Quando il cosiddetto sviluppo del territorio caro ai grandi interessi e micidiale per tutto il resto diventa politica nazionale e pure strategica di occupazione autoritaria dello spazio. Il Fatto quotidiano, 29 gennaio 2014
Più che a un piano aeroporti, quello presentato nei giorni scorsi dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi, assomiglia a un piano strade. La riorganizzazione degli scalisuddivisi in strategici, nazionali e locali, non aggiunge né toglie nulla infatti alla situazione del traffico aereo, decide a tavolino che ogni regione deve avere un aeroporto di riferimento anche se di fatto fa meno transiti di un rifugio di montagna. Invece di lasciar parlare il libero mercato, il piano – di chiara impronta statalista – di fatto certifica anche per il futuro la possibilità di buttare altri soldi pubblici in nuove infrastrutture. Anche attorno ad aeroporti che non cresceranno mai.
E’ vero, rispetto ai ministri che lo hanno preceduto nel tentativo di riorganizzazione, le piste con il certificato di valenza nazionale sono diminuite numericamente, ma è il mix di scelta a lasciare profondi dubbi. In sostanza ora esistono undici aeroporti strategici e altri 26 scali di interesse nazionale. Per individuare gli scali strategici, il territorio nazionale è stato ripartito in 10 bacini di traffico e per ciascuno è stato identificato un aeroporto strategico, con l’eccezione del Centro-Nord, dove ce ne sono due: Bologna e Firenze-Pisa che dovranno fondersi. Nel testo portato al consiglio dei Ministri il 17 gennaio scorso si scopre che in Sicilia a meritare contributi pubblici nazionali anche per le relative infrastrutture saranno Catania, Palermo, Pantelleria, Lampedusa e Comiso, che nel 2013 ha fatto registrare poco più di 60mila passeggeri. Un nulla che riesce a fare comunque bella figura se lo si mette a confronto con Brescia-Montichiari. L’aeroporto D’Annunzio, in sistema con il Valerio Catullo di Verona, nei primi 11 mesi del 2013 (ultimo dato disponibile) ha visto atterrare o decollare non più di 30 passeggeri al giorno (circa 10mila in tutto). Costerebbe meno accompagnarli in auto a destinazione.
Eppure anche Montichiari è rientrato tra gli scali da premiare, perché prima o poi diventerà cargo. L’anno scorso, a maggio, fu annunciato un importante accordo con un vettore vietnamita che avrebbe dovuto assicurare almeno un volo settimanale cargo (al momento a Montichiari atterrano praticamente solo i velivoli delle Poste con lettere e missive da smistare). Tutto è saltato. Tant’è che alcuni maliziosi ci hanno visto una mossa mediatica per far credere che le potenzialità di crescita fossero concrete. La mossa evidentemente ha funzionato. Il governo scommette su Montichiari e quando avrà bisogno di fare investimenti potrà chiederne direttamente allo Stato. Quanto scommette? Non è dato saperlo, ma quello che è certo è che per il pianificatore i “milanesi”Linate (8,4 milioni di passeggeri) e Orio Al Serio (8,3 milioni) sono allo stesso livello dello scalo bresciano.
E tutti valgono meno di Malpensa verso cui dovranno essere deferenti a cedere il passo quando si tratterà di investimenti. Chiaro. Peccato che quando si decise a priori di sviluppare lo scalo di Varese e ridimensionare Linate, i passeggeri hanno scelto Orio. Nello sguardo di Lupi, ancora più importante di questi scali lombardi c’è l’hub (si fa per dire) di Lamezia Terme. Nonostante i suoi 2 milioni di passeggeri è strategico quanto Fiumicino o Venezia. Prevale la logica politica. In questo modo tutti i referenti locali possono vantare una vittoria. Tant’è che il piano del governo non ha scontentato quasi nessuno. A parte Torino che si aspettava la certificazione di strategico, ma che comunque già si muove per aprire una trattativa. “Quello del ministro Lupi è un piano aperto al confronto, ci sono tutti gli elementi per dimostrare la valenza strategica dell’aeroporto di Torino Caselle per il Piemonte e per l’Italia. Nei prossimi giorni avremo con Lupi un incontro per affrontare la questione”, ha detto il sindaco di Torino, Piero Fassino, sottolineando che “bisogna dotare la città di infrastrutture adeguate e tra queste è fondamentale il potenziamento dell’aeroporto”.
E così si torna a discutere del leit motive: strade e cantieri. Come quelli che verranno aperti “per il soddisfacimento del previsto aumento della domanda di traffico e al fine di migliorare la qualità dei servizi”, come recita il piano Lupi che contempla “l’individuazione delle opere necessarie per il miglioramento dell’accessibilità e dell’intermodalità; le priorità degli interventi di potenziamento della rete e dei nodi intermodali di connessione e l’inserimento nella programmazione e pianificazione delle istituzioni competenti, quali urgenti ed indifferibili, dei collegamenti viari e ferroviari con i tre gate intercontinentali”.
Restano tagliati fuori dai soldi pubblici e dagli aiuti solo gli scali declassati. Siena, Albenga, Aosta, Grosseto, Bolzano, Brindisi, Foggia, Taranto, Oristano e Forlì. Ma sul loro futuro c’è solo nebbia. Chiuderanno? Non sembra. Saranno finanziati dalle Regioni, probabilmente. Con quali soldi non si capisce. Certo definirli nazionali sarebbe stato stavolta un insulto all’intelligenza dei cittadini. Basti pensare che Siena-Ampugnano (per cui il cui ampliamento nel 2010 sono stati indagati l’ex numero uno del Monte dei Paschi Giuseppe Mussari e altri 15) nei primi 11 mesi del 2013 ha fatto registrare 258 passeggeri. Di cui 71 a gennaio scorso, 187 a febbraio e poi zero. E dire che erano stati stanziati 15 milioni di euro con la previsione di raggiungere 100mila passeggeri. Insomma, rileggendo il piano Lupi e cercando di rispondere alle domande che lascia senza risposta, viene da pensare che nella migliore delle ipotesi per l’ennesima volta l’Italia pensi che debbano essere i viaggiatori al servizio dei vettori e degli scali e non viceversa oppure viene da pensare che a guadagnare saranno le aziende che vivono del business dei cantieri. Che si apriranno anche se non necessari.
Nota: ce ne sono ovviamente decine di casi orribili di trasformazioni fini a sé stesse del genere, a suo tempo ci occupammo di una particolarmente grossa e spudorata, citata anche qui, quella dello Hub Montichiari (f.b.)
Come uno dei sue rami del potere legislativo distrugge la legalità, mediante convergenze parallele di senatori di Forza Italia e del Partito democratico. l'Unità online, blog "città e città", 24 gennaio 2014
Almeno una volta l’anno, a volte due. Quasi una malattia di stagione, il condonismo compare in Parlamento a cadenze regolari. Dando speranze, strumenti, cavilli giuridici agli abusivisti.
Stupefacente quel che è avvenuto in Senato, che ha approvato la proposta di legge presentata dal forzista Ciro Falanga su “Disposizioni in materia di criteri di priorità per l’esecuzione di procedure di demolizioni di manufatti abusivi”. In sostanza è una lista di 11 tipologie di abusivismi da rispettare negli ordini di demolizione: Prima gli abusi pericolanti, poi quelli non finiti, e ancora quelli usati per attività criminali, quelli di proprietà di appartenenti alle cosche, gli ecomostri (al quinto posto)… fino agli abusi “di necessità”, anche se con villetta di lusso e piscina. Discutibile la lista, ma ancor più dannoso lo strumento che si offre agli abusivi: la possibilità, per chi fosse arrivato al termine del già lungo e farraginoso iter della demolizione, di fare ancora nuovi ricorsi, bloccando ancora la demolizione. Insomma, un condono mascherato
Per l’ex senatore Roberto Della Seta, questa sarà “la pietra tombale sugli smantellamenti, chiunque infatti potrà appellarsi contro la loro decisione”. Per Vittorio Cogliati Dezza “è una camicia di forza alla lotta contro l’abusivismo, una beffa”. Anzi, incalza, “tutti si giocheranno la carta dell’abusivismo di necessità, che ora grazie al Senato è diventato un istituto giuridico”. Sostenuto con energia dai senatori della Campania – se qualcuno volesse andare a fare un viaggio per gli sconci di quella regione, un tempo meravigliosa, capirebbe il perché: 200 mila abusi censiti, quasi 70 mila sentenze di abbattimento già pronte all’esecuzione – il testo di legge ha diviso il Pd e ha avuto il voto contrario di M5s, Lega, Sel. La legge ora passa alla Camera, c’è da sperare che venga profondamente modificata prima che i prossimi temporali producano smottamenti e frane, e si sia costretti a piangere nuove perdite umane in case “che lì non ci sarebbero dovute stare”.
Non ci sono più parole per protestare contro gli scempi che questo governo e questo parlamento stanno compiendo. Ma se passa la legge elettorale di Renzusconi i prossimi non saranno migliori. Il manifesto, 23 gennaio 2014
Il testo uscito dalla penna del senatore di Forza Italia Ciro Falanga e votato a larghissima maggioranza dal Senato della Repubblica è qualcosa di inaudito. Il potere legislativo si arroga la prerogativa di indicare ad un altro potere dello Stato indipendente dal primo l’ordine di priorità nella demolizione dei casi di abusivismo accertati e arrivati fino all’atto conclusivo previsto dalle leggi, e cioè all’ordinanza di demolizione.
Per comprendere il vulnus che questo provvedimento rischia di produrre nella struttura dello Stato si può pensare ad una serie infinita di altri reati. Perché non intervenire nella priorità di arresto per chi froda il fisco o per chi mette in commercio cibi adulterati? Non è l’indipendenza della magistratura in forza della legislazione vigente che deve sanzionare i reati. E’ il Parlamento che detta le regole da rispettare sulla base della più assoluta irrazionalità e discrezionalità dei criteri via via stabiliti sulla base delle meschine convenienze politiche ed elettorali.
Se c’era un modo per demolire ulteriormente la già scarsa fiducia che la quasi totalità del paese ha nei confronti del Parlamento, i senatori che hanno votato il provvedimento hanno raggiunto il loro scopo e c’è un unico rimedio: disconoscerlo pubblicamente e chiudere per sempre questa pagina buia.
Ma c’è anche una gravissima questione di merito che va evidenziata. Il provvedimento nella sua ipocrita classifica di priorità parla ancora di «difendere il tetto» delle famiglie che hanno subito l’ordinanza di demolizione, quando tutti sanno che l’abusivismo di necessità è finito dagli anni ’90 dello scorso secolo. Da allora è soltanto un modo per investire denaro di provenienza illecita o per tentare speculazioni affaristiche. Purtroppo, da venticinque anni grazie alla cultura del condono e ai piani casa si continua a solleticare il fai-da-te nel governo del territorio e il provvedimento Falanga rappresenta il tentativo di approvare il quarto condono edilizio. Dal primo condono (1985), gli altri si sono succeduti a distanza di nove anni. Stavolta arriva con due anni di ritardo, ma fa lo stesso.
In questi giorni l’Italia che spera in un diverso futuro guarda con sgomento che un’intera regione, la Liguria, sta scivolando a mare grazie al lassismo urbanistico e all’abusivismo. Il senato della Repubblica ha dimostrato di non essere in sintonia con questo sentimento diffuso. Il suo orizzonte si ferma alle convenienze elettorali
Un robusto contributo alla riflessione sui beni comuni e sulla loro legittimità del vicepresidente onorario della Corte costituzionale e coautore della Legge Galasso. Testo inviato dall'Autore
Relazione al Convegno di studi sul tema “Regole per il buon governo. La riforma della legge regionale toscana sul governo del territorio, Firenze, 20 novembre 2013; Relazione al Convegno di studi sul tema “Il governo del territorio nelle Marche: quali cambiamenti?”, Fermo, 6 dicembre 2013. In corso di pubblicazione sulla rivista cartacea Diritto e Società.
1. – La cosiddetta “crisi economico finanziaria”
Si parla impropriamente di “crisi economico finanziaria”, come una delle crisi cicliche dell’economia, dopo le quali torna il sereno. E’ questa la prima grande “falsità” che il “pensiero unico dominante del neoliberismo economico” fa credere al popolo italiano come una “verità” indiscutibile. Questa non è assolutamente una solita crisi economica ricorrente, è una “crisi economica finanziaria di sistema”, nella quale sono venuti a trovarsi in una situazione fortemente svantaggiata l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda, specialmente dopo l’attacco del novembre 2011, sferrato dalla speculazione finanziaria contro il loro debito pubblico.
I Paesi del sud Europa si trovano ora stretti da una tenaglia, che vede da un lato la corrosione continua della propria economia da parte della speculazione finanziaria e dall’altro la politica di austerity imposta dalla Germania. E’ una tenaglia che toglie liquidità alle imprese e causa di chiusure e delocalizzazioni, licenziamenti, disoccupazione, recessione, aumento del debito pubblico, miseria.. Non è difficile prevedere che l’esito finale di questo stato di cose sarà la svendita agli stranieri del territorio con tutte le conseguenze che ciò comporta, anche in termini di indipendenza nazionale.
