenni in Italia sono state cancellate tutte le regole e attraverso le pratiche della contrattazione e dell’accordo di programma si superano norme urbanistiche e vincoli paesaggistici. Con i “piani casa” che tutte le Regioni hanno approvato si compiono importanti trasformazioni senza ostacoli.

La patologia italiana è che non esistono più regole. Si vive di deroghe ed è stato cancellato lo stesso concetto di governo pubblico del territorio. Si tocca qui un punto che Lanzani – dopo aver sottolineato le molteplici consonanze - colloca nella sfera delle differenze con la principale posizione espressa da Salzano, e cioè quella di avere “fiducia nella pianificazione come principale strumento per governare il territorio”. Credo invece che lo straordinario merito di Salzano sia stato di averci richiamato in questi anni al fatto che se veniva messo in discussione il ruolo delle amministrazioni pubbliche tutto sarebbe rovinosamente crollato. E questo, purtroppo, è puntualmente sotto i nostri occhi. Il Politecnico di Milano che ha svolto di recente una ricerca per conto dalla Cisl riguardo al mercato edilizio in alcune città lombarde. A Bergamo ci sono oggi 58 mila alloggi invenduti. Saranno 135 mila nel 2018 sulla base delle decisioni già prese. Brescia ne conta oggi 56 mila. Saranno 107 mila nel 2018. Nella prima città (130 mila abitanti) si potranno insediare oltre 270 mila abitanti. Nella seconda (210 mila abitanti), un identico numero. La cultura della deroga sta portando il territorio all’insostenibilità e sta minando alla radice la stessa nozione di città.

Di fronte ad una patologia di questo livello mi chiedo se i dieci punti proposti da Lanzani - ciascuno dei quali pienamente condivisibile e sottoscrivibile- abbiano la forza di risolvere la patologia. Essi sono infatti efficaci strumenti in condizioni di normalità, e cioè se ancora esistessero regole. Dobbiamo invece riportare legalità nel governo del territorio ed è necessaria una cura radicale. Al pari dell’anno di moratoria richiesto e ottenuto dalla proprietà fondiaria per procrastinare l’entrata in vigore della “legge ponte”, dobbiamo oggi chiedere la moratoria di tutte le nuove espansioni facendo eccezione soltanto per gli interventi sul brownfield e quelli sul patrimonio esistente. Una moratoria – non una cancellazione per buona pace degli adoratori dei diritti edificatori - che servirà per delineare il quadro esatto dello stato del territorio italiano fatto di infinite Bergamo e Brescia o di città del divertimento sparse in ogni luogo. Soltanto dopo questa fase potranno avere efficacia i dieci punti e si potrà perseguire la salvezza del paesaggio italiano. Prima che sia troppo tardi.

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Molte cose sono cambiate dagli anni in cui la prima edizione della Scuola di eddyburg, rompendo il silenzio della cultura urbanistica ufficiale, aprì lo sguardo sull’immane consumo di suolo che stava divorando il territorio. La spinta all’edificazione di case e capannoni è stata interrotta dalla crisi, ma la massa gigantesca dell’invenduto provoca pressioni sulle amministrazioni pubbliche perché, in un modo o nell’altro, paghino con le risorse di tutti le incomplete speculazioni dei promotori immobiliari. Il territorio continua a esser visto dai fautori dello “sviluppo” come un luogo da “valorizzare” con l’attribuzione di “diritti edificatori” e “crediti edilizi”, da ipotecare quindi con le premesse urbanistiche della espansione della città (su cui soprattutto si sofferma Berdini). Contemporaneamente crescono le poderose forme di consumo di suolo costituite dalle infrastrutture dei trasporti e dell’energia (che generano forti reazioni da decine di comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva), e quelle più defilate dalla conversione della produzione agricola dall’alimentazione alla produzione di nuovi carburanti per la produzione di energia.

In questo quadro è necessario proporre una panoplia articolata di interventi di cntrasto. Ma in primo luogo occorre accrescere la consapevolezza del problema, delle sue numerose facce e della necessità dell’affermarsi di una forte ed estesa delle volntà politica di arrestarlo. Ciò che richiede in primo luogo – come ribadisce Berdini – un forte, autorevole, duraturo governo pubblico del territorio finalizzato alla difesa e alla promozione della vita, della salute e del benessere degli abitanti del pianeta.

MILANO — Un bel lavoro per tutti. Per le famiglie che pagano (prezzi visti al mercato di via San Marco giovedì 12 aprile) 2 euro tre etti di rapanelli, oppure 2,50 euro tre etti di insalatine; per i Comuni che mettono in buone mani fazzoletti di terra a volte senza una destinazione precisa, altre volte a ridosso di parchi e giardini che si ritrovano, così, «presidiati». Per le comunità in genere, perché «il territorio ben tenuto fa bene a tutti».

Sarà la primavera, sarà la crisi, ma l'altro giorno alla presentazione della bottega di Campagna Amica nella cascina Cuccagna, a ridosso del centro di Milano, Coldiretti ha fatto il tutto esaurito: e la mappa dei capoluoghi lombardi e dei rispettivi progetti di «orti in comune» non è da meno. «Noi siamo così soddisfatti dei nostri appezzamenti da 36 metri quadrati a margine del parco delle Caselle che tra meno di un mese faremo il bando per altri 112 a Selvagreca» dice da Lodi l'assessore (Ambiente e Territorio) Simone Uggetti. «Non solo: abbiamo riservato metà degli orti a cittadini tra i 18 e i 65 anni: perché ormai non sono più soltanto i pensionati a voler coltivare insalata e zucchine». A Lodi, poi, pensano anche agli «orti di quartiere»: «perché siano coltivate le aree troppo piccole per diventare giardini, rimaste senza una funzione definita: trasformate in orti sarebbero utili e ordinate».

Conferma Ettore Prandini, vicepresidente regionale di Coldiretti, che ha fatto una sua bandiera del risparmio del suolo e del farne un uso oculato. «La Lombardia è scesa sotto il milione di ettari coltivati, ogni anno perdiamo la potenzialità produttiva di 27 mila tonnellate di grano, proprio mentre i cinesi comprano terreni agricoli per assicurarsi scorte alimentari». Sia pure su scala più modesta, anche l'orto formato famiglia può ben funzionare in quello stesso senso. Il calcolo lo fa lo stesso Prandini, pensando a un orto di 30-35 metri quadrati: «Quanto basta per una famiglia per tutto l'anno. L'investimento: 100 euro per tutto». Attrezzi, terriccio come fertilizzante naturale, concime. E piantine, naturalmente: da 0,20 centesimi sino a 1 euro e 60, magari per piantine di pomodoro già grandicelle.

Basso l'investimento economico, alto quello in termini di tempo e di impegno: però la resa è alta, come soddisfazione e come economia. Vero che quelli visti al mercato l'altro giorno non sono prodotti in stagione, ma con le zucchine a 4,99 e il radicchio a 4 euro, i cornetti a 6 e le melanzane a 3, i pomodori da 2,50 a 3,50 e i peperoni a 4, c'è da credere che quei cento euro dell'investimento iniziale siano davvero un affare. «E poi nell'orto si impara la stagionalità — sottolinea Prandini. — Si impara a chiedersi da dove mai venga e al prezzo di quale spreco di carburanti e di energia per i frigoriferi arrivino frutta e verdure fuori stagione». Che saranno comunque sempre meno buone di quelle maturate nella campagna più vicina: lì i produttori hanno a che fare, piuttosto «con una speculazione enorme — conclude Prandini. — Il prezzo, passando dall'azienda al punto vendita, lievita anche del 70-80%: frutta e verdura che vengono pagate ai coltivatori meno di un euro arrivano sugli scaffali dei supermercati a 1,50 e più». Tutto questo senza essere primizie: un ricarico che fa sembrare poca cosa quello del latte, per il quale si passa dai 40 centesimi alla stalla a 1,20-1,30 euro alla vendita in negozio.

Deportare 13.000 aquilani nelle New Town volute dalla Protezione Militare di Guido Bertolaso e Silvio Berlusconi è costato 833 milioni di euro. Quasi un miliardo per costruire diciannove insediamenti chiamati C.A.S.E (“complessi antisismici sostenibili ecocompatibili”): non-luoghi senza forma, socialmente insostenibili (non hanno centri di aggregazione, né servizi, né identità) e ambientalmente devastanti. In questo sprawl di cemento (che ha distrutto per sempre una gran quantità di terreno agricolo) bambini di tre anni sanno cos’è una C.A.S.A., ma non sanno cos’è una città: futuri non-cittadini, perfetti per la non-società immaginata da B.

Come ha efficacemente scritto l’antropologo culturale aquilano Antonello Ciccozzi, “il lato oscuro di questa (ri)fondazione veicolata da un’emergenza rimanda a un sistema di finalità in cui i propositi sociali di aiuto umanitario paiono spesso eccessivamente contaminati da complessi d’interesse votati a usare la catastrofe anche come pretesto per praticare strategie nazionali di profitto economico (nelle abbondanti plusvalenze consentite da certe scelte) e di propaganda politica (nell’aurea taumaturgica ottenuta attraverso la spettacolarizzazione dell’opera)”. Ma la cosa veramente diabolica è che la città in cui quei bambini avrebbero potuto crescere non è (ancora) morta. A tre anni dal devastante terremoto del 6 aprile 2009, L’Aquila appare come un laboratorio dove applicare e sperimentare le peggiori tendenze del pensiero e della prassi nazionali in fatto di città e di paesaggio: il meraviglioso ed estesissimo centro monumentale rantola a qualche chilometro dall’insensato (ma assai lucrativo) scempio paesaggistico e sociale delle C.A.S.E.

Se si eccettua il meritorio restauro della Fontana delle Novantanove Cannelle (pagato dal FAI), nulla è stato fatto: nessun cantiere è in funzione, nessuna pietra è stata ricollocata e le tante chiese monumentali sono spesso ancora a cielo aperto, o sono protette da ridicoli teli, e dunque in preda alla pioggia e alla neve.

Perché? Mancanza di soldi? No: per la ricostruzione sono già disponibili quasi 8 miliardi di euro su quasi 11 stanziati dal governo (così la relazione del ministro Fabrizio Barca, presentata il 18 marzo). La verità è che la sovrapposizione dei poteri commissariali a quelli ordinari, e un getto continuo di ‘grida’ contraddittorie, hanno portato a una surreale paralisi. Come oggi denuncia Italia Nostra, solo “con molto ritardo ci si è resi conto che le ordinanze e le altre normative elaborate all'indomani del sisma hanno immobilizzato la ricostruzione”.

A gettare ombra sul futuro della ricostruzione del centro storico, c’è tuttavia anche una prospettiva che si affaccia nelle righe in cui Barca auspica “una modernizzazione e una funzionalizzazione del centro a nuovi modi di vivere, mestieri e professioni”. Il riferimento è al cosiddetto progetto per “L’Aquila Smart City”, uno studio dell’Ocse e dell’Università olandese di Groeningen finanziato dal ministero dello Sviluppo economico che propone (oltre a molte cose del tutto condivisibili) di poter cambiare la destinazione d’uso degli edifici, permettendo ai proprietari “di modificare la struttura interna delle loro proprietà (in parte o in totalità) ...conservando e migliorando allo stesso tempo le facciate storiche degli edifici”. Italia Nostra ha chiesto di accantonare questa “incauta proposta”, e Vezio De Lucia – uno dei più importanti urbanisti italiani – ha scritto che un’idea del genere rinnega la migliore scienza italiana del recupero del tessuto antico delle nostre città, per cui (almeno dalla Carta di Gubbio, del 1960) “i centri storici sono un organismo unitario, tutto d’importanza monumentale, dove non è possibile distinguere, come si faceva prima, gli edifici di pregio (destinati alla conservazione), dal tessuto edilizio di base”.

Il rischio è che qualcuno pensi di trasformare L’Aquila in una specie di set cinematografico, o di Disneyland antiquariale, fatto di facciate e gusci pseudo-antichi che ospitano servizi turistici in mano a potenti holding. Si tratterebbe di fare a L’Aquila in un colpo solo ciò che un lento processo sta facendo a Venezia: deportare i cittadini in periferie abbrutenti e mettere a reddito centri monumentali progressivamente falsificati. Ma basta vedere lo struggente documentario Radici. L’Aquila di cemento di Luca Cococcetta, o anche solo guardare in faccia gli aquilani, per comprendere che una prospettiva del genere equivarrebbe al suicidio del nostro Paese: il paesaggio e il tessuto monumentale italiani non sono qualcosa di cui possiamo sbarazzarci impunemente. Sono la forma stessa della nostra convivenza, della nostra identità individuale e collettiva, del nostro progetto sul futuro. È anche per questo che gli aquilani devono poter tornare a vivere nel cuore della loro città: per far capire a tutti gli italiani a cosa servono, davvero, la nostra natura e la nostra storia.

Land grabbing è il nome molto "british" per definire il fenomeno delle terre nel Sud del mondo che i paesi delle economie ricche o emergenti si accaparrano, per pochi spiccioli: in termini economici, un investimento; in termini sociali, un disastro. Questo terzo millennio annovera ormai una serie di minacce all'agricoltura e, conseguentemente al paesaggio, da cui nessuno può sentirsi al sicuro. Perché se ancora non si fosse capito, ciò che minaccia la nostra agricoltura minaccia il territorio, la sicurezza di chi lo abita, la sostenibilità della nostra vita sulla terra, la bellezza e in definitiva la nostra stessa esistenza.

