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Al solito: piove, agricoltura disastrata, e si “scopre” che cementificare a vanvera produce solo guai, al massimo bolle edilizio-finanziarie. Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2013 (f.b.)

Ancora una volta si stila il bollettino di guerra. E si replica il solito vecchio copione. Sott'acqua infatti con il mais, la frutta e il riso, rischiano di finire i redditi degli agricoltori, ridotti in dieci anni del 25%, «provati» da costi alle stelle e da prezzi che continuano a scendere, come conferma l'ultima rilevazione dell'Ismea di aprile (-6%). D'altra parte l'agricoltura è una fabbrica a cielo aperto soggetta a un andamento meteorologico che negli ultimi anni sta diventando sempre più imprevedibile. Ma non basta la rassegnazione contro la natura matrigna.

Gli effetti delle piogge in cui stanno affogando le colture italiane più redditizie, le commodity che reggono le sorti del made in Italy alimentare, sono anche il frutto di una scellerata politica che ha bruciato migliaia di ettari di terre fertili e che ha reso i fiumi delle discariche. «Troppe case, strade e capannoni - denuncia Coldiretti Lombardia - hanno ridotto la capacità di drenare l'acqua in eccesso soprattutto nei periodi di maltempo». I terreni coltivati invece svolgono una strategica funzione di assorbimento dell'acqua «un airbag naturale» in grado di limitare i danni. Così come la presenza dell'uomo, il mantenimento dell'habitat, la celebrata funzione degli agricoltori guardiani del territorio sono un fondamentale antidoto agli attacchi della natura. È mancata una politica del territorio che certo avrebbe richiesto risorse, ma sicuramente inferiori rispetto a quelle necessarie per indennizzare i danni.

Nonostante gli appelli l'Italia continua a ridurre il suo patrimonio. Una recente indagine realizzata dal ministero delle Politiche agricole, in occasione della presentazione di un ddl contro l'erosione di suolo agricolo (rimasto in archivio), aveva stimato in dieci anni la perdita di 5 milioni di ettari coltivati per una superficie equivalente a Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna messe insieme. Solo in Lombardia per fare posto al cemento si cancellano ogni anno 5mila ettari di aree verdi. E poi resta il nodo delle infrastrutture idriche con un piano di opere approvato da anni, ma che non riesce a decollare.

E così il mix tra l'azione dell'uomo, che taglia spazi alle coltivazioni, e il bizzarro andamento climatico mette in crisi i bilanci aziendali, portando l'agricoltura verso il tracollo. Con oltre 50mila aziende a rischio di chiusura entro quest'anno (previsioni della Cia). Quasi una beffa considerando che l'ultima stima sul Pil diffusa dall'Istat qualche giorno fa attribuisce al settore l'unico segno positivo. E se non si riesce a prevenire anche la strada dei risarcimenti è lastricata di ostacoli. Le assicurazioni infatti restano una debolezza strutturale delle imprese, conseguenza delle difficoltà economiche che impongono tagli ai costi aziendali. Una svolta dovrebbe arrivare dalla riforma della Politica agricola comune proiettata su una nuova strategia della gestione dei rischi.
Ma in attesa di nuove politiche non resta che la conta dei danni.

«La “finanza creativa” per le grandi infrastrutture serve assai più a mascherare i veri costi per lo Stato e la collettività, che ad aumentare l’efficienza degli investimenti. E il cosiddetto Project Financing (PF), la compartecipazione pubblico-privato nelle infrastrutture è l’emblema più noto di una fantasia che teoricamente nasce con intenti virtuosi, ma di fatto è la fabbrica del nuovo debito pubblico occulto che rischiamo di lasciare ai posteri.». Il Fatto quotidiano, 15 maggio 2013

La “finanza creativa” per le grandi infrastrutture serve assai più a mascherare i veri costi per lo Stato e la collettività, che ad aumentare l’efficienza degli investimenti. E il cosiddetto Project Financing (PF), la compartecipazione pubblico-privato nelle infrastrutture è l’emblema più noto di una fantasia che teoricamente nasce con intenti virtuosi, ma di fatto è la fabbrica del nuovo debito pubblico occulto che rischiamo di lasciare ai posteri.

Il PF vuole sfruttare l’efficienza e il know how del privato, incentivato in modo opportuno, per ovviare ai difetti delle gestioni pubbliche. Il concessionario privato sarà motivato a minimizzare non solo i costi di costruzione, come nei normali appalti, ma anche di gestione del progetto, cercando di massimizzare l’utenza, essendo ripagato dalle tariffe. Il problema di tale schema applicato alle infrastrutture è nel “rischio commerciale” (o “rischio traffico”). Il concessionario privato ha strumenti per ottimizzare gli aspetti costruttivi e gestionali (i “rischi industriali”), ma non per condizionare la domanda di traffico. Se dunque il “rischio commerciale” per le infrastrutture, è lasciato dal concedente pubblico interamente al soggetto concessionario privato, questi dovrà cautelarsi, alzando i corrispettivi richiesti e/o chiedendo garanzie contro una domanda inferiore al previsto, flessibilità tariffaria o di durata della concessione.

Domani è un altro giorno
Dal lato del concedente pubblico, spesso l’obiettivo è aggirare vincoli di bilancio. Schemi di PF si prestano bene a tale scopo: è sufficiente fornire al concessionario garanzie adeguate, per minimizzarne i rischi, e l’opera può essere subito cantierizzata, rimandandone i costi reali per lo Stato a tempi così lunghi da essere politicamente irrilevanti. In Italia nel secolo scorso vi furono massicce emissioni di obbligazioni garantite dallo Stato per diverse autostrade,basate su piani di rientro irrealistici. I costi pubblici finali di riscatto delle obbligazioni furono altrettanto elevati quanto occulti. Anche l’Alta velocità ferroviaria si basava inizialmente su obbligazioni garantite che non sarebbero mai state ripagate dai ricavi da traffico e dovette intervenire l’Europa a porre fine a quello schema: lo Stato dovette pagare nei primi anni 2000 12 miliardi cash alle Ferrovie dello Stato (in seguito FS), la notizia meritò solo un trafiletto sul Sole 24 Ore.

Le difficoltà finanziarie delle casse pubbliche, connessa alla bassa redditività degli investimenti, hanno stimolato la fantasia di promotori e costruttori, con un dispositivo “creativo” di finanziamento noto come “canone di disponibilità” (inventato per il progetto del Ponte di Messina): il gestore dell’infrastruttura (Rete Ferroviaria Italiana-FS, nel caso del Ponte), non paga un pedaggio variabile al costruttore dell’opera, ma una quota fissa annuale. Che, per definizione, non dipende dal traffico. L’opera si realizza se si determina un “canone di disponibilità” tale da ripagarla. Se poi il traffico sarà inferiore al previsto, peggio per l’ incauta FS. Il principio del PF è salvo, e il vincolo di bilancio aggirato (FS è una SpA, formalmente assimilabile a un privato). Lo schema può funzionare in quanto FS è in realtà pubblica e percepisce alti trasferimenti dallo Stato, pagatore di ultima istanza dell’operazione. Sembra che per la ferrovia Av Milano-Genova si sia tentata tale operazione, ma i risultati siano apparsi così indifendibili data la scarsità dei ricavi previsti, che si è scelto di addossare allo Stato il 100 per cento dei costi.

Il caos nei cantieri
Per le metropolitane il sistema è diverso, ma la sostanza identica: i sussidi pubblici al servizio sono assimilati a ricavi tariffari privati e sono commisurati, a volte, al traffico di passeggeri, comunque “garantito” ex-ante, a volte addirittura alle singole vetture che percorrono la linea (cioè all’offerta, non alla domanda). Basta calibrare il tutto, per garantire al concessionario un flusso di ricavi adeguato. Quanto alle autostrade, la crisi economica, con il conseguente calo del traffico e l’aumentato costo del denaro, ha messo in crisi i piani finanziari di molte opere in PF, soprattutto in Lombardia dove molti cantieri sono stati aperti con prestiti-ponte. Emerge quindi l’incongruenza tra rendimenti attesi per le ferrovie e per le autostrade: i fondi pubblici assegnati fin dall’inizio a queste ultime sono solo parziali, al contrario di quelli per le ferrovie. E in nessuno dei due casi commisurati alla utilità sociale. La decisione di quante risorse assegnare dovrebbe essere affidata ad autorità terze che facciano analisi costi-benefici imparziali e comparative, che ne verifichino l’utilità (risparmi di tempo, ambiente ecc.)

Forse “si stava meglio quando si stava peggio”: gare normali per gli appalti, al massimo oggi integrate con la gestione, e il rischio traffico attribuito a chi se lo può davvero assumere, cioè allo Stato.

La rinascita e le potenzialità strategiche dell’agricoltura, una delle vie d’uscita dalla crisi provocatadella globalizzazione capitalista. "Ritorno alla terra per la sovranità alimentare e il territorio bene comune": ecco il tema del quale si discuterà al convegno della Società dei territorialisti. il manifesto, 16 maggio 2013.

La crisi economico-finanziaria che ha depresso l'immaginario trionfante dell'Occidente sta accelerando processi molecolari e inosservati di trasformazione culturale e sociale del nostro Paese. La vecchia talpa scava in segreto le sue gallerie. Si tratta, per la verità, di fenomeni avviati da tempo e già rilevati da alcuni osservatori non conformisti, ma che oggi divengono più visibili di fronte al tracollo di opportunità di lavoro e di vita, talora anche di senso, offerto dalle città e dal mondo industriale. Un silenzioso fiume fatto di individui isolati, di giovani e non giovani, di uomini e donne con profili culturali diversi, sparsi in tutte le regioni d'Italia, risale controcorrente il Belpaese in cerca di approdi nuovi negli spazi delle nostre campagne. Il flusso si scontra contraddittoriamente con un fenomeno opposto: l'esodo molecolare e l'abbandono di tanti nostri borghi appenninici e aree interne, che perdono scuole e ospedali, uffici postali e stazioni dei carabinieri, giovani e bambini. È questo un grande tema sia demografico che economico e ambientale su cui occorrerà ritornare non episodicamente. Ma il rifugio in campagna sembra l'avvio di un'altra storia, l'apertura di una nuova pagina culturale, mentre l'esodo dalle aree interne appare più come il movimento ultimo e inerziale di un processo in atto da decenni e che ora si va esaurendo. Che cosa richiama tanti isolati individui nelle nostre campagne? È l'agricoltura, la pratica millenaria di mettersi in relazione quotidiana con la terra per ricavarne beni agricoli.

Talora l'allevamento, soprattutto di capre, che giovani usciti dalle Università intraprendono per fare formaggi eccellenti. Ma detta così è banale. In realtà si pensa poco al grandioso mutamento, realizzatosi negli ultimi anni sotto i nostri occhi, senza che noi fossimo in grado di afferrarne la profondità. L'agricoltura, la più antica pratica economica della storia umana, ha subito delle trasformazioni, non tanto delle sue tecniche, quanto delle sue funzioni, che non hanno nessun termine di paragone negli altri ambiti dell'attività produttiva del nostro tempo.

Come in gran parte d'Europa, questa antica attività destinata all'alimentazione umana ha visto esplodere una miriade di finalità a cui può corrispondere e di cui è diventata la sorgente. Sulla terra, infatti, non si producono solo beni agricoli, ma si protegge e si rielabora il paesaggio, si cura il suolo, rigenerandone la fertilità: la fertilità, questo principio di vita e di riproduzione che si credeva risolto con la concimazione chimica e che oggi torna come necessità imperiosa sui suoli mineralizzati e isteriliti delle agricolture industriali. Ma al tempo stesso si difende il terreno dall'erosione, si alimenta la biodiversità agricola, si conserva la salubrità dell'aria e dell'acqua, si tutela il verde e l'ambiente, lasciandolo ben curato alle nuove generazioni, si organizzano nuove modalità di turismo e di fruizione del tempo libero, si riscoprano vecchie radici di cultura enogastronomica (la moltitudine delle cucine locali, patrimonio insigne della nostra civiltà materiale), si recuperano saperi manuali in via di estinzione, si riattivano forme cooperative di lavoro e di vita in comune, si curano gli handicap (fattorie sociali), si praticano forme innovative di apprendimento (fattorie didattiche). Insomma, sulla terra, diventata erogatrice di una molteplicità di servizi avanzati, si realizzano nuovi stili di vita, che possono fare concorrenza alle condizioni di esistenza nella città, diventata, per un numero crescente di cittadini, fonte di disagio e di frustrazioni insostenibili. I nostri frenetici e abbaglianti centri urbani, paradisi in terra per i nostri deliri consumistici, oggi fanno pagare un prezzo sempre più alto per la frequentazione del loro lunapark. Senza dire che innumerevoli disperati extracomunitari, che arrivano nel nostro Paese provenendo da distretti rurali di paesi africani o dell'Est europeo, vengono rinchiusi nei lager dei Cie ed espulsi come criminali, mentre potrebbero inserirsi in un grande flusso demografico di ripopolamento delle aree interne e di valorizzazione dell'agricoltura. Ancora oggi, a causa della cultura miserabile, della xenofobia infantile di alcuni uomini arrivati alla guida dei nostri governi, l'Europa è una terra di barriere, il Mediterraneo un mare chiuso e pattugliato, mentre dovrebbe essere il nostro vasto e prossimo orizzonte, lo spazio di un nuovo mondo cosmopolita, da cui far giungere l'energia di popoli giovani per la rivitalizzazione delle nostre campagne. Il processo appena descritto, oggi lasciato alla sua spontaneità, potrebbe diventare un grandioso progetto per creare nuovi posti di lavoro, per ripopolare le aree interne, per proteggere il nostro territorio senza ricorrere a "grandi opere", per creare nuove economie valorizzando le risorse (terre, acque, boschi) oggi abbandonate.
Sulle nostre colline, per secoli è fiorita un'agricoltura che ha reso possibile la vita delle nostre cento città, che ha fornito alimenti alle popolazioni dedite all'artigianato, alla mercatura, all'arte. Oggi potrebbe ospitare un'agricoltura di qualità in cui far rivivere, in forme nuove, la straordinaria biodiversità agricola della nostra incomparabile civiltà agraria. Purtroppo, tra i fenomeni che percorrono il nostro tempo occorre considerare anche quello che ha svuotato i partiti politici - vale a dire gli strumenti con cui un tempo si governavano i processi di mutamento - di ogni cultura sociale, di ogni capacità di progetto. Non facciamo neppure cenno alla cultura materiale e ambientale: gli uomini politici abitano in un sopramondo artificiale senza alcun rapporto con la terra. Essi vivono alla giornata, nella fase storica in cui più acutamente si avverte il bisogno di scorgere un orizzonte, di capire dove si può andare.
Per affrontare con strumenti analitici e discussioni mirate i fenomeni oggi in atto si svolgerà a Milano domani e sabato il convegno "Ritorno alla terra per la sovranità alimentare e il territorio bene comune". A organizzarlo è la Società dei territorialisti (l'organizzazione promossa da Alberto Magnaghi, che mette insieme una comunità di saperi esperti del nostro territorio davvero non comune: dagli urbanisti ai geografi, dagli storici agli agronomi, dai sociologi agli architetti. Si spera che i media si accorgano dell'evento. Soprattutto si spera che quella frazione dignitosa del giornalismo italiano, che pure esiste, concorra ogni tanto a mostrare anche l'Italia che pensa, che non ha divi da esibire, o ciarle partitiche da rappresentare, che opera per pura passione, tentando di migliorare le sorti del nostro Paese

.www.amigi.org

Tutto giusto. Solo che i conti andrebbero fatti un po’ diversamente. Vedremo come, secondo noi. Arcipelago Milano, 14 maggio 2013.

Le posizioni espresse recentemente su ArcipelagoMilano a proposito del traffico e della mobilità (dall’ottima Maria Berrini ma in diverse forme anche da altri) sono certo “politically correct”, ma un po’ inquietanti per un economista che si occupa di politiche pubbliche: le macchine devono essere più represse di quanto sono ora, (anzi se possibile sarebbe meglio proibirle del tutto, ma questo non si può dire troppo). Il fatto che il settore automobilistico generi allo Stato qualche decina di miliardi all’anno, mentre gli utenti del trasporto pubblico paghino solo una piccola quota dei servizi che usano, costando a tutti gli altri cittadini con le tasse (a Milano più di un milione di euro al giorno), sembra un aspetto totalmente irrilevante.

Anzi, questa situazione deve essere ulteriormente squilibrata. La nuova normativa che i promotori della recente manifestazione ciclopedonale promuovono infatti recita: “…. una legge di iniziativa popolare che vincoli almeno i tre quarti delle risorse statali e locali disponibili per il settore trasporti a opere pubbliche che favoriscono lo sviluppo del trasporto collettivo e di quello individuale non motorizzato” (questo ultimo settore, poverino, è innocente, richiedendo pochi soldi pubblici).

Ora, alcune cose di questa proposta di legge non sono irragionevoli, per esempio quando parlano di uno squilibrio tra spese per infrastrutture di lunga distanza e infrastrutture di breve, dove si svolge la maggior parte del traffico e c’è la maggior parte dei problemi. Ma anche qui, la logica proposta è indifendibile: ci sono infrastrutture per la lunga distanza che forse possono essere utili. Occorre decidere sempre sulla base di analisi costi-benefici comparative e “terze”, non su allocazioni arbitrarie delle risorse pubbliche. Queste analisi oggi comprendono ovviamente anche gli aspetti ambientali, e darebbero molte sorprese proprio ai difensori a oltranza dell’ambiente. E poi c’è il piccolo dettaglio che per le autostrade si richiede che le paghino gli utenti per almeno il 50%, mentre per le ferrovie questa percentuale scende un po’, siamo intorno allo 0%, ma generalmente anche meno, visto che si richiedono molti soldi pubblici persino per farci andare sopra i treni. Tutto benissimo, se i soldi pubblici fossero abbondanti, o non ci fossero altre drammatiche priorità sociali. Questi lussi potremmo permetterceli.

E a proposito di socialità, come si può ignorare la ricerca del CENSIS sui pendolari, che testimonia che il 10% va in treno, il 20% in bus, e il 70% in auto, ma non solo: gli operai vanno molto di più in auto, gli impiegati e gli studenti, lavorando e studiando in aree più centrali, usano molto di più i mezzi pubblici. L’argomentazione che con i soldi pubblici si potrebbe fornire più servizi anche alla mobilità operaia, e più in generale nelle aree a bassa densità, è indifendibile: per motivi di reddito, infatti gli operai risiedono e lavorano in tanta malora (cioè generano una mobilità estremamente frammentata), che non è servibile dai trasporti collettivi se non in piccola parte.

Tutti i modelli di simulazione mostrano che lo spostamento modale ottenibile, con costi pubblici molto alti, sarebbe di pochi punti percentuali, e moltissimi operai e cittadini “esterni” dunque continuerebbero a spostarsi in macchina, pagando un sacco di soldi per la benzina e stando sempre più in coda (se questa curiosa legge passasse). Gli impiegati, e chi ha potuto comperarsi una casa in città, sarebbero invece molto più contenti.

Si noti poi che questa politica di altissima tassazione del modo automobilistico, e di elevatissimo sussidio al trasporto pubblico, è in atto da decenni, con risultati modesti o nulli. Forse dunque le ragioni strutturali illustrate sopra, che rendono difficile lo spostamento dell’utenza sul trasporto pubblico, hanno qualche fondo di verità.

Ovviamente c’è poi il problema ambientale, che è massimo nelle aree urbane dense a motivo dell’”effetto canyon”: tanta gente esposta alle emissioni su strade relativamente strette, dove queste emissioni fanno fatica a disperdersi. Qui è ragionevole e funzionale limitare l’uso del mezzo privato (cfr. l’Area C), ma forse non irragionevole sussidiare in modo mirato con le tariffe del trasporto pubblico solo le categorie sociali più deboli (perché sussidiare i ricchi che vivono in centro?).

E infine non si può dimenticare che il traffico motorizzato è il settore inquinante che “internalizza” più di tutti gli altri i costi ambientali che genera (secondo il principio, equo ed efficiente, noto come “polluters pay“). Ma già, dimenticavo: cosa importa chi paga? Decide il principe….

Un dossier monografico sul cosiddetto sviluppo del territorio, chi lo fa, a chi giova. Articoli di F. Sansa, A. Ferrucci, C. Tecce, M. Castigliani, M. Corona, Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2013

Il nostro paesaggio è anche Angelino
di Ferruccio Sansa


Il profilo di Angelino Alfano e quello delle colline toscane. Il ministro dell’Interno che manifesta contro i magistrati a sostegno dei condannati e le coste della Liguria e della Sardegna.
Che cos’hanno in comune queste immagini? Sono tutte paesaggio italiano. Sono l’orizzonte che ci troviamo davanti.
L’ambiente è scomparso dai programmi politici. Nessuno si faceva illusioni sul centrodestra dei condoni. Ma anche il centrosinistra - ormai alleato, non avversario - ha dimenticato questa parola che pure sta a cuore ai suoi elettori. L’ha ignorata di fatto nella sua azione di governo, a Palazzo Chigi come in molti comuni che amministra.

“Bisogna occuparsi dell’economia”, dicono. Come se l’ambiente fosse una fisima per intellettuali con il nasino all’insù. E intanto gli amici degli amici si riempiono le tasche devastando il paesaggio. Magari gli stessi imprenditori che foraggiano i politici chiamati ad amministrare e tutelare il territorio.
Che mistificazione! Che tradimento! L’ambiente - visto che di questi tempi i calcoli economici sono gli unici che paiono avere valore - è la nostra principale industria. Il turismo vale quasi il 15% del pil e dà più lavoro e ricchezza del mattone e delle autostrade.