Il dato fondamentale[1] consiste nel fatto che la “speculazione finanziaria”, la principale artefice di questo immane disastro mondiale, ha cessato di finanziare opere di investimento produttivo, che danno luogo a occupazione, ed ha preferito, per brama di guadagno immediato, comprare debiti, giocando in borsa con questi, quasi fossero valori economici positivi, ed investendo nei medesimi, dando così luogo, non a produzione di beni reali, ma a “raschiamento” della ricchezza esistente, ponendo in essere, per giunta, anche operazioni ad alto rischio, foriere di default,. E ben presto sono improvvisamente precipitate in una situazione fallimentare numerose banche americane ed europee, con la conseguenza, davvero insolita, che, essendo state giudicate “troppo grandi per fallire”[2] sono state poi salvate con interventi statali, quasi fossero banche in proprietà statale e non banche private, riversandosi così gli effetti del fallimento su ignari cittadini. E’ il caso della Goldman Sachs e della Morghen Stanley americane, dell’Ubi svizzera e del Monte dei paschi italiana. Raramente, ed invero anche inspiegabilmente, qualche banca è stata lasciata fallire, come nel caso della Lehman Brothers americana[3].
Detto in una sola parola, la speculazione finanziaria ha creato una enorme “ricchezza fittizia”, facendo valere come “diritti di credito reali”, “debiti non garantiti” (si pensi ai “derivati” ed ai “derivati dal credito”), con vari artifici giuridici e prevalentemente, “creando danaro dal nulla”, il cosiddetto “danaro dall’aria fina”, e sostituendo così al “mercato reale” dell’economia, il “mercato finanziario fittizio”. Un mercato nel quale si parla di “crediti” ai quali non corrispondono “beni reali”. Il dato di fatto è che, comunque, manovrando questa ricchezza fittizia, la speculazione finanziaria introduce negli scambi uno stato di assoluta incertezza, agendo a proprio esclusivo vantaggio indipendentemente dalla situazione economica reale e, addirittura, “determinando” a proprio piacimento i tassi di interesse che i vari Paesi devono pagare sul loro debito pubblico, il cosiddetto “spread”.
Alla radice di tutto c’è un incredibile salto logico: quello di far credere che il “debito” è un “diritto di credito” sicuro, mentre, in realtà, il debito, per ragioni soggettive del debitore, ovvero per il dato oggettivo di un mutamento dei prezzi dei beni dati in garanzia (come è avvenuto per subprime americani, parametrati sul valore delle costruzioni per civili abitazioni, i cui prezzi sono crollati precipitosamente per l’eccesso di offerta), non è affatto “un bene sicuro”, ma un bene, se così lo si vuole chiamare, fortemente “aleatorio”.
E vediamo come le banche “creano danaro dal nulla”. Sin dal medio evo[4], come è noto, le banche prestavano danaro senza intaccare i depositi di beni reali, quali gioielli, monete d’oro, arredi preziosi, e per un valore nettamente superiore all’insieme di questi beni avuti in custodia, nella certezza che i creditori non accorressero tutti nello stesso momento per ritirare i loro depositi. Questo antico principio è stato sempre seguito fino a non molto tempo fa dalle nostre “banche commerciali”, la cui funzione era quella di raccogliere i risparmi e concedere prestiti per produrre beni reali. Un sistema, come si nota, positivo, poiché permette a chi intende intraprendere un’attività produttiva di creare beni e servizi, e quindi maggiore ricchezza, e di restituire regolarmente la somma avuta in prestito.
Sennonché, a cominciare dagli anni ottanta del novecento gli speculatori finanziari hanno avuto un colpo di genio: quello di trasformare i “crediti”, che poi vuol dire i “debiti”, in “titoli commerciabili”, soggetti a valutazione di borsa, e quindi a “creare danaro dal nulla”, come si diceva “danaro dall’aria fina”.
Ben presto questa prassi ha invaso l’intero occidente. Ma, in Italia, essa è venuta a trovarsi in contrasto con la disciplina codicistica dei titoli di credito (di cui agli artt. 2008, 2011 e 2021 del codice civile), la quale, come si legge nella Relazione al Re del Ministro guardasigilli per l’approvazione del testo del codice civile del 1942[5], evitò con cura che i “titoli al portatore” potessero “usurpare la funzione della carta moneta, la cui emissione non può essere lasciata all’arbitrio dei singoli”.
Sta di fatto, comunque, che questo fondamentale potere dello Stato di coniare moneta è presto finito nelle mani di banche private. “Per l’Unione Europea si stima oggi che oltre il 90 per cento della massa monetaria presente nell’economia sia stato creato dalle banche. Meno del 10 per cento è creato dalla BCE, di cui una frazione non superiore al 2-3 per cento sotto forma di monete e banconote. Il resto viene largamente impiegato al fine di sostenere con il danaro legale da essa emesso la creazione di danaro bancario o danaro-credito da parte di enti privati, cioè da banche commerciali”[6].
L’Italia, allora non ha saputo far di meglio che adeguarsi a questa prassi, propria degli ordinamenti di common law, legittimando la violazione palese di un principio fondamentale del nostro codice civile, con le disposizioni della legge 30 aprile 1999, n. 130, sulle “cartolarizzazioni”. Questa legge legittima “le operazioni di cartolarizzazione realizzate mediante cessione a titolo oneroso di crediti pecuniari, sia esistenti, sia futuri, individuabili in blocco se si tratta di una pluralità di crediti”.
Dunque, derivati, derivati dal credito ed altri simili “prodotti finanziari”, hanno avuto diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento positivo. Il fatto poi che l’art. 3 di detta legge n. 130 del 1999, confermato dalle disposizioni della legge n. 410 del 2001 sulle privatizzazioni degli immobili dello Stato, sancisca che “i crediti relativi a ciascuna operazione costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti da quello della società (cioè della banca) e da quello relativo ad altre operazioni”, costituisce un “limite” di pura facciata, poiché quello che conta, ai fini del mantenimento di un sano sistema economico, non è certo la costituzione di patrimoni separati, ma il divieto assoluto (come fecero i redattori del codice civile del 1942) che le banche private “creino danaro dal nulla”, senza alcuna corrispondenza con la creazione di beni reali..
Oggi nessuno sa quanto danaro creato dal nulla sia in circolazione[7]. Una stima relativa al periodo 2000-2008 calcola che le banche europee soltanto in quel periodo avevano immesso sul mercato un volume di cartolarizzazioni pari a 3,7 trilioni di euro[8].
Occorre poi tener presente, si ripete, che gli speculatori finanziari manipolano spregiudicatamente questo “danaro fittizio”, facendo investimenti per acquisire nuovi titoli di questo genere e aumentando con la loro azione “l’instabilità della moneta” ed i “rischi” di default.
Ma non è tutto. Oltre al danaro creato dal nulla, c’è il “sistema bancario ombra”[9] degli enti finanziari diversi dalle banche, i quali, essendo privi di “regolazione” e di “sorveglianza”, possono agevolmente, con la libera creazione di “società di scopo”, evadere gli obblighi imposti dagli Accordi di Basilea, e cioè l’obbligo di avere una “riserva”, oggi del 2 per cento del prestito concesso, e, a partire dal 2019, dell’8 per cento del prestito stesso[10].
Questa complessa articolazione del sistema bancario mondiale, come agevolmente si nota, ha aumentato oltre il “sostenibile” il “rischio” di insolvenza, scaricando, però i relativi danni, non sulle banche, ma sulla collettività. Occorrerebbe, dunque, una riforma a livello internazionale, globale, o almeno europeo, ma vi si oppone un nemico pressoché invincibile, e cioè l’imperversare delle citate teorie “neoliberiste”, che, non ostante gli evidentissimi danni prodotti, oscura tuttora le menti di molti economisti (per l’ovvio motivo che questi si pongono come fine “il massimo profitto” e non il “benessere” materiale e spirituale della società) ed è fortemente radicata nell’immaginario collettivo. Il postulato, mai pienamente dimostrato in sede teorica (posto per la prima volta negli anni 40 del secolo scorso da due docenti dell’Università di Chicago, Milton Friedman e Greorge Stigler), consiste nell’affermazione, clamorosamente smentita dai fatti, conseguiti alle politiche reganiane e tacheriane, secondo la quale il “mercato” è il “grande ordinatore” della vita civile e prevale su tutti i campi: da quello del diritto, a quello della filosofia, fino a quello della morale[11]. Ciò che conta è ottenere il “massimo profitto”. E’ da questo che scaturirebbe il benessere di tutti. Sennonché si tratta di un drammatico errore, poiché, come afferma il Bauman[12], “tutto questo è falso”.
Il disastro, come si vede, è immane e richiede un nuovo “sistema economico mondiale, o almeno europeo” da costruire a livello internazionale, ma, limitando l’esame a livello italiano, è ben possibile correre ad alcuni ripari, che, a tacer d’altro, sono già previsti dalla nostra Costituzione.
Prima di passare all’analisi giuridica del problema, tuttavia, non si possono non citare le seguenti illuminanti parole di Papa Francesco, pronunciate il 16 maggio 2013 in occasione della presentazione delle lettere credenziali di alcuni ambasciatori[13]. “La crisi finanziaria che stiamo attraversando”, dice il Papa, “ci fa dimenticare la sua prima origine, situata in una profonda crisi antropologica. Nella negazione del primato dell’uomo! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr. Es. 32, 15-34) ha trovato una nuova e spietata immagine nel feticismo del danaro e nella dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano…..Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole. Inoltre, l’indebitamento ed il credito allontanano i Paesi dalla loro economia reale ed i cittadini dal loro potere d’acquisto reale. A ciò si aggiungono, oltretutto, una corruzione tentacolare e un’evasione fiscale egoista che hanno assunto dimensioni mondiali. La volontà di potenza e di possesso è diventata senza limiti”.
Mai analisi fu più acuta e più scientificamente fondata di questa. C’è la condanna espressa della ideologia neoliberista che vede nel mercato la soluzione di tutti i problemi. E’ posto in evidenza come il mercato arricchisce i ricchi ed impoverisce i poveri, e come da “mercato reale” sia diventato un mercato essenzialmente finanziario. Non si ha timore di porre chiaramente in evidenza che causa prima ed efficiente di questa tragica situazione è “la assoluta autonomia dei mercati e speculazione finanziaria”, definite “una nuova tirannia invisibile”. Si sottolinea come nel sottofondo di tutto questo ci sia una gravissima malattia di carattere morale, individuale e sociale, la “corruzione”, “la volontà di potenza e di possesso”.
2. – “L’antisovrano”.
Ed è proprio in questo preciso ordine di idee che si inserisce, sul piano del diritto, il fondamentale contributo scientifico di un laico, Massimo Luciani, il quale, per sussumere in un solo concetto i fenomeni di cui parliamo, si è riferito alla figura “dell’antisovrano”, e cioè di “un quid che in tutto e per tutto si contrappone al sovrano da noi tradizionalmente conosciuto. “Non è un soggetto (ma semmai una pluralità di soggetti); non dichiara la propria aspirazione all’assoluta discrezionalità nell’esercizio del proprio potere (cerca anzi di presentare le proprie decisioni come logiche deduzioni da leggi generali oggettive, quali pretendono di essere quelle dell’economia e dello sviluppo); non reclama una legittimazione trascendente (che sia la volontà di Dio oppure l’idea dell’eguaglianza degli uomini), ma immanente (gli interessi dell’economia e dello sviluppo, appunto); non pretende di ordinare un gruppo sociale dotato almeno di un minimum di omogeneità (il popolo di una nazione), ma una pluralità indistinta, anzi la totalità dei gruppi sociali (tutti i popoli di tutto il mondo che ritiene meritevole di interesse); non vuole essere l’espressione di una volontà di eguali formata dal basso (si tratta infatti di un insieme di strutture sostanzialmente e talora formalmente organizzata su base timocratica)…. L’antisovrano si arroga un potere senza averne il legittimo titolo…. è detentore di un potere che aspira ad essere universale, ed è l’agente che determina la crisi del mondo come l’abbiamo fino ad oggi conosciuto. Un antisovrano, dunque, dal punto di vista concettuale, ma inevitabilmente anche dal punto di vista pratico, perché l’affermazione del suo potere presuppone proprio che l’antico sovrano nazionale sia annichilito”[14].
Essenziale è l’affermazione secondo la quale l’antisovrano “si arroga un potere senza avere un legittimo titolo….e che aspira ad essere universale”.
Dunque, il problema che ci si pone è se si vuole restare soggetti ad un potere che non ha titolo giuridico per esistere, ovvero si vuol fare valere la forza del diritto contro la sopraffazione bruta del danaro. E la nostra Costituzione, come si diceva, offre dei capisaldi importantissimi per far valere il diritto e l’equità.