Ci sono tre fenomeni che in Italia stanno esercitando un'azione combinata che porta dritto a fenomeni simili al land grabbing, che strappano la terra a chi la coltiva per consegnarla a chi specula. Il primo di questi tre attori è la Pac (Politica Agricola Comune) in vigore fino alla fine del prossimo anno. Un sistema di diritti a ricevere sovvenzioni dall'Unione Europea che vengono erogati in base al valore della produzione aziendale non attuale, ma del triennio 2000-2002. Questo significa che aziende che producevano generi un tempo molto sovvenzionati dall'Ue (tabacco, barbabietola da zucchero, riso, solo per fare alcuni esempi) si trovano con una disponibilità finanziaria annuale ingente. E sebbene questo meccanismo sia stato pensato nobilmente, per favorire l'uscita «morbida» dal regime dell'aiuto alla produzione per entrare nell'economia di mercato, in questo interludio sta creando guasti.

Nei Comuni delle Alpi sono in corso in questo periodo le trattative per assegnare i pascoli alpini, che da secoli i pastori transumanti, che svernano in pianura e salgono alle malghe d'estate, mantengono e curano impedendone la riconquista al bosco, garantendone la sopravvivenza della ricca flora e prevenendone il dissesto idrogeologico.

Spesso sono trattative fatte guardandosi negli occhi, ma quando il Comune deve fare cassa e nonè attento ad aspetti diversi da quello economico, si procede ad aste con busta chiusa. Questo fa già lievitare i prezzi per i pastori, ma tutto sommato resta un percorso fisiologico. Quando però la busta sigillata è quella di un allevatore intensivo di pianura (che non porterà mai i capi in montagna, però riesce a far apparire più grande la sua azienda e può così ingrassare ancora più animali, perché in teoria ha più terra su cui smaltirne il letame) o di un land grabber di casa nostra che può investire i proventi di una Pac divenuta strumento d'iniquità, tutto si complica. I prezzi dei pascoli lievitano, anche di dieci volte. I pastori per non restare senza terra si prestano ad andare senza contratto a mangiare l'erba che lo speculatore si è accaparrato. Nei casi limite, ma già documentati, lo speculatore minaccia di fare la propria offerta ed estorce il pizzo dai pastori in cambio del proprio impegno a restare fuori dall'asta.

Il secondo fenomeno estremamente minacciosoè quello delle agroenergie. Manco a dirlo, anche qui come per la Pac la questione consiste nell'assenza di misura e della distorsione speculativa che gli incentivi statali possono determinare. La produzione di biogas è un modo razionale di sfruttare i reflui zootecnici (liquami), ricavandone energia. Tuttavia, quando invece che ad allevatori che danno vita ad un impianto che serva alle loro aziende assistiamo a proposte che vengono da società di capitali, che vorrebbero realizzare impianti molto grandi, in aree lontane da ogni esigenza di smaltimento reflui, con la conseguenza di far girare decine di camion al giorno carichi di deiezioni animali, già ci troviamo assai meno d'accordo. Se per di più, asserviti al fine di produrre biogas, migliaia di ettari agricoli sono dedicati a colture che non sfameranno mai nessuno (perché per fare il biogas i vegetali sono meglio delle deiezioni) ma finiranno nei digestori per produrre più energia e far lievitare i profitti, allora siamo proprio contro. Spero sia chiaro: non si può essere contro il biogas, ma si deve essere contro questo suo uso, che invece di contribuire a risolvere un problema ambientale, lo moltiplica e ci innesta su anche una logica di puro profitto.

Così, ancora una volta, scopriamo che è la concorrenza tra quanto può spendere il contadino e lo speculatore a fare la differenza. E se pensiamo che questa diversa capacità di spesa la determinano l'Ue e lo Stato italiano, francamente ci arrabbiamo. Perché gli aiuti servono se garantiscono un reddito che non faccia dei contadini dei paria, ma non possono servire alla speculazione di chi sfrutta la terra senza riguardo per la fertilità e la destinazione alimentare. E il terzo fattore di land grabbing conferma questa analisi: l'uso delle campagne per scopi non agricoli infetta il tessuto delle campagne e distorce la concorrenza. Quando un comune autorizza l'ennesima nuova cava, l'ennesimo ampliamento residenziale, l'ennesima «area produttiva», che riempie le campagne di capannoni vuoti circondati dai rovi, non solo sta rincorrendo uno stile di sviluppo che appartiene già al passato. Sta determinando una perdurante alterazione delle dinamiche dei prezzi della terra, che mortifica chi vuole onestamente vivere di agricoltura: se vuoi affittare la terra, ma il cavatore di ghiaia può offrire dieci volte l'importo di un canone equo, come potrai spuntarla a meno di trovare un proprietario filantropo? Abbiamo il dovere di esigere dallo Stato, in tutte le sue componenti, e dall'Unione Europea di cui siamo parte, un'attenzione senza precedenti agli effetti distorsivi di cui possono essere oggetto strumenti necessari come gli aiuti agli agricoltori, gli incentivi alle energie verdi, i piani regolatori. E questo, anche se pensiamo che le attività di speculatori, finanzieri e predoni del territorio non ci riguardino. Perché, come avrebbe detto De André, se anche ci sentiamo assolti, siamo lo stesso coinvolti.

La vera fine della Guerra fredda, la pietra tombale sullo scontro tra i due Blocchi, il crollo del Muro ideologico ed economico che ancora divide il mondo globalizzato, è un tunnel sottomarino di 150 chilometri. Il grande sogno accarezzato dallo scienziato russo Dmitry Ivanovich Mendeleyev, suggerito al sedicesimo presidente Usa Abramo Lincoln, infine raccolto dall´economista americano Lyndon La Rouche nel 1987, diventerà una realtà.

Funzionario di poche parole, cresciuto alla rigida scuola sovietica, il capo delle Ferrovie russe Vladimir Yakunin ha annunciato che entro due anni inizieranno i lavori per la più straordinaria impresa di ingegneria di tutti i tempi. Bisognerà attendere il 2030. Ma chi avrà la fortuna, i soldi e il tempo, si potrà godere il privilegio di varcare via terra i confini tra due Continenti finora avversari, ostili e separati da 3,9 chilometri di acque gelide dell´Artico. Il progetto si chiama "World link": una ragnatela di linee ferroviarie che salirà da Istanbul, si unirà a Varsavia e poi, lungo la Transiberiana, raggiungerà la punta estrema della Siberia. Nel piccolo villaggio di Uelen il percorso scenderà a 50 metri di profondità, attraverserà lo stretto di Bering e spunterà dall´altro lato, a Cape Prince of Wales, in Alaska. Federazione Russa e Stati Uniti d´America saranno fisicamente unite da una galleria sottomarina due volte più lunga di quella che lega l´Inghilterra alla Francia attraverso il tunnel della Manica. Nel tubo, del diametro di quasi cento metri, scorreranno la linea di un treno ad alta velocità, un´arteria stradale a doppia corsia per auto e camion. Oltre ai cavi dell´alimentazione elettrica, dell´aria, il fascio di fibre ottiche per le comunicazioni. Ma soprattutto, una pipeline per il greggio della Siberia e un gasdotto capace di rifornire i 48 stati dell´America settentrionale.

Ma è sul commercio che il megaconsorzio di imprese coinvolte nel progetto pensa di ricavare i maggiori introiti. I tecnici si sono messi già al lavoro e hanno tracciato delle stime. Il volume di traffico su rotaia e su gomma dovrebbe garantire almeno un flusso di 100 milioni di tonnellate di merci l´anno. Niente più navi e aerei. Niente più condizionamenti meteorologici. Dei seimila chilometri previsti dal piano, quattromila sorgeranno su territorio russo, duemila su quello dell´Alaska, quindi in casa Usa. Il costo è stratosferico: 65 miliardi di dollari. Ma l´impresa, davvero futurista, già tracciata sulle mappe conservate al ministero delle Infrastrutture a Mosca, ha riscosso l´entusiasmo di 34 nazioni. Cina, in testa. Simbolicamente, la Federazione russa si ritroverà unita a quel lembo di terra ghiacciata che lo zar Alessandro II cedette agli Usa per 7,2 miliardi di dollari: 5 dollari a chilometro quadrato.

Il fascio di asfalto e di ferro si irradierà attraverso due Continenti, i più grandi del mondo. Per i promotori dell´opera davvero titanica si tratta della nuova Via della Seta. Una linea di scambi, di viaggi, di collegamenti che salta le regioni turbolente del Centro Asia e supera, attraverso la rotta artica, gli ostacoli finora frapposti della natura. Quindicimila chilometri da percorrere in modo quasi ininterrotto. Libero dalle frontiere, almeno commerciali; capace di sviluppare regioni isolate, assediate dal freddo e dalla miseria, lontane dai centri pulsanti dell´economia e dello sviluppo.

È da oltre 150 anni che si studia il progetto. Tra slanci improvvisi e interruzioni forzate. Ma la crisi globale della finanza, la necessità di rilanciare gli scambi per rimettere in moto l´economia reale, il disperato bisogno di materie prime, hanno fatto breccia sulle ataviche rivalità. Vladimir Yakunin, il capo delle Ferrovie russe, lo ha ribadito più volte nel corso della conferenza stampa che annunciava l´avvio dei lavori. Si è rivolto ai giornalisti che lo incalzavano con domande piene di dubbi: «Non sono abituato a parlare a vanvera», ha risposto piccato. «C´è stato un via libera ufficiale». Certo, ci vorrà del tempo. I più ottimisti parlano di 15 anni. Ma l´attesa premia. A meno di altre Guerre fredde e Muri divisori.

Al ciclista condannato per il reato di guida in stato di ebbrezza alcolica, non è inflitta la pena accessoria della sospensione della patente.

Così ha disposto la Corte di Cassazione, nella sentenza 19 marzo 2012, n. 10684.

Il caso in oggetto riguardava un uomo condannato dai giudici di merito per essere stato colto con un elevato tasso alcolemico alla guida della propria bicicletta, su cui viaggiava con il figlio minore.

Avverso tale pronuncia di condanna, l’uomo ha proposto ricorso in Cassazione eccependo l'incostituzionalità dell' art. 186 del codice della strada, con riferimento all'art. 3 della Costituzione. In particolare, lo stesso contestava l’applicazione della sospensione della patente per tutti i casi di conduzione di veicoli in stato di ebbrezza alcolica, senza che vi sia una differenziare tra la guida di veicoli a motore e guida di un velocipede.

In realtà, tale censura non assume rilievo, atteso che, la sanzione suddetta non è applicabile alla fattispecie de quo , “in cui la violazione si realizzi ponendosi alla guida di un mezzo per il quale non è prescritta alcuna abilitazione alla guida”.

Per tali ragioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

postilla

Come diverse è stato ribadito su queste pagine in casi simili, di cose legate al consumo di sostanze varie, è vero che l’ubriachezza è pericolosa, ma il vero danno (a parte il mal di testa del giorno dopo eccetera) in fondo lo può fare solo l’impatto della lamiera contro qualcos’altro. Diciamo pure che possa essere accettabile quella semplificazione secondo cui alcol + guida = pericolo = reato. Ma da qui a estendere l’universo delle sanzioni a tutti gli aspetti della mobilità sul territorio ce ne passa. Il tizio andava in bicicletta, e aveva bevuto. Era un pericolo? Magari si, per sé stesso, per la bambina che si portava appresso, per gli altri sulla strada, chissà. Non si sa da dove sia partita tutta la faccenda: era un energumeno sbandante sulla pubblica via? C’era un tutore dell’ordine annoiato e in vena di calcare un po’ la mano sulla discrezionalità della repressione? Non è dato di sapere. Ma estendere la sanzione alla patente di guida, per uno che sta facendo tutt’altro, è un po’ come togliere la patria potestà a chi commette reati finanziari: che c’entrano le due cose? È successo che tutti, in questo e in altri casi, continuano a pensare che la strada sia il mondo dell’automobile, che tutto debba ruotare attorno a quell’oggetto, dalle norme ai comportamenti. Una monumentale sciocchezza, da cui fortunatamente – pare – ci salva il diritto. Per adesso (f.b.)

Ne hanno sempre sentito parlare. Qualcuno ha raccontato loro che è grazie a lei che sono arrivati in quella casa. Aveva un lungo becco e loro erano avvolti in un fagotto. Volavano. Ma certamente la maggioranza tra tutti questi bambini una cicogna, dal vivo, non l'ha mai vista. Ecco qual è la novità per il 2012 al Parco ittico «Paradiso» di Zelo Buon Persico: una grande voliera in costruzione dove allevare le cicogne, per poi liberarle una volta in grado di badare a loro stesse.

E così quest'oasi naturalistica a soli 17 chilometri da Milano si rinnova anno dopo anno, avendo sempre e comunque come attrazione principale la parte ittica, visitabile da un punto di vista decisamente originale e didattico. Una delle particolarità del Parco ittico «Paradiso» sono infatti gli osservatori che, posti sotto il livello dell'acqua, permettono a grandi e piccini di guardare attraverso un vetro i pesci nel loro ambiente naturale. La sensazione è quella di nuotarvi in mezzo.

Nato negli anni 80 come allevamento, il parco di 130 mila metri quadrati è stato poi trasformato in oasi naturalistica, alimentata dalle acque del fiume Adda. Sono stati ricreati molti ambienti fluviali e palustri che oggi ospitano le più disparate specie di acqua dolce. Questa nicchia ecologica è una sorta di ambiente incontaminato, privo di barriere architettoniche, circondato da un bosco di seimila alberi (salici, ontani, olmi, aceri, frassini, pioppi) che può essere attraversato a piedi o in bicicletta muovendosi tra la vasca con i cavedani e quella con i carassi, tra quella con le tinche e quella con gli storioni (ci sono esemplari di storioni tra i più grandi d'Europa. Storioni che raggiungono anche i due metri di lunghezza e valgono migliaia di euro) e da quest'anno anche quella delle anguille.

