Da edilportale 14 luglio un comunicato-stampa. Ma non era proprio il blocco delle abnormi previsioni di ampliamento delle aree edificabili dei piani vigenti l'obiettivo che si voleva raggiungere nell'immediato, in attesa di definire «principi fondamentali di governo del territorio» condivisi?
Lo schema di legge affronta il tema del consumo di territorio determinando i limiti di superficie occupabile per frenare la cementificazione del territorio, sviluppare l’agricoltura e salvaguardare la bellezza e la sicurezza del paesaggiAttraverso il forte coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali, la norma promuove anche la politica del riuso del suolo e strategie per monitorarne il consumo.
Il testo approvato dal Governo ricalca l’impostazione iniziale del precedente “ddl Catania” in materia di valorizzazione delle aree agricole sul quale le Regioni avevano già espresso parere favorevole, ma condizionato all’accoglimento di alcune osservazioni.
Secondo i tecnici regionali, il nuovo testo non ha tenuto conto dell’intensa attività tecnica e politica svolta dalle Regioni nel 2012, vanificando di fatto il lavoro emendativo al ddl Catania. Le regioni hanno espresso una posizione (doc. allegato) piuttosto critica ritenendo lo schema del ddl inemendabile poiché affronta il tema del consumo di suolo, di per sé complesso e strategico, in un’ottica settoriale e senza una visione integrata del territorio.In particolare, il ddl risulterebbe lesivo delle competenze legislative regionali sul governo del territorio in previsione del divieto di consumo di superficie agricola per un periodo di tre anni; secondo i tecnici, ciò equivale ad un indifferenziato e sostanziale blocco degli strumenti urbanistici vigenti. Analizzando l’articolato della norma i tecnici hanno ribadito la necessità di definire dei principi fondamentali in materia di governo del territorio che fungano da cornice all’azione programmatica e legislativa per le regioni.
Man mano cresce anche nel nostro paese la consapevolezza e l'applicazione pratica del contenimento del consumo di suolo, spunta automaticamente un altro problema: la ri-colonizzazione degli spazi urbani da parte dei vari soggetti: chi prevale?
Alcuni anni fa, ero a Catania per un convegno, e alloggiavo in un albergo sulla centralissima via Etnea. Uscendo diretto all'università, avevo in mente tutt'altro che la contemplazione del panorama, visto che dovevo tenere una relazione da lì a una manciata di minuti, e me la stavo mentalmente ripassando già sull'ascensore. Beh, devo dire che quella volta il mio ritorno ad un rapporto fisico diretto e consapevole con la città, è avvenuto in modo assai più brusco del solito: sono andato a tutta velocità a sbattere la faccia contro un muro. Il perché è presto spiegato. Giusto dopo l'insegna del tale marchio di abbigliamento avevo imboccato la via trasversale … ma non c'era alcuna via trasversale da imboccare, solo una solida parete di muratura. Né ero stato vittima di improvvisi lavori pubblici o privati iniziati nella notte: subivo solo nel modo più patetico gli effetti della cosiddetta Città Clone.
Si tratta di un fenomeno piuttosto noto, e stigmatizzato da tempo dagli studiosi della britannica New Economics Foundation: soprattutto quando le politiche urbanistiche e commerciali provano a contenere la dispersione e i grandi contenitori extraurbani a forte orientamento automobilistico, le catene della distribuzione organizzata trasferiscono dentro il tessuto della città consolidata il proprio modus operandi classico, organizzandosi in una specie di shopping mall all'aperto, che ricalca pari pari sulle vie cittadine accostamenti e complementarità che di solito sperimentiamo dentro ambienti ad aria condizionata. Io in particolare avevo confuso addirittura una città con l'altra, scambiando via Etnea con una familiare via Manzoni un migliaio di chilometri più a nord. Da qui il brusco incontro con quell'intonaco che non stava dove doveva stare. Un incontro brusco che, in un modo o nell'altro, può però riguardare molte altre persone e interi sistemi socioeconomici locali: la grande superficie non necessariamente atterra in città nelle forme che diamo per scontate nei territori della dispersione.
Cosa che ha anche potenziali risvolti positivi, a ben vedere. Perché di sicuro se il panettiere dell'angolo non ce la fa più per motivi di età, e il figlio invece di imparare a stare dietro al banco ha preferito studiare violoncello, ben venga magari la catena in franchising La baguette d'aujourd'hui invece di lasciar vuoti i locali o riempirli con l'ennesima sede di finanziaria o agenzia immobiliare, che di solito durano poco e non danno alcuna vivacità al quartiere. Però esiste, come provavo a riassumere con la mia tragicomica esperienza di scontro frontale, anche il rischio di uno shopping mall virtuale, tale cioè da riprodurre sia il tipo di concorrenza che di solito fa uscire dal mercato gli esercizi non di catena, sia il rischio che a un solo abbandono seguano rapidissimamente come pedine del domino tutti gli altri, desertificando di colpo un'intera via o zona, e rendendo poi molto difficile una rigenerazione efficace.
Questa nota trae spunto dall'articolo firmato oggi su la Repubblica da Francesco Merlo e intitolato “Benvenuti a Souvenir City quella strada che unisce il nuovo mondo globale”, dove, come spesso succede alla nostra stampa nazionale, si scoprono certi fenomeni non solo in ritardo, ma da una prospettiva a dir poco folkloristica. Racconta Merlo, sostanzialmente, della sua delusione nello scoprire che la maglietta con la scritta curiosa, faticosamente recuperata scarpinando per una strada di Singapore, poi si trova in una via diventata del tutto identica e con la medesima offerta commerciale, a qualche centinaio di metri da casa propria. Il disappunto del borghese un po' fighetto è di aver perso un vantaggio di posizione e prestigio rispetto alla massa internazionalpopolare. Mentre passa del tutto in secondo piano come questo genere di colonizzazione non solo finisca per minare certe particolarità urbane locali che sono la base su cui si regge il turismo, ma metta a rischio la stessa risilienza minima delle aree interessate.
Ergo ci sono due problemi distinti, che spesso colpevolmente si confondono nella solita contrapposizione manichea fra esercenti locali (buoni per definizione) e grandi catene o marchi (cattivi perché invasori alieni): grande superficie, grande organizzazione. Il primo tema è quello classico, legato alla dispersione insediativa, al modello di trasporto e consumo a orientamento automobilistico che oggi si mette sempre più in discussione per motivi ambientali, energetici, sociali. Il secondo tema non salta così immediatamente all'occhio, come dimostra la prospettiva scelta dall'articolo de la Repubblica, ma può rappresentare uno sbocco automatico delle politiche tese ad arginare il consumo di suolo: possiamo intervenire anche su questi aspetti? E in che modi? Difficile dirlo senza sperimentare modelli di intervento, come quelli tentati proprio in Gran Bretagna da una agenzia pubblica (Commissione Portas) che non solo elargisce sostegni ai piccoli operatori, ma lavora soprattutto in termini di immagine per il consumatore e di integrazione col resto delle attività urbane. In pratica costruendo in forma di rete ciò che le grandi catene fanno agendo in proprio coi potenti mezzi a loro disposizione.
Prima, però, occorrerebbe separare i due aspetti, dell'occupazione di spazio urbano, e del tipo di organizzazione che si insedia. Solo così si inizia a valutare davvero chi induce vitalità o meno, chi accresce o diminuisce identità locale, chi può accompagnare virtuosamente processi di riqualificazione, o garantire in qualche modo che non ce ne sia affatto bisogno. Come dimostrano ad esempio le lotte infinite delle associazioni di esercenti contro pedonalizzazioni o limitazioni simili, non sempre essere piccoli e locali significa essere automaticamente virtuosi. Allo stesso tempo, senza una chiara politica pubblica ad esempio di coordinamento della partecipazione di piccoli e grandi soggetti a iniziative di gestione congiunta (sul modello modificato dei Business Improvement District internazionali) la trasformazione in shopping mall virtuale dominato da pochi grandi soggetti e poco resiliente, con parallela desertificazione delle zone adiacenti, pare un destino segnato. Il che è sicuramente più grave sia del mio scontro col muro, sia dello sconcerto del giornalista per aver perso l'esclusiva dei prodotti esotici.
Come porre tutte le precondizioni perché si riduca, drasticamente, la circolazione delle auto private in città e nell'area metropolitana? Tante soluzioni coordinate, ma resta un mistero ..
Il comune di Milano dopo una gestazione che si sarebbe forse voluta più breve, si dota finalmente di un nuovo Piano per la mobilità. Forse i lettori si ricordano di quando, proprio in assenza di tale piano a coordinare i singoli interventi, la cosiddetta Area C, ovvero l'accesso a pagamento alla zona centrale più interna, aveva rischiato di naufragare per il ricorso di un gestore di parcheggi, economicamente danneggiato (e per forza, che altro?) dai flussi di traffico ridotti. Con il Piano urbano integrato dei trasporti invece, si riconosce la natura complessiva di programma per migliorare salute, benessere, qualità abitativa dell'area metropolitana, dell'insieme così come delle singole parti componenti.
Se ne possono citare alcune, di queste componenti, ricordando che prese singolarmente in fondo significano poco più di esperimenti puntuali, nessuna esclusa. Ci sono le cosiddette Zone 30 dove anche grazie alla conformazione stradale i veicoli possono entrare ma non scorazzare. Oppure i mezzi pubblici non solo rafforzati e coordinati in rete, ma anche gestiti con un occhio di riguardo a una utenza post-industriale, ovvero su tempi diversi da quelli classici, e con sistemi tariffari coerenti. Naturalmente nel piano si dà massima attenzione alla mobilità non motorizzata, fornendole aree di condivisione, percorsi dedicati per pedoni e ciclisti, spazi e attrezzature per intermodalità. E sostegno e innovazione nei servizi di bike sharing e car-sharing, oggi alle fasi sperimentali iniziali.
Poi c'è il rapporto fra le scelte sui trasporti e l'urbanistica vera e propria, quella che regola le trasformazioni edilizie e le localizzazioni. Qui non è chiarissimo quanto si vogliano davvero legare due aspetti di solito e perniciosamente slegati. Ad esempio l'ultimo numero del Journal of the American Planning Association - monografico sulla mobilità - propone un interessante articolo che esamina sistematicamente il rapporto non sufficientemente studiato fra spazio e flussi, ovvero sino a che punto le amministrazioni cittadine hanno saputo tradurre le potenzialità di questa nuova forma organizzativa in norme e standard urbanistici, a partire dai parcheggi. Più in generale, è il coordinamento fra la relativa rigidità della conformazione fisica, e l'estrema variabilità dei flussi che la attraversano, la sfida del futuro: che ne sarà dei contesti ancora sostanzialmente auto-oriented? Faranno fallire anche le migliori intenzioni, con la loro rigidità? Per Milano di questo non si parla molto, o forse non si parla affatto.
E ecco invece un esempio di contraddizione, forse piccola ma sintomatica. Quasi contemporaneamente agli annunci sull'approvazione del PUMS, i giornali pubblicavano un'altra piccola notizia: nel plinto urbano dei giganti terziari del quartiere di Porta Nuova si farà un Superstore Esselunga. Chiunque conosce quel formato commerciale, sa benissimo quanto faccia a cazzotti con mobilità dolce e mezzi pubblici. Un solo esempio delle tante cose da cambiare, prima o poi. Qui non abbiamo riportato gli articoli dei giornali, che tendevano a soffermarsi appunto e soprattutto su aspetti parziali, fornendo una immagine poco realistica-. Abbiamo per una volta scelto di far riferimento alla documentazione ufficiale: il Piano del traffico lo si può leggere tutto nei particolari a questo LINK (f.b.)
«La recente conclusione a Bruxelles dei negoziati sulla nuova PAC, delude chi ha a cuore l’ambiente e l’agricoltura sostenibile di piccola scala. L’Europa sembra rimanere ancorata ai vecchi schemi del liberismo e delle lobbies multinazionali ». La Repubblica, 28 giugno 2013
Siamo uniti nella diversità o diversi nell’unità? La recente conclusione a Bruxelles dei negoziati sulla nuova Politica Agricola Comune, la Pac, pur con qualche interessante novità delude chi ha a cuore l’ambiente e l’agricoltura sostenibile di piccola scala, ma più di tutto ci pone domande sull’Europa. Ci interroga sulle prospettive future, su che cosa è comune e su che cosa non lo è.
La riforma che dovrebbe orientare la qualità del nostro cibo, un possibile e auspicabile ritorno alla terra delle nuove generazioni, la cura dell’ambiente e dei territori, ha perso un’occasione storica. È stata dibattuta come non mai, partecipata dalla società civile e dalle associazioni che hanno fatto sentire forti e chiare le loro istanze, ha coinvolto per la prima volta il Parlamento europeo per dar voce ai cittadini. Ma gli obiettivi di una politica agricola più verde, equa e in grado di destinare fondi pubblici (il 40% del budget europeo) in favore di beni pubblici come il paesaggio, la qualità dei suoli e la salute, sono stati in gran parte non raggiunti oppure demandati a decisioni degli Stati membri.
Ecco, al di là delle considerazioni su che cosa è stato deciso, è importante vedere che cosa invece non è stato deciso, lasciando libertà di scelta ai singoli Stati: la questione sul supporto ai piccoli agricoltori; la riduzione dei pagamenti più corposi (il 20% delle aziende prendeva l’80% dei sussidi) o del tetto massimo percepibile in un anno; la facoltà di dedicare buona parte delle risorse destinate allo sviluppo rurale – cioè a pratiche ecologiche, sociali e produttive all’avanguardia – in favore delle rendite fondiarie (i pagamenti diretti in funzione di quanta terra si possiede) o per forme assicurative private che possono diventare deleterie.
Ora ai cittadini toccherà fare pressione sui loro Governi, il lavoro non è finito. Ma a cosa serve una Politica Agricola così importante in termini di budget e di argomenti, che dovrebbe sin dal nome essere Comune, se comune non lo è? Se non è in grado di proporre idee forti, che paghino con i nostri soldi qualcosa per cui tutti potremo avvantaggiarci? Qualcosa che ha a che fare con i beni comuni? C’è chi ha fatto notare che s’intravede nella mancanza di certe decisioni una sorta di “de-europeizzazione”.
È questione non da poco, perché ci sono diversi “fronti” che la Pac dovrebbe avvicinare, su cui dovrebbe mediare o essere dirimente in favore dei cittadini. Il primo lo potremmo chiamare “agroindustria contro piccola agricoltura”. Ci si può accapigliare all’infinito se era meglio o no obbligare tutte le aziende a destinare una piccola percentuale dei loro terreni al mantenimento di aree con funzione ecologica (3, 5 o 7%? Per la cronaca ha “vinto” il 5), ma di cosa stiamo parlando di fronte al fatto che da un lato abbiamo aziende che percepiscono 300.000 euro all’anno di sussidi mentre per i piccoli agricoltori gli Stati possono scegliere di dare un contributo annuo fino a 1.250 euro? Cosa cambiano queste cifre nell’economia di un’azienda? Lecentinaia di migliaia di euro mantengono in piedi un sistema monoculturale e non sostenibile; il migliaio sembra invece un “regalino” che certo non cambia il lavoro e la vita di una piccola azienda. È vero, ai piccoli agricoltori sono stati tolti molti obblighi burocratici, ma un aiuto concreto è un’altra cosa. In proporzione il contributo che loro restituiscono in cibo sano e buono, in cura del territorio e in beni di tutti è infinitamente più prezioso di mille euro all’anno. Da questo punto di vista la riforma Pac sembra abbia “cambiato affinché nulla cambiasse”: il grosso della torta continua ad andare ai grossi.
Un altro fronte sono le agricolture degli Stati membri di lungo corso contro quelle degli ultimi arrivati, i Paesi dell’Est. Queste ultime sono agricolture fragili, meno moderne e per questo ancora ricche di diversità naturale e produttiva: hanno diritto di crescere, ma anche di essere in qualche modo tutelate. Si parlava di “convergenza interna” per equiparare i sussidi, ma anche in questo caso alla fine decideranno i singoli Stati.
