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Maria Pia Guermandi
La tutela del centro storico e la pipa di Magritte
15 Marzo 2012
Maria Pia Guermandi
Qualche settimana fa si è svolto a Bologna un incontro pubblico per più aspetti significativo.

A posteriori, il titolo “Le varianti del gusto” cui inizialmente avevo rimproverato una certa ambiguità, si è rivelato del tutto confacente al carattere alquanto surreale della discussione. Andrea Emiliani e Pier Luigi Cervellati erano chiamati a difendere quell’impianto teorico e metodologico che, consolidatosi nella Carta di Gubbio, ha permesso, a partire dagli anni ’60, la tutela dei centri storici in Italia e, a Bologna, ha guidato le sperimentazioni di risanamento conservativo condotte dallo stesso Cervellati e premiate in tutta Europa.

Nella Carta di Gubbio del 1960, come noto, la città storica era definita come un “organismo urbano unitario cui va riconosciuta la qualità di bene culturale”. Con uno slancio innovativo avvertito per troppo tempo solo dalle avanguardie urbanistiche, il documento sanciva un passaggio di scala dirompente, dal punto di vista teorico: la città storica non più come somma di elementi, seppur numerosissimi e di altissimo valore storico artistico e architettonico, ma come sistema inscindibile, non gerarchicamente scomponibile, conchiuso architettonicamente e allo stesso tempo urbanisticamente vitale perché preservato da modalità di uso adeguate all’importanza monumentale e alle esigenze della conservazione.

Non semplice ampliamento delle tutele ad immobili non architettonicamente “di pregio”, quindi, ma evoluzione di un paradigma: dalla dimensione dell’elenco a quella del sistema, evoluzione in parte accolta dalla legge ponte del 1967.

Come ha esemplarmente sottolineato Leonardo Benevolo (La fine della città, 2011) si è trattato del “contributo più rilevante dell’Italia alla moderna ricerca internazionale”. E come tale, del resto, questa impostazione si è affermata, negli anni, in molti paesi europei, dalla Francia alla Germania, e , da ultimo, è divenuta punto di riferimento anche per i paesi dell’est europeo, a partire dalla Polonia.

A Bologna, aspetto speculare ed inscindibile di questa interpretazione del centro storico è stata da subito l’attenzione alle esigenze abitative delle diverse componenti sociali. L’investimento a tutela del tessuto urbano era correlato, quindi, con grande lucidità politica e lungimiranza urbanistica, alla tutela delle fasce sociali più deboli : il centro storico come sistema non solo urbanistico, ma sociale, da preservare nel suo complesso, perchè perno vitale di una città più armonica e vivibile.

Quel modello, elaborato normativamente nel Piano del Centro Storico di Bologna del 1972, costituisce uno dei momenti più avanzati di quel decennio riformista che dall’inizio degli anni ’60 ha garantito un autentico progresso civile e sociale al paese. In linea con quanto succederà col volgere degli anni ’70 in tutti i campi della società italiana, non stupisce che questo esperimento abbia allora conosciuto ostacoli politici sempre più poderosi e, a partire dagli anni ’80, abbia cominciato ad essere palesemente contraddetto per quanto riguarda gli aspetti sociali. Espulse verso le periferie intere fasce di popolazione come anche le attività artigianali e il commercio di prossimità, il centro storico di Bologna è divenuto un guscio vuoto, colonizzato da banche e grandi catene commerciali, desertificato al calar della sera o preda di una “movida” invasiva e senza regole, fonte di conflitti e degrado.

Di quel modello, seppur svuotato nell’anima, più a lungo ha resistito l’attenzione al tessuto edilizio che, pur con molte smagliature, è perdurata almeno fino alla metà degli anni ’90. Poi, a poco a poco, colori degli edifici, illuminazioni, insegne, dehors, pavimentazioni storiche: l’insieme dell’arredo urbano ha subito una mutazione progressiva, frutto soprattutto di una indifferenza crescente nei confronti della città storica da parte dell’amministrazione comunale e, almeno da un lustro, anche degli organi di tutela, sempre più “possibilisti” e sempre meno attrezzati culturalmente.

Infine, nel 2009, con l’adozione del RUE (Regolamento Urbano Edilizio), l’ultimo argine viene rimosso: l’assoluta maggioranza degli edifici del centro storico è classificata nella categoria di “interesse documentale”, e ciò significa che su di essi “si opera con le modalità progettuali e le tecniche operative del restauro applicate solo alle parti di pregio storico-culturale o testimoniale, individuate come tali dal progettista sulla base di opportune verifiche e approfondimenti conoscitivi. Gli interventi edilizi ammessi sono: manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia”. E addirittura la demolizione “è assimilata a intervento di manutenzione straordinaria”.