Non solo, i bambini qui possono scoprire anche «in diretta» come nasce, come cresce e come si nutre un pesce. Questo grazie a «Acqua life», ovvero tre acquari in sequenza che illustrano la vita di un pesce fin dai suoi primi secondi di vita. Acquari che sono a pochi passi dalla grande vasca con poco più di un palmo d'acqua dove nuotano gli storioni albini, che i bambini possono addirittura accarezzare.

Oltre ai pesci, nell'area del grande parco giochi (con scivoli, ponti tibetani sospesi, funi di arrampicata, altalene e aree attrezzate per pic nic) c'è anche un grande recinto con tutti gli animali della fattoria: vitellini, conigli, puledri, asinelli, papere, galline, maialini nani. Ma anche preziosi ungulati come il capriolo e il rarissimo daino nero.Il parco apre alle 9 e chiude alle 17.30 (durante i giorni festivi alle 19). Il biglietto costa 10 euro (gli adulti) e 8 (i ragazzi). C'è anche un sito: www.parcoittico.it

La valle del medio Tagliamento, in Friuli, è un posto incantato. Sullo sfondo, le cime delle Alpi Carniche. Più giù, paesi rinati e ricostruiti perfettamente dopo il terremoto: come Gemona, una perla. E poi la valle, con il grande letto del fiume Tagliamento che gira pigro e lento alla ricerca del suo sbocco al mare. È un luogo ancora intatto, riconosciuto unico a livello europeo per ecosistema e aree a vario titolo protette. Tutto ciò ora è in pericolo.

Vogliono costruirci un’autostrada. Una grande arteria a pagamento che unisca Cimpello a Sequals a Gemona. Che colleghi insomma due autostrade già esistenti, la A 28 (Portogruaro-Conegliano) e la A 23 (Palmanova-Udine-Tarvisio, verso l’Austria). Il piano di fattibilità è stato presentato nel 2009 da Autovie Venete e dai costruttori Impregilo e Rizzani De Eccher. Ora in pista resta Impregilo, che vorrebbe costruire l’opera in project financing: il privato progetta e costruisce, poi gestisce l’opera per 50 anni. Prevede di ripagarsi con i pedaggi: 23 mila utenti nel 2015, fino ai 53 mila del 2050. Velocità massima di percorrenza 110 o 130 chilometri all’ora.

Nel 2009 la Regione (con delibera 2.830) ha deciso che l’opera ha il requisito di interesse pubblico. L’autostrada sarà formata da due tronconi: la parte sud (Cimpello-Sequals), dove si tratterebbe di raddoppiare l’attuale superstrada, ora non a pagamento, chiudendo lo svincolo di San Giorgio della Richinvelda e facendo pagare il pedaggio; la parte nord (Sequals-Gemona), tutta da costruire. Questa è la parte da realizzarsi con un tracciato nuovo nella zona paesaggistica della valle del medio Tagliamento, fino all’incanto di Gemona, sito di interesse comunitario. Si oppongono gli abitanti e le organizzazioni ambientaliste della zona, oltre al Movimento Cinque stelle di Udine. Si è formato un comitato che si chiama Arca: Assieme Resistiamo Contro l’Autostrada. Presidente Alberto Durì. Ha già raccolto oltre 3. 500 firme di cittadini che si oppongono al progetto. Cerca di fermarlo, perché ferirebbe l’ambiente e inquinerebbe la valle del medio Tagliamento.

Propone un ragionamento semplice: se davvero ci passeranno i 23 mila motori che diventeranno 53 mila nel 2050, l’inquinamento sarebbe insostenibile. Se queste cifre non fossero raggiunte (cosa possibile), l’opera non si ripagherebbe con i pedaggi e a rimetterci sarebbero comunque i cittadini, perché i debiti dovranno essere ripianati con i soldi pubblici (a pagare sarà la Regione Friuli-Venezia Giulia). E poi, dicono i critici, l’autostrada è sostanzialmente inutile, senza traffico, scollegata dalla viabilità locale e con bassa riduzione dei tempi di percorrenza. Eppure l’assessore regionale alla viabilità e ai trasporti, Riccardo Riccardi, è deciso a portarla a termine, nonostante il parere sfavorevole di alcuni autorevoli tecnici. Sarebbe certamente utile a Impregilo. E ai politici locali: per far girare i soldi. È un piccolo Tav friulano, senza l’attenzione che ha scatenato il Tav piemontese. Superfluo per i collegamenti, dannoso per l’ambiente. Bisogna proprio ferire la valle del Tagliamento?

A tre anni dal terremoto il centro storico della città, tra i più importanti del nostro Paese, è ancora lì, fermo e inagibile come il primo giorno. Eppure si poteva almeno in parte ripararlo e renderlo di nuovo vivibile. Invece è stata scelta la strada delle "new town" e la ricostruzione non è mai partita. Ora c'è il piano e ci sono anche dei soldi, ma siamo ai preliminari

Documenti, interviste, video: http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/04/03/news/l_aquila-32687073/

Otto miliardi intrappolati nella burocrazia. Così la ricostruzione è ferma al 2009

Francesco Erbani

La strada per far rinascere L'Aquila e i comuni vicini è ancora lunga. Poco più della metà degli abitanti sono tornati nelle loro case. Il Comune ha finalmente approvato il piano, obbligatorio per legge, che detta la via per il recupero degli edifici. Un documento che divide gli esperti, mentre in molti mettono in dubbio quanto fatto fino ad ora: "Già nel 2009 si poteva riparare immediatamente le case che avevano subito piccoli danni e far rientrare gli sfollati nelle loro abitazioni". Invece, si scelse la via delle 'New town' volute da Silvio Berlusconi. Oggi quartieri desolati, sganciati dal resto della città.

I miliardi rimbalzano come palline in un box di plastica. E il tintinnio dovrebbe alleviare la tristezza di questo terzo anniversario del terremoto (6 aprile 2009: morirono 309 persone a L'Aquila e in una cinquantina di comuni abruzzesi). Dovrebbe, ma non è aria. Nella città di Collemaggio, delle Anime Sante, della Casa dello studente sbriciolata sui corpi di otto ragazzi, si fanno i conti. Sono 27 mila le persone, su 45 mila sfollati, che ancora non sono tornate nelle proprie case. Diecimila di queste vivono con un misero contributo mensile e si arrangiano da parenti e amici oppure pagano un affitto quasi da strozzo all'Aquila o altrove. Gran parte di quelle 27 mila persone abitavano nel centro storico, dove ha resistito il solo Raffaele Colapietra, lo storico ottantenne che non ha mai lasciato, con il suo piccolo esercito di gatti, la palazzina grigia sotto il Castello. "Adesso dovrò trasferirmi anch'io, qui cominciano dei lavori e vado in affitto", dice il professore. E i gatti? "Verranno con me". Un altro paio di famiglie, oltre ai gatti, fanno compagnia a Colapietra in tutto il centro storico. Per il resto c'era il deserto subito dopo il 6 aprile e tuttora c'è il deserto. C'erano le transenne e ci sono le transenne. C'era un silenzio cupo, rotto dallo scalpiccìo dei calcinacci sotto le scarpe. E c'è ancora.

Stanziati oltre dieci miliardi. Altri conti calano sugli aquilani. Le cifre fioccano: stando a una relazione stilata dal ministro Fabrizio Barca, che ora coordina gli interventi del governo, i soldi finora stanziati ammontano a 10,6 miliardi: 2,9 sono stati spesi per l'emergenza (833 milioni solo per i 4.500 appartamenti del progetto C. a. s. e., le cosiddette new town che ospitarono 15 mila persone, un terzo dei senzatetto aquilani); 7,7 miliardi, si legge sempre nella relazione, dovrebbero coprire i costi per la ricostruzione dell'Aquila e degli altri paesi colpiti.

I passi verso la ricostruzione. Ma basteranno? Il tintinnio dei miliardi diventa un tonfo sordo. La ricostruzione dei soli edifici privati nel centro storico dell'Aquila dovrebbe costare 3 miliardi e 800 milioni. Un altro miliardo e mezzo è necessario invece per i centri storici delle cinquanta frazioni disseminate nel vasto territorio comunale. Queste cifre sono contenute nel Piano di ricostruzione da poco approvato dal Comune. È un passo significativo, traccia il disegno futuro della città. Ma di esso si è parlato poco. Il documento urbanistico, realizzato da architetti comunali guidati da Chiara Santoro e da un gruppo di consulenti capeggiato da Daniele Iacovone, dovrebbe fissare le procedure perché il cuore dell'Aquila torni a battere come prima del terremoto. O addirittura meglio. Ma su quel documento, che ancora attende il parere definitivo del Commissario di governo, il presidente della Regione Gianni Chiodi, si addensano anche polemiche. Il criterio ispiratore è nella formula "dov'era, com'era". Una formula che prevede, però, di ridurre l'altezza di edifici costruiti dopo gli anni Cinquanta, edifici senza alcuna qualità e fra i più danneggiati dal sisma (ma i proprietari sembrano restii ad accogliere l'invito del Comune a spostarsi altrove). Alcune iniziative destano le proteste di Italia Nostra: almeno tre parcheggi interrati e multipiano, uno dei quali accanto alla scalinata che fronteggia la spettacolare facciata di San Bernardino.

Il Piano di ricostruzione è un obbligo di legge. Andava fatto. È stato imposto a tutti i comuni del cratere dal Commissario e dai suoi consulenti, la Struttura tecnica di missione, che però ha impiegato oltre un anno solo per elaborare le "linee guida". Ma nella faticosa gestazione del Piano si racchiude il paradosso tragico di una città che tre anni dopo il sisma ancora discute di come ricostruire il suo centro. Già il vecchio Piano regolatore della città, approvato nel 1975, conteneva infatti le norme che avrebbero consentito da subito di avviare restauri e ristrutturazioni. Ne è convinto lo stesso Iacovone: "L'80 per cento degli interventi che prevediamo ora sono conformi a quel piano di quasi quarant'anni fa".

Si è perso un mucchio di tempo. Si avvicinano le elezioni amministrative e chissà quanto se ne perderà ancora, andando indietro come i gamberi, mentre ogni giorno che trascorre infligge altre ferite ai preziosi edifici e rende asfittica la vita di una città senza più un centro. I finanziamenti coprono integralmente solo la prima casa, mentre nel centro storico ci sono molte seconde case che rischiano di restare abbandonate. Inoltre il contributo di 1.270 euro a metro quadro è uguale per edifici del 1960 e del XVIII secolo (un rimborso maggiorato è previsto solo per i palazzi vincolati).

I dubbi sul progetto voluto da Berlusconi. Su una cosa concordano architetti e urbanisti di diverso orientamento. È un altro paradosso, ma è così: il centro storico dell'Aquila, la città bellissima ora abitata da fantasmi, transennata, imbullonata nelle impalcature, non è stata rasa al suolo, è inabitata e inabitabile, ma non distrutta. "I crolli nella parte antica non superano il 2 per cento del totale", stima Iacovone. Le polemiche recano il suono delle cose dette tre anni fa. Quando l'urbanista Vezio De Lucia, il Comitatus Aquilanus e altri sostennero che invece del progetto C. a. s. e., occorreva sistemare provvisoriamente i senzatetto e avviare la riparazione di quel che si poteva riparare nel centro storico, che già a settembre del 2009 poteva accogliere i proprietari delle case che non avevano subito danni gravissimi: il 25 per cento degli edifici. Si scelse, invece, la strada dettata da Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso.

A tre anni dal terremoto siamo ancora ai preliminari. Nelle aree periferiche si lavora, anche disordinatamente e perfino ignorando prescrizioni antisismiche. "Ma è qui che ci vorrebbe una corretta pianificazione urbanistica, qui dove il territorio è stato sconvolto dalle new town. Eppure di questa pianificazione non c'è traccia", insiste De Lucia. "Non si capisce come questi desolati quartieri si legheranno fra loro e con il centro della città", aggiunge l'urbanista.

Lo studio Ocse. E invece per il centro storico si discute come se fossimo all'indomani del sisma. E si affollano documenti di varia natura. A metà marzo è stato presentato nei laboratori del Gran Sasso, uno studio realizzato dall'Ocse e dall'Università di Groningen, in Olanda. L'indagine, di cui ha scritto su Repubblica Riccardo Luna, sarà completata a dicembre (è stata finanziata dall'allora capo dipartimento dell'Economia, Fabrizio Barca, ora ministro, da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria). Compaiono indicazioni serissime sulla rinascita economica dell'Aquila e del cratere, sui settori che andranno sviluppati (la cultura, l'ambiente, le tecnologie). Ma ci sono alcuni passaggi che inquietano sia De Lucia che Iacovone: si auspica "un rinnovamento urbanistico" e la possibilità di modificare senza limiti l'interno degli edifici, salvaguardando, ma anche "migliorando", solo le facciate storiche. E per questo si suggerisce un concorso internazionale di architettura. Incalza Iacovone, preoccupato che si perda altro tempo: "Che cosa fare nel centro storico lo sappiamo bene, sono competenze che noi italiani abbiamo reinventato e insegnato al resto del mondo fin dagli anni Sessanta. Si devono fare progetti di restauro, di risanamento e di ripristino. Si può decidere che cosa salvare e che cosa no. Ma non si deve disegnare un tracciato urbano, quello c'è già da settecento anni. E poi questi palazzi settecenteschi sono costruiti intorno a dei vuoti, a dei pregiatissimi chiostri, non possiamo svuotarli ancora. E per farci che cosa? Dei falsi?".

