Le reazioni diffuse alla crisi economica se non altro dimostrano alcune potenzialità per il territorio, la città, le aree periurbane, da non sottovalutare. Corriere della Sera Lombardia, 13 febbraio 2013, postilla
MILANO — Meno carne, pesce, ortaggi e frutta in tavola. Più uova, farina, pane, riso e pasta. Sulle tasche dei lombardi la crisi pesa e li costringe anche a cambiare il menu. E nel carrello della spesa non solo si impoverisce la qualità, ma diminuisce anche la quantità, tanto che i consumi alimentari nel 2012 sono scesi del -5,7%. «Sono tagli e rinunce degni di un'economia di guerra», dice Giuseppe Elias, assessore regionale all'agricoltura, esaminando il rapporto di Unioncamere sullo stato di salute del settore. Un comparto «green» che, come spiega il presidente Francesco Bettoni, anche negli ultimi tre mesi dello scorso anno «conferma una situazione difficile»: trimestre negativo per il lattiero-caseario e per le carni bovine, positivo solo per il mercato di suini, cereali e vini, grazie all'export (+6,5% a novembre), che rimane il salvagente per tante aziende agricole, considerato il continuo calo della domanda interna.
Non solo però i lombardi cambiano stile e abitudini a tavola. Infatti, in tempi di portafogli più magri, c'è anche un ritorno del «fai-da-te» casalingo: l'impennata di vendite di farina, uova e burro sta a indicare che le famiglie hanno la tendenza a preparare pane, biscotti, torte e pasta in casa, rinunciando ad acquistarli al supermercato. Così come è boom dell'orto «fai-da-te»: in giardino, o sul balcone, dilagano le coltivazioni domestiche di insalata, pomodori, piante aromatiche, zucchine, melanzane, piselli, fagioli, basilico. E non è tutto: perché, con i consumatori sempre a caccia di sconti e risparmi, da Sondrio a Pavia sono precipitati (-3,3%) gli affari per i piccoli negozi di alimentari, come per fruttivendoli e macellerie; mentre sono volati quelli per i discount (+3%) e per i mercati contadini dove c'è un miglior rapporto qualità/prezzo.
Ma, se le famiglie tirano la cinghia, anche le 50.258 aziende agricole della Lombardia non sorridono. Anche perché, negli ultimi tre mesi del 2012, hanno chiuso 248 fattorie, mentre il 78% degli imprenditori della terra ha già annunciato che non farà investimenti nel 2013. Numeri allarmanti, tanto che l'assessore Elias parla di «scenario preoccupante», mentre il ricercatore Luca Marcora, che ha messo a punto per Unioncamere l'analisi congiunturale del quarto trimestre 2012, spiega che «l'aumento dei costi di produzione e la debolezza dei consumi interni continuano a penalizzare gli agricoltori». E il futuro è tutt'altro che roseo: perché all'orizzonte si affaccia la minaccia di nuove multe europee per il probabile sforamento delle quote latte, perché la siccità che ha falciato (-25%) l'ultimo raccolto di mais, perché chi produce latte, Grana Padano, carne bovina, ortaggi e frutta continua a lavorare in perdita.
Postilla
La spinta verso l'agricoltura fai da te è certamente il sintomo di una crisi, che non è congiunturale ma di sistema. Ma pensare che indichi una soluzione proponibile per l'intera umanità sarebbe come se, ai tempi di Marx, si fosse pensato di uscire dal capitalismo della borghesia proponendo di tornare all'autoconsumo del feudalesimo. E' certamente più difficile pensare (e costruire) un domani che superi il presente anziché riproporre il passato. Purtroppo è l'unica via che consenta di uscire dalla barbarie presente senza ricadere (se pure fosse possibile) in quella dei bel tempi andati
Consumo di suolo, paesaggio, agricoltura. Il Forum per i territori chiede ai candidati un impegno preciso. Comunicato stampa e un'iniziativa su cui impegnarsi, prima e dopo il 25 febbraio, postilla
La rete delle 879 organizzazioni che danno vita al Forum nazionale per la difesa del territorio e del paesaggio inizia da oggi a sottoporre ai candidati di tutti gli schieramenti in lizza alle elezioni. zioni
politiche del 24/25 febbraio – attraverso la diretta azione dei suoi 143 comitati locali “Salviamo il Paesaggio” – un proprio documento di priorità sui temi connessi al concreto contenimento del consumo di suolo e alla salvaguardia dei territori e del paesaggio, con postillaSi tratta di otto punti “secchi”, ovvero otto leggi prioritarie che il Forum nazionale invita a promuovere o a eliminare sin dall’inizio della nuova legislatura, richiedendo ai candidati di esprimere la propria condivisione e, dunque, a sottoscrivere un preciso impegno.
Le adesioni dei candidati verranno puntualmente segnalate sul nostro sito e costituiranno dunque una mappa documentale per tutti gli elettori sensibili al tema del consumo di suolo (ormai al centro dell’agenda politica nazionale).
LE LEGGI DA FARE SUBITO
1. Approvare il DDL dedicato alla valorizzazione delle aree agricole e al contenimento del consumo del suolo, approvato a fine legislatura dal Consiglio dei Ministri e ancora da dibattere nelle commissioni e in aula, apportando nel contempo una serie di miglioramenti suggeriti dal Forum.
2. Una legge che regoli, tramite la partecipazione dei cittadini, la pianificazione e la salvaguardia dei suoli liberi e del paesaggio, secondo lo spirito delle “linee guida” formulate dal Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio.
3. Una legge che regoli il ciclo di vita degli immobili, includendo obblighi di recupero degli inerti che ne riducano drasticamente lo smaltimento in discarica.
LE LEGGI DA ELIMINARE SUBITO
1. La cosiddetta “legge Obiettivo”, così da riportare le attuali 390 opere in essa contenute nell’ambito delle procedure ordinarie.
2. I commi 1, 2 e 3 della cosiddetta legge “Sviluppo bis”, così da azzerare gli incentivi per la realizzazione di grandi opere infrastrutturali (di importo superiore a 500 mln di euro) anche in mancanza di un equilibrio del piano economico.
3. Il cosiddetto “silenzio assenso” e il “piano per le riqualificazioni delle città”.
4. La possibilità di dichiarare siti “di interesse strategico per la difesa militare della nazione e dei nostri alleati”, così da non più consentire l’autorizzazione di progetti edificatori in deroga alle vigenti leggi urbanistiche (è il caso, ad esempio, del Muos di Niscemi …).
E INFINE …
Una ultima richiesta: l’assunzione dell’impegno a non approvare norme in campo urbanistico, edilizio, paesaggistico, culturale o ambientale, in contrasto con i principi di tutela del territorio, dei beni culturali, del paesaggio, dei suoli liberi e dell’ambiente in genere. Questa richiesta di impegno può apparire semplicistica, ma nel corso degli anni (nel recente periodo, in particolare) l’approvazione di norme in stridente contrasto con l’articolo 9 della Costituzione o con quelle di rispetto urbanistiche e paesaggistiche, ci suggeriscono di non dare nulla per scontato …
qui potete cercare, e trovare, il testo integrale del documento
Anche chi se ne frega della sicurezza del territorio, della bellezza del paesaggio, della qualità urbana, almeno due conti dovrebbe saperli fare. Corriere della Sera, 10 febbraio 2013 (f.b.)
Allerta ai Comuni: fotografate subito i vostri territori, se ci tenete. La storia dimostra che appena spunta la promessa d'un condono edilizio c'è chi corre a tirar su nuovi edifici abusivi. E chi ci perde, oltre ai cittadini perbene, sono proprio i municipi. Costretti a farsi carico degli oneri d'urbanizzazione avendo in cambio una pipa di tabacco. Se proprio non è interessato al paesaggio o alla moralità fiscale e urbanistica degli italiani, il Cavaliere dovrebbe riflettere su questo: tutti i condoni agli abusivi sono stati un harakiri. Paesaggistico, burocratico, finanziario. E se quarant'anni di sanatorie varie hanno fatto incassare in tutto 123 miliardi di euro, quanto viene evaso in un solo anno, con quelle del mattone è andata ancora peggio: dalle casse pubbliche, alla fin fine, sono usciti molti più soldi di quanti ne fossero entrati.
Ma partiamo dal panorama d'insieme. Spiega un dossier Cresme per Legambiente che «sono non meno di 258.000 gli immobili abusivi sorti tra il 2003 e il 2011, per un fatturato complessivo stimato in 18,3 miliardi di euro». Tutti edifici praticamente al riparo dalle ruspe. Spiega infatti il Rapporto Ecomafia 2012 che le ordinanze di demolizione firmate dal 2000 al 2011 sono state 46.760 ma solo 4.956 sono state eseguite e solo in alcune porzioni del territorio. A Napoli gli abbattimenti sono stati 710 su 16.837 decisi, pari al 4,2%. A Palermo neppure uno su 1.943, a Reggio Calabria neppure uno su 2.989. E tutto questo in un territorio fragile, tra i più esposti del mondo ai rischi sismici e idrogeologici, colpito nella storia da decine di terremoti e inondazioni devastanti. Avvenute spesso in aree dove più alta è la presenza di case costruite senza alcun controllo e alcun criterio: il 19,8% delle abitazioni abusive italiane è in Campania, il 18,2% in Sicilia, il 12,8% in Puglia, l'8,8 in Calabria.
Sappiamo che non è facile raddrizzare una situazione piuttosto compromessa. Proprio per questo, però, occorre dire basta: non vogliamo più piangere nuovi lutti per i crolli di palazzine o intere contrade costruite là dove non si poteva. Non vogliamo più piangere e non vogliamo più pagare i costi stratosferici di interventi che arrivano sempre «dopo». Dice l'ultimo rapporto Ispra che mentre nel resto d'Europa è ricoperto dal cemento il 2,3% del territorio, da noi questa quota si impenna fino al 6,9%: il triplo. Nonostante proprio la difesa del paesaggio dovrebbe essere uno degli obiettivi centrali di un Paese che, come Berlusconi non si stanca mai di sbandierare, «è il più bello del mondo».
Bene, la storia dice che la sola promessa di un condono edilizio scatena la corsa a fare nuove porcherie cementizie fingendo di averle fatte «prima» del varo della legge. Gli abusi commessi a Roma «dopo» la sanatoria berlusconiana del 2003 e spacciati per vecchi, stando ai rilievi della società che gestiva le pratiche comunali del condono, furono 3.713. Tra i quali, per esempio, l'aggiunta di un attico terrazzatissimo di un'ottantina di metri quadri sul tetto di un elegante palazzo accanto alla Fontana di Trevi. Numeri che lasciano pensare come in giro per il Paese, e soprattutto nel Sud, gli abusi «retrodatati» siano stati almeno dieci volte tanti. Almeno.
Oltre ai danni al paesaggio e al vivere civile, perché quell'abuso a Fontana di Trevi offende tutti i cittadini per bene, ci sono poi come dicevamo i danni economici. È frequentissimo, infatti, il caso di chi paga solo il primo acconto per bloccare le inchieste giudiziarie e le ruspe e poi se ne infischia di portare a termine la pratica nella certezza che nessuno verrà mai a disturbare. Tanto per dare un'idea, quando Totò Cuffaro cercò di smaltire gli immensi arretrati dei tre condoni con una «sanatoria delle sanatorie», gli abusivi siciliani che aderirono furono l'1,1% a Palermo, lo 0,37% a Messina, lo 0,037% a Catania.
A Roma, denunciava qualche mese fa il Sole 24 Ore, restano da smaltire «210 mila pratiche, circa il 37% delle oltre 570 mila presentate fra tutte e tre le sanatorie». Compresi fascicoli che oggi hanno 28 anni. «Ogni volta che c'è un condono lo Stato si ritrova in cassa pochi milioni, relativi agli anticipi pagati dagli abusivi e una moltitudine di incartamenti che gli uffici comunali non riescono a smaltire», accusano Paolo Polci e Roberto Mostacci del Cresme ipotizzando un milione di pratiche inevase, «Questo "sfasciume amministrativo" impegna centinaia di funzionari pubblici e dà un gettito di 10/20 milioni di euro contro gli 80/100 milioni di costi stimati». Autolesionismo. Dieci anni fa, ribellandosi alla nuova sanatoria della destra, lo stesso Comune di Roma fece i conti. E accertò di avere incassato 922 euro per ognuna delle 506.578 domande dei condoni del 1985 e del 1994. Pochissimo, in confronto alle spese per portare nelle nuove case condonate i servizi del vivere civile, dalle strade alle condutture. Perfino quelli che avevano usato il condono berlusconiano (meno generoso del craxiano) avevano pagato per regolarizzare un villino fuorilegge circa 10 mila euro di cui 5 mila al Comune. E portare l'urbanizzazione primaria e secondaria costava da un minimo di 22 mila a oltre 30 mila euro. Proprio un affarone…
Consumo di suolo non è solo devastazione del paesaggio e della natura. E' anche minaccia all'alimentazione. Una riflessione per eddyburg sollecitata dal rapporto ISPRA presentato lo scorso 5 febbraio a Roma.
I dati presentati dall'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) lo scorso 5 febbraio fanno fare un passo in avanti al nostro Paese, aumentando la consapevolezza verso un temadi enorme attualità ed urgenza e mettendo le istituzioni in una posizione di rapidadecisione in merito. Ma il tema del consumo dei suoli è anche urgente perché èstraordinariamente legato alla contrazione della produzione di cibo. Insommaper forza di cose, se avanza il cemento, indietreggia il cibo. E seindietreggia il cibo, aumenta la dipendenza di una nazionedall’approvvigionamento di materia prima agricola dal mercato estero. Eprobabilmente il continuo aumento di questi ultimi anni della nostra spesa perimportare rispetto a quella per esportare cereali e prodotti agricoli di basenon è disgiunto dai consumi di suolo agricoli. Nel 2011 il saldo tra import edexport agricolo è di molto peggiorato andando a -1,2 Miliardi di EURO contro i-768 milioni del 2010…insomma spendiamo sempre di più per comprare materiaprima per cibo e sempre meno la esportiamo (fonte: Ministero delle PoliticheAgricole Alimentari e Forestali - Rivista telematica – www.aiol.it).
Ma non solo aumenta la dipendenza conl’estero. Aumenta anche l’esposizione al rischio di non essere più in grado diassicurare cibo ai propri abitanti con le risorse di suolo esistenti. Questo sichiama attacco alla sovranità alimentare o alla sicurezza alimentare (e ilministro Catania lo aveva ben evidenziato nel rapporto tecnico che accompagnavala prima proposta di legge). E in effetti se si fanno due calcoli trasformandoi consumi di suolo in cibo, vengono fuori cose sorprendenti.
Se accettiamo per un italiano una dieta calorica di 2500kcal/giorno e assumiamo, rielaborandole, le indicazioni di uno studio INEAriportato da Luca Mercalli (1) con cui si stabiliva la corrispondenza trafabbisogno calorico, varietà della dieta mediterranea (cereali, latte, grassi,carne, burro, uova, etc.) e superficie agricola necessaria per sostenere quelladieta, esce che occorrono circa 1500 m2 per persona per garantire il propriofabbisogno annuo. In altri termini vuol dire che con 1 ettaro mangiano 6,6persone.
Si tratta di una cifra di molto approssimata e indicativa che nontiene conto di tanti altri fattori ma che qui ci è molto utile per farci unordine di grandezza di cosa significhi il consumo di suolo in termini di contrazionedel cibo. Se quegli 8 m2 al secondo fossero terreni agricoli, sarebbe come direche ogni ora 19 persone in meno sono alimentabili in questo Paese con lerisorse di terra del Paese. Gli italiani stanno attentando a se stessi!Con quelle cifre, secondo me ancora sottostimate rispetto adun fenomeno che è probabilmente molto più acuto e diffuso (2), ogni anno non simettono a tavola 167.000 persone. È come se una città come Perugia o ReggioEmilia si trovasse da un anno all’altro senza cibo. E tutto questo calcolo èfatto immaginando di destinare tutta la produzione nostrana al mercatonazionale, cosa che sappiamo bene non essere vero, visto che il nostro ciboviene esportato in tutto il mondo e attrae eno-gastronauti da tutto il mondo. Pertantoi dati dovrebbero esser ancor più gravi. Quindi, come ho cercato di dire conquesto semplice esercizio sicuramente perfettibile ma sufficiente a farcicomprendere una parte importantissima del problema, il consumo di suolo insidiail Paese su più fronti e lo sta mettendo in ginocchio.
Gli strumenti con cui gestiamo il suolo sono vecchi e inadatti.Abbiamo leggi inadeguate (il testo unico ambientale definisce il suolo come leinfrastrutture e gli abitati…leggere per credere: art. 54 L. 152/06) e non vi èconsapevolezza che il suolo sia una risorsa ambientale fornitrice di serviziecosistemici per tutti (anche questo si è detto a Roma in quel convegno: vd.relazioni di Terribile, Claps, Marchetti, Gardi, etc.). Ma non solo. Ladimensione ambientale della risorsa suolo non è affatto intercettata tra lecompetenze urbanistiche dei comuni e delle altre amministrazioni. L’uso delsuolo continua ad essere dominato dalla rendita. Gli effetti ambientali deiconsumi non entrano in alcun bilancio. Ogni comune pianifica se stessotrattando il proprio territorio come una sorta di regno completamente disgiuntodal vicino. Rarissimi i casi di cooperazione sull’uso del suolo. E questo nonva bene perché paesaggio, suolo, ambiente, acqua…sono risorse in confinabiliche richiedono cooperazione pianificatoria che abbiamo perso del tuttosoggiogati da ben altri interessi.
Così anche l’urbanistica oggi deve farelucidamente i conti con le sue responsabilità che prendono nuovi nomi, come adesempio la responsabilità verso la tutela della sovranità alimentare. Ma moltiamministratori e urbanisti ancora sono lontani dal misurarsi con questadimensione che invece è urgente e grave (solo 8 italiani su 10 possono mangiaredai nostri campi).
Anche per tutto ciò credo sia urgente che, parlando dicontenimento del consumo di suolo si parli di riforma seria delle competenzedelle amministrazioni locali per quanto riguarda la materia ambientale e quindianche per l’uso del suolo. I comuni non possono più governare da soli, comesono stati di fatto ridotti ad essere (le province sono state svuotate e leregioni hanno spesso delegato tutto verso il basso), un patrimonio collettivodi interesse generale e comune (3), verso il quale occorre una dimensione diresponsabilità che supera i propri confini. Occorre aiutarli con strutture diaccompagnamento e di cooperazione per centrare un obiettivo comune, ben diversospesso dall’obiettivo del Comune.