L’ambiente è qualità della vita, soprattutto per i più deboli, gli anziani e i bambini. Vivere in un luogo integro significa benessere interiore. Significa, perché no?, avere pensieri migliori.
Ma l’ambiente - cioè anche l’aria che respiriamo, l’acqua e il cibo che ci nutrono - è anche quantità di vita. Campare meglio e di più. Come ci ha mostrato drammaticamente la vicenda Ilva (con i signori delle acciaierie che finanziavano sia destra che sinistra).
Ecco il nodo della questione. Ambiente naturale e civile sono strettamente legati. Di più, sono la stessa cosa. Il degrado dell’uno provoca quello dell’altro. Il territorio è diventato la zona grigia, opaca, dove gli interessi pubblici vengono mercanteggiati per favorire quelli individuali. Dei signori del mattone, delle autostrade, dell’acciaio. E pure dei partiti.

Ma la responsabilità è anche di noi cittadini che abbiamo svenduto la nostra terra, la nostra identità per quattro soldi. Scriveva Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”: “Quelle speculazioni edilizie nate per mancanza d’affetto”. Già, ci è mancato l’amore per il nostro Paese. Abbiamo voluto ignorare che l’ambiente italiano non è fatto soltanto di colline, montagne e città: il paesaggio siamo anche noi, con i compromessi e i tradimenti di governo, con i leader corrotti, con gli evasori. Allora, difendere l’ambiente significa proteggere noi stessi. Per dirla con Peppino Impastato: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà”.

I veri padroni della politica
di Alessandro Ferrucci e Carlo Tecce

Anche nel passaggio dalla lira all’euro lo scalino è stato ammortizzato. Tanto era allora, il doppio dopo. Anzi, i benefattori della politica sono stati al passo con gli appetiti crescenti: bonifici con zeri abbondanti a coprire una perenne campagna elettorale. I nomi sono quasi sempre gli stessi: presunti capitani d’industria come la famiglia Riva, imprenditori dall’aspetto illuminato tipo la famiglia Benetton. O Diego Della Valle, sempre presente negli ultimi vent’anni. I più generosi e attenti? Tutte le realtà legate al mondo della sanità e dell’edilizia. Destra, sinistra, centro. Questo ballo coinvolge tutto il Parlamento.

Sulla via Emilia
Metodici. Puntuali. Con cifre crescenti. Sono i Merloni, proprietari dell’omonima azienda legata al mondo degli elettrodomestici e della termoidraulica. Nel 1994 intervengono con un assegno da dieci milioni a favore di Beniamino Andreatta, uno da 30 per Gerardo Bianco, 60 al Partito Popolare e 80 per la neonata Forza Italia. Ma la generosità non finisce qui: ecco 270 milioni al Patto Segni, sotto la formula del “deposito fruttifero a garanzia di scopertura bancaria” e altri 20 per il suo leader Mariotto. Cambia stagione, non la generosità. Nel 1999: 50 milioni ai Ds, altrettanti al Ccd. Occhio alla data: 2001. È l’anno della chance per Francesco Rutelli come leader del centrosinistra, l’anno della frase “mangio pane e cicoria”. Per rendere più sfizioso il companatico, i Merloni si presentano con 100 mila euro; al Patto Segni e all’Udeur appena 10 mila. Finisce la disponibilità.

Nel 2008 l’azienda entra in crisi: chiusi due stabilimenti, amministrazione straordinaria e debiti per 543,3 milioni di euro. Parentesi “alimentare” sulla via Emilia: nel 1994 Parmacotto si presenta con 100 milioni per Forza Italia e altrettanti per il candidato locale, Elio Massimo Palmizio. Non meno generoso è mister Idrolitina, alias Giuseppe Gazzoni Frascara, candidato nel 1995 a sindaco di Bologna. Tra il 1994 e il 1996 si presenta con oltre 300 milioni tra Forza Italia e il Ccd.

A chi fa le scarpe?
19 marzo 2006. Vicenza. Silvio Berlusconi attacca violentemente Diego Della Valle. Il signor Tod’s replica dalla platea. Sembrano lontani umanamente e politicamente, almeno lì. Eppure qualche anno prima la storia era tutt’altra. Nel 1994 il proprietario della Fiorentina si presenta da Forza Italia con 100 milioni, mentre sono 135 per il Patto Segni, sempre con la formula del “deposito fruttifero”. Ma la vera amicizia è quella con Clemente Mastella: nel 1998 dà 50 milioni ai Cristiano Democratici per la Repubblica e 150 mila all’Udeur per la campagna del 2006, a firma di Andrea (altri 100 mila per la Margherita, da parte di Diego, maggiore dei fratelli). Parallelamente alla passione politica, cresce anche il pacchetto aziende, tanto da entrare, nel 2011, nella classifica di Forbes dedicata agli uomini più ricchi al mondo; al marzo del 2013 egli è al 965° posto (20° italiano), con un patrimonio di 1,5 miliardi di dollari.

Fattore di “mercato”
Coerente. Munifico e coerente. È Maurizio Zamparini, spesso in tv o sui giornali, perché proprietario del Palermo calcio. È un uomo di destra, e quella parte finanzia. Nel 1994 batte ogni record con due “assegni” da 250 milioni l’uno, a favore del defunto Msi, in procinto di trasformarsi in Alleanza nazionale. Nel 2001 diventano 200 mila euro; 103 nel 2006 al Ccd, mentre nel 2008 seduce l’Mpa di Lombardo con altri 100.

Freccia a destra
Qualche dubbio, un’unica certezza: un misterioso benefattore spedisce nel 1994 97 milioni di lire all’Msi, da poco al governo con Silvio Berlusconi. Sono tre bonifici provenienti dal Lussemburgo, una situazione talmente ingarbugliata da costringere Gianfranco Fini a scrivere: “La vostra somma non è stata ancora utilizzata. Vi preghiamo di volerci segnalare la causale di tale versamento”. Il titolare della società non sa cosa rispondere, ma si rifugia in un diplomatico “sostegno e stima da italiani residenti all’estero”. Peccato che dietro ci fosse il banchiere italo-svizzero Pierfrancesco Pacini Battaglia, poi condannato a sei anni di carcere per appropriazione indebita nell’inchiesta di Mani Pulite.

Il “re” trasversale
Per Alfredo Romeo una condanna a quattro anni in primo grado, due e mezzo in appello e la prescrizione in Cassazione, a causa di Tangentopoli. Definiva i politici come “della cavallette! Anzi, delle iene”. Ma per lui una seconda opportunità, con un patrimonio immobiliare di 48 miliardi di lire da gestire e 160 milioni di incassi. E la capacità di intervenire, dove utile, con finanziamenti trasversali: 27.900 euro nel 2002 ai Ds di Roma, 12 a Forza Italia. Altri 20, sempre al partito di Fassino, per il 2005. E ancora 30 mila nel 2013 a Nicola Latorre, 25 al Centro Democratico. Oppure a Torino nel 2001: 30 mila per il sindaco Sergio Chiamparino, 40 a Forza Italia. Infine ha dato 60 mila euro a Renzi per le primarie. Attenzione: il business di Alfredo Romeo è di servizi offerti agli enti pubblici. Il 13 aprile di quest’anno la terza sezione della Corte d’appello di Napoli, lo ha condannato a tre anni per corruzione. Poche settimane prima aveva vinto una gara bandita dall’Anci per diventare partner della società che si occuperà della riscossione dei tributi.

La famiglia Riva
Tutti e tre schierati. Il padre Emilio Riva, assieme ai figli Nicola e Fabio: sono i proprietari dell’Ilva di Taranto, ora agli arresti domiciliari. Nel 2006 finanziarono la campagna elettorale di Pier Luigi Bersani con 98 mila euro. L’ex leader del Pd diventò ministro dello Sviluppo economico. Ma due anni prima, i tre uomini Riva, avevano elargito 330 mila euro a Forza Italia attraverso tre bonifici. Più altri “spicci”, ai berlusconiani di Bari, Taranto e Milano.

42 miliardi in sei anni
Nessuno ha mai negato che Forza Italia fosse la struttura politica di Publitalia 80, la concessionaria pubblicitaria di Mediaset, la più potente d’Italia ancora oggi. E nessuno ha creduto a Silvio Berlusconi quando si lamentava per i soldi spesi in campagna elettorale. Publitalia ha pompato denaro dal ’94 al 2000 a Forza Italia e ai propri alleati fra cui Alleanza nazionale, Lega Nord e Udc, ma anche la lista Pannella e Bonino Presidente: spesso si trattava di sconti sugli spazi pubblicitari oppure sconti “praticati secondo generali orientamenti di strategia commerciale”. Qualsiasi fosse la definizione giusta, il passaggio di favore e l’esborso di Cologno Monzese, la cifra ufficiale è spaventosa: circa 42 miliardi di lire in sei anni. Ma per confermare la generosità di Berlusconi va fatto notare un assegno di Forza Italia ai leghisti di Bossi e Maroni nel 2003, e non c’è scritto che si trattasse di divisione dei rimborsi pubblici: 300.000 euro.

Il re del mattone di lusso, soprattutto romano, Sergio Scarpellini ebbe i contratti per gli affitti di Montecitorio nel 1997. Qualche anno dopo, l’imprenditore donò 50 milioni di lire ai Ds calabresi e poi 48 mila euro ai Ds romani. Ma ha sempre contribuito alle spese dei partiti con le sue società, Milano 90 e Progetto 90. Sempre attento ai Ds prima e Pd poi: 200 mila euro in totale, 20 mila euro diretti a Michele Meta. Non manca il fronte centrodestra: 100 mila euro all’Udc, 50 mila al Pdl, 35 ai Cristiano Popolari di Baccini e 25 ai leghisti. Ma chiunque spende con speranza. Come Giuseppe Grossi, morto un paio di anni fa, vicino a Comunione e Liberazione, che aveva monopolizzato le bonifiche in Lombardia: per caso, prima dell’arresto, qualche anno addietro (2001 e 2004), diede 450 mila euro a Forza Italia. Funziona molto la tecnica della presenza costante con l’associazione Federfarma che pensa a tutti, proprio a tutti i partiti e ai tanti candidati.

Picconatore in aereo
L’aneddoto su Francesco Cossiga, allora presidente emerito, merita un racconto. Il picconatore viaggiava tanto e spesso a spese altrui: nel 1999, la Eliar lo portò tra la Spagna e l’Italia; nel 2000, Silvio Berlusconi in persona gli regalò un volo privato Roma-Nizza; poi la Joint Oriented pagò un Roma-Nizza. Ma chi si spese di più fu la Tiscali del conterraneo Soru che gli garantì un trasporto annuale gratuito – era il 2003 – da Cagliari a Roma e da Cagliari a Milano, andata e ritorno ovviamente. Questo introduce gli oltre 420 mila euro che la Energex diede al Ccd di Casini prima che diventasse Udc: la società anonima, sede in Lussemburgo, si occupa di noleggio aereo e la Camera non sa spiegare questi soldi di “capitale straniero”.

Re del mattone
Il costruttore romano Domenico Bonifaci, per la campagna elettorale fra Romano Prodi e Silvio Berlusconi, la sfida numero uno, diede in prestito 3 miliardi di lire al Pds. Ma è soltanto un esempio di quanto, in questi anni, abbiano speso costruttori e immobiliaristi per sostenere i partiti: non mancano i Gavio o Toto. Da quando Pier Ferdinando Casini ha sposato la figlia Azzurra, Gaetano Francesco Caltagirone, attraverso le varie società di famiglia o in prima persona, non si è risparmiato: ha donato 2 milioni di euro in poco tempo. Anche se, dieci anni fa, diede un piccolo contributo di 20.000 euro ai Democratici di sinistra romani. I Ds in giro per l’Italia, e in particolare nella Capitale, hanno sempre potuto contare sui signori del mattone. Salini non si è sprecata, scarsi 100.000 divisi fra le varie sezioni rosse, stessa cifra per Italiana Costruzioni che, però, ne ha dati 25mila all’Udc, più 120 milioni del ’96 al Pds.

I Ds di Roma, a colpi di 10 milioni di lire poi diventati 20mila euro, sono stati finanziati tanto dai potenziali o reali clienti come Romeo di Global Service o come Mondialpol che ha creduto anche nei progetti di Marrazzo presidente del Lazio o dell’Udc del munifico Casini. La bolognese Astaldi, che realizza grandi opere, ha sempre preferito la destra come testimoniano i 100 mila euro a Forza Italia che mal si sposano con i 70 mila ai Ds di qualche anno prima. I Cantieri Italiani di Pescara, anche con piccole somme di 5 mila euro, hanno cercato di tenere in piedi il centrosinistra italiano in Abruzzo: dai Democratici di Sinistra al Partito popolare hanno effettuato più di 30 donazioni. Tra i grandi finanziatori va ricordato Giannino Marzotto, amico di Enzo Ferrari, scomparso qualche anno fa, che in un colpo solo diede un milione di euro ciascuno a Forza Italia e Lega Nord.

Supermercati
Il patrón di Esselunga, Bernardo Caprotti, non ha mai nascosto le sue preferenze politiche. E i supermercati enormi, che puntellano soprattutto la Lombardia, sono merito di sapienza imprenditoriale e di un buon affiatamento con gli amministratori locali. Esselunga ha sempre finanziato i candidati di Forza Italia con bonifici di 20 milioni di lire, stiamo parlando degli anni che vanno dal 1996 al 2000, e tra i beneficiari si trovano anche l’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini e l’attuale ministro Mario Mauro: entrambi, però, hanno mollato il Cavaliere per il professor Monti. Una volta sola, nel 2002, Caprotti stacca un assegno a suo nome di 200 milioni di lire per Forza Italia: l’anno prima la controllata Orofin ne aveva dati 500. Anche i centristi di Casini (Ccd) sono nelle grazie di Caprotti, che contribuisce con 210 milioni di lire in due rate.

Il colore dei soldi
La famiglia Benetton ha sempre fatto i propri (lauti) affari con debita distanza dai palazzi romani, ma accade qualcosa di strano nel 2006. Quando si comincia a parlare di una fusione tra Autostrade per l’Italia e la spagnola Albertis, un’operazione internazionale, e dunque anche politica. Prima di conoscere l’inquilino di Palazzo Chigi, se ci sarà la conferma di Silvio Berlusconi o il ritorno di Prodi, la società investe 1,1 milioni di euro e li distribuisce, sotto forma di donazioni, ai partiti. Un assegno di 150 mila euro ciascuno per la coalizione di centrodestra, Alleanza nazionale, Forza Italia, Lega Nord e Udc; stessa cifra per la coalizione di centrosinistra, Comitato per Prodi, Democratici di Sinistra, La Margherita e soltanto 50 mila euro per la piccola Udeur di Clemente Mastella. Il governo di Prodi avrà l’onore di battezzare lo scambio imprenditoriale con lo spagnolo Zapatero, ma Antonio Di Pietro, allora ministro per le Infrastrutture, si oppone con durezza. Finché il progetto non va malamente in archivio.

Mani di cemento sull’Ambiente
di Davide Milosa e Ferruccio Sansa

Noi siamo per la conservazione attiva del territorio". La chiamava così Massimo Caleo (Pd), allora sindaco di Sarzana. Erano i giorni dell'alluvione in Liguria. Che cosa intendesse Caleo era presto detto: il progetto della Marinella, un mega-porticciolo da quasi mille posti barca, 750 residenze, 200 esercizi commerciali, 25 stabilimenti balneari. Proprio alle foci del fiume Magra che provoca alluvioni un anno sì e l'altro pure. Un'operazione da centinaia di milioni che vede impegnato il Monte dei Paschi di Siena, la banca rossa. Nel cda della società sedeva in passato il cassiere della campagna elettorale del Governatore della Liguria, Claudio Burlando. Una conservazione “molto attiva”. Caleo è stato promosso senatore e, pochi giorni fa, capogruppo Pd alla commissione Ambiente del Senato.

Caleo è soltanto l'ultimo tassello della politica ambientale della nuova maggioranza grandi intese. Roba da far rimpiangere quasi tutti i governi precedenti. Il Pd ha chiesto il ministero dell'Ambiente a Enrico Letta e l'ha ottenuto. Qualcuno forse si aspettava che sull'importante poltrona arrivassero persone che hanno dedicato la vita alla tutela dell'ambiente come Salvatore Settis. O, magari, un ex deputato come Roberto Della Seta che ha combattuto per salvare Taranto dai fumi dell'Ilva incappando nell'ira della famiglia Riva. Macché, Della Seta, anzi, è stato trombato. Nemmeno lo hanno ricandidato al Parlamento.

Nella sede del ministero è arrivato invece lo spezzino Orlando : 43 anni, un funzionario di partito sveglio, che il Pd ha mandato a sbrogliare matasse molto aggrovigliate, come lo sfacelo dopo le primarie di Napoli vinte da De Magistris. Ma nel curriculum di Orlando ci sono altre cose. E soprattutto, hanno notato i critici, ne mancano: non si è mai occupato di ambiente. Non solo: in Liguria e alla Spezia in particolare, il Pd di cui Orlando era uomo forte si è fatto promotore di operazioni devastanti per il territorio. L'elenco è lungo: tanto per cominciare, si è detto, il porto della Marinella. Poi il faraonico progetto da 250 milioni del nuovo Waterfront della città. Racconta Stefano Sarti di Legambiente: “Due torri per alberghi, spazi commerciali, centro congressi, uffici, residenze e mega-parcheggio.

Si chiama progetto waterfront, doveva risanare il lungomare, rischia di essere l’ennesima colata di cemento”. Orlando dichiarò: "Penso che l’impianto e gli obiettivi progettuali siano convincenti, ma che vi siano alcune soluzioni architettoniche su cui è utile un approfondimento". Un'operazione benedetta da centrosinistra, centrodestra e banche. La gara per il progetto non è ancora fatta, ma esiste già la società Waterfront. Tra i soci una società lussemburghese – controllata da fondi panamensi e delle Isole Vergini – riconducibile a Gabriele Volpi, Berlusconi in salsa ligure diventato ricco con il petrolio nigeriano. Di lui, dei suoi affari, si è occupato anche il Senato americano in un dossier non proprio edificante. Ma nel cda della Waterfront siede anche Andrea Corradino, avvocato e fedelissimo di Luigi Grillo, ambasciatore di Berlusconi nel mondo bancario e nel centrodestra ligure. Insomma, un'operazione bipartisan. Orlando non è mai stato troppo critico nei confronti dell'amore del centrosinistra ligure per il mattone, che ha portato a realizzare decine di porticcioli con annesso cemento per decine di milioni di metri cubi.

C'è chi ricorda una proposta di legge che Orlando ha presentato in materia di bonifica dei corsi d'acqua. In pratica, per ovviare alla cronica mancanza di fondi, si prevede che le imprese possano vendere la metà del materiale recuperato dalle escavazioni dei fiumi per pagare i lavori. "Il fine di questa proposta di legge – è scritto nel disegno di legge – è consentire la rimozione del materiale e di ripristinare i corsi d'acqua, prevedendo un meccanismo che garantisca la piena tutela del territorio e che eviti qualsiasi tipo di speculazione".
Tutto bene? No, almeno secondo gli ambientalisti. Spiega Alessandro Poletti di Legambiente: "Così si rischia che i comuni vendano letteralmente i loro fiumi per fare cassa. Che si scavi molto più del dovuto. Senza contare che escavare i fiumi non riduce il rischio di alluvioni, ma anzi talvolta le provoca".

Ma se Orlando non si è occupato di ambiente, al ministero c'è chi invece lo ha fatto. "Purtroppo", sostengono gli abitanti di Basiglio, comune dove è stato sindaco Marco Flavio Cirillo, neo sottosegretario del governo Letta.
Nel curriculum ci sono una speculazione tutta berlusconiana da 300mila metri cubi di cemento per un utile di 150 milioni e una battaglia senza frontiera contro l'Area C voluta dal Comune di Milano per ridurre l'inquinamento (con l’ipotesi di una class action contro la congestion charge). Queste le due carte che Cirillo porta in dote al governo Letta. Laurea in sociologia, consulente di marketing, Cirillo nasce in Forza Italia e cresce nel Pdl. Nel 2003 si candida a sindaco di Basiglio, comune a sud di Milano, sulla cui area Silvio Berlusconi ha costruito Milano 3. Cirillo sbanca le urne. Nel 2008 si ricandida e vince. Nel Pdl trova consensi e nel 2012 è in lizza per diventare coordinatore provinciale. Perderà a favore del larussiano Sandro Sisler. Poco male. Cirillo torna a occuparsi dell'amministrazione del suo comune e del nuovo Piano del governo del territorio.

Un documento decisivo per rimodulare gli assetti urbanistici dell'area di Basiglio. C'è da tutelare l'ambiente, ma anche da dare spazio alle richieste di vecchi e nuovi costruttori. Cirillo apre le porte all'ennesima speculazione che si svilupperà tra un campo da golf e un laghetto. Ai nastri di partenza ci sono l’Immobiliare Leonardo e la Green Oasis. La prima è partecipata al 100% dalla Finsec, srl di Paolo Berlusconi (95%) e della figlia Alessia (5%). Declinazione berlusconiana anche per la Green Oasis che rileva le quote della In House srl (già titolare dei terreni). La società è partecipata per il 30% dalla Deb Holding creata da Daniel Buaron, il quale con la sua First Atlantic (poi Idea Fimit), pur non indagato, comparirà nell’inchiesta sull’Enpam (Istituto di assistenza previdenziale dei medici), per alcune compravendite di immobili.
In Deb Holding compare anche Maurizio Carfagna, consigliere della Banca Mediolanum di Ennio Doris e di Molmed, azienda specializzata nelle ricerca nucleare. Tra i soci di Molmed troviamo Fininvest, San Raffaele di don Luigi Verzé e Marina Del Bue, il cui fratello Paolo è tra i fondatori di Arner, la banca d’affari accusata dalla Procura di Milano di aver gestito i fondi neri della stessa Fininvest. Il Pgt di Basiglio vola. Di contorno, nel 2011 Cirillo affida una consulenza urbanistica ad Antonino Brambilla, che da lì a un anno (2012) sarà arrestato per corruzione assieme a Massimo Ponzoni, all'epoca delfino di Roberto Formigoni.