Le nuove rilevazioni dal satellite ci fanno scoprire un po’ meno verdi del previsto: addio alla regione da cartolina

«Appena il 4,2% del territorio toscano coperto da cemento». Il dato dietro cui amava ripararsi l'ex assessore regionale all'urbanistica Riccardo Conti, in risposta alle critiche provenienti da quanti lui stesso definiva come "retrogadi difensori di una Toscana da cartolina", adesso viene demolito dai risultati di una nuova analisi realizzata dall'ufficio tecnico dell'assessorato regionale all'urbanistica targato Anna Marson. La Toscana coperta di cemento non è il 4,2% del totale della superficie bensì il 9,11% - come ha detto l’assessore Marson. La provincie più cementificate risultano Prato e Livorno (12% del territorio). Un ettaro ogni dieci è urbanizzato. La precedente elaborazione, basata su immagini satellitari del progetto europeo Corine Land Rover, che prevedeva una superficie minima delle celle su cui poter calcolare la presenza di cemento pari a 25 ettari ciascuna, aveva escluso infatti tutte le costruzioni isolate. Adesso ci sono i mezzi per fare una rilevazione più precisa. Ed è quello che ha fatto la Regione grazie a una convenzione con Agea, l'agenzia governativa per le erogazioni in agricoltura: la superficie minima cartografabile scende da 25 a 4 ettari per cella. «Le fotografie - ha spiegato l’assessore - di maggior dettaglio hanno portato a un ribaltamento della precedente immagine spesso utilizzata per dire come la Toscana risultasse fra le regioni più virtuose d'Italia».

Tradotto in termini assoluti, risultano così cementificati 209 mila 476 ettari di territorio su un totale di 2 milioni 300 mila ettari di superficie complessiva regionale. Numeri che ben testimoniano l'avanzata di cemento, che, nonostante una popolazione resa stabile soltanto dal flusso migratorio, è proceduta a tappe forzate nel corso degli ultimi anni.

Il nuovo "Rapporto sul Territorio", presentato giovedì scorso dall'Irpet, offre poi bene l'idea di come questa colata sia tutt'altro che prossima dal ritenersi conclusa: dando un'occhiata alle percentuali di consumo dei metri quadri edificabili presenti all'interno dei regolamenti urbanistici, i piani che aggiornano ogni cinque anni le previsioni di crescita edilizia all'interno delle singoli realtà comunali, si scopre infatti ci sono amministrazioni comunali veloci come il vento a costruire: tanto per fare alcuni esempi, i Comuni di Chiesina Uzzanese e Calci hanno già autorizzato il consumo del 100% dei metri quadri edificabili previsti dai rispettivi piani strutturali. Leggermente inferiore la percentuale di autorizzazioni prevista a Fauglia, in provincia di Pisa, ferma al 96,5% dei metri quadri complessivamente edificabili. La Toscana, vista dall’alto, si scopre un po’ più grigia.

Postilla

Abbiamo più volte sostenuto che la valutazioni effettuate sulla base del Corine sono fortemente sottostimate, proprio per l'ampiezza della dimensione base della ricognizione. Affinare quel metodo raggiungendo dimensioni più ridotte della cellula dimostra che l'errore non è affatto marginale: oltre il 100%!

Immaginiamo che succederà quando si arriverà ad analisi ancora più puntuali. E, soprattutto, che succederà al territorio e ai suoi abitanti se non cesseranno le politiche di totale autonomia dei comuni nel governo del territori, anche quando essi utilizzano i suoli come uno strumento per lo "sviluppo", cioè come un modo di spalmare l'edificabilità ottenendo in cambio qualche briciola di "oneri di urbanizzazione".

Titolo originale: Reclaiming the suburbs – Rescuing shopping malls – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Gli uffici centrali della Rackspace traboccavano. Nel 2007 la compagnia, che offre servizi di cloud-computing e per la rete, aveva più di mille dipendenti in centro a San Antonio. C’era gente fin nei corridoi e negli atri accampata su tavolini pieghevoli. Spesso per discutere con persone di altre divisioni si doveva cambiare edificio o organizzarsi attorno alle trombe degli ascensori. Ma anche così quando uno dei fondatori, Graham Weston, ha proposto di traslocare in un centro commerciale, c’è stato parecchio scetticismo. Un centro commerciale vuoto, dentro a un quartiere periferico, Windcrest, reso piuttosto tenebroso anche da quell’enorme cadavere lungo la superstrada.

Ma costruirsi una sede nuova avrebbe comunque richiesto parecchi anni, e l’occasione era economica. “I centri commerciali non li vuole più nessuno” spiega John Engates, responsabile settore tecnologie. Ma uno spazio così la Rackspace, e altre imprese, lo possono considerare anche come una pagina tutta da scrivere. Nel 2008 si aprivano I nuovi uffici, e si vinceva anche un premio per la riqualificazione. Adesso ci stanno più di 3.000 persone, con programmi per assumerne altre varie centinaia entro fine anno. Certo esistono ancora tantissimi centri commerciali a scatola chiusa frequentatissimi. Dopo qualche anno di astinenza, tornano i clienti. A febbraio secondo il Dipartimento del Commercio le vendite sono cresciute dell’1% rispetto a gennaio: più del previsto, e un atteso segnale di ripresa.

Ma c’erano parecchi complessi già nei guai prima della recessione, e sicuramente non sarà la ripresa a farli resuscitare. Il settore commerciale in America ha probabilmente costruito troppo, e nel quarto trimestre del 2011, secondo la National Association of Realtors, il 16,9% degli spazi non era utilizzato. I mall sono molto vulnerabili perché sono dei sistemi: se chiude il grande negozio attrattore o certi spazi restano a lungo inutilizzati ne risente presto tutto quanto. Molti sono stati realizzati nell’era eroica del modello e iniziano ad apparire del tutto improponibili. La nuova moda sono gli interventi a funzioni miste, o quelli all’aperto che sembrano un quartiere commerciale urbano. In certe città la gente inizia anche a ritornare nei vecchi distretti centrali, come da anni sognavano gli urbanisti.

Ma se gli americani tornano nei negozi, non tornano nei centri commerciali, il che lascia parecchie aree piene di scatoloni vuoti: contenitori di degrado circondati da ettari di asfalto bollente. Qualcuno diventa una superficie ideale da ricoprire di graffiti. Qualcun altro viene demolito. Ma altri ancora per fortuna trovano nuove funzioni. Ad esempio introducendo usi diversi e vari. Nel Natick, complesso di fascia superiore a Boston, si sono realizzati appartamenti in condominio. Altra idea è quella di attività diverse dal solito. Un pezzo di centro commerciale a Cleveland, Ohio, è stato destinato a verde coperto a orti, un modello che si potrebbe ripetere in tante città a sperimentare agricoltura urbana. Scuole a università sono altri possibili inquilini. La University of the Incarnate Word ha affittato alcuni spazi di un altro mall a San Antonio. Vanderbilt, in Tennessee, ha ceduto superfici a una struttura sanitaria; ai pazienti vengono anche dati dei buoni da spendere per uno spuntino nell’area ristorazione mentre aspettano il turno. Centinaia di studenti delle superiori a Joplin, Missouri, seguono le lezioni in un centro commerciale convertito, dopo che l’istituto è stato distrutto da un tornado l’estate scorsa.

Si tratta di attività più solide dei soliti negozi, che non dipendono dal passaggio. Ma convertire a nuove funzioni richiede spese, e sperimentazione. La Rackspace, per quanto la riguarda, ha investito più di cento milioni nel rifacimento degli spazi. Si sono ritagliate finestre nelle pareti, costruiti lucernari. I dipendenti si perdevano, e così le sale riunione si sono organizzate tematicamente anziché numerandole. Chi arriva nello spazio giochi poi si orienta. Ferve il dibattito interno sul conservare o no le fontane. Allan Nelson, responsabile di gestione, teme che poi qualche “Racker” entusiasta voglia fari un tuffo.

Spazi tanto contraddittori stimolano riflessioni innovative. Luoghi di incontro lungo i passaggi, delimitati dalle ex vetrine dei negozi. Una ex ribalta dei camion è stata convertita a sala presentazioni, e sollevando la grande saracinesca si può partecipare anche da fuori. Si può anche uscire dal proprio ufficio continuando a lavorare al tavolo del bar, o passare al chiosco risorse umane, o giocare a nascondino nel percorso voltato. “Non credo che lo vedano più come centro commerciale” commenta Engates. Forse qualcuno lo prenderà ad esempio.

Non c'è solo la Torino-Lione. Il governo è in procinto di decidere su un certo numero di grandi opere. L'attenzione mediatica è concentrata sul tunnel della Val di Susa, ma c'è il forte rischio che anche questi altri interventi possano rivelarsi, nel complesso, un cattivo affare per il paese e per gli equilibri di finanza pubblica del prossimo ventennio. È urgente un ripensamento che porti a scegliere progetti meno costosi, più rapidamente realizzabili e perciò più utili alla crescita.

Un certo numero di grandi opere, oltre la Torino-Lione, attende una decisione del governo. L’attenzione mediatica è concentrata sul tunnel della Val di Susa, ma è forte il rischio che queste altre opere possano rivelarsi, nel complesso, un affare non migliore per il paese e per gli equilibri di finanza pubblica del prossimo ventennio. (1)



IL CATALOGO (BREVE) È QUESTO



Alcune opere sono già state finanziate in parte, altre hanno passato la cruciale soglia dell’approvazione del Cipe. (2)
Vale la pena riflettere sulle maggiori.
Si tratta del tunnel ferroviario del Brennero, della linea ferroviaria Milano-Genova (nota come “terzo valico”, essendocene già due, e sottoutilizzati), la linea alta velocità Milano-Verona, le nuove linee ferroviarie Napoli-Bari e Palermo-Catania, tecnicamente non ad alta velocità, ma con costi unitari del tutto paragonabili, e il miglioramento in asse della linea Salerno-Reggio Calabria (forse la più sensata). Il costo totale preventivato supera i 27 miliardi di euro. Va segnalato che i preventivi non hanno avuto una verifica “terza”, come sarebbe auspicabile, dato l’ovvio e storicamente verificato incentivo per i promotori dei grandi progetti a sottostimarne abbondantemente i costi.
Vi è anche una forte intesa politica “bipartisan” per la nuova linea Venezia-Trieste, mentre non è chiaro al momento il destino del ponte sullo stretto di Messina.



SOMIGLIANZE



Quali caratteristiche hanno in comune questi progetti? Sommariamente si può dire così:

Non sono stati resi pubblici i piani finanziari: cioè non è noto quanto sarà a carico dei contribuenti e quanto a carico degli utenti. La cosa non sembra irrilevante in un periodo di grande scarsità delle risorse pubbliche.

Non sono in generale note analisi costi-benefici comparative delle opere, finalizzate a determinare una scala trasparente di priorità.

I finanziamenti non sono “blindati” fino a garantire il termine dell’opera. La normativa recente che consente di realizzarle “per lotti costruttivi”, invece che “per lotti funzionali” (vedi "Grandi opere, un pezzo per volta", e "A volte ritornano, i lotti non funzionali), rende possibili cantieri di durata infinita, come già spesso è accaduto per opere analoghe.

Si tratta di opere ferroviarie, ed è noto che la “disponibilità a pagare” degli utenti per la ferrovia è molto bassa, tanto che in generale se si impongono tariffe che prevedano un recupero anche parziale dell’investimento, la domanda, già spesso debole, tende a scomparire integralmente. Questo aspetto, su cui qui non è possibile dilungarsi, rende problematica la scelta, in presenza di risorse scarse.

I benefici ambientali del modo ferroviario non sono discutibili. Ma non è così in caso di linee nuove: le emissioni climalteranti “da cantiere” rendono il saldo ambientale molto problematico. (3)

Il contenuto occupazionale e anticiclico di tali opere appare modestissimo: si tratta di tecnologie “capital-intensive” (solo il 25 per cento dei costi diretti sono di lavoro), e comunque l’impatto occupazionale è lontano nel tempo, data la durata media di realizzazione. (4)

PROGETTO PER PROGETTO



Vediamo ora alcuni aspetti, per quanto frammentari, specifici di alcune di queste opere. La debolezza del quadro informativo di cui si dispone è un problema politico in sé: investimenti pubblici di tale portata dovrebbero essere documentati e comparati in modo trasparente ed esaustivo.
Sul “terzo valico” Mauro Moretti, amministratore delegato di Fs, si è espresso più volte mettendone fortemente in dubbio la priorità, tanto da dover essere duramente ripreso con una lettera al Sole-24Ore dall’ex-ministro Pietro Lunardi. lavoce.info ha dimostrato l'inconsistenza dell’analisi costi-benefici della linea av Milano-Venezia (vedi "E sulla Milano-Venezia i conti non tornano"), presentata con notevolissimo eco mediatico e unanime approvazione politica due anni fa, senza che mai questa dimostrazione sia stata confutata dagli autori dell’analisi. Per il tunnel del Brennero, gli austriaci da tempo esprimono perplessità sulle proprie disponibilità finanziarie. (5) Certo se l’Italia costruisse la propria metà, vi sarebbero rilevanti problemi funzionali per l’opera, in assenza della parte austriaca. Una dimostrazione di inconsistenza è stata proposta da lavoce.info anche per l’analisi costi-benefici presentata da Fs per la linea Napoli-Bari (vedi "E sulla linea Napoli-Bari corre la perdita"). Anche in questo caso, nessuna smentita è pervenuta.
Quali conclusioni trarne? Forse vale la pena di sfatare una posizione più volte emersa nei dibattiti pubblici, cioè che le infrastrutture generino nel tempo la domanda che le giustifica: il maggior flop infrastrutturale di questi anni, la linea di alta velocità Milano-Torino, costata 8 miliardi e con una capacità di 330 treni/giorno, ne porta, dopo tre anni dall’entrata in servizio, appena venti. Né si può argomentare che l’avvento del collegamento Torino-Lione ne genererebbe molti di più: le stime ufficiali (ma quelle del progetto completo, non di quello attuale, molto più modesto) parlano di meno di venti treni aggiuntivi.