(1) Mercalli L. e Sasso C. (2004), Le mucche non mangiano cemento, SMS, Torino, p. 225
Un'autorevole conferma dei dati sulla devastante dimensione della sottrazioni di suolo alla naturalità, senza contare le altre forme di land grabbing. Quando tutela del paesaggio e urbanistica non s'incontrano. La Repubblica, 8 febbraio 2013, postilla
OTTO metri quadrati al secondo, per ciascun secondo degli ultimi cinque anni: questo il ritmo del forsennato consumo di suolo che sta consumando l’Italia. Questo dato, che colpisce come una mazzata, emerge dagli studi dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) che ricostruiscono l’andamento del consumo di suolo in Italia dal 1956 al 2010. Siamo passati da un consumo di suolo di 8.000 kmq nel 1956 a oltre 20.500 kmq nel 2010, come dire che nel 1956 ogni italiano aveva perso 170 mq, nel 2010 la cifra è salita a 340 mq pro capite. Tra i divoratori di suolo trionfa la Lombardia, seguita dal Veneto e dal Lazio. Cifre impressionanti, che trascinano l’Italia fuori dall’Europa, dove il consumo medio del suolo è del 2,8%, a fronte di un devastante 6,9 % per il nostro martoriato Paese. È come se ogni anno si costruissero due o tre città nuove, delle dimensioni di Milano e di Firenze, e questo in un Paese a incremento demografico zero.
Per chi dunque costruiamo, e perché? Da cinquant’anni trova credito in Italia la menzogna secondo cui l’edilizia (comprese le “grandi opere” pubbliche) sarebbe uno dei principali motori dell’economia. È per questo che si sono succeduti, da Craxi a Berlusconi, irresponsabili condoni dei reati contro il paesaggio. In nome di una cultura arcaica, l’investimento “nel mattone” continua ad attrarre investimenti, anche per “lavare” il denaro sporco delle mafie, stabilizzandolo nella rendita fondiaria. Sfugge a politici e imprenditori che la presente crisi economica nasce proprio dalla “bolla immobiliare” americana. Peggio, essi si tappano gli occhi per non vedere che la crisi che attanaglia l’Italia è dovuta, anche, alla mancanza di investimenti produttivi e di capacità di formazione. Si utilizza, invece, il nostro suolo come se fosse una risorsa passiva, una cava da fruttare spolpandola fino all’osso.
Che questo accada nel Paese che per primo al mondo ha posto la tutela del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato (articolo 9 della Costituzione) è un paradosso su cui riflettere. Se agli altissimi principi costituzionali corrispondono pessime pratiche quotidiane, è prima di tutto perché al boom post-bellico, con la sua fame di benessere, non è corrisposta una crescita culturale (né mai vi sarà finché la scuola pubblica viene trattata come un fastidioso optional, secondo la filosofia delle destre). Ma è anche per il peccato d’origine della normativa prebellica: alla legge Bottai sulla tutela del paesaggio (1939) seguì infatti la legge urbanistica del 1942, ma non fu creato fra le due il necessario raccordo, quasi che fosse possibile chiedere alle Soprintendenze di tutelare un paesaggio senza città, ai Comuni di gestire città senza paesaggio.
La Costituzione radicalizzò il contrasto, ponendo le competenze sul paesaggio in capo allo Stato e quelle sul territorio e l’urbanistica in capo alle Regioni (che di solito sub-delegano i Comuni), con una giungla di conflitti di competenza che coinvolge i ministeri dei Beni Culturali, dell’Ambiente e dell’Agricoltura, ma anche regioni, province e comuni. È negli interstizi di questa normativa deficitaria e barcollante che si insediano gli speculatori senza scrupoli, i divoratori del suolo, i nemici del pubblico bene.
Interrompere queste pratiche stolte, si sente ripetere, è impossibile perché vanno protette la manodopera e le imprese. Non è vero. Di lavoro per imprese e operai ve ne sarebbe di più e non di meno se solo si decidesse di dare priorità assoluta alla messa in sicurezza del territorio (il recente rapporto congiunto dell’Associazione nazionale costruttori edili e del Cresme-Centro di ricerche economiche e di mercato dell’edilizia fornisce dati impressionanti su necessità e inadempienze in merito). Se si decidesse di dare priorità al recupero degli edifici abbandonati, di abbattere gli orrori che assediano le nostre periferie sostituendoli con una nuova edilizia di qualità anziché catapultare grattacieli nel bel mezzo dei centri storici.
Se si verificassero i dati sulle proiezioni di crescita demografica prima di autorizzare nuove edificazioni. È falso che vi siano da una parte i “modernizzatori” che cementificano all’impazzata e dall’altra i “conservatori” che non costruirebbero più una casa e condannerebbero alla disoccupazione gli operai. La vera lotta è un’altra: fra chi vuole uno sviluppo in armonia con il bene pubblico e la Costituzione, e chi vede nel suolo italiano solo una risorsa da saccheggiare a proprio vantaggio.
Postilla
I risultati delle analisi dell’autorevole Ispra confermano i dati quantitativi sul consumo effettivo di suolo degli ultimi anni misurati in più sedi . Il trend a livello nazionale (i mediatici 8 mq al secondo) calcolato dall’Istituto conferma l’ordine di grandezza di grandezza delle valutazioni compiute localmente in varie parti d’Italia (la Toscana, l’Emilia-Romagna, la Lombardia): circa 35mila ettari vengono sottratti al territorio ogni anno rurale (agricolo + naturale). Non si tratta più di valutazioni approssimative fondate sulle statistiche della riduzione della superficie delle aziende agricole, ma di dati che misurano l’effettiva trasformazione di terreni porosi e in vario modo caratterizzati da “naturalità” in terreni laterizzati: la “repellente crosta di cemento e asfalto”, per dirla con Antonio Cederna, che sigilla il suolo (soil sealing) tagliando una delle radici che legano la città dell’uomo dalla vita del pianeta. Chi promosse nel 2005, l’edizione della Scuola di eddyburg dedicata a questo innaturale fenomeno, allora ignorato alle istituzioni della cultura e della politica, può oggi essere soddisfatto almeno per la presenza di dati quantitativi attendibili e per l’attenzione dell’opinione pubblica. Siamo però ancora lontani non solo da provvedimenti efficaci per contrastare il fenomeno, ma perfino dalla generale consapevolezza del carattere radicale delle soluzioni necessarie.
Ancora una documentata denuncia della devastazione del territorio prodotto dall'ideologia dominante e dalle conseguenti pratiche. Il Fatto quotidiano online, 7 febbraio 2013
Otto metri quadrati di terreni vergini vengono ricoperti di cemento e asfalto ogni secondo. Ogni cinque mesi viene cementificata un’area pari a quella di Napoli; ogni anno una superficie uguale all’estensione di Milano e Firenze. Sono questi i dati impressionanti che l’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ha presentato ieri in un affollato e qualificatissimo convegno.
L’Ispra ha avuto lo straordinario merito di aver sistematizzato tutti gli studi e le ricerche che negli ultimi anni avevano riguardato il fenomeno e di aver ricostruito per la prima volta l’andamento del consumo di suolo in Italia dal 1956 al 2010. Cinquantatré anni fa era urbanizzato il 2,8% del territorio, contro la media europea del 2,3%. Al 2010 il consumo di suolo italiano è pari al 6,9% e manteniamo il triste record europeo. Nel 1956 la graduatoria delle regioni più cementificate vedeva la Liguria superare di poco la Lombardia con quasi il 5% di territorio “sigillato”, distaccando, Puglia a parte (4%), tutte le altre. Dopo mezzo secolo la situazione cambia:la Lombardia supera la soglia del 10%, ponendosi in testa alla classifica, seguita da Puglia, Veneto, Campania, Liguria, Lazio e Emilia Romagna, ma quasi tutte le altre (14 su 20) oltrepassano abbondantemente il 5% di consumo di suolo.
Il dato è ancor più impressionante se si pensa che il territorio italiano è morfologicamente tormentato, presenta vaste zone collinari e montagne dove è pressoché impossibile costruire e cementificare. Il consumo di suolo ha dunque aggredito le parti pianeggianti ed è ancora l’Ispra ad aver documentato che lungo la costa adriatica, quella ligure, quella romana e della conurbazione napoletana i valori di occupazione del suolo raggiungono valori anche superiori al 40%. Per la pianura padana compresa tra Bergamo e Venezia era già stato l’Istat due anni fa ad aver denunciato la esistenza di un gigantesca conurbazione a bassa densità che ha divorato milioni di ettari di campagna e non ha rispettato neppure i fiumi.
Ed ecco la prima conseguenza della follia italiana: con cadenza regolare le aree pianeggianti vengono investite da gigantesche ondate di acqua che non riesce più a defluire negli alvei fluviali. Alessandria, Genova, le Cinque terre,la Lunigiana, Vicenza e tanti altri tragici esempi, forniscono la misura dell’insensata strada che l’Italia ha intrapreso. Piangiamo centinaia di morti innocenti, di devastazioni urbane e paesaggistiche, di miliardi di euro di danni. Uno sviluppo cieco imposto dalla rendita fondiaria speculativa sta riducendo il nostro paese in una gigantesca colata di cemento.
La seconda conseguenza sta nel disordine urbano e nelle disfunzioni che verifichiamo nella vita di ogni giorno. Ci si muove a fatica nelle nostre città: stiamo diventando un paese immobile perché prigioniero del cemento. E perdiamo così preziose occasioni di lavoro in questi tempi di crisi. La delocalizzazione che nei decenni precedenti prediligeva i paesi più poveri, oggi riguarda la Svizzera o la Carinzia, dove chi investe trova aree funzionali, trasporti che funzionano, servizi tecnologici di avanguardia.
E mentre i paesi europei, Germania per prima, approvano regole che limitano l’espansione urbanistica, nel Veneto dove i capannoni industriali abbandonati rappresentano il 50% della “capannonia” costruita negli anni della crescita economica si sta ad esempio dando il via alla costruzione di 5 nuove “città del divertimento” che divoreranno altri 200 ettari di campagna. Tutte le città, piccole e grandi, continuano ad espandersi senza fine mentre aumentano le case vuote. Si costruisce per favorire gli investimenti della grande finanza internazionale, anche con le grandi opere inutili: dal Ponte sullo stretto, all’Alta velocità della Val di Susa, dal raddoppio dell’aeroporto di Fiumicino, alla folle corsa a costruire porti turistici che, come ad Imperia, nascondono il malaffare. L’Ispra ha compiuto dunque un atto di grande rilevanza: ha reso noti i dati nazionali e ha dato l’allarme su quanto potrebbe accadere se non blocchiamo per sempre l’espansione urbana.
Ma di questo, come noto, i tre maggiori contendenti (Pd, Monti e Pdl) non parlano in campagna elettorale. Il sistema Sesto San Giovanni, e cioè l’assoluta discrezionalità con cui si aumentano a piacere le volumetrie da realizzare è un comodo giocattolo che permette guadagni illeciti e consenso sociale.
Stop al consumo di suolo e Salviamo il paesaggio sono invece le due grandi spine nel fianco di questo sistema di potere cieco e insensibile al bene comune. E sarà la voce delle popolazioni che non ne possono più di vedere devastato il paesaggio italiano a invertire il corso degli eventi. Anche grazie al prezioso lavoro dell’Ispra.
Nella rubrica lettere del Corriere della Sera Milano, 31 gennaio 2013, rispunta l'idea di Jane Jacobs degli “occhi sulla strada”, che però rinvia a una certa idea di città. Postilla (f.b.)
Gentile signora Bossi Fedrigotti, qualche tempo fa Silvia Vegetti Finzi, ennesima vittima di un furto a domicilio, scrisse un accorato articolo segnalando questa piaga del nostro tempo: i sempre più frequenti furti d'appartamento, che le anime buone rubricano come microcriminalità e che invece sono odiosi reati che scombussolano la vita. I carabinieri le consigliarono di mettere le sbarre alle finestre. Anch'io ho delle sbarre alle finestre, molto robuste, sembrano quelle del terzo raggio. Ma non hanno scoraggiato i ladri che, facendo leva con un cric, hanno scardinato muro e inferriata. Noi eravamo a goderci i campi di lavanda in fiore in Provenza e loro sono entrati in casa dal bagno, hanno arraffato una pochette con dei preziosi e poi sono scappati alle grida di un vicino che aveva udito rumori sospetti.
Siamo tutti assicurati, ma il danno economico c'è sempre. In più ti rimane quel senso di sporco, di profanazione, privati di oggetti cari, carichi di ricordi. Tempo fa facemmo un bel viaggio nel New England per assistere alla spettacolare Indian summer tra i boschi del Vermont tinti di rosso. Ebbene, in ogni villaggio che attraversavamo c'erano i cartelli che segnalavano «Neighbourhood Watch», controllo del vicinato. Io do un'occhiata alla tua casa, tu alla mia, entrambi a quella del vicino, un segno di grande civiltà. Ne scrissi a un giornalino dell'hinterland e ora in alcuni comuni è stata istituita la «Zona controllo del vicinato» con tanto di cartelli che la segnalano. Non è che questo provvedimento risolva il problema alla radice, i malfattori sono bravi, controllano i movimenti degli abitanti, ma ha già sventato un paio di furti. E scoraggia. Altro aspetto importante è che i cittadini si incontrano, verificano, si sentono parte di una comunità, il tessuto sociale si rafforza. A costo zero. Mi rendo conto che nella metropoli questi accorgimenti sono di difficile attuazione, ma vi sono zone che si prestano e l'amministrazione dovrebbe valutare con attenzione e incoraggiare l'introduzione di un simile provvedimento, almeno in zone di villette che a Milano sono numerose.
Luigi Rancati
Questa preziosa attenzione reciproca, un tempo abituale nei piccoli centri, si chiama controllo del territorio e non riguarda solo la sicurezza delle case, ma anche quella dei soggetti più deboli del quartiere come bambini e anziani, facili prede dei malintenzionati. Riorganizzarlo in alcune contrade della metropoli potrebbe, chissà, essere compito dei Consigli di zona. Comunque nel caso suo direi che il controllo abbia funzionato: le urla del vicino hanno, infatti, impedito che i ladri facessero razzia peggiore.
Isabella Bossi Fedrigotti
postilla
Quello che forse l'intelligente lettore del Corriere non sa, è che sul tema della sicurezza nel quartiere, da Robert Parks attraverso Clarence Perry sino a Jane Jacobs e ai suoi infiniti epigoni, si sviluppa l'idea stessa di quartiere urbano, evoluzione scientifica di quella solidarietà proprietaria di villaggio che rileva nell'ambiente suburbano-rurale del Vermont. Una migliore consapevolezza di questo particolare rapporto fra spazio e società, forse eviterebbe anche certe distorsioni securitarie del pensiero progressista, magari a soli fini elettorali (f.b.)
Promesse elettorali, di solito a vanvera o regressive, sull'insediamento dei negozi: conta l'urbanistica, rigorosamente dimenticata. La Repubblica Milano, 29 gennaio 2013, postilla (f.b.)
È il mondo delle imprese e del commercio, che ieri ha lanciato il suo grido di dolore, che è diventato terreno di caccia nella corsa al Pirellone. Sono loro i grandi corteggiati dai principali candidati presidenti. Che cercano di gettare ponti e parlare il linguaggio delle imprese infarcendo le liste di nomi acchiappavoti che arrivano dalle stanze di Confcommercio. Candidature civiche, soprattutto, nelle formazioni che portano il nome di Umberto Ambrosoli (Alfredo Zini), Roberto Maroni (Anna Lucia Carbognin e Piergiorgio Trapani), nella lista di Gabriele Albertini (Costante Persiani) e in quella, apparentata con Pdl e Lega, di Giulio Tremonti (Alessandro Prisco). Ma anche, naturalmente, dettando le loro promesse. A cominciare dalla più ardita, quella del leader del Carroccio, che ingaggia una battaglia contro i giganti al grido di una «moratoria sulla costruzione di nuovi centri commerciali», per valorizzare «il piccolo commercio e i negozi di vicinato». Un nuovo tormentone scandito però, in quella stessa Lombardia governata negli ultimi 18 anni da Pdl e Lega. In cui, dal 2005 al 2012, i metri quadrati delle grandi strutture di vendita sono passati da 3 a 3,8 milioni: il 25 per cento in più.
Numeri e insegne. Spuntate alle periferie delle città. Dalla Bergamasca a tinte azzurro-verdi a Tradate. Nella culla del Carroccio, il Comune ha approvato la costruzione di un mega polo da 80mila metri quadrati. Manna per le casse del Comune (8,5 milioni di oneri di urbanizzazione) e un entusiasta (correva l´anno 2006) sindaco leghista: «Un progetto che cambierà il volto del territorio», disse Stefano Candiani, fedelissimo di Maroni e oggi responsabile della sua lista civica. Segrate (sindaco Pdl, vicesindaco leghista) sta aspettando il cantiere del "Westfield Milan", descritto come uno degli spazi vendite più grandi d´Europa. «L´accordo urbanistico porta anche la firma dell´allora assessore regionale Boni», spiega il sindaco Adriano Alessandrini. E, nonostante un voto contrario del Carroccio in Consiglio comunale nel 2009, assicura: «La maggioranza è a favore di un piano che porta servizi». Damiano Di Simine di Legambiente ricorda la battaglia (vinta) contro un grande punto vendita a Brugherio spinto «da un sindaco leghista». Perché, alla fine, i "sì" arrivano. Di ogni colore politico.
È la Regione ad avere voce in capitolo sugli spazi più vasti. Solo nell´ultimo anno, dalle conferenze di servizio sono arrivate 20 autorizzazioni per nuove costruzioni o allargamenti. Senza tornare al passato e ai casi giudiziari (ancora aperti), con l´ex assessore Boni coinvolto nell´accusa per una presunta mazzetta per l´ok della Regione alla «realizzazione di un centro commerciale in località Albuzzano (Pavia)». «Basta ipocrisia», protesta Arianna Cavicchioli del Pd. «Basta guardare quanti nuovi imponenti centri sono fioriti sotto l´era Formigoni-Gibelli per rendersi conto che la Lega non ha difeso gli interessi dei commercianti». Sel ricorda un ordine del giorno presentato a febbraio 2012 per «una moratoria di cinque anni per l´autorizzazione alla realizzazione di nuove strutture della grande distribuzione». Bocciato dal Consiglio.
Davide (che tutti i candidati vogliono tutelare) contro Golia. Il suo stop, Maroni l´ha lanciato proprio durante il convegno di Rete Imprese Italia. È sempre lì che Albertini (anche lui scandisce «lavoro, lavoro, lavoro») ha chiuso la porta alla proposta: «Anziché bloccare gli investimenti economici che comunque sono sviluppo, bisognerebbe cercare di favorire l´unione dei piccoli in consorzi». Ambrosoli, che la scorsa settimana è andato anche ad ascoltare le richieste di Confindustria, ha inviato un messaggio: «Ho deciso di puntare tutto sul lavoro, voglio mettere in moto un circuito virtuoso fatto di una ricchezza sana e duratura che riesca a non lasciare indietro nessuno», la sua promessa. Alla voce "commercio" del programma la necessità di un nuovo «impianto normativo» (tra i punti: «compatibilità con gli indirizzi urbanistici, salvaguardia ambientale, tutela della salute e del lavoro») per i centri commerciali con l´obiettivo di arrivare a un giusto equilibrio. E incentivi ai Distretti urbani del commercio.