Poi c’è la questione “Europa contro Paesi in via di sviluppo”. In questo caso, se si guarda fuori dai confini continentali, ecco che magicamente torna l’unione: non è stato previsto nessun meccanismo di monitoraggio sugli effetti delle politiche commerciali della Pac – come i sussidi alle esportazioni o prezzi artificiosamente bassi – nei confronti dei piccoli agricoltori in Asia e in Africa.
Sono rimasti tutti uniti anche per annacquare le misure di “inverdimento” o “greening” delle pratiche agricole. È importante che il concetto sia stato introdotto, ma sono state anche previste così tante eccezioni nei regolamenti attuativi che il 60% delle terre coltivate europee alla fine potrebbe esserne esentato. Un buon indirizzo, ma un obbligo soltanto sulla carta.
Anche se si registrano alcuni aspetti positivi, come il già citato snellimento burocratico o l’aumento di risorse per i giovani agricoltori, questa è una Pac che lascia l’amaro in bocca. L’Europa sembra rimanere ancorata ai vecchi schemi del liberismo e delle lobbies multinazionali, senza il coraggio di proporre veri cambiamenti legati a prospettive nuove, mondiali, moderne. Quest’Europa ha generato una Politica Agricola Comune che ha poco di comune, che sembra nascondersi dietro le frammentazioni invece di imporre a tutti un indirizzo alto e nobile, severo e nell’interesse pubblico.
In tema di cibo e agricoltura, questa stessa Europa ci spinge a ripartire dalle nostre diversità per raggiungere un’unità che evidentemente è ancora tutta da definire. Mentre i piccoli agricoltori lottano da soli, i giovani hanno difficoltà a tornare alla terra, l’agroindustria continua a dominare e lo sviluppo di nuovi paradigmi sociali, economici, culturali, agricoli e alimentari, è lasciato tutto in mano a quei cittadini e contadini europei (loro sì!) dotati di tanta buona volontà e di copiose fresche idee. A ben pensarci, forse, sono proprio loro gli unici che ci fanno intravedere come sarà la vera «unione europea » del futuro.
La moratoria, pur positiva in sé, sulle nuove concessioni commerciali, sembra nascere da una filosofia sostanzialmente protezionista e reazionaria, senza troppo futuro. Corriere della Sera Milano, 26 giugno 2013, postilla (f.b.)
Stop ai nuovi super e ipermercati in Lombardia. Da qui alla fine dell'anno. L'obiettivo in questi sei mesi è mettere a punto una riforma della legge regionale del commercio. Restrittiva rispetto alla grande distribuzione.
Il congelamento dei nuovi progetti ieri è stata votato all'unanimità. Tutti favorevoli, dal Pdl alla Lega, passando per Pd e M5S. Il testo iniziale è stato addirittura reso più severo: bloccati anche gli ampliamenti delle strutture già esistenti. Si fermano gli accordi di programma di Cinisello Balsamo (Immobiliare Europea spa); Cerro Maggiore e Rescaldina (Cr Sviluppo); Como (Esselunga, area Camerlata); l'ampliamento Esselunga a Calco (Lecco); il progetto di Curtatone, in provincia di Mantova (Comet spa); Marmirolo (sempre Mantova, Cgi srl); Leroy Merlin a Solbiate Arno; Locate Triulzi (Locate District srl). Potrà andare avanti, invece, il progetto nel nuovo quartiere milanese di Citylife, «salvato» da un emendamento che preserva le iniziative legate a Expo.
A nessuno sfugge che la vera partita inizia ora. Con il confronto per arrivare a una nuova legge regionale sul commercio. La Lombardia di Roberto Maroni non ha nessuna intenzione di spingere sull'acceleratore della concorrenza. I segnali sono inequivocabili. Da una parte mercoledì 19 giugno il consiglio regionale ha invitato con una mozione la giunta a intervenire presso il governo per una revisione delle disposizioni in materia di liberalizzazioni degli orari. Dall'altra è stata bloccata la sperimentazione che permetteva di ribassare i prezzi anche nel mese prima dei saldi.
«Quello di ieri è un primo passo verso la valorizzazione dei negozi di vicinato — chiarisce l'assessore regionale al Commercio, Alberto Cavalli —. E' evidente a tutti che oggi a essere in difficoltà sono i punti vendita di vicinato. Anche in vista di Expo non possiamo permetterci centri cittadini desertificati». Determinante per l'evoluzione della partita lombarda saranno gli esiti in parlamento del dibattito sulla normativa del commercio. Sempre più il decreto Salva Italia varato dal governo Monti è sotto assedio. Una sua revisione, nella direzione di una maggiore libertà a ciascuna Regione di stabilire le proprie regole, lascerebbe alla Lombardia le mani libere. «Il nostro obiettivo è salvaguardare l'occupazione nel settore e nello stesso tempo garantire un modello commerciale sostenibile. Salva Italia permettendo», puntualizza Angelo Ciocca, Lega, a capo della commissione Commercio del Pirellone».
La grande distribuzione sa di dover nuotare controcorrente: «Contro la restaurazione del commercio andremo in tutti gli antitrust di questo mondo». Dal canto suo Confesercenti fa pesare in ogni sede le 150 mila firme raccolte contro il Salva Italia. Sul fronte delle dinamiche interne al consiglio, da segnalare l'approvazione dell'emendamento che blocca anche gli ampliamenti di super e iper, nonostante il parere contrario della maggioranza. Soddisfatto il Pd. «Abbiamo chiesto noi il voto segreto — fa notare Dario Violi del M5S —. Questo ha evitato che il provvedimento venisse annacquato».
Postilla
Da quanto emerge dall'articolo, e da segnali precedenti comparsi sulla stampa, appare abbastanza chiaro che si stia girando attorno al solito nodo: il commercio tradizionale di vicinato, inteso come piccoli operatori al dettaglio (che portano più voti) contro i grandi contenitori prevalentemente periferici o extraurbani della distribuzione organizzata. In modo complementare e collegato, rientra anche la questione dei tempi di apertura, i festivi, i notturni e via dicendo. Insomma, invece di un percorso decisamente orientato, per quanto nelle difficoltà, verso la riqualificazione invece dello spreco di suolo, la valorizzazione delle economie urbane e locali (dell'Expo si parla a proposito di tutto, salvo delle produzioni agricole regionali distribuite localmente), la rivitalizzazione di quartieri, rieccoci al vetusto muro contro muro di modernizzatori e conservatori. Anche se nel caso specifico poi destra e sinistra politica si mescolano parecchio negli schieramenti di merito. Certo da una presidenza della Lega non era lecito aspettarsi chissà cosa, ma la speranza è l'ultima a morire. Se dal letame nascono i fior, magari anche dall'ennesima baruffa tra bottegai di quartiere e spietati manager globalizzati potrebbe venire qualcosa di buono, chissà (f.b.)
Due iniziative di co-housing, promosse da gruppi di cittadine e sostenute dalle amministrazioni comunali, mostrano quanti spazi si possono conquistare, investendo con intelligenza nelle politiche abitative. Una riflessione tra Vienna e Ferrara (m.b.).
Testo pubblicato sulla rivista on-line inGenere il 06/02/2013. In calce, è disponibile un articolo più esteso, sullo stesso argomento, presentato dalla conferenza Espanet, nel settembre 2012. Le foto si riferiscono all'incontro organizzato il 6 giugno scorso da Chiara Durante presso la residenza ro*sa a Vienna, nell'ambito dell'iniziativa della scuola di eddyburg "Una città un piano: Vienna" (m.b.)
A fronte dell’incalzante arretramento dei sistemi di welfare, con l'attuale crisi si assiste a un rifiorire dei temi dell’economia solidale; tra questi c'è il forte ritorno di forme di abitare comunitario che rimanda ad una tradizione nata negli anni Settanta, quella del cohousing. Oggi questo modello abitativo offre l'opportunità di ripensare la condizione femminile e il lavoro di cura, attraverso lo sviluppo di forme di collaborazione che si spingono ben oltre le tradizionali “relazioni di buon vicinato” (1).
La formula che si è affermata nel corso degli anni prevede l’associazione di alloggi privati e spazi comuni, spesso caratterizzati dalla progettazione partecipata e da un disegno degli spazi volto a favorire lo sviluppo di “comunità”, nonché da forme di gestione (e a volte anche di proprietà) cooperativa di spazi e servizi, di cui si fanno carico in prima persona gli stessi abitanti.
Com’è facile immaginare, il cohousing non rimanda ad un modello univoco, ma costituisce un concetto con una forte carica suggestiva, che, in base ai differenti contesti e momenti storici, è stato reinterpretato e declinato a livello locale in molti modi. La grande fascinazione oggi esercitata dal cohousing si basa su una notevole semplificazione, ma la sua storia non è stata affatto lineare: in base alle caratteristiche dei gruppi che se ne sono fatti promotori è più o meno evidente come le iniziative della società civile abbiano fatto i conti con varie forme di conflitto sociale; infatti nonostante si tenda a pensare il cohousing come un fenomeno radicato nella sensibilità delle classi medie, molte delle esperienze originarie (soprattutto in Olanda) nascono dalla legalizzazione a posteriori di case occupate.
Oggi è interessante identificare il modo con cui le diverse iniziative si inseriscono nelle problematiche sociali e abitative in atto, di quali bisogni e istanze si facciano portavoce, e soprattutto come queste iniziative possano contribuire alla costruzione delle politiche pubbliche: due recenti esperienze europee ci permetteranno una piccola incursione in questa realtà.
Nel 2003 a Vienna un gruppo di donne (supportate dalla presenza di un’architetta-attivista) avviano un percorso dal basso: il progetto di cohousing ro*sa. Il progetto verrà poi sostenuto dalla municipalità, molto attiva nella sperimentazione sul fronte dell’housing sociale e in particolare delle politiche di genere. Un ruolo centrale è svolto da una struttura specifica della realtà viennese, il Frauenbureau (Ufficio delle donne) con funzioni di coordinamento dei diversi livelli e temi della pianificazione urbana; inoltre il progetto si colloca nel più vasto contesto di incentivazione/educazione alla qualità urbana e dell’abitare, attivato in un rapporto dialettico tra pubblico e privato, a partire dai primi anni Novanta. In particolare il gruppo di progetti Frauen Werk Stadt, di cui il cohousing ro*sa diventa l’espressione più recente, ha visto il coinvolgimento di imprese e professionisti in una progettazione più attenta alle differenze e una maggiore attenzione alla richiesta di servizi, che, pur riguardando l’edilizia pubblica, ha indotto un adeguamento anche nell’edilizia privata.
Con ro*sa, si riconosce un ruolo da protagonisti ai cittadini, anzi alle cittadine: un virtuoso percorso di contrattazione tra queste e la pubblica amministrazione ha fatto sì che le attiviste potessero realizzare il progetto con un supporto pubblico soprattutto rivolto all’acquisizione del terreno e all’assistenza alla progettazione, ma al tempo stesso ha permesso all’amministrazione di avere in cambio una quota di alloggi di edilizia pubblica. Si sono cioè messe in atto delle politiche di “social mix”, volte a promuovere una composizione sociale disomogenea degli abitanti (evitando così la realizzazione di quartieri esclusivi o, al contrario, di ghetti di povertà). Nel caso di ro*sa questo ha portato all’inclusione di un gruppo di donne immigrate nel progetto, le quali, attraverso il cohousing, hanno potuto ampliare la propria rete di conoscenze amicali aprendo una finestra sul mondo culturale e sociale della città, con possibili buone ripercussioni anche a livello lavorativo.
In realtà il rapporto tra cittadini “attivi” e amministrazione locale non appare del tutto privo di ambiguità e attriti: infatti alcune clausole a cui è vincolato il supporto tramite sussidi pubblici, sono state inizialmente contestate dalle attiviste. Tra queste l’eliminazione di forme di discriminazione positiva, quale la scelta di concedere la titolarità dell’alloggio alle sole donne, ma anche la stessa cessione del 30% degli alloggi alla municipalità, vista come un rischio per le dinamiche di coesione e collaborazione interna.
Il caso di Ferrara segue lo sviluppo di un’azione dal basso declinata al femminile un po’ “per caso”, in relazione alla specifica sensibilità “di genere” al tema dell’abitare comunitario. Quest’esperienza, condotta entro il quadro dell’iniziativa privata, ha portato alla maturazione di capacità di innovazione e “imprenditorialità” al femminile che si avvalgono però, almeno nell’avvio, del sostegno di politiche istituzionali sensibili, e in particolare di quelle legate ad Agenda21 locale per cui la città di Ferrara è nota. A partire da un gruppo di acquisto solidale, nel 2008 nasce l’associazione di cohousing Solidaria, che continuerà ad essere supportata con misure indirette dalla pubblica amministrazione (apertura di canali informativi, formativi e divulgativi).
L’associazione è composta prevalentemente da impiegati pubblici, ben dotati in termini di cultura, tempo e know-how: si pensi solo alla capacità di individuare dei referenti pubblici a cui rivolgersi, alla conoscenza di tempi e modi dell’azione delle istituzioni, all’atteggiamento implicito di fiducia in queste ultime, pur nella consapevolezza dei loro limiti, che caratterizza tutto il percorso. Nonostante l’interesse dimostrato per l’iniziativa, quello che qui non si verifica è tuttavia un riconoscimento diretto del valore collettivo dei processi di empowerment attivati nella gestione del processo costruttivo, che è anche costruzione di senso in comune: questi aspetti, valutati molto positivamente dalle donne coinvolte, sono relegati dalle istituzioni in una dimensione privata. Il risultato è che i soggetti coinvolti non possono che essere limitati a coloro che sono già in partenza caratterizzati da quella dotazione iniziale, sia economica che culturale, che li ha resi in grado di auto-organizzarsi e di farsi coinvolgere dalle stesse politiche per la partecipazione attivate a livello locale. A ciò si aggiunga che la mancanza di un impegno più diretto del pubblico ha indotto l’impossibilità di supportare il gruppo nei momenti di
difficoltà, sempre più pesanti rispetto all’avanzamento del progetto proprio perché la crisi rende sempre più fragili e isolati gli stessi promotori iniziali.
L’occasione perduta, anche nel confronto con l’esempio viennese, è quella di sfruttare il processo avviato con il Cohousing per supportare più a fondo l’attivazione dei cittadini, coinvolgendo al tempo stesso nei processi di empowerment anche i soggetti più fragili: la possibilità di prevedere quote di alloggi sociali nei cohousing autopromossi, rappresenta sicuramente un’opportunità (da indagare anche in Italia) per costruire dei percorsi di inserimento in un contesto di apprendimento e responsabilizzazione, oltre che un implicito correttivo contro i rischi di una eccessiva omogeneità sociale e culturale.
Il cohousing esprime oggi la ricerca di un welfare spaziale che è stato un cavallo di battaglia storico delle lotte femministe, col risultato di ottenere un miglioramento della qualità urbana con ricadute positive molto più generali. Il tema, riproposto nei termini di un più ampio diritto alla città, è ancora di forte attualità, ma (come argomentato efficacemente in varie occasioni da Cristina Bianchetti (2)) corre il rischio di essere declinato in chiave di “diritti privatistici”, rivendicati da differenti gruppi sociali con scarsi contatti reciproci.
Imprescindibile è allora la capacità delle istituzioni di svolgere un ruolo di regia, che passa attraverso il riconoscimento dell’esistenza di interessi molteplici, da incanalare però nella costruzione di convergenze (per quanto instabili o mutevoli) in una dimensione di interesse collettivo, oltre che comunitario.
Le opportunità offerte dal cohousing in questo senso riguardano soprattutto le componenti di processo che lo caratterizzano: il controllo diretto dell’intero processo costruttivo da parte degli abitanti, se opportunamente accompagnato e supportato dal pubblico, offre l’opportunità di migliorare l’accessibilità economica dell’alloggio, sottraendolo a dinamiche speculative. Questa è la logica sviluppata storicamente dalle cooperative di abitazione, oggi riletta nel cohousing attraverso l’attenzione alle differenze espressa a partire dalle esigenze e caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti.