Limitandoci a ciò che può fare l’Italia, appare evidente che è da eliminare innanzitutto l’estrema anomalia di sistema prodotta dalla citata legge n. 130 del 1999.
Si tratta di una legge palesemente incostituzionale sotto vari profili. Innanzitutto essa contrasta con il principio della “stabilità dell’economia”, di cui è espressione il riferimento “all’unità ed alla indivisibilità della Repubblica” (art. 5 Cost.), nonché il riferimento “all’unità giuridica ed economica” della Nazione, di cui all’art. 120 Cost.
Ma soprattutto si tratta di una legge che incredibilmente tende a “deprimere” la salvaguardia del “valore costituzionale del lavoro”, considerato che, come si è visto, l’instabilità economica si riflette ineluttabilmente sul lavoro delle imprese e, quindi, “sull’occupazione”. In questa prospettiva, le violazioni costituzionali sono davvero enormi. Lo stesso art. 1 della Costituzione, secondo il quale l’Italia è “una Repubblica democratica fondata sul lavoro” ne viene fortemente colpito. Di pari violazione è inoltre vittima l’art. 4 comma 1, Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”. Altrettanto plateale è la violazione dell’art. 35 Cost., secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”. E, lo si creda, l’elenco potrebbe continuare, citando, ad esempio, l’effetto negativo che le cartolarizzazioni producono sulla “proprietà pubblica e privata”, di cui all’art. 42 Cost. Detto in una parola, si tratta di una legge in pieno contrasto con i principi fondanti della nostra Costituzione, poiché essa pone come “valore”, non lo sviluppo della “persona umana” e quindi “il lavoro dell’uomo”, ma il concetto capitalistico del “massimo profitto” individuale.
3. – Illegittimità della speculazione finanziaria.
Superata questa prima difficoltà, resta da dimostrare quanto l’azione dell’antisovrano contrasti con la nostra Costituzione repubblicana e con i Trattati europei.
A ben vedere, in contrasto con la Costituzione sono, non solo il regime delle “cartolarizzazioni”, ma l’insieme delle “transazioni finanziarie speculative”, che, mirando, non a produrre, ma a raschiare la ricchezza esistente in proprietà collettiva della Comunità nazionale, hanno certamente una finalità illecita e sono dunque “nulle per illiceità della causa”. E tutto questo a prescindere dalle eventuali illiceità penali scaturenti dagli accordi tra più speculatori finanziari, come prevede l’art. 501 del vigente codice penale.
Ne consegue che da negoziazioni prive di valore giuridico non possono scaturire validi “giudizi di mercato”, in base ai quali si stabiliscono i “prezzi di mercato”.
E, date queste premesse, appare del tutto evidente che anche i cosiddetti “spread” non sono affatto attendibili. Come poco sopra si accennava, gli speculatori finanziari agiscono nel loro personale interesse, indipendentemente da qualsiasi riferimento all’economia reale di un Paese, e la loro “determinazione” dei tassi di interesse che ciascun Paese deve pagare sul proprio debito pubblico, non deriva da valutazioni puramente economiche, cioè dall’applicazione della legge naturale della domanda e dell’offerta, ma da una arbitraria, e spesso concordata, scelta degli stessi speculatori finanziari. D’altro canto, in un mercato finanziario, che ha definitivamente perduto la finalità di investire in attività produttive di beni reali, ed investe invece in operazioni finanziarie per scopi soltanto speculativi, che hanno come risultato l’instabilità dei prezzi e l’aumento della disoccupazione, quale valore di misurazione dell’economia reale possono avere gli “spread”?
E si deve ricordare in proposito che la speculazione finanziaria, agisce sì sulle quotazioni del mercato secondario, ma finisce per influenzare anche il mercato primario, essendo stato dimostrato che le quotazioni del primo si trasferiscono, nello spazio di tre o sei mesi, anche sul secondo.
Allo stato attuale, non dovrebbero esserci dubbi sulla necessità di “disconoscere” la validità giuridica delle transazioni speculative, dei cosiddetti giudizi di mercato e, in particolare, degli spread.
Riguardo a quest’ultimo sarebbe forse opportuno prevedere una “determinazione” da parte di una Autorità indipendente, che offra la visione di un “differenziale” tra i tassi di interesse sul nostro debito pubblico e quelli della Germania, depurata dal “carico” della speculazione e sia dunque più vicina alla realtà dei fatti. Un documento del genere, periodicamente aggiornato, potrebbe servire a sminuire l’attendibilità degli spread finanziari.
Come si è accennato, problema gravissimo è quello relativo alla “posizione dominante” nella quale, ad opera degli speculatori finanziari (la cui azione, come si è visto, è del tutto inattendibile) è venuta a trovarsi la Germania, la quale insiste nella sua politica di austerity.
Anche qui la situazione che si è creata è del tutto in contrasto con quanto dispongono i Trattati, la nostra Costituzione, le Costituzioni degli Stati europei ed il diritto internazionale consuetudinario e pattizio (Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, divenuto esecutivo nel 1976)[15].
A ben vedere l’insistenza della Germania nella politica di austerity configura una palese violazione dell’art. 82 del Trattato, il quale sancisce l’incompatibilità con il mercato comune dello “sfruttamento abusivo della posizione dominante”. Si tratta di una “incompatibilità” che persegue l’obiettivo enunciato dall’art. 3 del Trattato di garantire che la “concorrenza” non venga falsata. Ed è proprio quello che sta facendo la Germania. Se ciò è vietato per le singole imprese, a maggior ragione deve essere vietato per il comportamento dello Stato tedesco, il quale, così facendo, finisce con il “legittimare” la violazione dei Trattati da parte di tutte le imprese.
A ciò si deve aggiungere che i mercati finanziari, nella loro avidità di guadagno, sono pronti ad aggredire una impresa (agendo sui titoli azionari o obbligazionari) o un intero Paese (agendo sui tassi di interesse sul debito pubblico) al primo sintomo di debolezza imponendo loro maggiori tassi di interesse e rendendo così impossibile qualsiasi possibilità di ripresa.
La politica dell’austerity va proprio in questa direzione. L’Europa, imponendo ai Paesi fortemente indebitati una diminuzione del debito con operazioni puramente contabili, senza tener conto degli effetti recessivi, persegue un fine opposto a quello che proclama: fa aumentare le tassazioni, fa diminuire la liquidità, provoca chiusura di imprese, licenziamenti, disoccupazione, recessione, conseguendo come ultimo risultato l’impossibilità assoluta di diminuire il debito. Insomma, il Paese sotto attacco è senza scampo, è costretto a non investire e ad aumentare la disoccupazione, e, infine, a svendere il proprio territorio.
Ed è da sottolineare che tutto questo, non solo lede quanto prescrive il citato art. 82 del Trattato in ordine “all’abuso della posizione dominante”, ma è altresì in contrasto con il principio fondamentale europeo, ribadito dalla carta di Nizza, della “coesione economica e sociale”[16]. E, a questo punto, il dilemma è insuperabile: o l’Europa recede da questo atteggiamento, oppure saremo costretti ad uscire dall’euro. Come ricorda Vladimiro Giacché[17], “l’uscita dall’euro potrebbe presto essere considerata come la vecchiaia per Maurice Chevalier: una gran brutta cosa, ma sempre migliore dalle alternative”. Soffriremmo del protezionismo da parte degli altri Paesi e dell’inflazione, ma potremmo esercitare la nostra “sovranità monetaria”, agendo su un piano di parità con tutti gli altri Stati del mondo, ed in particolare con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Giappone, i quali, come è noto, hanno risolto i loro problemi stampando moneta.
A questo punto, restringendo l’analisi all’aspetto puramente giuridico riguardante il nostro Paese, balzano in primo piano due fondamentali “errori”, diffusi tra gli studiosi, ma anche nell’immaginario collettivo, dalla cultura borghese e dall’imperante teoria neoliberista. Si tratta, da un lato della nozione dello Stato, come “Persona giuridica” e dall’altro della proclamata esistenza di un solo tipo di “proprietà”, là dove esistono due tipi di proprietà: quella “collettiva”, fondata sulla “sovranità popolare”, e quella “privata”, la quale ha per fondamento la “legge”, cioè una manifestazione di volontà del popolo. E la proprietà collettiva, sia ben chiaro, ha una “precedenza storica”, come dimostra la storia del diritto, ed una “prevalenza giuridica”, come dimostra la nostra Costituzione, specialmente a proposito della disciplina della proprietà privata. Infatti, talune disposizioni costituzionali, come meglio vedremo in seguito, “subordinano” la tutela giuridica della proprietà privata all’interesse pubblico e allo “scopo della funzione sociale”.
E veniamo innanzitutto al concetto di “Stato”, che da più parti si ritiene superato ed in via di estinzione, là dove una indagine sulle fonti del diritto dimostra invece che la fonte principale di questo risiede sempre nella “sovranità” degli Stati, come dimostra a tacer d’altro, proprio l’organizzazione dell‘Unione Europea, che nasce dai “trattati” stipulati dagli Stati membri e vede la sua più alta Istituzione nel “Consiglio”, che ha il più ampio potere normativo, e che ha la natura di un “Organo di Stati”. I quali, fondando tutto sulla propria “sovranità”, stabiliscono quale sia la decisione da prendere nell’interesse della Comunità stessa.
D’altro canto, se si guarda alla nostra Costituzione, si scopre agevolmente che il nostro non è affatto uno “Stato persona giuridica”, come affermava lo Statuto albertino, ma uno “Stato comunità”, che è costituito dai “cittadini sovrani”. In questa visuale, che tarda ad affermarsi persino tra gli studiosi di diritto, lo “Stato persona” è solo la “Pubblica Amministrazione”, la quale, come da tempo ha dimostrato il Sandulli[18], è semplicemente un “organo” dello Stato comunità.
E, per capire l’essenza dello “Stato comunità”, ed in genere della “Comunità politica”, è indispensabile rivolgersi alla storia. Ed, in particolare, alla storia della Costituzione romana[19].
Infatti, fu la Respublica romana, che era costituita dal “Senatus Populusque Romanus”, il primo chiaro esempio di “Stato comunità”, o, se si preferisce, di “Comunità politica”. Ed il dato più importante che emerge dall’analisi storica è che la nascita di questo tipo di Stato si fonda su due concetti chiave (dei quali forse si è persa memoria): quello di “confine” e quello del “rapporto tutto parte”.
E’ innegabile, infatti, che la nascita della “Civitas romana”, e cioè della “Comunità politica di Roma” coincise con la “confinazione”, il fines regere della tradizione[20], con la quale Romolo, o chi per lui, distinse il terreno sul quale doveva sorgere l’urbs dai terreni circostanti, trasformando il terreno confinato in un “territorio”, dal latino “terrae torus”, “letto di terra”, il cui fine fu quello di ospitare l’aggregato umano che su di esso si insediava, prendendo il nome di “populus” (che significa “cittadini in armi”). Nello stesso momento, sorse anche la necessità di “confinare”, e cioè limitare la libertà dei singoli per rendere possibile la convivenza civile, attribuendo al popolo la “sovranità”, cioè la somma dei poteri necessari a perseguire questo fine. Insomma, tracciando il solco di Roma, Romolo dette luogo al nascere di tre elementi: il “territorio”, il “popolo” e la “sovranità”, dalla quale scaturì l’ordinamento giuridico. Ed è da sottolineare che, attraverso la “confinazione”, si dette luogo anche alla nascita del “primordiale rapporto giuridico di appartenenza”, quello della “proprietà collettiva del territorio”. Un rapporto che, come dimostra la stessa indagine filologica del termine (terrae torus), non fu affatto un rapporto di “dominio pieno ed esclusivo”, ma un rapporto quasi personale di appartenenza, come quello che normalmente si instaura tra un individuo ed il proprio letto
Ma non basta. Occorre porre in evidenza, come si accennava, che caratteristica fondamentale di quell’aggregato umano (detto in un primo momento “Civitas Quiritium”, ed in un secondo momento, e cioè dopo l’avvento dei re etruschi, “Urbs Roma”, dall’etrusco “rumen”, che vuol dire “fiume”), fu il forte senso di “solidarietà”[21] che legava gli uni agli altri, per cui, mutuando un concetto derivato dalla filosofia ellenistica di Empedocle di Agrigento e di Pitagora di Siracusa[22], secondo il quale “l’uomo è parte del Cosmo”, ogni cittadino fu considerato “parte strutturale” della Comunità politica[23], al punto di poter agire in giudizio per tutelare non solo gli intessi propri, ma anche, e nello stesso momento, gli interessi di tutti gli altri cittadini, senza ricorrere al concetto di “rappresentanza”. E fu proprio questa idea, questo profondo senso di solidarietà, che, come pose in evidenza Cicerone, fece grande Roma.