Postilla
Ovvio, che in campagna elettorale si faccia di tutto per catturare consensi, ma colpisce egualmente che in un lungo articolo che trabocca di dichiarazioni (a vanvera, appunto) grondanti di temi territoriali, ambientali, urbanistici, trasportistici, nessuno si azzardi mai, nemmeno per scherzo, a nominare il territorio, l'ambiente, l'urbanistica, i trasporti. Le balle di settore per quei temi se le tengono per il convegno elettorale di domani, dove il tuttologo immancabile ci racconta la sostenibilità. A quando un po' più di rispetto per l'intelligenza dei cittadini, che magari frequentano entrambi i convegni? (f.b.)
Due notizie buone e una impressione di vaghezza: la mobilità è integrata o non è, e qui si interviene per sostituzione, non per integrazione. La Repubblica Milano, 26 gennaio 2013, postilla (f.b.)
UNA flotta di mini auto è pronta a sbarcare in città. Vetture agili da prelevare per la strada con una tessera - o addirittura con lo smartphone - e da restituire dove è più comodo, ideali per spostamenti brevi e senza l’obbligo di prenotazione e l’aggravio di abbonamenti. Il car sharing in tutta libertà, sul modello berlinese dove sono addirittura cinque gli operatori che si contendono questo business.
Il rilancio del servizio di auto in condivisione passerà (anche) dai privati. È questione di settimane e il mercato delle auto in condivisione cittadino si aprirà ad altre società: probabilmente con un avviso pubblico, da parte di Palazzo Marino, con facilitazioni per chi è interessato a investire in città. E di candidati ce ne sono diversi. Car2Go, del gruppo Daimler- Mercedes, ha già iniziato a farsi promozione: con l’anno nuovo sono spuntati un “ufficio dedicato” nel concessionario Smart di piazza XXIV Maggio - su una vetrina campeggia fin d’ora la scritta “Registrati qui” e alcune city car esposte per strada. In più, corre voce che centinaia di mini auto siano già state trasferite nell’hinterland. Potrebbero essere interessate anche altre società, come la Zip Car, e giovani universitari imprenditori ideatori di una startup.
Comunque andrà, sarà una decisione che cambierà radicalmente questo servizio. Oggi in città c’è GuidaMi, gestito da Atm, che funziona pur con il limite della restituzione dell’auto nello stesso stallo dove la si è prelevata e la prenotazione obbligatoria. Gli abbonati sono saliti a 5.500, quasi il doppio dei 3mila del 2010 (anche se le auto restano 130). Secondo Amat, l’agenzia per la mobilità del Comune, la richiesta in città è tuttavia ancora più alta: 16mila i clienti potenziali, per i quali servirebbe una flotta di circa 600 auto. Già a ottobre l’assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran, si era espresso a favore della liberalizzazione di questa fetta di mercato per potenziare il servizio. Una strada che apre a uno o più operatori, con il rischio di concorrenza in casa (in Atm il primo azionista è proprio Palazzo Marino) anche se, per gli esperti, le due tipologie di car sharing avrebbero utenti diversi: GuidaMi, che prevede un abbonamento di 120 euro e un costo orario, si offre più come un sostituto dell’auto privata, mentre questo nuovo servizio sarebbe più complementare, per utilizzi brevi e costi vantaggiosi, in media 0,30 centesimi al minuto.
Un costo che, soprattutto in caso di traffico e di tragitto breve, sarebbe competitivo rispetto al taxi. «Per noi — ragiona Salvatore Luca, tassista dell’Unione artigiani — potrebbe essere in effetti una concorrenza, anche se credo che i nostri clienti non avranno voglia di cercare parcheggio. Certo, ai cittadini ruberebbero altri posteggi. Sarebbe un guaio per noi, invece, se anche le nuove auto dei privati, come succede già con le auto GuidaMi, potessero viaggiare sulle corsie preferenziali».
Guardando alle esperienze europee, i nuovi operatori in genere pagano all’amministrazione un forfait per la sosta delle auto sulla strada, possibile su strisce gialle e blu. Nel caso milanese, questa cifra comprenderebbe anche la quota di Area C: le nuove microcar potranno così girare libere in tutta la città.
Postilla
La cosa interessante è che entra in campo il mercato. La cosa discutibile è che entra in campo il mercato, coi suoi criteri economici. Interessante è che, ad esempio dopo lo scandalo dell'autonoleggio ciellino lombardo, e dei suoi appalti truccati a danno del resto del mondo (vedi il pezzo di Roberto Rotondo riportato alla fine di questa Postilla) una sana concorrenza fra vari operatori nel campo dei nuovi segmenti della mobilità metropolitana faccia capire al consumatore che si aprono davvero nuove prospettive. Sarebbe davvero ora di iniziare ad uscire dalle sole chiacchiere e azioni dimostrative, in materia di automobilismo (o di ciclismo) urbano e iniziare con le pratiche, magari tallonate col fiato sul collo da ricerche interdisciplinari sul campo e politiche pubbliche di sostegno e stimolo. Ma è discutibile che, come ci spiega l'articolo, si continui a ragionare da un lato sul solo mercato “denso” del nucleo metropolitano centrale, e lo si faccia puntando sul medesimo target degli utenti di taxi, ovvero evitando quelle fasce di potenziali utenti davvero innovativi che sarebbero i residenti di periferia extraurbana e/o attualmente proprietari di vetture usate prevalentemente per spostamenti interni. Dal punto di vista economico succede un po' come con la grande distribuzione: si distruggono posti di lavoro da una parte, e se ne creano di innovativi (ma un po' di meno) dall'altra. Dal punto di vista ambientale, territoriale, della ricerca e sperimentazione di nuovi modelli, l'avanzamento è minimo, se invece della fila di taxi trovo quella delle automobiline da guidare da solo. Si spera che emerga presto, se esiste, la serie delle innovazioni di processo proposta dal Comune, e magari in prospettiva da condividere almeno con le amministrazioni di prima fascia metropolitana, perché sarà una meraviglia del mercato, ma è davvero una sciocchezza, dover mollare l'automobilina in mezzo alla strada, magari sotto la pioggia, solo perché da quel punto in poi comanda un altro Sindaco … (f.b.)
Roberto Rotondo, L'auto elettrica non s'accende: il «flop» delle eco-utilitarie, Corriere della Sera Lombardia, 26 gennaio 2013
MILANO — È gestito da una società mista pubblico-privato, e ha visto in due anni migliaia di euro di investimenti. Ma il car sharing regionale, funziona oppure no? La domanda torna alla ribalta oggi, dopo l'arresto di Massimo Vanzulli, 49 anni, amministratore delegato della Sems, l'azienda nell'orbita delle Fnm regionali, che gestisce appunto il servizio di auto ecologica «E Vai», piccole automobili elettriche in grado di affrontare, senza inquinare, le insidie del traffico. In realtà, le vicende salite all'onore della cronaca giudiziaria sono del tutto separate. Nell'inchiesta milanese è stata coinvolta soltanto la società Kaleidos di Saronno (legata alla Compagnia delle Opere, di cui Vanzulli è manager), che però partecipa al 31,5 per cento con Fnm alla società del car sharing.
E dunque, in molti si chiedono se la sua presenza in una ditta che investe soldi pubblici sia giustificata. La risposta non è tuttavia semplice. Innanzitutto, la Sems non ha fornito al Corriere, che li aveva richiesti, i dati del servizio del car sharing «E Vai». Ma abbiamo comunque avuto modo di conoscerli grazie ad un'altra fonte. L'impressione di un esperto del settore è che il servizio sia ancora, quanto meno, sottoutilizzato.
Vediamo i numeri. Il car sharing parte nel dicembre del 2010. Qualche mese dopo, nell'agosto del 2011, ci sono 1.048 abbonamenti e vengono effettuati 108 noleggi singoli in tutta la Lombardia (sul territorio regionale vivono oggi poco più di 10 milioni di abitanti). Siamo agli albori del progetto, sono cifre ancora piccole. Ma a dicembre gli abbonamenti sono 3.048, e i noleggi 237. Nel corso del 2012 gli abbonamenti passano dai 3.210 di gennaio, a 3.615 ad aprile e poi iniziano a salire in modo esponenziale (anche gli utilizzi, che restano però intorno alla media del 10 per cento). Il bilancio di Sems pubblicato nel sito Internet delle Fnm indica che gli investimenti sono stati ingenti e vi è un utile ante imposte in leggera decrescita, 474 mila euro, rispetto ai 494 mila euro del primo semestre 2011: «Nel corso del primo semestre 2012 il servizio è stato esteso presso le stazioni di Lodi e Legnano, e sono stati acquisiti ulteriori 14 veicoli con un investimento complessivo di 343 mila euro».
L'esperto di mobilità sostenibile è Andrea Poggio, 56 anni, vicepresidente nazionale di Legambiente. Osserva che i risultati non sono ancora soddisfacenti: «Oggi il servizio è sottoutilizzato — afferma — e può stare in piedi solo perché c'è un forte investimento iniziale. Considerando che la Sems, fino a un mese fa, aveva 37 parcheggi in Lombardia, dai dati emerge che gli utilizzi sono inferiori a uno al giorno per parcheggio. Non è un buon risultato, ma può certamente migliorare, tenendo anche conto che l'utenza non è abituata alla presenza di una nuova opportunità di mobilità. La sostenibilità futura dipenderà dagli investimenti. Che in questo caso si può ipotizzare siano prevalentemente a carico della società pubblica».
Bel Paese? Mica tanto. L’Italia, più che sul lavoro, è diventata una Repubblica fondata sul cemento. E lì rischia di restare, con i piedi piantati nell’asfalto di un territorio sempre più urbanizzato, brutto e, per giunta, pericoloso. Non è una storia nuova, anzi, e proprio il fatto che risalga a tempi lontani la rende ancora più inquietante. «Non so, non so perché, perché continuano a costruire le case e non lasciano l’erba», cantava il “ragazzo della via Gluck” di Celentano nel 1966 e, alla fine, si chiedeva «se andiamo avanti così, chissà come si farà, chissà...».
SCAVIAMO COME TALPE - Quasi mezzo secolo dopo, produciamo cemento come nessun altro: una media di 565 chilogrammi per cittadino, di fronte a una media europea di 404. Per «vantare» questo primato ci servono quantità mostruose di sabbia, ghiaia e pietrisco, i cosiddetti «materiali inerti» con cui si realizza il cemento. Quindi scaviamo come talpe instancabili, deturpando il territorio: nel 2010 c’erano 5.736 cave attive e 13 mila dismesse, che al di là dell’ufficialità salivano a un numero non quantificabile, visto che molte Regioni italiane non le censiscono nemmeno, come risulta dall’ultimo studio sull’attività estrattiva di Legambiente. Le imprese del settore, vendendo sabbia e ghiaia, ricavano circa 1 miliardo e 115 milioni di euro all’anno, mentre nelle casse pubbliche, in cambio delle concessioni per le cave, entrano meno di 45 milioni. Sembra «materiale inerte» anche lo Stato, visto che la tassazione media sull’attività estrattiva è all’incirca del 4% e ci sono regioni come Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, dove si cava senza pagare un euro. In Inghilterra, tanto per fare un esempio, si paga il 20%.
SOLUZIONE - Per scavare e devastare di meno un sistema esiste, e negli altri Paesi europei lo si utilizza: si recuperano i materiali dalle costruzioni e dalle demolizioni, piccoli o enormi che siano. Nei Paesi Bassi il quantitativo di materiale edile riciclato è del 95,1%, in Danimarca il 94,9%, in Belgio il 90%, in Germania l’86,3%. Noi chiudiamo la classifica con un misero 10% (dati Eurostat e Ispra), mentre va a finire nelle discariche o negli inceneritori il restante 90%, con tutti i costi ambientali ed economici che questo comporta. Per spiegare questo comportamento anomalo va detto che in Danimarca, per esempio, buttare materiale edile in una discarica costa una tassa circa cinque volte più alta di quella che si paga in Italia. Da noi, in più, a incentivare l’«usa e getta» c’è anche l’ampia offerta delle convenienti discariche abusive nelle mani della malavita, e quindi è tutta una ruota che gira, dalla parte sbagliata.
LOGICA SBAGLIATA - In sintesi, siamo i primi a produrre cemento e gli ultimi a saperlo riciclare. Le ragioni di questa giostra stanno, in buona parte, nella quantità di nuove costruzioni realizzate negli ultimi anni: 260 mila solo nel 2009 tra abitazioni e fabbricati non residenziali. Secondo gli ultimi dati dell’Istat, nel decennio 2001-2011, di fronte a un incremento della popolazione stimato in un milione di nuclei famigliari, sono stati costruiti 1 milione e 571 mila nuovi alloggi residenziali. L’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis, autore di Paesaggio, Costitizione e cemento, ha profetizzato: «Vedremo boschi, prati e campagne arretrare davanti all’invasione di mesti condomini, vedremo coste luminosissime e verdissime colline divorate da case incongrue e palazzi senz’anima. Vedremo quello che fu il Bel Paese sommerso da inesorabili colate di cemento». Per la verità lo stiamo già vedendo: secondo l’Istat dal 1990 al 2005 la Sau (Superficie agricola utilizzata) in Italia si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un’area grande come Lazio e Abruzzo messi insieme.
GLI ABUSI ALLA LOGICA - Non c’è zona che si salvi, da questo gioco del “Lego” in scala reale. Basta guardarsi in giro, a cominciare da Roma, caput mundi. In zona Laurentina, tanto per fare un esempio, ai bordi del raccordo anulare (all’altezza dell’uscita 25) sta sorgendo, molto a rilento per la verità, il quartiere Tor Pagnotta (il nome è già un programma), che prevede un totale di circa 25 mila nuovi residenti, di cui per ora circa 16 mila ancora virtuali, e che si è esteso anche su un’area che doveva essere parco pubblico vincolato, attorno a zona monumentale e paesaggistica. Decine di palazzine ad alveare, alte anche dieci piani, che sorgono in mezzo a torri medioevali e dove non sembra esserci una corsa ad andare ad abitare, considerato anche che i mezzi pubblici promessi tardano ad arrivare e i costi al metro quadro vanno dai 5 mila euro in su. Un’altra spianata sta facendosi largo nella zona di Barberino del Mugello dove, con i lavori per il raddoppio dell’autostrada, si sta puntando al record della più grande area di servizio d’Europa, che occuperà una superficie di decine di ettari, destinata a coprire i quasi tre milioni di metri cubi di «smarino», materiale di risulta delle escavazioni per i nove chilometri di tunnel fatti in zona. Come polvere buttata sotto il tappeto. Peccato che lì sotto passino anche gli affluenti del lago del Bilancino, fonte di approvvigionamento per gli acquedotti delle province di Firenze, Prato e Pistoia. Per una beffa del destino, che gli abitanti della zona ritengono intollerabile, l’area su cui sorgeranno decine di pompe di benzina, ristoranti, bar, un centro commerciale e un parcheggio che sembra il Madison Square Garden, si chiama «Bellosguardo». Per la cronaca va detto che, attualmente, sull’A1 c’è un’area di servizio a 10 chilometri in direzione nord e a 16 verso sud.
DANNI MATERIALI - Basta puntare il dito sulla cartina italiana, anche a caso, e difficilmente non ci si imbatte in costruzioni, piccole o grandi che siano. Moltissime abusive, visto che secondo un dossier di Fai e Wwf, dagli anni Cinquanta a oggi, si sono registrati 4,6 milioni di abusi edilizi: 75 mila all’anno, 207 al giorno. Ma al di là degli abusi alla legge, sono quelli alla logica e all’estetica che fanno venire i brividi. Come i due nuovi borghi residenziali, alberghi, parcheggio da 800 posti auto, cinque piscine, undici bar e altrettanti ristoranti, 97 posti barca che stanno sorgendo nella baia di Sistiana, a 20 chilometri da Trieste, e che occuperanno l’intero piccolo golfo lasciato vuoto da una cava abbandonata.
PIENI E VUOTI - Il paesaggio, anche quello urbano, è fatto di pieni ma anche di vuoti. Se si riempie tutto, si vive male. «Se affacciandosi dalla finestra si vedono solo muri e strade, invece di piante e prati, si ha una sensazione di sradicamento», dice Roberto Mazza, professore di psicologia dello sviluppo e di metodologia del servizio sociale all’Università di Pisa. «La sensazione è quella dello sradicamento: non ci si riconosce più nel panorama e l’ambiente che ci circonda assume toni ostili. In questo contesto anche la vicinanza di altre persone è soltanto fisica, ma priva di contenuto emotivo, priva di quel legame umano rappresentato da valori comuni». Mazza, su questi temi, ha scritto un libro: Psico(pato)logia del paesaggio. Disagio ambientale e degrado psicologico, insieme con l’epidemiologa Silvia Minozzi. La sintesi è chiara: «Patologie come schizofrenia, o disturbi come anoressia, bulimia o depressione si manifestano con frequenza molto maggiore in aree ad alta densità di urbanizzazione. Per esempio un’analisi condotta su dieci recenti studi compiuti in Europa e negli Usa evidenzia che l’incidenza della schizofrenia è più che doppia nelle aree urbane rispetto a quelle rurali». In più, a rendere inguardabile questo orizzonte costellato di gru, c’è anche il fatto che si continuano a costruire case destinate a restare in gran parte vuote. In totale sono 5 milioni e 320 mila gli alloggi dove non abita nessuno: quasi 250 mila solo a Roma. Ma anche nelle ricche province del Nord, la situazione non è diversa: in quella di Bergamo le case disabitate sono circa 100 mila, a Brescia città 82 mila.
LA RIVOLTA DELLA NATURA - Secondo un dossier del 2011 sul mercato edilizio italiano, firmato dalla commissione Ambiente e lavori pubblici della Camera, «tre anni di mercato in flessione hanno prodotto il dato allarmante di uno stock di “giacenze” che si attesta attorno ai 120 mila alloggi invenduti». I prezzi delle case non sono più accessibili ai normali lavoratori; dice infatti la stessa Commissione: «Nel 1965 per acquistare una abitazione semicentrale di una grande città servivano 3,4 annualità di reddito di una famiglia a reddito medio, mentre nel 2008 tali annualità sono diventate nove». «Siamo a un vero e proprio punto di crisi delle costruzioni in Italia», commenta Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. «Malgrado milioni di case costruite negli ultimi due decenni c’è una grave emergenza abitativa nelle città. Proprio la crisi deve portare a un cambiamento, ora la priorità devono essere lo stop al consumo di suolo e gli investimenti nelle aree urbane, dove demolire e ricostruire per dare case a chi ne ha veramente bisogno e con consumi energetici azzerati, dove portare tram e metropolitane, e per mettere in sicurezza il territorio». Infatti il Paese asfaltato si ribella, a suo modo, senza preavviso: frane, smottamenti, esondazioni. In Liguria, tanto per puntare a caso il dito in un’altra zona, secondo la Protezione civile, il 98% dei Comuni (232 su 235) «presenta un’elevata criticità idrogeologica» e «155 mila persone vivono o lavorano in aree considerate pericolose». «Se andiamo avanti così, chissà come si farà, chissà....». Aveva già senso chiederselo nel 1966, figuriamoci adesso.