Se nel contesto della crisi, le pratiche di vita comunitaria possono rappresentare un nuovo luogo di produzione di servizi, occorre partire proprio dai punti irrisolti, che vanno esplicitati come stimoli per definire un rapporto tra pubblico e privato “attivo” in cui il ruolo della governance istituzionale è centrale nel rendere più aperti e inclusivi i percorsi attivati dal basso.
Note
(1) Il tema è stato trattato con maggiore dettaglio nel contributo presentato in occasione delle V conferenza Espanet “Risposte alla crisi. Esperienze, proposte e politiche di welfare in Italia e in Europa” (Roma, 20 — 22 Settembre 2012).
(2) Bianchetti C., 2012, L’abitare, oltre la stagione neo-fenomenologica, Atti della XV Conferenza Nazionale SIU “L’urbanistica che cambia. Rischi e valori”, in Planum. The Journal of Urbanism n.25, vol.2/2012
Nei capoluoghi di provincia italiani «in un decennio, dal 2000 al 2011, ilrapporto tra ordinanze e abbattimenti è solo del 10,6%». E già c'èda leccarsi le dita rispetto al passato e ai piccoli paesi. Corriere della Sera, 20 giugno 2013
Abbattuti, finalmente! Gli ecomostri che stupravano la splendida Scala dei Turchi non ci sono più. Ma sotto le ruspe deve finire in macerie anche la proposta pidiellina di togliere alle Procure l'ultima parola sulle demolizioni. Senza l'ultimatum dei giudici, infatti, quegli orrendi cadaveri cementizi agrigentini sarebbero ancora lì. Un quarto di secolo dopo la denuncia dell'abuso.
Era il 1989, quando venne tirato su il primo di quei mostri ai piedi di quella parete rocciosa di un bianco sfolgorante a picco sul mare sulla costa di Realmonte, in provincia di Agrigento. La rivolta studentesca di piazza Tienanmen era repressa coi carri armati, i sovietici si ritiravano dall'Afghanistan, Erich Honecker cercava barricarsi nella sua Germania Est comunista, a palazzo Chigi c'era Giulio Andreotti e lo scudetto andava all'Inter di Matthäus.
Insomma, era tanto tempo fa. E quegli osceni edifici al di qua e al di là della Scala dei Turchi vennero costruiti, sotto il profilo formale, «quasi» lecitamente. L'albergo fu inizialmente autorizzato dal municipio di Realmonte, pazzesco ma vero, nonostante fosse su terreno demaniale. Le dieci ville sulla spiaggia (di cui tre sole costruite almeno in parte prima del blocco dei cantieri) ottennero il via nonostante lo strumento urbanistico fosse scaduto. Di più: le concessioni, in violazione del vincolo paesaggistico, furono rilasciate a se stessi, a parenti, prestanome e amici da assessori, consiglieri e tecnici del comune di Realmonte.
Tutti i giochetti registrati più volte, negli ultimi decenni, soprattutto nel Mezzogiorno. E seguiti ogni volta da dispute processuali infinite e surreali: quale valore può avere una licenza concessa contro tutte le regole e tutti i piani paesaggistici da amministrazioni locali scellerate che magari, a volte, si sono pure vendute quelle autorizzazioni in cambio di mazzette? Anche lì a Realmonte, dove erano plateali gli sfregi alla legge e alle bellezze naturali subito denunciati dagli ambientalisti e in testa a tutti da Legambiente e dal suo leader di allora Giuseppe Arnone, le cose si sono trascinate, di ricorso in ricorso, per oltre un paio di decenni. A dispetto delle battaglie ambientaliste. Dei vincoli. Dei rifiuti alle pratiche di condono. Dell'inchiesta aperta dall'attuale questore della Camera Stefano Dambruoso che era al primo incarico in magistratura e fece ammanettare un po' di amministratori e tecnici.
Venti anni di ricorsi e contro-ricorsi, di perizie e contro-perizie, di fotocopie a quintali, di avvocati decisi ad attaccarsi al più minuscolo cavillo per tirarla in lungo. E mai un'ordinanza comunale di demolizione. Il paese è piccolo, pochi voti possono costare la rielezione, perché mai un sindaco dovrebbe cercare rogne mettendosi contro un po' di compaesani? E tutto ciò nonostante la richiesta all'Unesco, qualche tempo fa, di inserire la Scala dei Turchi tra i beni tutelati in quanto patrimonio dell'umanità! Una pretesa che, con quegli osceni scheletri cementizi di mezzo, era surreale e suicida...
Finché l'anno scorso, finalmente, dopo una cena dalle parti di Realmonte del procuratore Renato Di Natale, scandalizzato dalla scoperta («Nessuno in ventiquattro anni si era preoccupato di capire perché gli ecomostri fossero ancora lì!») decise di muoversi la magistratura agrigentina. Notificando a brutto muso al sindaco Piero Puccio, per mano del procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e del sostituto Antonella Gandolfi, un'ingiunzione a demolire immediatamente quei mostri di calcestruzzo.
«Immediatamente» coi tempi italiani, si capisce. Fatto sta che dopo nuovi ricorsi al Tar (respinti) e al Consiglio di giustizia amministrativa (respinti) sono arrivate finalmente le ruspe. Buttando giù giorni fa lo scheletro dell'albergo e tra ieri e oggi gli scheletri delle ville. Dopo di che, se non ci vorranno altri vent'anni per rimuovere le macerie, la Scala dei Turchi tornerà ad essere quella meraviglia naturale che i più giovani non hanno mai potuto vedere nella sua abbagliante bellezza.
Proprio il caso che abbiamo raccontato dimostra quanto siano faticose queste battaglie per la legalità. E quanto sia insensato, quindi, il disegno di legge firmato dal senatore pidiellino campano Ciro Falanga che vorrebbe togliere alle Procure la competenza in materia di esecuzione delle demolizioni. Proposta che arriva dopo 18 tentativi a partire dal 2010, tutti e 18 respinti, di far passare un nuovo condono edilizio almeno per la Campania, la regione storicamente più devastata dal cemento fuorilegge. Si pensi a Ischia: 62.000 abitanti, 28.000 abusi.
Davanti alle proteste degli ambientalisti e di una parte della sinistra, che col presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza accusano Falanga di volere «legare le mani a chi, in un Paese devastato dal mattone illegale, ha provveduto fino a oggi alle demolizioni», il senatore berlusconiano ha risposto che si tratta solo di «dare ai cittadini, destinatari di tali provvedimenti, la possibilità di godere di tutte le garanzie del procedimento amministrativo». E si è avventurato a sostenere che «chi s'oppone negando tale sistema di garanzie, si assume tutte le responsabilità di eventuali tragici accadimenti ed il rischio di vite umane». Come se gli abusi fossero fatti solo da poveracci obbligati da chissà chi a violare le regole e costruirsi illegalmente la prima casa. Cosa che, come dimostrano il caso di Realmonte, quello dell'hotel Alimuri a Vico Equense e tanti altri, è assolutamente falsa.
Di più, spiega il dossier «Ecomafia 2013» di Legambiente sui comuni capoluoghi di provincia che «in un decennio, dal 2000 al 2011, il rapporto tra ordinanze e abbattimenti è solo del 10,6%». E già c'è da leccarsi le dita rispetto al passato e ai piccoli paesi dove il rapporto fra le amministrazioni e i cittadini è più diretto ma anche più vischioso. Basti dire negli anni 90 in Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, che da sole coprono il 37% degli abusi, le ruspe entrarono in azione contro gli edifici abusivi «non sanabili» e colpiti da ordine di demolizione, soltanto nello 0,97% dei casi. E vogliamo lasciare la responsabilità ai comuni? Ma dai...
Ciò che tutti prevedevano (salvo gli accecati dallo "sviluppismo"): lo spreco delle risorse e la devastazione del patrimonio sono stati inutili a tutti i fini, anche a quelli della "crescita" del sistema capitalisico. greenreport, 20 giugno 2013
Il Presidente dell’Aitec, Alvise Zillo Monte Xillo, ha detto: «Invochiamo misure di rilancio dell’edilizia e dei progetti infrastrutturali: il Paese necessita di un piano di riqualificazione urbana in chiave di efficienza e sostenibilità». Parole nuove, ma bisogna capire a cosa pensano Zillo ed i suoi soci quando parlano di infrastrutture perché quelle che ha in testa ancora Confindustria sono quelle pesantissime e contestatissime che ben poco hanno a che fare con l’efficienza e la sostenibilità.L’Aitec sottolinea quello che da tempo diciamo anche qui a greenreport.it: «La crisi economica ha avuto impatto sull’industria del cemento più che su qualunque altro comparto: nel 2012 il decremento della produzione è stato di oltre un quinto ed ha portato così a dimezzare complessivamente i volumi nell’arco degli ultimi sette anni, in linea con l’andamento fortemente negativo del comparto delle costruzioni».
Uno scenario drammatico, soprattutto in un Paese che per lunghi anni ha avuto il record di consumo pro-capite di cemento ed il record della cementificazione del territorio e dell’abusivismo edilizio. Di fronte a questa crisi che è frutto di scelte sbagliate e della speranza che tutto continuasse come prima e più di prima in un settore più che maturo, «La filiera del cemento e del calcestruzzo lancia alle istituzioni un appello per l’adozione di politiche industriali strutturali in grado di far ripartire gli investimenti in edilizia e infrastrutture».
L’assemblea Aitec è stata l’occasione per il convegno “Edilizia e infrastrutture: opportunità di rilancio per il Paese” che ha messo a confronto ’imprenditoria, istituzioni ed esperti. Dai dati della Relazione Annuale di Aitec emerge che «Nel 2012 la produzione di cemento in Italia si è ridotta drasticamente, con un calo pari al 20,8% rispetto al 2011, attestandosi a 26,2 milioni di tonnellate. Anche i consumi di cemento hanno registrato una riduzione del 22,1% nell’anno, arrivando a perdere il 45% circa rispetto al massimo raggiunto nel 2006. Le prospettive per il 2013 permangono critiche, con l’attesa di un ulteriore forte calo dei consumi intorno al 20-25%, dopo che nel primo trimestre 2013 si è già registrato un decremento del 22,4%, e con una situazione di capacità produttiva in eccesso al momento stimata al 40-50%».
La filiera del cemento è comunque praticamente ferma in gran parte dell’Unione europea a 27, dove però il calo medio di domanda e produzione, anche se alto, si è attestato intorno al 19%, La Germania mantiene il ruolo di primo produttore e l’Italia in crisi nera si conferma comunque al secondo posto. Il rapporto sottolinea che «Tra i Paesi più importanti, proprio la Germania e la Francia sono riuscite a contenere più di altri la crisi, con un calo della produzione pari rispettivamente al 3,6% e al 7,3%» e questi due grandi Paesi non hanno certo il nostro tasso di consumo di suolo ed hanno ben atre politiche urbanistiche e/o infrastrutturali ed un’edilizia meno intossicata dalla rendita.
Ritornando al rapporto Aitec, «Il peso dell’export è aumentato nel 2012, arrivando a rappresentare una quota del 6,6% delle destinazioni del cemento, ma permane per ragioni strutturali, legate soprattutto all’elevata incidenza del trasporto sul costo finale del prodotto, l’impossibilità di considerarlo uno sbocco per compensare la carenza di domanda interna». Il settore del calcestruzzo preconfezionato, assorbendo circa il 49% della produzione, continua ad essere il comparto più rilevante tra quelli di destinazione del cemento, ma «Ha vissuto un anno molto negativo, facendo registrare un calo dei volumi di produzione pari al 22,5%, in linea con gli effetti della crisi sull’intera filiera».
Secondo il presidente dell’Aitec «Il rilancio di edilizia e infrastrutture rappresenterebbe un’opportunità di sviluppo per l’intero Paese, con effetti moltiplicativi su occupazione ed investimenti. Non è più rinviabile la decisione di avviare un piano di riqualificazione urbana, ispirato all’efficienza energetica e alla sostenibilità ambientale, in linea con quanto fatto nel resto d’Europa e che possa mettere al centro dell’attenzione il recupero di un patrimonio edilizio italiano, uno dei più vetusti in assoluto».
Qui si osserva veramente un cambio di passo, come i cementieri che cominciano a dire cose che fino solo a qualche mese fa bollavano come ubbie ambientaliste: «Proprio il tema del recupero del patrimonio abitativo italiano è oggi al centro delle proposte di Aitec. Il 60% degli edifici, pari a 1,5 milioni di unità, è stato costruito prima del 1974, anno di entrata in vigore della prima normativa antisismica e necessita pertanto di messa in sicurezza. Tale intervento di demolizione e ricostruzione, ad impatto zero pertanto in termini di consumo di suolo, consentirebbe circa 10 anni di piena occupazione per il mondo delle costruzioni e il riassorbimento di 600.000 addetti della filiera».
La proposta di Aitec è simile a quella che da anni fanno associazioni come Itala Nostra, Legambiente, Inu e gli urbanisti più avveduti: «Concentrare gli interventi sulle aree industriali dismesse e sui quartieri residenziali caratterizzati da una scarsa qualità architettonica e inadeguati rispetto alle attuali normative sismiche, idrogeologiche e di risparmio energetico. Il passaggio dalla demolizione alla ricostruzione può inoltre prevedere forme di reimpiego degli scarti provenienti dalla demolizione, ad esempio ricavando dal calcestruzzo armato gli aggregati per i nuovi conglomerati cementizi, limitando in tal modo sia il consumo di materie prime che il ricorso alle discariche».
Si potrebbe chiosare che dai diamanti non nasce niente, ma che dalla crisi del cemento italiano potrebbe anche nascere una nuova politica urbanistica che faccia tesoro dell’ingordo assalto al territorio che ci ha portato alla attuale crisi verticale della rendita diventata improvvisamente un insostenibile fardello, non solo per il paesaggio e la bellezza dell’Italia “assassinata dal catrame e dal cemento”, ma anche per le tasche di chi sul consumo di territorio ha investito.
Nell'Italia della Grande Frenata - economica, sociale, politica - le uniche industrie che non rallentano sono quelle del malaffare. Non recedono le agromafie e i traffici di rifiuti tossici, la tratta di schiavi e la prostituzione. Basta scorrere le aride cifre di dossier e rapporti che associazioni e sindacati periodicamente diffondono, per rendersene conto.
Da ultimo, l'annuale rapporto Ecomafie di Legambiente - presentato ieri mattina a Roma - legge in controluce il dibattito politico sull'abolizione dell'Imu e i periodici tentativi di infilare un condono edilizio tra le righe di provvedimenti che legiferano su tutt'altro. Denuncia il presidente dell'associazione, Vittorio Cogliati Dezza: «Quella delle ecomafie è l'unica economia che continua a proliferare anche in un contesto di crisi generale e a costruire case abusive quasi allo stesso ritmo di sempre, mentre il mercato immobiliare legale tracolla. Con imprese illegali che vedono crescere fatturati ed export, quando quelle che rispettano le leggi sono costrette a chiudere i battenti. Un'economia che si regge sull'intreccio tra imprenditori senza scrupoli, politici conniventi, funzionari pubblici infedeli, professionisti senza etica e veri boss, e che opera attraverso il dumping ambientale, la falsificazione di fatture e bilanci, l'evasione fiscale e il riciclaggio, la corruzione, il voto di scambio e la spartizione degli appalti. Semplicemente perché conviene e, tutto sommato, si corrono pochi rischi».
Al netto degli aspetti penal-giudiziari, dal punto di vista politico-sociale quello che Cogliati Dezza denuncia è il sempiterno «blocco edilizio» di cui parlava Valentino Parlato in un memorabile articolo del 1970 sulla Rivista del manifesto. Parlato riprendeva Engels, secondo il quale «gli esponenti più accorti delle classi dominanti hanno sempre indirizzato i loro sforzi ad accrescere il numero dei piccoli proprietari, allo scopo di allevarsi un esercito contro il proletariato» per mostrare come quel «blocco edilizio», composto da «residui di nobiltà finanziaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, grandi imprese e capimastri, cottimisti», rappresentava un esercito in grado di bloccare qualsiasi riforma. È lo stesso «blocco» legato al ciclo del cemento che, secondo Vezio de Lucia (La città dolente, Castelvecchi editore), in appena un sessantennio ha cambiato i connotati a un Paese rimasto sostanzialmente immutato per due millenni.