UN MONDO MIGLIORE



Purtroppo, la debolezza della domanda ferroviaria (non dell’offerta, si badi) non è forse il problema maggiore. Che sta nei cantieri infiniti, consentiti dall’attuale normativa. Per ragioni di consenso si rischia di avere moltissime opere non finite in tempi ragionevoli, con costi economici stratosferici. Si pensi all’esempio del progetto alta velocità, trascinatosi in media per dieci anni invece dei cinque fisiologici: su un costo complessivo di 32 miliardi, il costo-opportunità perduto delle risorse pubbliche (usando il valore standard europeo del saggio sociale di sconto del 3,5 per cento) è stato di 3,2 miliardi (questo, ignorando gli altri extra-costi, che hanno reso l’opera non confrontabile con altre simili europee). E l’extra-costo finanziario è ovviamente assai più elevato.


Non sembra proprio il momento di andare avanti con queste logiche, evidentemente proprie di un diversa fase politica ed economica, quando è così urgente rilanciare la crescita del paese.
Ecco, la crescita. In molti invocano le grandi opere proprio per rilanciare la crescita. Ammesso che veramente ci sia un nesso forte tra opere pubbliche e crescita, appare difficile contestare che alla crescita servano di più opere socialmente utili e dal costo ragionevole che opere di utilità sociale molto dubbia ed estremamente costose. (6) Altrimenti, tanto varrebbe scavare buche e riempirle: così, almeno, si eviterebbero i probabili effetti pro-ciclici di spese ingenti inevitabilmente prolungate nel tempo.

Anche lasciando da parte i paradossi di Keynes, sarebbe raccomandabile un ripensamento serio finalizzato non necessariamente a spendere meno (anche se non sarebbe disprezzabile, visto che di soldi ce ne son pochi), ma a spendere meglio (maggior utilità sociale di ogni euro speso) e con il traguardo di risultati più vicini nel tempo, per risolvere inefficienze localizzate che sul serio limitano la crescita (si pensi ai collegamenti tra i maggiori porti e interporti e la rete ferroviaria, ai grandi nodi metropolitani ferroviari e stradali).
Ma chi avrà il coraggio di dire di no a tanti “sogni nel cassetto” di politici, banche e costruttori locali, soprattutto in vicinanza di elezioni? La risposta che affiora subito alla mente è: il governo tecnico. Speriamo bene.


(1) L'articolo è stato scritto con la collaborazione di Raffaele Grimaldi. 


(2) Si vedano le Gazzette ufficiali del 26.4.2011, 10.6.2011, 9.6.2011, 31.12.2011.


(3) Westin J. e Kågeson P. (2012), “Can high speed rail offset its embedded emissions?”, Transportation Research Part D, 17, 1–7


(4) Vedi de Rus, G. e Inglada, V. (1997), “Cost-benefit analysis of the high-speed train in Spain”, The Annals of Regional Science, 31, 175–188.


(5) Si veda Il Sole-24Ore del 20.3.2012


(6) Vedi Di Giacinto V., Micucci G., Montanaro P. (2011), “L’impatto macroeconomico delle infrastrutture: una rassegna della letteratura e un’analisi empirica per l’Italia”, in Banca d’Italia: Le infrastrutture in Italia: dotazione, programmazione, realizzazione, 21-56.

Dopo il freno alle residenze secondarie, in Svizzera continua la battaglia contro la cementificazione del paesaggio. Il parlamento ha approvato una modifica legislativa volta a ridurre la superficie edificabile. Una risposta a un'iniziativa che chiede una moratoria di 20 anni. È per proteggere le zone di montagna dall'invasione del cemento che il popolo svizzero ha accolto l'11 marzo un'iniziativa popolare per limitare la costruzione di residenze secondarie. Malgrado l'opposizione degli ambienti economici e dei partiti di destra, le città e i cantoni di pianura hanno dato un segnale chiaro a favore di una maggiore protezione del territorio. La proliferazione di nuove case non concerne però soltanto i villaggi di montagna, ma anche la pianura. Il turista potrebbe confondere la Svizzera con un enorme cantiere. Ovunque, o quasi, le casette monofamiliari o le grandi palazzine proliferano come funghi.

Una semplice impressione? Non proprio. Le cifre dell'Ufficio federale di statistica parlano di 67'750 nuovi edifici costruiti nel 2011, ossia il 2% in più del 2010. E dal 2004, sono circa 10'000 le case unifamiliari sbucate ogni anno. Questa abbondanza di costruzioni si spiega in gran parte con un livello storicamente basso dei tassi ipotecari in Svizzera. Talmente basso che il rimborso di un credito si avvera spesso meno oneroso di un affitto. «Ci sono diversi fattori che favoriscono questo boom edilizio. Tra gli altri, una legislazione che permette di utilizzare i risparmi previsti per la pensione per comprare una casa o un appartamento. A questo si aggiunge il fatto che la politica degli alloggi non è sufficientemente attiva in Svizzera. Molte persone costruiscono perché non trovano un'altra soluzione», spiega il professor Pierre-Alain Rumley, responsabile della cattedra di pianificazione del territorio e d'urbanismo all'università di Neuchâtel.

Una decina di campi di calcio

Da diversi anni ormai le associazioni ambientaliste denunciano una cementificazione del paesaggio. Ricordano che la superficie rosicchiata ogni giorno dalle nuove costruzioni corrisponde all'equivalente di dodici campi di calcio. Per frenare il fenomeno, nel 2007 hanno lanciato l'iniziativa popolare "Spazio per l'uomo e la natura". I promotori chiedono che la superficie totale delle zone edificabili non venga aumentata per un periodo di 20 anni. Per Philippe Roch, ex direttore dell'Ufficio federale dell'ambiente e membro del comitato che ha lanciato l'iniziativa, bisogna agire con urgenza. «È da 40 anni che si sente ripetere che ogni secondo viene rovinato un metro quadrato di territorio. Ma la situazione non è cambiata. Al contrario, il livello di distruzione è molto più alto».

Il consiglio federale (governo svizzero) e il parlamento respingono l'iniziativa, ritenuta troppo estrema e poco flessibile. Propongono invece un contro-progetto indiretto, sotto forma di revisione della Legge federale sulla pianificazione del territorio. La nuova legge prevede che le zone edificabili vengano definite in modo da rispondere al fabbisogno stimato per i prossimi 15 anni. Le aree edificabili già esistenti, sovradimensionate o mal situate, potrebbero perfino essere ridotte. Un'altra misura chiave della nuova normativa riguarda la tassazione. I proprietari, il cui terreno aumenta di valore in seguito a un cambiamento di destinazione, dovranno versare un'imposta del 20% sul valore aggiunto, come minimo. Il denaro raccolto servirà a finanziare nuovi azzonamenti.

Terreno sufficiente

La popolazione svizzera ha quasi raggiunto la soglia di 8 milioni di abitanti. Non è rischioso ridurre l'area edificabile? Non forzatamente. «In Svizzera ci sono attualmente 58'000 ettari sui quali non è stato costruito», ha ricordato il deputato liberale radicale Jacques Bourgeois durante il dibattito parlamentare. Pierre-Alain Rumley conferma: «Negli anni Settanta molti terreni sono stati resi edificabili e oggi possiamo contare su questa eredità. Da allora inoltre ci sono state anche delle estensioni di queste zone». Questo non significa però che non si registrino delle carenze. «Teoricamente c'è sufficiente spazio per la costruzione. Se si prende in considerazione unicamente la quantità di terreni a disposizione, c'è di che soddisfare il fabbisogno per i prossimi trent'anni. Ma esiste un problema di tesorizzazione di una parte importante di lotti che i proprietari non vogliono né vendere né edificare».

Per le associazioni ambientaliste, la soluzione passa da un'utilizzazione più efficiente degli spazi, che in termine tecnico viene definita "densificazione". «La popolazione svizzera aumenta di 70'000 persone ogni anno, ma non si tratta di disperderle chissà dove, precisa Philippe Roch. Cerchiamo di aumentare la densità nelle città e di costruire degli stabili più gradevoli. Prima di agire sulla crescita, bisogna cercare di organizzare la vita in modo da conservare un massimo di spazio e qualità di vita». Anche il professor Rumley ritiene che la densificazione sia uno degli aspetti chiave del problema, ma non per forza in città. «Negli agglomerati urbani questo processo ha già avuto luogo. Bisognerebbe poter aumentare la densità degli insediamenti nelle regioni suburbane. Si potrebbe perfino immaginare di sfruttare meglio le zone occupate da case unifamiliari, diminuire le zone con delle parcelle e cercare di farci stare una seconda costruzione, per esempio per una coppia senza figli».

Probabile ritiro dell'iniziativa

Depositata alla Cancelleria federale nell'agosto del 2008, l'iniziativa "Spazio per l'uomo e la natura" potrebbe non essere sottoposta a voto popolare. «Se il parlamento approverà la revisione della Legge federale sulla pianificazione del territorio, l'iniziativa sarà ritirata», ha dichiarato Otto Sieber, segretario centrale di Pro Natura e presidente del comitato promotore. Tra coloro che hanno lanciato l'iniziativa ci sono però anche voci più prudenti. «Chi mi garantisce che si cambierà davvero atteggiamento, dal momento in cui lo Stato federale non ha finora dimostrato una chiara volontà d'agire e i cantoni se ne infischiano, si chiede Philippe Roch. È importante che il popolo possa dire la sua, così almeno le autorità dovranno rispettare il suo volere». Il senatore ecologista Luc Recordon non è così categorico e ritiene che il contro-progetto abbia molti vantaggi. È tuttavia fuori questione ritirare l'iniziativa prima che il termine per l'inoltre di un referendum contro il contro-progetto sia scaduto. Anche se il senatore dubita che gli oppositori vogliano chiamare il popolo alle urne dopo l'adozione dell'iniziativa sulle residenze secondarie…

Titolo originale: Heathrow expansion an environmental disaster, warns Boris Johnson

Boris Johnson, attuale sindaco e di nuovo candidato per il partito Conservatore, ritiene che l’ampliamento dell’aeroporto di Heathrow sarebbe “un disastro ambientale” un po’ come “cercare di spillare una birra media nel boccale della piccola”. Johnson, che cercherà di essere rieletto a maggio, chiarisce la sua opposizione alla terza pista di Heathrow, ribadendo che “con me sindaco non si costruirà mai". Parla proprio quando sia David Cameron che George Osborne [primo ministro e ministro dell’Economia n.d.t.] dovrebbero intervenire sui programmi a lungo termine per l’aeroporto, e fra i timori che i suoi problemi stiano soffocando la ripresa economica. “Heathrow rappresenta certamente il futuro come grande aeroporto britannico. Ma non possiamo ampliarlo all’infinito, in un contenitore che infinito non è” continua Johnson. "La terza pista è un disastro ambientale. Significa un enorme incremento negli aerei che sorvolano Londra, intollerabile traffico e scarichi: non si farà finché sono sindaco. È giusto che il governo esamini tutte le possibili soluzioni per aumentare la capacità dei trasporti aerei, salvo con quella terza pista. E aspetto di confrontarmi con Justine Greening (ministro dei Trasporti) durante l’estate".

Questa marcia indietro di Johnson su Heathrow potrebbe risultare imbarazzante per qualcuno che come lui si presenta all’elezione a sindaco “unico candidato in grado di trattare al meglio per Londra con Downing Street". Perché Johnson si è certo opposto alla terza pista, ma ha sostenuto negli ultimi quattro anni la realizzazione di un nuovo hub aeroportuale nell’estuario del Tamigi, presentandola come soluzione economica per il territorio del sud est. Il governo conferma che si studierà la questione, ma Johnson dichiara al Guardian che nonostante il suo impegno, “al contrario di quanto si crede io non sono affatto legato a doppio filo con qualche lontano arcipelago nell’estuario del Tamigi" [l’aeroporto dovrebbe realizzarsi su un sistema di isole, secondo il progetto dello studio Foster n.d.t.]. Johnson si dichiara aperto all’incremento della capacità aeroportuale in vari casi, come Gatwick o Stansted. Ma il ministro Justine Greening ha già escluso queste possibilità in parlamento. Il candidato laburista a sindaco Ken Livingstone si oppone a qualunque incremento delle capacità nell’area della Grande Londra, senza escludere un ampliamento a Stansted se il mondo economico dimostrerà l’effettiva necessità di nuovi voli. Ha invece sottolineato le grandi potenzialità del nodo ferroviario “Crossrail 2-3” per aumentare i servizi di trasporto a Londra.

postilla

Proviamo a spostarci anche un po' oltre le questioni specifiche, elettorali e non, londinesi. Giusto in questi giorni sui giornali italiani, variamente mescolato alle crisi politiche e di potere delle varie Lega o Comunione e Liberazione, risalta fuori il caso di Malpensa, col progetto di terza pista ancora vivo mentre pare invece morto e sepolto il traffico aeroportuale, tornato verso il city airport di Linate, forse grazie anche alle prospettive di Expo e relativi interventi infrastrutturali. E non passa giorno senza che non si parli, in qualche angolo della penisola, degli incredibili svarioni inanellati dall’approccio localista a un tema per propria natura per niente locale, come il trasporto aereo e la rete integrata delle infrastrutture, per non parlare di quella parallela dell’approvvigionamento energetico: i carburanti, come vengono prodotti (col land grabbing nei casi migliori?), quanto contribuiscono alle emissioni ecc. Ecco: forse un maggior sbilanciamento verso questo tipo di approccio sistemico, anziché la solita indignazione per mazzette o ecomostri tascabili, magari aiuterebbe. Se non altro l’esempio di Heathrow un po’ insegna (f.b.)