Il manifesto, 19 gennaio 2013
Interi quartieri sorti nel nulla e disabitati per l'esplosione della bolla immobiliare. Una città nella città, fatta di 300 mila case vuote, mentre ogni anno 2500 famiglie vengono sfrattate
Madrid e Roma. Le modalità di osservazione sono le stesse. Diversi i risultati. A Madrid prendi la metropolitana (direzione nord) e vedi - dopo molto, il tragitto è lungo - i vagoni svuotarsi completamente.
Scendi dove il treno finisce e, da una deserta stazione, arrivi in una selva di centri commerciali dove, con tutta evidenza, si va esclusivamente in automobile. Una sorta di mura che ti lasci alle spalle per spingere lo sguardo al contrario, verso il luogo di partenza al centro della città.
Ti accorgi della marea di case. La qualità tipologica è buona e ti stupisci, anche, della loro varietà, del mix tra tipi edilizi. T'incammini convinto di rifare a piedi il percorso che, poco prima, avevi fatto in sotterranea e, solo allora, ti accorgi che le case sono vuote.
Gli ingressi sbarrati, lo zoccolo dei negozi murato. Case e strade fantasma dove, ogni tanto, come patetiche fessure di piccoli occhi, niente di più di qualche foro all'interno delle porzioni murate, è segnalata la presenza di un ufficio immobiliare con incollate sulle vetrine offerte, riproduzioni di interni, piante. Nessuno dentro, neppure un impiegato.
A Roma, accade di notare più o meno lo stesso fenomeno. Solo che prendere la metropolitana non basta. Arrivi, mettiamo a sud, partendo dalla stazione Termini, ma i vagoni non mollano neppure un passeggero. Emergi dal buco dell'Anagnina e qui le case ci sono, c'è il traffico e una folla costante diretta oltre il raccordo anulare.
Volendo seguirla per un po' la consistenza tipologica non cambia. Analoga in qualsiasi direzione: la ressa dei centri commerciali e case e ancora case. Anche se il tuo occhio non è pronto a cogliere le differenze, ti accorgi presto che molte di queste costruzioni sono tra loro uguali.
Stesso disegno, stessi materiali, strade larghe e ancora: qualche capannone che contende a qualche rudere edilizio l'occupazione di lotti miracolosamente residui.
È dal progressivo stato di abbandono, da strade solo accennate, da malinconici vialetti sterrati che conducono verso il nulla, da cancelli e passi carrabili assediati da piccole dighe di terra e arbusti che li rendono così inespugnabili, da avanzi di cantiere, da buche e da mucchi di terra (tanti mucchi), da enormi cartelloni di Ufficio vendita, che t'accorgi che sei all'interno del regno dell'invenduto.
Pochi i segni di vita, pressoché inesistente il numero delle finestre aperte, quello delle caldaie in funzione, qualche rarissima parabola. Anche qui, come a Madrid, le case sono tante , le case anche qui sono vuote e, ancora anche qui, le molte gru - ormai parte integrante del paesaggio circostante - segnalano che si continua a costruire.
Roma e dintorni
Per restare, per il momento, a Roma, partiamo dal paesaggio di riferimento. Per capire dove sono localizzate queste case, facciamo un piccolo passo indietro andando a vedere la consistenza del costruito e il numero degli abitanti prendendo in esame gli ultimi dieci anni.
Dal 2003 al 2007 (anno in cui si registra la prima contrazione del fenomeno costruttivo) sono stati costruiti 10 mila alloggi privati all'anno per un totale di 52 mila unità. Dal 2003 al 2010, tuttavia, 163 mila persone hanno lasciato Roma per trasferirsi in provincia, alla ricerca di case dai prezzi più bassi.
Questo ha determinato una sorta di mutazione territoriale/geografica. Abitiamo un territorio urbanizzato a bassa densità che, espandendosi da Roma verso tutta la provincia, si rappresenta attraverso frammenti di città, aree isolate, isole più o meno grandi.
Luoghi dove non ci sono servizi. Senza infrastrutture e urbanizzazioni non comunicano tra loro, né sono connessi con nulla.
È all'interno di questo paesaggio, che senza alcun elemento di identità si autodefinisce per parto genesi dalle stesse case, che vengono costruite ed è localizzata la maggior parte del patrimonio abitativo interrotto e inaccessibile. È la nuova nebulosa geografica.
Quale corona, irta dalle spine dello sprawl (la diffusione edilizia), cinge lo spazio urbano da cui ha espulso (continua ad espellere) chi non può più sfruttare fino in fondo al'interno di quella parte del territorio che vuole tutto produttivo. Questo ha prodotto, e continua a produrre, un doppio fenomeno: il perdurare di un patrimonio edilizio bloccato, rappresentato da case vuote e da case invendute.
Case vuote, case invendute
Le prime, secondo stime pressoché unanimi, sono, su un totale di un milione e 700 mila appartamenti censiti, di poco al disotto delle 250 mila unità. Un numero che le porta a poter essere considerate superiori per numero di abitanti possibili da insediare (500 mila dato che 2,3 è la media che viene considerata come numero degli occupanti possibili per casa) a quello di città come Firenze o Bologna.
Le case invendute sono intorno ai 51 mila alloggi. Di questi il 60% è esistente solo "su carta", trattandosi di interventi che hanno ottenuto tutte le concessioni per dare inizio ai lavori, ma si aspettano gli acquirenti prima di aprire i cantieri. Ma anche se non realizzati, in forza dell'acquisizione del permesso a costruire, producono reddito avendo rappresentato, almeno fino a qualche tempo fa, un valore negoziabile per l'acquisizione di mutui spendibili sul mercato finanziario.
Oggi per la crisi economica le banche non erogano più mutui alle imprese né ai possibili acquirenti, ma sono state proprio le banche a determinare questo stato di fatto.
L'anteprima spagnola
Per andare a vedere cosa è successo, torniamo, ora per qualche riflessione, a Madrid e alle sue case prive di abitanti. Il fenomeno che oggi vediamo intorno a noi è avvenuto, nella capitale madrilena in anteprima e con qualche anticipo, lungo la nuova direttrice urbana che prolunga nel territorio la "gran via" cittadina.
La Spagna nel corso degli anni '80 si è caratterizzata per il varo e la sperimentazione di politiche di riforma urbana, caratterizzate sia da una preponderante presenza dell'operatore pubblico che dalla centralità della governance pubblica. Una doppia condizione che attribuiva al programma espansivo delle città un grande valore sociale.
A partire dalla fine degli anni '90 si assiste ad un progressivo passaggio all'operatore privato, che immette massicci investimenti nelle grandi infrastrutture e nel real estate (investimento immobiliare). Dalla città "sociale" si passa alla città "offerta" sui mercati internazionali.
L'esempio di Barcellona, con la costruzione del Forum 2004 lungo la spiaggia, è indicativo della trasformazione della politica urbana. Si sono costruite attrezzature ricreative, porti turistici, centri commerciali per turismo internazionale, senza alcun legame con il tessuto urbano.
Si parlava di miracolo spagnolo quando, nel 1998, Aznar innescava il boom dell'edilizia con la "legge del suolo" e con forti incentivi per l'acquisto della casa. Ma era già dal 1985 che lo sviluppo edilizio e la lievitazione dei prezzi avevano gonfiato il mercato. Le banche erogavano mutui su mutui a bassi tassi d'interesse con estrema facilità e il settore immobiliare era motore del boom economico del paese, artefice di una crescita scomposta e drogata. Nel 2005 e nel 2006 si era arrivati alla cifra record di 900 mila compravendite immobiliari all'anno.
La fase del mercato che vedeva i prezzi aumentare vertiginosamente in un breve arco di tempo a causa di una forte domanda (tra il 1996 e il 2006 il valore degli immobili si era rivalutato del 160 per cento) è finita nel 2008, quando si è determinato un calo del valore degli immobili pari al 34 per cento.
Oggi in Spagna ci sono 1 milione di case invendute. Le banche spagnole hanno nei loro portafogli circa 150 mila case che non riescono a vendere.
Ne sono tornate in possesso perché molte famiglie non sono più state in grado di pagare i mutui che avevano contratto e molte imprese di costruzione sono fallite. L'aumento della disoccupazione dal 2008 a oggi e la trasformazione della maggior parte dei contratti da tempo indeterminato a tempo determinato ha costretto molte famiglie a rinunciare all'acquisto della casa e a non poter più pagare gli affitti e i mutui contratti, così che oggi in Spagna gli sfratti sono divenuti una piaga sociale.
A novembre dell'anno passato una donna di 53 anni ha visto dalla finestra arrivare i poliziotti insieme all'ufficiale giudiziario. Sapeva che erano lì per lei e si è gettata di sotto. Non poteva più pagare il mutuo residuo di 214 mila euro per la sua casa di due stanze, bagno e cucina.
Ogni giorno nel 2012 l'ufficiale giudiziario si è presentato con la notifica di sfratto da 317 cittadini. Dall'inizio della crisi sono 350 mila le persone buttate in mezzo alla strada. E tante sono le case tornate sul mercato.
Così il mattone si è trasformato da motore di un'economia drogata, a responsabile di una crisi che non vede via d'uscita. Da un eccesso di domanda nel comprare case si è passati ad un eccesso di vendite, dettato da una offerta smisurata e conseguente ribasso del loro valore.
A Madrid ci sono, come detto, interi palazzi nuovi con appartamenti vuoti, senza compratori, presenze inquietanti e testimonianza di quella ricchezza immobiliare produttrice dell'attuale miseria urbana, del saccheggio delle città operato a colpi di valorizzazioni immobiliari da parcheggiare e far viaggiare nel circuito della finanza mondiale, del fenomeno mondiale delle "case di carta".
Il bambino che fa scorrere il suo triciclo in una strada deserta lo fa su una lunga striscia di un largo marciapiede disegnato al di là della strada. Pur nell'assenza di persone, si nota una certa, seppur non soddisfacente, opera di manutenzione; una sorta di cura, un tentativo impossibile per fare di quelle case un pezzo di città.
Impossibile perché quelle finestre sbarrate, quei portoni inaccessibili dimostrano che quella ricchezza immobiliare era stata pensata per produrre e continuare a produrre plusvalore attraverso uno schema uguale in tutto il mondo: vendere sui mercati finanziari tutti i tipi di crediti (i mutui richiesti da chi costruisce e quelli di chi acquista), accrescere il numero e il valore delle transazioni, rendere liquidi i beni immobili.
Un processo totalmente indifferente alla localizzazione, pensato per fare profitto rivendendo pacchetti finanziari da alimentare attraverso l'imposizione di un sempre maggior numero di mutui alle famiglie.
Le case stanno lì, appoggiate le une alle altre , ma è come se fossero state fate sparire dalla città essendo destinate a non essere abitate.
In Italia si replica
Lo stesso è avvenuto a qualche anno di distanza in Italia, dove fra il 1997 e il 2007 sono stati realizzati 1,1 miliardi di metri cubi di nuova edilizia residenziale. La crisi finanziaria globale, bloccando il flusso del credito, ha trasformato il rallentamento iniziato nel 2006 dell'attività edilizia, dovuto a sovra-produzione, nel crollo a picco che si riscontra oggi. Gli ultimi cinque anni hanno visto aumentare lo stock di invenduto, senza che i prezzi delle abitazioni subissero un calo evidente, restando fra i più alti d'Europa.
Oggi, secondo i dati Nomisma, in Italia esistono 694 mila alloggi invenduti, a fronte di una domanda di edilizia sociale pari a 583 mila alloggi (dati Federcasa). Uno studio del Politecnico di Milano afferma che tra il 2002 e il 2008 il 75% delle costruzioni ha riguardato l'edilizia libera, mentre la domanda di edilizia sociale si attesta sul 42,5%.
Nel 2011 in Italia sono stati ordinati 63 mila sfratti di cui ben 56 mila per morosità, di questi 28 mila sono stati eseguiti dalle forze dell'ordine. In testa Milano con il 30% del totale.
Nei prossimi tre anni sono previsti in Italia altri 220 mila sfratti (dati Ministero dell'Interno). Spesso si stratta di sfratti per "morosità incolpevole", cioè non si paga l'affitto perché non si è materialmente nelle condizioni di farlo.
Con la legge di stabilità si è decisa solo una proroga di sei mesi degli sfratti per finita locazione in scadenza al 31 dicembre 2012, per le sole fasce deboli.
Che succede nella capitale?
A Roma ogni anno 2.500 famiglie perdono la casa, 10 famiglie al giorno, che cercano rifugio da amici e parenti o finiscono per strada od occupano un alloggio dei tanti vuoti che ci sono. Sono circa 10 mila quelli che vivono nelle occupazioni. Una città fatta di case su case, vuote.
Dove sono le 51 mila unità che abbiamo visto all'inizio rappresentare lo stock dell'invenduto romano da sommare alle 250 mila unità di quelle tenute vuote disseminate nel corpo dell'intera città? Andiamo a vedere.
Dove si trovano le case invendute?
Non tutte queste case sono state realizzate, lo saranno quando ci sarà l'acquirente. Anche a Roma si registra il crollo del rilascio dei permessi di costruire, che nei grandi comuni, rispetto solo quattro anni fa, è pari all'85%, essendo passato dai 1821 rilasciati nel 2008 ai 263 nel 2011 ! A Roma, secondo dati dell'assessorato alle politiche urbanistiche, oltre 400 permessi di costruzione non sono stati ritirati mettendo in crisi , a Roma come altrove dove si registra analoga tendenza, la strategia di molte amministrazioni, che hanno ceduto suolo su suolo alla ricerca dei contributi finanziari relativi alle urbanizzazioni primarie, secondarie e al costo della monetizzazione degli standard.
Oggi la geografia cittadina di cantieri finiti e da aprire vede le zone nord (Talenti, Cassia, Salaria) nelle prime posizioni. A nord est nel quartiere di Bufalotta si stima che il 60% di quanto realizzato sia invenduto.
Una gran parte di patrimonio d'invenduto è presente nella zona est (Tiburtina, Ponte di Nona, Tor Sapienza, Collatina, Lunghezza). Si stima che questa "fetta" di case sia pari alle 20 mila unità. Quantità più contenute si trovano ad ovest (Casetta Mattei, Boccea, Aurelia); mentre numeri consistenti si ritrovano nella zona sud (Laurentina, Torrino, Grotta Perfetta,Ostiense fino a Parco Leonardo). Acilia, Laurentina, Ostia, Romanina, Massimina sono le località che aspettano di vendere prima di partire con la colata di cemento.
Quante e come sono?
Stime prudenti valutano che il tasso di "assorbimento" (alloggi acquisiti rispetto quanti costruiti) oggi non superi il 30% . Nel 2007 questa percentuale era pari all'80%. La tipologia richiesta è cambiata a Roma come nel resto del paese L'appartamento per la famiglia si disintegra, sezionandosi per alloggi destinati a fasce deboli: studenti, immigrati, anziani. La risposta è del tutto insoddisfacente sia per tipologia degli alloggi ritagliati all'interno di modelli esistenti né pensati come tipologia specialistica e sia perché localizzati nelle periferie urbane prive di servizi.
Cosa trovano intorno a loro?
Paradossalmente le zone dove si registra la maggiore consistenza di invenduto sono le medesime su cui si abbatterà il diluvio cementizio contenuto in molte delle 64 delibere relativa alla manovra urbanistica. Nello stesso luogo, contendendosi palmo a palmo metri di terreno uno dopo l'altro, case che ci sono e resteranno vuote e case che si vogliono realizzare, consumeranno ulteriore suolo invece di pensare a recuperare il tanto spreco edilizio.
Questo a fronte delle stime dell'Agenzia del Territorio che, analizzando i dati dell'ultimo trimestre disponibili del 2012, stima il decremento delle transazioni immobiliari precipitare dal -17,8% del primo trimestre all'attuale -25,8%.
Nel periodo compreso tra gli anni 1966 e il 2006 le compravendite di case erano raddoppiate arrivando alla cifra monstre di 900 mila del 20026 con un incremento per quel che riguarda gli scambi pari al 3,1. Lo scorso anno con l'1,8% dello stock scambiato si è ritornati ai valori di 26 anni fa.
Saranno mai abitate?
A lungo si è parlato dell'Italia come di un paese di "proprietari di casa". È ancora così? In effetti dagli anni '50, quando era proprietario della casa in cui abitava il 40% degli italiani, si è passati a circa l'80% attuale, mentre la media europea è intorno al 64%. In realtà sono stati soprattutto i figli della classe media impiegatizia ad accendere mutui per comprare la casa, mentre la maggior parte dei figli della borghesia ne è entrata in possesso per via ereditaria.
La contrazione del credito da parte degli istituti finanziari e la maggiore disoccupazione e precarietà del lavoro hanno di fatto impedito la possibilità dell'acquisto, o il pagamento di mutui già contratti.
Ed è così che si rivolgono al mercato dell'affitto giovani italiani e immigrati, mercato che non è stato mai incentivato e che non è in grado di rispondere alla attuale domanda in ascesa.
Gli enti previdenziali hanno svolto un ruolo importante nel mercato dell'affitto, ma la dismissione del loro ingente patrimonio, tutt'ora in atto, ha trasformato una parte degli inquilini in proprietari e ha messo sulla strada gli altri.
Dal 2001 al 2012 a Roma sono state vendute agli inquilini 90 mila case a prezzi molto bassi. Poi la vendita degli alloggi è stata delegata a Fondi Immobiliari che, protagonisti dei processi di cartolarizzazione, hanno preteso, per rientrare dei mutui acquisiti per permettere i sopradescritti processi finanziari, sia per l'acquisto che per l'affitto i prezzi di mercato, troppo alti per poter essere sopportati da famiglie colpite dalla crisi.
Un fenomeno che sembrava finito, quello della coabitazione di più nuclei familiari, conosce invece una ripresa e un forte incremento.
Sono sempre di più le persone che condividono un appartamento per dividere le spese di affitto, il cui costo negli ultimi dieci anni ha visto un aumento di circa il 150% e rimane la voce che incide in maniera sostanziale nelle spese delle famiglie. E sono, come detto, quasi 10 mila le persone che vivono in case occupate (lasciate vuote o invendute). Tante quanti sono gli abitanti di San Lorenzo, fanno parte di un quartiere che non c'è in case che ci sono. Si è costruito tanto. Si è consumato tanto suolo. Si continuano a costruire case destinate a non essere abitate.
Così il 6 dicembre scorso un percorso nomade varcando molte soglie di queste case ha detto che quelle case debbono essere abitate perché ogni casa lasciata vuota, non abitata, cancella insieme alle tracce di tutte queste esistenze anche l'abitare di tutti noi.
A leggere il virtuoso documento della Commissione europea sembra di leggere Manzoni: "sopire" bisognava che facesse Don Abbondio, per servire i prepotenti, "limitare, mitigare, compensare" dice oggi l'Europa, per contrastare il consumo di suolo . Per di più, sapendo già che la "compensazione" diuventerà un "green washing". L'articolo e il documento sono ripresi dal sito web Salviamo il paesaggio, 15 gennaio 2013
Con il documento “Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo” la Commissione Europea ha di recente posto l’attenzione all’eccessivo consumo di suolo nel Vecchio Continente. La sfida – peraltro ambiziosa come ammette lo stesso Janez Potočnik commissario europeo per l’ambiente – è quella per cui ogni Stato membro dovrà tener conto delle conseguenze derivanti dall’uso dei terreni entro il 2020, con il traguardo di un incremento dell’occupazione di terreno pari a zero da raggiungere entro il 2050.