Il business plan passa. E questo nonostante l'Associazione per il Parco sud Milano e il Comitato cittadino per il territorio di Basiglio facciano strenua opposizione: “La popolazione è in diminuzione, oltretutto il 10% delle case presenti risultano vuote”. Il regolamento del comune prevede la possibilità di indire un referendum. Quorum raggiunto in pochi giorni. Si voterà. Ma solo sulla carta. Perché, rientrati dalle vacanze, i comitati si trovano ingarbugliati in una melina burocratica. Il 28 novembre il Pgt viene approvato. La giunta di Cirillo delibera la colata di cemento. La famiglia Berlusconi ringrazia. Il referendum può aspettare. Tanto più che tra pochi giorni a Basiglio si vota. Cirillo non ci sarà. Ma il Pdl resta favorito.

Dal consulente di marketing Cirillo, al dentista Giuseppe Francesco Maria Marinello, fresco presidente della Commissione Ambiente del Senato. Siciliano di Sciacca, Marinello per il suo esordio politico sceglie Forza Italia, poi passa al Pdl. Quindi l'ultima tornata elettorale lo promuove a palazzo Madama. Carriera veloce all'ombra di Angelino Alfano e Renato Schifani. Marinello in Parlamento si spende più per l'ippica che per l'ambiente. É, invece, grande sponsor della mega speculazione in contrada Verdura: la costruzione un campo da golf e di un lussuoso resort realizzati dalla Sir Rocco Forte and Family Spa. Il curriculum giusto per tutelare l’ambiente.


Verdi, ma non solo di lotta “Le utopie oggi sono al governo”
intervista a Reinhard Bütikofer, di Martina Castigliani

Dai movimenti studenteschi degli anni Settanta fino al parlamento. In Europa esistono realtà dove i Verdi non vivono relegati all’opposizione, ma partecipano attivamente al governo con politiche ecologiste e risultati. Reinhard Bütikofer, prima di essere membro del parlamento europeo e portavoce dell’European Green Party, è stato leader dei Verdi in Germania. Ora racconta di una storia di alti e bassi e di un futuro in cui i temi ecologisti dovranno per volere o per forza entrare nelle agende dei governi nazionali.

Qual è lo stato di salute dei Verdi in Europa in questo momento? Nella vita politica come in quella reale, non va sempre tutto bene e ci sono periodi più o meno buoni. Così alcuni partiti europei stanno ottenendo risultati, altri invece faticano un po’ di più. La domanda da farsi non è tanto “perché?”, ma “come facciamo a uscire da una tale situazione?”. Siamo una famiglia a livello europeo e attualmente i problemi sono uguali per tutti, dalla crisi economica fino alla disoccupazione giovanile. Il punto da capire è che viviamo nella stessa Europa.

Soluzioni che spesso ignorano le politiche per l’ambiente? Non ci voleva la crisi economica per vedere che ci sono governi che considerano l’ecologia una questione accessoria. Questo non aiuta né gli stati né le loro economie. È un dato di fatto che le potenze economiche per mantenere il loro successo debbano basarsi su innovazione e sostenibilità.

Come sono cambiate le battaglie ambientaliste nel corso degli anni? Non c’è dubbio che abbiano subito un’evoluzione. Io mi sento di dire che i Verdi europei sono riusciti in 20\30 anni a influire sull’opinione pubblica di numerosi paesi. Prima le tematiche verdi erano considerate minori o addirittura irrilevanti. Lentamente molti attori europei e politici stanno cominciando a capirne l’importanza.

Una sensibilità verde che però continua a essere isolata nel nord Europa? Bisogna stare attenti a non generalizzare. Nelle ultime elezioni europee, il partito dei Verdi in Grecia ha eletto un rappresentante a Bruxelles. Piano piano abbiamo successi anche a sud. Non posso negare però che in Germania, Francia e paesi Scandinavi ci siano per ora più risultati.

Qual è il segreto? In Germania abbiamo saputo fare buon uso di alcune caratteristiche dello stato tedesco. A livello locale, nei singoli lander, siamo riusciti a entrare nelle amministrazioni e quindi dimostrare che sappiamo stare al governo e non solo all’opposizione. E’ stato un passaggio molto importante perché abbiamo potuto dimostrare che non solo abbiamo una buona teoria e dei principi, ma anche che sappiamo metterli in pratica.

Essere ecologisti e governare tra i compromessi, come è stato possibile? Ad esempio siamo riusciti a far partire alcune politiche che promuovono l’uso delle energie rinnovabili sul territorio e abbiamo visto come queste possono creare posti di lavoro. E’ stato un grande successo e soprattutto ha dato credibilità a noi come partito agli occhi dei cittadini.

Perché in Italia secondo lei non siamo ancora riusciti a fare lo stesso? Esiste il partito dei Verdi in Italia e lo conosco bene. Parlo spesso con Angelo Bonelli, il presidente. Purtroppo non hanno rappresentanti in parlamento, ma so che stanno lavorando duro per le prossime elezioni europee. Vi osservo molto dall’estero e secondo me i Verdi nel vostro Paese sono deboli a causa delle troppe divisioni interne.

Cosa consiglia? Credo che se i Verdi non si disperdessero tra Sel, Pd o altre forze politiche, il partito potrebbe tornare ad avere una grande influenza. Di sicuro i Verdi europei sono pronti a dare tutto il sostegno necessario perché questo avvenga.

Il futuro è un’Europa verde? E’ ottimista? Io sono fortemente convinto che l’Europa abbia bisogno di idee verdi per uscire dalla crisi. Noi lo chiamiamo un “Green New Deal”. Se le istituzioni saranno pronte ad ascoltare il nostro appello e a implementare politiche mirate alla salvaguardia del nostro pianeta, non posso che essere ottimista. Il nostro motto è sostenibilità, non austerità.

LA STORIA
Un dicastero creato a tavolino per sorreggere il governo Craxi


FABBRICA DI POLTRONE. Il ministero dell’ambiente in Italia ha una storia molto stravagante. E’ Bettino Craxi che lo istituisce, ma non perché abbia mai patito per la condizione verde: ha solo la necessità di creare una poltrona per il Partito liberale che entra nella sua squadra di governo. E il primo ministro, quando il dicastero è quello dell’Ecologia, porta il nome di Alfredo Biondi, la stessa persona (e non l’unica) che emigrerà con molta naturalezza in Forza Italia.

Una storia da libro italico di quegli anni tutti da bere. Un ministero creato a tavolino, scorporato da quello Beni culturali, nato anche per una necessità numerica la volontà del Caf (l’asse Craxi, Andreotti e Forlani) per sorreggere la prima presidenza del consiglio al Partito socialista. Bondi non brilla come ministro. E soprattutto i liberali hanno una necessità continua di distribuire poltrone: dopo Bondi la reggenza tocca a Valerio Zanone, massone e numero uno del partito. Quando il primo agosto del 1986 il ministero dell’Ecologia diventa ministero dell’Ambiente, tocca a Francesco De Lorenzo, liberale anche lui, negli anni a seguire potentissimo ministro della sanità. Dura appena un anno e Craxi, nell’aprile dell’anno successivo non ha più i numeri e nel governo tornato nella Democrazia cristiana e affidato per la quarta volta nella storia ad Amintore Fanfani va all’indipendente Mario Pavan.

Fanfani è una scelta di transizione. Tra il 1987 il 1992 si susseguono quattro governi (Goria, De Mita, Andreotti VI e Andreotti VII) e l’Ambiente resta sempre nelle mani del socialista Giorgio Ruffolo. Nel periodo tangentopoli arriva il primo ministro Verde ed è Carlo Ripa di Meana che poi passa il testimone a un giovanissimo Francesco Rutelli. Gli anni più recenti, invece, vedono l’allargamento dei poteri del ministero (delega anche sui porti) e la fa da padrone Altero Matteoli. Emiliano Liuzzi

Ministero delle seggiole Sarebbe meglio abolirlo
di Mauro Corona

L’ambiente è tutto ciò di cui non si occupa il ministro dell'Ambiente. Soprattutto là, dove c'è ancora un patrimonio naturale integro, ma mancano i servizi. Quassù, nella Valcellina, manca tutto, eppure le istituzioni permettono furti di ghiaia. Una vera mafia dell'oro bianco: con la scusa delle esondazioni non sistemano le strade, ma fanno prelevare la ghiaia. Stessa cosa con l'acqua. Abbiamo vinto un referendum, ma si continua comunque a concedere le centraline ai privati. E ancora: si blocca l'acqua dei torrenti, che è il bene più importante, anche da vedere. Perché il ministro dimentica anche che c'è un patrimonio psicofisico dell'occhio, che è lo stesso occhio di quando si ascolta una so-nata di Mozart o di Beethoven.

E abbiamo bisogno anche di quello, altrimenti andiamo avanti tutta la vita lavorando e mangiando escrementi senza godere di nulla. Quindi il patrimonio è sì ambientale, ma anche fatto di servizi, perché se si va a vedere un tramonto e ci si siede su un forcone, quel tramonto non lo si ama più. Si ha tutta un'altra visione, un altro sapore. Noi abbiamo patrimoni di ambiente che vengono tassativamente massacrati. A volte sotto l'egida dell'Unesco, a volte sotto quella dei Beni Culturali, a volte sotto l'egida di questo ministro dell'Ambiente (questo ma anche quelli precedenti, dato che uno vale l'altro). Non hanno alcuna idea di ciò che bisogna risparmiare e di ciò su cui invece bisogna investire. Occorre capire che l'ambiente è una fabbrica che si rinnova da sola.
Lo diceva anche il vecchio Mario Rigoni Stern, mio carissimo amico ed enorme scrittore. Diceva che il bosco, ad esempio, lo si deve lavorare, lo si deve sfruttare. Perché lì, dove si è tagliato 15 anni prima, si riformerà di nuovo il legname, senza investire nulla. Ricresce da solo. Invece, le istituzioni permettono lo scempio dei boschi, quello portato avanti da famigerati boscaioli, che tirano giù dieci o dodici camion di legname al giorno. Oppure, ancora peggio, lo lasciano incolto. Ad esempio, siamo invasi da boschi abbandonati con alberi rachitici, striminziti. Perché un faggio non può crescere assieme ad altri venti. Va liberato, per fargli tirare il fiato. Di venti faggi cresciuti in cespuglio quindi, bisogna lasciarne otto o nove.
L'ambiente può dare il massimo del suo frutto, il massimo della resa, recuperandosi da sé. E questo è importantissimo, perché un prodotto come il legno è fondamentale. C'è chi l'ha capito. L'architetto Renzo Piano, ad esempio, ha scoperto quello che i boscaioli e i montanari sanno da sempre. Ossia che il legname dura più del cemento. Per questo ha cominciato a usare il legno per i suoi progetti.

L'ambiente poi è anche pastorizia. Noi qui, ad esempio, abbiamo un parco (non mi piace molto parlare sempre di noi, ma devo farlo perché stiamo soffocando nell'ambiente incolto) dove hanno vietato il pascolo alle greggi. A Longarone per far passare il Giro d'Italia hanno bloccato per giorni la transumanza delle pecore: le cacche delle pecore sporcavano la strada e davano fastidio alle bici. Ma è mostruoso, perché la transumanza è una cosa che avviene da secoli. Le pecore brucano e lasciano escrementi che concimano la terra.

Bisogna poi recuperare i vecchi lavori. Perché ai ragazzi non si insegna il lavoro del bosco (qui ce ne sono di immensi)? Perché non gli permettiamo di recuperare la manualità, facendo sentieri, lavorando la legna, per poi magari vendere il ricavato alle cooperative? In questo modo si potrebbe avere un occhio attento all'ambiente. Dobbiamo capire che l'ambiente è una fabbrica a getto continuo. Che non si sfrutta con gli impianti di sci, dove si ruba e si spreca acqua per la neve artificiale. Ma investendo in altro, come percorsi per bambini, dove portare le scolaresche in gita, e insegnare loro le diverse specie di alberi, la loro carta d'identità, dove la corteccia è il viso e le foglie i capelli. Allora perché non facciamo percorsi per i bambini e i loro genitori? La mancanza di strade e sentieri è gravissima.

Siamo isolati in una valle che il grande scrittore Carlo Sgorlon definì l'ultima valle, l'ultimo tesoro. Siamo isolati. Perché, ad esempio, non costruiscono duecento metri di sopraelevata che risolverebbe tutti i problemi quando i torrenti, con le piogge, scappano dall'alveo? Perché? Perché se la fanno, poi non hanno più la scusa per rubare quell'oro bianco che è la ghiaia. Venga qui il ministro dell'Ambiente, gli facciamo vedere noi cosa siamo diventati. Non vengono fatti i servizi per mantenere l'ambiente incontaminato e i paesi si spopolano. Qui è tutto proibito, anche toccare una pianta. Non si può fare una strada, non si può fare niente, perché è tutto protetto. Ma così è peggio, si rischia di lasciarci soffocare sotto il peso dell'abbandono. Poi tanto là dove si vuole, si fanno ruberie dell'ambiente e stragi. In una zona della val Gardena, per citare un caso, c'è un sindaco che vuole ridisegnare e retrocedere i confini decisi dall'Unesco, così da riuscire a costruire un impianto di risalita nuovo. Allora quanto valgono queste istituzioni? Quanto vale l'Unesco?

Aveva ragione il grande scrittore, Jean Giono, l'uomo che piantava gli alberi: il vero bisogno sta nelle piccole valli, dove ci si può chiamare da una costa all'altra. Qui non abbiamo servizi, non abbiamo negozi alimentari di frutta e verdura. Non abbiamo un tabacchi, una macelleria, e non abbiamo un'edicola. Eppure si vive anche di giornali, è inutile dire di no: serve anche leggere i quotidiani, visto che siamo tra le nazioni che leggono meno. Allora se l'ambiente fosse gestito da uno che sa come cavare un albero, che sa quando tagliarlo, e come sfruttarlo, si salverebbe questo patrimonio immenso, creando anche dei posti di lavoro. E invece si dedicano solo alle chiacchiere e alla cementificazione. Pensano a costruire ponti, autostrade, impianti di risalita, seggiovie e funivie, invece di incentivare il camminare e fare dei progetti per dei percorsi a piedi.

Dove sono le istituzioni? Dov'è questo governo? Lo dico a Letta, non vada a rinchiudersi in un convento a fare il frate, venga invece a vedere i problemi reali della gente. La Valcellina è tempestata di tir che rubano la ghiaia e li fanno passare da una strada del 1901. La domenica siamo bombardati dalle gare motociclistiche - perché pare che la Valcellina, da Longarone a Montereale, sia la più bella pista d'Europa - e nessuno ti protegge da un inquinamento acustico mostruoso.

Il ministero dell'Ambiente, a questo punto andrebbe abolito, perché non esiste, non serve a niente. È popolato da seggiolai. Anzi nemmeno, visto che qui i seggiolai impagliavano le sedie, loro invece le sedie le scaldano e basta. E l'Unesco è una patacca fasulla, farebbe bene a riprendersi il suo marchio che è vilipeso tutti i giorni. Mi secca fare la parte del grillesco, ma è così e lo è sempre stato.

Qui il paese di Erto non esiste più. Cinquant'anni fa hanno ammazzato duemila persone. Un genocidio. E quel 9 ottobre 1963 i telegiornali nazionali non hanno detto una parola, nemmeno di 3 secondi, mentre venivano uccise migliaia persone. Anche quello era ambiente. Lo scriveva Jorge Luis Borges: nell'ambiente ci vive l'uomo. E il vescovo George Berkeley: la mela non si può gustare da sola, perché ci vuole la mela e il palato che la gusta. Quindi l'uomo deve essere il palato che gusta questo ambiente, che gusta la natura. Ma deve trovarla buona la mela, ancora tutta intera. Invece la troviamo marcita, per l'incapacità di avere idee.

E non è che il ministero faccia di tutto per deturpare l'ambiente, semplicemente non ha idee. Quelle idee che dovrebbero provenire da chi l'ambiente lo vive. Ecco perché mi schiero contro la Tav, perché non si tratta solo di danneggiare l'ambiente ma anche l'anima di chi vive lì da secoli. Loro, gli abitanti della Val di Susa, hanno paura di veder la loro terra sconvolta, così come è stato fatto qui nel Vajont. La gente dovrebbe scendere in piazza non con i fucili, ma con le zappe. In tempo di crisi, in cui non si possono vendere scarpe, né vestiti, né occhiali, né automobili, bisogna tornare al bene primario: la legna per scaldarsi, il cibo per nutrirsi. Questo si deve vendere. Ed è l' ambiente che ti dà il cibo e il legno. Sarà la terra a darci i prodotti. Partiamo da lì. Impariamo a procurarci il cibo e a sfruttare i boschi. Saremo salvi e con un sacco di tempo libero. E la terra tornerà a fiorire e sorridere.

(testo raccolto da Emiliano Liuzzi)

Mauro Corona è nato nel 1950 e vive nella sua Erto (Pordenone), a due passi dal Vajont. É scrittore, alpinista e scultore. È autore di molti libri che raccontano l’uomo e le montagne. Tra gli altri: “Il volo della martora”, “Le voci del bosco”, “Finché il cuculo canta”, “Gocce di resina”, “La montagna”, “Nel legno e nella pietra”, “Aspro e dolce”, “L’ombra del bastone”, “Vajont: quelli del dopo”, “I fantasmi di pietra”, “ Storia di neve”, “La fine del mondo storto” (premio Bancarella 2011), “La ballata della donna ertana”, “Venti racconti allegri e uno triste”. L’ultima sua opera è “Confessioni Ultime”.

Annamaria Cacellieri, da un lato, Nitto Palma dall’altro. Si riapre la guerra contro i malefici condoni dell’abusivismo. Tornando sempre più indietro ci toccherà combattere le guerre puniche. La Repubblica, 10 marzo 2013

Riaprire i termini del condono edilizio in Campania. A meno di ventiquattr’ore dalla difficile (e contestata) nomina a presidente della Commissione Giustizia del Senato, Nitto Palma torna a far discutere. L’ex guardasigilli del governo Berlusconi, ai microfoni di Radio 24,
ripropone ancora una volta il colpo di spugna su migliaia di immobili abusivi spuntati negli anni sul territorio campano. «La maggior parte di questi sono abitazioni di necessità», si giustifica il senatore.
La difesa degli scempi campani è a tutto tondo: «Vi invito ad andare sui territori e vi renderete conto che da circa 35 anni, in una terra dove governava il centro-sinistra, si è costruita una città grande come Padova e adesso qualcuno intende abbattere uella città». Secondo Palma, «stiamo parlando di circa 700-800 mila persone, e non ci sono le risorse finanziarie per procedere agli abbattimenti, non ci sono le discariche dove inserire l’abbattuto e principalmente non c’è la possibilità di riallocare i soggetti che vivono in quelle abitazioni». Tanto vale salvarle, condonandole, perché «vi sono dei mostri edilizi e anche abitazioni di speculazione », concede Palma, «ma la maggior parte sono di necessità», appunto.

Il magistrato romano, eletto proprio in Campania dove è anche coordinatore regionale del Pdl (in virtù di questa carica, subito dopo l’elezione di febbraio, è andato a trovare Cosentino in carcere, si è saputo ieri), ritorna dunque a difendere il suo bacino di voti. «Non deve creare scalpore una posizione che tende ad ottenere la parità di trattamento per tutti i cittadini italiani», prosegue la sua arringa, visto che
«sul territorio nazionale c’è stata una disparità tra le Regioni, dovuta a due leggi della Campania che sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale».

«Nitto Palma vuole intervenire sulla legge nazionale, prorogando i termini del condono del 2003 per aggirare la legge regionale del 2004 che rende insanabili gli immobili abusivi in aree vincolate e impedire le demolizioni disposte dalla magistratura. Letta deve intervenire rapidamente e spiegare», attacca Legambiente. Così Ermete Realacci, presidente pd della Commissione Ambiente della Camera, per cui «riaprire il condono sarebbe da irresponsabili». Schierati con Nitto Palma il presidente della Provincia di Napoli, Antonio Pentangelo, e il presidente del Consiglio regionale campano Paolo Romano, entrambi del Pdl.

«È di fronte agli eventi straordinari (come il sisma) che si mettono alla prova le regole del vivere civile: perciò abbandonare L’Aquila sarebbe il sinistro prologo della morte della tutela in Italia». La Repubblica, 10 maggio 2013

L’Aquila è ancora in Italia? Il sindaco Cialente ha ammainato la bandiera italiana dalla sua città in rovina e riconsegnato la fascia tricolore al capo dello Stato per esprimere «preoccupazione, rammarico e mortificazione» per l’abbandono in cui giace la città deserta, dove da ottobre, nonostante il (buon) provvedimento Barca, non arriva un centesimo per la ricostruzione, paralizzando i cantieri e consegnando i cittadini a una condizione di «scoramento, sfiducia, rabbia, disperazione, povertà». «Lo Stato ci ha abbandonati», scrive il sindaco; «nella nostra Costituzione si respira la responsabilità istituzionale e democratica che si esprime nei diritti e nei doveri delle istituzioni e dei cittadini. Questo spirito non lo vedo nel comportamento dello Stato». Domenica 5 maggio, più di mille storici dell’arte di ogni età (università, soprintendenze, licei...), auto-convocati per un’idea di Tomaso Montanari, si sono raccolti all’Aquila da tutta Italia per vedere con i propri occhi, e denunciare al Paese, il colpevole abbandono del centro storico a oltre quattro anni dal sisma.

Echeggia, in questa presenza civile e nelle parole del sindaco, un aspro contrasto fra i principi della Costituzione e il comportamento dei governi. In nessun luogo come all’Aquila è evidente il nesso fra le rovine materiali di un centro storico e la rovina morale e sociale che minaccia la nostra società. Qui il degrado civile si rispecchia in un doppio disastro, il terremoto e la pessima gestione del dopo-terremoto, che ha privilegiato la costruzione delle cosiddette new towns abbandonando il centro storico, deportando gli abitanti non nelle ridenti città-giardino promesse da Berlusconi, ma in quartieri-ghetto privi di spazi per la vita sociale. Pensava già a questo il costruttore Piscicelli, quando la stessa notte del sisma se la rideva con un suo compare progettando cemento e affari? E perché il deputato Pdl Stracquadanio dichiarò alla Camera che «L'Aquila era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto, e il terremoto ne ha certificato la morte civile», se non per giustificare la deliberata distruzione del tessuto sociale? Dobbiamo dimenticare queste infamie in nome di una umiliante “pacificazione” che ci costringa all’amnesia?