7. – La “precedenza storica” della proprietà collettiva sulla proprietà privata.
Venendo al tema della “proprietà”, il dato più importante è costituito dal fatto che a Roma la “proprietà collettiva”, che spettava al popolo a titolo di “sovranità”, “precedette” di ben sette secoli la proprietà privata, individuabile nel concetto di “dominium ex iure Quiritium”, nato, dopo una tormentata elaborazione della giurisprudenza, alla fine del II secolo a. C.[24], o addirittura agli albori del primo secolo a.C.
E’ da tener presente, comunque, che, per il trasferimento a singoli privati di “parti” del territorio comune, fu sempre necessario un “atto sovrano” di disposizione, che, in un primo momento si concreò nella “divisio” dell’ “ager publicus”, operata da Numa Pompilio tra i patres familiarum, a titolo di “mancipium” (che fu cosa ben diversa dall’attuale proprietà privata), lasciando peraltro buona parte del territorio in uso comune di tutti, l’ager compascuus, ed in un secondo momento nella lex centuriata o nel plebiscitum, che sempre precedettero il noto cerimoniale di origine etrusca della “divisio et adsignatio agrorum” ai veterani dell’esercito, a titolo di “possessio”.
Dunque, come si diceva, la proprietà privata derivò dalla proprietà comune e collettiva del popolo, fu una “cessione” a privati di parti del territorio in proprietà al popolo, mentre taluni beni, come l’ager compascuus, venivano “riservati” all’uso comune di tutti, mantenendo il carattere di “appartenenza sovrana al popolo”. Ed è da sottolineare in proposito che la giurisprudenza classica trovò un sistema ineguagliabile per tutelare l’uso comune dei beni riservati al popolo: li definì “res extra commercium” (ciò che è di tutti non può essere dato ad alcuno), a differenza dei beni privati, definiti “in commercio”[25].
8. – La “prevalenza giuridico costituzionale” della proprietà collettiva sulla proprietà privata.
Alla “precedenza storica” della proprietà collettiva sulla proprietà privata, si accompagna, sul piano della vigente Costituzione repubblicana” la “prevalenza costituzionale e giuridica” della prima sulla seconda.
Lo chiarisce l’art. 42 della Costituzione, secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta dalla legge….allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, sancendo la “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, e prevedendo che quest’ultimo è giuridicamente tutelato soltanto se ed in quanto “assicura” “lo scopo” della “funzione sociale”, rende cioè tutti partecipi dei benefici che provengono dalle attività produttive.
Il principio della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato è ribadito, inoltre, dall’art. 41 della Costituzione, riguardante “l’iniziativa economica privata” e cioè l’attività negoziale che il proprietario pone in essere per disporre della proprietà privata, e cioè per acquisire o vendere la proprietà dei beni economici.
Si legge in detto articolo che “L’iniziativa economica privata è libera”. “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Come si nota, alla “funzione sociale” dell’art. 42 Cost., fa riscontro “l’utilità sociale”, di cui al precedente art. 41 Cost.
Ma non è tutto. Questa “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, va coniugata con la “distinzione” tra “proprietà pubblica” e “proprietà privata”, di cui al primo alinea del citato art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata”.
In sostanza, dal combinato disposto delle citate disposizioni emerge con estrema chiarezza che la nostra Costituzione, non prevede affatto un solo tipo di proprietà, ma due tipi: quella pubblica e quella privata, sancendo, nello stesso tempo, la “prevalenza della prima sulla seconda”. Insomma, i “limiti” alla proprietà di cui pure parla l’art. 42 della Costituzione, affermando che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti”, riguardano soltanto la proprietà privata, come è espressamente detto, e non la proprietà pubblica, la quale, in questo contesto, si identifica con la “proprietà collettiva demaniale”, che spetta al popolo a titolo di sovranità, come da tempo affermato da Massimo Severo Giannini[26].
Questa distinzione, inoltre, è stata chiarita da tempo dal Regolamento di contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale affermava testualmente: “I beni dello Stato si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di proprietà privata” [27].
Insomma, la “dinamica giuridica” che segue la Costituzione ripete puntualmente la stessa dinamica che si è svolta storicamente. All’inizio, l’intero territorio appartiene al popolo a titolo di “sovranità”. In seguito, parte del territorio viene, con “legge”, “riservato” all’uso diretto della popolazione, restando “proprietà collettiva demaniale” come res extra commercium, e cioè come beni “inalienabili, inusucapibili ed in espropriabili” e parte viene “ceduta” a privati, diventando oggetto di “proprietà privata”.
Alla fine di questo discorso emerge un’indiscutibile verità. Se è vero, come è vero, che la “proprietà collettiva” “prevale” su quella privata e quest’ultima è storicamente “derivata” dalla prima, si deve necessariamente ammettere che la Costituzione ha operato un “capovolgimento” delle tradizionali concezioni borghesi e neocapitalistiche sulla proprietà. E’ questa che costituisce un “limite alla proprietà collettiva” ed all’interesse pubblico e non viceversa. Continuare a parlare di “limiti alla proprietà privata” è, dunque, un anacronismo: occorrerebbe parlare soltanto di “disciplina giuridica” della proprietà privata, avendo questa perso, nella visuale costituzionale, quel carattere di “inviolabilità”, e quindi di “preesistenza” rispetto all’ordinamento giuridico, che le assicurava lo Statuto albertino. Inviolabile è la “proprietà collettiva demaniale”, in quanto fondata sulla “sovranità”, non la “proprietà privata”, che in tanto esiste, in quanto è garantita e disciplinata dalla “legge”.
9. – Il cosiddetto “ius aedificandi”.
Sul piano pratico, c’è una importantisima conseguenza da sottolineare. Se la “proprietà collettiva” “prevale” su quella privata, ed il contenuto della proprietà privata è soltanto quello previsto dalla “legge”, davvero non c’è più alcuna possibilità di riconoscere il “ius aedificandi”, come insito nel diritto di proprietà privata. Il diritto di edificare è rimasto nei “poteri sovrani del popolo”, rientra cioè nei contenuti della proprietà collettiva del territorio e non risulta affatto “ceduto” a privati con la “cessione” di parti del territorio a singoli cittadini.
Quando ci lamentiamo degli scempi paesaggistici, della cementificazione, delle distruzioni della natura non possiamo limitarci alla “denuncia”: è un nostro “diritto di proprietà collettiva” che è stato leso, e questo diritto è ben più grande e più tutelato del diritto di proprietà privata. E, comunque, come si è detto, il ius aedificandi non ha nulla a che vedere con il diritto di proprietà privata. Non c’è nessuna disposizione del codice civile che lo preveda e lo si è fatto discendere dal semplice convincimento che la proprietà si estenda “usque ad coelum et usque ad inferos”. Questo poteva valere per il “dominium ex iure Quiritium”, non certo per il moderno concetto di “proprietà privata”, che, da sempre ha dovuto fare i conti con i “limiti posti dall’ordinamento giuridico”. Il diritto di superficie è distinto dal diritto di proprietà e, d’altronde, le leggi urbanistiche consentono l’edificazione solo a seguito di una “concessione”, malamente ridenominata, anche a seguito di una discutibile sentenza della Corte costituzionale sulla cosiddetta legge Bucalossi, “permesso di costruire”. Tutto questo perché la cultura borghese e neoliberista si è tenacemente opposta all’idea stessa della “proprietà collettiva del territorio”, che è invece viva e presente nel nostro ordinamento costituzionale e costituisce la sede propria di questo supposto “diritto di costruire”, che, per sua natura non può appartenere a singoli soggetti, ma a tutta la società.
10. - Il concetto di “territorio”.
Abbiamo sinora parlato più volte di “territorio” ed è evidente che, a questo punto si rende necessaria, prima di procedere oltre, ad una sua definizione.
Come si è visto, per i Romani, e da un punto di vista puramente materiale, il territorio è una “porzione di terra”, confinata dai terreni circostanti. L’idea si è puntualmente trasferita in epoca moderna, sennonché i diffusi inquinamenti dell’aria, delle acque e del suolo consigliano di considerare la terra in una visuale più completa e cioè come “ambiente”, meglio si direbbe, come ha affermato la Corte costituzionale, come “biosfera”[28], in modo da far rientrare in questo concetto, oltre il suolo ed il sottosuolo, tutto ciò che esiste sul soprassuolo, e cioè l’atmosfera, le acque, la vegetazione e le stesse opere ed attività dell’uomo.
Ciò che deve essere innanzitutto sottolineato è che il territorio è un “bene comune unitario”, formato da “più beni comuni”, in “appartenenza” comune e collettiva. Ed è da precisare, inoltre, che, appartenendo al popolo, ed essendo il popolo una entità in continuo mutamento per l’alternarsi della vita e della morte dei singoli individui, anche il “territorio”, come il popolo, deve essere considerato nel suo aspetto dinamico, e cioè tenendo conto dei mutamenti che si realizzano nel tempo, e soprattutto del fatto che esso deve necessariamente appartenere, non solo alla presente, ma anche alle future generazioni. Del resto, come è noto, popolo e territorio, insieme con la sovranità, sono “parti costitutive” della medesima “Comunità politica”.
D’altro canto, occorre tener presente che oggi esistono tutte le premesse per considerare il territorio, non solo come una entità materiale comprendente il suolo, il sottosuolo e tutto ciò che è sul soprassuolo, compreso i beni artistici e storici creati dall’uomo, come diffusamente, e giustamente, si ritiene, ma ci si può spingere più avanti facendo rientrare nel concetto di territorio anche entità immateriali e le stesse attività umane che sul territorio si svolgono. In ultima analisi, tutti quegli elementi che determinano il modo di vivere, ed in ultima analisi il tenore di vita, del popolo che quel territorio abita.
Si pensi alle opere dell’ingegno: alle invenzioni, tutelate con i brevetti, o alle opere letterarie, tutelate dal diritto di autore; o alle conoscenze ed ai saperi rinvenibili sul web. E si pensi, in estrema sintesi, alla “cultura”[29], non solo quella degli intellettuali, ma anche quella popolare[30], e, quindi, al complesso di idee che guidano le azioni degli individui e delle Nazioni nella vita di tutti i giorni.
E si pensi soprattutto all’influenza che hanno sul territorio le istituzioni della comunità politica, e cioè alla forma di Stato ed al relativo “ordinamento giuridico”, nonché alla forza spesso sconvolgente che esercitano sul territorio l’economia, la finanza, i mercati.
Il “territorio”, in altri termini, appare come uno “spazio di libertà” entro il quale trovano possibilità di svolgimento le capacità ed i caratteri dei singoli e della collettività considerata nel suo insieme, considerata soprattutto in quelle specificità culturali che caratterizzano un popolo, e che si estrinsecano, come si diceva, nella cultura e in ciò che da questa deriva.
Ne consegue che l’odierna cosiddetta “globalizzazione” non può e non deve prescindere dalla distinzione dell’intera superficie terrestre in vari “territori”, intesi come luoghi nei quali si esplicano le specifiche caratteristiche dei diversi “popoli”. La globalizzazione implica la “transitabilità” dei confini, non la soppressione dei singoli territori in vista di un unico territorio costituito da tutta la terra. A parte la considerazione che una cosa del genere è solo immaginabile, ma, almeno al momento, assolutamente irrealizzabile, resta il fatto che la perdita delle caratteristiche proprie dei vari territori e, quindi, dei vari popoli, sarebbe solo una perdita immensa di ricchezze naturali e culturali. Occorre, dunque, “difendere i territori”, poiché, è bene ripeterlo, essi costituiscono “spazi di libertà” per il pieno sviluppo delle singole persone e per il progresso materiale e spirituale della società.
11. – Lo sviluppo economico nella “dinamica costituzionale”.
E veniamo a quella che abbiamo denominato la “dinamica costituzionale”, e cioè all’insieme delle disposizioni che la nostra vigente Costituzione repubblicana prevede per lo “sviluppo economico” della nostra società.
Ed al riguardo è importante precisare che la nostra Costituzione parte dall’idea di comune esperienza secondo cui la ricchezza proviene da “due fattori”: “le risorse della terra” ed “il lavoro dell’uomo”. Infatti “due sono gli obiettivi” che la stessa si propone di raggiungere: a) “tutelare il territorio”; b) “proteggere il lavoro”. Ed è molto significativo, in proposito, il fatto che il Titolo III, Parte prima, della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”, è in pratica dedicato, sia alla tutela del territorio, sia alla tutela del lavoro.
In particolare parlano del territorio l’art. 42, primo comma, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti e a privati”, nonché l’art. 44, primo alinea, secondo il quale occorre “conseguire il razionale sfruttamento del suolo”. Parlano invece di lavoro, l’art. 35, secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, l’art. 36, secondo il quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, nonché l’art. 38, importante per l’affermazione di principio secondo cui tutti devono lavorare, ed è esentato da questo dovere soltanto “il cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, per il quale è previsto il “diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale”.