“La posa di superfici impermeabili nel contesto dell’urbanizzazione e del cambiamento d’uso del terreno, con conseguente perdita di risorse del suolo, rappresenta una delle grandi sfide ambientali per l’Europa d’oggi” scrive nella prefazione al documento Potočnik.
Prima di addentrarsi a spiegare quali possono essere gli approcci tesi a limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, la Commissione Europea indica un elemento di base necessario per raggiungere l’obiettivo “consumo di suolo = zero”: la piena collaborazione tra tutte le autorità pubbliche competenti, non solo dei dipartimenti preposti alla pianificazione e alle questioni ambientali ma anche, e in particolare, quegli enti governativi (Comuni, Province e Regioni) che gestiscono un territorio. È quindi ora che il consumo di suolo diventi un’aspirazione condivisa.
Dalla metà degli anni ’50 la superficie totale delle aree urbane nell’UE è aumentato del 78% mentre la crescita demografica è stata di appena il 33%.Questo significa che in tutta Europa la tendenza a “prevedere” piani di espansione urbanistica senza un’equilibrata correlazione con le effettive esigenze demografiche è prassi comune.
Attualmente, le zone periurbane presentano la stessa estensione di superficie edificata delle aree urbane, tuttavia solo la metà di esse registrano la stessa densità di popolazione. Lo sprawl è un fenomeno pericoloso: la diffusione di nuclei caratterizzati da bassa densità demografica costituiscono una grande minaccia per uno sviluppo urbano sostenibile. Inoltre l’espansione della città eleva i prezzi dei suoli liberi entro i confini urbani incoraggiando così il consumo verso l’esterno, consumo che a sua volta genera nuove domande di infrastrutture di trasporto e pendolari che si spostano per raggiungere il proprio posto di lavoro.
Passiamo all’aspetto dell’impermeabilizzazione. Oltre a ridurre gli effetti benefici che un terreno ha sull’ecosistema, l’impermeabilizzazione di un ettaro di suolo significa far evaporare una quantità d’acqua tale per cui viene impiegata l’energia prodotta da 9000 congelatori, circa 2,5 kWh, per rendere quel terreno arido. Supponendo che l’energia elettrica costi 0,2 EUR/kWh, un ettaro di suolo impermeabilizzato fa perdere circa 500mila euro a causa del maggior fabbisogno energetico. Limitare l’impermeabilizzazione del suolo è sempre prioritario rispetto alle misure di mitigazione ma laddove questo non avviene verde pubblico e uso di materiali permeabili sono i due principali elementi per tendere verso il risparmio energetico. Tale risparmio è un vantaggio per le economie europee vessate dalle spese: ad esempio un tetto verde riduce i costi energetici di un edificio dal 10% al 15%. Per non parlare dell’inquinamento: un albero calato all’interno di un contesto urbano può catturare 100 grammi netti di polveri sottili l’anno. Calcolando i costi di riduzione delle polveri, piantare un albero in città significa investire 40 euro all’anno.
Queste sono solamente alcune delle buone prassi che l’Europa caldeggia in fatto di limitazione del consumo di suolo e indica come ultima spiaggia la “compensazione”, sempre che questa non si trasformi in mero “green washing”.
Nella mobilità, come in ogni altro campo, l'ideologia contabile egemone ci nasconde le esternalità scomode: parliamone, invece. Corriere della Sera Milano, 15 gennaio 2013 (f.b.)
Ci provarono a Bologna quarant'anni fa; fu un grande successo, ma dopo tre anni si dovette fare marcia indietro per problemi di bilancio. Sembra un'altra epoca, un altro mondo. E invece nel mondo alcune città stanno ripercorrendo quella strada. Ultima città che, per combattere l'inquinamento e scoraggiare i cittadini a usare l'auto, ha introdotto la gratuità sul trasporto pubblico è stata la capitale dell'Estonia, Tallinn, dove, dall'inizio dell'anno si viaggia gratis su bus e tram. Immediatamente si è verificato un netto aumento degli utenti tanto che il sindaco ha dovuto annunciare l'aumento delle corse per far fronte all'accresciuta domanda.
Tallinn ha poco più di 400 mila residenti, circa un terzo di quelli di Milano, che oltretutto deve fare i conti con un pesante pendolarismo quotidiano che incide pesantemente sul trasporto pubblico locale.
Ma il caso Tallinn non deve essere rimosso solo per questo. Il concetto di funzione pubblica è molto poco di moda negli ultimi anni; la privatizzazione di molti servizi pubblici (troppo spesso si confonde la funzione con il servizio, e cioè la modalità con cui l'amministrazione pubblica declina la funzione) è ormai il main stream del nostro Paese, alle prese con i vincoli di una Europa che rappresenta l'8% della popolazione mondiale, produce il 25% del Pil globale e assorbe il 50% delle spese sociali complessive: 8-25-50, i tre numeri che non lasciano presagire una inversione di tendenza, a meno che non si ridefiniscano le priorità. Cosa significa ridefinire le priorità? Significa quantificare le esternalità sociali e ambientali legate alle modalità di esercizio delle funzioni pubbliche.
Parliamo di trasporti; investire miliardi di euro per nuove autostrade, che devono ripagare gli investimenti per la loro realizzazione, significa rinunciare ad altrettanti miliardi che potrebbero coprire il bisogno di mobilità della comunità. Se si calcolassero non solo i costi di realizzazione, ma anche le conseguenze, le scelte potrebbero cambiare. Nuovo traffico privato implica necessità di parcheggi, nuovo inquinamento, nuova urbanizzazione e nuovo consumo di suolo, molto superiore al suolo necessario per costruire la nuova infrastruttura. Quanto risparmierebbe il Comune di Milano se il 30 per cento dei cittadini rinunciasse all'auto?
Andrebbe fatto uno studio, ma se si considerassero solo le variabili economiche probabilmente il prodotto interno della città diminuirebbe. Ma la qualità della vita aumenterebbe a dismisura.
Non è solo Tallinn, città relativamente piccola a sperimentare la logica del trasporto pubblico gratuito. A Sydney e a Melbourne, metropoli con il triplo degli abitanti di Milano sono attive alcune linee gratuite per gli spostamenti in centro. Ragionare, senza pregiudizi ma con analisi reali delle conseguenze di scelte innovative che vadano in questa direzione rappresenta un passo concreto per definire la città del futuro.
In un intervista a Pietro Barucci (finalmente) una implicita condanna, tardiva ma piuttosto chiara, delle condizioni degli architetti impegnati a collaborare alla costruzione di città per i cittadini, e non solo a proporre begli oggetti per promuovere e ingentilire la rendita fondiaria. La Repubblica, 9 gennaio 2013, postilla (f.b.)
Pietro Barucci, architetto, ha compiuto novant’anni in questi giorni. Da due decenni non lavora più. Avrebbe potuto continuare, ha una figura slanciata, energica, la memoria è fervida, intatta la lucidità, sicuro l’argomentare. Ma su di lui si abbatté una specie di interdetto. Il suo nome è legato ai più grandi interventi di edilizia popolare realizzati in Italia, a Roma: Laurentino 38, Tor Bella Monaca, Quartaccio, Torrevecchia. E il maleficio che avvolge quelle torri grigie innalzate in periferia prende alla gola anche Barucci. È lui, si sente dire, il responsabile di architetture criminogene, spaesanti, ossessive. Quelle che svettano a Roma, ma che sono sorelle delle Vele di Scampìa e dello Zen a Palermo. Si grida, citando Michel Foucault: dàgli alle “istituzioni totali”. Si invoca: abbattiamole, facciamo palazzine.
«Mi sono stufato di ribattere», dice Barucci seduto a un tavolo rotondo sul quale spicca la copertina nera di un suo libro appena uscito, Scritti di architettura 1987-2012 (Clean, 151 pagine, 15 euro), in quello che era uno studio e ora è il salotto di casa. Mobilio anni Sessanta. Di fronte, due finestroni inquadrano Villa Medici e i pini di Villa Borghese. Scontata la battuta: eccoli qui gli architetti che disegnano casermoni e a Roma vivono in via Margutta. Barucci, che nel libro ribatte, eccome, ai suoi critici, non si è mai iscritto a nessuna cordata, accademica o di partito. Assistente all’università di Adalberto Libera, alla morte di questi venne scalzato dal suo successore, Ludovico Quaroni, che gli preferì Manfredo Tafuri. Da allora iniziò una folgorante carriera professionale, non solo in Italia, culminata con i grandi complessi di case popolari. E conclusa di botto, con uno strascico di amarezze che ora sembrano ricomposte in riflessioni altrettanto amare, ma affabilmente diluite.
Quando ha chiuso lo studio?
«Nel 2003. Ma da un decennio non ricevevo nessun incarico».
Chi è stato l’ultimo committente? «Il commissariato per la ricostruzione post terremoto a Napoli. Un impegno durato dodici anni, fino al 1994, in condizioni spaventose».
Perché spaventose? «Inizialmente il clima era eccellente. Vezio De Lucia, responsabile del commissariato, mi chiese di coordinare interventi di nuova costruzione e il recupero di edilizia storica. Il commissariato era un’oasi di pulizia. Quando, a metà degli anni Ottanta, il Comune perse la regìa delle operazioni, iniziarono a spadroneggiare imprese piovute dal Nord, concessionari che prendevano anticipi stratosferici e poi subappaltavano alla camorra. Sotto di me c’era gente che collezionava tangenti per parlamentari e ministri».
Il risultato? «Volevamo costruire il nuovo nel corpo vivo della città, nella periferia slabbrata di Barra. Il nuovo che riqualifica l’esistente. Purtroppo il nuovo fu mangiato dall’esistente».
Una questione che più volte si è riproposta. Lei fu oggetto di dure critiche. Le si addebitavano esagerate pretese razionaliste. «Il postmoderno ha toccato l’apice in quegli anni. Io sono stato additato come l’ultimo dei moderni, che da aggettivo qualificativo era diventato insulto diffamatorio. Ma, al fondo, una questione culturale si tramutò in una discriminazione professionale».
Chi la discriminò? «Gli attacchi più spietati giunsero da Controspazio, la rivista di Paolo Portoghesi. Era un gruppo di pressione, formato da giovani architetti che sventolavano vessilli postmoderni ed erano animati da spirito che oggi diremmo “rottamatorio”. Per me fu uno choc, con implicazioni familiari».
Familiari? «Nella redazione della rivista lavoravano mia figlia Clementina e mio genero, Giorgio Muratore. Per anni i nostri rapporti sono stati tesi. Quando ci incontravamo in luoghi pubblici, cercavamo di svicolare».
Lei era indicato come l’artefice di edifici e di quartieri che iniziavano a deperire il giorno stesso della loro inaugurazione. «Si riferisce al Laurentino 38, immagino. Detto in estrema sintesi, penso che fosse una proposta culturale, politica e professionale di una qualità e di un’importanza non adatta a Roma. E dunque una proposta destinata a fallire».
Da dove trasse ispirazione? «Francia, Inghilterra, Olanda, paesi scandinavi. Il modello erano le new town inglesi, il quartiere autosufficiente, come quello di Bakema e Van den Broek ad Amsterdam».
Nulla di comunista? «Sciocchezze. Immaginammo quattordici insulae, ognuna con sette edifici, di cui cinque in linea, una torre e un ponte che li teneva insieme e dove pensavamo di sistemare negozi, uffici pubblici, uffici privati, un centro sociale. Era lo spazio di incontro e di convivenza. Sotto correvano le macchine, tenute lontane dal percorso sovrastante, solo pedonale. Raccoglievamo l’eredità del movimento moderno, il nostro era un manifesto di idee».
Troppa ideologia e poca concretezza? «Le dimensioni non le abbiamo scelte noi. Il Comune ci chiedeva di sistemare 32 mila abitanti. E, a proposito di concretezza, bisogna ricordare che in quei primi anni Settanta l’emergenza abitativa era esplosiva».
È esplosiva anche ora. Come si risponde? «Non si risponde. Non esiste più edilizia pubblica. Almeno noi cercavamo di darlo un tetto a chi non ce l’aveva».
I problemi al Laurentino iniziarono fin da subito. «Il Comune doveva curare la gestione, ma gli allacci elettrici, le fogne, le strade furono realizzate due anni dopo la fine delle case. Al Laurentino sono state trasferite centinaia di famiglie che occupavano un hotel ricettacolo di delinquenza e di spacciatori. Se si creano le condizioni perché un quartiere degradi, non c’è buona architettura che possa salvarlo. A Roma come altrove».
Si è detto che progettaste un insediamento per un proletariato che non esisteva più, sognando forme comunitarie ormai in disuso. Cominciavano gli anni Ottanta... «È vero. In ognuno dei ponti era previsto un centro sociale, ma proprio in quegli anni fu soppresso il corpo degli assistenti sociali, che accompagnavano gli assegnatari negli alloggi. Oggi dimentichiamo che gli abitanti venivano da case abusive e da baracche. Avremmo dovuto leggere meglio le trasformazioni. Ma m’illudevo che potessimo allinearci all’Europa del Nord. Nelle new town c’era tecnologia, visione comunitaria, sociologia. Quello che io cercavo di realizzare qui».
Lei poi ha progettato parte di un altro quartiere considerato emblema della disperazione metropolitana, Tor Bella Monaca. Quelli sono anche gli anni di Corviale...
«Corviale è uno stupendo progetto di architettura non adatto a una città come Roma. Ma mi lasci ricordare che ho lavorato al Tiburtino sud, un altro quartiere popolare. Era il 1971. Alcune famiglie che ebbero assegnato l’alloggio e che poi si erano trasferite altrove, a distanza di decenni sono tornate nel quartiere, ma stavolta da acquirenti».
Nel 2006 tre ponti del Laurentino vennero abbattuti. Il degrado era insopportabile, disse l’amministrazione comunale. Che cosa ha provato? «Un senso di orrore. I ponti erano occupati, in mano a malavitosi. Ma scartare l’ipotesi del recupero e demolirli, sostituendoli con palazzetti costruiti sulla strada, è un atto di bestialità. Capisco l’impeto d’un residente, dopo decenni di abbandono. Ma un’autorità pubblica che vuole compiacere la protesta e farsi un po’ di propaganda compie una scelta incolta ».
Ora si vorrebbe abbattere parte di Tor Bella Monaca. «Una cretinata che non ha nessun senso. Non se ne farà nulla ».
È mai più tornato al Laurentino 38? «Una volta, alcuni anni fa. Da allora mai più. Fa parte del mio rifiuto nei confronti di un mondo che non capisco. Nel ’98 visitai il Museo Guggenheim a Bilbao realizzato da Frank Gehry. Mi son detto che non ero più in grado di fare l’architetto».
In alcune brevi affermazioni, il rinnovato ruolo del settore per il territorio, l’ambiente, l’alimentazione e il progresso della società. Documento redatto da Peter Carruthers, Michael Winter e Nick Evans e presentato alla Oxford Farming Conference, gennaio 2013 (f.b.)
Quello che segue è l’Executive Summary del rapporto Farming’s Value to Society: realising the opportunity, redatto da Peter Carruthers, Michael Winter e Nick Evans, delle università di Exeter e Worcester, presentato alla Oxford Farming Conference, gennaio 2013 – Traduzione di Fabrizio Bottini
Un tempo il valore dell’agricoltura per la società era compreso chiaramente e valutato. Non capitava certo che qualcuno ponesse la questione: “a cosa serve l’agricoltura?”. Ma a partire dagli anni ’70 e ’80, con l’affermarsi dei tipo di attività intensiva sul modello prevalente dal dopoguerra, l’atteggiamento collettivo nei confronti dell’agricoltura si è sempre più caratterizzato per i timori sull’impatto ambientale, o come vengono trattati gli animali, o la Politica Agricola Comunitaria (PAC), i finanziamenti, la sovraproduzione. Di conseguenza, gli agricoltori sono stati sempre più messi ai margini. Dai sondaggi di opinione emerge oggi che il pubblico ha di nuovo un atteggiamento favorevole all’agricoltura. E il settore e il suoi rappresentanti recuperano fiducia.
Una fiducia che però non può basarsi esclusivamente sull’immagine pubblica, ma richiede una migliore comprensione anche scientifica del perdurante valore sociale del settore. Questo studio cerca di rispondere all’esigenza. Utilizzando abbondanti fonti di altri studi pubblicati, il rapporto ricostruisce il valore dell’agricoltura per la società, almeno in Gran Bretagna, con l’obiettivo di aggiungere alcuni aspetti forse meno noti. “Agricoltura” vuol dire attività, persone, territorio. Quindi questo valore deve essere valutato usando molti indicatori. Al centro dello studio c’è l’analisi degli aspetti alimentari, territoriali, sociali, e del relativo valore. Si esaminano poi gli atteggiamenti della collettività nei confronti del settore, le principali sfide pubbliche per il futuro, e si esprimono alcune raccomandazioni.
L’atteggiamento del pubblico
L’atteggiamento del pubblico rispetto agli agricoltori e all’agricoltura risulta in genere positivo, anche se non manca una cospicua minoranza con opinioni negative. Ma l’argomento è comunque poco conosciuto. Gran parte delle persone considerano importante l’agricoltura per l’economia e sono convinte che giochi un ruolo altrettanto importante per la tutela dell’ambiente; esiste preoccupazione per il trattamento degli animali da allevamento e gli organismi geneticamente modificati.
Le sfide per la politica
Anche la nostra agricoltura nazionale ha di fronte le questioni della sicurezza alimentare globale, del cambiamento climatico e dell’energia, ma si deve agire sulla scorta sia dell’esperienza di quanto siano stati pesanti gli impatti ambientali del modello di coltura intensivo. La politica deve saper mettere al centro del settore agricolo e alimentare le esigenze attuali e future della società, e a tale scopo risulta essenziale comprendere quale valore abbia l’agricoltura per la società.
Il cibo
La produzione alimentare resta il valore principale dell’attività agricola, sia al momento attuale che nelle proiezioni future. Oggi in Gran Bretagna il settore dà da mangiare a una popolazione di 63,5 milioni di persone, e sostiene attività che complessivamente contribuiscono per quasi il 7% al valore aggiunto lordo. La sicurezza alimentare è un elemento molto apprezzato. Gran parte delle persone è convinta che dovremmo essere ancor più autosufficienti da questo punto di vista. Ma non si accetta sicuramente di farlo a costo di compromettere il benessere degli animali da allevamento o la tutela dell’ambiente. Esiste una parte notevole del valore attribuito a ciò che si mangia derivante dalla sua origine. Le persone apprezzano di sapere da dove viene il loro cibo, e come viene prodotto: di particolare significato il trattamento degli animali e la provenienza regionale, nazionale britannica, o locale. Il comparto del mercato alimentare “etico” (nazionale) è più che raddoppiato negli ultimi dieci anni, e oggi pesa per il 2,7% del totale della spesa alimentare. Per alcuni è importante un rapporto diretto coi produttori, come evidenziato dalla crescita dei negozi di vendita diretta, dei farmers’ markets e dell’agricoltura urbana partecipata.