Ci vuole tanto coraggio per venire a parlare di smart city a chi non ha più una city perché un terremoto se l´è portata via ormai tre anni fa. Ci vuole tanto ottimismo per parlare di soluzioni intelligenti a chi in questi anni ha subito la stupidità di chi poteva decidere per il bene comune e non lo ha fatto. I professoroni sbarcati ieri a L´Aquila sono giovani, coraggiosi e ottimisti. Lavorano per l´Ocse, l´organizzazione mondiale per lo sviluppo e la cooperazione economica. Vengono da dieci paesi e cinque continenti. Dicono con entusiasmo frasi come "L´Aquila is beautiful" oppure, in italiano, "vi porto i saluti degli abruzzesi della Nuova Zelanda", e pensano che questo possa lenire le ferite del cuore. Sembrano ingenui ma non è così. Per molti mesi, mentre qui tutto era fermo, hanno studiato la situazione, hanno fatto tante interviste e ieri si sono presentati con un piano. Un grande piano.

Si chiama "Abruzzo verso il 2030: sulle ali dell´Aquila", ovvero "come rendere una regione più forte dopo un disastro naturale". La parola magica è smart city. Ovvero la città intelligente. La terra promessa attorno a cui lavorano in tutto il mondo architetti, ingegneri, ambientalisti per costruire un pianeta migliore.

Un modello chiaro e definito di cosa sia una smart city ancora non esiste, ma l´Unione Europea ha stanziato svariati miliardi di euro per spingere almeno trenta città europee a diventare smart entro il 2020: tra le città italiane Genova ha appena vinto la gara con Torino aggiudicandosi i primi tre lotti. Ma è solo l´inizio. Il ministro Profumo ha messo sul tavolo altri 200 milioni per chi volesse realizzare progetti "smart" in alcune regioni del Centro sud. Intanto il progetto dell´Expo 2015 ha abbandonato la via degli orti urbani e preso con decisione quello della smart city ottenendo così i soldi e la tecnologia di Telecom, Cisco, Accenture, mentre altri nove partner sono in arrivo per un totale di 400 milioni di euro di fondi privati da investire in un quartiere di Milano.

Cosa vuol dire "smart"? Vuol dire meno traffico, meno inquinamento, energia pulita, niente file e tante altre bellissime cose. Il presupposto è dare Internet a tutti, persone ma anche oggetti: lo scenario sono migliaia di sensori che mandano dati in tempo reale a supercomputer che li analizzano trovando soluzioni per farci vivere meglio in città sempre più affollate. Ma non basta Internet a rendere una città intelligente. Contano anche i materiali (più legno meno cemento, per esempio). E i comportamenti delle persone: con azioni stupide è impossibile avere una città intelligente. Insomma come ha spiegato qualche giorno fa il direttore del centro Nexa, il professor Juan Carlos De Martin, "una città digitale non è necessariamente smart, mentre una città smart è necessariamente digitale".

Ma torniamo al piano. Oggi i professoroni guidati dagli olandesi della università di Groningen lo presentano in pompa magna nei laboratori dell´Istituto Nazionale di Fisica Nucleare del Gran Sasso, uno dei gioielli della ricerca italiana. Uno dei pochi simboli felici della regione. Non sarà un momento banale: nel corso della giornata è atteso anche il presidente del Consiglio Mario Monti che secondo molti verrà a mettere il sigillo del governo sul progetto "L´Aquila Smart City" dopo che anche Expo2015 ha detto di voler mettere a disposizione le proprie soluzioni tecnologiche per la ricostruzione. Vedremo se sarà così.

Ieri pomeriggio intanto il piano è stato anticipato agli aquilani. Si chiama strategia di "condivisione e partecipazione". O anche "ricostruzione dal basso". Serve a creare consenso, ma anche a fare piani migliori. L´appuntamento era alle tre del pomeriggio nel ridotto del teatro comunale, proprio nel centro storico sventrato, tra macerie e transenne che sembrano eterne, come fossero monumenti alla nostra incapacità di ripartire. La sala era strapiena, gonfia di umori cattivi e con qualche speranza che affiorava negli applausi convinti dopo i discorsi dei professori Ocse, così belli e astratti a volte.

In ventesima fila, come un cittadino qualunque, c´era Fabrizio Barca, che non è solo il ministro che ha avuto dal premier Monti la delega ad occuparsi della ricostruzione. È anche l´artefice del piano l´Aquila Smart City. La storia è questa. L´idea di una ricostruzione intelligente non è venuta ai signori dell´Ocse, ma ai giovani architetti aquilani. Meno di un mese dopo il sisma si sono costituiti in una associazione che hanno chiamato "Collettivo 99", dove collettivo non ha il senso di una collocazione politica, ma solo di un lavoro comune, tengono a precisare; mentre 99 è il numero che rappresenta la storia dell´Aquila, i castelli della fondazione, le piazze, le fontane. Insomma i giovani architetti aquilani, mentre il governo Berlusconi e la Protezione Civile di Bertolaso allestiscono in fretta case provvisorie e danno il via alla solita ricostruzione all´italiana, scrivono documenti su documenti per dire che il dramma del terremoto può essere una opportunità, perché con le nuove tecnologie si può ricostruire una città migliore, con spazi comuni diversi, verde ed energia al centro di tutto. Una smart city. Naturalmente non li ascolta nessuno.

Ma in qualche modo riescono a far sì che una parte degli otto milioni di euro raccolti da sindacati e Confindustria, in un fondo di solidarietà, vengano usati per uno studio strategico. Così arrivano al ministero dello Sviluppo Economico e lì intercettano Barca, che allora era un alto dirigente con eccellenti contatti all´Ocse. Il piano parte così. Per questo alla fine non è tanto diverso dalle cose che scrivevano gli architetti aquilani. In più dice tre cose. Indire una gara internazionale per la ricostruzione. Candidare l´Aquila a capitale europea della cultura del 2019. Diventare un laboratorio mondiale di innovazione.

Poi si sono alzati i cittadini aquilani. Con il dolore impresso sul viso e nella voce la rabbia per essere stati ignorati finora. Hanno detto che L´Aquila intelligente è una cosa bella, certo, ma prima di tutto vogliono tornare a dormire in una casa. Prima di tutto.

Postilla

Abbiamo valutato molto criticamente il documento che ha prodotto l’evento dell’Aquila, cui la Repubblica (giornale ormai filogovernativo come pochi altri) dà ampio e beneaugurante spazio. La cronaca conferma le ragioni della nostra critica. Il debolissimo documento dell’OCSE è un testo che è stato adoperato identico in molte occasioni, e per L’Aquila è stato completato con alcuni inserti: quelli appunto che accreditano la positiva “innovazione” di un intervento per l’edilizia storica che si imita a conservare le facciate demolendo il resto, che considera meritevoli di una qualche tutela solo i “monumenti” demolendo “l’edilizia minore”, che promuove l sostituzione del paziente lavoro dell’urbanistica, della storia e del restauro con l’intervento “creativo” degli architetti, magari mobilitati da un concorso internazionale.

Ma come ha osservato un nostro redattore, ciò che conta non è il documento, ma gli sponsor. E gli sponsor sono preoccupanti: il governo, la Confindustria, le organizzazioni regionali e provinciali della Cgil, Cisl, Uil; uno schieramento molo ampio. In un clima certamente più civile e “internazionale” di quello della precedente gestione B&B, anzichè introdurre nel pensiero corrente che per salvare l’Italia servono le “new towns” in salsa di Arcore, vi si vuole introdurre la convinzione che per rendere “smart” le città occorre cancellarne la memoria storica.

Insomma, un grande evento pieno d’”intelligenza” per accreditare l’idea che i centri storici si possono “ristrutturare”; l’”Aquila smart city” per cancellare la Carta di Gubbio.

Tra i documenti sulla Carta di Gubbio vedi, su eddyburg, 1960 La Carta di Gubbio, Attualità della Carta di Gubbio, La tutela del centro storico e la pipa di Magritte, Centri storici: assicurare la tutela, garantire la viibilità. Altri ne trovi inserendo le parole "carta di gubbio" nel "cerca" che sta nella testata di tutte le pagine

È tempo di abbandonare la furiosa polemica ideologica sul Tav e – grazie a una moratoria – ripristinare un confronto politico sulle scelte strategiche nel campo dei trasporti e delle infrastrutture. Per un nuovo modello di sviluppo

Uno degli argomenti più usati nella battaglia mediatica intorno al Tunnel di Base della Valsusa è che si è perso molto tempo a discutere dagli anni ’90 e soprattutto dal 2005 ad oggi, che tutte le mediazioni sono state fatte e adesso bisogna procedere decisi con un’opera utile e strategica che l’Europa ci chiede.

A noi pare giusto che prima di fare un tunnel nelle Alpi di 57 km con una nuova linea ferroviaria, in una situazione di gravissima crisi economica e di tagli “per tutti”, si discuta e si capisca se si sono davvero prese in considerazione tutte le opzioni possibili, se l’opera serva e se l’ordine di priorità stabilito sia quello giusto. Del resto, questa riflessione si sta riaprendo anche in Francia. Il problema, però, è che la discussione che si è svolta in questi anni, a cui anche i Verdi hanno dato un contributo rilevante, è stata in qualche modo “truccata” e che molto tempo si sia perso e si stia ancora perdendo dietro questo “trucco”. Se è vero infatti che l’Osservatorio ha lavorato e prodotto proposte interessanti e pregevoli che oggi vengono riproposte anche nel documento presentato da uno dei leader della battaglia della Valsusa, Antonio Ferrentino, è anche vero che Mario Virano non ha mai accettato di includere nel lavoro dell’Osservatorio un confronto sull’effettiva utilità del Tunnel di base e le possibili alternative. Eppure questo confronto è ancora necessario e possibile, oggi più che mai. Perché rispetto a 15 anni fa i tempi sono cambiati ed è dimostrato che le infrastrutture grandi e costose non sono necessariamente portatrici di sviluppo e lavoro e il traffico non vi si trasferisce “magicamente”. Perché dal 2005 a oggi i flussi di traffico merci sono diminuiti su quella linea e perché, come ben hanno sottolineato i 360 tecnici e professori che hanno sottoscritto l’appello a Monti, non è mai davvero stata fatta un’analisi di sostenibilità ambientale, trasportistica e finanziaria dell’opera, come non si fa del resto per nessuna “grande” opera in Italia.

Noi, come ecologiste, siamo fra coloro che non hanno mai escluso la possibilità che se avvenisse davvero il trasferimento modale, se la linea si avvicinasse alla saturazione, allora si potrebbe considerare l’esigenza di una nuova linea ferroviaria e di un tunnel alpino. In questo senso, è davvero discutibile puntare sul progetto «low cost» che esclude proprio le cose più urgenti, cioè le politiche e i nodi urbani, e si concentra solo sul tunnel di base. Dobbiamo perciò convincere gli interlocutori più ragionevoli e i tecnici del governo che, poiché assolutamente nulla è stato fatto verso una politica dei trasporti sostenibile, allora puntare oggi sul Tunnel è un inutile spreco. Da qui la nostra richiesta al governo e al Parlamento di aprire un dialogo anche con i 360 tecnici e professionisti che gli hanno inviato un appello, con i con i sindaci della Valle e con gli ambientalisti.

Pensiamo poi che alcune recenti prese di posizione, in particolare da parte del Pd, sulla necessità di una svolta nella politica dei trasporti siano interessanti e possano aprire una breccia nel “muro contro muro” attuale; e riteniamo che ci siano in particolare quattro cose che si possono avviare subito per dimostrare che si fa sul serio: riaprire immediatamente la procedura di ratifica del Protocollo Trasporti della Convenzione delle Alpi stralciata in Parlamento, rivedere le politiche di sostegno generoso all’autotrasporto (che hanno ricevuto anche di recente circa 500 milioni di euro di incentivi, mentre si taglia tutto il resto), restituire le risorse per la mobilità urbana (decurtate del 20% nel 2011) e destinare i fondi promessi ai treni e ai servizi per i pendolari. Se questo non si farà, allora l’attuale discussione è solo una foglia di fico per coprire il vero obiettivo che è quello di imporre il tunnel subito e comunque, necessario o no.

Da questo punto di vista, non bisogna neppure dimenticare che della “svolta” nella politica dei Trasporti deve assolutamente far parte un serio ripensamento delle infrastrutture autostradali previste, in gran parte non utili e molto onerose per lo Stato e per i cittadini, e il progetto del Terzo Valico ferroviario Milano-Genova, che presenta dal punto di vista finanziario (7 miliardi di euro), trasportistico e ambientale delle criticità non dissimili dal Tunnel della Valsusa. Anche in quel caso si parte dal “foro pilota” per scavare un “buco” nella montagna, che non solo è stata occasione di malversazioni, violazioni di legislazioni ambientali e reati vari, ma ha anche condizionato fortemente la scelta del progetto definitivo, che adesso si intende fare partire in tempi brevi, pur in assenza, anche in questo caso, del finanziamento complessivo dell’opera.

Dunque l’urgenza di aprire subito il cantiere di Chiomonte (dove per la cronaca nessun lavoro è davvero cominciato come si evince dal rapporto dei deputati europei che hanno visitato la zona il 10 febbraio scorso) non sta in piedi, visto che è un’opera propedeutica al Tunnel di base, che non è prioritario. Che senso ha sprecare allora adesso milioni di euro? Non è meglio spenderli in quelle politiche e aggiustamenti infrastrutturali di cui si parla? Contrariamente ad Antonio Ferrentino, riteniamo perciò che la proposta di una moratoria, come richiesto anche nell’appello promosso da Don Ciotti qualche giorno fa, sia il presupposto necessario per poter avviare quella svolta della politica dei trasporti che molti oggi auspicano.