È di fronte agli eventi straordinari (come il sisma) che si mettono alla prova le regole del vivere civile: perciò abbandonare L’Aquila sarebbe il sinistro prologo della morte della tutela in Italia. Almeno due volte, in un’Italia assai meno prospera di questa, L’Aquila fu abbattuta da un terremoto, e prontamente ricostruita. Il suo centro storico, tra i più preziosi d’Italia, è il frutto di un atto di fondazione, l’aggregazione di comunità di cittadini che dai “99 castelli” del territorio confluirono nel Duecento in una sola città: un gesto di sinecismo, diremo con parola greca (
synoikismos, “darsi una casa comune”). La stessa parola che per i Greci descriveva l’origine di città come Rodi o Atene. Il sinecismo dell’Aquila è il massimo esempio medievale di un processo aggregativo di natura economica, etica e civile: le singole comunità mantennero il nucleo identitario d’origine nelle chiese e nei nomi dei quartieri, così contribuendo a definire l’idea italiana di città-comunità.

Perciò svuotare il centro per disseminare gli aquilani nelle campagne è un gesto violento quanto il terremoto, capovolge il sinecismo nel suo rovescio, la deportazione. Inutilmente la formula inglese new towns tenta di dare una patina colta a questa operazione brutale. Le New Towns furono un esperimento urbanistico iniziato nel 1947 a Londra, per controllarne la crescita. Furono accuratamente pianificate a partire dagli spazi sociali, dai trasporti, da un calibrato rapporto città-campagna: l’esatto opposto di quel che offrono le bugiarde new towns di Berlusconi, che hanno devastato i suoli agricoli senza creare spazi per la vita sociale. E questo all’Aquila, dove gli Statuti medievali prescrissero agli abitanti di realizzare collettivamente, gli spazi pubblici (la piazza, la fontana, la chiesa), prima di insediarsi nelle loro case! Ma la scelta perversa di quel governo resiste alla prova degli anni, e le rovine della città si sommano a quelle della società, alla crescita dei disagi, della disoccupazione, delle malattie mentali.

L’Aquila si allontana dall’Italia e dal mondo. Con gli aquilani, vien messa al bando dalla città la maestà della legge, la verità della Costituzione. I nostri centri storici «sono vita, non si possono perdere senza sentirsi mutilati, menomati nello spirito; le rovine sono come cicatrici dello spirito, dove rimane la cecità e l’amnesia, irrimediabile» (Calamandrei). Perché non è stata fatta una legge speciale per L’Aquila? Perché non si possono dirottare su questa città-martire i soldi che bastano per acquistare un aereo militare, per costruire un chilometro di Tav? Le promesse di aiuto dei paesi del G8 hanno prodotto finora ben poco: ma perché non si può lanciare la ricostruzione dell’Aquila (necessaria comunque) all’insegna di un grande centro di ricerca e formazione specializzato in interventi in aree sismiche, dalla prevenzione al restauro?

Un centro come questo avrebbe da subito un ruolo internazionale, contribuendo alla ricostruzione di quella che rischia di restare una Pompei del XXI secolo, ma senza trasformarla in un theme park, in una Disneyland che ne offenda la storia. Il ministro dei Beni culturali, Massimo Bray, ha dato un gran bel segnale con la sua visita all’Aquila domenica; il nuovo governo vorrà, salvando questa città in ginocchio, riaffermare la priorità costituzionale della tutela? «Non c’è più tempo per aspettare domani», dicevano (anzi gridavano) decine di cartelli nelle mani degli studenti, domenica 5 maggio.

Si riapre il dibattito sul tema dell'abusivismo, in un modo che peggio non si può; naturalmente, all'insegna della "solidarietà nazionale". Corriere del Mezzogiorno online, 8 agosto 2013, con postilla (a.d.g.)

«Eventuali interventi normativi sulla vicenda delle costruzioni abusive in Campania «non possono assolutamente prescindere da una sinergica, congiunta e preliminare attività di ricognizione e valutazione, da parte di tutte le componenti istituzionali interessate, in ordine alle concrete situazioni abusive poste in essere ed al danno effettivamente arrecato al territorio e all'ambiente». Lo ha detto il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, nel corso del question time. Secondo il ministro «il fenomeno del'abusivismo edilizio, determinato, in alcune realtà locali come quella campana, anche da ragioni di necessità abitative, va inquadrato nel necessario bilanciamento di diversi valori di rilevo costituzionale, quali, accanto a quelli di natura sociale, quelli connessi alla tutela della equilibrata programmazione e del rispetto del patrimonio archeologico, naturalistico ed ambientale».

REVOCA DEMOLIZIONE - In tale contesto, ha aggiunto, «si inserisce la sanzione accessoria che impone la demolizione del manufatto abusivo e, se del caso, il ripristino dello stato dei luoghi, rispetto all'oggetto dell'abuso, acquisito «ope legis» al patrimonio del Comune». «Ciò - ha sottolineato Cancellieri - non esclude la possibilità che il giudice dell'esecuzione revochi l'ordine di demolizione qualora sopravvenga un atto amministrativo del tutto incompatibile con lo stesso, quale la destinazione, da parte del Comune, del manufatto abusivo a fini di utilità sociale

IL PD - «Quella dell'abusivismo edilizio in Campania è una materia molto delicata». Così, in una nota, Enzo Amendola, deputato e segretario regionale del Pd campano, e Lello Topo, capogruppo Pd al Consiglio regionale Campania. «Le annose questioni delle costruzioni illegali e degli abbattimenti non possono essere risolte con degli articoli inseriti nella finanziaria come ha fatto l'attuale governo regionale di centrodestra guidato da Stefano Caldoro - aggiungono - ma c'è bisogno di cautela, dialogo e confronto». «Concordiamo con il ministro Cancellieri, la situazione è drammatica, per questo anche da parte del governo nazionale occorra cautela - spiegano - il rischio è quello di aprire conflitti di competenza tra gli Enti che allungherebbero i tempi della risoluzione dei problemi, aumentando anche le incertezze e i timori di numerose famiglie».

PROPOSTA DI LEGGE - «Il Pd campano da tempo ha predisposto una proposta di legge equilibrata e rigorosa, per costruire e dare risposte alle domande di condono in atto ormai, in alcuni casi da più di venti anni, e per realizzare un piano serio di recupero ambientale e sociale», continuano. «Bisogna assumersi la responsabilità di dare risposte. In diversi casi con opere di mitigazione ambientale e paesaggistica sarà possibile recuperare i manufatti e le aree di costruzione abusiva - concludono - nelle situazioni particolarmente gravi bisognerà dire 'nò, soprattutto contro le speculazioni fatte dalla camorra che ha distrutto e mortificato il nostro territorio».

Postilla

Il ministro Cancellieri dovrebbe evitare di fare confusione. Il problema in Campania sono le 80.000 pratiche di condono ancora non evase. L’incapacità di applicare le leggi dello stato genera questo limbo oscuro, una sorta di “stato di eccezione” che non finisce mai. In questo ingorgo malsano dell’attività amministrativa, le sentenze di demolizione passate in giudicato riguardano manufatti abusivi che la legge non consente di sanare, perché si trovano in aree ad elevato grado di tutela o rischio. Fa specie che una persona delle istituzioni come il ministro Cancellieri anche solo ipotizzi la possibilità di sanatorie, con provvedimenti legislativi ad hoc, con la scusa di motivazioni “sociali” (il cosiddetto “abuso di necessità”). L’unica è applicare la legge. Attrezzando regioni e comuni affinché possano svolgere le funzioni istituzionali di prevenzione, controllo, sanzione, ripristino. Senza tutto questo, l’industria dell’abusivismo, in Campania e nel Sud, continuerà a prosperare. E l’eventuale sanatoria, all’ombra delle grandi intese, sarà solo un altro doloroso passo verso la definitiva decomposizione territoriale e sociale di una parte importante del paese (a.d.g.).

Politiche urbane e dei tempi distinguono un approccio privatistico e uno progressista (con tutte le imperfezioni del caso) agli ambienti del consumo come spazi pubblici. Corriere della Sera Milano, 22 aprile 2013 (f.b.)

Apertura prolungata fino alle 22, diffusione di musica classica e lirica in determinate fasce orarie, pagamento degli straordinari ai vigili per un maggior controllo negli orari notturni, iniziative per incentivare i giovani. Rivoluzione in Galleria. Comune ed esercenti hanno trovato l'accordo per rivitalizzare il salotto di Milano al netto di tutti i problemi che bisogna ancora risolvere(leggi rivisitazione delle convenzioni e proposte come quelle di Altagamma). L'assessore alle Attività produttive, Franco D'Alfonso ha incontrato a Palazzo Marino tutti i rappresentanti dei commercianti della Galleria. La collaborazione ha funzionato

Quattro i punti su cui si è trovato l'accordo. Il primo: tenere le serrande aperte almeno fino alle 22. Tanti pubblici esercizi (leggi bar e ristoranti) lo fanno già. Tutti gli altri chiudono inesorabilmente tra le 19 e 30 e le 20. «È assurdo - attacca l'assessore - che un luogo del genere, frequentato da milioni di persone, chiuda perché la struttura commerciale è antiquata. La risposta è arrivare a un'apertura concordata fino alle 22». «Comprendiamo bene la richiesta dell'assessore D'Alfonso - replica il consigliere delegato dell'associazione il Salotto, Pier Galli - e ci stiamo muovendo gradualmente. Prima l'apertura sarà su base volontaria, poi verrà inserita come condizione nei nuovi contratti».

Altra iniziativa: la diffusione di musica in Galleria. In certe fasce orarie e con dei limiti ben precisi. Solo classica e lirica. Niente rap o rock. Magari con un link diretto con la vicina Scala. «Sarà un impianto - continua Galli - che non sarà minimamente impattante sul complesso monumentale e che diffonderà musica solo in certi momenti della giornata». E arriviamo al capitolo sicurezza, soprattutto nella fascia notturna. In un primo momento i commercianti avevano pensato di ingaggiare degli steward privati in contatto diretto con le varie forze dell'ordine. «Poi - prosegue il rappresentante di Confcommerio - abbiamo optato per un'altra soluzione: contribuire al pagamento degli straordinari della polizia municipale. Anche perché gli steward possono avere un potere dissuasivo, ma non possono intervenire direttamente o sequestrare la merce degli abusivi».

Ultima decisione: «Una delle grandi pecche della Galleria - attacca D'Alfonso - è che allontana i giovani. Per due motivi: ha un'immagine un po' fané e i costi dei pubblici esercizi sono molto alti. Bisogna fare delle iniziative per attrarre i giovani. La Galleria deve tornare quella di un tempo, dove andavi a discutere e non solo a comprare». Prima iniziativa: menù scontati per i più giovani.
Commercianti e Palazzo Marino hanno trovato anche un altro punto d'intesa. Riguarda la proposta che Altagamma starebbe (ri)preparando per la gestione della Galleria: «Ci siamo molto meravigliati - continua Galli - che Altagamma non tenga in nessuna considerazione chi c'è già in Galleria, chi paga gli affitti al Comune, chi risiede nel complesso monumentale e a cui piacerebbe rimanere. È una mancanza di rispetto».

Una prima risposta arriva dallo stesso D'Alfonso: «Bisogna mettersi bene in testa che la Galleria è un bene civico ed esclude tutte le privatizzazioni o le gestioni separate di cui si favoleggia. Noi siamo per operazioni molto "milanesi" e non per quelle di chi arriva e si vuole portare via la roba».
Dove l'accordo non c'è e difficilmente si troverà è invece la questione nodale delle concessioni e dei subentri. Dove girano milioni di euro tra privati e il Comune, proprietario dell'area, si deve accontentare del canone raddoppiato. Come nel caso di Versace pronto a subentrare all'argenteria Bernasconi con 15 milioni di euro. «La delibera del 2012 - conclude Galli - parte dal presupposto che queste forme di subentro esistono in tutto il mondo, Milano compresa. E proprio per questo motivo ha messo dei paletti. L'ultima parola spetta a Palazzo Marino. Inoltre chi subentra ha un canone raddoppiato e ha la stessa scadenza di chi ha lasciato. Quindi il pubblico ha sicuramente una convenienza economica. Altro che danno erariale. La Corte dei Conti dovrebbe intervenire se operazioni del genere venissero bloccate».

La rinascita e le potenzialità strategiche dell’agricoltura, una delle vie d’uscita dalla crisi provocatadella globalizzazione capitalista. "Ritorno alla terra per la sovranità alimentare e il territorio bene comune": ecco il tema del quale si discuterà al convegno della Società dei territorialisti. il manifesto, 16 maggio 2013.

La crisi economico-finanziaria che ha depresso l'immaginario trionfante dell'Occidente sta accelerando processi molecolari e inosservati di trasformazione culturale e sociale del nostro Paese. La vecchia talpa scava in segreto le sue gallerie. Si tratta, per la verità, di fenomeni avviati da tempo e già rilevati da alcuni osservatori non conformisti, ma che oggi divengono più visibili di fronte al tracollo di opportunità di lavoro e di vita, talora anche di senso, offerto dalle città e dal mondo industriale. Un silenzioso fiume fatto di individui isolati, di giovani e non giovani, di uomini e donne con profili culturali diversi, sparsi in tutte le regioni d'Italia, risale controcorrente il Belpaese in cerca di approdi nuovi negli spazi delle nostre campagne. Il flusso si scontra contraddittoriamente con un fenomeno opposto: l'esodo molecolare e l'abbandono di tanti nostri borghi appenninici e aree interne, che perdono scuole e ospedali, uffici postali e stazioni dei carabinieri, giovani e bambini. È questo un grande tema sia demografico che economico e ambientale su cui occorrerà ritornare non episodicamente. Ma il rifugio in campagna sembra l'avvio di un'altra storia, l'apertura di una nuova pagina culturale, mentre l'esodo dalle aree interne appare più come il movimento ultimo e inerziale di un processo in atto da decenni e che ora si va esaurendo. Che cosa richiama tanti isolati individui nelle nostre campagne? È l'agricoltura, la pratica millenaria di mettersi in relazione quotidiana con la terra per ricavarne beni agricoli.

Talora l'allevamento, soprattutto di capre, che giovani usciti dalle Università intraprendono per fare formaggi eccellenti. Ma detta così è banale. In realtà si pensa poco al grandioso mutamento, realizzatosi negli ultimi anni sotto i nostri occhi, senza che noi fossimo in grado di afferrarne la profondità. L'agricoltura, la più antica pratica economica della storia umana, ha subito delle trasformazioni, non tanto delle sue tecniche, quanto delle sue funzioni, che non hanno nessun termine di paragone negli altri ambiti dell'attività produttiva del nostro tempo.

Come in gran parte d'Europa, questa antica attività destinata all'alimentazione umana ha visto esplodere una miriade di finalità a cui può corrispondere e di cui è diventata la sorgente. Sulla terra, infatti, non si producono solo beni agricoli, ma si protegge e si rielabora il paesaggio, si cura il suolo, rigenerandone la fertilità: la fertilità, questo principio di vita e di riproduzione che si credeva risolto con la concimazione chimica e che oggi torna come necessità imperiosa sui suoli mineralizzati e isteriliti delle agricolture industriali. Ma al tempo stesso si difende il terreno dall'erosione, si alimenta la biodiversità agricola, si conserva la salubrità dell'aria e dell'acqua, si tutela il verde e l'ambiente, lasciandolo ben curato alle nuove generazioni, si organizzano nuove modalità di turismo e di fruizione del tempo libero, si riscoprano vecchie radici di cultura enogastronomica (la moltitudine delle cucine locali, patrimonio insigne della nostra civiltà materiale), si recuperano saperi manuali in via di estinzione, si riattivano forme cooperative di lavoro e di vita in comune, si curano gli handicap (fattorie sociali), si praticano forme innovative di apprendimento (fattorie didattiche). Insomma, sulla terra, diventata erogatrice di una molteplicità di servizi avanzati, si realizzano nuovi stili di vita, che possono fare concorrenza alle condizioni di esistenza nella città, diventata, per un numero crescente di cittadini, fonte di disagio e di frustrazioni insostenibili. I nostri frenetici e abbaglianti centri urbani, paradisi in terra per i nostri deliri consumistici, oggi fanno pagare un prezzo sempre più alto per la frequentazione del loro lunapark. Senza dire che innumerevoli disperati extracomunitari, che arrivano nel nostro Paese provenendo da distretti rurali di paesi africani o dell'Est europeo, vengono rinchiusi nei lager dei Cie ed espulsi come criminali, mentre potrebbero inserirsi in un grande flusso demografico di ripopolamento delle aree interne e di valorizzazione dell'agricoltura. Ancora oggi, a causa della cultura miserabile, della xenofobia infantile di alcuni uomini arrivati alla guida dei nostri governi, l'Europa è una terra di barriere, il Mediterraneo un mare chiuso e pattugliato, mentre dovrebbe essere il nostro vasto e prossimo orizzonte, lo spazio di un nuovo mondo cosmopolita, da cui far giungere l'energia di popoli giovani per la rivitalizzazione delle nostre campagne. Il processo appena descritto, oggi lasciato alla sua spontaneità, potrebbe diventare un grandioso progetto per creare nuovi posti di lavoro, per ripopolare le aree interne, per proteggere il nostro territorio senza ricorrere a "grandi opere", per creare nuove economie valorizzando le risorse (terre, acque, boschi) oggi abbandonate.
Sulle nostre colline, per secoli è fiorita un'agricoltura che ha reso possibile la vita delle nostre cento città, che ha fornito alimenti alle popolazioni dedite all'artigianato, alla mercatura, all'arte. Oggi potrebbe ospitare un'agricoltura di qualità in cui far rivivere, in forme nuove, la straordinaria biodiversità agricola della nostra incomparabile civiltà agraria. Purtroppo, tra i fenomeni che percorrono il nostro tempo occorre considerare anche quello che ha svuotato i partiti politici - vale a dire gli strumenti con cui un tempo si governavano i processi di mutamento - di ogni cultura sociale, di ogni capacità di progetto. Non facciamo neppure cenno alla cultura materiale e ambientale: gli uomini politici abitano in un sopramondo artificiale senza alcun rapporto con la terra. Essi vivono alla giornata, nella fase storica in cui più acutamente si avverte il bisogno di scorgere un orizzonte, di capire dove si può andare.
Per affrontare con strumenti analitici e discussioni mirate i fenomeni oggi in atto si svolgerà a Milano domani e sabato il convegno "Ritorno alla terra per la sovranità alimentare e il territorio bene comune". A organizzarlo è la Società dei territorialisti (l'organizzazione promossa da Alberto Magnaghi, che mette insieme una comunità di saperi esperti del nostro territorio davvero non comune: dagli urbanisti ai geografi, dagli storici agli agronomi, dai sociologi agli architetti. Si spera che i media si accorgano dell'evento. Soprattutto si spera che quella frazione dignitosa del giornalismo italiano, che pure esiste, concorra ogni tanto a mostrare anche l'Italia che pensa, che non ha divi da esibire, o ciarle partitiche da rappresentare, che opera per pura passione, tentando di migliorare le sorti del nostro Paese

.www.amigi.org

Dietro la maschera (già di per se bruttina) dello sfruttamento turistico dei paesaggi più pregiati si nascondeil volto orrendo del saccheggio neocolonialistico delle risorse naturali del continente più povero del mondo. La Repubblica, 12 aprile 2013
Cinema, negozi e zoo. Obiettivo: 1 milione di turisti. Pechino sfrutterà anche le materie prime ma gli ambientalisti protestano. Lo scalo dovrebbe essere pronto in due anni e sarà il più grande del sud del continente. Allarme degli ecologisti di tutto il mondo

PECHINO - La Cina costruirà un nuovo aeroporto internazionale affacciato sulle cascate Vittoria, patrimonio dell´Unesco tra due parchi nazionali di Zimbabwe e Zambia. Lo scalo sarà il più grande dell´Africa meridionale e punta ad attirare nel cuore della foresta pluviale oltre un milione di turisti all´anno. Più che un aeroporto, si annuncia un mega-centro dello shopping e del divertimento. Con centinaia di negozi, ristoranti, cinema, alberghi e uno zoo che metterà in mostra elefanti, bufali, giraffe e ippopotami per i visitatori ossessionati da foto-ricordo ad alta velocità.

L´aeroporto cinese, in mezzo al Matabeleland, scatena furiose polemiche nel continente africano e allarma gli ecologisti di tutto il mondo. Sotto accusa il nuovo potere di Pechino, che non esita a distruggere i luoghi più belli dell´Africa in cambio di materie prime, facendo affari con dittatori isolati dalla comunità internazionale. Il progetto dello scalo è stato presentato ieri nella capitale cinese e i lavori saranno ultimati entro due anni. Investendo oltre 200 milioni di dollari, finanziati dall´"Export-Import Bank of China", saranno realizzati anche 4 chilometri di superstrada per collegare le piste all´autostrada per Harare, oltre che 100mila metri di piazzole per gli aerei, 20mila metri di terminal e 5 parcheggi. Il responsabile del gruppo dello Jiangsu che si è aggiudicato i lavori, Zhu Haifeng, ha negato che le infrastrutture andranno a distruggere uno degli ecosistemi più fragili e preziosi del pianeta. Le popolazioni locali, ndebele e makololo, denunciano invece l´abbattimento indiscriminato di foreste secolari, il rischio di estinzione per gli ultimi sei rinoceronti bianchi rimasti nel parco nazionale «Mosi-oa-tunya» e il pericolo di impoverimento idrico delle cascate. Gli ambientalisti stranieri sostengono che scaricare un milione di turisti all´anno tra shopping center, alberghi e visite guidate, imporrà la realizzazione di nuove centrali elettriche e un consumo d´acqua capace di abbassare la straordinaria portata di oltre 9mila metri cubi al secondo delle Victoria Falls. Pechino ha già presentato i voli diretti da 5 metropoli cinesi e ha assicurato di aver solo accettato l´invito del presidente Robert Mugabe. Lo Zimbabwe, sull´orlo del collasso economico, non spenderà un dollaro: i costi dell´aeroporto saranno coperti dalla concessione del suo sfruttamento commerciale, da licenze per il taglio di legname e da materie prime. Per i media africani l´annunciata cementificazione cinese delle cascate Vittoria è già il simbolo del neo-colonialismo di Pechino. Il luogo, che gli indigeni chiamano «il fumo che tuona», è stato scoperto dallo scozzese David Livingstone nel 1855, in pieno dominio britannico, che lo intitolò alla regina Vittoria. Da allora non ha più avuto pace. È stato minacciato da un ponte ferroviario e già oggi è preso d´assalto da 300mila turisti all´anno decisi ad ammirare un fronte d´acqua largo 1,5 chilometri e con un´altezza media di 128 metri, il doppio delle cascate del Niagara.