Il quadro costituzionale, relativo ai due essenziali fattori della produzione, tuttavia, non si ferma qui. Basti pensare, quanto alla difesa del territorio, al riferimento dell’art. 9 alla tutela del paesaggio e dei beni artistici e storici[31], nonché alla disposizione dell’art. 52 Cost., secondo il quale “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. E, per quanto riguarda il fattore lavoro[32], al primo alinea dell’art. 1 della Costituzione, secondo il quale “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, nonché all’art. 4, primo comma Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Tutela del territorio, e cioè delle risorse della terra[33], e tutela del lavoro, e cioè della piena occupazione, sono, dunque, obiettivi fondamentali della nostra Carta costituzionale.
Come perseguire questi due obiettivi è specificato nel citato Titolo III, della Parte prima, Cost.
In questo titolo si prevede, innanzitutto, all’art. 43 Cost., un intervento pubblico nell’economia principalmente in relazione alle “imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, precisandosi che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese categorie di imprese”.
Insomma, il principio è che le imprese strategiche debbono essere in mano pubblica e che non è accettabile rimettere alla speculazione privata la produzione di beni e servizi primari per la vita del Paese.
Questo punto essenziale è stato travolto dalle numerose e dannosissime “privatizzazioni”, che hanno privato l’Italia, in breve periodo, del 50 per cento delle imprese, sospingendola verso una irrimediabile miseria, propedeutica ad un finale ed irreparabile disastro economico e sociale.
Altro punto strategico proprio della nostra “dinamica costituzionale” consiste nell’aver “separato” la piccola e media proprietà, come la proprietà coltivatrice diretta e la proprietà della prima casa (artt. 44 e 47 Cost.), dalla proprietà la cui produzione eccede le strette esigenze di vita e sono in grado di far crescere la “produzione nazionale”.
Per questo tipo di proprietà, come si è già accennato, la stessa tutela giuridica è condizionata all’assolvimento della “funzione sociale”, cioè all’obbligo di dar spazio all’ “occupazione” ed alla “produzione” di beni che possano soddisfare i bisogni di tutti.
Quest’obbligo è sancito in modo espresso e con piena “precettività” dal citato art. 42 Cost., in base al quale, si ripete, “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge… allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. E’ una norma universalmente riconosciuta in dottrina come “norma precettiva di ordine pubblico economico”, la quale, tuttavia, anche a causa di talune discutibili sentenze della Corte costituzionale, è rimasta del tutto “inapplicata”. Lo dimostrano il continuo e dannosissimo ricorso alle “chiusure e delocalizzazioni” di “imprese” desiderose solo di maggiori profitti, nonché la massa enorme di “immobili” e soprattutto di “terreni” “abbandonati” dai loro proprietari.
Al riguardo, è la stessa Costituzione che ci offre il rimedio. Se è vero, come è vero, che la “tutela giuridica” della proprietà privata è condizionala alla “funzione sociale”, il venir meno di quest’ultima, fa venir meno anche la tutela giuridica e, di conseguenza, vien meno il “diritto di proprietà privata” ed anche, e necessariamente, qualsiasi diritto di “indennizzo”, visto che non esiste più il diritto da indennizzare.
Si verifica, insomma, un “effetto automatico”, per il quale, il bene originariamente appartenente a tutti, e da tutti “ceduto”, mediante legge, ad un singolo individuo, torna con tutta evidenza nella proprietà collettiva di tutti.
Dunque, nel caso dell’abbandono, di terreni ed immobili, che ha un suo precedente storico “nell’ager desertus” della tarda Roma imperiale, implica il dovere, meglio si direbbe il “munus”, dell’autorità pubblica di riscrivere contabilmente nella proprietà pubblica e collettiva dalla stessa amministrata il bene di cui si discute, a ciò provvedendo, dopo la necessaria “diffida” ad adempiere al proprietario. Si tratta, in sostanza, di rileggere attraverso una “interpretazione costituzionalmente orientata”, quanto è già scritto nell’art. 838 del codice civile in relazione ai terreni abbandonati, tenendo conto, come poco sopra si accennava, che il “meccanismo giuridico” previsto dalle sopra ricordate “disposizioni costituzionali” di ordine pubblico economico” implica il venir meno, insieme con il diritto di proprietà, anche del conseguente diritto all’indennizzo.
C’è poi un ultimo punto molto importante da tener presente nell’analisi di questa “dinamica costituzionale”: è la “partecipazione” del cittadino alla “funzione amministrativa” normalmente affidata alla pubblica amministrazione. Infatti, come è noto, mentre la funzione legislativa è riservata al Parlamento e quella giudiziaria è riservata all’Autorità giudiziaria, la funzione amministrativa non è riservata alla P. A., ma condivisa da questa, con enti e con soggetti privati.
La disposizione principe in proposito è quella dell’art. 3, comma secondo, Cost., secondo il quale è compito della Repubblica assicurare “l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E “partecipare” alla ”organizzazione”, in termini giuridici, vuol dire proprio partecipare all’azione amministrativa dei pubblici poteri. E parlare di “lavoratori” vuol dire parlare di tutti i cittadini, poiché, come si è visto, per la Costituzione non esistono i “fannulloni”: o si ha la capacità di lavorare e si “deve” lavorare, o si è “inabili al lavoro” ed allora si ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.
Accanto a questo principio a carattere generale, la Costituzione fa ricorso alla “partecipazione” anche nel citato art. 43, nel quale, come si è detto, si affida la gestione di imprese o di categorie di imprese “di preminente interesse generale” anche a “comunità di lavoratori o di utenti”, e cioè ad entità giuridiche diverse dalla pubblica amministrazione.
Di “partecipazione” infine parla diffusamente e con precisione l’ultimo comma dell’art. 118 del rinnovato Titolo V della Costituzione, nel quale si legge che ”Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e “comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Qui addirittura si afferma che l’iniziativa dei cittadini in tema di funzioni amministrative dovrebbe precedere, in casi di estrema vicinanza agli interessi del popolo, l’azione dei pubblici poteri: questo e non altro significa il ricorso al concetto di “sussidiarietà”.
In tema di “partecipazione”, occorre ricordare che, in base alla costruzione che abbiamo descritto della “Comunità politica”, il “cittadino è parte costitutiva” del popolo, e come tale può e deve agire, con un’azione popolare, nell’interesse proprio e di tutti gli altri.
Questo principio sembra sia stato accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione e dalla Corte costituzionale (delle quali non disponiamo ancora delle relative sentenze), nel noto caso dell’azione promossa da un semplice cittadino per ottenere la cancellazione della legge elettorale, cosiddetta “porcellum”. Se così fosse, l’azione popolare, sarebbe diventata oggi una sicura realtà[34].
12. - Conclusione.
Salvare il territorio e salvare il lavoro di tutti, in ultima analisi, richiede, secondo la Costituzione, l’intervento di tutti. Ed è evidente che è in nostro potere salvare innanzitutto il nostro “territorio”, e cioè “le risorse” che la Terra, la “iustissima tellus”, abbondantemente ci offre.
Uno, dunque, è l’imperativo categorico che si impone per vincere la cosiddetta crisi finanziaria: “tornare alla terra”. Alla “nostra terra”, che è ricchissima di caratteristiche particolari, come la bellezza del paesaggio e la feracità dei suoi terreni coltivabili. Tornare alla Terra, tra l’altro, significa anche far rivivere le caratteristiche proprie del nostro popolo, universalmente riconosciute nella “creatività” e nel “culto della bellezza”, vuol dire anche impegnarsi nella ricerca, nella cultura e nelle attività produttive di beni reali.
Dunque, una volta assicurate in mano nostra le cosiddette “industrie strategiche”, occorre dedicarsi all’agricoltura, all’artigianato (protetto dal comma secondo dell’art. 45 Cost.), al turismo, e, come si diceva, cominciare da una grande opera pubblica di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico della nostra Italia.
In tal modo potremo vincere anche la pervicace speculazione finanziaria internazionale, e saremo in grado di tornare al “mercato reale”, rendendo produttivo il nostro impareggiabile territorio nazionale.
«Il disegno di legge Che Contiene il consumo di Suolo e Stato approvato. Ma Contiene Tutte le trappole Tecniche per rallentarne l'Efficacia MENTRE continua la corsa del cemento ». Il Manifesto, 10 gennaio 2014
E Di QUESTI giorni il sì al disegno di legge sul "Contenimento del consumo del Suolo e riuso del Suolo edificato", Proposto dal Ministero delle Politiche agricole alimentari e Forestali. Epoca La Proposta Già approdata in Consiglio dei Ministri a giugno (2013), ora has been approvata Dalla Conferenza unificata, COMPOSTA da soggetti dell'Apparato statale e da Quelli appartenenti alle autonomie locali, e Dallo Stesso Consiglio.
L'Atto Poteva costituire un passo Importanti, Perché Finalmente il Governo non solista Discute ma cerca di trattare operativamente il Problema del consumo di suolo.Tuttavia la stesura finale del Provvedimento risulta largamente Insufficiente, in Quanto conserva TUTTI GLI Elementi contraddittori Già Presenti Nella bozza originaria e Oggetto di svariate Critiche da Più parti Perchè Tali da indebolire, fino a Bon Voyage vanificarne le Migliori Opzioni, l'Efficacia del Provvedimento.
Accanto a quest'ordine di rilevamenti emergono clamorosamente i Dati Informazioni relative alle stanze Vuote ed ai Volumi Commerciali ed industriali inutilizzati: per le prime siamo un circa venti Milioni, MENTRE I Secondi Ormai superano il miliardo di metri cubi (TRA Qualche settimana Saranno i Dati ufficiali dell'ultimo censimento). Di fronte un racconto Situazione, si invocava Una legge sul Blocco del consumo di Suolo Che Fosse veramente racconto: escludendo Qualsiasi nuova edificazione, un Meno di Casi particolarissimi; fornendo ai Piani urbanistici Chiare Strumentazioni per ridurre o azzerare i DIRITTI edificatori Già acquisiti, specie in Contesti Già segnati da forte sovrabbondanza di offerta; cancellando la possibilita Che le leggi "di emergenza" berlusconiane (la Legge Obiettivo per le Infrastrutture, Quelle speciali per energia, Rifiuti, depurazione, ecc.) potessero aggirare la STESSA Pianificazione, Anche paesaggistica, determinando con forza Il Recupero - Anziché Le Nuove costruzioni - Nella Direzione delle Nuove Politiche urbane e territoriali.
Il Provvedimento invece ha tralasciato di dettagliare QUESTI avvertimento, mantenendo TUTTI GLI Elementi di confusione e Contraddizione denunciati. Nel paese un venire l'Italia colomba, venire sosteneva un giugno di quest'anno la STESSA ministra Nunzia De Girolamo «Ogni Giorno impermeabilizziamo Più o Meno l'Equivalente di 150 campi da calcio» e Dove c'è Stato un «Aumento del 166 % del territorio edificato in Italia NEGLI Ultimi 50 anni ».
Nella Normativa infatti emergono Chiaramente i Punti controversi. In fondo al comma 1 dell'art.3 del Ddl sul contenimento del consumo di Suolo: «e determinata l'Estensione Massima di superficie agricola consumabile sul territorio nazionale, nell'obiettivo di Una progressiva RIDUZIONE del consumo di Suolo di superficie agricola». This Principio rientra nell'ottica europea del «traguardo di un Incremento dell'occupazione netta di terreno pari a da Raggiungere Entro il 2050 pari a zero». Ma Se da un lato l'Europa SEMBRA essersi accorta del Problema, dall'altro lato SEMBRA non Aver Ancora capito l'Entità dell'emergenza. «Dal rapporto Panoramica su di buone pratiche per limitare l'impermeabilizzazione del suolo e mitigatin suoi effetti, Presentato per la prima volta in Italia Dalla Commissione Europea Durante il convegno ISPRA» del 5 febbraio 2013, «circa il 2,3% del territorio continentale E ricoperto da cemento . Dai 1.000 kmq stimati nel 2011 Dalla Commissione Europea - Estensione Che Supera la superficie della città di Berlino - circa 275 al giorno (1990 e il 2000), Si e Passati: ai 920 kmq l'anno (252 ettari al giorno) in soli 6 anni (2000-2006) ».
Chi si profes di territorio e di urbanistica in Italia sa, e non C'è Dubbio alcuno, Che un orizzonte del Genere, cioè Quello del 2050, potrebbe rivelarsi inefficace per avviare Una vera alternativa allo Spreco del territorio agricolo e non. Tempi troppo lunghi per un'attuazione Che dovrebbe avvenire, se non immediatamente, al massimo in Uno spazio di Qualche anno.