In Italia, spiega Legambiente, l'incidenza dell'edilizia illegale nel mercato delle costruzioni è passata dal 9% del 2006 - alla vigilia della crisi, dunque - al 16,9% stimato per il 2013. Se il crollo del mercato immobiliare ha fatto più che dimezzare le nuove abitazioni - da 305 mila a 122 mila - quelle abusive sono rimaste sostanzialmente invariate: dalle 30 mila del 2006 alle 26 mila del 2013. La spiegazione va ricercata nelle spietate leggi del mercato: costruire una casa in regola costa mediamente 155 mila euro, edificarne una abusiva consente di ridurre le spese a un terzo, non più di 66 mila. Se si valuta, poi, che vedersela abbattere ha quasi la stessa probabilità che vederla crollare per una calamità naturale, si arriva alla conclusione che costruire senza tener conto di vincoli e piani regolatori conviene, e non c'è bisogno di essere dei delinquenti incalliti per diventare un piccolo abusivo. A maggior ragione se si ha la ragionevole certezza che prima o poi arriverà un colpo di spugna: dagli anni '80 a oggi ce ne sono stati tre - uno a firma Craxi, gli altri due Berlusconi.
Alcune brevi considerazioni, dopo la lettura dei due disegni di legge:
1. Innanzitutto, c’è un problema di corrispondenza tra etichetta e contenuto, tra gli obiettivi dichiarati e quelli realmente perseguiti. Il ddl Realacci dedica al consumo di suolo meno di un terzo del testo dell’articolato. Il 70% del ddl è funzionale all’introduzione, con legge nazionale, degli istituti classici dell’urbanistica contrattata (perequazione, compensazione, trasferimento di diritti edificatori connaturati alla proprietà delle aree). Il consumo di suolo c’entra poco, lo scopo è quello di superare la 1150/42 e di mettere la mordacchia all’articolo 42 della Costituzione.
2. Il ddl governativo, invece, opera effettivamente entro il quadro del problema che si intende affrontare. La scelta è per il modello tedesco, basato sulla quantificazione di obiettivi quantitativi di consumo di suolo a scala nazionale e regionale. Gli obiettivi sono definiti e gestiti, con meccanismi co-decisionali contingentati, dal Governo e dalla Conferenza Stato-Regioni.
3. Il ddl Realacci simula un dispositivo in apparenza simile, declassandolo prudentemente però al rango di intese strategiche Stato-Regioni, su obiettivi generici di contenimento del consumo di suolo. Si tratta di fuffa allo stato puro.
4. Al posto degli obiettivi quantitativi stringenti proposti dal ddl governativo, il ddl Realacci punta tutto sui disincentivi economici: gli oneri di urbanizzazione triplicano nel caso di urbanizzazione di suoli forestali o a elevata naturalità, duplicano nel caso di suoli agricoli. E’ una scelta singolare nel panorama europeo, nel quale la leva economica è sempre complementare a quella regolativa, sia nel modello tedesco, sia in quello inglese, basato su obiettivi vincolanti di riuso di brownfields.
5. La maggiorazione degli oneri di urbanizzazione - misura di apparente concretezza -, finisce per avere in realtà un’effettività tutta simbolica, rispetto all’entità del plusvalore generato dalla trasformazione edilizia di suoli agorforestali.
6. C’è pure da osservare che le dinamiche di uso delle terre in Italia, con le formazioni forestali in fase di impetuosa espansione, e le aree agricole consumate al ritmo di 35.000 ettari l’anno (quattro volte la città di Napoli, i tre quarti nelle pianure fertili del Paese). non giustificano il maggior peso attribuito al naturale rispetto all’agricolo. Paradossalmente dovrebbe essere il contrario.
7. Il ddl Realacci prevede anche la possibilità, al posto del pagamento monetario, della cessione di aree verdi con funzioni di compensazione ecologica. In Germania queste cose si fanno, sulla base di procedure molto rigorose, e sempre come estrema ratio. Come introdotte dal ddl Realacci, di opzione percorribile in prima battuta, un simile istituto prefigura un doppio danno, con il consumo consentito di paesaggio rurale di qualità, in cambio di spazi banali, la cui gestione e destino futuri sono tutta un’incognita.
8. In conclusione: il ddl Realacci con il consumo di suolo e con la tutela delle aree agroforestali c’entra veramente poco: è una strana legge urbanistica camuffata. Il ddl governativo costituisce invece un’ottima base di discussione, per dare al Paese uno strumento efficace, del quale c’è assolutamente bisogno.
Un utile confronto tra alcuni testi di legge sul consumo di suolo (Realacci-Catania, Causi, Lanzillotta, Stefano, Catania-Realacci) :cercando di fare chiarezza in un panorama confuso, dove buone intenzione pronunciate e perverse intenzioni praticate ambiguamente s'intrecciano. 16.6.2013
Tra le poche decisioni positive del governo, l'approvazione di un ddl sul consumo di suolo che riprende i contenuti del ddl Catania, con l'effetto di sparigliare il gioco dei lupacchiotti e mettere ai margini la "minaccia Realacci". In calce il testo del provvedimento.
Testo del provvedimento
Disegno di legge - Contenimento del consumo del suolo eriuso del suolo edificato
Art. 1.
(Finalità e ambito della legge)
1. La presente legge detta princìpi fondamentali dell'ordinamento ai sensidegli articoli 9 e 117 della Costituzione per la valorizzazione e la tutela delsuolo non edificato, con particolare riguardo alle aree e agli immobilisottoposti a tutela paesaggistica e ai terreni agricoli, al fine di promuoveree tutelare l'attività agricola, il paesaggio e l'ambiente, nonché di contenereil consumo di suolo quale bene comune e risorsa non rinnovabile che esplicafunzioni e produce servizi ecosistemici e che va tutelato anche in funzionedella prevenzione e mitigazione degli eventi di dissesto idrogeologico.
2. La priorità del riuso e della rigenerazione edilizia del suolo edificatoesistente, rispetto all'ulteriore consumo di suolo inedificato, costituisceprincipio fondamentale della materia del governo del territorio. Salve leprevisioni di maggiore tutela delle aree inedificate introdotte dallalegislazione regionale attuativa, il principio della priorità del riusocomporta almeno l'obbligo di adeguata e documentata motivazione, in tutti gliatti progettuali, autorizzativi, approvativi e di assenso comunque denominatirelativi a interventi pubblici e privati di trasformazione del territorio,circa l'impossibilità o l'eccessiva onerosità di localizzazioni alternative suaree già interessate da processi di edificazione, ma inutilizzate o comunquesuscettibili di rigenerazione, recupero, riqualificazione o più efficientesfruttamento.
3. Le politiche di tutela e di valorizzazione del paesaggio, di contenimento del consumo del suolo e di sviluppo territorialesostenibile sono coordinate con la pianificazione territoriale e paesaggistica.
Art. 2.
(Definizioni)
1. Ai fini della presente legge, si intende:
a) per «superficie agricola»: i terreni qualificati tali dagli strumentiurbanistici nonché le aree di fatto utilizzate a scopi agricoliindipendentemente dalla destinazione urbanistica e le aree, comunque libere daedificazioni e infrastrutture, suscettibili di utilizzazione agricola;
b) per «consumo di suolo»: la riduzione di superficie agricola per effetto diinterventi di impermeabilizzazione, urbanizzazione ed edificazione non connessiall'attività agricola.
7. Con decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali,d'intesa con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del maree con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, e acquisita altresìl'intesa della Conferenza unificata, è istituito, senza nuovi o maggiori oneriper il bilancio dello Stato, un Comitato con la funzione di monitorare ilconsumo di superficie agricola sul territorio nazionale e l'attuazione dellapresente legge. Il Comitato opera presso la Direzione generale per lapromozione della qualità agroalimentare del Dipartimento delle politichecompetitive, della qualità agroalimentare e della pesca del Ministero dellepolitiche agricole alimentari e forestali e le funzioni di segreteria sonosvolte dalla Direzione medesima nell'ambito delle ordinarie competenze. Allespese di funzionamento del Comitato si fa fronte nei limiti delle risorsefinanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente. La partecipazioneal Comitato è a titolo gratuito e non comporta l'attribuzione di alcunaindennità neanche a titolo di rimborso spese. Il Comitato redige, entro il 31dicembre di ogni anno, un rapporto sul consumo di suolo in ambito nazionale,che il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali presenta, entroil 31 marzo successivo, al Parlamento.
8. Il decreto di cui al comma 7 è adottato entro sei mesi dalla data di entratain vigore della presente legge.
9. Il Comitato di cui al comma 7 è composto da:
a) due rappresentanti del Ministero delle politiche agricole alimentari eforestali;
b) due rappresentanti del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorioe del mare;
c) due rappresentanti del Ministero per i beni e le attività culturali;
d) due rappresentanti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;
e) un rappresentante del Dipartimento della protezione civile della Presidenzadel Consiglio dei Ministri;
f) un rappresentante dell'Istituto nazionale di statistica;
g) sette rappresentanti designati dalla Conferenza unificata, di cui duerappresentanti dell'Unione delle province italiane (UPI) e due rappresentantidell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI).
10. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano stabiliscono,entro il limite di cui al comma 1 e con la cadenza temporale decennale di cuial comma 4, l'estensione della superficie agricola consumabile a livelloprovinciale e determinano i criteri e le modalità per la definizione dei limitid'uso del suolo agricolo nella pianificazione territoriale degli enti locali,fatti salvi i diversi sistemi di pianificazione territoriale regionale. Illimite stabilito con il decreto di cui al comma l rappresenta, per ciascunambito regionale, il tetto massimo delle trasformazioni edificatorie di areeagricole che possono essere consentite nel quadro del piano paesaggistico,ferma restando la possibilità che tale strumento, nella definizione diprescrizioni e previsioni ai sensi dell'articolo 135, comma 4, del codice deibeni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004,n. 42, e successive modificazioni, e in attuazione, in particolare, di quantoprevisto dalla lettera c) del medesimo comma 4 dell'articolo 135, determinipossibilità di consumo del suolo complessivamente inferiori.
Art. 4.
(Priorità del riuso)
1. Al fine di attuare il principio di cui all'art. 1, comma 2, i Comuni,nell'ambito dell'espletamento delle proprie ordinarie competenze e senza nuovio maggiori oneri a carico della finanza pubblica, procedono al censimento dellearee del territorio comunale già interessate da processi di edificazione, mainutilizzate o suscettibili di rigenerazione, recupero, riqualificazione;procedono altresì, all'interno delle aree censite, alla costituzione e allatenuta di un elenco delle aree suscettibili di prioritaria utilizzazione a finiedificatori di rigenerazione urbana e di localizzazione di nuovi investimentiproduttivi e infrastrutturali.
2. Il censimento e la formazione dell'elenco di cui al comma 1 sono effettuatientro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presentelegge e l'elenco è aggiornato annualmente. I Comuni vi provvedono ancheattraverso gli sportelli unici per le attività produttive e gli sportelli uniciper l'edilizia, avvalendosi della collaborazione delle Camere di commercio edei Consorzi delle aree di sviluppo industriale e stipulando appositi accordidi collaborazione con le associazioni imprenditoriali del territorio.
3. Decorso il termine di cui al comma 2 senza che il censimento sia statoconcluso o senza che l'elenco sia stato redatto, è vietata la realizzazione,nel territorio del Comune inadempiente, di interventi edificatori, sia pubbliciche privati, sia residenziali, sia di servizi che di attività produttive,comportanti, anche solo parzialmente, consumo di suolo inedificato.
Art. 5
(Divieto di mutamento di uso delle superfici agricole)
1. Ferme restando le vigenti disposizioni di legge in materia di urbanistica epianificazione del territorio, le superfici agricole in favore delle quali sonostati erogati aiuti di Stato o aiuti europei non possono essere utilizzate peruno scopo diverso da quello agricolo per almeno cinque anni dall'ultimaerogazione. Sono comunque consentiti, nel rispetto degli strumenti urbanisticivigenti, gli interventi strumentali all'esercizio delle attività di cuiall'articolo 2135 del codice civile, ivi compreso l'agriturismo, fatte salve ledisposizioni contenute nell'articolo 10 della legge 21 novembre 2000, n. 353, esuccessive modificazioni.
2. Negli atti di compravendita dei terreni di cui al comma 1 deve essereespressamente richiamato il vincolo indicato nel comma 1 pena la nullitàdell'atto.
3. Fatto salvo quanto previsto dalle disposizioni previste dal testo unico dicui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, nel casodi violazione del divieto di cui al comma 1 si applica al trasgressore lasanzione amministrativa non inferiore a 5.000 euro e non superiore a 50.000 euroe la sanzione accessoria della demolizione delle opere eventualmente costruitee del ripristino dello stato dei luoghi.
Art. 6.
(Misure di incentivazione)
1. Ai comuni e alle province che avviano azioni concrete per localizzare leprevisioni insediative prioritariamente nelle aree urbane dismesse e cheprocedono al recupero dei nuclei abitati rurali mediante manutenzione,ristrutturazione, restauro, risanamento conservativo di edifici esistenti edella viabilità rurale e conservazione ambientale del territorio, è attribuitapriorità nella concessione di finanziamenti statali e regionali eventualmenteprevisti in materia edilizia.
2. Il medesimo ordine di priorità di cui al comma 1 è attribuito ai privati,singoli o associati, che intendono realizzare il recupero di edifici e delleinfrastrutture rurali nei nuclei abitati rurali, mediante gli interventi di cuial comma 1.
3. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, per le finalità dicui all'articolo 1, possono individuare misure di semplificazione, e misure diincentivazione, anche di natura fiscale, per il recupero del patrimonioedilizio esistente.
Art. 8.
(Destinazione dei proventi dei titoli abilitativi edilizi)
1. I proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni di cuiall'articolo 5, nonché delle sanzioni di cui al citato testo unico di cui aldecreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, sono destinatiesclusivamente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria esecondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, ainterventi di qualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini dellamessa in sicurezza delle aree esposte a rischio idrogeologico.
Art. 9
(Disposizioni transitorie e finali)
1. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino allaadozione del decreto di cui all'articolo 3, comma 1, e comunque non oltre iltermine di tre anni, non è consentito il consumo di superficie agricola tranneche per la realizzazione di interventi già autorizzati e previsti daglistrumenti urbanistici vigenti, nonché per i lavori e le opere già inseritinegli strumenti di programmazione delle stazioni appaltanti e nel programma dicui all'articolo 1 della legge 21 dicembre 2001, n. 443.
2. Sono fatte salve le competenze attribuite in maniera esclusiva alle regionia statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano.
3. La presente legge costituisce legge di riforma economica-sociale ed èattuata dalle regioni a statuto speciale e dalle province autonome di Trento edi Bolzano nel rispetto dei relativi statuti e delle disposizioni diattuazione.
E il catalogo delle sciagure cucinate dai saccheggiatori “pacificati” non è finito: vedi la sintesi del "pacchetto semplificazioni", tratto da Edilportale, in calce. Qualcuno finalmente si opporrà? Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2013. Con postilla
Se il Ddl semplificazione, ancora in bozza, non verrà cambiato il paesaggio subirà un altro schiaffo. Iniziamo dalla riduzione dei tempi da 90 a 45 giorni per l'autorizzazione paesaggistica. Ecco cosa ne pensa Salvatore Settis, docente alla Normale di Pisa, uno dei più autorevoli e appassionati difensori della tutela del paesaggio e dell'ambiente, e vincitore del prestigioso premio letterario Gambrinus "Giuseppe Mazzotti": “È completamento sbagliato. Già i tempi sono stretti e le sovraintendenze non sono in condizione di lavorare visto il massiccio ridimensionamento del personale dovuto a pensionamenti che non vengono sostituiti”.