Il governo cinese difende il nuovo aeroporto assicurando che diventerà uno dei motori della ricostruzione economica dello Zimbabwe e che il progetto rientra in un piano più vasto di «valorizzazione dei luoghi più belli del mondo». La Cina si appresta a superare gli Usa e a diventare il primo esportatore di turisti del pianeta, mentre i cinesi hanno già conquistato il primato della spesa per vacanze all´estero. Business che il dittatore Mugabe, che a fine marzo ha incontrato in Sudafrica il nuovo leader Xi Jinping, non vuole lasciarsi sfuggire.

Tra gli africani però cresce la paura di essere riconquistati da una potenza straniera. In Zambia i minatori sono scesi in sciopero dopo che manager cinesi hanno sparato sugli operai in rivolta contro le paghe da fame, il Congo denuncia la deforestazione causata dall´"invasione gialla", in Kenya sale la protesta contro l´inquinamento dei grandi laghi, distrutti da serre e pescicolture cinesi, mentre il presidente nigeriano tuona contro il «neocolonialismo di Pechino che sfrutta le materie prime degli africani per poi rivendere a loro sottoprodotti finiti». Proprio l´aeroporto delle cascate Vittoria, secondo gli ecologisti, diventerà la pista di decollo privilegiata per l´esportazione verso l´Asia delle risorse naturali di Zambia e Zimbabwe.

Si allarga a iniziative culturali urbane di medio periodo l'impulso dei movimenti politici dalle primavere arabe all'Europa e Usa, con risultati e spunti di grande interesse. Il manifesto, 13 aprile 2013, postilla (f.b.)

«Le strade sono per danzare»: con questo slogan si è aperto a San Paolo del Brasile la seconda edizione del Festival BaixoCentro, una manifestazione autopromossa e autofinanziata di occupazione civile delle strade e delle piazze dell'area centrale della città con oltre cinquecento eventi di musica e teatro, danze, installazioni e laboratori creativi che il movimento BaixoCentro - una rete di attivisti e di associazioni culturali indipendenti che operano nella zona del centro paulista - ha messo in scena per portare fuori di casa i paulistani e offrire loro un'esperienza di vita urbana meno cupa e meno opprimente di quanto sia nella quotidianità di tutti i giorni.

Chi conosce San Paolo sa infatti che il centro città non è il luogo dei bistrot e dei café frequentato da intellettuali e bourgeois-bohèmes come a Parigi o nelle capitali europee; al contrario i quartieri del centro, Santa Cecília, Vila Buarque, Campos Elísios, Barra Funda, Luz, sono tra i più malridotti e disgraziati della città, luoghi del degrado e dell'emarginazione, soffocati dal traffico e ipercontrollati da telecamere e guardia civil che dopo le nove di sera diventano territorio off limits . Eppure in questi barrios della «periferia in centro» pulsa l'anima della città: dietro la fatiscenza e le polveri dell'inquinamento si intravedono eleganti edifici in stile coloniale e modernista che lasciano trasparire una bellezza d'altri tempi; ci si imbatte nelle pareti e nei muri rivestiti dai graffiti dei pixações , gli artisti funamboli che nella notte si arrampicano sulle facciate dei palazzi abbandonati per disegnare le loro meravigliose opere d'arte; si attraversano piazze coloniali con enormi piante tropicali che seppur malandate danno l'idea di trovarsi in giardini botanici pubblici. In questa «periferia in centro» si trova quella stratificazione urbana che per quanto non sia antica e di profondità, è pur sempre una stratificazione di memorie e identità che meriterebbero di essere riscoperte e valorizzate.

Ma in una città relativamente giovane, cresciuta rapidamente e oltremisura, senza regole e senza cognizione della storia e dei tempi storici (qui tutto comincia a metà Cinquecento con l'arrivo dei gesuiti), il patrimonio è un concetto astratto e la riqualificazione non è intesa come riabilitazione urbana ma come rimozione e sostituzione di quanto è scassato, non però nel nobile senso benjaminiano di uno sprigionamento di energie distruttive per costruire un mondo migliore sulle ceneri del vecchio. Nella dura realtà paulista è il mercato a dettare le regole e non meraviglia che la speculazione edilizia abbia messo gli occhi sui quartieri della città delle crepe per far fruttare i suoi interessi: diversi palazzi storici sono stati buttati giù o scarnificati per realizzare torri di uffici e appartamenti duplex o triplex che non solo sono parecchio bruttini, ma sono anche inaccessibili alle tasche dell'abitante medio del centro di San Paolo che guadagna un terzo del costo di queste nuove case.

Ma per accorgersi di tutto ciò e tentare di rimediare agli inganni del mercato c'è molto da cambiare, prima di tutto la cultura dell'abitare e la percezione dei luoghi. È con queste intenzioni che gli attivisti del movimento BaixoCentro hanno lanciato la sfida «occupy»: per ribaltare il punto di vista e promuovere «una utopia possibile, fatta per le persone e dalle persone» in contrasto con una condizione urbana vissuta come destino immodificabile. Per una decina di giorni il festival e i tanti eventi che quotidianamente sono in cartellone (basta visitare il sito www.baixocentro.org per farsi un'idea) costituiscono motivo per uscire di casa e camminare per le strade e le piazze di Cracolândia, senza la paura e l'indifferenza che caratterizza la vita della megalopoli, scoprendo quanto è bello lo spazio pubblico.

Luogo prescelto per dare inizio a questa rivoluzione copernicana è il Minhocão, la sopraelevata Costa e Silva che i paulistani preferiscono chiamare con il nome del tarlo della foresta amazzonica invece che con quello di uno dei generali della dittatura, il quale costituisce il boulevard e l'asse principale del festival. Lungo 3 chilometri e mezzo e sollevato di 3 metri e mezzo rispetto alla quota della città, il Minhocão è il simbolo dell'autoritarismo e della crudeltà urbana: la sopraelevata fu concepita e costruita negli anni della dittatura militare dagli allora sindaci della città José Vicente Faria Lima e Paulo Maluf per dare una soluzione ai problemi di traffico e di circolazione che a San Paolo erano divenuti insostenibili già negli anni sessanta, senza però tenere in alcun conto il contesto delle case circostanti: è così che il Minhocão ha tagliato in due il quartiere di Santa Cecilia passando a soli 5 metri dalle finestre dei fabbricati posti ai due lati!

Come spesso accade però, il tempo ha modificato la percezione del Grande Verme e oggi il contestato mostro urbano è diventato un «oggetto amico», grazie anche al divieto di transito notturno e alla chiusura del fine settimana che hanno permesso agli abitanti di riappropriarsene. Ogni venerdì sera una volta chiuso al traffico automobilistico, il Minhocão comincia la sua seconda vita: escono allo scoperto gli artisti di strada, i pixações i venditori ambulanti di acqua gelata e cocco e per tutto il weekend il viadotto diventa una piazza e un balcone urbano accessibile e aperto a chiunque.

A partire dagli usi informali del mostro, il movimento BaixaCentro ha pensato insieme a dei collettivi di artisti e architetti di lanciare la proposta del Parco Minhocão, un parco urbano dei divertimenti di cui è stato presentato un «estratto» durante il festival: secchiate di colore gettate sull'asfalto, strati di erba artificiale, vecchi pneumatici dei camion adattati a sedute, teli appesi alle travi e piscine gonfiabili sono serviti ad allestire uno spazio comune dove per tutta la durata del festival è possibile recarsi per fare un picnic, nuotare, giocare a calcio, vedere un film, dondolare appesi alle travi in cemento o anche semplicemente per incontrarsi. Sulla falsa riga di quanto è già avvenuto a New York con la High Line e a Parigi con la Promenade Plantée dove vecchie strade ferrate e sopraelevate dismesse sono state trasformate in passeggiate, giardini, orti urbani e piste ciclabili invece di essere abbattute, il movimento BaixaCentro ha voluto lanciare un'opa a favore della riabilitazione del Minhocão per restituire alla cittadinanza un diritto alla città e mostrare che la rigenerazione urbana non è un'imposizione dall'alto, ma un processo condiviso fatto insieme alle persone e agli abitanti.

Nella testa dei suoi ideatori, il Parco Minhocão dovrebbe infatti essere un laboratorio delle idee e della creatività da costruirsi interamente con materiali e oggetti riciclati e in modo collettivo insieme ai cittadini e soprattutto insieme agli studenti e ai bambini delle scuole della zona per riprendersi, civilmente, un luogo e uno spazio che gli interessi economici e speculativi, ancora una volta in maniera autoritaria, vorrebbero destinare alla demolizione. Il Minhocão diventerebbe così, il primo caso di parco urbano a «chilometro zero», autocostruito e autogestito, riproducibile in altri contesti e in altre situazioni urbane senza diritti di copyright. Ecco perché la vera novità del progetto Parco Minhocão (per ora solo una proposta) è il suo manuale di istruzioni, un volumetto illustrato da rendere disponibile su internet per spiegare i criteri e i metodi di assemblaggio del parco e delle sue costruzioni (pensiline, gazebi, chioschi, pavimentazioni, giochi, panchine, aree di sosta, installazioni espositive) e consentire ad altri nel mondo di copiarlo e costruirlo.

Per fortuna, il festival non si limita alla stimolante proposta di un parco urbano auto da sé; la straordinaria partecipazione della gente agli eventi del festival dimostrano che il cambiamento è possibile e che una umanizzazione dell'urbanistica è un'utopia realizzabile. Basta mettere in atto le strategie e gli strumenti giusti.

Postilla

L'aspetto forse più importante e interessante di questa, e altre, iniziative che si fregiano del marchio Occupy, diventato una specie di franchising globalizzato del progressismo, è quello di affrontare la questione urbana come merita e pretende, ovvero nelle forme articolate e complesse che corrispondono al contesto in cui si calano i singoli progetti. Con un approccio che pare collocarsi molto lontano, e per fortuna, da altre in sé pur rispettabili idee (sempre evocate, ultimamente) come quelle del riuso tradizionale di spazi e strutture, come l'ubiqua High-Line, che ormai ha scavalcato la Settimana Enigmistica quanto a tentativi di imitazione, di solito campati per aria. Le quali iniziative finta fotocopia della High-Line, altro non sono se non l'esatta riproposta, sotto mentite spoglie, del medesimo approccio solo progettuale, per nulla organico e complesso, che ha creato gli antichi problemi di mobilità, scarsa abitabilità, ingiustizia ecc. che ora si vorrebbero risolvere con la società che dilaga nei quartieri prima segregati. Ecco: si badi a non segregarli di nuovo, magari con le migliori intenzioni. Teniamolo presente, che anche gli antichi segregatori erano quasi sempre animati da sentimenti identici (f.b.)

Prima nel Nordest per consumo di suolo negli ultimi vent’anni. In provincia oltre 30 mila le case vuote. il Messaggero Veneto, 30 marzo 2013, allegato documento scaricabile

PORDENONE. Nonostante la provincia di Pordenone realizzi il 40 per cento del Pil regionale agricolo, è la realtà nel Nordest dove si è consumato più suolo negli ultimi decenni. Ad attestarlo una ricerca condotta dal dipartimento di Scienze agrarie e ambientali dell’università di Udine utilizzato dalla Provincia di Pordenone nell’ambito dell’osservatorio sulle politiche abitative che sta continuando il suo lavoro di analisi ed elaborazione di proposte alle amministrazioni comunali per quanto riguarda l’urbanistica e l’edilizia. In base a tale ricerca, negli anni Novanta e nel primo decennio del Duemila la Destra Tagliamento risulta al primo posto nel Triveneto per incremento delle aree urbanizzate, con un aumento del 19,7 per cento, seguita da Padova, Verona e Rovigo. La provincia di Udine, nello stesso periodo, mostra un aumento più contenuto che si attesta intorno all’11,5 per cento.

«Il primato della provincia di Pordenone per incremento relativo di aree urbanizzate - spiega nella sua relazione, acquisita agli atti della Provincia, Elisabetta Peccol dell’ateneo friulano - diventa più rilevante se viene letto in relazione al dato sulla percentuale di aree urbanizzate sul totale della superficie amministrativa. Infatti, già nel 1990 la Destra Tagliamento presentava una copertura di aree urbanizzate del 5,9 per cento, maggiore rispetto alla provincia di Udine (5,34 per cento)». Con il rilevante incremento in particolare nel periodo 1990-2006, Pordenone passa al 7,04 per cento di superfici urbane rispetto al 5,95 per cento di Udine.

Le perdite assolute di superfici agricole nello stesso periodo, evidenzia la ricerca, vedono Pordenone sempre nelle prime posizioni, con 2 mila 718 ettari, dopo Padova, Verona e Udine. «Se viene data lettura della perdita totale su base annuale - continua il documento - risulta che il Friuli occidentale ha perso 182 ettari di superfici agricole ogni anno. Tale valore riflette sia la crescita di aree urbane su terreni agricoli, sia l’avanzamento del bosco, causato in parte dall’abbandono dei pascoli nelle aree montane, che per l’intero periodo è di 113 ettari». Gli effetti della cementificazione si sono visti nel periodo post-crisi: con l’esplosione della bolla immobiliare che ha portato, dal 2001 al 2009, alla costruzione di oltre 25 mila abitazioni (8,4 milioni di metri cubi di cemento) il 19 per cento degli immobili - tra vecchi e nuovi - risulta disabitato. In sostanza, come attesta l’Osservatorio provinciale, sono quasi 30 mila le case vuote che riuscirebbero a soddisfare la domanda del mercato da qui fino al 2020.

Il consumo di suolo, peraltro, non è solo uno spreco in sè, soprattutto visto che l’ondata di cemento è stata sproporzionata rispetto alle possibilità del mercato. «Le aree rurali - spiega la Peccol - svolgono un importante ruolo nel mantenimento della qualità dell’ambiente tra cui la salvaguardia idrogeologica, la conservazione della biodiversità, la valorizzazione delle risorse naturali locali, la difesa del patrimonio genetico vegetale e animale locale». La ricetta imposta dalla sostenibilità futura non può che concretizzarsi in piani urbanistici a cubi zero, dove si mettono in campo - attraverso piani settoriali - incentivi per la ristrutturazione e riqualificazione energetica degli edifici esistenti. Una sfida che parte da Pordenone alle prese con la redazione del nuovo piano regolatore.

Nota: una parte dello studio è scaricabile direttamente da qui

Come insegnano i principi base dell'analisi territoriale, esiste un metodo sicuro per verificare l'esattezza o meno di certi assunti: andare a vedere. Il TAV, per esempio. La Repubblica, 30 marzo 2013 (f.b.)

Nell’armamentario del buon giornalismo è il primo strumento a portata di mano. A prima vista, anche il più semplice e neutro. Eppure, la domanda «Esattamente, di cosa stiamo parlando?» è spesso sufficiente a far luce su problemi intricati e spinosi. Con risultati, a volte, devastanti. Anche quando il tema è la Torino-Lione e l’interminabile, ingestibile scontro sull’alta velocità in Val di Susa. Una tratta ferroviaria, ha ripetuto nei giorni scorsi il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, in una intervista a La Stampa, che «pone l’Italia al centro dell’asse verticale e di quello orizzontale» dei traffici europei. Di cosa sta parlando, esattamente, Passera? Dell’equivalente ferroviario di una leggenda metropolitana, rispondono, in sostanza, Andrea De Benedetti e Luca Rastello, due giornalisti che hanno appena dedicato un libro alla Torino-Lione e alla sua estensione europea.

Questa estensione, dicono, è puramente immaginaria. L’asse orizzontale, il Corridoio 5, dove l’import export europeo dovrebbe viaggiare sui binari, da Ovest a Est, da Lisbona a Kiev non esiste e, probabilmente, non esisterà mai. Nessuno lo pretende e lo esige a Bruxelles, nessuno lo vuole a Lisbona, Madrid, Lubiana e Budapest. Peraltro, questo trampolino da cui le merci europee dovrebbero lanciarsi per il continente a 250 chilometri l’ora, probabilmente, neppure servirebbe. In particolare, alle merci. Per capire di cosa si stia parlando, De Benedetti e Rastello hanno scelto l’opzione “testimoni oculari”: in altre parole, hanno provato davvero a percorrerlo, il Corridoio 5, in borsa un sacchetto di caffè sottovuoto, prima merce a battezzare il fatidico asse Lisbona-Kiev. Cosa hanno trovato, lo dice il titolo del loro libro (Binario morto, Chiarelettere) che prende il via da un’inchiesta apparsa sulla Domenica di Repubblica nel maggio dell’anno scorso.

Ma fermarsi al titolo non rende giustizia al racconto, da dove risulta che al Corridoio 5 quello che manca sono, troppo spesso, proprio i binari. A partire dall’inizio, da Lisbona e dalle onde dell’Atlantico. Il governo portoghese, nel pieno della crisi economica, ha sepolto qualsiasi progetto di alta velocità. Niente Lisbona, dunque. Ma anche in Spagna non va molto meglio. Di alta velocità si comincerà a parlare a Granada. Ma, verso Barcellona, è un susseguirsi caotico di tratti a uno o due binari, a scartamento ridotto o meno, finché, nella capitale catalana, non si scopre che l’alta velocità, per arrivare al confine con la Francia e ai suoi Tgv non c’è e il governo di Madrid ha scarsissima voglia di spenderci dei soldi.

Insomma, a Ovest della Torino-Lione c’è, in buona sostanza, soltanto la Francia. E a Est? Anzitutto, molti problemi, raccontano De Benedetti e Rastello. Non si è ancora capito come il treno dovrebbe passare sotto Torino, senza comprometterne le falde acquifere. Idem dall’altra parte, oltre Milano, dove c’è da attraversare Vicenza e passare sotto il Carso. E dopo Trieste, alle porte di quello che, nel 2007, Piero Fassino definiva “l’Eldorado” per l’economia italiana? De Benedetti e Rastello non incontrano più problemi, ma, semplicemente, il nulla. I collegamenti ferroviari fra Italia e Slovenia sono soppressi: l’ultimo treno per Lubiana è partito nel dicembre del 2011, senza lasciare, a quanto pare, troppi rimpianti. Gli sloveni, del resto, sembrano più interessati a coltivare i collegamenti con Vienna e la Germania. Dopo di loro, gli ungheresi ai treni non ci pensano neppure. I soldi del Corridoio 5 vengono impiegati per tangenziali e autostrade.

A Bruxelles, nessuno fa una piega: non sta scritto da nessuna parte che quei finanziamenti europei debbano essere impiegati obbligatoriamente per i treni ad alta velocità. D’altra parte, se il punto sono i traffici di merci, andare a 250 chilometri all’ora è antieconomico. «Oltre gli 80-90 chilometri all’ora, i costi che si scaricano sul trasporto sono troppo alti», dicono gli esperti. Per chi non ha seguito da vicino le vicende della Torino-Lione, orientarsi nel racconto di Binario morto non è agevole. Chi è già a Tav 2.0, invece, può capire meglio il senso della risposta alla domanda iniziale. Sgombrato dal tavolo il Corridoio 5, quello di cui stiamo, esattamente, parlando si riduce alla Torino-Lione e, anzi, dopo gli ultimi aggiustamenti di progetto, a un tunnel e 57 chilometri ad alta velocità, collegati alla rete dalle tratte convenzionali già esistenti. Vale la pena? A Rastello e De Benedetti la Tav in Val di Susa non piace, e si vede. Dalla loro parte, però, ci sono i dati. Il traffico passeggeri è talmente moscio, che le ferrovie italiane hanno sospeso i collegamenti Torino-Lione.

Quello merci è in calo costante dalla metà dello scorso decennio. Lo scenario in cui è nata la Tav di Val di Susa — il Corridoio 5 e il boom dei traffici — oggi non esiste. È una sentenza definitiva? Al fondo della crisi più pesante dal dopoguerra, i dati di oggi hanno un valore relativo. In più, le infrastrutture sono strumenti imprevedibili, capaci di crearsi da sole, spesso, il loro futuro. All’Eurotunnel Parigi-Londra non ha creduto, praticamente, nessuno, fino a che non ha cominciato a funzionare. Fuori dalla retorica dell’“asse orizzontale” si potrebbe discutere pacatamente se è questa la scommessa da fare o se non ci sono, invece, infrastrutture più urgenti.

Peccato che l'autore, da bravo economista conformista, non abbia titolato “i costi collettivi dello sprawl”. Ma a qualche conclusione corretta si arriva lo stesso. Corriere della Sera, 24 marzo 2013 (f.b.)

Dai 14 milioni di pendolari stimati in Italia quelli che stanno pagando di più i costi della crisi usano l'auto per recarsi ogni giorno sul posto di lavoro. Molti di loro sono operai perché le fabbriche ormai sono tutte fuori dei centri abitati, il resto sono lavoratori «flessibili» che devono timbrare il cartellino in orari non coperti dal servizio di trasporto pubblico. Un pendolare con auto ha subìto l'incremento delle tariffe autostradali e della benzina, usa la sua vettura e quindi spende di più in manutenzione ordinaria. In più sia con l'accisa sulla benzina sia con la fiscalità generale partecipa al sussidio del trasporto locale. Eppure non si aggrega, non protesta e di conseguenza non ha voce in capitolo.