Sostiene l'Ispra Che «il consumo di Suolo in Italia e cresciuto at a supporto di 8 mq al Secondo e la serie storica Dimostra che sì Tratta di un Processo Che dal 1956 non CONOSCE battute d'Arresto. Si e Passati dal 2,8% del 1956 al 6,9% del 2010, con un Incremento di 4 Punti percentuali. In Altre parole, have been Consumati, nei media, più di 7 mq al Secondo per Oltre 50 anni »(Comunicato Stampa Ispra - L'Italia Perde terreno Consumati 8 mq al Secondo di Suolo).
E Ancora «Il Fenomeno e Stato Più rapido NEGLI anni '90, in cui si Periodo Sono sfiorati i 10 mq al secondo, ma il ritmo degli Ultimi 5 anni si Conferma sempre accelerato, con Una Velocità superiore Agli 8 mq al Secondo» (Comunicato Stampa Ispra - L'Italia Perde terreno Consumati 8 mq al Secondo di Suolo).
Ci si porta Dietro tutto il peso degli Errori Passati venire Si Può Facilmente Capire all'art. 9 del Ddl: «(...) A decorrere Dalla dati di entrata in Vigore della presente Nome legge (...), e comunque non Oltre il Termine di tre anni, non E Consentito il consumo di superficie agricola TRANNE Che per la Realizzazione di Interventi Già autorizzati e Previsti Dagli Strumenti urbanistici vigenti, nonche per i Lavori e le opere Già inseriti NEGLI Strumenti di Programmazione delle Stazioni appaltanti e nel Programma di cui all'articolo 1 della legge 21 dicembre 2001, n. 443 ». E la legge n.443 altro Non E Che la cosiddetta "Legge Obiettivo". Come a dire, sollecitare change Le nostre azioni, ma con calma Non C'è poi Così fretta. Un pericoloso controsenso.
Appello all'emergenza e ricorso alla discrezionalità: ecco gli strumenti essenziali per consentire corruzione e criminalità. Il caso esemplare de l'Aquila. Il manifesto, 9 gennaio 2013
Nel pieno rispetto della legge i comuni possono infatti affidare a trattativa privata appalti pubblici fino ad un importo di 500 mila euro. Afferma ancora l’Autorità che quasi la metà (48,1%) dei contratti di importo superiore ai 150 mila euro è stata affidata senza la pubblicazione del bando per un valore complessivo di 3,6 miliardi di euro. Nessuno ha dunque il diritto di meravigliarsi di quanto è avvenuto a L’Aquila: era tutto scritto e bisognava soltanto ricostruire le regole.
Nell’area del terremoto abruzzese, ci sono poi due ulteriori argomenti che non lasciano scampo a chi tende a derubricare l’accaduto come un «normale» caso di disonestà. Il primo riguarda la macroscopica anomalia rappresentata dalle procedure emergenziali che, come noto, sono basate sulla filosofia delle deroga alle regole ordinarie. Con la scusa del terremoto, nel cratere abruzzese si sono potuti affidare appalti pubblici attraverso una discrezionalità ancora maggiore di quella che permettono le pur generose leggi ordinarie. Sempre i dati forniti dall’Autorità sugli appalti pubblici ci dicono che nel 2011 le ordinanze di protezione civile in tutta Italia sono state 72 per un importo di 1,98 miliardi di spesa: la cultura emergenziale come schermo della discrezione.
Di fronte ad un sistema politico inefficiente sono state come al solito la magistratura e le forze dell’ordine a svolgere un ruolo prezioso. Lo scandalo dell’Aquila potrà servire se si avrà il coraggio di affrontare tre nodi fondamentali. Le regole di appalto, come abbiamo visto, non esistono più e i soldi pubblici vengono spesi con assoluta discrezione dal mondo della politica: è ora di ricostruirle. Il ruolo di guida delle pubbliche amministrazioni nelle città è stato in questi anni demonizzato a partire dalla famigerata proposta di legge Lupi (attuale ministro) che arrivava ad equiparare pubblico e privato. Di fronte al disastro provocato dalla cancellazione dell’urbanistica è ora di invertire la tendenza. L’Aquila, del resto, ne è l’esempio più tragico. Tra quattro mesi ricorre il quinto anniversario dal sisma e il centro storico è un deserto umano proprio perché si è rinunciato ad una rigorosa programmazione pubblica. E infine occorre capovolgere il bilancio dello Stato. Nella legge di stabilità non solo sono stati tolti i finanziamenti per la ricostruzione de L’Aquila e mantenuti quelli sulle grandi opere ma si continua nella demolizione delle regole. Secondo la cultura prevalente nella compagine governativa, i mali dell’Italia sono da ricercarsi nell’eccesso di regole – problema che pure esiste — e non nel gigantesco sistema della discrezionalità che caratterizza la pubblica amministrazione. E dove c’è discrezionalità non ci si può meravigliare che trionfino corruzione e malaffare
Per le feste ognuno regala ciò che vuole. L'attuale maggioranza parlamentare ha preparato un pacco che fa rimpiangere i peggiori sostenitori dell'abusivismo della Prima repubblica. Ringraziamo l'autore che con un'e-mail del 21 dicembre ci ha trasmesso questa squallida notizia, che pubblichiamo nella speranza di poterla smentire domani
Mentre si tagliano risorse per i bisogni di tutti (pendolari e altri) si arricchiscono i ricchi coi soldi di tutti. «Tra Genova e Milano si costruisce una linea ad Alta velocità, ma nessuno ha mai calcolato se è utile e se vale il costo previsto di 6 miliardi. Tanto paga lo Stato». Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2013
Una grande opera è stata finalmente avviata, con pochissime proteste e un sostanziale silenzio mediatico: si chiama Terzo Valico. È un tunnel ferroviario tra Genova e la Pianura padana, pensato per le merci del porto di Genova, e che in futuro potrà anche divenire una linea Alta velocità fino a Milano.
Si chiama “terzo valico” perché di linee ferroviarie ce ne sono già due, fortemente sottoutilizzate. Oltre a questa comunanza con la Torino-Lione, anch’esso affiancato da una linea sottoutilizzata, il progetto costa molto caro (circa 6 miliardi, rispetto agli 8,5 della To-Li). Questa linea servirà anche a rendere più veloci i treni passeggeri, non solo quelli merci, e il traffico passeggeri è certo più consistente che sulla linea Torino-Lione . Però la dovremo pagare interamente noi: è una tratta nazionale, quindi niente contributi da altri paesi né dalla Unione europea. Persino l’ingegner Mauro Moretti, amministratore delle Ferrovie dello Stato, l’aveva dichiarata un’opera inutile in un convegno, poi è stato sgridato sul Sole 24 Ore per questa libertà che si era preso in pubblico, dall’ex-ministro dei Trasporti Pietro Lunardi. L’appalto è stato assegnato molti anni fa senza gara al Cociv, gruppo pilotato dall’impresa Gavio. Ovviamente questo appalto è inossidabile, ci mancherebbe.
Ci si aspetterebbe che al pubblico, agli amministratori e politici locali e a quelli dello Stato centrale, siano state fornite analisi economiche e finanziarie che dimostrino che non solo l’opera serve molto in relazione al suo elevato costo, ma che sia prioritaria rispetto ad altre. Infatti quelle analisi lì servono proprio a quello, soprattutto in una situazione di soldi pubblici scarsi.
I numeri che non si trovano
Più recentemente, emerse un’ipotesi di finanziare l’opera con un finto intervento di capitali privati (cioè in “project financing”, come si dice in termini tecnici). L’impresa destinata a gestire la linea, Ferrovie dello Stato appunto, avrebbe pagato ai costruttori un “canone di disponibilità” fisso, cioè non dipendente dal traffico (che magari poi era poco, chissà...). Il canone annuo sarebbe stato ovviamente tale da ripagare interamente l’opera. Fs è una impresa al 100 per cento pubblica, ma giuridicamente una società per azioni, come le Poste che intervengono “spontaneamente” per salvare Alitalia. Quindi formalmente si tratta di un privato.
Bene, sembra tuttavia che anche con questo “schema creativo” i numeri in gioco fossero così tragici (ricavi da traffico previsti meno di un decimo della rata annua che Fs avrebbe dovuto pagare), che non se ne fece nulla. Allora il ministero dello Sviluppo guidato da Corrado Passera (nella persona del suo viceministro Mario Ciaccia), prese una decisione eroica: basta perder tempo, non occorre nessuno schema finanziario (scartoffie!), pagherà il 100 per cento lo Stato, cioè noi.
Il Sole 24 Ore, nello stesso periodo, pubblicò un articolo di lodi a una proposta di sconti fiscali dedicati alle “Grandi Opere”, articolo che conteneva questa perentoria affermazione: “In questo modo si potranno anche realizzare opere molto costose e con poco traffico”. L’ironia, si sa, non è patrimonio di tutti.
Intanto i cantieri sono partiti, che è quello che davvero interessa a costruttori e politici. Non si sa se ci saranno i soldi per finire l’opera, cosa che vale per quasi tutte queste iniziative. Alcuni gruppi locali protestano per possibili danni ambientali. Ottima cosa, i costi per risarcirli generosamente, e con molta pubblicità, sono assolutamente irrilevanti rispetto al valore dell’appalto. E così alla fine tutti saranno contenti.
Un manifesto significativo:
Difendiamo una legge che impedisce lo spreco assurdo del consumo di suolo. Il "blocco edilizio" vorrebbe rinviarla, moderarla, mitigarla, svuotarla. In una parola, proseguire la devastazione del patrimonio comune. Le prime adesioni a un appello promosso da eddyburg, aggiornate al 17dicembre
Perché sia rapidamente approvata
la proposta di legge urbanistica della Toscana
Siamo venuti a Firenze da altre città e altre regioni. Analizzando e discutendo la proposta di legge in materia di urbanistica e di governo del territorio abbiamo imparato molto su come si può fare per combattere davvero il consumo di suolo, cioè l’espansione dell’urbanizzazione (la “repellente crosta di cemento e asfalto”) sull’intero territorio nazionale. Il blocco dell’espansione è un obiettivo che molti dicono di voler raggiungere ma le intenzioni diventano efficaci solo se ad esse seguono i fatti. Quando si tratta del territorio i primi fatti sono le regole.
Le regole per il buon governo proposte dalla Giunta della Regione Toscana ci sembrano esemplari. Vorremmo che fossero presto approvate, per almeno due ragioni: perché consentono di bloccare subito la dilapidazione di una risorsa – lo spazio aperto – indispensabile per il futuro della Toscana e prezioso per tutta l’umanità presente e futura; perché sono un esempio per le altre istituzioni elettive che hanno responsabilità in proposito: dal Parlamento nazionale ai Comuni. È un percorso che può contribuire far uscire l’Italia dalla crisi soddisfacendo l’esigenza della sicurezza del territorio e dei suoi abitanti, della tutela dei patrimoni comuni, e quella di uno sviluppo fondato sul lavoro e sul benessere degli abitanti.