In cantiere c'è una procedura semplificata per ottenere l'autorizzazione edilizia e anche un decreto del Presidente della Repubblica sulle autorizzazioni paesaggistiche.Come si può “semplificare” d'ufficio anche nelle aeree soggette a vincolo individuale? Le cosiddette semplificazioni non debbono mai essere fatte a discapito della tutela del paesaggio, proprio come recita il principio sancito dall'art. 9 della Costituzione. Sarebbe un altro modo per mortificare il compito della sovraintendenza che negli ultimi anni ha subito tagli. Prima dal governo Berlusconi, poi da quello Monti. Semplificare non equivale ad andare contro la Costituzione.
No. Realacci può rispondere ciò che vuole: è una legge sbagliata che non è contro il consumo di suolo ma lo incrementa. Ripeto: è un bel titolo, peccato che il testo abbia invece l’aspetto di un patto scellerato fra guardie e ladri di territorio. Alcuni firmatari della proposta Realacci mi hanno confessato di aver firmato sulla fiducia, senza capirne il senso. Mi chiedo: per quanto “larghe” siano le intese su cui si regge il governo, come possono passare inosservate queste norme-inciucio? Sono attentati al paesaggio e all’ambiente nonostante il ministro dell'Ambiente Orlando abbia definito prioritario il rischio idrogeologico, la tutela degli ecosistemi, la riduzione del consumo di territorio, la panificazione delle risorse idriche. La domanda è: nel buio delle “larghe intese”, come lavora questo Parlamento eletto con il Porcellum? Come può essere legittimato non dico a varare, ma anche solo sognare una qualsiasi riforma della Costituzione?”.
L’ulteriore provvedimento sulle “semplificazioni” delle autorizzazioni edilizie, cui si fa cenno nell’articolo, (ne riportiamo qui sotto la sintesi da Edilportale) sono tutte volte a ridurre i controlli sulla legittimità e gli effetti delle procedure tecnico-amministrative. Sarebbe bene che i cittadini (almeno quelli che sono stati eletti – diciamo così – eletti per governare sapessero che quelle procedure sono una garanzia dei vari aspetti dell’interesse pubblico coinvolto nelle trasformazioni del territorio. L’esperienza insegna che quelle procedure corrispondono a tempi più o meno lunghi a seconda del modo in cui gli uffici pubblici funzionano: dove i comuni, le province e le regioni funzionano bene la procedura per l’approvazione di un piano urbanistico o di un progetto edilizio conforme alle regole può durare dieci o cento volte meno in un ufficio quailficato e attrezzato bene di quanto ne impiega un’analogo ufficio peggio qualificato e attrezzato. Da un trentennio circa contro gli uffici pubblici è in atto una campagna accanita di parole e fatti tendenti a indebolirne il ruolo, la responsabilità, l’autorevolezza, le capacità operative. Con le “semplificazioni” la campagna giunge alla sua logica conclusione: non “meno stato più mercato, ma “via lo stato, basta il mercato” E poi questi coccodrilli piangono sul consumo di suolo e la distruzione del paesaggio…Mais allez chier, direbbero Oltralpe (e.s.)
Ecco una sintesi del “pacchetto semplificazioni”, tratta da Edilportale
«12/06/2013 - Le ristrutturazioni con demolizione e ricostruzione non dovranno più rispettare il vincolo della sagoma dell’edificio preesistente. È una delle proposte contenute nel pacchetto per le semplificazioni all’esame del Governo. Nel testo spiccano anche l’obbligo di adottare un provvedimento espresso per il rilascio del permesso di costruire per lavori su beni vincolati e la proroga di due anni dei titoli abilitativi.
«Permesso di costruire
«In caso di interventi sui beni vincolati, la normativa attuale prevede che se uno degli atti di assenso dell’autorità preposta alla tutela del vincolo non è favorevole, dopo 30 giorni dalla proposta di provvedimento scatta il silenzio-rifiuto.
Il Pacchetto Semplificazioni propone invece che, dopo il rilascio dell’atto di assenso da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, il Comune concluda il procedimento per il rilascio del permesso di costruire con un provvedimento espresso e motivato. Nel caso in cui l’atto di assenso venga negato, scaduto il termine per il rilascio del permesso di costruire, questo si intende respinto. Come si legge nella relazione illustrativa, il cittadino risulta maggiormente tutelato da questa soluzione perché può subito impugnare il silenzio rifiuto.
Per quanto riguarda gli immobili vincolati, il testo del Pacchetto Semplificazioni specifica che, in caso di inerzia da parte della Soprintendenza, il Comune può pronunciarsi a prescindere dal parere.
Proroga dei titoli abilitativi
Per agevolare la prosecuzione delle attività edilizie, la bozza propone la proroga di due anni per Permesso di costruire, Dia e Scia. Se la misura dovesse passare, i lavori non dovranno più iniziare entro un anno dal rilascio del titolo abilitativo e concludersi entro tre anni dall’avvio dei lavori, ma avranno a disposizione un tempo maggiore. In questa direzione si stanno muovendo già alcune Regioni, come le Marche.»
«Scia e Sportello unico per l’edilizia
«Secondo la normativa attuale, lo Sportello Unico per l’Edilizia (SUE), deve acquisire direttamente o tramite conferenza di servizi gli atti di assenso necessari per il rilascio del permesso di costruire. Il Pacchetto Semplificazioni prevede che l’interessato, anche prima di presentare la Scia o la comunicazione di inizio lavori, possa richiedere al SUE di acquisire gli atti di assenso necessari per l’intervento edilizio. In questo caso i termini sono dimezzati perché se entro 30 giorni gli atti di assenso non vengono rilasciati il SUE indice la conferenza di servizi.»
«Attività di edilizia libera
«Il testo della bozza propone di eliminare l’obbligo di allegare alla comunicazione di inizio lavori la relazione asseverata dal tecnico abilitato che dichiara di non avere rapporti di dipendenza né con l’impresa né con il committente.»
Da un gruppo di amici di eddyburg, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Luca De Lucia, Antonio di Gennaro, Edoardo Salzano, Giancarlo Storto, una proposta di legge statale, essenziale e rigorosa, per contrastare nell’immediato il consumo di suolo da dissennata espansione dell’urbanizzato. 3 giugno 2013
Relazione
Ricerche convergenti evidenziano come ogni anno, in Italia, si urbanizzano 35.000 ettari di suolo agricolo e forestale, una superficie pari a 4 volte quella di una città come Napoli (MIRAF, 2012). I tre quarti della crescita urbana interessano le pianure fertili del paese: si tratta di aree strategiche per la sicurezza alimentare della nazione (il tasso di auto approvvigionamento alimentare dell’Italia è attualmente, secondo i dati forniti dal MIRAF, intorno all’80-85%), a più elevata capacità produttiva, sovente caratterizzate da aspetti rilevanti di rischio idraulico e di fragilità ambientale. Un aspetto preoccupante del fenomeno, quando analizzato alla scala geografica nazionale, è che se da un lato la crescita urbana tende a concentrarsi, in termini di valori assoluti, nelle regioni a più elevato tasso di urbanizzazione (Lombardia, Emilia Romagna, Campania, dove si è prossimi o si è superato il valore del 10% della superficie territoriale), i tassi più alti di crescita urbana si riscontrano invece in regioni “insospettabili”, nelle quali il territorio e il paesaggio rurale si presentano più integri, come per esempio la Basilicata e il Molise (ISTAT, 2012), dove appaiono particolarmente attive le dinamiche di dispersione insediativa.
Il ritmo vertiginoso della nuova edificazione in territorio agricolo e nello spazio aperto è stato determinato in particolare da due fattori: da una parte, l’abbandono di un patrimonio sempre più vasto di immobili (privati e pubblici) dismessi, sottoutilizzati, variamente degradati; dall’altra, la realizzazione di nuovi insediamenti a bassa e bassissima densità. Basta citare alcuni dati relativi al comune di Roma, dove ammonta a circa 15 mila ettari, un quarto della città costruita, la stima della superficie urbanizzata da rigenerare (G. Caudo, 2013), e dove sono state realizzate nuove espansioni con densità insediative irrisorie (13 abitanti ad ettaro, W. Tocci, 2008), da borgo rurale e non da città europea.
La presente proposta intende contrastare questa drammatica situazione attraverso rigorose norme statali, immediatamente efficaci, che consentano di bloccare il consumo del suolo, avviando contemporaneamente un’azione a vasta scala di recupero e rigenerazione del patrimonio immobiliare abbandonato e di miglior uso delle aree edificate a bassa densità. È appena il caso di chiarire che la strategia proposta non va confusa con il cosiddetto sviluppo zero. Siamo pienamente consapevoli che i bisogni da soddisfare in Italia sono ancora enormi, anche se diversi da luogo a luogo, e sarebbe insensato pensare di limitarli: le disponibilità di spazio all’interno del territorio urbanizzato consentono di far fronte tranquillamente a ogni necessità.
È apparso invece opportuno e convincente indicare – all’art. 1 della proposta – che la salvaguardia del territorio non urbanizzato, in considerazione della sua valenza ambientale e della sua diretta connessione con la qualità di vita dei singoli e delle collettività, costituisce parte integrante della tutela dell’ambiente e del paesaggio. In quanto tale, la relativa disciplina rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione. Questo cambio di prospettiva, che si traduce in una significativa compressione delle competenze legislative delle regioni, è giustificato dal valore collettivo che tali porzioni di territorio hanno assunto non solo per i singoli e le collettività di oggi ma, in una logica di solidarietà intergenerazionale, anche per quelli di domani.
L’art. 2 fornisce – al comma 1 – un’essenziale definizione del territorio urbanizzato formato da centri storici ed espansioni recenti. Mentre – al comma 2 – il territorio non urbanizzato è articolato in tre segmenti: aree naturali, aree agricole, aree incolte. Il comma 3 rappresenta il nucleo centrale della proposta consentendo interventi di nuova edificazione esclusivamente nell’ambito delle aree urbanizzate. L’eccezionalità di eventuali deroghe – al comma 4 – è resa evidente dall’aver subordinato il loro assentimento ad appositi provvedimenti, caso per caso, dei consigli regionali.
L’art. 3 – al comma 1 – fissa in 120 giorni il termine entro il quale i comuni provvedono con deliberazione consiliare a perimetrare il territorio urbanizzato e stabilisce – al comma 2 – termini e procedure per l’esercizio dei poteri sostitutivi regionali in caso di inadempimento.
Infine, l’art. 4 abroga l’infelice norma del 2007 che aveva consentito di utilizzare gli oneri di urbanizzazione della legge Bucalossi anche per la spesa corrente, norma che ha operato come un formidabile impulso all’indiscriminata incentivazione dell’attività edilizia.
Articolato
Art. 1 (Tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali)
1. La salvaguardia del territorio non urbanizzato è parte della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione.
Art. 2 (Territorio urbanizzato)
1. Il territorio urbanizzato di ciascun comune è costituito da:
- centri storici, comprendenti anche l’edilizia circostante realizzata fino alla caduta del fascismo;
- espansioni recenti edificate con continuità a fini residenziali, produttivi, commerciali, direzionali, infrastrutturali, di servizio, ivi compresi i lotti interclusi dotati di urbanizzazione primaria.
2. Non rientrano nel territorio urbanizzato:
- le aree naturali o in condizioni di prevalente naturalità;
- le aree ad uso agricolo, forestale, pascolativo;
- le aree incolte o in abbandono.
Dette tipologie di aree non rientrano nel territorio urbanizzato ancorché site all’interno di esso, o quando includenti edificato sparso o discontinuo, o borghi e piccoli insediamenti presenti nel territorio rurale.
3. A seguito della perimetrazione di cui all’art. 3, le trasformazioni insediative o infrastrutturali che comportano impegno di suolo non edificato sono consentite esclusivamente nell’ambito delle espansioni recenti come definite al comma 1.
4. Eventuali deroghe sono singolarmente autorizzate con provvedimento del consiglio regionale.
Art. 3 (Perimetrazione)
1. Entro 120 giorni dalla pubblicazione della presente legge, i comuni provvedono con deliberazione del consiglio a perimetrare il territorio urbanizzato.
2. In caso di mancato adempimento, le regioni interessate provvedono, previa diffida, nel termine dei successivi 120 giorni.
Art. 4 (Abrogazione di norme)
1. Il comma 8 dell’articolo 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 è abrogato.
La proposta di legge Ac/70, (ovvero la "minaccia Realacci") in discussione alla Camera, su «Contenimento dell’uso di suolo e rigenerazione urbana»: grande ritorno della filosofia di Maurizio Lupi e dello sprawl come scelta di vita, e giù gli argini all'eapansione infinita della "città della rendita" .La Repubblica 1 giugno 2013
LUPI in salsa ecologica: questo il senso della proposta di legge Ac/70, in discussione alla Camera, su «Contenimento dell’uso di suolo e rigenerazione urbana». Bel titolo: peccato che il testo abbia invece l’aspetto di un patto scellerato fra guardie e ladri di territorio. Riassunto delle puntate precedenti: nel 2008 Maurizio Lupi propone una legge dove il suolo ha mera vocazione edificatoria, senza la minima attenzione per la tutela del paesaggio, l’agricoltura, l’assetto idrogeologico.
Una concezione panurbanistica, in nome di “diritti edificatori” commerciabili; ma la proposta cade in un coro di proteste. Nel 2012 Mario Catania, ministro dell’Agricoltura nel governo Monti, presenta una legge sulla «Valorizzazione delle aree agricole e contenimento del consumo di suolo », che contiene due principi assai positivi: la riduzione del consumo dei suoli agricoli e la disciplina degli oneri di urbanizzazione (da destinarsi solo alle opere di urbanizzazione, secondo l’originaria norma Bucalossi, e non alla spesa corrente). Proposta caduta con la fine della legislatura. In che rapporto con questi “precedenti” è la proposta di legge Ac/70? Essa è totalmente dissociata non solo dal suo titolo, ma anche dalla relazione introduttiva.
La relazione, infatti, richiama il ddl Catania e ricorda i dati terrificanti (Istat, Ispra, Wwf) sul consumo di suolo in Italia, le misure di contenimento di altri Paesi, la risoluzione europea che impegna il governo a norme urgenti di analogo segno, il consenso dell’Ance (associazione dei costruttori) a un radicale cambio di rotta verso la riqualificazione degli immobili. Il testo della legge è fedele a queste premesse solo in minima parte ma per il resto non fa che rilanciare la legge Lupi. Dall’articolo 9 della proposta Lupi derivano, infatti, i «diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica », commerciabili senza limiti, nonché incrementati da ulteriori “premia-lità, compensazioni e incentivazioni”. Targata Lupi è anche l’idea che i Comuni, in cambio di aree per l’edilizia sociale, attribuiscano ai privati ulteriori «quote di edificabilità», per giunta trasferibili a piacere, perfino fuori Comune.
Nella proposta Ac/70, «il suolo non edificato costituisce una risorsa il cui consumo (...) è suscettibile di contribuzione » (articolo 1), e infatti gli oneri di urbanizzazione restano tal quali, anzi basta moltiplicarli per quattro (se l’area è «coperta da superfici naturali o seminaturali») o per tre (se si tratta “solo” di suoli agricoli), e il miracolo è fatto: qualsiasi territorio diventa edificabile, e i relativi diritti possono essere sommati e trasferiti ad libitum.
Ben lungi dal limitare il consumo di suolo, la norma lo consacra traducendolo in un sovraccosto. Infine, istituisce i «comparti edificatori», mostruosa neoformazione dell’articolo 5, una sorta di consorzio dei proprietari privati di un’area determinata, che presentano poi al Comune «il piano urbanistico attuativo riferito all’intero comparto»: una vera e propria privatizzazione della pianificazione territoriale.
Ecco i primi frutti dell’ascesa di Lupi al ministero- chiave delle Infrastrutture. Se questa legge da Lupi l’avesse firmata lui, tutto regolare; ma a presentarla è Ermete Realacci, lunga storia in Legambiente, oggi presidente della commissione Ambiente alla Camera. Tra i firmatari meraviglia trovare Mario Catania, autore di un ddl di segno opposto, e Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretario ai Beni culturali ed ex presidente del Fai. Intanto, è in dirittura d’arrivo un pessimo dpr sulle autorizzazioni paesaggistiche, “semplificate” d’ufficio anche nelle aree soggette a vincolo individuale. Per quanto “larghe” siano le intese su cui si regge il governo, sfugge come gli attentati al paesaggio e all’ambiente di queste norme-inciucio possano stare insieme con le (buone) dichiarazioni programmatiche del ministro dell’Ambiente Andrea Orlando che alla Camera ha insistito su ben altre priorità: controllare il rischio idrogeologico, tutelare gli ecosistemi, ridurre il consumo di territorio, pianificare le risorse idriche come bene comune, «puntare sulla trasformazione del tessuto urbano esistente e non su nuove edificazioni».