Il territorio
Oltre alla produzione alimentare, il territorio agricolo esprime anche altre attività come quelle del turismo, della caccia o dell’equitazione, che svolgono un ruolo importante nelle economie e nelle società locali. Coltivare ha effetti sia positivi che negativi sull’ambiente naturale: quelli negativi oggi sono diminuiti, ma impongono ancora costi ambientali, c’è molto lavoro da fare. Il valore sociale e culturale dell’agricoltura si esprime nel paesaggio, nella natura, nei luoghi.
Valori
L’agricoltura è un valore perché corrisponde a idee di sostentamento, sicurezza, relazioni fra le persone e con la natura, tradizione, identità. Quest’ultimo aspetto rispecchia molti dei vantaggi sociali e culturali riassunti sopra. Per corrispondere alle aspettative si deve continuare a poter accedere alle campagne e all’agricoltura, a mantenere forti legami fra questa e la società tutta, proteggere l’ambiente naturale e la sua cultura. Una prospettiva etica dovrebbe spingerci ad andare oltre il solo pensare alla “produzione” in termini di costi e benefici, e considerare quello fra agricoltura e società come rapporto reciproco responsabile, di servizio e cooperazione. L’etica deve anche presiedere alla nostra considerazione del valore pubblico dell’agricoltura e al suo rapporto con la considerazione sociale.
Un valore complessivo
L’agricoltura risponde a dei bisogni e rappresenta una risorsa, offre una ampia serie di vantaggi e servizi (oltre a comportare dei costi). Coinvolge la vita delle persone in modo assai più complesso di altri settori. I vari tipi di valore inerenti l’agricoltura però, e i relativi indicatori sociali corrispondenti, non sono certo facili da ricondurre a una valutazione complessiva, che la osservi contemporaneamente da vari punti di vista. Per farlo, per comunicare queste prospettive di valori alla società, oltre che per trarne giovamento, il settore agricolo (sia in quanto tale, sia per le politiche che lo riguardano) deve rafforzare i suoi rapporti col pubblico, chiarire quale sia la massa critica di aziende e occupati necessaria agli obiettivi, come usare le politiche agricole comunitarie e di altro per obiettivi sociali. In futuro, il settore dovrà trarre ispirazioni e idee da un ampio ambito di risorse, anche esterne a sé: quello di cui c’è bisogno non sono tanto soluzioni tecniche, ma innovazioni sociali.
Raccomandazioni
Ad accrescere il valore sociale complessivo del settore agricolo si raccomanda di:
• Produrre più alimenti dei quali sia chiara l’origine e costruire una relazione diretta fra produttori e consumatori.
• Rafforzare la comprensione collettiva del ruolo alimentare dell’agricoltura e delle aziende.
• Aggiornare e riflettere sulle raccomandazioni del 2002 della Commissione Europea sul futuro agricolo e alimentare, riguardo al “recupero del contatto col pubblico” e sviluppare strategie per il futuro.
• Stimolare la biodiversità nelle champagne, riconoscendone gli ampi benefici sociali ed economici in un quadro di programmi agro-ambientali.
• Contribuire alle questioni sociali e della salute, aprendo a nuove accessibilità e frequentazioni, per attività fisiche nelle campagne, e sviluppando gli aspetti terapeutici, soggiorni brevi, care farming.
• Individuare i motivi per cui la collettività non sfrutta appieno i vantaggi offerti dalle campagne per l’attività fisica all’aperto, valutandone anche il potenziale in termini di risparmio per la salute e le terapie.
• Stimolare una maggiore partecipazione ai programmi di aperture delle aziende al pubblico
• Sfruttare il sistema dei valori economici e etici anche nei rapporti con la politica e le sue scelte.
• Sfruttare le tecniche della partecipazione alle decisioni come strumenti privilegiati per valutare i potenziali del settore e il coinvolgimento del pubblico.
Nota: credo sia di particolare interesse, questo breve estratto dalla Oxford Farming Conference, anche perché si inserisce in un filone di riflessione storico per l'organizzazione del territorio, ovvero quello del rapporto città-campagna declinato in salsa britannica, che ha prodotto solo per fare un esempio a suo tempo l'idea di Città Giardino di Howard; suggerisco per chi volesse ampliare il raggio delle conoscenze la lettura di un altro estratto, dal progetto Città Nuova del 1919, per una ricostruzione nazionale post-bellica equilibrata, appunto nel solco della città giardino ma con particolare riguardo alla produzione agricola. L'ho tradotto per Mall col titolo L'agricoltura nella Città Nuova (f.b.)
Le proposte di chi autorevolmente esprime le attese di una delle essenziali componenti, sociali e culturali, del fronte che contrasta l'abnorme consumo di suolo. La Repubblica, 4 gennaio 2013, con una postilla un po' lunga
Mancano meno di due mesi alle prossime elezioni, l’attenzione si concentra, come ovvio, sulle candidature e sulle future alleanze; tuttavia si avverte una diffusa sensazione di ripartenza, di possibilità di riscrittura che non si avvertiva da tempo. Complice una crisi di portata storica che coinvolge tutto e tutti: che attraversa l’economia, l’ambiente, la politica, la vita quotidiana delle persone. E quindi tocca pensare. Cosa vogliamo? O meglio: di cosa abbiamo bisogno? E cosa vogliamo fare per ottenerlo? Chiedere ai candidati di occuparsi di “politiche alimentari”, ovvero di ripensare, ridisegnare, quelle che finora sono state, in modo impreciso, inadeguato e insufficiente, chiamate “politiche agricole”, non è cosa di poco conto per il futuro di questo Paese. Su questo terreno vale la pena di sottolineare quelle che secondo me dovrebbero essere le priorità del prossimo governo centrale, ma anche dei prossimi governi regionali, dato che anche alcune regioni rinnoveranno i loro amministratori tra poche settimane. Quattro punti, quattro pensieri, quattro piccoli ma forti pilastri su cui appoggiare un nuovo modo di pensare l’agricoltura di questo paese; una miniagenda, se volete, quasi un foglietto di appunti.
1 — Politiche alimentari significa politiche condivise e interconnesse: ambiente, agricoltura, educazione, salute, economia, giustizia, sviluppo, industria, beni culturali. Dove inizia un settore e finisce l’altro? Non si può dire, non esiste confine. Se si fa politica per il cibo e per l’agricoltura si fa, finalmente, politica per tutti, si tutela il bene comune. Come si fa? Non lo sappiamo fare perché non l’abbiamo mai fatto. Ma un tavolo condiviso, un posto in cui tutti i ministri e tutti gli assessori verificano, prima di vararli, la coerenza dei provvedimenti di cui si fanno portavoce sarebbe un buon inizio.
2 — C’è un disegno di legge già approvato che attende di diventare legge. È stato ribattezzato “Salva suoli”. L’ha presentato il ministro Mario Catania, che l’ha scritto e migliorato con la collaborazione delle Regioni e della rete di associazioni della società civile. Serve a porre, sia pure con imperdonabile ritardo, fine alla dissipazione del suolo agricolo italiano, alla cementificazione ignorante che ha devastato il nostro territorio e di cui paghiamo il prezzo in dissesti e vite umane ad ogni temporale. È un lavoro facile, è quasi tutto fatto. È solo un lavoro da finire, e i candidati che nelle prossime settimane si diranno a favore della protezione del territorio italiano provino a dirlo in modo più chiaro: dicano che si impegneranno perché quel disegno di legge diventi al più presto una legge nazionale.
3 — Le nostre campagne hanno bisogno di ripopolarsi. Perché il made in Italy passa dai campi e dalle mani dei nostri produttori. E le mani dei produttori oggi sono rugose, sono stanche, sono mani anziane. E spesso sono mani che non sanno a chi consegnare tutta la loro esperienza e tutti i loro saperi. E, come si sa, i nostri giovani hanno bisogno di lavorare. E di sentirsi protagonisti di quello che producono e di quello che diventano. L’agricoltura può dare a un giovane tutto questo, a patto che smetta di essere sinonimo di emarginazione sociale e di difficoltà economica. E a patto che accedere al lavoro agricolo smetta di essere una specie di corsa a ostacoli, contro la burocrazia, le normative sproporzionate, l’impossibilità di accedere a crediti ragionevoli. Quindi i candidati che nelle prossime settimane intendono parlare di lavoro giovanile potrebbero intanto impegnarsi a facilitare questa fetta di lavoro giovanile: quello in agricoltura. Perché sono tanti i giovani che ci stanno provando, e, nonostante tutto, ci stanno riuscendo. Ma sono tantissimi i giovani che ci stanno pensando e che rinunciano prima di provare perché le difficoltà sono davvero troppe.
4 — E infine, un compito facile facile. Decidiamo una volta per tutte che agricoltura serve al nostro paese. Un paese fatto di milioni di piccole aziende agricole. Un paese che ha il biologico tra i suoi vanti. Un paese che basa la sua ricchezza sulla biodiversità di razze animali, varietà vegetali domesticate e spontanee, di prodotti tipici e delle tante biodiversità che quelle implicano: la biodiversità delle sementi tradizionali, dei microrganismi del suolo, delle agricolture tradizionali. Ecco, cosa serve a un paese così? Non serve un’agricoltura di brevetti, non serve un’agricoltura di multinazionali, non serve un’agricoltura di contoterzisti. Non servono gli Ogm. Semplicemente non servono. E già questo basterebbe a richiedere un impegno per fare in modo che vengano esclusi dal nostro futuro alimentare. Se a questo si aggiungono i tanti punti non ancora chiariti a proposito delle colture Ogm, la necessità di continuare ad investigare e a fare ricerca per definirne con chiarezza i possibili impatti sull’ambiente, sulla salute e sull’economia risulterà chiaro che appellarsi al principio di precauzione sarà la cosa più ovvia da fare, decidendo che il nostro paese resta Ogm free. Quindi quei candidati che nelle prossime settimane parleranno di green economy, potrebbero partire anche da qui: dal più vasto settore di green economy che abbiamo, da sempre, sotto gli occhi: l’agricoltura sostenibile. Ecco, una mini agenda, se volete; o meglio, un bigino – si parva licet componere magnis – da portare con sé lungo la prossima legislatura. Perché questo terzo millennio sarebbe proprio ora che iniziasse.
Postilla
L’articolo di Petrini sottolinea giustamente l’assenza totale, dall’Agenda Monti, di proposte relative all’agricoltura e alla politica alimentare. E’ una delle numerose facce della politica del territorio, che è assente in quell’Agenda. Un’assenza che non è casuale, ma è dovuta al fatto che nell’ideologia montiana il territorio è, nel suo insieme come nelle sue parti, una risorsa da spremere, non un patrimonio da gestire con accortezza e parsimonia. Se un’agricoltura industrializzata dà al PIL un contributo maggiore di un’agricoltura a km zero ben venga, e ben vengano le altre forme di land grabbing se il risultato economico (nell’economia data, che per i montiani è l’unica possibile) è lo stesso.
Chi non è d’accordo con i montiani e vuole difendere le prospettive di un futuro diverso dovrebbe proporsi due obiettivi, a mio parere essenziali: contrastare subito il consumo di suolo e promuovere una efficace politica del territorio. Sul primo punto nutriamo fortissimi dubbi sull’efficacia della proposta Calabria. Li esprimeva recentemente in queste pagine Vezio De Lucia, con una “opinione” su cui avremmo voluto che si aprisse un fruttuoso dibattito. Che fare? Se effettivamente vi fosse un Parlamento che volesse di contrastare subito e con efficacia il consumo di suolo derivante dalle irragionevoli espansioni delle aree urbanizzate, allora basterebbe riprendere la strada aperta nel 1985 dalla legge Galasso, e decidere che il territorio rurale poichèbappartiene a quel paesaggio che «è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive» (B. Croce) va tutelato al pari delle coste marine e dei corsi d’acqua, dei boschi e dei monti: nell’immediato con un vincolo, in prospettiva con una avveduta e lungimirante politica del territorio, Lo proponevamo del resto fin dal 2005 quando, a conclusione di una sessione della Scuola di eddyburg nella quale, allora solitari, lanciammo un’argomentata denuncia del consumo di suolo e un appello al suo contrasto Certo, per essere efficace in un contesto nel quale la maggioranza dei decisori vede il vincolo come un ostacolo allo “sviluppo” (quindi qualcosa di esecrando) una simile decisione deve giovarsi del potere di tutte le autorità dotate di poteri in questo dominio: quindi, in primo luogo lo Stato, che ha con il Codice del paesaggio un potere che nella Galasso non aveva.
Sul secondo punto (cioè sulla necessità di un approccio non settoriale (giustamente sollevato da Petrini) alle politiche territoriali dobbiamo domandarci che cosa significa promuovere una corretta politica territoriale. Occorre partire da un presupposto: se il territorio è un sistema, in cui tutte le cose (e tutte le scelte) interagiscono, allora si devericorrere a un metodo, e a un insieme di strumenti, che siano anche essi olistici: quindi quelli della programmazione e della pianificazione territoriali. Naturalmente concepiti, organizzati e gestiti in modo omogeneo ai principi essenziali della democrazia, così come questa è definita, nei suoi principi e nelle sue regole, dalla Costituzione che i padri della nostra Repubblica ci hanno dato. Sarebbe bello se nel concorrere alle prossime elezioni qualche formazione politica affrontasse con un po’ di rigore questi temi, cominciando magari col domandarsi perché la politica politicante (e le stesse istituzioni) abbiano abbandonato quei principi e manomesso alcune di quelle regole.
Per i dettagli tecnici, si rimanda ovviamente a lavoce.info. Ci si limita a riassumere qui gli aspetti più clamorosi e intuitivi di quella critica. Lo studio Fs riguarda la fattibilità socioeconomica dell’opera (“analisi costi-benefici per la collettività”). Non sono stati presi in esame gli aspetti finanziari dell’opera (soldi che entrano ed escono per lo Stato), dato che si assume che non vi siano ritorni finanziari di sorta, e che dunque lo Stato paghi tutto, fino all’ultimo euro.
Dunque, il raddoppio ad Alta Capacità/Alta Velocità della linea Napoli-Bari, lunga 162,3 chilometri, aveva un costo previsto al momento dello studio di 4,052 miliardi di euro. Lo studio è stato fatto da RFI (sezione di FS che si occupa di infrastrutture) un paio di anni fa. Dallo studio Rfi l’opera risulta fattibile, con un beneficio netto per la collettività di 683 milioni di euro. L’analisi critica della Voce, basata su una tesi del Politecnico di Milano, portava il risultato netto per la collettività da +683 milioni di euro a -837 milioni. Cioè l’infrastruttura determinerebbe una vistosa perdita netta di benessere sociale, uno straordinario spreco di soldi pubblici. Ma questo eliminando solo alcuni errori materiali riscontrabili (i principali legati ai costi ambientali), senza entrare in merito all’aspetto più spinoso della faccenda: le previsioni di traffico.
La nuova linea fa risparmiare, sulla base dei dati ufficiali, un’ora e un quarto ai treni passeggeri, e probabilmente un po’ di meno ai treni merci (il dato per questi non è specificato). L’esperienza e la letteratura internazionale evidenziano che se il tempo di viaggio dimezza, il traffico può anche raddoppiare. Ma qui siamo lontanissimi da quel valore! Il traffico previsto dallo studio FS arriva a quadruplicarsi con la nuova linea. Non vengono fornite spiegazioni sul modello usato per raggiungere quell’inverosimile valore. La sensazione è che si tratti di una lieve confusione tra l’offerta possibile (quanti treni ci possono passare), e la domanda (cosa verosimilmente ci passerà).
Ovviamente, se nella revisione dei calcoli sopra presentata si fosse assunta una domanda “verosimile” sulla nuova linea, i benefici sociali prima citati sarebbero ulteriormente crollati, a circa un quarto di quelli stimati (e da noi assunti comunque come veri per essere prudenti nel criticare uno studio altrui).
Uno degli argomenti in difesa delle grandi opere è il seguente: intanto facciamole, poi la domanda arriverà. Illuminante a questo proposito è la linea AV Milano-Torino, costata 8 miliardi, con una capacità di 330 treni al giorno: dopo quattro anni, ne passano 22. Meglio non parlare poi degli aspetti occupazionali: per euro pubblico speso, queste opere occupano pochissima gente.
Ma nei due anni trascorsi da quell’analisi qualcosa è cresciuto: non la domanda di traffico, purtroppo, ma i costi previsti, che sono passati da 4 a 7 miliardi. E parliamo solo di previsioni, i consuntivi tendono ad essere un po’ più alti. Le popolazioni locali qui non protestano, al contrario che nella Valsusa: la situazione economica e sociale è tale che qualsiasi euro pubblico è il benvenuto, e il settore delle opere civili a sud di Roma è spesso controllato da soggetti sociali che non è prudente contrastare, come dice la stessa Corte dei Conti.
Meglio non continuare a chiedere all’oste se il vino è buono.
Se Cultura potesse, se Politica sapesse; ma Politica non sa, e se sapeva ha dimenticato. L'Unità, 19 dicembre 2012
Sul crollo di Palermo e sui suoi poveri morti si allunga l’ombra di uno dei mille abusi edilizi, il Nell’ultimo venticinquennio sono più di un milione, secondo il rapporto del Centro ricerche economiche sociali di Mercato per l’edilizia (Cresme), gli abusi edilizi, tra nuove costruzioni e ampliamenti non autorizzati. Al di là della tragedia di Palermo, emerge un dato disperante: i ripetuti condoni edilizi gli ultimi tre imputabili a governi presieduto da Silvio Berlusconi hanno esaltato la sottocultura in base alla quale ciascuno può fare ciò che vuole. In casa propria come sulle aree ancora libere (anche se coperte da vincoli idrogeologici, anche se tutelate a parco, anche se a filo di arenile). Tanto un governo «sanerà» poi il malfatto. La regola in materia l’ha dettata lui, il ritornante Silvio: «Ciascuno è padrone a casa sua». Che è la negazione dello spirito comunitario, dell’interesse generale che prevale su quelli particolari, della Costituzione che tutela il paesaggio come bene comune dell’intero Paese. Il Pdl ha tentato la carta di un nuovo condono anche con la legge di stabilità. Cioè fino a ieri.
Nel solo 2010 si sono accertati, secondo i dati di Legambiente, 26.500 casi gravi di abusivismo edilizio, cioè di interi immobili costruiti senza alcuna autorizzazione, certificazione, licenza. Le regioni più devastate da questo fenomeno: Calabria, Campania e Lazio (la Sicilia viene subito dopo). Con la conseguente cementificazione senza fognature, ovviamente di circa 540 ettari di suoli liberi. La Calabria dove intere zone, come la piana di Scalea, risultano letteralmente sconvolte dal cemento vanta da sola 945 infrazioni, seguita dalla Campania che però detiene il primato delle persone denunciate: 1.586 su un totale di 9.290. Il Cresme sottolinea che si continua a costruire illegalmente «in un territorio ad alto rischio idrogeologico». Si ricordino le tragedie di Sarno, della fiumara di Soverato, della collina franata a Giampilieri di Messina, o a Ischia, con decine di morti e feriti ai quali ora si aggiungono le povere vittime di Palermo.