Non solo il centro storico non è più considerato come un organismo unitario, ma addirittura ogni singolo edificio può essere smembrato in una serie di parti di differente valore. Fine della storia.

Le conseguenze non hanno tardato a verificarsi: immobili di impianto settecentesco demoliti, in pieno centro storico, durante la scorsa canicola estiva nell’indifferenza di una città ormai assuefatta, distratta, inconsapevole.

Ironia, prevedibile, della storia, le giustificazioni “ideologiche” che puntualmente vengono ora portate a soccorso del new deal felsineo, ripetono stancamente gli stessi vetusti stilemi che avevano caratterizzato la discussione sull’esperimento Cervellati quasi quarant’anni fa e che, in questo paese di stanca memoria, vengono riciclate senza troppi aggiornamenti: una città “congelata” secondo un principio “storicista” (termine connotato ovviamente in senso negativo), secondo il quale non è concesso all’architetto contemporaneo di lasciare il proprio segno ed è inibita ogni innovazione.

E non è un caso che tali posizioni si dispieghino quasi esclusivamente nell’ambito estetico e si coniughino ad un’indifferenza quasi assoluta nei confronti degli aspetti sociali del fenomeno urbano: si continua a ignorare che problema prioritario, anzi “il” problema delle nostre città è la mancanza di edilizia sociale, di qualità accettabile e in quantità tale da soddisfare una domanda sempre più pressante, a causa di un ampliamento sempre più marcato (immigrazione, crisi economica) di una fascia di popolazione a reddito ormai insufficiente per accedere all’attuale mercato della casa.

In tale contesto, la discussione di qualche settimana fa, ben poteva essere collocata nell’ambito delle esercitazioni surreali.

Con le posizioni di chi, come Cervellati ed Emiliani, riafferma, con ineguagliata passione e lucidità critica nei confronti dei fenomeni odierni, la validità di un modello interpretativo del centro storico si confronta, insomma, uno sguardo corto, incapace di misurarsi con i problemi complessi dei contemporanei sistemi urbani all’interno dei quali, i centri storici (percentuali aggiornate al 2011 e riferite all’Emilia Romagna) costituiscono a malapena il 5% dell’intero territorio urbanizzato.

Ciò significa, nel buon senso delle cifre, che il 95% delle città in cui viviamo sono altro dal centro storico e ben più bisognoso, questo 95%, di interventi di riqualificazione, a partire da architetture di qualità.

Per incapacità di visione organica, certamente, per una sorta di tranquillizzante arretramento concettuale, forse, ma anche, non sempre inconsapevolmente, sotto le pressioni ideologiche che interpretano le esigenze della rendita immobiliare (troppo appetibili, sotto questo profilo, le aree dei centri storici), si continua a rimuovere quello che fu uno dei pochi “scarti” verso la modernità operati dalla nostra cultura, in grado di proporre una lettura del fenomeno urbano più complessa ed organica.

Così, ennesimo sintomo del provincialismo che caratterizza il nostro dibattito culturale, continuiamo a rimettere in discussione acquisizioni altrove ormai consolidate – la tutela dei centri storici – ignorandone per di più gli aspetti tuttora vitali, quelli che Antonio Cederna aveva magistralmente enunciati nella sua premessa a “I vandali in casa”: la complementarietà della città storica e di quella moderna, necessarie l’una all’altra, con modalità interagenti (dalla mobilità alla dislocazione dei servizi), tali da assicurare la tutela dell’una e lo sviluppo dell’altra e, in tal modo, la qualità dell’organismo urbano nel suo complesso.

E non è un caso che il modello bolognese della buona urbanistica sia stato caratterizzato non solo dalle sperimentazioni di risanamento conservativo, ma dal fatto che contestualmente, accanto al centro storico, furono costruiti quartieri periferici architettonicamente dignitosi e rispettosi degli standards.

Nella città che era riuscita a realizzare, in anticipo sull’Europa, una diversa visione della città, imperniata sul rispetto della storia e della dignità dell’abitare, isolate risultano ormai le voci di chi, ostinatamente, continua ad interrogarsi sulla necessità urbanistica ed estetica di un cubetto di lego bianco spuntato in poche settimane in una via del centro.

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