La seconda tribù di pendolari è quella che si reca a lavoro con un bus extraurbano. Le tariffe sono in media +30% rispetto alle ferroviarie nonostante che i costi di produzione siano inversi, 15 euro a km per il treno e 3 euro per il bus. Come il pendolare in auto quello in bus è scarsamente organizzato, le proteste hanno come controparte naturale gli autisti dei bus e la relazione informale che si crea con loro serve a mitigare le inefficienze e ad apportare correzioni in corsa. In Lombardia i pendolari in bus sono stimati in circa 1 milione contro 760 mila in treno e la parte del leone la fa il traffico su Milano. La città del Duomo, infatti, attira giornalmente 900 mila pendolari complessivi che sono altrettanticity user in aggiunta ai residenti (1,3 milioni scarsi). Lo spostamento progressivo di popolazione da Milano verso l'hinterland e la provincia trova le motivazioni negli alti costi della città (innanzitutto nell'immobiliare) e nella possibilità di usufruire nei piccoli centri di preziose reti di supporto familiari e non.

Arriviamo ai pendolari in treno che sono l'ala più organizzata, «i duri». In Italia sono circa 3 milioni. Le prime proteste partivano come estensione delle lotte operaie e culminavano nel blocco dei binari. Poi via via il pendolarismo delle tute blu si è spostato su auto e bus e il treno è diventato interclassista. È facile trovare in carrozza persino magistrati e avvocati che quando vestono i panni del pendolare sono i più rapidi nel promuovere vertenze e cause. Grazie a Internet i pendolari dei treni hanno migliorato la loro organizzazione e ormai attorno a Milano esiste una ventina di comitati. Idem nel resto d'Italia con circolazione immediata delle notizie e addirittura una classifica delle tratte peggio servite o delle linee a binario unico come, per restare in Lombardia, quelle che angustiano i viaggiatori da Cremona a Milano o i pendolari di una parte della Brianza.

I viaggiatori da treno hanno il vantaggio di avere una controparte visibile (i gestori ferroviari) e di utilizzare le stazioni come «cattedrali» della protesta, i pendolari in auto alle prese con un ingorgo ovviamente non sanno con chi prendersela. La particolarità italiana è data dai larghi contributi statali e regionali al trasporto pubblico, cresciuti negli anni: in Lombardia dal 2001 al 2010 l'incremento è stato del 61% contro un'offerta di treni/km cresciuta solo del 30% e un aumento delle tariffe del 51% (l'inflazione ha inciso solo per 21 punti). La crisi se ha aumentato i costi del pendolarismo in auto ha decongestionato le autostrade e persino le tangenziali con l'eccezione delle ore di punta. Ma ha anche frantumato il lavoro e moltiplicato gli spostamenti. Sia chi opera nel terziario debole (partite Iva, precari) chi nel terziario forte (consulenti, professionisti) raggiunge più posti di lavoro o clienti in ore sempre meno canoniche. I comitati dei pendolari denunciano a più riprese che i treni a loro riservati sono vecchi e sporchi (pulizie e degrado) ma soprattutto sono lentissimi e poco puntuali, nonostante che in più di qualche caso i gestori abbiano allungato (sugli orari) i tempi di percorrenza.

Secondo Dario Balotta di Legambiente «il 2012 è stato l'anno che ha dato più problemi degli ultimi dieci». Consultando Pendolaria, una sorta di libro bianco del trasporto ferroviario, si scopre che l'anno scorso molte Regioni hanno deciso di tagliare corse e treni e ritoccare gli abbonamenti. Nel solo Piemonte 12 linee e il 90% dei treni sulla Napoli-Avellino è stato depennato. Ma il cambiamento più significativo lo si deve sicuramente all'avvento della Tav e ai riflessi che ha avuto sul traffico pendolari. La forte distanza tra la serie A del trasporto e la serie B è percepita da tutti, si sa che la Tav ha convogliato su di sé gli investimenti ed è diventato un business redditizio, tanto che su quelle linee in soli 5 anni l'offerta è aumentata del 395%. In parallelo il trasporto locale è stato lasciato degradare davanti ai super-treni che hanno l'assoluta precedenza perché devono arrivare in orario per non perdere competitività.

«Come conseguenza si è ridotta la velocità all'interno dei nodi urbani come Milano, andando più piano i treni pendolari hanno saturato gli spazi della rete e al minimo ritardo si genera un effetto di propagazione sull'intero traffico. E 15-20 minuti in più per un pendolare sono una tragedia, specie se si ripetono con una certa frequenza» sostiene Andrea Boitani, docente alla Cattolica di Milano e autore del pamphlet «I trasporti del nostro scontento». I clienti dell'Alta velocità pagano bei soldi e se il servizio ritarda magari tornano all'aereo, invece i pendolari «esprimono una domanda più rigida, che non ha alternative più convenienti e quindi su di essa si scaricano le inefficienze».

Ma se le cose stanno così come si possono risolvere i problemi dei pendolari? Ci vorrebbero più treni, più rapidi e nuovi almeno nelle 20 principali linee dei pendolari dove l'affollamento sta diventando sempre di più ragione aggiuntiva di ritardo. Quanto al recupero di velocità c'è molto da fare, oggi siamo a una media di 35,5 km l'ora contro i 51,4 della Spagna, i 48,1 della Germania e i 46,6 della Francia. Negli anni scorsi ha preso piede la pratica dei bonus di compensazione, che ha raggiunto il culmine con la Caporetto della Trenord lo scorso dicembre. I disservizi prolungatisi per 7 giorni hanno portato alla riduzione del 25% del costo dell'abbonamento. Ma il bonus chi lo paga? Non certo i dirigenti che hanno causato l'inefficienza ma si scarica sulla fiscalità generale. Lo paghiamo tutti. «E comunque sono soldi sottratti alla manutenzione, alla pulizia, alla qualità del servizio e al rinnovo del materiale rotabile. Il bonus è stato un punto di mediazione tra la politica e i comitati pendolari, rischia però di essere l'alibi della deresponsabilizzazione tanto paga Pantalone» commenta Balotta.

E allora? Come si può incidere veramente e cambiare la vita dei milioni di pendolari giornalieri? Il professor Boitani prova a mettere in fila le priorità. «Cambiare le regole di circolazione soprattutto nei grandi nodi per velocizzare il traffico in sicurezza. Accelerare gli investimenti per ampliare la capacità dei nodi metropolitani. Introdurre le gare per l'affidamento dei servizi bus e treni per stimolare l'efficienza e ridurre i sussidi. Rendere più attrattivi gli hub del traffico pendolare trasformandoli in veri e propri centri di servizi». È una lista da libro dei sogni o può trovare ospitalità in qualche agenda di governo?

Un ennesimo racconto di serrande abbassate per sempre, di quartieri che si desertificano, e la solita ottusità a capire, a dare la colpa al destino cinico e baro. La Repubblica, 20 marzo 2013, postilla (f.b.)

TORINO - C’ERA il rumore leggero delle saracinesche ben oliate che si alzavano girando una chiavetta. C’erano i saluti allegri fra chi cominciava una giornata di lavoro. «Buongiorno, buona giornata ». Le eleganti ragazze del negozio con abiti da duemila euro e i più anziani commessi della rivendita di pantofole si incontravano con i ragazzi pronti a passare la giornata cuocendo hamburger e patate fritte. Adesso c’è troppo silenzio, in via Amendola. Troppe serrande sono state abbassate per l’ultima volta. Sono state tolte anche le insegne. Via il nome dalle tre vetrine di Trussardi, via un nome antico, Vindigni, dove i torinesi andavano a comprare l’abito della festa. «Prossimamente aprirà enoteca », annuncia un cartello. Spente e rottamate le friggitrici e le piastre del Burger King, che un tempo attirava giovani anche dalle periferie, perché era il primo fast food aperto nella città dei Savoia. Adesso, per conoscere «chi c’era qui», devi chiedere all’uomo che porta fuori il cane o alla commessa della tabaccheria.

Un centro Tim ha trovato un’altra strada, si è trasferita anche l’ottica Cavalli. Arrivi in piazza Cln e anche qui ci sono i buchi neri. Se ne sono andati la profumeria Piera Giordano, il Plaisir che vendeva tutto per “la salute del corpo”, e anche “Pantaloni e pantaloni”. Svolti in via Roma — la via Condotti di Torino — e vedi i segni lasciati dalle insegne divelte. “Affittasi”, annuncia un grande cartello su quello che era il negozio di Cartier. Chiuse le vetrine sfavillanti di due gioiellerie, Fasano e Palmerio, dove migliaia di torinesi avevano comprato le fedi per il matrimonio e lasciato gli occhi sugli altri gioielli.

«E stiamo parlando — raccontano Antonio Carta e Morena Sighinolfi, presidente e direttore della Confesercenti sotto la Mole — delle strade più ricche della città. Immagini cosa succede nelle periferie». I numeri parlano chiaro. Nei soli due mesi di gennaio e febbraio nel capoluogo il saldo fra aperture e chiusure è stato di meno 231 per i negozi e meno 250 per le «somministrazioni», vale a dire bar, ristoranti, pizzerie, kebab… Ogni giorno 15 serrande non vengono rialzate. «In centro la crisi è provocata dal caro-affitti e dal fatto che i clienti sono attratti dai grandi centri commerciali che, da gennaio, hanno deciso di restare aperti tutte le domeniche ». La vicenda degli affitti in centro ricorda la favola della rana di Fedro, che si gonfiava per sembrare grossa come un bue. I proprietari dei muri hanno continuato ad aumentare i prezzi — in via Roma e dintorni 150 ma anche 200 euro al metro quadro ogni mese, e così per 100 metri si debbono pagare fino a 20 mila euro — con il risultato di avere centinaia di proprietà «scoppiate» e senza reddito.

«Ormai solo i grandi marchi — dice Antonio Carta — riescono a resistere in centro. I negozi appartengono per il 90 per cento ad assicurazioni e banche che — mi ha spiegato
un loro dirigente — preferiscono lasciarli sfitti piuttosto di abbassare i prezzi, per “non deprimere il mercato”. Fino al 2011 c’erano tante chiusure ma il numero di chi apriva era superiore. Questo perché i genitori, con la liquidazione della Fiat e la pensione, costruivano un posto di lavoro per il figlio, aprendogli un negozietto o una videoteca. Ora quei soldi sono finiti. E migliaia di operai in cassa integrazione, con il 30 per cento di reddito in meno, non possono certo fare investimenti: fanno fatica a fare la spesa».

Le strade con le serrande bloccate ci sono «anche perché alcuni commercianti hanno fatto degli errori». «C’è stato qualche collega — racconta Franco Orecchia della Vestil, negozio di abbigliamento di tre piani in piazza Statuto — che per ridurre i costi ha abbassato la qualità. Ed ha pagato caro. Se uno è abituato a cenare in un buon ristorante, con la crisi non va al fast food. Torna al ristorante, ma solo quando se lo può permettere. Così succede nell’abbigliamento. Se sei servito bene, compri meno capi ma non cambi negozio». Diciassette dipendenti più quattro della famiglia. «Qui trovi abiti da 480 a 3.500 euro. Solo per la taglia 50, ad esempio, lei può scegliere fra 200 pantaloni diversi. Investire nell’offerta è un obbligo: il cliente che non trova ciò che vuole va a cercarlo da un’altra parte». Vetrine illuminate dal 1957 ma aperte al nuovo. «Al secondo piano ho un angolo dedicato a pasta, salse e vino di alta qualità. È un’offerta che funziona nelle librerie. Perché non provare anche noi?».

C’è anche chi, pur puntando sulle eccellenze, si deve arrendere. «In tutta la mattinata — dice Luciano Ferrarese, con mini market in via Cibrario — ho incassato 40 euro. Ho frutta e verdura biologiche e anche se siamo a marzo i primi meloni di Mantova. Le colombe pasquali sono di pasticceria. Fino a due anni fa in questi giorni le avevo esaurite, quest’anno non ne ho venduta una». Luciano Ferrarese, negli anni buoni, si è comprato i muri. «Anche senza pagare l’affitto, devo chiudere. Con gli incassi troppo magri, uso la mia pensione per pagare le spese generali. E me ne vado senza “liquidazione”, perché la licenza con la legge Bersani non si vende ma si riconsegna gratis in Comune. L’avevo comprata nel 1985, con 50 milioni di lire. Allora avrei potuto comprarmi due piccoli appartamenti. Ma non oso lamentarmi, c’è chi sta peggio. Vedo dei miei ex clienti che all’alba vanno a cercare nei cassonetti…».

«Lo spartiacque — dicono Antonio Carta e Morena Sighinolfi della Confesercenti — arriverà a Pasqua. Se non ci sarà una ripresa dei consumi, altre centinaia di saracinesche si abbasseranno in pochi giorni. Sarà un disastro. Noi curiamo i bilanci delle imprese e nell’ultimo anno abbiamo rilevato un dato allarmante: non chiudono solo le aziende con problemi — mutui troppo alti,
esposizioni bancarie, merci sbagliate — ma anche quelle finanziariamente sane e con una buona clientela. Questo significa che le famiglie stanno davvero finendo i soldi: hanno rinunciato prima al voluttuario (scarpe, jeans ...) poi agli alimentari, con tagli alla carne, alla verdura, al pesce. Ora chiudono bar e pizzerie: devi fare i conti prima di andare a prenderti un caffè».

C’è chi la crisi la può pesare a quintali. «Prima vendevo — racconta Luigi Frasca, titolare della “Bottega della carne, Da Natalino” — due mezzene di vitello piemontese, 260 — 270 chili l’una — alla settimana. Adesso ne vendo solo una. Chi vendeva una mezzena, ora vende un quarto. I miei genitori e i miei nonni con la macelleria si compravano le case e le macchine e facevano studiare i figli. Noi facciamo fatica a stare in piedi». A Porta Palazzo, nella galleria Umberto I, Gianni Berteti dice di avere cambiato mestiere. «Vendo profumi ma soprattutto faccio lo psichiatra. Vengono in bottega colleghi e clienti che mi raccontano che così non si può andare avanti, che se devi scegliere fra la pastasciutta e un profumo ovviamente scegli il cibo. Si sta qui a parlare e il registratore di cassa resta muto». Qualche serranda è chiusa (un ristorante, il negozio del primo cinese arrivato a Torino…) e le altre vetrine sono ancora illuminate. Ma nessun passo di cliente viene a disturbare il silenzio nella galleria.

Postilla

Dare la colpa al destino o alla crisi? La cosa che più colpisce, di questa ecatombe commerciale, è la sua perfetta, banale, assoluta prevedibilità: cambia il ruolo dei centri urbani, si afferma quello delle periferie automobilistiche e della dispersione, con relativa supremazia degli scatoloni. E non perché sono scatoloni, o (solo) perché siano gestiti da una specie di Spectre globalizzata all'assalto della bottega familiare buona e brava. Ma perché sono organici alla forma insediativa, sociale, di consumo e comportamento prevalente. Si poteva fare qualcosa? Si può fare qualcosa? Sicuramente, e ci provano da decenni in tutto il mondo. La vera sciocchezza, la cosa più frustrante e fastidiosa, è dover assistere a questa agonia dei quartieri impotenti, con tutti, nessuno escluso, che danno la colpa ad altri, e non alla propria incapacità di riflettere sulla mutazione del commercio urbano, e sull'indispensabile avvio di politiche pubblico-private diverse dalla solita tutela corporativa dei bottegai (f.b.)

Fra due giorni potrebbe essere dato il via definitivo a una nuova distruttivaGrande opera, combattuta da tutti i comitati che ne conoscono il percorso. Ringraziamo l’autore del reportage diAltraEconomia, che lo ripropone oggi (16 marzo 2013) all’attenzione dei lettori di eddyburg
Premessa

Il percorso accidentato della “nuova Autostrada del Sole”, la Orte-Mestre, potrebbe arrivare al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe), che il prossimo 18 marzo dovrebbe approvare il progetto preliminare del percorso, 400 chilometri attraverso cinque regioni.
L'articolo fa riferimento a un intervento da 8,7 miliardi, mentre il ministro Corrado Passare, in Parlamento, aveva parlato di 10: quel che è certo, è che il piano economico-finanziario dell'opera è -al momento- sconosciuto, che i flussi di traffico attesi sono modesti e che lungo la tratta verrebbero compromessi terreni agricoli di pregio ed aree protette. Il reportage “Il casello incantato” è apparso sul numero di novembre 2012 di “Altreconomia”, mensile d'informazione indipendente. All'articolo di Luca Martinelli, che riproponiamo, si accompagnano un video reportage (guardalo al link altreconomia.it/video/ortemestre) e un reportage fotografico geo-localizzato lungo la Orta-Mestre (guardalo al link www.altreconomia.it/orme). (l.m.)

“Gli interessi di pochi sulla pelle di molti. No Romea commerciale”. Lo striscione è appeso lungo il Naviglio del Brenta. Dietro ci sono campi coltivati. A poche centinaia di metri il campanile e il municipio di Mira Taglio. Accanto una delle Ville venete che attirano i turisti sulla Riviera del Brenta. “Dov’è appeso passerà la nuova autostrada” dice Rebecca Rovoletto. È la portavoce di “Opzione Zero”, che riunisce quelli che non vogliono la costruzione della lunghissima arteria tra Mestre, in provincia di Venezia, e Orte, nel Lazio. Quasi 400 chilometri attraverso cinque regioni. La nuova Autostrada del Sole. Per qualcuno, l’A2. Tra gli sponsor, anche il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani, presidente dell’Associazione Nuova Romea (un altro dei nomi con cui è conosciuta l’autostrada). Che è un “intervento prioritario”, stando all’Allegato infrastrutture 2013-2015, un documento dell’aprile 2012 del ministero dell’Economia. Cantieri aperti entro il prossimo anno, ha assicurato intorno al 10 settembre il viceministro per le Infrastrutture Mario Ciaccia: “Sono fiducioso che al prossimo Cipe porteremo a casa la Orte-Mestre, il cui valore si attesta a 10 miliardi di euro”. Oggi è il 18 ottobre, e la promessa riunione del Cipe (sigla che indica il Comitato interministeriale per la programmazione economica) non c’è stata. Avrebbe dovuto tenersi entro fine settembre.

Così, in attesa di informazioni realistiche dal ministero (che è stato contattato e poi più volte sollecitato, ma non ha mai risposto), “Altreconomia” ha percorso tutta la Orte-Mestre. Da Nord a Sud, e a passo lento. Tre giorni per osservare, e documentare, il territorio destinato ad essere stravolto. In Veneto e in Emilia-Romagna, tra acqua e terra. La laguna di Venezia, canali e fiumi -il Brenta e il Bacchiglione, l’Adige, il Po e infine il Lamone-. Le valli di Comacchio e del Mezzano. Terra di bonifica, campi arati, poche case sparse e qualche cittadina. Fino a Ravenna l’autostrada è tutta nuova. Dalla Romagna, invece, segue l’E45, la Ss 3 bis. Che dopo Cesena sale sull’Appennino, fino a sfiorare il Parco nazionale delle Foreste casentinesi, e scendere in Toscana e in Umbria.
Paesaggi che quando (e se) l’autostrada si farà, percorreremo in poco meno di 4 ore. Oggi però Mira (Ve), Adria (Ro), Cavarzere (Ve), Comacchio (Fe), Ravenna, Cesena, Perugia non sono caselli d’uscita. Ma nomi, quelli dei “nodi” della rete Stop Or_Me (www.stoporme.org), e numeri di telefono.

Il primo che componiamo è quello di Mattia Donadel, di “Opzione Zero” (www.opzionezero.org). Seduto in un bar di Mira, lungo il Naviglio, racconta: “Siamo nati nel 2004, come Rete NO-AR (No Autostrada Romea, ndr). Volevano realizzare un’autostrada che unisse Mestre e Ravenna”. Ci spostiamo davanti allo striscione che dice no alla Romea Commerciale, che chiamano così perché corre parallela alla Ss 306 “Romea”. “È l’unica area libera rimasta tra Mira e Dolo. Un corridoio verde. Per questo la nuova autostrada passerà di qui. Secondo il progetto preliminare, il Naviglio del Brenta dovrebbe essere sotto-attraversato. La galleria inizierà a oltre un chilometro dall’acqua” spiega Mattia. Oltre Mira e i campi, la Orte-Mestre “incrocerebbe” il Passante di Mestre. “Ma i dati di traffico non giustificano l’esigenza di una nuova autostrada”, spiega Mattia, rifacendosi a quelli elaborati nel 2010 da Polinomia per conto del Wwf: “18mila passaggi al giorno, in Veneto. Un traffico locale, che intasa la strada durante i fine settimana estivi, per andare a Sottomarina, verso le spiagge”. Ci sono i camion, è vero ma potrebbero essere dirottati sulla vicina A13: “Se prendi un punto qualsiasi lungo la Nuova Romea e misuri la distanza dalla Padova-Bologna la troverai che corre tra i 20 e i 30 chilometri” conclude Mattia.