Dietro la colata di cemento abusivo c’è ormai quasi sempre la malavita organizzata: sta facendo risalire il fenomeno da sud a nord, «inquinando» le imprese venete e lombarde, sfibrandole con continui pagamenti di pizzo, o reinvestendo in proprio, con aziende di copertura, i profitti lucrati nel Mezzogiorno con una costellazione di attività illecite, a cominciare dall’edilizia. Il tutto con la complicità di colletti bianchi nel sistema finanziario e bancario, negli studi notarili e tecnici, nelle amministrazioni locali che chiudono gli occhi.
Qui molti altri articoli sull'abusivismo raccolti in eddyburg
Ambiguità, perplessità e balle dei governi: ciò che continuano a chiamare TAV. Avanti a tutti i costi pur di far guadagnare i ricchi e impoverire i già poveri. Il Fatto quotidiano, 5 dicembre 2012
I presidenti Mario Monti e François Hollande, nel vertice francese di due giorni fa, hanno fermamente deciso che la controversa linea Torino-Lione per le merci (non alta velocità, il nome Tav è una delle tante cose inesatte), s’ha da fare e si farà. Questa dichiarazione è talmente solida, che è stata già fatta un gran numero di volte negli anni passati, senza che sia successo poi molto. Soprattutto in termini di soldi veri allocati. Ma si è deciso di raddoppiare il tunnel autostradale, pare.
Molte perplessità sono legittime. I tempi: Hollande sembra che abbia chiesto di posporre la data di avvio dei lavori veri, già spostata al 2014.
Le ragioni sono una complicata revisione delle priorità dei progetti francesi ma anche severi vincoli di bilancio e crescenti perplessità interne, espresse in modo molto duro dalla Corte dei conti e dai Verdi, parte del suo governo. I lavori iniziati finora dai due versanti della Alpi sono solo tunnel esplorativi poco costosi (nonostante si tenti di affermare cose diverse).
I due governi poi “auspicano” che l’Unione europea paghi il 40 per cento degli 8,5 miliardi di euro che costa l’opera. Cioè 3,5 miliardi. Il ministro dello Sviluppo Corrado Passera ha dichiarato, interrogato in proposito, che “non vuole nemmeno pensare che questi soldi non arrivino”.
Ma i Paesi europei sono 27, ognuno con diversi giocattoli tipo Tav, e il bilancio europeo è oggetto di un pesante conflitto mirante a una sua riduzione (ai Paesi anglosassoni non piace che i soldi europei vengano spesi in questo modo, e forse non hanno tutti i torti). Dell’opera poi non è noto alcun piano finanziario degno di questo nome. È noto invece che gli utenti sono così ansiosi di usare la ferrovia, che se devono pagare anche una piccola quota dei costi di investimento, scappano come lepri. Al contrario degli utenti delle autostrade. Ma i treni fanno bene all’ambiente, giusto? Quindi il dettaglio che debbano pagare tutto le casse pubbliche non è considerato un problema.
C’è anche un altro dettaglio che forse Hollande non ha potuto esplicitare: le efficientissime e sussidiatissime ferrovie francesi hanno perso il 40 per cento del loro traffico merci nell’ultimo decennio, la crisi attuale c’entra poco. Non certo un buon auspicio per il traffico prevedibile sullalinea Tav. Il sistema caro ai francesi della cosiddetta “autostrada viaggiante” (camion interi caricati sul treno), una delle motivazioni dell’opera in questione, si è dimostrata non solo un disastro economico, e non era difficile prevederlo, ma con aspetti funzionali problematici.
Vediamo i veri aspetti ambientali del progetto: dovrebbe togliere molti camion dalla strada e spostarli sulla ferrovia. Questo risultato è altamente ipotetico, sia per lo scarso interesse delle imprese a usare il treno, sia perché il traffico totale dei camion su quella direttrice è modesto, e non in crescita. Inoltre i benefici ambientali riguarderanno aree non certo densamente popolate. Le merci che arriveranno in treno a destinazione dovranno poi rispostarsi sui camion e il danno ambientale nelle aree abitate sarà comunque molto più alto. Perché ritenere prioritario questo progetto, rispetto ad accelerare il progresso tecnico sui veicoli? Un camion vecchio inquina dieci volte più di un camion nuovo. E accelerare il rinnovo delle flotte costa molto.
I danni ambientali del nuovo tunnel sono invece certi. Non quelli a valle (il progetto attuale prevede il solo tunnel di base, ed è quindi molto meno impattante del precedente da 23 miliardi). Ma le ricerche recenti, soprattutto svedesi, dimostrano che i cantieri delle opere ferroviarie generano emissioni di gas serra molto superiori a quanto si pensasse. Danni ambientali certi e rilevanti, dunque, a fronte di benefici ambientali dubbi.
Ultima perla: il secondo tunnel autostradale non dovrà fare la concorrenza al treno e perciò avrà tariffe tali da impedire che il traffico aumenti. Dunque servirà pochissimo, se mai riusciranno a mettere in pratica questa stravagante idea.
I costi dell’opera, anche grazie alle molte obiezioni tecniche fatte, sono stati parecchio ridotti. Non altrettanto i tempi: almeno dieci anni. Il rischio maggiore, molto realistico date le esperienze italiane precedenti nel settore, è che si incominci a costruirlo, magari sotto elezioni. Poi i soldi finiranno e l’opera si trascinerà per ere geologiche. Senza che ovviamente alcuno alcuno risponda dell’ulteriore spreco di denaro pubblico che questo comporterebbe.
Procede l'iter di approvazione del disegno di legge per il contenimento del consumo di suolo. Per chi volesse ricostruire l'iter del provvedimento, rendiamo disponibili i documenti approvati dal Consiglio dei ministri e dalla Conferenza unificata delle regioni e delle province autonome. (m.b.)
Come è noto, il Consiglio dei ministri, nella seduta del 16 novembre scorso ha approvato in via definitiva, dopo aver acquisito il parere favorevole della Conferenza unificata delle regioni e delle province autonome, il disegno di legge per la valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo.
Per chi volesse ricostruire l'iter del provvedimento, rendiamo disponibili:
- la proposta iniziale predisposta il 10 settembre e sottoposta al Consiglio dei ministri il 14 settembre;
- il parere della Conferenza unificata, consegnato il 30 ottobre, con allegate le proposte di emendamento proposte dal Governo nella seduta del 23 ottobre e gli ulteriori emendamenti richiesti dalla Conferenza;
- il testo definitivo, approvato dal Consiglio dei ministri il 16 novembre.
Tra i punti principali posti dall’assessore Marson all’attenzione della affollata platea in Sala Pegaso, c’è il fatto che il governo prevede di distribuire ulteriori quote edificatorie, anziché fissare degli obiettivi quantitativi di riduzione del consumo di suolo. “Nelle Regioni più avanzate – ha detto Marson – con una solida tradizione pianificatoria come la Toscana, vengono fatti molti sforzi per ridimensionare le previsioni eccessive degli strumenti urbanistici più datati. Non è sempre facile rivedere le previsioni urbanistiche già in essere, ma c’è una differenza sostanziale tra rispettare le previsioni operative conformative della proprietà privata e far salve invece tutte le espansioni pensate sul lungo periodo come quelle dei piani strutturali”.
“La Regione Toscana in questa legislatura – ha chiarito Marson – ha messo a punto nuove politiche di contrasto al consumo di suolo nel governo del territorio, i cui risultati saranno pienamente apprezzabili soltanto in futuro. Per quanto riguarda invece la qualità del territorio e del paesaggio, nella nuova redazione del Piano paesaggistico regionale stiamo lavorando a una interpretazione strutturale basata su idrogeomorfologia, ecosistemi, sistemi insediativi policentrici, e territorio rurale. Per ora abbiamo ottenuto, primi in Italia, la validazione da parte del Mibac del lavoro di vestizione dei vincoli per decreto”.
Sugli aspetti quantitativi del consumo di suolo sono stati affinati i sistemi di monitoraggio sul consumo di suolo, e introdotti nuovi indicatori di valutazione degli effetti indotti dalle nuove urbanizzazioni sul territorio e sul paesaggio, come quello della frammentazione.
E’ stata rafforzata l’attività di verifica della coerenza tra Piano di indirizzo territoriale regionale e la pianificazione urbanistica locale, attraverso le osservazioni e, quando necessario, il ricorso alla conferenza paritetica interistituzionale. Le diverse integrazioni alla legge regionale sul governo del territorio, necessarie per recepire provvedimenti nazionali, sono state usate al fine di iniziare a diversificare le procedure per il riuso delle aree già urbanizzate rispetto al nuovo consumo di suolo agricolo. Ciò sia nel 2011 con la legge 40, che ha introdotto una nuova norma per la rigenerazione urbana, che con la legge 52/2012 che disciplina le procedure per le grandi superfici di vendita, differenziandole a seconda che interessino edifici già esistenti o nuove aree agricole, e prescrivendo in questo ultimo caso la pianificazione sovracomunale e la distribuzione degli oneri di urbanizzazione tra tutti i comuni.
“Più in generale – ha proseguito Marson – con la revisione organica della legge 1 che presenteremo a breve, il principio che nuovi impegni di suolo sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti, sarà sostenuto da dispositivi operativi efficaci a garantirlo”.
“Ma una volta fermato il consumo di suolo – si chiede Marson – come si garantisce la qualità del territorio non consumato? Nel caso del Parco agricolo della Piana, ad esempio, abbiamo approvato la salvaguardia su circa 7.000 ettari di aree in gran parte agricole, sottoposte a straordinarie pressioni edificatorie in quanto comprese all’interno dell’area urbanizzata più estesa della Toscana. La sfida ora è di riuscire a promuovere per tali aree politiche integrate capaci di valorizzarne l’uso agricolo e la multifunzionalità ambientale e paesaggistica”.
“In generale – ha concluso Marson – la posta in gioco per l’intera regione è quella di un efficace integrazione delle politiche settoriali nella cura del territorio, con la sfida di una nuova visione capace di conciliare lo sviluppo produttivo e sociale con la valorizzazione del capitale territoriale toscano e con l’esigenza di adattamento ai cambiamenti climatici. E qui torniamo al paesaggio nella sua interpretazione non solo estetico-percettiva ma strutturale”.
Settis: “Diamo un taglio lineare al consumo del suolo”
“Per difendere il nostro paesaggio serve un atto simbolico e concreto insieme: diamo un taglio lineare al consumo del suolo, chiedendo ai Comuni di diminuire del 2% il suo utilizzo”. Lo ha detto l'Accademico dei lincei e autore di “Paesaggio Costituzione e cemento”, intervenendo questa mattina al Convegno “Uso versus consumo del territorio rurale” organizzato dalla Regione Toscana presso la presidenza in Palazzo Strozzi Sacrati in piazza Duomo a Firenze.
Settis ha detto di aver inviato una proposta in questo senso al ministro dell'agricoltura Mario Catania, presente anch'egli al convegno e lo ha elogiato per aver posto attenzione alla questione del consumo del suolo agricolo, presentando un disegno di legge che ha giudicato buono, anche se migliorabile.
“Niente può tutelare meglio il nostro paesaggio – ha precisato Settis – di un'agricoltura di qualità e di fronte ad un numero di appartamenti costruiti negli ultimi anni che è 387 volte superiore al numero di nuovi abitanti, servirebbe una legge composta da un solo articolo, capace di incentivare i consumi a chilometri zero e anche il lavoro in agricoltura. L'hanno fatta in Brasile e prevede che ogni mensa utilizzi per almeno il 30% i prodotti agricoli di aziende locali”. Lo studioso ha detto poi che ogni anno a novembre ci sbalordiamo del fatto che l'Italia frana, ma dobbiamo sapere che siamo il Paese più franoso d'Europa e che a questo occorre porre rimedio.
A questo scopo ha illustrato infine alcune proposte migliorative del decreto sulla protezione del suolo agricolo, affermando che il Parlamento può trasformarlo in legge prima della fine della legislatura e augurandosi che il ministro abbia la forza per ottenerne la conversione.
Rossi: “In Toscana importanti cambiamenti nelle politiche del territorio”
“Siamo a metà della legislatura e possiamo dire che la Toscana ha compiuto importanti passi avanti nel cambiamento delle politiche del territorio”. E’ la valutazione espressa oggi dal presidente Enrico Rossi nel suo intervento al convegno “Uso versus Consumo del territorio rurale”, che si è svolto nella sede regionale di Palazzo Strozzi Sacrati a Firenze.
“Fin dal nostro programma di legislatura – ha proseguito – abbiamo puntato quanto più possibile sulla salvaguardia del territorio agricolo e la tutela del paesaggio. Questa idea, combinata con il rilancio del manifatturiero, ci è sembrata l’unica in grado di far ripartire uno sviluppo di qualità nella nostra regione. Abbiamo ripreso una discussione positiva e utile con i comuni per quanto riguarda i piani strutturali, abbiamo compiuto un altro passaggio straordinario con la “vestizione” dei vincoli. Con la revisione della Legge 1 punteremo, non in modo generico, sul riuso”.
“A tutto questo – ha continuato Rossi – aggiungo altre due svolte non meno radicali: il divieto a costruire nelle zone ad alto rischio idraulico, che costituiscono il 7% del territorio pianeggiante della Toscana, e la riforma dei Consorzi di bonifica, che vogliamo finalizzare alle attività di manutenzione. Tutto ciò mi sembra infine possa costituire una buona base per un accordo con il governo, nello spirito di qella visione complessiva del governo del territorio che ispirò anche l’attività di un grande presidente toscano, Granfranco Bartolini”.
“Questo convegno – ha concluso il presidente – ha cercato di ricollegare politica e pensiero, la politica, che pensa troppo poco, con gli intellettuali, a volte troppo distanti dalla concretezza. Purtroppo il tema della qualità dello sviluppo è assente dal dibattito politico attuale, pensiamo alla ripresa come a un riavvio che riprodurrà le linee di tendenza del passato. Invece dobbiamo affrontare il problema della gestione della finanza internazionale, della redistribuzione della ricchezza, della definizione di nuovi consumi. L’idea di una austerità fatta pagare solo ai ceti più deboli non è condivisibile, mentre è una idea di cambiamento del modo di produrre e di consumare quella su cui dobbiamo lavorare di più”.
Petrini cita Pasolini: “ Il giorno in cui questo paese perderà contadini e artigiani non avrà più storia”
“La terra è il vero bene comune ed è una risorsa non rinnovabile. E l’agricoltura è il bandolo di tutto. Il problema è che manca la terra per i giovani, ma mancano anche i giovani per la terra. Siamo davanti a una crisi sistemica, entropica. O cambiano i paradigmi, il modello di sviluppo, oppure arriviamo a un punto di non ritorno. L’agricoltura deve ridiventare centrale. Non bastano i pannicelli caldi per curare il malato-terra”. Così Carlo Petrini, presidente di Slow Food internazionale, che oggi è intervenuto a Firenze alla tavola rotonda organizzata dalla Regione Toscana su “Uso vs.consumo del territorio rurale”.
Nel suo intervento in Sala Pegaso Petrini ha affermato di apprezzare la filosofia che ispira il disegno di legge del governo per fermare il consumo di suolo proposto dal ministro per le politiche agricole e forestali Mario Catania, seduto accanto a lui al tavolo regionale. “Se c’è un buon intendimento, non ci si deve lamentare. Questo è il primo ministro che fa qualcosa in questa direzione. Bisogna solo mettere mano ad alcuni aspetti tecnici. Il vero rischio è che il disegno di legge non venga preso in esame ora e che sia rimandato al prossimo governo. Peraltro i candidati alle primarie mi sembrano silenti in tema di agricoltura”.
“Oggi la popolazione contadina – prosegue Petrini – è il 3% e molti hanno più di 60 anni. Bisogna invertire la tendenza, i nuovi contadini devono diventare i nuovi presidi del territorio. Giovani che non vogliono fare la vita grama dei padri, ma che sono consapevoli che la perdita dell’agricoltura è una perdita di coesione sociale e che il rapporto contado-città, nato proprio in Toscana con le botteghe artigiane come terzo elemento costitutivo, è la prima espressione sociale di civiltà. Non dimentichiamoci delle parole di Pasolini che in uno dei suoi Scritti corsari afferma che il giorno in cui questo paese perderà contadini e artigiani non avrà più storia”.
“Dovere primario della politica – dice Petrini rivolgendosi al ministro Catania, al presidente Rossi, agli assessori Marson e Salvadori – è porre l’agricoltura al centro, darsi da fare perché sia una opzione praticabile e promuovere con tutti i mezzi il ritorno alla terra di molti giovani, garantendo una retribuzione adeguata a un lavoro fondamentale che è manutenzione del territorio, prevenzione, salvaguardia della memoria collettiva e cura della bellezza del paesaggio. Non è solo questione di leggi, ma di filosofia, dobbiamo dare ai giovani la prospettiva di un progetto di vita. In questo dobbiamo essere tutti complici”.
2007-2010: più di 3.000 ettari di urbanizzazioni a spese del territorio rurale.
Sono 197.000 gli ettari di superficie urbanizzata del territorio toscano al 2010, pari all’8,53 del territorio regionale che si estende su una superficie di 2.298.869 ettari. Questo in base al monitoraggio sull’uso del suolo effettuato dagli uffici regionali sulla base di una rilevazione condotta secondo le metologie europee del Corine Land Cover, ma con un dettaglio ed una precisione confrontabili con quelli della cartografia regionale in scala 1:10.000.
Dal 2007, con l’obiettivo di reiterare il monitoraggio ogni tre anni, tutto il territorio regionale viene analizzato e classificato per verificarne le variazioni: questo consente di ottenere affidabili statistiche per valutare i trend di modifica del suolo. Sappiamo quindi che al 2010 la superficie agricola è pari a 882. 740 ettari (38,40%), quella boscata è pari a 1.198.257 (52,12%), e quella urbanizzata è di 196.198 ettari (8,53%). Al 2007 la superficie agricola corrispondeva a 885.801 ettari (38,53%), quella boscata era pari a 1.198.630 (52,14%), e quella urbanizzata a 192.926 ettari (8,39%), testimoniando quindi un incremento tra il 2007 e il 2010 di 3.272 ettari di superficie urbanizzata a spese della superficie agricola che infatti è calata di 3.061 ettari. Quella boscata è calata nel triennio di 373 ettari.
Questi sono alcuni dei dati relativi al territorio toscano presentati all’inizio della tavola rotonda “Uso vs.consumo del territorio rurale” che si è svolta oggi nella sede della Presidenza della Regione Toscana. I dati sono ora consultabili anche sul sito della Regione Toscana, alla voce “Territorio”.
La variazione media annua tra il 2007 e il 2010 indica una crescita dell’urbanizzato pari allo 0,047% che corrisponde ad un aumento del consumo medio giornaliero di 2,99 ettari in questi tre anni. Tra il 1954 e il 1978 si attestava sui 4,83 ettari, per salire ai 4.97 ettari di consumo giornaliero nel decennio 1978-88. Tra il 1988 e 1996 la media giornaliera era di 3,42 ettari, e tra il 1996 e il 2007 di 4,19.