Ultima considerazione: si continua a dare per scontato che secondo il nuovo regolamento in corso di approvazione l’Ue finanzierà per il 40% il Tunnel di base e che è urgente dimostrare che l’Italia non ha dubbi sul tunnel e potrà presentare un progetto sostenibile per concorrere ai nuovi fondi nel 2014. Anche l’accelerazione sul tunnel di Chiomonte si spiega perché l’Ue, che ha già ridotto il finanziamento di 643 milioni di euro deciso nel 2007, deve vedere che le cose si muovono per poter erogare i fondi stanziati fino a fine 2013. Da qui i numeri fantasiosi che si succedono in documenti anche ufficiali. In realtà la Ue terminerà il processo legislativo sulle Linee guida TEN-T 2014/2020 e le decisioni di bilancio Connecting Europe Facility tra non meno di 12/15 mesi e la battaglia su quanto e cosa finanziare deve ancora cominciare. Ogni progetto verrà esaminato sulla base del livello di avanzamento e della sua sostenibilità finanziaria e ambientale. Oggi siamo ancora al progetto preliminare del Tunnel di base. Secondo le nuove regole europee sarà necessario fare il progetto finale corredato da una VAS e da un piano finanziario credibile di diversi miliardi di euro per Italia e Francia. Ed esistono numerosi e fondati dubbi sulla capacità dell’Italia di assicurare il reale e puntuale cofinanziamento di un’opera cosi pesante. Poi bisognerà allocare i lavori. Prima di qualche anno nulla potrà partire davvero, anche se fossimo in una situazione di totale accordo su tutto, e non lo siamo di certo.

Perché allora non ammettere che i tempi saranno comunque molto lunghi? Perché non utilizzare il periodo delle prossime prospettive finanziarie europee per avere il sostegno della Ue per l’adeguamento e la velocizzazione della linea esistente, ivi incluso l’adeguamento del tunnel a treni container, cosa che era già prevista ma ancora non è realizzata? Perché non includervi anche una richiesta sul nodo di Torino, dato che anche le linee adiacenti alle tratte internazionali potranno verosimilmente concorrere al finanziamento europeo, anche se per una percentuale molto minore che per le tratte di confine (20% al massimo)? Perché, insomma, non metterci d’accordo subito su cosa fare nei prossimi 10 anni e mettere fra parentesi la battaglia sul Tunnel? È necessario rimettere al centro del dibattito le politiche e le reali priorità infrastrutturali della tratta Lione-Torino anche nell’ambito più vasto della discussione in corso in Europa (ma non ancora in Italia) sui valichi alpini, sul trasferimento modale, sulle priorità della mobilità che deve diventare sempre più sostenibile e in linea con gli obiettivi europei di riduzione delle emissioni e dell’impatto sul territorio.

I tempi dunque ci sono per la moratoria e per ripristinare un confronto politico sulle scelte strategiche nel campo dei trasporti e quelle più specifiche sull’infrastruttura, confronto che non può prescindere da una discussione sul modello di sviluppo per il futuro del nostro paese, abbandonando da ogni parte la furia della polemica ideologica.

Dal ministro Ornaghi ai professori di storia dell’arte, ecco perché tutti noi dovremmo andare a visitare la città distrutta dal terremoto

Uno spettro non si aggira per l’Aquila. È l’ombra-ministro per i Beni culturali, il professor Lorenzo Ornaghi. Chissà se questo prudente assenteismo si deve al fatto che uno degli uomini più discussi della “ricostruzione”, il vicecommissario Antonio Cicchetti (il gentiluomo di Sua Santità che – come ha raccontato da ultimo Gian Antonio Stella – si è costruito, tra le macerie, un super-resort di lusso) è stato a lungo il direttore amministrativo di quell’Università Cattolica di cui Ornaghi è ancora il rettore, anche se temporaneamente in sonno. Fosse andato all’Aquila, il ministro avrebbe capito in una frazione di secondo che tutte le ciance sui Leonardi perduti, sulle costituenti della cultura-che-fattura, sul “brand Italia” e sulle sponsorizzazioni del Colosseo sono solo diversivi indecorosi, e che l’unico atto simbolico che in questo momento avrebbe un senso sarebbe trasferire la sede del Ministero all’Aquila, e mettersi a combattere in prima linea per la città martire del patrimonio storico e artistico della nazione italiana.

La situazione dell’Aquila supera, infatti, anche la più catastrofica immaginazione. Il centro storico è una città spettrale, dove nessun cantiere è in funzione, nessuna pietra è stata ricollocata (e anzi molte sono state rubate), e dove le meravigliose e immense chiese monumentali (a cominciare dal Duomo) sono spesso ancora a cielo aperto, o sono protette da ridicoli teli, dunque in preda alla pioggia e alla neve.

Piero Calamandrei ha scritto che «una parte della nostra Costituzione è una polemica contro il presente»: ecco, camminare per l’Aquila permette di capire che l’articolo più polemico è, oggi, l’articolo 9. All’Aquila, infatti, la Repubblica ha sistematicamente tradito se stessa, rinunciando radicalmente a «tutelare il patrimonio storico e artistico della nazione italiana».

Ma com’è possibile che quasi nessuno denunci più che a pochi chilometri da Roma si entra in un mondo parallelo, dove la Costituzione, la legge e la civiltà semplicemente non esistono? Il vicecommissario con delega ai Beni culturali, Luciano Marchetti, risponde che i conflitti di competenze, la litigiosità degli aquilani (sic) e la mancanza di fondi bloccano la ricostruzione. Ma lo dice con tono svagato, in un ineffabile misto di rassegnazione e cinismo burocratico: e si capisce subito che, di questo passo, fra trent’anni il centro dell’Aquila sarà ancora in queste condizioni. Ha dunque ragione da vendere Italia Nostra, che chiede le dimissioni del commissario (che ci sta a fare, se da tre anni non riesce a far nulla?), il ritorno alle competenze ordinarie delle soprintendenze (a cui Ornaghi dovrebbe fare massicce trasfusioni di personale e mezzi, se solo tutti i suoi predecessori non avessero ridotto il Mibac al lumicino), e l’avvio immediato dei lavori di ricostruzione. Mancano i soldi? Ornaghi dovrebbe battere allora il pugno sul tavolo del Consiglio dei Ministri: uno dei venti capoluoghi di regione italiani è in fin di vita, e non c’è più molto tempo se vogliamo salvarlo.

Ornaghi non è l’unico che dovrebbe andare all’Aquila. Dovrebbero farlo innanzitutto gli storici dell’arte delle università e delle soprintendenze italiane. Perché magari si renderebbero conto che continuare a gettare denaro ed energia nella spensierata industria delle mostre e dei Grandi Eventi è ora doppiamente criminale: proprio come organizzare una festa da ballo mentre il cadavere di un fratello giace nella stanza accanto.

Ma è a tutti gli italiani che farebbe bene vedere l’Aquila. È terribilmente illuminante visitare nelle stesse ore un’intera città monumentale distrutta e abbandonata, e le “new towns” imposte da Berlusconi e Bertolaso, cioè gli insediamenti, sorti intorno alla città, che accolgono quindicimila dei quasi trentamila aquilani che vivevano in quel centro. Sono non-luoghi di cemento che sembrano immaginati da Orwell: anonimi, senza servizi, senza negozi, senza piazze. Con i mobili uguali in ogni appartamento, in comodato come tutto il resto. E con giganteschi televisori-alienatori che fanno da piazze e monumenti virtuali per un popolo che si vuole senza memoria, senza identità e senza futuro: e, dunque, senza la rabbia per ribellarsi. Ma l’Aquila non è solo la metafora dell’Italia, rischia di rappresentarne anche il futuro: quello di un Paese che affianca all’inarrestabile stupro cementizio del territorio la distruzione, l’alienazione, la banalizzazione del patrimonio storico monumentale, condannando così all’abbrutimento morale e civile le prossime generazioni.

Nell’ Epopea aquilana del popolo delle carriole (Angelus Novus Edizioni 2011), Antonio Gasbarrini racconta che la notte del 6 aprile 2009 (più o meno all’ora in cui qualcuno, a Roma, sghignazzava pensando alla pioggia di cemento e denaro), sua figlia arrivò sconvolta, dal centro della città, e gli disse solo: «L’Aquila non c’è più». A tre anni esatti, è ancora così. L’Aquila non c’è più: ma se possiamo continuare a dormire sapendo tutto questo, allora è l’Italia a non esserci più.

E così il governo tira finalmente fuori alcune risposte ai dubbi sul Tav Torino-Lione. Posto che una seria valutazione non si fa a colpi di comunicati e dibattito sui giornali, ma attivando una apposita commissione tecnica indipendente, accenniamo qui ad alcune obiezioni. Secondo il team tecnico della Comunità Montana Valli Susa e Sangone, i 14 punti appaiono “affrettati, superficiali, parziali e qua e là inesatti; in ogni caso mancano i riferimenti agli studi che dovrebbero esserne la base e che, se esistono, continuano a essere coperti da segreto di Stato”. Il riferimento alla riduzione delle emissioni di gas serra e ai benefici ambientali dell’opera non è credibile, in quanto la letteratura scientifica internazionale attribuisce a opere simili pessime prestazioni energetiche e qui si afferma il contrario senza fornire un’Analisi del Ciclo di Vita (LCA) o un semplice bilancio di carbonio verificabile, invocati da anni.

Il nuovo tunnel di base, tra energia e materie prime spese in fase di realizzazione ed energia di gestione, inclusa quella per il raffreddamento dell’elevata temperatura interna alla roccia, produrrebbe più emissioni della linea storica a pieno carico di merci e passeggeri, in palese contrasto con gli obiettivi europei di efficienza energetica 20-20-20. Per limitare l’impatto psicologico e diluire quello finanziario a carico dei contribuenti si tende nei 14 punti a frammentare l’opera in sezioni indipendenti più piccole, che tuttavia non permetterebbero da sole di raggiungere le prestazioni promesse. Un esempio: si dichiara una riduzione dei tempi di percorrenza tra Torino e Chambéry pari a 79 minuti, solo grazie al nuovo tunnel di base, rimanendo invariati i raccordi. Ma tale risultato è irraggiungibile senza la realizzazione dell’intera tratta, in quanto implicherebbe velocità prossime ai 500 km/h in tunnel a fronte di una velocità di progetto di 220 km/h. Delle tre ore di riduzione tempi di percorrenza sulla tratta Parigi-Milano enunciate al punto 6, già ora circa 40 minuti sarebbero recuperabili facendo transitare i TGV sulla nuova e sottoutilizzata linea ad alta velocità Torino-Milano, sulla quale tuttavia i treni francesi non sono ammessi per discutibili scelte sui sistemi di segnalamento, che pure l’Europa individua come primo fattore da armonizzare per le reti transeuropee. Al punto 11 si arriva addirittura ad affermare che “il progetto non genera danni ambientali diretti ed indiretti” il che è ovviamente impossibile, un’opera di questo genere presenta inevitabilmente enormi criticità ambientali e sanitarie, evidenziate perfino nelle relazioni progettuali LTF, che si può tentare di mitigare e compensare, ma non certo eliminare. L’unico modo per non avere impatti “nel delicato ambiente alpino” è lasciarlo indisturbato!

I posti di lavoro promessi, oltre che sovrastimati, riguarderebbero principalmente gli scavi in galleria, dunque notoriamente temporanei, insalubri e di modesta qualificazione professionale, in genere coperti da emigrati da paesi in via di sviluppo. Le prestazioni della linea esistente vengono minimizzate sulla base della vetustà e non delle sue effettive capacità. Nel 2010 infatti la linea attuale è stata utilizzata a meno del 12% delle sue potenzialità. Un tunnel è un tunnel, non può essere né vecchio né nuovo allorché svolge la sua funzione di condotto. Il Frejus, benché ultimato nel 1871, a differenza di quanto affermato al punto 8 “dove non entrano i containers oggi in uso per il trasporto merci” è stato recentemente ampliato per consentire il passaggio di container a sagoma GB1 (standard europeo), spendendo poco meno di 400 milioni di euro. Non è chiaro perché il collaudo tardi ancora o, se c’è stato, perché permangano i limiti preesistenti ai lavori. Quanto alla pendenza della linea storica, indicata al punto 6 nel 33 per mille, si rileva che il valore medio è attorno al 20 per mille, e solo 1 km raggiunge il 31 per mille e non il 33. L’energia spesa per raggiungere la quota massima del tunnel del Frejus a 1335 metri viene inoltre in buona parte recuperata nel tratto di discesa.

Si ricorda che negli Stati Uniti l’unico tunnel che attraversa il Continental Divide nelle Montagne Rocciose del Colorado, il Moffat Tunnel, lungo 10 km, è a binario unico e culmina a ben 2817 m, e dal 1928 viene ritenuto ancora perfettamente efficiente. In conclusione: c’è già una ferrovia funzionante lungi da essere paragonata a una macchina da scrivere nell’era del computer; l’attuale domanda di trasporto è enormemente inferiore alla capacità della linea; costruire un’altra linea in megatunnel costa una cifra spropositata in un momento così critico per la nostra economia; l’Europa non ci ha imposto niente, tant’è che non ha ancora deciso se finanziare o meno il tunnel di base; la valutazione di impatto ambientale dell’intero progetto non è mai stata effettuata; l’analisi completa costi-benefici non è ancora stata pubblicata; il bilancio energetico non è disponibile. E nel frattempo, intorno alla torta si affollano anche troppi commensali, tutti interessati a partire con i lavori, non importa come, purché si cominci a scavare.