In questa storia però i numeri non contano. Anche perché la “legge obiettivo” consente alla Orte-Mestre una corsia preferenziale. Per questo vale la pena partire da altro: dalla terra. “Mira è un ‘nodo’ strategico tra Padova e Venezia -riprende il filo del discorso Rebecca Rovoletto-: con l’attraversamento della Romea Commerciale, che incrocia la cosiddetta ‘Camionabile’, che dovrebbe correre lungo l’idrovia dall’interporto di Padova a Venezia, nascono progetti giganteschi come Veneto City a Dolo, che prevede quasi 2 milioni di metri cubi di nuove costruzioni e interessa tutta la Riviera del Brenta, e un polo logistico da 460 ettari. Insediamenti che nascono nelle aree prossime alla nuova viabilità”. L’equazione ritorna: strada più svincolo uguale cemento. “Il caso del polo logistico di Dogaletto è esemplare -riprende Mattia-: si tratta di 460 ettari, all’incrocio tra Romea Commerciale e Camionabile”. Un’immensa area agricola, tra l’altro vincolata nel Piano di area lagunare (Pal). “L’intervento sarebbe funzionale ad un altro mega-progetto, quello di realizzare un porto off shore per Venezia” spiega Mattia. Per “denunciare” il progetto Opzione Zero, insieme a Mira 2030, lista di cittadinanza attiva, ha promosso l’iniziativa “pane logistico”: “Un progetto di filiera corta. Coltiviamo il grano su un terreno agricolo attiguo a quello che verrebbe trasformato. Abbiamo calcolato che con 200-260 ettari di terreno agricolo, nella zona lagunare, riusciremmo a dare pane a tutti i cittadini di Mira (circa 40mila, ndr), per un anno”.
A Sud di Mira c’è Campagna Lupia. È attraversato dalla Romea, e ci passerebbe anche la nuova autostrada. Chiamiamo Paolo Perlasca, direttore dell’Oasi del Wwf di Valle Averto: “Questa è l’unica oasi protetta dell’intera laguna. Sito d’interesse comunitario e zona di protezione speciale, perché ci sono migliaia di esemplari e specie protette. Un’arteria autostradale potrebbe aver un impatto sulla biodiversità e sull’inquinamento”. Dall’alto di una torretta, muniti di cannocchiale, ci mostre le tre “valli”. Sullo sfondo Venezia e le ciminiere di Porto Marghera. Se volgessimo lo sguardo dall’altra parte, vedremmo passere i camion: “Se per la Orte-Mestre venisse scelto un tracciato contiguo alla Romea, l’autostrada entrerebbe dentro la Riserva, mangiandosi una porzione di territorio. Per questo il Wwf preferisce un’altra opzione, che passa per un miglioramento della viabilità esistente, vincolando il traffico merci lungo l’autostrada A13”. Per non perdere 500 ettari classificati come Zona umida d’importanza internazionale, protetta nell’ambito della convenzione Ramsar.
Fuori dall’Oasi ci sono le frecce. Quella verso sinistra dice “Venezia 31”. L’altra indica “Ravenna 109”. Prima di Chioggia, però, abbandoniamo la Ss Romea diretti a Cavarzere. Seguiamo lo stesso percorso della Romea Commerciale. Che corre in mezzo ai campi. Fino a Cavarzere, estremo lembo meridionale della provincia di Venezia. L’architetto Carlo Costantini, tra gli animatori di AltroVe-Rete dei Comitati per un altro Veneto, ci dà appuntamento in piazza. A 50 metri dell’argine del fiume Adige. “Questo è un territorio marginale. Dov’è ancora forte il mito dell’autostrada che porta lavoro.
Per conto della Provincia di Venezia, nell’ambito del Piano territoriale di coordinamento provinciale, ho svolto uno studio sul collegamento tra la parte Sud del territorio e Ferrara e Rovigo. Non abbiamo bisogno di quest’autostrada”. Che passa troppo vicino alle case, a meno di un chilometro in linea d’aria. E che -spiega Costantini- “verrebbe costruita tutta in rilevato. Hai visto quanti corsi d’acqua più o meno grandi? Siamo in una zona mediamente sotto il livello del mare, il cui equilibrio idraulico dipende dalle pompe. L’autostrada sarebbe ‘una frattura’, e lo studio d’impatto ambientale non ne tiene conto”. Al bar di Cavarzere ci raggiunge Don Giuseppe Mazzocco. Regge la parrocchia “Cristo divin lavoratore” di Adria, a una decina di chilometri. Don Giuseppe è parte della Rete dei comitati per l’ambiente del Polesine. Ci spostiamo nei pressi di Adria, su un cavalcavia. “Questo raccordo a quattro corsie è stato costruito dieci anni fa. Adesso arriva un nuovo progetto, che dovrebbe correre in parallelo e che raddoppierà l’impatto ambientale. Qui sotto -racconta Don Giuseppe- passa il Canalbianco, il canale navigabile che da Mantova raggiunge il mare”. E che sembra suggerire anche un’alternativa per spostare le merci. Peccato la vedano solo i comitati: Adria è il punto in cui la Orte-Mestre dovrebbe incrociare la Nogara-Mare, un’autostrada da due miliardi di euro che dovrebbe tagliare in diagonale il Polesine, da Legnago in provincia di Verona. E a Ravenna il vicesindaco Giannantonio Mingozzi giustifica l’autostrada perché collegherebbe “il porto di Venezia a quello di Ravenna. E non parlerei di Orte-Mestre, ma di Cesena-Ravenna-Ferrara: sarebbe già una conquista, un’alternativa all’attuale Romea”. È la logica dei “lotti funzionali”, partire per partire: “Una tratta che il Cipe non disdegna -spiega Mingozzi-. Se non hai investimenti pubblici un’autostrada del genere te la sogni, anche se si mettono insieme tutti i privati che han fatto autostrade in Italia”. E Mingozzi fa il nome di Vito Bonsignore, eurodeputato Pdl. Mingozzi lo ha incontrato qualche volta a Ravenna, Bonsignore, che è azionista di Management Engineering Consulting (Mec) spa, una delle società che figurano nel gruppo dei promotori della Orte-Mestre. Tra le altre c’è anche Banca Carige, di cui Bonsignore controlla l’1,01% attraverso Gefip Holding s.a. che, si legge sul sito della Consob, è “soggetta al controllo del sig. Vito Bonsignore indirettamente, attraverso la società Mec spa”.
“Il progetto è ormai in dirittura d’arrivo e a breve, spero nell’arco di un paio di mesi, ci daranno l’ok definitivo -spiegava il presidente di Carige, Giovanni Berneschi, a Il Sole 24 Ore, nel febbraio 2011-. Ottenuto il disco verde, valuteremo come procedere: se costruire direttamente con la nostra partecipata Ili Autostrade o se cedere il progetto a un soggetto interessato che, a quel punto, sarà vincolato a realizzare comunque l’opera”. Dagli uffici dell’Anas, a Roma, fanno sapere che non è proprio così: “Il promotore non è l’aggiudicatario. Sulla base di quella proposta, una volta ottenuto l’ok del Cipe, si farà una gara”. Torniamo in Romagna: a Nord di Ravenna, l’autostrada attraverserà la Valle del Mezzano, “un’area bonificata per dar lavoro alle persone. Cosa giusta o sbagliata, è stata fatta, e questo sito è rimasto un’area molto speciale” racconta Marino Rizzati, di Legambiente Comacchio. È una Zps, zona di protezione speciale. “Il più grande vuoto d’Europa” la definisce Valter Zago, già presidente del Parco del Delta del Po. Un’area, cioè, completamente non antropizzata. “È un’isola dove gli agricoltori possono far crescere alberi da frutto, che poi vengono trapiantati nei campi. Nella Valle del Mezzano non vengono intaccati da certi batteri” riprende Rizzati. Poco importa. La Orte-Mestre passerà giusto in mezzo.

Oltre Cesena, l’autostrada non è tutta nuova. Prende il posto della E55, la superstrada a due corsia per senso di marcia che collega la Romagna all’A1. Succede, però, che l’arteria dovrà essere adeguata. Oggi misura tra i 15 e i 17 metri, e passerà a una larghezza tra i 20 e i 25. Numeri che pesano come il cemento armato dei viadotti su cui poggia arrampicandosi verso la Toscana: “Tra gli sponsor del progetto nel cesenate c’è Davide Trevisani -racconta Davide Fabbri, già consigliere comunale dei Verdi a Cesena e oggi del Forum ‘Salviamo il paesaggio’-, per trent’anni al vertice della Cassa di risparmio di Cesena e della omologa fondazione, che con il Gruppo Trevi realizza gallerie e viadotti”.

Tornati in pianura, il problema principale nel tratto umbro della E55 è la variante di Collestrada, alle porte di Perugia. E non solo perché attraversare l’ennesima area protetta. Basta un nome: “Ikea -racconta Alessandra Paciotto, presidente di Legambiente Umbria- aveva scelto un’area agricola ‘a ridosso’ del tracciato in variante per aprire un nuovo centro commerciale”. Anche in Umbria vince l’equazione asfalto uguale cemento. Per questo è meglio frenare. Restiamo in statale o in superstrada, dove il limite non è ai 130 chilometri all’ora.

La mamma dello sprawl è sempre incinta se non si sta attenti: l'ingresso della grande distribuzione nel mercato oggi coperto dal bed & breakfast familiare e i rischi impliciti di dispersione. Corriere della Sera, 6 marzo 2013, postilla (f.b.)

La notizia è stata lanciata addirittura dalle colonne del Wall Street Journal: gli americani della Marriott e gli svedesi dell'InterIkea hanno deciso di lanciare insieme una nuova catena di hotel economici. L'obiettivo è di aprirne in Europa 50 in cinque anni (che potrebbero diventare 150 in 10 anni) e il primo ad essere inaugurato sarà quello di Milano, già nel corso del 2014. La catena si chiamerà Moxy e l'investimento di InterIkea — che fa capo alla famiglia Kamprad, quelli di Ikea, attraverso la Interlogo Foundation — sarà di 500 milioni di dollari. I nuovi alberghi non avranno mobili o design della compagnia svedese ma usufruiranno di nuove tecniche di costruzione (camere prefabbricate) con l'intenzione di abbassare i costi

Non si punterà ai centri storici ma Marriott e InterIkea dicono di preferire per la loro nuova creatura siti vicini ad aeroporti e stazioni. Il costo al cliente per la camera dovrebbe aggirarsi attorno ai 60 euro. Nell'anticipazione di stampa non si usa il termine low cost ma di fatto il formato alberghiero che si vuole lanciare assomiglia a una Ryanair degli hotel. «Vediamo grandi opportunità di espandere la nostra quota di mercato in Europa» ha commentato Amy McPherson, presidente di Marriott Europe.

Con la scelta dell'Italia come debutto Ikea va a battere di nuovo «dove il dente duole». Gli scandinavi sono stati, infatti, i protagonisti dello più straordinario contropiede commerciale che si sia visto dalla nostre parti. Il Belpaese è fiero dei mobili che costruisce in Brianza e in tanti altri distretti ma ha completamente sottovalutato il tema della grande distribuzione, gli svedesi hanno fatto il contrario e hanno costruito una multinazionale delle vendite al dettaglio che ci ha dato la paga. Noi italiani abbiamo dei prestigiosi negozi monomarca ma le nostre catene, come Mondo Convenienza, faticano, per dirla con eufemismo, a reggere l'urto dell'Ikea. Che, adesso, ci vuole insegnare anche come si aprono alberghi per i giovani. Si ripeterebbe per certi versi quello che è successo dopo i mobili anche nel caffè, dove gli italiani vanno famosi per la qualità della bevanda nera ma gli americani hanno creato una grande catena come Starbucks.

Eppure anche nella specialità delle vacanze a basso costo l'Italia ha una tradizione nobilissima, che riporta agli anni '60 e al miracolo della Riviera romagnola capace di vendere all'estero (ai tedeschi) pacchetti vacanze a prezzi competitivi con standard di buona qualità. Non c'era nessuna multinazionale dietro quel miracolo ma solo tante imprese familiari che agivano come una rete sistemico-organizzativa e riuscivano in questo modo a collegarsi con tutti i servizi aggiuntivi (dal posto in spiaggia alla balera).

Oggi l'Italia conta 34 mila alberghi, il doppio della Spagna, ma molti di essi sono, per dirla con il linguaggio degli economisti, «marginali». Ovvero non sono in grado di rivolgere al mercato un'offerta competitiva per prezzo e soprattutto moderna. «Detto che l'Italia deve puntare strategicamente a un turismo di fascia alta come ha fatto la Francia — commenta Massimo Bergami, coordinatore del piano strategico elaborato dal ministero del Turismo — si possono tranquillamente fare delle operazioni intelligenti per coprire gli altri segmenti di mercato, proprio a partire dall'ampio patrimonio di strutture alberghiere di cui disponiamo». In sostanza si tratterebbe di favorire l'uscita/rottamazione dei piccoli operatori, ammodernare il format e aggregare a rete nuovi soggetti imprenditoriali aiutati da una dotazione comune di strumenti (a cominciare da un unico centro prenotazioni).

«Penso alla Puglia — continua Bergami —. Fatta eccezione per alcune masserie di extralusso tutte le altre potrebbero organizzarsi come rete di imprese capace di fare al mercato un'offerta combinata». E i bed and breakfast? Non dovevano rappresentare proprio loro quell'offerta «democratica» rivolta ai giovani che oggi manca? «Lo sviluppo di questa formula dimostra una vivacità imprenditoriale nel settore — spiega Bergami —. Ma c'è troppa frammentazione, come dimostra l'assenza di un rating (le stelle, ndr) comune a tutte le Regioni. Il risultato è che il sistema dei nostri bed and breakfast oggi non si presenta sul mercato internazionale come un'offerta competitiva».

Postilla

Allora, un breve riassunto per chi si fosse perso le puntate precedenti: entra un nuovo operatore, grande e potente e organizzato, in un settore finora dominio di imprese a dimensione locale, micro, familiari ecc. Cos'è successo sinora? Che la pura contrapposizione tra vecchio e nuovo abbia prodotto da un lato una simpatia per i deboli, che chiedono vantaggi competitivi in varie politiche pubbliche (pensiamo ai NO anche violenti dei commercianti alle pedonalizzazioni nei centri storici), dall'altro un relativo degrado del territorio con le localizzazioni in luoghi non presidiati da una concentrazione sufficiente di questi piccoli operatori, ovvero nello sprawl mertropolitano. Dato che prevenire è meglio che curare, le amministrazioni pubbliche prima di accettare come gran novità o respingere per lo stesso motivo il modello albergo low cost dovrebbero valutarne appunto i non troppi low costs sociali, economici, ambientali, insediativi. Speriamo in una non-riedizione delle battaglie di retroguardia (perché quelle avevano un segno di fatto reazionario) contro i fast food solo perché facevano concorrenza alle pizzerie (f.b.)

Dal presidente del FAI un appello proposta che probabilmente stride con la sostanza degli interessi territoriali che sostengono il nuovo governo regionale, ma tentar non nuoce. Corriere della Sera, 4 marzo 2013 (f.b.)

Roberto Maroni è stato eletto governatore della Lombardia. In quanto nuovo presidente del Fai (Fondo ambiente italiano), mi auguro che il legame che da sempre lega la Regione alla Fondazione possa perdurare e rinforzarsi, sviluppando costruttivamente la dialettica tra le istituzioni. Nell'augurare a Maroni un ottimo lavoro, ricordo alcuni temi che il Fai considera di importanza principale.

Nel programma di Maroni spicca la necessità di limitare il consumo del suolo nella Regione e per ciò ci complimentiamo con lui. È necessario intervenire prontamente e con decisione, cogliendo l'occasione dei piani urbanistici (Pgt) ancora da approvare in circa un terzo dei Comuni lombardi. Dati allarmanti emergono dai primi 753 piani regolatori approvati, secondo i quali nei prossimi anni si consumerebbe il 112% di suolo in più rispetto a quanto consumato nel periodo 1999-2007 da tutti i 1546 Comuni. Possiamo continuare così?

Quando l'Italia era un Paese fondamentalmente agricolo non esisteva il dissesto idrogeologico, che si è manifestato la prima volta con l'alluvione di Firenze. Per mettere in sicurezza il territorio, l'agricoltura deve riprendere a svolgere un ruolo decisivo, soprattutto nelle zone montuose, sovente abbandonate. L'identità lombarda ha radici profonde nell'agricoltura, eppure le terre di questa Regione, tra le più fertili d'Europa, sono occupate progressivamente dal cemento, invase dal bosco, oppure vengono abbandonate. La nutrizione è il tema dell'Expo 2015. La nuova economia della Regione dovrebbe partire proprio da un rilancio dell'agricoltura, secondo una strategia da reinventare.

Il programma elettorale di Maroni tratta anche della mobilità sostenibile. Per raggiungere un tale lodevole obiettivo è necessario impedire alcune autostrade non ancora attuate, come quella Broni-Mortara, che divorerebbe, da sola, almeno 1500 ettari di ottimi terreni. Vanno incrementate le mobilità su ferro e ciclopedonale, mentre va ridotta quella su gomma, anche per migliorare l'aria che respiriamo. Il sistema dei parchi e delle aree protette è un vanto della Lombardia. È necessario garantirne l'integrità ma anche fare di più. Elevando, per esempio, il Parco del Ticino (riconosciuto dall'Unesco nel programma Mab, The Man and the Biosphere) alla dignità di primo parco transnazionale d'Europa. Perché ciò possa avvenire è necessario rinunciare alla costruzione della Terza pista alla Malpensa, che divorerebbe, insieme alle costruzioni annesse, la più grande brughiera del Sud d'Europa. Piuttosto è da rendere utilizzabile la seconda pista, allontanandola quanto è necessario dalla prima.

Per presentare al mondo la Lombardia durante l'Expo, bisogna puntare sul suo splendido patrimonio culturale: dalla Villa Reale di Monza al Sacro Monte di Varese. Il Fai, nato per servire il bene comune, è a disposizione della Regione per contribuire a dare valore e a comunicare questa ricchezza paesaggistica, storica e artistica, tutta da dispiegare e raccontare al Globo, riconoscendone il sistema. Sarebbe di straordinaria importanza se gli assessori, in questo caso quelli che si occuperanno di territorio, agricoltura e cultura, potessero essere scelti in base al merito e all'amore per le ricchezze della Regione accumulatesi nei secoli, abbandonando il metodo triste della spartizione politica.

Infine una raccomandazione di carattere più generale. La nostra Costituzione presuppone il rispetto del Codice per i beni culturali e la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione riservata alle Soprintendenze. Qualsiasi attentato a tale legge e a questa organizzazione, che l'Europa ci invidia, sarebbe un vulnus ai principi primi della nostra convivenza civile e un piegare l'interesse generale a interessi particolarissimi. Su ciò il Fai sarà inflessibile.

Un po' penalizzata dall'approccio limitatamente ricreativo, comunque buona l'idea di rivitalizzare il rapporto organico fra mobilità e territorio. Corriere della Sera, 2 marzo 2013 (f.b.)

Mentre l'alta velocità impazza nel mondo, chi si ricorda più delle vecchie ferrovie locali, quelle dove sovrana era la bassa velocità? Oggi nella penisola sono seimila i chilometri di binari dimenticati. Alcune di quelle linee non hanno mai visto il passaggio di un treno, altre sono state attive solo per pochi anni, altre ancora hanno prestato a lungo il loro dignitoso servizio prima di essere messe in pensione. Ai binari del tempo perduto è dedicata la sesta Giornata delle Ferrovie dimenticate, che si celebra domani in tutta Italia. A promuoverla Co.Mo.Do., una confederazione di associazioni che si battono per la mobilità alternativa, il tempo libero e l'outdoor.

Il reticolo ferroviario dismesso, quasi sempre con la logica poco lungimirante di favorire il mezzo privato a motore, è ormai entrato a far parte del paesaggio, disegnandovi, viadotti, gallerie, binari, caselli, stazioni. Se meno probabile, soprattutto in tempi di crisi, appare la riapertura della rete secondaria, che potrebbe costituire l'indispensabile complemento dell'alta velocità, le associazioni aderenti a Co.Mo.Do., fra cui il Touring, il Club Alpino, Legambiente, Italia nostra e Wwf, chiedono la difesa e la valorizzazione delle linee dismesse. La ferrovia costituisce infatti un'importante testimonianza dell'impegno infrastrutturale per l'unificazione nazionale seguito al 1861. Si può dire che il Paese si sia unificato viaggiando in treno e tanto spesso lo abbia fatto proprio lungo quelle sonnolente linee locali, con i riti di incontri, la contemplazione del paesaggio, la vita di provincia descritti da tanti scrittori, a partire dal Cassola di Ferrovia locale. Una locomotiva, un vecchio viadotto, un binario abbandonato diventano così i segni di quella cultura materiale che ha accompagnato la vita della gente e che non deve andare perduta.
Con un paziente lavoro di schedatura, le decine di associazioni che afferiscono a Co.Mo.Do hanno censito questi manufatti, che si trovano di solito in zone periferiche risparmiate dal degrado ambientale che ha infierito sui centri maggiori, talvolta perfino all'interno di riserve naturali o di aree protette. Queste linee dismesse possono oggi trasformarsi in percorsi ciclistici o in itinerari escursionistici, consentendo di percorrere il paesaggio lontano dalle grandi arterie, immersi in una pace d'altri tempi, incontrando via via le testimonianze di una civiltà del trasporto che non c'è più. E proprio la loro collocazione periferica le rende occasioni di rilancio e occupazione per realtà spesso tagliate fuori dai flussi del turismo tradizionale.
Fra le proposte messe a punto dalle varie associazioni che aderiscono a Co.Mo.Do. per questa sesta Giornata delle Ferrovie dimenticate c'è solo l'imbarazzo della scelta. Vaca Mora era il nome con cui il popolo indicava il trenino a vapore, che si arrampicava dalla pianura veneta fino sull'Altipiano di Asiago. Il tratto tra le stazioni di Cogollo e di Campiello della Rocchette-Asiago era provvisto di cremagliera per far superare al treno un dislivello di quasi 700 metri in poco più di 6 chilometri. Si viaggiava a dieci chilometri all'ora. Oggi nei tratti Rocchette-Arsiero e Campiello-Asiago sull'antico sedime ferroviario sono state ricavate delle piste ciclabili, su cui domani si avventureranno gli escursionisti. Si sale fra paesaggi di montagna, mentre la vista si allarga sulla pianura sottostante. Sulla linea si disputa la Cicloturistica Vaca Mora, un tuffo nel passato, che quest'anno è programmata per il 7-8 settembre.
In Umbria è di scena la Spoleto-Norcia, chiusa nel 1968, che metteva in collegamento la Roma-Ancona con la Valnerina. La chiamavano «la ferrovia svizzera», perché superava i contrafforti appenninici con vertiginosi tratti elicoidali, arditi ponti e gallerie. L'escursione di domani si svolge lungo la prima parte del sedime in fase di recupero, visitando la galleria di Caprareccia, la più lunga del percorso. In Sicilia ancora la mountain bike è protagonista sulla ex-tratta a scartamento ridotto Ciccio Pecora, che va da Giarratana a Chiaramonte Gulfi. Siamo in una zona tra le più remote dell'isola e il percorso si svolge con frequenti passaggi in galleria. Le grandi città sono lontane, il mare si staglia all'orizzonte e i silenzi sono quelli verghiani di Jeli il pastore.