Marco Cammelli, Giovanni Caudo, Vezio De Lucia, Salvatore Lo Balbo, Paolo Maddalena, Giampiero Maracchi, Edoardo Salzano
Firenze, 20 novembre 2013
Condividendo le valutazioni dei promotori dell’appello e la loro sollecitazione a una tempestiva approvazione del disegno di legge approvato dalla Giunta regionale aderiscono all’appello:
Alberto Asor Rosa, Paolo Baldeschi, Piero Bevilacqua, Roberto Camagni, Vittorio Emiliani, Domenico Finiguerra, Roberto Gambino, Maria Cristina Gibelli, Maria Pia Guermandi, Alberto Magnaghi, Oscar Mancini, Giorgio Nebbia, Tomaso Montanari, Massimo Quaini, Salvatore Settis, Renato Soru, Carlo Petrini
Aderiscono inoltre (aggiornamento 16 dicembre): Piero Ferretti (architetto), Daniela Borrati (architetto) Paolo Celebre (Comitato cittadini area fiorentina), Dario Predonzan ( responsabile energia e trasporti WWF regione F-VG), Rita Paris (Direttore Archeologo SSBAR), Pierluigi Cervellati, Paolo Ceccarelli, Paolo Cacciari, Gabriele Bollini (professore di Pianificazione Territoriale Universita degli Studi di Modena e Reggio Emilia), Georg Joseph Frisch (architetto), Alfredo Drufuca (ingegnere), Moreno Chinellato (esodato in attesa di pensione, Sandro Roggio (urbanista), Cristiana Mancinelli Scotti (attrice), Rossano Pazzagli (storico, Università del Molise, Società dei Territorialisti), Sergio Lironi (Presidente onorario Legambiente Padova), Leonardo Filesi (professore associato in Botanica ambientale e applicata, Università IUAV di Venezia), Sara Parca (storica dell'arte), Denise La Monica (PatrimonioSOS), Diego Accardo (architetto), Mirella Belvisi (architetto), Ruggero Lenci (Università la Sapienza, Roma), Marisa Dalai Emiliani, Sergio Brenna (professore ordinario di urbanistica, Politecnico di Milano), Edoardo Zanchini (vicepresidente nazionale Legambiente), Fausto Ferruzza (presidente Legambiente Toscana), Nicola Dall’Olio (geologo), Roberto Scognamillo, Donato Belloni (urbanista), Rodolfo Bracci (architetto), Stefano Fatarella (funzionario urbanista, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia), Chiara Sebastiani (professore associato di Governo locale e Politiche delle Città), Università degli studi di Bologna), Cesare Allegretti (architetto), Claudio Greppi (professore ordinario di Geografia, Università di Siena), Salvatore Gioitta(architetto), Maria Teresa Roli (architetto), Alessandro Ammann( (Rete europea Ecoturismo), Concetta Flore (artista naturalista), Gino Paolo Sulis (funzionario Regione autonoma Sardegna), Lorenzo Frattini (presidente Legambiente Emilia Romagna, Alessio Rivola(Perito Agrario), Vera Marchetti (architetta), Claudio Saragosa (Università di Firenze), Maria Tinacci Mossello (professore ordinario di Politica dell'ambiente Università di Firenze), Rodolfo Bosi (architetto, associazione Verdi Ambiente Società), Valeria Scavone (ricercatore di Urbanistica, Università degli Studi di Palermo), Giancarlo Storto, Anna Guerzoni (architetto), Barbara Grandi (ginecologa), Francesco Mezzatesta (ambientalista già Segretario generale della Lipu), Massimo Parrini (vice presidente WWF Firenze), Enrico Pugliese (professore di Sociologi del lavoro Università Roma La sapienza), Francesco Romano Natali (studente), Marcello Cervini (architetto), Emanuele Sorace (ricercatore Istituto Nazionale di Fisica Nucleare Firenze), Lodovico Meneghetti,(architettourbanista), Renzo Moschini (Gruppo di San Rossore), Alessandra Tanzi. ValentinoPodestà (urbanista), Andrea Carosi (pianificatore territoriale), Umberto Sani(WWFParma), Francesco Romano Natali (studente), Anna Pacilli (giornalista), MauroBaioni (urbanista), TeresaCilona ( ricercatore in urbanistica, università degli studi di Palermo), MimmoFontana (presidente Legambiente Sicilia), Rosalia Varoli-Piazza, (storico dell'arte), Luca Simoncini (dipartimentodi ingegneria dell'informazione Università di Pisa), Francesco Andreini (pensionato), Roberto Gianni (prof. associato università di Roma la Sapienza), Giovanna Davitti, Helen Ampt (traduttrice),
Rete dei Comitati per la difesa del territorio, Associazione Bianchi Bandinelli, Associazione VAS Verde Ambiente Società, Associazione Ampugnano per la Salvaguardia del Territorio, Cittadini area fiorentina, Accademia Kronos onlus,
Invitiamo chi ha letto la proposta di legge e condivide l’appello ad aderire inviando l’adesione (nome, cognome, qualifica) a eddyburg@tin.it
La lotta al consumo di suolo provocata dall'urbanizzazione sregolata (meglio: regolata dalle regole della privatizzazione della rendita) si combatte insieme alla lotta per un'agricoltura sana e legata al territorio. Il manifesto, 5 dicembre 2013
Cosa pensi di quello che è avvenuto ieri al Brennero?
I prodotti agricoli italiani vanno senz’altro tutelati, ma non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Bisogna decidere se il sistema Italia vuole puntare sulla quantità e vuole rincorrere una domanda soprattutto estera in continua crescita, oppure vuole puntare sulla qualità. Se vogliamo essere i più grandi produttori e distributori di prosciutto nel mondo è ovvio che c’è il rischio che si finisca per ricorrere anche a materia prima a basso costo e di dubbia qualità che proviene dall’estero per poi rivenderla indebitamente come made in Italy. A rimetterci sono i contadini e le produzioni locali che in questa gara a chi vende di più e fa prezzi più bassi non possono essere competitivi. In tutto il mondo, e a maggior ragione da noi, la dignità dei contadini, il rispetto dei territori e la qualità del cibo inevitabilmente impone di mettere in campo ampie deroghe alle leggi di mercato. Faccio solo l’esempio dei contadini messicani che custodiscono un territorio dove è nata la cultura del mais e del suo consumo e che invece devono importare il 3% del mais dagli Usa dove costa meno perché è transgenico e prodotto intensivamente. E’ una questione di tutela della produzione locale e di sovranità alimentare. Chi rimane fregato non è l’intermediario ma il coltivatore vittima di dumping a cui vengono imposti i prezzi di vendita.
Se questo è il quadro globale non c’è il rischio che il blocco dimostrativo di Coldiretti e la richiesta di norme stringenti per l’etichettatura si riducano ad una lotta contro i mulini a vento?
Si tratta di un grido di allarme giusto e necessario. L’etichettatura è sacrosanta. Per lo meno si deve sapere da dove viene la merce e come viene prodotta. La corretta informazione è l’unico modo che hanno per difendersi sia le popolazioni contadine che i consumatori cittadini, i quali sono i primi e più forti alleati dei produttori locali. Ma le etichetta non bastano. Mancano anche i controlli. E’ veramente significativo e paradossale che i contadini ieri abbiano dovuto fare quello che regolarmente e costantemente dovrebbe essere fatto dalle autorità.
Perché questo non avviene? Eppure a parole tutte le forze politiche si schierano accanto ai contadini italiani e ieri con loro c’era anche il ministro De Girolamo.E’ troppo facile adesso dire che hanno ragione. Il ministro deve fare azioni concrete. Invece sia i governi italiani che si sono succeduti, sia l’Ue, hanno molte difficoltà ad attuare quello che dicono a parole o in disegni di legge quadro mai tradotti in decreti attuativi.
Perché non agiscono?
E’ semplice. Le lobby della produzione e della distribuzione agroalimentare non hanno interesse a promuovere la tracciabilità e a informare sull’origine delle materie prime.
Anche le imprese italiane del settore?
Le imprese italiane lo fanno a macchia di leopardo, alcuni virtuosi ne fanno una strategia di marketing, altri preferiscono nuotare in questo limbo di interessata ambiguità.
Nonostante tutto l’alimentazione di qualità è uno dei pochi mercati che in Italia non risente della crisi e c’è un ritorno dei giovani nelle campagne dove si registrano dati in controtendenza anche rispetto alla disoccupazione. E’ possibile agganciare la riprese a partire dai campi?
Tutti sono consapevoli che questo è un settore strategico per il nostro paese, ma dobbiamo deciderci. Il cibo ha perso valore da quando è diventato derrata da produrre in serie a prezzi bassi. Bisogna invece privilegiare il valore sui volumi, la qualità sulla quantità. Che mi importa se i francesi producono meno vino ma hanno più resa economica? La rincorsa alla produzione a tutti i costi produce sprechi, distrugge l’ambiente e non risolve il problema della malnutrizione. Genera una crisi antropica insostenibile per l’ambiente, i territori, le persone, le culture e anche per la finanza.
Il cibo è il tema dell’Expo 2015 di Milano, ai tempi del sindaco Moratti hai avuto qualche delusione a questo proposito, adesso Slow food come si pone rispetto a questo evento?
Proprio domani a Milano con il sindaco Pisapia e con il commissario Sala presenteremo la nostra collaborazione all’evento, ma lo facciamo per portare dentro Expo le nostre tematiche. Non si può vedere Expò solo come opportunità di sviluppo economico per Milano e per l’Italia. Che importa se vengono tanti visitatori se poi c’è la fame nel mondo.
Finalmente qualche istituzione elettiva si oppone al progetto di finalizzare l’organizzazione del territorio e dell’accessibilità esclusivamente ai più ricchi, e di abbandonare i lavoratori, gli strudenti e gli altri pendolari al dominio dell’automobile. Greenreport, 4 dicembre 2023
Molto probabilmente tra il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e l’Ad delle Ferrovie Mauro Moretti, non corre buon sangue. Anche a livello di rapporti personali. Ma la polemica tra la Regione e le Ferrovie è soprattutto nel merito. Rimanendo solo ai fatti degli ultimi tempi: il “taglio” degli intercity (non solo in Toscana) da parte di Trenitalia (poi in parte salvati grazie alla mobilitazione delle regioni). Ora la proposta del nuovo orario ferroviario, che entrerà in vigore a metà dicembre, che penalizza, sempre per quanto riguarda i servizi veloci (Av esclusa) in particolare la tratta Firenze-Arezzo e Valdichiana, vista la mancata sinergia con il servizio di trasporto ferroviario regionale. A tal proposito l’assessore a infrastrutture e trasporti Vincenzo Ceccarelli ha scritto agli amministratori delegati di Rfi e Trenitalia per denunciare queste criticità (e la mancanza di condivisione per le decisioni prese) che avranno come conseguenza il peggioramento del servizio. Da parte sua Moretti ha invitato i pendolari che si lamentano con le ferrovie per i disagi, a rivolgersi a chi fa i programmi di trasporto, cioè le Regioni, affermazione che ha fatto andare su tutte le furie Rossi.
«Moretti pensi a far arrivare i treni in orario, si prepari a non bloccare i treni nell’eventualità di nevicate e ci rifornisca nei tempi previsti i nuovi treni che abbiamo contrattualizzato. Ci rivolgiamo al governo nazionale, da cui attendiamo ancora le risposte che non abbiamo avuto. Ad esempio ci piacerebbe sapere se il governo intende metterci in condizioni di effettuare una regolare gara pubblica, veramente competitiva per il trasporto regionale». Intanto per toccare con mano l’entità dei disservizi e dei disagi che devono affrontare ogni giorno i pendolari, questa mattina il presidente Rossi, accompagnato dall’assessore Ceccarelli, ha effettuato un viaggio, a sorpresa, su un treno regionale dal Valdarno a Firenze e poi ha postato le prime impressioni su facebook: «Arrivato a Firenze Campo Marte in orario. Treno sovraffollato, anche se, mi dicono, un po’ meno del solito. Dalla stazione di Figline solo posti in piedi. Ho incontrato la vicesindaco di Montevarchi Elisa Bertini (anche lei pendolare) e sempre casualmente il portavoce dei pendolari del Valdarno, Maurizio Da Re. Voglio fare questo giro, in incognita, nelle tratte toscane per capire e vedere direttamente pregi e difetti del trasporto regionale per poter sostenere al meglio una pressione su Trenitalia, sul rispetto degli orari, sulla fornitura dei nuovi treni, sugli interventi da realizzare per migliorare il servizio. Fino ad oggi si sono spesi miliardi per l’alta velocità e solo spiccioli per i pendolari: uno squilibrio che deve essere corretto. Questo è l’obiettivo- ha concluso Rossi- e voglio arrivare fino in fondo».
Questa iniziativa ci pare opportuna e lodevole, ma quello che è necessario capire, al di la delle polemiche, è quale tipo di mobilità ritiene prioritaria il governo nazionale e quale azione intende esercitare nei confronti di Trenitalia e Rfi per le inadempienze lamentate dalla Regione Toscana (e da altre), confermate dai cittadini pendolari. Se il governo, come talvolta ha dichiarato, intende puntare sulla mobilità sostenibile bisogna riqualificare il servizio ferroviario rendendolo sempre più competitivo in rapporto all’utilizzo dell’auto privata, anche nei piccoli e medi tragitti
A proposito delle spinte perché la nova legge urbanistica della Toscana venga “ammorbidita”, eviti di tradurre in regole quello che deve – seconda una qualificata lobby - rimanere una chiacchiera Greenreport, 3 dicembre 2013, con postilla
Qualunque gruppo di pressione si ingegna come meglio può in attività di lobbying. Gli ordini professionali non fanno eccezione. Tra i servizi che erogano ai loro affiliati contemplano la capacità di esercitare la pressione più efficace sulle autorità competenti per orientare la formazione e la messa in opera delle politiche pubbliche nella direzione più confacente ai timori, alle aspettative e alle opportunità dei loro affiliati così come alle loro concezioni o visioni del mondo e delle questioni oggetto di intervento pubblico. In ciò, nulla di illegittimo: al contrario, è il sale di un sistema politico-amministrativo sanamente pluralistico che non viva nel dogma illusorio di una rappresentanza politica autosufficiente.
Non c’è dunque da stupirsi, se anche gli ordini professionali intendono esercitare la loro pressione dentro e fuori le procedure di concertazione previste dall’ordinamento regionale, senza limitare la loro fatica a fasi predeterminate del procedimento legislativo bensì spaziando sull’intero arco temporale del suo svolgersi. Una consapevole e ben studiata azione di lobbying è un flusso di interventi di pressione, non una loro semplice sommatoria: per cui anche se alla fine di una faticosa riunione di concertazione, all’amministratore pubblico di turno potrà apparire di aver acquisito una qualche risultato finalmente pacifico, chi fa lobbying riterrà del tutto naturale continuare a proporre le proprie tesi e le proprie soluzioni fino quando il processo decisionale non abbia dato evidente riconoscimento di un qualche apprezzabile successo dell’azione pressoria esercitata.