Le stime ed i trend per i periodi antecedenti al 2007, e per la precisione relativi agli anni 1954, 1978, 1988, 1996 e 2007, sono stati ricavati con una classificazione di tipo campionario, più rapida e meno costosa, che consente una analisi anche a ritroso nel tempo, sulla base di ortofotocarte disponibili per diversi anni per l’intero territorio regionale.
Presentati anche i dati sull’abbandono del territorio rurale: sono quasi 236 mila gli ettari di superficie agricola utile abbandonati dal 1982 al 2010 in Toscana secondo l’Istat, mentre in base ai dati Artea, più accurati, tra il 2006 e il 2010 si calcola l’abbandono di 95.863 ettari con una media annua più elevata. Si conferma quindi un evidente processo di abbandono dei territori agricoli.
Sono stati anche analizzati i piani strutturali di 143 comuni (pari alla metà circa di quelli toscani e al 37% del territorio regionale) da cui è emerso che le previsioni di consumo di suolo solo in questi comuni sono pari a 48,9 milioni di metri quadri di Sul (superficie utile lorda) cui vanno aggiunte tutte le superfici per le urbanizzazioni e gli standard urbanistici. In queste previsioni solo il 6,5% riguarda il riuso dell’esistente, mentre il 23,3% è destinato a scopo residenziale, il 29,3% a edifici industriali/artigianali e il 3,8% a fini commerciali. Negli strumenti urbanistici comunali il rapporto tra nuovi impegni di suolo e riuso è quindi pesantemente a favore del primo.
Dopo le camere da letto e le mutande del prossimo, certo fanatismo autoritario si insinua nella gestione del tempo con la scusa dell’eternità. Corriere della Sera, 22 novembre 2012, postilla (f.b.)
Domenica prossima, nelle piazze italiane, avverrà una raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Confesercenti e Federstrade. L'obiettivo è l'abolizione della liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali, rimandando alle Regioni la possibilità di decidere in base alle esigenze locali. Il decreto salva Italia introdotto un anno fa non ha prodotto, infatti, i benefici sperati. Secondo il presidente di Confesercenti, Marco Venturi, 80.000 imprese sono destinate a chiudere con una perdita di più di 200.000 posti di lavoro. A dar retta agli studi di settore, solo il 3,12 della popolazione ha fatto acquisti la domenica ed è chiaro che solo i grandi centri commerciali possono reggere un simile impegno a scapito delle imprese più piccole e dei negozi familiari.
Accanto a questa iniziativa, si affianca la protesta dei lavoratori del commercio che hanno dato via al gruppo «Domenica, no grazie!». È un movimento nato dal basso, in Toscana, che si sta diffondendo in tutta Italia. Contrariamente a quello che si potrebbe supporre, infatti, queste aperture domenicali non portano vantaggi economici per i lavoratori, come emerge dalle molte testimonianze riportate nel loro sito. Lavorano di più con una paga, in proporzione, minore del dovuto. Naturalmente, esistono delle categorie che, a rotazione, operano anche la domenica: le forze dell'ordine, gli infermieri, i medici, i pompieri, i vigili del fuoco — tutte le realtà che sono necessarie al funzionamento della società. Non credo però che queste funzioni possano venire omologate a quello dello shopping festivo. Shopping che, in questi tempi di profonda crisi, si trasforma soprattutto in un frustante looking.
Queste proteste ci spingono a riflettere su cosa sia davvero la domenica, che senso abbia — o meglio aveva — questa interruzione del tempo che tutte le civiltà riconoscono come fondamentale e necessario per l'essere umano. Se ritorno alla mia infanzia e penso alle domeniche — quelle degli anni Sessanta in città — la prima sensazione che mi viene in mente è la noia. Non appartenendo a una famiglia religiosa, non c'era neppure il rito della messa; il tempo scorreva lentissimo e gli unici diversivi in cui noi bambini potevamo sperare era un pranzo dai nonni o un eventuale cinema nella rumorosissima sala di quartiere. Domenica voleva dire stare sdraiati sul pavimento a guardare il soffitto, aggrapparsi a un fumetto o a qualche gioco tra fratelli. La televisione era ancora assente dalle nostre vite o, anche se c'era, rimaneva spenta in salotto. Domenica dunque era soprattutto silenzio, rotto, nel pomeriggio, dall'ossessivo gracchiare delle radio dei vicini che trasmettevano le cronache delle partite.
Negli anni 80, quando già vivevo a Roma, passavo spesso le domeniche con Alberto Moravia. Andavamo in giro in macchina per la città, parlando del nostro argomento preferito: gli animali. Succedeva soprattutto d'inverno, quando le giornate erano grigie e corte. Ad un certo punto, lui sospirava rumorosamente, dicendo: «Je m'ennuis» ed io pronta rispondevo: «Moi aussi». Ma quella noia non era che un primo stato d'animo di quella improvvisa diversificazione del tempo perché, sotto la noia, covava in realtà il tizzone ardente dell'inquietudine. Quando penso al nostro mondo, un mondo che non si ferma mai, che vuole costringerci a non fermarci mai, penso a un mondo in cui non c'è più spazio per l'inquietudine costruttiva. E che cos'è l'inquietudine se non la spinta a muoversi, a cercare, a interrogarsi, ad andare sempre avanti, senza accettare passivamente il presente? Senza questa dilatazione infinita di tempi morti non si sarebbe mai sviluppata l'arte e neppure la scienza perché l'immaginazione — che sta alla base di entrambi i processi — esiste e si sviluppa soltanto nel momento in cui irrompe una diversa concezione del tempo.
È sempre noia quella che spinge folle di persone a invadere i centri commerciali, la domenica. La noia e l'imbarazzo di avere un tempo interno che ormai si è incapaci di gestire. Ma questo tipo di noia è sterile, perché, anziché aprirsi all'inquietudine e dunque alle domande, trova un immediato anestetico nella compulsione dell'acquisto. Una compulsione che non è molto diversa dal supplizio di Tantalo: appena si riesce a tacitare la paura del vuoto con un nuovo oggetto, subito ne compare un altro davanti ai nostri occhi, altrettanto urgente e allettante, in un moto di perpetua frustrazione. Alla base della disperazione attuale — questa disperazione cupa, distruttiva, che prende sempre più spesso il volto della depressione, dei pensieri ossessivi e degli attacchi di panico — c'è il totale smarrimento del senso della diversità temporale. Se il nostro tempo, il tempo della nostra vita, è solo quello del consumo, del possesso, dell'essere continuamente distratti da cose che ci chiamano fuori e che ci definiscono attraverso l'avere, quando la vita a un tratto irrompe con dimensioni diverse — quella della malattia, dell'imprevisto, della morte — rimaniamo preda di un addolorato stupore. Non sappiamo più come affrontare questi eventi perché abbiamo smarrito la capacità di riflettere sul senso e sulla complessità della nostra vita.
Nel nostro Paese, ossessionato dall'antagonismo clericale/anticlericale dovuto alla presenza della Chiesa, si tende a pensare che il rispetto del giorno di riposo sia un anacronistico piegarsi alle esigenze delle gerarchie vaticane, come se la domenica fosse esclusivamente un tributo dovuto ai preti. Che tragico errore! La domenica non è per i preti, ma più semplicemente lo spazio in cui l'uomo può realizzare il suo radicamento. Non a caso, nella laicissima Olanda, come in Francia, in Belgio, in Germania, in Spagna, i negozi restano rigorosamente chiusi la domenica. Sanno bene, infatti, questi Paesi non confessionali che il giorno di riposo è un'occasione per stare insieme, per creare relazioni, per costruirle. È il momento, per i genitori, di fare qualcosa con i figli, per gli amici, di stare insieme, per tutti noi, il tempo da dedicare a quelle piccole cose che fanno la nostra vita ricca e unica e che negli altri giorni non abbiamo mai il tempo di fare. Il tempo sospeso del non acquisto ci apre all'incontro con l'Altro. L'Altro da noi e l'Altro in noi. E solo quest'apertura sull'altro è in grado di dare un respiro diverso ai nostri giorni.
Ricordo che negli anni 80, quando ero in Israele, avevo organizzato una gita con degli amici per andare a vedere dei grifoni sulle alture del Golan. Siamo partiti di venerdì pomeriggio ma ahimè sul raccordo di Haifa, vicino alle grandi raffinerie, la nostra scassata macchina ci ha abbandonato. Forse anche lei aveva deciso di rispettare il sabato. Così abbiamo passato una notte e un giorno accampati sotto i piloni di cemento mangiando scatolette, parlando della vita e della morte e aspettando il successivo tramonto. Proprio lì, in quel luogo poco idilliaco, mi sono venute in mente le parole — che poi ho messo in Per voce sola — con le quali un nonno aveva spiegato a un bambino il significato del sabato. «Il sabato è importante perché vedi tutto con occhi doppi, vedi le cose come appaiono e come sono in realtà». Non è di questi occhi forse che abbiamo bisogno? Far tornare la domenica un giorno di silenzio, di riposo della mente e del corpo, di possibilità di stare insieme non sarebbe forse un importante segno per invertire la rotta, rimettendo la ricchezza dell'umano alla base della nostra civiltà?
Postilla
Si potrebbe ancora partire dal solito semplificatorio dimmi con chi stai e ti dirò chi sei, anche indipendentemente dalle tue intenzioni: la gentile signora Tamaro sostiene le iniziative dei bottegai che si sentono minacciati dalla potenza organizzativa della grande distribuzione, e mobilitano penne prestigiose e cervelli acuminati per la resistenza ad oltranza. Anche a costo di sommergerci di gigantesche balle, in elegante confezione letteraria. La più grossa non è tanto l’auspicio della signora Tamaro di una pausa coatta di tipo arcaico, sul modello del sabato ebraico, che sola apre le porte su sé stessi. No, la balla più grossa è quella insinuata dagli uffici stampa dei promotori, uguale e opposta alle loro strategie commerciali, ovvero che uscire di casa certi giorni e frequentare certi ambienti piuttosto che altri costituisca una disumana spinta al consumo compulsivo. In breve, dopo decenni di chiacchiere distintivo e altro sulla cosiddetta esperienza dello shopping, e naturalmente dopo decenni paralleli di attivo adattamento dei nostri ritmi circadiani, abbiamo raggiunto almeno una prospettiva di equilibrio. Entro il quale, ce lo dice indirettamente anche la Tamaro, c’è molta più esperienza che shopping, e le navate o arterie urbane a ciò destinate assomigliano sempre più nella fruizione alle comuni piazze tanto decantate anche da certo tradizionalismo retro. E poi: non è consumo anche la partita? Non è consumo anche il cinema? Non è consumo anche la pizza dopo la partita e/o dopo il cinema? Non è consumo, estremizzando, me ne rendo perfettamente conto (ma dall’altra parte, scusate, si tira in ballo il sabato ebraico!), anche comprare i fiori al chiosco del cimitero o davanti all’ospedale prima di andare in visita a un malato? La finestra sull’eternità della signora Tamaro non è per caso accessibile anche con un percorso tutto interiore, senza interferire con la vita altrui? Ci sono come minimo parecchie decine di migliaia di ebrei di stretta osservanza, sparsi in decine e decine di metropoli mondiali, che da generazioni si fermano per scelta, non per forza, mentre attorno a loro prosegue per la sua strada il fiume della vita. Insomma a ognuno il suo, non quello che decide qualcun altro per il suo bene. Il resto sono balle (f.b.)
Si raccolgono firme a livello continentale … ma lo spread dei titoli stavolta non c’entra nulla, c’entra invece l’abitabilità urbana. Non è più importante, in fondo?
Le Corbusier ne sarebbe scandalizzato, e prima di lui Marinetti, e dopo di lui Robert Moses, il vero profeta delle urban expressway. L’avvocato newyorkese Bennet, lo stesso che aveva perfezionato la prima ordinanza di zoning, lo stesso che aveva decantato i baccelli di servizi dedicati fra quattro corsie, si rivolterebbe nella tomba. Ma loro sono tutti morti, per ovvi motivi di età, naturalmente. Amen. Lo scandalo per loro sarebbe giustificabile, non capirebbero mai perché un intero continente stia cercando di far procedere le proprie aree urbane a trenta all’ora, e raccoglie adesioni, firme, esercita pressioni sui parlamentari. Siamo impazziti? L’aria della città rende liberi, liberi anche di andare dove si preferisce e farlo con la velocità preferita, altrimenti torniamo a una specie di ancien régime col clero e la nobiltà barricati nei palazzi, i servi incatenati alla terra, e poi altri sfigati a caracollare lentamente in mezzo. Ma questa aria che dovrebbe rendere tanto liberi dall’epoca delle avanguardie storiche si è parecchio inspessita, saturata, con le freeways a far diventare sempre meno free tutte le altre ways. E allora?
E allora si rallenta democraticamente, secondo il criterio tradizional-progressista già in qualche modo sperimentato con Slow Food: un passo indietro per farne parecchi in avanti. Chiedere una direttiva perentoria, per introdurre nei codici stradali nazionali di tutta l’Unione i trenta chilometri l’ora urbani, è sostanzialmente questo, siamo a mille miglia dalla pura reazione conservatrice. Perché se le nuove tecnologie consentono già oggi di spostare istantaneamente da un punto all’altro tantissime cose (informazioni, documenti, opinioni, oggetti semplici), chissà cosa non si potrà fare nell’immediato futuro, con una spintarella in più. Perché se oggi le cosiddette grandi arterie veloci sono sottoposte a trombosi costante, e veloci non lo sono affatto, salvo nello scaricare veleni, allora non servono più a nulla di buono e hanno tradito la promessa per cui le avevamo profumatamente pagate. Perché le isole pedonali storiche, pubbliche, private, sul lungo arco di oltre una generazione si sono dimostrate esattamente quello che erano: isole, di poco senso se circondate dall’identico micidiale oceano delle lamiere in tempesta.
Trenta all’ora, per muoversi più in fretta. Perché meno investimenti nella mobilità automobilistica vuol dire più spese per quella collettiva (altro che trenta all’ora con metropolitane ecc.), per l’intermodalità, per combinare funzioni e spazi, per promuovere nuova ricerca e sviluppo di modelli sperimentali, anche di auto, che altrimenti verrebbero tritati fini nel frullino attuale del cosiddetto scorrimento veloce che non scorre affatto. Cent’anni fa un sociologo americano, davanti all’avanzare impetuoso delle Ford Modello T, iniziava a concepire attorno al sistema del vicinato spontaneo sviluppato sulla scuola, la sala civica, la palestra, un modello di quartiere a traffico rigorosamente locale, appunto circondato dalle arterie veloci. Dieci anni più tardi pubblicava il famoso studio sulla cosiddetta neighborhood unit, poi ripreso con infinite interpretazioni e anche storpiature da architetti e urbanisti di tutto il mondo. Quello che è emerso via via negli anni successivi, è che quelle isolette circondate dagli squali o sparivano, o finivano per regredire anche socialmente al livello di comunità ancestrali. E per usare un neologismo tutto italiano, usciamo dal silenzio a trenta all’ora. O almeno facciamoci un giro sul sito, pensandoci.
Titolo clamorosamente sbagliato: non succede affatto nelle stalle, e naturalmente non è una rivoluzione. Però, anche se per motivi elettorali, è un passo avanti, futuri eletti consentendo. Corriere della Sera Lombardia, 21 novembre 2012, postilla (f.b.)
MILANO — Una rivoluzione high tech nelle stalle. Dagli alpeggi della Valtellina alle cascine della Bassa arriverà Internet ad alta velocità. Le aree agricole di montagna, come le fattorie di pianura, non saranno più tagliate fuori dalla rete. Nelle zone rurali di 47 comuni della Lombardia è infatti in arrivo la banda larga, con 198 chilometri di fibra ottica, che metteranno online oltre 34 mila abitanti, un fetta della nostra regione finora dimenticata dalle autostrade del web. L'annuncio, con un investimento di 8 milioni di euro da parte del Pirellone, è stato dato ieri dall'assessore regionale all'agricoltura, Giuseppe Elias.
Da Verceia, 1.116 abitanti, all'imbocco della Valchiavenna, all'incrocio fra le province di Sondrio, Como e Lecco, a Retorbido, 1.434 anime, allo sbocco della valle Staffora, nell'Oltrepò Pavese, le aziende «verdi» si preparano a dire addio al digital divide: niente più fossato tecnologico che penalizza aziende e residenti: «La banda larga è un vantaggio per tutte le realtà produttive di un territorio e, in questo caso, renderà più efficiente il lavoro degli imprenditori agricoli — ha spiegato l'assessore Elias —. I 47 comuni interessati dagli interventi sono stati individuati nelle zone svantaggiate della Lombardia e si vanno ad aggiungere ai 132 comuni che in passato hanno già beneficiato di interventi simili.
Tutti infatti devono poter accedere ai servizi di telecomunicazioni e di accesso a Internet che rappresentano un passaggio obbligato verso l'innovazione, l'occupazione e la crescita». Abbattere l'isolamento digitale, continua l'assessore, è dunque «un obiettivo strategico, perché stimolerà e faciliterà lo sviluppo e le competitività delle imprese che operano in questi territorio agricoli».
Postilla
È almeno dall’epoca dei primo congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica che chi ne capisce, nel nostro paese, prova a spiegare alla politica che modernizzazione e urbanizzazione stupida e cementificata non sono sinonimi. Col filogovernativo a oltranza Vincenzo Civico che tuonava “Urbanistica Rurale = Urbanistica Fascista”, e altri meno perentori ma più analitici che iniziavano a spiegare come i suoli agricoli andassero gestiti con le medesime prospettive che in fondo già si erano rivelate utilissime per i densi ambienti urbani, ma rigorosamente senza confondere i due piani. Già: città e campagna, eterno dilemma che ancora oggi gli stracciamutande praticoni della cosiddetta Città Infinita autostradale manco si immaginano, e i banchieri che li pagano neppure per scherzo. Ma esiste eccome, e oggi si chiama consumo di suolo, almeno per chi considera il problema sul versante corretto, senza confonderlo con estetismi di lusso, o benintenzionate sparate a vanvera, o miserabili carriere personali. E una delle tante risposte è appunto tornare a quei primi vagiti della pianificazione territoriale moderna: un assetto regionale equilibrato, sul versante ambientale, socioeconomico, alimentare, dei rapporti fra produzione e consumo, senza dimenticare le ragionevoli aspettative di progresso personali e collettive, passa per la modernizzazione delle campagne. Che come insegnava già Arrigo Serpieri (nome certamente ignoto ai tuttologi televisivi), o di là dell’oceano provava a spiegare un po’ più tardi per esempio Lewis Mumford, non vuol dire trascinare i contadini in fabbrica e l’asfalto sui campi. Ma fare quella cosa lì, che l’assessore di centrodestra dimissionario ci ha gentilmente concesso, di migliorare la vita delle vacche e di ciò che sta loro attorno (f.b.)