Piccola vittoria locale oppure “effetto Shard” che potrebbe estendersi a macchia d'olio su progetti e norme urbanistiche? Un caso da non perdere di vista. Corriere della Sera Milano, 24 febbraio 2013, postilla (f.b.)

Bocciati i parcheggi per il futuro Pala Armani. Tutti, quelli per vip, sportivi, giornalisti, all'interno dell'impianto sottoposto a ricostruzione, e i microparcheggi ipotizzati attorno all'impianto a macchia di leopardo. La zona 8 ha votato all'unanimità la richiesta del Comune di mettere mano al progetto di MilanoSport. C'è da chiedersi come potrà mai il nuovo palazzetto dello sport ottenere senza posti auto l'omologazione per gare di una certa rilevanza (Gold). Il regolamento della federazione di pallacanestro, infatti, richiede parcheggi e percorsi separati per le varie categorie.

L'assessore allo Sport, Chiara Bisconti, che domani incontrerà i cittadini, chiarisce: «Il lavoro non si ferma, ci sono ragioni giuste per rimodernare il palazzetto. Ma il progetto va totalmente cambiato. Ho già fatto una riunione. Non ci saranno macchine nel Lido. Sarà rivisto. Mai nella vita metterò le auto dentro ai vialetti. Iniziamo a studiare ipotesi alternative». Nuovo progetto ma non si torna indietro. Nonostante i residenti propongano «una piscina nelle fondamenta del palazzetto smantellato, come probabilmente era in origine».

Di vero c'è che «il progetto non era mai stato visto in zona e pare neppure dal Comune», spiegano i cittadini dei quartieri Fiera e Qt8. A metterli sul chi vive era stato un blitz datato 27 dicembre 2011. Quando il verde di piazza Stuparich era stato recintato e raso al suolo. «In tre giorni, senza cartelli né spiegazioni, era stato predisposto il cantiere per realizzare una maxi rotonda in piazza Stuparich, hanno abbattuto dodici alberi ad alto fusto, sradicato arbusti, tolto panchine, decorticato terreno coltivo — spiega Alda Damiani —. Tre mesi fa, poi, i lavori sono stati sospesi». E si scopre così che c'è una porzione di cantiere destinata alla maxi rotonda «contesa» dal vicino cantiere del Palalido.

Un fazzolettino di terra che ospita cedri del Libano maestosi che nel progetto viabilistico del Comune ospiterebbe percorsi ciclopedonali ma che è incompatibile con l'altro progetto di studio della viabilità annesso a quello del nuovo Palalido che indica questa stessa area come «in fase di acquisizione». Insomma, un pasticciaccio. Enrico Fedrighini, il verde che ha portato in zona 8 la proposta di delibera contro i grandi e piccoli nuovi parcheggi al Palalido, spiega: «I posti per vip richiedono la demolizione di camerini, spogliatoi e della terrazza della piscina. Il nuovo Palalido è nato male e progettato peggio».

Postilla

Quello dell'accessibilità in auto alle funzioni di qualche rilevanza economica è un tema che, almeno dagli anni '60 del '900, ha finito per determinare localizzazioni, trasformazioni di interi quartieri, processi di degrado incredibili o di dispersione insediativa, di fronte al dogma del veicolo privato come motore immobile dell'organizzazione del territorio. Poi a qualcuno, di fronte al cappio di svincoli piazzali bretelle deserti d'asfalto magari vuoti per settimane, è venuto in mente di gridare: il re è nudo! Ovvero, che accessibilità non significa diritto a andarci con le sacre quattro ruote di famiglia.. Adesso vediamo se, come per l'altro diritto di famiglia, la costituzione formale (le regole) saprà incorporare in fretta l'innovazione: a questo servono i casi singoli locali, a diventare un caso (f.b.)

Davvero surreale a modo suo, che quasi tutta la politica tanto attenta ai “mercati” sia così praticamente sorda a una palese indicazione di mercato. La Repubblica, 23 febbraio 2013, postilla (f.b.)

«Ogni volta che vedo un adulto in bicicletta penso che per il genere umano ci sia ancora speranza », diceva lo scrittore inglese Herbert George Wells. E forse un po’ di speranza c’è davvero. In bilico tra hobby e sport, è adatta a tutte le età, a ogni livello fisico e si usa con la frequenza che si preferisce. Ecologica, pratica e soprattutto economica. Sarà per il prezzo impossibile della benzina, sarà per un maggiore rispetto verso madre natura, fatto sta la bici ha superato l’auto. Stando ai dati del Censis, infatti, nel 2011 sono state 1.748.143 le vetture immatricolate, contro le 1.750.000 bici vendute.

Uno scarto minimo, ma significativo. Qualcosa sta cambiando. C’è una rivoluzione positiva. Le più acquistate sono le “city bike”, perfette per gli spostamenti urbani. Soprattutto nella versione pieghevole. Facili, leggere (dai 9 ai 12,5 chili), le bici formato tascabile sono il must del momento. Le marche sono tante. Ma la sfida è tra le due regine del mercato, la Brompton e la Dahon, che solo da noi vende più di 2500 pezzi l’anno. Piacciono perché permettono di spostarsi rapidamente. Si aprono e chiudono in pochi gesti. E si trasportano in una comoda borsa. Entrano in macchina e sui mezzi pubblici, non ingombrano in ufficio o a casa. Una vera mania.

Ora però a fargli concorrenza c’è l’ultimo fenomeno su due ruote: la bici “a scatto fisso”. Arrivata in Italia dagli Stati Uniti, non ha freni al manubrio, si rallenta pedalando all’indietro. Tra i giovani è di gran tendenza perché costa poco, e per l’allettante possibilità di farsene una riciclando la vecchia bici abbandonata in cantina. Con un restyling creativo e i pezzi giusti, rinasce come mezzo di design dal fascino d’antan. Tutti in sella insomma. Si pedala per andare al lavoro, per fare una gita e spostarsi in città. I produttori ne fanno di elettriche, a tre ruote, dal look rétro, griffate dalle case di moda o hi-tech. Per farsi un’idea sulle ultime novità, c’è il Florence Bike Festival (Bicifi, 1-3 marzo, bicifi.it) alla Fortezza da Basso, un viaggio tra accessori, associazioni, volti e modelli, con la possibilità di provare le ultime bike su sentieri particolari. E il 2 marzo ci si mette alla prova con il Granfondo, su quella che sarà la pista dei Mondiali: si pedala dalla Fortezza, attraverso il centro storico e poi sulle colline fino a Radda in Chianti, per tornare a Firenze. Due i percorsi: 130 chilometri per i più allenati e 80 per gli altri.

Troppa fatica? Con il motto “Il ciclismo siamo noi”, in tv è appena nato Bike Channel (canale 237 di Sky) il primo canale dedicato agli appassionati di ciclismo. Trasmette filmati storici, gare, documentari e tendenze dal mondo della bicicletta. “Simbolo”, per dirla con Marc Augè, “di un futuro ecologico per la città di domani e di un’utopia urbana in grado di riconciliare la società con se stessa”. Peccato però che quel futuro non sia ancora arrivato. E che la carenza di piste ciclabili trasformi le città italiane in un inferno per i ciclisti.

Postilla

Ricapitoliamo: c'è una gigantesca spinta di consumo, che potrebbe spingere innovazione, stimolarla in tantissimi altri settori (le nuove tecnologie della cosiddetta smart city tanto per fare un esempio), ed è così solida da affrontare quotidianamente un vero e proprio inferno metropolitano, oltre che un piccolo salasso di portafoglio in termini di rapporto reale fra spesa e livello dei prodotti/servizi complessivi. E la domanda è: perché nessuno neppure prova a sfruttare questa spinta in modo intelligente, come fondamento di una politica urbana, che poi è politica tout court? Ormai lo dicono anche i costruttori che bisogna passare dalle grandi opere alla rete delle piccole, al coordinamento, insomma implicitamente dal progetto al piano. Invece, tutti zitti, a imprecare contro l'antipolitica che monta: non è che ci si perde qualcosa per strada? (f.b.)

La forzatura della sicurezza aeroportuale e lo sfruttamento dell'emergenza fanno emergere le distorsioni del modello shopping mall chiuso. Le Monde Diplomatique – il manifesto, febbraio 2013 (f.b.)

A metà degli anni 2000, nel sud della Norvegia. L’aeroporto di Kristiansand è appena stato rinnovato. Il volo è in ritardo: il tempo di bere un bicchiere con i miei accompagnatori? «Non è più possibile: bar, tavoli e sedie si trovano ormai dall’altro lato dei controlli di sicurezza...». Passa un’ora. Niente aereo, nessuna notizia né il bancone di un bar. Per ottenere delle informazioni, bisogna raggiungere la porta di imbarco ma l’accesso è scomparso. Toh, il duty free è controllato da un agente: «Accedere alle porte di imbarco? Da qui, attraverso il negozio. È dopo le casse!» Buffo. Ma perché no? «È giusto per avere qual- che informazione? Torno subito, si ricorderà di me?» L’agente risponde premuroso: «Certo, ma non potrà tornare indietro. Dovrà ripassare dalla dogana...»

Preparare i passeggeri all'atto dell'acquisto

Così, invece di imboccare il corridoio pubblico di accesso, si attraversava un negozio pieno di giochi, di profumi, di scatole di cioccolatini e di bottiglie di gin. Il terminal che una volta consisteva in un’unica grande sala, in occasione della sua «modernizzazione», viene frammentato in tre parti il passaggio tra le quali risulta ormai rigidamente controllato. Il mese seguente, nello stesso aeroporto, mio figlio di 2 anni e mezzo ciondolava verso l’aereo, con la sua giacca appesantita da alcuni pacchetti di caramelle e da una boccetta di Chanel N° 5, discretamente prelevati nel duty free, diventato passaggio obbligato per tutti i viaggiatori diretti all’imbarco.

Così nasce il progetto «Duty free shop», presentato in queste pagine. Strategie inedite di organizzazione dello spazio, nuovo orienta- mento del flusso delle persone: mani invisibili avevano trasformato radicalmente la natura e l’uso di un luogo pubblico. Hanno avuto inizio lunghe settimane di osservazione negli aero- porti europei, trascorse a scrutare i movimen- ti, gli oggetti, gli atteggiamenti del personale, l’arredamento, le luci, il design e la segnaletica, per carpire il significato dei cambiamenti, di- segnarli in mappe destinate a far comprendere quello che è in gioco qui. Cosa, o chi, c’è all’origine di queste trasformazioni? Le autorità aeroportuali, i ministeri dei tra- sporti e le società a cui hanno delegato la gestione degli spazi commerciali, o forse si dovrebbe dire di servizio. Tutti lavorano di concerto per modellare il paesaggio interno dei terminal.

Come in una messinscena teatrale, inseriscono anche attori e comparse: agenti di sicurezza, personale dei duty free e delle compagnie aeree, doganieri, poliziotti e... passeggeri. Stabiliscono gli arreda- menti, le luci e i campi visivi, le «aperture» o le «chiusure». Il tutto con un solo obiettivo: preparare i passeggeri all’atto dell’acquisto. Le autorità aeroportuali, interrogate su queste trasformazioni, giurano di non averci nulla a che fare. «I direttori dei negozi decidono da soli le loro strategie commerciali», affermava (distogliendo lo sguardo) Jo Kobro, ex direttore dell’ufficio stampa dell’aeroporto di Oslo. In realtà, gli uni fanno soldi, gli altri ottengono delle percentuali.

Il conforto dopo la prova dei controlli di sicurezza

Dagli anni '50, la sicurezza del trasporto aereo è oggetto di particolare attenzione dopo che nel 1949, e poi nel 1955, delle bombe nella stiva avevano fatto esplodere in volo due aerei in nord America. All’epoca si era trattato di lugubri storie di adulterio e di assicurazione sulla vita... Ma quei primi attentati avevano mostrato la vulnerabilità dell’aviazione civile. Nonostante tutto, per circa mezzo secolo, gli aeroporti sono rimasti dei luoghi relativamente aperti, in cui recarsi con la famiglia per passeggiare, sperimentare la magia del mito aeronautico, ammirare i passeg- geri per i quali le compagnie stendevano il tappeto rosso, sognare davanti ai manifesti di destinazioni esotiche.

«Città nelle città» con supermercati, duty free, parcheggi

Se gli spettacolari attentati contro il Boeing della Pan american airlines (1989) e contro il Dc-10 dell’Union de transports aériens (Uta, 1988) hanno segnato l’inizio del rafforzamento dei sistemi di controllo e di sicurezza, quelli dell’11 settembre 2001 aprono una nuova era. Il traffico subisce un crollo durevole (solo nel 2005 recupererà il livello precedente agli attentati); le compagnie aeree e gli aeroporti affrontano una crisi senza precedenti.

In un primo tempo, molte basi aeroportuali e compagnie aeree hanno ricevuto massicci aiuti pubblici, soprattutto in nord America. Ma, rapidamente, gli aeroporti hanno dovuto farsi carico delle spese di funzionamento. Equazione ancor più difficile da quando le tasse pagate dai passeggeri insieme al biglietto sono state sensibilmente ridotte, a volte temporaneamente soppresse, per tentare di rilanciare il traffico. Gli stati recedono dal loro coinvolgimento diretto: la gestione degli aeroporti viene esternalizzata e affidata a delle società società (private, pubbliche o miste).

Questi nuovi gestori trovano «la» soluzione : trasformare le zone aeroportuali in spazi commerciali. Alcuni diventano delle «città nella città», con supermercati, duty free, parcheggi, alberghi, centri d’affari e di conferenze. Sull’insieme di queste attività, l’aeroporto percepisce degli utili – il cui importo rimane segreto – calcolati sulla base del giro d’affari.

Parallelamente, dopo lo shock dell’11 settembre, viene rivoluzionato l’approccio al controllo e alla sicurezza. Ormai, il «mondo esterno» si contrappone al «mondo interno». Per varcare il confine che separa le due realtà, bisogna accettare di esser sottoposti al metal detector, per- quisiti, palpati ed eventualmente privati di qualsi- asi oggetto «minaccioso», compresa la bottiglietta di acqua minerale...

Così, il terminal si trasforma in uno spazio al contempo ipercommerciale e ipercontrollato, di cui i viaggiatori diventano prigionieri. Chi gestisce gli spazi progetta una diversa organizzazione dei flussi; creano un sistema di circolazione forzata che converte gli aeroporti in laboratori. Vengono testati sottili piani di riorganizzazione spaziale per determinare quale strategia permetta di spremere meglio il passeggero. Quest’ultimo è manipolato come un burattino, condotto attraverso un per- corso predisposto in suo onore: una caverna di Ali Baba in cui scintillano merci e tentazioni.

In questo spazio «interno», tutto è limitato, dalla libertà di raggrupparsi a quella di fotografare o filmare. Non ci si può lamentare né scegliere i propri itinerari. È un’economia capitalista (far la maggiore quantità possibile di soldi) e monopolistica: alcune società multinazionali gestiscono le centinaia di negozi, di ristoranti, di bar e i servizi aerei a terra, affidati a subappaltatori. Il diritto all’informazione è spesso ridicolizzato: i manifesti che elencano i «diritti del passeggero» sono posti dove si vedono meno, in punti scuri, negli angoli morti, dietro le colonne, o in senso opposto al flusso generale. Le pubblicità sui temi del sogno, del viaggio, della donna o dell’uomo perfetti, del viso perfetto, della sensualità, del sesso... mimetizzano una strategia di assimilazione e di appropriazione dei luoghi pubblici.

Prima tappa: spiazzare il passeggero sovvertendo i suoi punti di riferimento. Gli agenti di sicurezza e i commessi dei duty free sono vestiti praticamente nello stesso modo. Gli addetti alle vendite sono inoltre pregati di assicurare il mantenimento dell’ordine nei negozi e nelle loro vicinanze, e gli agenti di sicurezza assumono il ruolo di procacciatori di clienti per i punti vendita. A Kristiansand Kjevik, la guardia indica con autorità una delle due porte situate dietro di lui: «Di là!». I passeggeri del volo proveniente da Copenhagen, ossia ottanta persone, sono condotti verso il duty free. Nessuno ha visto né oltrepassato la porta adiacente che con- duce direttamente all’area preposta alla riconsegna dei bagagli.

Il passeggero crede di iniziare un viaggio ma in realtà consuma

La segnaletica utilizza gli stessi codici grafici per indirizzarvi verso la porta d’imbarco e per vantare la qualità dei prodotti venduti nei negozi. Il passeggero pensa di ricevere delle informazioni invece legge una pubblicità; crede di iniziare un viaggio ma in realtà consuma. All’aeroporto di Londra-Gatwick, i bagni principali sono stati installati all’interno del duty free – clientela redditizia. Per imbarcarsi a Bruxelles, bisogna passare per i negozi di cioccolata, di gioielli, di gadget elettronici. Un modo per trovare conforto dopo uno sgradevole passaggio all’accettazione prima e al metaldetector dopo...
Meno di dieci anni prima, gli spazi commercia- li (in cui tutto è a pagamento) erano separati dagli pazi pubblici (in cui tutto è gratuito). Ormai, la sfera del consumo e la sfera del pubblico si sono fuse. A Londra, Oslo, Bergen o Milano, i passaggi pubblici «liberi» sono semplicemente scomparsi.

Due spazi che coabitano nello stesso ambiente

In alcuni casi, i due spazi coabitano. Nel primo trionfa un mondo artificiale dalle luci abbaglianti, dal design ricercato, con la sua massa di merci ben ordinate. Bianco accecante, giallo e rosso acceso dominano. Nel secondo, grigio verdastro, il passeggero, dopo esser stato condotto attraverso il primo, può infine sedersi, sempre se trova ancora una sedia: molte sono state eliminate per far posto a ristoranti e negozi, come all’aeroporto di Copenhagen. Nelle scomode zone di pre-imbarco non ci sono lustrini, perché per ora sono considerate «inutili»...

Questi cambiamenti preannunciano quelli di altri spazi pubblici ben più frequentati (solo il 10%-15% della popolazione europea infatti viaggia regolarmente in aereo): stazioni, centri città, metropolita- ne, ma anche strade e isolati. In Francia, la stazione Saint-Lazare si è trasformata in centro commerciale; a Bodø, nel centro della Norvegia, la strada principale è stata interamente privatizzata.

Ancora una volta c'è un'amministrazione locale che non sa proprio fare il suo mestiere, e si tira la zappa sui piedi per puro vuoto culturale e approccio contabile. Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2013, postilla (f.b.)

Il fatto era stato già denunciato su questo giornale in un articolo a firma di Tomaso Montanari: nonostante a quasi quattro anni dal sisma il centro storico de L’Aquila sia ancora “una città fantasma” e le pratiche relative alla ricostruzione siano “ferme e confinate in un limbo istituzionale”, il sindaco Massimo Cialente (Pd) di recente ha presentato un progetto per costruire, sotto la grande Piazza del Duomo, un centro commerciale sotterraneo con negozi “di lusso” e con annesso un parcheggio da 500 posti, il tutto, per intendersi, in stile “Galleria Alberto Sordi”, che è a Roma di fronte a Piazza Colonna.

Il progetto agli occhi degli esperti appare come “l’ennesima negazione di una corretta ricostruzione del centro storico, sia dal punto di vista storico-culturale, sia per quanto riguarda la sua rivitalizzazione, indice di una gestione della città che fin dall’inizio ha rifiutato una visione d’insieme e si è invece adagiata in una posizione inerziale, disponibile a ogni sorta di proposte avanzate da chicchessia”. E proprio per evitare che ciò avvenga, perché “L’Aquila si merita di essere più di un ‘salotto’ commerciale di lusso scavato sotto un centro monumentale in rovina” è stato lanciato in Rete l’“Appello per L’Aquila”, sottoscritto da personalità e urbanisti di fama nazionale, per chiedere al Comune il ritiro immediato del progetto.
Irritata la risposta del sindaco Cialente: “Delle due cose, l’una: o non si sa cosa sia un project financing, con la relativa normativa, oppure si sta facendo di tutto per strumentalizzare le mie parole – perché, prosegue – questo è il primo vero project financing del dopo terremoto che ci viene presentato, un progetto che impegna l'amministrazione, per legge, a dire se sia di interesse pubblico o meno, entro 150 giorni”. Il progetto presentato da Cialente, invece, per i sottoscrittori dell’Appello è in perfetta continuità culturale con la distruzione del tessuto civile provocato dalle new town di Berlusconi e Bertolaso: “Se in quel caso si rimuoveva il cadavere della città storica andando a cementificare la campagna, qui sembra gli si voglia scavare la fossa, letteralmente e metaforicamente”.
Postilla
Se solo non ci fosse sempre questo atteggiamento pronto all'individuazione del salvatore della patria, che si materializza (come ovvio) nelle forme di un prodotto preconfezionato chiavi in mano, perché così funziona il suo modus operandi! E se si provasse a riflettere, e guardarsi attorno, a proposito della differenza abissale fra l'ambiente a vuoto pneumatico extraurbano (dove è stato allevato il format) e la delicata cristalleria della città tradizionale! E invece sulla base di conti di solito truccati ci si tira in casa entusiasti, alla Nando Mericoni, lo slogan del project financing. Il quale non è cattivo come metodo in sé, ma deve essere riplasmato sulle specifiche esigenze spaziali e socioeconomiche di un tessuto diverso. Ad esempio: che squilibri induce nelle attività consolidate? Qualcuno l'ha verificato l'impatto? E quello sul traffico? Insomma, prima di mangiarsi un bue intero, il consiglio della zia è almeno, prima, di arrostirlo, salarlo, tagliarlo a fettine. Non trangugiarlo in un boccone entusiasti perché l'insegna al neon ci propone il fantastico "Beef Gulping"! (f.b.)
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