Se ne sentono di tutti i colori sulla bocca dei sostenitori della Tav Torino-Lione. Il luogo comune più gettonato è il richiamo alle decisioni democraticamente assunte che non possono essere bloccate da una minoranza (per di più violenta). Bene, parliamone, guardando agli atti.

Chi e come ha deciso la realizzazione del “cunicolo esplorativo” per il quale a Chiomonte si sta procedendo manu militari alla occupazione dei terreni sui quali aprire il cantiere per la sua realizzazione?

Nell’avviso pubblico del 2010 con il quale si è avviato il procedimento, LTF dichiara testualmente: “Che il cunicolo esplorativo de La Maddalena è progettualmente necessario ai fini della realizzazione del collegamento ferroviario Torino-Lione che rientra nell’ambito del primo Programma delle Infrastrutture Strategiche di cui alla Deliberazione del 21 dicembre 2001, n. 121/2001 (Legge Obbiettivo) del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE)”.

Il procedimento è stato avviato ai sensi dell’art.165 e 166 del D.Lgs 163/2006 e cioè grazie a “norme speciali”, in deroga a quanto stabilito dalle direttive europee e le norme nazionali di recepimento in materia di opere pubbliche, applicabili alle opere incluse nel “Programma delle Infrastrutture Strategiche” definito con la delibera Cipe 121/2001 e dalle successive modifiche ed integrazioni.

In particolare il comma 9 dell’art. 165 consente di realizzare opere propedeutiche, cunicoli esplorativi, in quanto utili per la definizione del progetto delle opere incluse nella legge obbiettivo. A parte il fatto di considerare una galleria di oltre sette chilometri e del diametro di oltre sette metri un cunicolo esplorativo, la norma (che non ha riscontri in nessun altro paese europeo) affida al Ministro delle Infrastrutture “la decisione ed il rilascio delle autorizzazioni per lo svolgimento delle attività relative, ivi inclusa l’installazione dei cantieri e l’individuazione di siti di deposito”.

Il Ministro in carica nel 2010 era Altero Matteoli, ma pare che la decisione sia in realtà precedente. Infatti questo millantato nuovo progetto (altro ritornello dei pasdaran sitav) non è altro che quello stesso per il quale l’impresa della legacoop, la CMC di Ravenna, tentò l’apertura del cantiere a Venaus nel dicembre del 2005. La nuova galleria della Maddelana che oggi prevede l’imbocco a Chiomonte (guarda caso uno dei pochissimi comuni della valle favorevole alla TAV) anziché a Venaus (contrario alla TAV come la stragrande maggioranza dei comuni) è definita nei documenti depositati da LTF come “Variante della galleria di Venaus”. E che il cantiere che nei prossimi giorni si tenterà di aprire sia lo stesso di 6 anni fa è confermato anche dal fatto che ad aprirlo sarà la stessa impresa alla quale era stato affidato l’appalto per la galleria di Venaus, la CMC di Ravenna.

Chi ha deciso ed autorizzato la realizzazione di questa opera propedeutica per la progettazione della Torino-Lione è stato il Ministro in carica nel 2005, Pietro Lunardi, quello che consigliava la convivenza con la mafia, nessun altro.

A Chiomonte la CMC ancora non si è vista perchè quello presidiato dalle forze dell’ordine è un semplice insediamento militare. Il cantiere forse si tenterà di aprirlo nei prossimi giorni e dunque, forse, arriverà anche la CMC. La Comunità Montana valsusina aveva denunciato alle Autorità competenti anche questa anomalia. LTF dovrà spiegare alla Comunità Montana, e sarebbe il caso alle Autorità competenti, le ragioni per le quali quello che oggi viene millantato come un nuovo progetto viene realizzato dallo stesso appaltatore del vecchio progetto senza alcuna nuova gara e con un prezzo quasi doppio.

I paladini della democrazia la smettano di cianciare di decisioni assunte dalla maggioranza dei cittadini. L’opposizione a quel cantiere, formalmente contestato dalla Comunità Montana, fino a prova contraria, è l’opposizione dei rappresentanti democraticamente eletti dai Valsusini contro un cantiere deciso ed autorizzato da Pietro Lunardi, un ministro tecnico, non votato dai cittadini, scelto e nominato da Silvio Berlusconi.

Quasi un plebiscito sul corso Buenos Aires. Crescono i sì alla chiusura al traffico domenicale della strada commerciale, una volta al mese, in via sperimentale. E anche l'apertura domenicale dei negozi. Ma sale anche lo scontro con chi rimane fortemente contrario. Intanto è pronta la trasformazione dell'intera area commerciale in Duc, Distretto urbano del commercio, come già sono Navigli e Sarpi. Quella sarà la sede, spiegano a Confcommercio, dove prendere le decisioni, con Regione, Comune, associazioni commercianti e Zona.L'ultimo sondaggio è quello fatto in prima persona dal presidente di Zona 3, Renato Sacristani, il quale in due settimane ha bussato porta a porta a 206 negozi. In 101 hanno firmato, scrive nel rapportino conclusivo, «prendendo una posizione»: 78 sì alla sperimentazione, 15 contrari, 8 astenuti.

Mancano ancora all'appello le posizioni di 105 esercizi che dipendono dalle grandi catene distributive. Arriveranno nei prossimi giorni, via email. Sacristani, però, ha una certezza: «Già risulta che l'atteggiamento generale di firme come Feltrinelli, Zara, Chicco, Oviesse, Camicissima, H&M, Mango, Benetton, Geox sia orientato verso la posizione di favore della chiusura al traffico privato». Il principale oppositore all'iniziativa, Gabriel Meghnagi, dell'associazione Ascobaires, non fa passi indietro: «Questo non è un referendum politico. Sarà il Duc a decidere. Lì contano i voti. Potrei rimanere da solo io, viceversa potrebbe perdere Sacristani. Rimango della mia idea. E sono anche convinto che qualche commerciante abbia detto sì al presidente di Zona e sì a me, abbia voluto accontentare tutti». La chiusura al traffico, insiste Meghnagi, si dimostrerà un disastro.

Se qualcosa i due distinti sondaggi, Zona e Confcommercio, doveva certificare è la spaccatura della via. Luigi Ferrario, che rappresenta l'associazione ultima nata, «Buenos Aires Futura», invita a una riflessione: «Noi gli affitti dobbiamo pagarli e dobbiamo per questo fare gli incassi. Anche se l'arcivescovo Scola e ora pure il sindaco Pisapia si sono espressi contro il lavoro domenicale, per noi è evidente che la domenica è un giorno di forte shopping. La gente viene con piacere in Buenos Aires. Siamo convinti che arriverà anche se dovrà spostarsi con il metrò, in bici, a piedi».

Un problema, però, la spaccatura in due del corso, rischia di causarlo. E lo sottolinea proprio Sacristani: chi rappresenterà i commercianti nel Distretto urbano del commercio: «Tra poco si dovrà eleggere un Duc per Corso Buenos Aires e vie limitrofe. È legittimo chiedersi chi rappresenterà i commercianti, visto che Ascobaires, su una questione così importante, è difficile che ottenga più del 15% dei consensi. La storia curiosa è che alcuni di coloro, che in un primo momento avevano seguito le indicazioni di Ascobaires, dopo aver letto la delibera del Cdz 3, hanno deciso di votare a favore». Si deciderà tutti assieme, taglia corto Meghnagi. «Quel che è certo è che non potrà decidere Sacristani da solo. La Zona 3 avrà solo il suo voto».

postilla

Il caso locale di una singola arteria commerciale di Milano (che è però anche uno dei principali casi europei di questo tipo, anche senza contare il “prolungamento” ideale fino alle zone della moda e oltre) vale probabilmente come modello di metodo per tutta la regolamentazione nazionale: ha senso ideologizzare, come si fa in sostanza da qualche giorno, così tanto la discussione? Si e no.

Un buon punto di partenza per capire meglio è il concetto di DUC richiamato dall’articolo, variante locale dell’internazionale BID, Business Improvement District, a sua volta strumento di metabolizzazione urbana della struttura (vincente ormai da generazioni, non va scordato) dello shopping mall suburbano, e portatrice di una idea di fondo elaborata già da Victor Gruen negli anni ’50. In sostanza: è possibile invertire la tendenza del commercio moderno a diventare spazialmente segregato, organizzativamente autoritario, socialmente distruttivo? La risposta dipende dai metodi di governo del fenomeno, dalla mescolanza di mercato e intervento pubblico, di spazi e tempi. E mescolare invece – come pare si stia facendo un po' confusamente ora - un diritto come la qualità del lavoro e i tempi di riposo, con cose onestamente inquietanti come la Giornata del Signore, della Famiglia, eccetera, è solo pura reazione. Su questo sito sono stati esposti non da oggi pregi e difetti del Business Improvement District, sia nella versione di percorso del commercio “verso la città” studiata da Lorlene Hoyt nelle sue ricerche al MIT, sia nella distorsione ideologica e segregante di privatizzazione degli spazi, come suggerisce Anna Minton. Siccome la verità sta sempre nel mezzo di qualcosa, evitiamo in questo come in altri casi di schierarci coi predicatori. Fa solo male (f.b.)

Solo due democratici fuori dal coro: “Si sono scordati la parola Ambiente

Il Tav: “Sì, lo vogliamo”. Il Terzo Valico: “Sì”. La Gronda di Genova: “Sì”. La Livorno-Civitavecchia: “Sì”. E l’autostrada Mestre-Civitavecchia: “Sì, sì, sì”. Pd e Cgil su molte delle più grandi opere, anche quelle più contestate da cittadini e comitati, non sembrano avere dubbi: s’hanno da fare. Autostrade, porti, porticcioli, trafori, nel centrosinistra navigano con il vento in poppa. Il Tav è l’ultimo di una lunga serie di capitoli: “È un investimento strategico fondamentale per lo sviluppo e la crescita”, è sicuro Piero Fassino, sindaco di Torino. Anche Susanna Camusso, segretario Cgil, non ha dubbi: “Siamo favorevoli al Tav: il Paese ha un disperato bisogno di investimenti”.

Tutto bene. Anzi, no. Nei vertici del partito e del sindacato le voci dissonanti sono poche, ma cominciano a farsi sentire. Ricordano l’epoca in cui la parola “ambiente” era uno dei pilastri del centrosinistra. Roberto Della Seta e Francesco Ferrante non hanno mandato giù le parole del leader Cgil: “L’opinione di merito sul Tav non c’entra, ma sostenere come fa Camusso che una grande opera va realizzata non perché serve come infrastruttura, ma perché porta lavoro significa attestarsi su una posizione archeologica”, esordiscono i due parlamentari ecodem (Pd). Aggiungono: “Il lavoro si costruisce promuovendo l’innovazione, liberando l’economia dal peso di lobby e immobilismi, puntando su ricerca, scuola e ambiente che per un Paese come il nostro sono le principali materie prime. Invece le infrastrutture, almeno nei Paesi avanzati, si fanno se sono utili a migliorare la qualità dei servizi per cittadini e imprese. Questo è l’unico criterio per decidere del Tav Torino-Lione”. Della Seta e Ferrante non usano giri di parole: “In Italia sono stati sperperati miliardi pubblici per opere inutili giustificate col fatto che ‘portavano lavoro’: così ci ritroviamo con poli industriali senza senso e senza futuro, con molte autostrade e poco trasporto pubblico. Ma i posti di lavoro, più numerosi e duraturi, si creano con la nuova economia che in Germania offre occupazione a milioni di persone. È preoccupante che il più grande sindacato italiano difenda invece logiche superate”.

Il disagio sull’approccio ai temi infrastrutturali e ambientali dei vertici Pd e Cgil comincia così a montare, soprattutto tra militanti ed elettori. C’è chi punta il dito sull’ombra di un conflitto di interessi: partiti e sindacati sponsorizzano cemento e asfalto, mentre imprese e cooperative una volta chiamate “rosse” fanno affari con i grandi progetti. Gli esempi in tutta Italia non mancano: a cominciare dal Tav (la galleria esplorativa è stata affidata alla Cmc, Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna), per andare a porticcioli come quello della Marinella (mille posti barca tra Liguria e Toscana, operazione sponsorizzata dal centrosinistra che vede tra i realizzatori cooperative e società del Monte dei Paschi di Siena), passando per Motorcity, mega-autodromo da un miliardo nel cuore della pianura veneta che dopo essere stato lanciato da Chicco Gnutti – sì, proprio quello delle scalate bancarie – ha visto l’ingresso delle cooperative. Niente di illecito, ma un motivo di disagio per la base. Della Seta sottolinea: “Nel centrosinistra c’è un rapporto con gli interessi economici che non è sempre trasparente. Ci sono scelte, che dovrebbero essere compiute pensando al bene comune, in cui emergono interessi particolari e non sempre chiari”. Ma intanto si va avanti. Soprattutto con il Tav.

Ieri il vertice con Roberto Cota, Fassino e i sindaci della Val di Susa. Il governatore del Piemonte ha presentato “un pacchetto di proposte concrete”: compensazioni fiscali per la Val di Susa (Irap, Irpef, Imu e benzina) e un presidio dell’Istituto Superiore di Sanità, per monitorare quello che succede nella Valle. Fassino ha parlato di una riunione “positiva e utile che permetterà di superare le contrapposizioni frontali dei mesi scorsi”.

L’opera comunque, sottolinea Cota, “andrà avanti nei tempi previsti”. Sandro Plano, presidente della Comunità Montana e uno dei leader No Tav, è più cauto: “Vedremo il nuovo progetto low cost. È un primo passo. Poi chiederemo un tavolo con un rappresentante del governo. Non mettiamo pregiudiziali sul proseguimento del dialogo, ma chiediamo la sospensione dei lavori per motivi di ordine pubblico”.

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