Se questo fosse il programma non di un ministro ma del governo, la proposta Ac/70, che si scrive Realacci e si legge Lupi, andrebbe immediatamente cestinata. Molto meglio sarebbe ripartire dal ddl Catania, da migliorarsi parametrando la riduzione del consumo di suolo su serie previsioni demografiche e sul censimento degli edifici abbandonati o invenduti. In questo senso, va la proposta presentata ieri da nove deputati del M5S (tra cui De Rosa e Zaccagnini), mirata a ridurre senza trucchi e senza inganni il consumo del suolo. Ma il tormentato iter di queste norme non avrà mai fine, se non ci decideremo a separare la proprietà dei suoli dai diritti edificatori, sottoponendo questi ultimi a una rigorosa pianificazione pubblica che non può limitarsi all’ambito meramente comunale.
Un ultimo punto: alcuni firmatari della proposta Realacci, interrogati privatamente, confessano di aver firmato sulla fiducia, senza capirne bene il senso. C’è dunque da chiedersi come, nel buio delle “larghe intese”, lavora questo Parlamento eletto con il Porcellum. E se sia legittimato non dico a varare, ma anche solo a sognare una qualsiasi riforma della Costituzione.
«Per 20 anni privatizzazioni, deregolamentazioni e flessibilità del lavoro sono state le stelle polari della politica di tutti i governi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti». Replica a Michele Salvati, che sul sito della rivista il Mulino» stronca il libro Sbilanciamo l'economia. Una via d'uscita dalla crisi». il manifesto, 31 maggio 2013
Ringraziamo Michele Salvati, direttore della rivista il Mulino, che ha commentato sul sito www.rivistailmulino.it il nostro libro «Sbilanciamo l'economia. Una via d'uscita dalla crisi» (Laterza, 2013). Abbiamo apprezzato il suo interesse e la sua sottile cortesia nel definirlo «un'ottima rassegna su che cosa pensa l'estrema sinistra pensante» e vogliamo cogliere quest'occasione di confronto su questioni essenziali per l'economia e la politica italiana.
Michele Salvati concorda su alcune delle nostre proposte e noi concordiamo con la sua conclusione che «sono i risultati della capacità produttiva e competitiva di un Paese quelli che determinano la sua ricchezza e il benessere dei suoi cittadini». Accogliamo volentieri le sue osservazioni sui problemi della «straordinaria inefficienza del nostro sistema pubblico« che nelle nostre proposte deve assumere nuove responsabilità per guidare uno sviluppo equo e sostenibile e sull'esigenza di pensare agli «effetti imprevisti, ma prevedibili e non di rado perversi» delle politiche che proponiamo. Vorremmo replicare solo a tre questioni.
La prima riguarda «il senno del poi» che guiderebbe la nostra analisi della crisi mondiale ed europea. In realtà, le stesse cose le avevamo già scritte nel «Rapporto 2002» di Sbilanciamoci!: «I limiti delle politiche neoliberiste di questi anni sono stati resi evidenti dall'aggravarsi della recessione negli Stati Uniti (...). E' finita una lunga fase di consumi opulenti finanziati da un enorme debito delle famiglie e dalle aspettative di una crescente ricchezza grazie al rialzo delle quotazioni di borsa», mentre sull'Europa spiegavamo che «l'avvio dell'euro apre nuove margini di manovra per la politica economica europea, offre una maggior autonomia nei confronti del dollaro (...). E' un'occasione che non va sprecata inseguendo le vecchie politiche di liberalizzazione indiscriminata, riflesso condizionato del modello di globalizzazione neoliberista in Europa» (Manifestolibri, 2001, p.18).
E per quanto riguarda il declino italiano, già nel primo «Rapporto sulla Finanziaria 2001» che aprì il lavoro della Campagna Sbilanciamoci! scrivevamo che: «nell'ultimo decennio l'economia italiana è cresciuta appena dell'1,5% l'anno (...) e l'occupazione è caduta dell'1% l'anno in media. L'economia italiana (...) si è trovata in una spirale di bassa crescita, senza creazione di occupazione, incapace di modificare la propria struttura produttiva e la logica della spesa pubblica (...). Per tutti questi fattori appaiono scarse le possibilità che questo modello economico, e la politica che lo sostiene, abbiano successo nel conseguire una nuova fase di sviluppo» (Lunaria, 2000, pp.16-17). In quegli anni si parlava - ricordiamolo - di «nuovo miracolo italiano»; il boom della finanza e le promesse della «new economy» dipingevano di rosa i commenti economici. Per vent'anni privatizzazioni, deregolamentazioni e flessibilità del lavoro sono state stelle polari della politica di tutti i governi, e tuttavia questo non ha portato a quell'espansione della «capacità produttiva e competitiva del Paese» che tutti avremmo desiderato. E' un fatto, questo, che ci sembra difficile ignorare.
La seconda osservazione di Michele Salvati ci richiama al rigore di bilancio necessario a un'Italia che non può cambiare le priorità europee. Nel nostro libro non c'è alcun programma di spese folli, - e Sbilanciamoci! ha da sempre fatto proposte che prevedono un saldo di bilancio pari a zero, o accantonamenti per la riduzione del debito. C'è invece il riconoscimento che senza una ripresa della domanda - che nell'immediato non può che venire dall'azione pubblica - la nostra recessione ci porta «sull'orlo del baratro». La via d'uscita che indichiamo, nel breve periodo, è un allungamento dei tempi del consolidamento fiscale - proposto da quattro istituti di ricerca nordeuropei di area socialdemocratica - e l'uso di risorse aggiuntive per una manovra di stimolo (...). Le risorse potrebbero venire da un prelievo ulteriore sui capitali «scudati» da Tremonti, da un accordo con la Svizzera per compensare i mancati introiti fiscali per i 150 miliardi di capitali italiani esportati illegalmente, dal ricorso a fondi della Cassa Depositi e Prestiti, dallo spostamento della tassazione dal lavoro ai patrimoni. Tutto senza modificare deficit e debito pubblico (...).
Infine, l'etichetta di libro di «estrema sinistra», seppur «pensante». Abbiamo passato al setaccio le buone idee «di sinistra», le proposte di finanzieri illuminati, imprese della «green economy», economisti liberal americani, sindacati europei, socialdemocratici di tutti i paesi, ambientalisti, verdi, associazioni laiche e cattoliche - non abbiamo citato l'enciclica di Papa Ratzinger, ma l'ha fatto il sottoscritto in un libro dell'anno scorso «Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa (Laterza, 2012). E Sbilanciamoci! lavora da 15 anni con 50 associazioni di tutti gli orientamenti. Perché mettere tutto questo nel ghetto dell'"estrema sinistra»?
Oggi e domani a Roma convegno promosso dal WWF contro il consumo del suolo e l'inutile produzione edilizia, per la riqualificazione urbana. Il manifesto, 31 maggio 2013, rapporto scaricabile
«La vera ricchezza d'Italia - già Belpaese per antonomasia - sta nel suo patrimonio artistico e storico, paesaggistico e culturale»: sono ormai in molti ad individuare in questi beni comuni i possibili milestone di un prossimo riassetto sostenibile, non solo fisico, ma socio-economico e civile del paese.
Oggi, però, questo «tesoro» italiano - lascito delle molte civiltà stratificatesi nella nostra evoluzione spaziale e temporale - è sempre più obliterato, abbandonato al degrado, occultato, «affogato» dall'abnorme crescita urbana, dal pervasivo consumo di suolo che fa del territorio italiano la disastrosa, esasperata punta di un fenomeno, sprawltown, la città diffusa, che marca negativamente vaste regioni europee e occidentali.
Due cifre emblematiche di quella che sta diventando una catastrofe ci vengono dagli osservatori sul consumo di suolo, operanti presso diverse università, e riprese dal Coordinamento per la Difesa del Paesaggio: le rilevazioni satellitari restituiscono suoli urbanizzati pari a quasi il 20% dell'intera superficie territoriale nazionale, mentre le stime aggregate dall'ultimo censimento forniscono un numero di quantità di stanze vuote superiore ai 25 milioni, di cui circa un quinto localizzato nelle grandi città, e quasi altrettanto nelle villettopoli costiere e turistiche.
Tale sfracello di produzione edilizia se, paradossalmente, non risolve la domanda abitativa sociale - essendo determinata e dominata dai cicli della rendita speculativa, urbana e soprattutto finanziaria - ha prodotto ingenti quote di «urbanizzato contemporaneo abbandonato»; conseguente alla dismissione recente di attività produttive, industriali e agricole, commerciali, di servizio, o residenziali. O semplicemente, è stata dovuta dalla velleità di realizzare macrostrutture - infrastrutture, attrezzature - tanto gratificanti per il consenso suscitato dal loro annuncio, quanto spesso inutili e ingestibili per il contesto in cui si calavano.
Agli edifici storici abbandonati, di cui all'apertura, si è aggiunta così una quota ingentissima di cementificazione dismessa di recente. Il Wwf, con le sue migliori competenze tecnico-scientifiche, insieme ad una decine di sedi universitarie nazionali, sta realizzando una ricerca in tutte le regioni del paese su caratteristiche e potenzialità delle aree abbandonate, storiche e recenti, e sulle loro prospettive in termini di riutilizzo ambientale e sociale. Oggi e domani presso l'aula magna dell'Università Roma Tre, nel complesso, appunto recuperato, dell'ex Mattatoio - verrà presentato il primo rapporto della ricerca.
Sono state censite circa 600 aree, corrispondenti ad altrettante «situazioni territoriali» (individuate anche perché rappresentative di categorie più vaste), in tutte le regioni italiane, suddividendole per caratteri tipologici e funzionali e per contestualizzazioni funzionali; in modo tale da prefigurare per ciascuna di esse non solo un progetto di recupero - pure importante di per sé -, ma la costituzione di «elementi forti» per strutturare e sostanziare processi di blocco di consumo di suolo e deterritorializzazione negli ambiti interessati.
Le categorie tipologiche individuate vanno dai manufatti storico-culturali in abbandono, anche se talora già vincolati per la tutela, alle aree archeologiche abbandonate, alle architetture di prestigio, alle infrastrutture dismesse o mai completate, alle fortificazioni militari, alle aree industriali in disuso, a macrostrutture realizzate e mai utilizzate o ingestibili, a spazi aperti da rinaturalizzare nella città consolidata, a vastissime porzioni di patrimonio residenziale da recuperare.
Le situazioni urbane e territoriali interessate nelle diverse regioni sono molteplici: da interi comparti interni alla città storica e consolidata, a mancate recenti «nuove centralità» che dovevano segnare le ex periferie, alla campagna urbanizzata da riqualificare, a molte aree costiere o collinari, o di elevata suscettività paesaggistica cui riattribuire senso ecologico tramite blocco della nuova cementificazione e strategie di restauro ambientale; utile anche per il riuso delle aree non solo industriali dismesse.
Il riutilizzo sociale e paesaggistico dei luoghi e degli intorni interessati presuppone anche la capacità di leggere i contesti, oltre i singoli siti: su questo spesso sono di ausilio i piani paesaggistici recenti - i cui progetti di riqualificazione ambientale vanno assumendo sempre più spesso i profili guida di prossime economie verdi territorializzate dei territori coinvolti- che, per dettato strategico-normativo, analizzano gli spazi regionali per ambiti locali e comprensoriali e spesso ne prospettano «scenari di tutela, riqualificazione e valorizzazione sostenibile», non solo ecoterritoriale, ma socio-culturale. In questo quadro, i cluster spaziali individuati dalla ricerca per il riuso possono giocare ruoli decisivi.
Il Report tocca anche un'altra questione sostanziale: chi può mettere in pratica queste «interessanti politiche» in un momento di profonda crisi della «Politica»? la ricerca recupera il concetto di «Laboratorio Territoriale», coordinamento di abitanti, ambientalisti, difensori del territorio, istanze di restauro civile e costituzionale, già presenti in alcune esperienze di difesa e recupero del territorio recenti, come le Reti del «Nuovo Municipio» o dei «Comuni Solidali», e mira a ricontestualizzarli sui paesaggi, anche sociali, individuati.
Il rapporto Riutilizziamo l'Italia è scaricabile anche direttamente da QUI
Magari più che ai recinti che dividono le minoranze etniche o alla rete che separa immigrati e indigeni occorre guardare le differenze sociali, e ricordare che le “classi”esistono ancora . La Repubblica, 29 maggio 2013
Il poco socialdemocratico Nicolas Sarkozy aveva chiamato “feccia” i ribelli della banlieue parigina. Al di là delle definizioni, sono giovanissimi. La maggior parte delle persone fermate durante gli scontri è minorenne, non ha finito gli studi e non ha un lavoro, come un quinto dei ragazzi delle periferie più povere. Sempre in omaggio a un politicamente corretto che qui è stile di vita, si finge anche di ignorare la nazionalità di questi rivoltosi: la tradizione progressista impedisce alle autorità svedesi di fare classificazioni “etniche”. Ma sono tutti figli di quei profughi balcanici, afgani, iracheni, somali, siriani, che negli ultimi vent’anni hanno trovato rifugio qui e costituiscono ormai il 15% della popolazione svedese. Si sa, ma non si dice, e non lo si può neppure scrivere.
È ancora presto per dire se la Svezia, dopo gli incidenti di questi giorni, sia pronta a stravolgere una tradizionedi tolleranza e accoglienza, cedendo alle sue pulsioni più oscure, così ben raccontate, e quindi esorcizzate, nei noir degli autori scandinavi. «Stoccolma non brucia e la discriminazione non è sempre legata al razzismo», commenta la scrittrice di origine curda Nima Sanandaji. Parte della popolazione, spiega, viene lasciata ai margini per cause economiche, legate all’educazione, al retroterra culturale. «Smettiamo di colpevolizzare la nostra società», chiede Sanandaji. È cresciuta nelle periferie degli immigrati e diventata intellettuale di successo, così come Zlatan Ibrahimovic è uscito dal ghetto di Rosengärd, fuori Malmö, per diventare un campione di calcio. Henning Mankell, lo scrittore del commissario Wallander, sostiene che la Svezia è abituata a interrogarsi e scrutare il suo cuore di tenebra, in una ricorrente perdita di innocenza, cominciata addirittura con l’omicidio di Olof Palme, quasi trent’anni fa. Finora, dopo ogni esame di coscienza, il paese è sempre riuscito a restare in bilico, camminando sul filo della sua innata capacità al compromesso. Ma anche lassù, nella fredda e civile Svezia, conservare l’equilibrio è difficile, sempre più difficile.
«No al consumo di suolo, Sì al Riuso dell' Italia». Il titolo di un appello che non possiamo non condividere e il programma di un convegno al quale ci sarebbe piaciuto essere presenti. L’appello e il programma del convegno dal sito Wwwf-Italia. con postilla
L’appello
PENSA insediamenti industriali non più utilizzati E IMMAGINA strutture di utilità sociale. TROVA zone commerciali sovradimensionate e semivuote E CREA nuove destinazioni d’uso a misura d'uomo. Individua aree e infrastrutture inutili E progetta zone pedonali, aree verdi e parchi giochi.
WWF con Riutilizziamo l’Italia mira a suscitare un movimento culturale e sociale che serva a reinventare il nostro territorio, riducendo il consumo del suolo.In un nuovo quadro di sviluppo sostenibile, il recupero e riutilizzo delle aree in disuso o degradate può partire dal basso e da iniziative spontanee, e potrebbe avere grandi effetti di incentivazione dell’occupazione giovanile e di freno all’irrazionale e bulimico consumo del suolo che ha caratterizzato lo sviluppo del nostro Paese negli ultimi 50 anni.
Abbiamo bisogno delle tue idee, della creatività delle comunità locali.
Riutilizziamo l'Italia è l'occasione per riappropriarti del tuo territorio. Per scegliere e ricostruire lo spazio in cui vivi. Ogni giorno.Non serve un altro territorio da consumare, serve un grande progetto di riqualificazione per riscoprire un'altra Italia.
Il convegno
Convegno Nazionale WWF - “Riutilizziamo l’italia”: Idee e proposte per contenere il consumo di suolo e riqualificare il Belpaese -
Il 31 maggio – 1 giugno 2013 a Roma si terrà il Convegno Nazionale WWF "Riutilizziamo l'Italia - Idee e proposte per contenere il consumo di suolo e riqualificare il Belpaese", l’appuntamento al quale invitiamo tutti a partecipare per condividere i risultati della prima fase dell’Iniziativa omonima del WWF Italia e il lancio di alcune proposte interessanti e sulle possibilità delle loro attuazioni.
Con il prezioso contributo di cittadini e gruppi attivi il WWF Italia ha raccolto più di 600 segnalazioni di aree ed edifici dismessi, di cui l’85% contenente anche idee, proposte e progetti di riuso. Un vero progetto collettivo di territorio, un insieme di idee che ora il WWF si impegna a promuovere e a far emergere la domanda sociale di spazi, di recupero, di riqualificazione e di contributo alla gestione territoriale che ne deriva.
Tappa fondamentale di questo percorso ora è il Convegno Nazionale, che si svolgerà a Roma nella nuova Aula Magna del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Roma Tre, spazio in “tema” con l’Iniziativa, in quanto si tratta di un edificio dell’ex Mattatoio, recuperato a fini culturali.
Il Convegno presenterà una rassegna di esperienze positive e negative e di idee e un Set di Proposte e Strumenti. Su questa base la Rete territoriale WWF e la Rete Docenti dell’iniziativa “Riutilizziamo l’Italia” hanno intenzione di aprire un confronto con i cittadini e i soggetti più interessati a queste tematiche.
Per arginare il consumo di suolo non bastano né allarmate tabelline statistiche, né i soli vincoli urbanistici, ma una politica del territorio che coniughi tutela, sviluppo, sostenibilità. L'Unità, 24 maggio 2013 (f.b.)
Li hanno chiamati con diversi nomi («choosy», bamboccioni), ma molto probabilmente sarà la prima generazione dal dopoguerra ad essere più povera di quella che l’ha preceduta. La pubblicazione del dato sul tasso di disoccupazione giovanile che nell’ultimo anno in Italia ha toccato il record assoluto del 35,3%, il livello più alto dal lontano 1977 è stata una scossa per il mondo politico che finalmente ha preso atto del fatto che non è più il caso di temporeggiare, ma di adattarsi ai nuovi cambiamenti imposti dalla nostra società.
Come annunciato anche dal presidente del Consiglio Enrico Letta in conferenza stampa subito dopo l’ultimo vertice straordinario del Consiglio Ue, il tema della disoccupazione giovanile è una «questione cruciale». E urgente, viene da aggiungere. Molto rischioso per la democrazia stessa, tanto da far datare il prossimo Consiglio straordinario dei 27 i primi di giugno.
Di fronte al tasso record della disoccupazione giovanile l’agricoltura si afferma come l’unico settore produttivo che ha difeso e anzi moltiplicato i posti di lavoro, con un incremento delle assunzioni del 3,6% nel 2012. Dati importanti, e che se analizzati nel dettaglio dimostrano, oltre i numeri, che questo fenomeno non coinvolge più solo i figli che subentrano all’attività di famiglia, ma neolaureati preparati e determinati che, a causa della crisi che chiude le porte degli altri settori, scelgono di scommettere sulla vita dei campi e reinventarsi produttori. Anche perché il settore è sempre più fiorente. Se un giovane su tre è senza lavoro e se per ricostruire l’Italia si è finalmente capito che si deve ripartire dalla terra, è necessario che il nuovo governo faccia tutto il possibile per incoraggiare l’approccio dei giovani all’agricoltura, favorendo un rinnovamento che passa attraverso le energie di questi «nuovi contadini» under 40 pieni d’ingegno e vena creativa.
I dottori dell'agricoltura
Secondo i dati Istat sull’occupazione, i nuovi «dottori dell’agricoltura» oggi sono quasi il 35% degli under 40 del comparto. Questa nuova agricoltura fatta di giovani anche con una laurea alle spalle è fondamentale per rinnovare un comparto che ha bisogno di aprire le porte alla competitività e alla creatività. E sono tante le imprese «junior» che hanno dimostrato un potenziale economico altissimo grazie ad una maggiore attitudine al rischio e al sempre più crescente interesse verso l’export, dimostrando anche un’elevata sensibilità per le tematiche sociali e ambientali.
Innovazione nei prodotti
Analizzando questo fenomeno e i dati Istat escono fuori altre curiosità sottolineate anche dalla Coldiretti, che ha individuato circa tremila giovani che hanno deciso di mettersi alla guida di un gregge come precisa scelta di vita per non arrendersi alla crisi. «Si tratta in gran parte di giovani che intendono dare continuità all’attività dei genitori – afferma la Coldiretti anche se non mancano nuovi ingressi, spinti da una scelta di vita alternativa a contatto con gli animali e la natura». Quando i giovani subentrano nelle aziende c’è un immediato riflesso sul prodotto aziendale. «La diffusa capacità di innovazione prosegue la confederazione si concentra sulla qualità e sulla sicurezza del prodotto ma anche nella capacità di presidiare il mercato attraverso nuove formule commerciali. La pastorizia è un mestiere ricco di tradizione, che ha anche un elevato valore ambientale e dalla sua sopravvivenza dipende la salvaguardia di razze in via di estinzione a vantaggio della biodiversità del territorio». La terra quindi come settore primario per creare opportunità e combattere la crisi.
Un segnale arriva anche con l’occupazione stagionale nei campi e con l’aumento di richieste di assunzione da parte di chi ha perso il lavoro in altri settori produttivi. Uno degli obiettivi da perseguire dovrebbe essere la possibilità di rendere l’agricoltura un’occupazione a tempo pieno, con interventi di tipo preventivo che consentano alle aziende agricole di mantenere i livelli occupazionali tramite l’adozione di provvedimenti straordinari per il contenimento del costo del lavoro, e non solo una soluzione temporanea per fronteggiare la crisi nell’immediato.
Nota: si veda anche sullo stesso tema e con i medesimi toni il pezzo di Piero Bevilacqua, "Una nuova agricoltura per le aree interne", dal convegno della Società dei Territorialisti (f.b.)
«Ovvero grandi opere, capitalismo post-fordista e corruzione liquida dello Stato post-keynesiano». Lo schema della relazione che il massimo svelatore italiano delle truffe nei lavori pubblici e nelle G.O. terrà domani al convegno indetto Ravenna contro lo spiedo Orte-Mestre, inviato il 24 maggio 2013
La grande impresa del capitalismo globalizzato è caratterizzata da una organizzazione fondata sul cosiddetto “outsourcing”, che sta ad identificare un processo di scomposizione e svuotamento della fabbrica fordista che passa da un'organizzazione “a catena piramidale” ad un sistema “a rete virtuale”. La piramide dell'impresa fordista si è decomposta in una enorme ragnatela formata da tante ragnatele sempre più piccole, con al vertice il ragno più grande, collegato alle altre ragnatele con tanti ragni sempre più piccoli.
Un appello del "Gruppo di San Rossore" alla politica perchè si aprano le orecchie alla ragione e alle ragioni della tutela della natura. Con postilla
Tra le molte e complicate situazioni che il nuovo governo e il nuovo parlamento e con loro le regioni dovranno affrontare rientra - e non tra le ultime - l’ambiente. E se per altri aspetti si tratterà come già sta accadendo di rimettere mano a vecchie agende bisognose di revisione e aggiornamento nel caso dell’ambiente urge trovargli finalmente un posto che finora non ha avuto né nei programmi di governo quanto negli impegni parlamentari al punto da essere stato del tutto snobbato persino in campagna elettorale.
Che per qualcuno si debba ripartire con un condono la dice lunga sui tempi che corrono e sui rischi che ancora una volta le cose non cambino. Qui per uscire dal tunnel bisogna sia chiara soprattutto una cosa e cioè che la crisi sociale con i suoi effetti da macelleria dipende al pari dei disastri ambientali da una politica economico-finanziaria che si è messa sotto i piedi con i diritto al lavoro e alla solidarietà i valori dei beni comuni, della sicurezza, della salute, del paesaggio e della natura. Due facce insomma della stessa medaglia.Ne deriva quindi l’estrema necessità e urgenza di una nuova politica economico-sociale ma anche e non di meno di politiche di programmazione e pianificazione del governo del territorio di cui da tempo si sono perse le tracce.
Per essere più chiari onde evitare possibili ambiguità ed equivoci che in qualche misura si avvertono già da tempo bisogna finalmente imboccare politiche che puntino sulla greeneconomy che da sole tuttavia non rispondono alle esigenze complessive di nuove politiche ambientali in grado di fronteggiare adeguatamente e finalmente la gestione dei beni comuni, del suolo, del paesaggio, della natura. Politiche che non possono dipendere in nessun caso esclusivamente da quelle economiche che devono ‘sottostare’ costituzionalmente al governo pubblico.
Qui è indispensabile una riflessione seria sul carattere di queste nuove politiche ambientali con le quali si devono misurare le istituzioni e la politica ma anche i tanti movimenti i quali hanno l’indiscutibile merito di non essersi rassegnati a quel che finora ha passato il convento. Essi hanno il merito con le loro denunce, comitati, petizioni di essersi opposti a impianti insicuri o pericolosi, a infrastrutture invasive e molto altro ancora. Ma dall’insieme di queste iniziative locali o anche più ampie innegabilmente legittime spesso non emergono proposte, progetti, ipotesi in grado di configurare per aree vaste, regionali e nazionali quelle nuove politiche di cui ha bisogno oggi il governo del territorio. Vale sul piano nazionale ma anche regionale.
Se guardiamo in questo momento alle vicende toscane abbiamo conferma di questa contraddizione che vede regione e comuni quasi ai ferricorti sul paesaggio che si teme possa anche per certi atteggiamenti anche ma non solo delle sopraintendenze un impedimento ad interventi e operazioni a cui i comuni non possono sottrarsi. Qui si avverte subito quanto la rete istituzionale si sia smagliata in questi anni rispetto anche al passato che aveva visto entrare in gioco con la regione e i comuni le province, i parchi e le aree protette, le autorità di bacino come interlocutori fondamentali di nuove politiche nazionali. Protagonisti oggi sempre più deboli o scomparsi o in via di sparizione e il cui ruolo appare sempre meno incisivo nonostante –spesso - normative importanti che lo stato ha però spesso smantellato o messo in mora; la legge sul mare, la legge sul suolo, la legge sui parchi e le aree protette e tutte le nuove disposizioni comunitarie.Qui la politica per le sue responsabilità istituzionali e non solo sul piano nazionale ha bisogno di riconquistare credibilità, fiducia, consenso. E tanto maggiori sono le responsabilità dei singoli protagonisti tanto maggiore deve essere la loro capacità di farlo e presto.
Postilla
Sarebbe bello se quelli che il Porcellum ha eletto (con la nostra complicità) avessero le orecchie aperte alle parole come quelle del gruppo di San Rossore. Ma quelli che, per colpa nostra, ci governano non vedono certamente i parchi naturali e le aree protette come prime oasi strappate alla distruzione e, al tempo stesso, laboratori sperimentali nella marcia per giungere alla tutela delle qualità del territorio ovunque esse siano collocate, ma solo come ingombranti recinti che possono ostacolare il percorso di un’autostrada o una licenza a svillettare. Sviviamo sotto il dominio di un regime che si ammanta di belle parole (sostenibilità, green economy) per procedere in uno “sviluppo” basato sulla concezione del territorio come luogo del “diritto di edificare”; un regime di lupi travestiti, a volte, da agnelli.
Le ragioni storiche e attuali per attribuire alle “aree interne”uno ruolo all’altezza delle esigenze di oggi e di domani. Relazione per il convegno della "Società dei territorialisti“, Milano, 14 maggio 2013”
A che cosa ci riferiamo allorché parliamo di agricoltura per le aree interne? Si tratta di uno slogan di propaganda politica “movimentista” ? Oppure di un'utopia che non ha alcun fondamento economico, né dunque alcuna possibilità di riuscita? All'obiezione si deve innanzi tutto rispondere con una considerazione storica. Non si tratta, infatti, di una progettazione o addirittura di una aspirazione a vuoto di volenterosi militanti. Per secoli l'agricoltura italiana è stata una pratica economica delle “aree interne”, vale a dire dei territori collinari e montuosi, gli ambiti orografici dominanti nella Penisola. Certo, c'era anche – e talora fiorente - l'agricoltura delle pianure, concentrata nella Pianura padana e nelle valli subappenniniche. Ma gran parte di queste aree sono state conquistate con secolari e talora imponenti lavori di bonifica che arrivano fin dentro il XX secolo. L'imperversare millenario della malaria – questa avversità ambientale caratteristica del nostro paese – ha tenuto a lungo lontano le popolazioni agricole dalle terre potenzialmente più fertili ed economicamente vantaggiose delle pianure. Dunque, dal punto di vista storico, fare agricoltura nelle aree interne non è una novità. Tanto è vero che essa continua a sopravvivere in tante zone collinari e montane in forme più o meno degradate e marginali.
La seconda obiezione, relativa all'economicità di una agricoltura in queste aree è che occorre intendersi su che cosa si intende per economicità. Per far questo occorre liberarsi di una idea riduzionistica di agricoltura che ha dominato per tutto il secolo passato. In queste aree non si può pensare alla pratica agricola come una impresa industriale che deve strappare margini crescenti di profitto, generare accumulazione di capitale, con sovrana indifferenza per ciò che accade alla fertilità del suolo, alla distruzione della biodiversità, all'inquinamento delle acque, alla salute degli animali, dei lavoratori e più in generale dei cittadini. L'agricoltura non è qui – e non dovrebbe esserlo mai – quello che è stata per tutta la seconda metà del Novecento: un'industria come un'altra. D'altra parte, rappresenta una conquista della cultura europea degli ultimi decenni la visione e la pratica di una agricoltura come attività multifunzionale. Una brutta parola per indicare che essa non è più una semplice pratica economica, ma costituisce il centro di erogazione di una molteplicità di servizi. E al tempo stesso incarna una esperienza sociale che intrattiene un rapporto complesso e avanzato con la natura, ispira nuovi stili e condotte di vita. Infatti l'agricoltura non è chiamata semplicemente a produrre merci da piazzare sul mercato, quanto anche a proteggere il suolo dai processi di erosione, ad attivare la biodiversità sia agricola che quella naturale circostante, a conservare il paesaggio agrario, tenere vivi i saperi locali legati ai mestieri e alle manipolazione delle piante e del cibo, a custodire la salubrità dell'aria e delle acque, a organizzare un turismo ecocompatibile, a organizzare forme nuove di socialità, ecc.
Ma che tipo di agricoltura si può oggi praticare su terre lontane ( ma non lontanissime, l'Appennino dista sempre relativamente poco dal mare) dai grandi snodi viarii e commerciali ? La dove non è possibile, né utile, né consigliabile organizzare produzioni di larga scala? Qui si può praticare soprattutto frutticultura e orticoltura di qualità. E sottolineo questo aspetto di novità storica della agricoltura di collina rispetto al passato. Si tratta di una agricoltura di qualità perché essa utilizza con nuova consapevolezza culturale un'attività produttiva fondata sulla valorizzazione di un dato storico eminente della nostra millenaria tradizione produttiva: l'incomparabile ricchezza della nostra biodiversità agricola. L'uso del termine millenario non svolge qui un compito di mera retorica. Serve innanzi tutto a marcare l'irriducibile diversità dell'agricoltura rispetto a tutte le altre forme di economia. Questa pratica finalizzata all'alimentazione umana, infatti, continua a esercitarsi su materie naturali che provengono da un lontanissimo passato, originano dalle selezioni genetiche massali delle popolazioni pre-italiche, si sono arricchite con la grande “globalizzazione agricola” dell'Impero romano (documentata da Columella) e ha ricevuto gli apporti di biodiversità e di saperi dal mondo arabo nel medioevo e dalle piante provenienti dalle Americhe dopo il 1492. Questa gigantesca accumulazione di varietà e di culture ha trovato nella Penisola le condizioni per insediarsi in maniera stabile e diversificata sin quasi ai giorni nostri. ( P. Bevilacqua, I caratteri originali dell'agricoltura italiana, in C.Petrini e U.Volli ( a cura di)La cultura italiana.Cibo,gioco,festa moda, UTET ,Tornino 2009)
Tale straordinaria biodiversità agricola – frutto dell'originalità della nostra storia e della varietà dei climi e degli habitat disseminati nella Penisola, dalle Alpi alla Sicilia - ha espresso la sua vitalità nell'agricoltura promiscua preindustriale. Campi nei quali coesistevano alberi da frutto di diverse varietà, ulivi, viti insieme spesso ai cereali, agli orti. Oggi questa agricoltura ritrova ragioni economiche per rifiorire, innanzi tutto perché può offrire prodotti che hanno qualità intrinseche superiori, sia di carattere organolettico che nutrizionale. In tanti vivai – e nelle coltivazioni degli amatori - si conservano ancora in Italia centinaia di varietà di meli, peri, susini, mandorli, peschi, viti a doppia attitudine, ecc. Si tratta di sapori scomparsi dall'esperienza sensoriale della maggioranza degli italiani e dal mercato corrente. Quest'ultimo offre oggi al consumatore poche varietà, quelle industrialmente più confacenti, per aspetto, conservazione e trasportabilità alla distribuzione di massa. Ormai guida e domina il consumo, non la qualità intrinseca del bene (freschezza, sapore, sanità), ma le sue caratteristiche esteriori di merce, la sua durabilità, la sua novità stagionale, il suo basso prezzo.
E invece l'organizzazione di una distribuzione alternativa (tramite i gas, i gruppi del commercio eco-solidale, a km 0, ecc) può cambiare la natura stessa del prodotto finale. La diversità e varietà dei sapori, la salubrità e ricchezza vitaminica e minerale del frutto, la sua freschezza e assenza di conservanti e residui chimici, ne fanno un bene che acquista anche sotto il profilo culturale un nuovo valore. E naturalmente il rapporto diretto fra produttore e consumatore tende a rendere bassi e accessibili i prezzi. Dunque, non si propone il ripristino dell' ”agricoltura della nonna”, ma una nuova economia rispondente a una elaborazione culturale più avanzata e ricca del nostro rapporto col cibo, che incorpora anche una superiore visione della pratica agricola come parte di un ecosistema da conservare.
Questa agricoltura può far ricorso a molti elementi di economicità e di riduzione dei costi, di norma esclusi nelle pratiche industriali. Intanto la varietà delle colture – anche nelle coltivazioni orticole, grazie alla sapienza consolidata della pratica degli avvicendamenti e delle alternanze , ma anche alle nove tecniche come l'agricoltura sinergica– costituisce un antidoto importante contro l'infestazione dei parassiti. E' nelle monoculture, infatti, che questi possono produrre grandi danni, e debbono essere controllati – anche se con decrescente efficacia – tramite costosi e ripetuti trattamenti chimici. La conservazione di un habitat ricco di biodiversità naturale – grazie alle siepi, all'inerbimento del campo, ecc e al bando degli antipesticidi chimici - costituisce essa stessa un sistema di protezione contro i parassiti, perché ospita gli insetti utili, predatori degli infestanti. Un esempio di come la salubrità e varietà biologica dei siti non è solo utile alla salute umana, ma anche economicamente vantaggiosa. A questo proposito un aspetto da ricordare sono le microeconomie che si possono ottenere dalle siepi o dalla macchia selvatica. Un tempo avevano una larga circolazione stagionale, nei mercati contadini, i prodotti selvatici del bosco e della macchia mediterranea: sorbe, corbezzoli, giuggiole, cornioli, melograne, nespoli germanici, azzeruoli, ecc. Oggi sono rari e costosi prodotti di nicchia destinati al consumo di pochi intenditori. E invece potrebbero rientrare a pieno titolo nei circuiti economici della nuova agricoltura. Tanto più che alcuni di queste bacche, come la melagrana – ma la riflessione dovrebbe coinvolgere sia i cosiddetti “piccoli frutti”(lamponi, mirtilli, ribes, uva spina, ecc) che le cosiddette piante officinali – conoscono oggi un crescente utilizzo sia nella “cosmesi senza chimica”, che nella ricerca e nella produzione farmaceutica. Tali considerazioni dovrebbero anche investire un problema oggi rilevante in alcune aree- come ad es. la Toscana - dove la macchia selvatica rappresenta una forma di rinaturalizzazione spontanea e disordinata, che consuma sia il bosco di pregio, sia le aree agricole e pastorali, fornendo ai cinghiali, sempre più numerosi, la possibilità di danneggiare gravemente le colture delle aree collinari. E' evidente che qui occorre un intervento pianificato, che punti a una selvicoltura di qualità sia per il legno che per i prodotti del bosco e del sottobosco. E' attraverso il ripristino rinnovato di economie antiche ( fra queste spicca il castagneto), che si può avviare anche una difesa territoriale delle aree agricole secondo meccanismi di coordinamento e cooperazione fra diverse aree ed ambiti produttivi che in queste aree sono stati in funzione per secoli.
Nei frutteti si può molto utilmente praticare l'allevamento dei volatili ( polli, oche, faraone,ecc).Tale pratica già nota ai primi del '900 in alcuni paesi europei ( ad esempio nei meleti della Normandia) e oggi sperimentata da alcune aziende ad agricoltura biologica, combina un insieme sorprendente di vantaggi. I volatili, infatti, ripuliscono il terreno dalle erbe infestanti e lo concimano costantemente con i loro escrementi, facendo risparmiare all'azienda il lavoro e i costi del taglio delle erbe e quello della concimazione delle piante. Ma aggiungono all'economia aziendale uno straordinario apporto produttivo: le uova e la carne di pregio commerciabili tutto l'anno.
Sempre sul piano del contenimento dei costi è utile rammentare che qualunque azienda agricola produce una quantità significativa di biomassa. Sia sotto forma di rifiuti organici domestici, che quale residuo dei tagli, potature, controllo delle siepi, ecc. Ebbene, questo materiale – tramite il metodo del cumulo – si può trasformare in utilissimo compost per fertilizzare il suolo, senza ricorrere ai fertilizzanti chimici, e risparmiando su tale voce di spesa che grava invece in maniera crescente sull'agricoltura industriale. Il costo dei concimi, è noto, dipende dal prezzo del petrolio. Un grande agronomo biodinamico, Eherfried Pfeiffer, sosteneva che un buon terriccio di cumulo può avere una capacità fertilizzante due volte superiore a quella del letame bovino: il più completo fra i fertilizzanti organici. (E. Pfeiffer, La fertilità della terra, Editrice Antroposofica 1940) Di questo terriccio si potrebbe fare commercio, come si fa commercio del fertilizzante ottenuto dalla decomposizione di sostanza organica da parte dei lombrichi. Nel Lazio, ad es., esiste qualche azienda che vende humus, un terriccio ricavato dalla “digestione” di letame bovino ad opera dei lombrichi.
Sempre sul piano del risparmio dei costi - senza qui considerare la buona pratica di impiantare pannelli solari sugli edifici, case, stalle, uffici, ecc, per rendere l'azienda autonoma sotto il profilo energetico – una riflessione a parte meriterebbe l'uso dell'acqua. La presenza di questo elemento è ovviamente preziosa e spesso indispensabile nelle agricolture delle aree interne. Ad essa si attinge normalmente con i pozzi azionati da motori elettrici. Se l'elettricità è generata da pannelli fotovoltaici il costo è ovviamente contenuto. Ma spesso non è così. E ad ogni modo, in tante aree interne, l'acqua potrebbe essere attinta in estate senza costi se durante l'inverno venissero utilizzati sistemi di raccolta delle acque piovane. Si tratta, ovviamente, di riprendere un sistema antico – in molte aree, come nella Sicilia agrumicola, ancora attivo – che utilizzi cisterne, vasche di raccolta, ecc. Questa cura dell'acqua comporterebbe una nuova visione del territorio e delle risorse circostanti alle singole aziende. E' evidente che una nuova agricoltura nelle aree interne, dovrebbe far parte di un progetto collettivo di rimodellamento dell 'habitat locale, che comporta il controllo delle acque alte, il loro incanalamento ottimale, ma anche il loro utilizzo in punti di raccolta ( tramite acquacultura, pesca, ecc), capace di combinare conservazione dell'assetto idrogeologico del suolo e pratica economica produttiva. L'agricoltura che progettiamo, dunque, costituisce un dialogo nuovo e più organico con la ricchezza delle risorse naturali, col mondo delle piante e degli animali, e insieme un presidio umano culturalmente più avanzato e complesso sul nostro territorio.
Infine due questioni rilevanti: il reperimento dei suoli dove esercitare le nuove economie e i protagonisti primi del progetto, vale a dire gli imprenditori, gli uomini e le donne che accettano la sfida. Per quanto riguarda la terra, la sua disponibilità e i suoi prezzi variano molto nelle stesse aree interne. In Toscana il valore fondiario può essere proibitivo, ma in tante aree appenniniche esso ha scarso valore. Occorreranno dunque forme di regolazione e di facilitazione - laddove non esistono già – di accesso alla terra a costi contenuti. Il problema fondamentale resta quello degli imprenditori. E' evidente che non si può lasciare alla spontaneità e alla capacità attrattiva di un progetto l'iniziativa imprenditiva. Sarà necessaria un'azione concordata con le varie forze territoriali in campo (amministrazioni, Coldiretti, sindacati, comitati locali, ecc.) che devono svolgere una funzione iniziale di promozione e coordinamento, oltre che di conoscenza e informazione: disponibilità della terra, presenza di boschi e macchie,ecc. Ma è evidente che la ricostruzione di un nuovo ceto di agricoltori per le aree interne passa oggi attraverso una nuova politica dell'immigrazione. Diciamo una verità sgradevole e assolutamente necessaria: il lavoro nelle campagne italiane viene svolto dal bracciantato di provenienza straniera, una gran parte del quale tenuto in condizione di semischiavitù. E' possibile tollerare tutto questo? Ricordo che tra gli immigrati sono presenti attitudini e saperi agricoli che potrebbero avere ben altra destinazione. Gli indiani hanno salvato di fatto l'allevamento bovino nel Nord d'Italia. Quanti giovani africani o dell'Est europeo potrebbero essere attratti dalla possibilità di condurre una piccola azienda agricola, insieme a connazionali o a giovani italiani?
Vedi anche di Bevilacqua “La vecchia talpa scava ancora” ,Per il convegno vedi il sito della Società dei territorialisti . La relazione di Bevilacqua sarà pubblicata, come altre svolte al Convegno di Milano, sul primo numero della rivista della SdT Scienze del territorio che si intitola "Ritorno alla terra" e che esce on line a fine giugno presso la Firenze University Press (FUP).
Con buona pace dei puristi della cultura e delle loro anche condivisibili ragioni, la vitalità urbana passa sempre dalla composizione funzionale, anche stravagante se serve. Corriere della Sera Milano, 22 maggio 2013, postilla (f.b.)
E per dessert: il teatro. Tra le cucine degli chef, gli scaffali dei millesimati e il banco dei prosciutti dop, buon appetito e godetevi lo spettacolo: «Proporremo concerti dal vivo tutte le sere e straordinari ospiti a sorpresa». Là dove c'era lo Smeraldo, il salotto per il dopocena della gente comune, in autunno entrerà Eataly, il supermarket dei cibi alti e certificati. Un megastore di 3.500 metri quadri, l'itinerario del gusto che gira su una «U» e sale per tre livelli. La novità sarà inserita tra il primo e il secondo piano, nel punto di massima visibilità. Un palcoscenico. Annuncia il patron Oscar Farinetti: «Conserviamo la memoria viva del teatro popolare». Se il centro enogastronomico di Firenze è un omaggio al Rinascimento, se il punto vendita di Roma è dedicato alla bellezza e il gemello di Bari celebrerà il fascino del Levante, l'Eataly di piazza XXV Aprile farà suo l'immaginario del pop e del rock. La parabola è compiuta: dallo Smeraldo dei Legnanesi allo smeraldino del piemontese Farinetti.
«Stiamo allestendo una roba enorme, nello spirito culturale del teatro che ci ha preceduti»: il patron di Eataly l'aveva anticipato al Corriere tre mesi fa, facendo lezione di marketing, servendo pochi dettagli e lasciando furbescamente inappagata la curiosità. Ora il format è definito: un palco a unire verticalmente i primi due piani dell'edificio; un cartellone di ospiti annunciati e qualche comparsata fuori programma. Infine, per fortificare il legame col passato, Farinetti ha chiesto la «collaborazione» di Gianmario Longoni, storico direttore dello Smeraldo: «Mi diverte l'idea di riproporre la tradizione del teatro del 700 — sorride Farinetti, l'imprenditore che ha conquistato New York e prepara lo sbarco a Chicago —. Il teatro in cui si beveva, si mangiava e si ascoltava buona musica».
Lo Smeraldo di Cats e del Boss, la sala del Fantasma dell'opera e del riservatissimo Bob Dylan, insomma, il palazzo al 10 di Porta Garibaldi è chiuso dal 30 giugno scorso, martoriato dai lavori e ucciso dai ritardi del parcheggio interrato. Oscar Farinetti da Alba — 58 anni, già proprietario di UniEuro, ideatore di Eataly e ambasciatore del made in Italy — ha rilevato il teatro, ha progettato il market, avviato i cantieri e programmato 3-400 assunzioni. Ieri l'altro, da Palazzo Marino, ha ricevuto il preventivo degli oneri di urbanizzazione (la tassa sulla ristrutturazione): un milione e 240 mila euro. Letta la cifra, ha vacillato: «Ho pensato di lasciar perdere». Ci ha ripensato? «Apriamo, apriamo... Al Comune di Milano si son sbattuti da matti, hanno accelerato l'iter, l'istruttoria è stata completata in meno di un anno. E però, ora basta: le leggi di questo Paese sono assurde, puniscono chi produce lavoro. Vanno cambiate».
Il megastore sarà inaugurato tra fine settembre e ottobre, nonostante la stangata degli oneri e le scommesse perse. Ricordate il voto di Farinetti alla vigilia delle elezioni? «Se vincesse Maroni mi verrebbe voglia di fare un mostruoso kebab allo Smeraldo, anziché Eataly». Roberto Maroni è il nuovo presidente della Lombardia. Eppure, dopo Porta Garibaldi, Eataly dovrebbe arrivare anche a San Babila.
Postilla
Certamente l'idea di avvolgere la cultura dentro un cartoccio di patatine fa storcere il naso, così come l'ha fatto storcere comprensibilmente sostituire a una storica piazza antistante un teatro un parcheggio da supermercato, ma proviamo a guardarla da un'altra angolazione. Dove prima c'era una sola funzione, tra l'altro abbastanza elitaria, per vari motivi – di cui non è il caso di discutere qui – abbandonata se ne insediano varie, con un mercato decisamente aperto e potenziale, diciamo sperimentale. Non ci sono i presupposti per osservarlo con attenzione, l'esperimento? Verificare quanti flussi di utenti genera, il tipo di mobilità preferito, le debolezze così come i punti di forza da sviluppare magari in altre esperienze simili. C'è nell'aria anche una moratoria dei grandi complessi commerciali extraurbani, concorrenti diretti di questi modelli di riqualificazione centrali mixed-use, che sono da sostenere, magari con maggiore attenzione a ruoli ed equilibri centro-periferia. E certo senza continuare a rimpiangere un'età dell'oro, vuoi commerciale, culturale, o anche sociale, che spesso esiste solo in una memoria vaga e distorta (f.b.)