E’ tuttavia evidente come il lobbying, per quanto legittimo e fisiologico nel processo legislativo, nulla abbia a che vedere con la democrazia partecipativa. Da un lato il lobbying punta al risultato specifico e puntuale, e soprattutto predefinito (l’emendamento a una legge, la delegittimazione parziale o totale di un progetto legislativo, il rinvio di una decisione politica). Non mira certo ad aprire una qualche discussione pubblica in vista di una definizione condivisa di interesse pubblico: vuole conseguire un risultato predefinito e preme allo scopo. Dall’altro, per essere efficace, l’azione di lobbying formula giudizi di valore proponendoli come giudizi di fatto. Qualunque innovazione modifichi un assetto di relazioni, competenze e poteri preesistenti alimenterà sempre un movimento contrario che ne dichiarerà il destino fallimentare pur in assenza di qualunque argomento e prova a conforto. Ma il lobbying sa anche bene che solo “sparando alto e nel mucchio” si ottiene attenzione dai media e che solo in questo modo si può tentare di influire su una classe politica quando questa sta ancora decidendo se e quali orientamenti assumere su una data tematica conflittuale e, a monte, se e come definire in proposito una qualche “visione politica”.
Un simile scenario si va profilando attorno alla legge toscana di aggiornamento delle norme sul governo del territorio. I comunicati stampa e gli articoli a corredo che capita di leggere in questi giorni sulla protesta degli ordini professionali versus la proposta di legge regionale ne sono una specifica ma palmare conferma. E’ vero che le pratiche legittimate di concertazione costituiscono ormai una costruzione tanto barocca da tollerare ulteriori inclusioni e coinvolgere anche gli ordini professionali competenti e non solo enti locali e categorie economiche e sociali. Ma, delle regole ancora vigenti, non se ne può far colpa a chi ha dovuto applicare una normativa preesistente al procedimento legislativo in questione.
In ogni caso, anche quando la “concertazione” (esperita o auspicata) è garantita essa si configura semplicemente come la legittimazione delle attività di lobbying, nel tentativo di farle uscire dai corridoi e di renderle palesi nelle aule della decisione politico-amministrativa. Ma con un vizio intrinseco: l’obbligo implicito di postulare che le posizioni delle organizzazioni concertanti siano sempre e comunque quelle dei loro formali mandatari, una coincidenza che empiricamente richiederebbe verifiche specifiche ma raramente possibili e tanto meno tollerate dalle organizzazioni in parola (anche se la questione della rappresentatività effettiva e dunque della legittimazione ad agire non può riguardare solo il mondo e le istituzioni della politica: specie quando si indicano numeri di partecipanti, di sottoscrittori di petizioni e di assemblee tanto importanti quanto inaccertabili).
Orbene, ciò che si può adesso auspicare è che il parlamento regionale assuma la propria piena centralità rappresentativa generale e non si lasci invischiare nel gioco delle pressioni contrapposte e dei loro riflessi mediatici. E che valuti con piena e coerente consapevolezza le ragioni che hanno indotto il governo della Toscana a por mano a una legge di sistema sulle regole non negoziabili che debbono disciplinare i destini e l’uso collettivo del comune patrimonio territoriale. Sono le ragioni che, tra tanti, ho cercato di riassumere su queste colonne nei mesi scorsi e che i Comuni toscani hanno contribuito in misura determinante a scrivere con l’ausilio della loro Associazione proprio in nome della loro responsabilità di rappresentanti generali della comunità toscana condividendo il disegno del governo regionale.
Ragioni che si chiamano – tra le altre – contrasto al consumo di suolo; correttezza delle procedure ed efficacia delle norme di legge; informazione e partecipazione delle popolazioni che abitano e vivono le diverse realtà territoriali; monitoraggio dell’esperienza applicativa della legge e valutazione della sua efficacia; assunzione definitoria e operativa della nozione i patrimonio territoriale come fondamento normativo e strategico delle strumentazioni di governo; pianificazione di area vasta per garantire una progettazione unitaria e multisettoriale delle trasformazioni a scala translocale; raccordo funzionale tra pianificazione territoriale e urbanistica e politiche per la casa incentrate su una nuova dotazione di alloggi sociali; prevenzione e mitigazione dei rischi idrogeologico e sismico. Ciascuno di questi lemmi trova nella nuova legge una declinazione normativa che fa tesoro dell’esperienza compiuta dalla legge 1, in parte consolidando e rafforzando, in parte innovando per garantire effettività ai suoi principi e al perseguimento dei suoi obiettivi.
Troppo spesso la legge vigente è apparsa, per l’appunto, un manifesto accademico, non capace di intercettare, proprio sul piano della cultura amministrativa, i rudi interrogativi di chi premeva sugli uffici tecnici dei Comuni per sapere se e quanto “murare”. Massimo Severo Giannini e i suoi allievi parlavano, oltre mezzo secolo fa, di copertura amministrativa delle leggi. Ebbene la legge 1 quella copertura se l’è dovuta conquistare sul campo, più che nella sua stessa strumentazione normativa. E ha fatto fatica. Molta fatica nel perseguire tale obiettivo.
Al di là dell’insano connubio tra oneri di urbanizzazione e ordinaria finanza locale; al di là delle difficoltà municipali di prospettazione strategica; al di là dell’incultura e della fragilità di un ceto edilizio-imprenditoriale sovente inconsapevole, quando non rapace, dell’irriproducibile materia prima con cui ha a che fare; al di là di una nozione di sviluppo non solo alternativa alla “decrescita felice” ma anche, e più semplicemente, a caccia di occasioni congiunturali di occupazione territorialmente… pur che sia (quante aree artigianali-industriali sono divenute concessionarie di automobili?); al di là di un mercato immobiliare che ha a lungo perseverato nelle pratiche espulsive dagli insediamenti urbani più antichi verso nuove consunzioni del territorio rurale, trasformando i centri storici in meri luoghi di loisir commerciale da fine settimana; al di là di un’affannosa ricerca di aree produttive tutte le volte che un (raro) investitore straniero si affaccia sullo scenario toscano, quasi che la pianificazione territoriale dei Comuni debba certificare la propria insussistenza; al di là delle pulsioni sui territori costieri e insulari e del loro impervio contenimento; al di là dei tantissimi sindaci virtuosi che si sono misurati con una legge complicata, che richiedeva loro una visione del territorio, del paesaggio e dei valori comuni quanto mai difficile a scala municipale; ebbene, al di là di tutto questo universo di temi, vicende e problemi, la legge 1 non ha fallito, semplicemente non è uscita dal rodaggio. Una sorta di adolescente che rinvia le responsabilità dell’età adulta.
A cominciare da un quesito cruciale per il territorio toscano e per il suo paesaggio, che rozzamente possiamo riassumere così: dove comincia e finisce la “città”? Dove comincia la “campagna”? C’è una linea che abbia il coraggio culturale e strategico di una simile demarcazione per stabilire nuove e ordinate connessioni? Dove e come tracciarla? E’ una scelta normativa essenziale, perché senza quella linea non c’è “Toscana” e non c’è paesaggio e non c’è sviluppo. C’è un’ibridazione con altri paesaggi sociali tra i quali quello toscano deve poter non trascolorare e mantenere la piena riconoscibilità delle proprie città e delle proprie campagne. E’ questo il genere di sfide che il legislatore toscano è chiamato a non rimuovere né ad affidare a frammentarie transazioni, se vuole ribadire il senso stesso della sua autorità istituzionale.
E’ un compito grave ma urgente, anche perché la proposta toscana fa da apripista a una di quelle riforme strutturali che l’Italia da troppi decenni rinvia lasciandone l’intero gravame sulle spalle delle regioni. Per cui il Consiglio regionale ha l’occasione per aprire un nuovo orizzonte normativo di rilievo nazionale, in sintonia con la più evoluta legislazione.
Saskia Sassen ce l’aveva raccontato: è un effetto perverso della globalizzazione al servizio del turbocapitalismo: rafforzare l’infrastuttura globale” e abbandonare il resto al degrado a al dominio della motorizzazione individualeUn'analisi di Legambiente, ma pochi i governanti che si oppongono; cominciano però le proteste dei governati. Il Fatto quotidiano, 2 dicembre 2013
Sulle ferrovie è sempre più un'Italia a due velocità. Da una parte il trasporto locale è in fibrillazione per le annunciate soppressioni. Legambiente accusa: "Priorità solo all'alta velocità". Trenitalia e Ntv pagheranno il 15% in meno per la rete, mentre Moretti vuole tassare i pendolari. Intanto è sempre più alto il rischio di procedura di infrazione alla Corte Ue: "Passeggeri poco tutelati"
I nuovi orari arriveranno solo il 15 dicembre, ma il trasporto ferroviario locale vive settimane di fibrillazione per le annunciate soppressioni di corse e tratte: nuove cancellazioni all’orizzonte in 10 Regioni stanno provocando proteste tra i pendolari e sono oggetto di interrogazioni e interpellanze parlamentari. Il fenomeno dura da anni: secondo Legambiente, in 13 Regioni tra il 2011 e il 2012 si è assistito ad un taglio di treni e corse in media del 5% ogni anno, che ha toccato punte del 15% in Puglia. Ferrovie dello Stato annuncia l’arrivo di nuove carrozze destinate alle tratte locali, ma da sempre più parti si punta il dito contro l’alta velocità: “Si dà priorità ai treni veloci, investendo e migliorando i tratti extra-urbani della rete – spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente – per quelli urbani, invece, i fondi latitano e ritardi e disagi aumentano”. Il tutto mentre il governo fa uno sconto del 15% sul canone per l’uso dell’infrastruttura per l’Alta Velocità a Trenitalia e Ntv e l’Europa pressa l’Italia perché si adegui alle direttive comunitarie sui diritti dei passeggeri: Roma è a rischio deferimento davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Gli ultimi tagli alle tratte locali
A ottobre varie Regioni hanno deciso di usare le forbici. Il Piemonte ha annunciato nuovi tagli per risparmiare 5 milioni: a meno di ripensamenti, dal 14 dicembre cesseranno il servizio 18 treni che collegano la regione con la Liguria, creando disagi a oltre 2mila pendolari. Esemplare, poi, la vicenda degli interregionali Milano-Venezia. A luglio la Regione Veneto ne aveva soppressi 8, sostituendoli con i più lenti regionali e creando disagi a circa 10 mila utenti. “Ora la Lombardia ha ripristinato la tratta, ma solo fino a Verona – spiega Dario Balotta, responsabile trasporti Legambiente della Lombardia – e non garantendo le coincidenze. Così per andare a Venezia ed evitare il trasbordo a Verona, i 4mila pendolari giornalieri tra le due regioni saranno costretti a servirsi dei Frecciabianca, che costa dal doppio al triplo di un interregionale. Un vero favore all’Alta velocità”. A settembre, invece, era toccato alla Calabria: 14 i treni locali soppressi, decisione che aveva spinto il Pd a presentare un’interrogazione alla Camera. La scure si è abbattuta anche sugli Intercity: a fine ottobre Trenitalia ha deciso di tagliarne 12 tra la Toscana e altre 8 Regioni, dalFriuli alla Campania. I pendolari sono scesi sul piede di guerra e la politica si è mossa: il 24 ottobre i governatori interessati hanno scritto al presidente del Consiglio Enrico Letta e il Pd ha presentato un’interpellanza alla Camera. “Durante il periodo natalizio il servizio sarà assicurato”, ha fatto sapere il sottosegretario ai Trasporti, Erasmo D’Angelis. Ma per l’anno nuovo non c’è certezza.
Ma il ministero fa lo sconto a Trenitalia e Ntv
Fino al 15% di corse tagliate in un solo anno
L’Italia a due velocità
“Le risorse nazionali per il trasporto ferroviario, erogate dallo Stato alle Regioni, sono diminuite a partire dal 2010 – spiega ancora Zanchini – e a subirne le conseguenze sono i treni locali e gli intercity”. Il risultato è un Paese a due marce: da un lato i pendolari costretti a viaggiare nell’inferno delle tratte locali in treni lenti, sporchi e sovraffollati; dall’altro i passeggeri dell’Alta Velocità, coccolati da standard di qualità elevati e in costante miglioramento. “Per far capire la differenza – si legge ancora su Pendolaria 2012 – tra Roma e Milano nel 2007 i collegamenti Eurostar al giorno erano 17 mentre nel 2012 sono ben 76 le corse di Frecciarossa, a cui si sommano le 8 Italo. Sull’Aalta velocità l’aumento dell’offerta in 5 anni è pari a +395%”. Poi c’è il trasporto pubblico locale: “Nello stesso periodo a Genova i treni che attraversano la città da Voltri a Nervi sono passati da 51 a 35, su una linea percorsa ogni giorno da 25mila pendolari con ulteriori tagli effettuati anche quest’anno. A Roma, i 65mila pendolari della linea Fiumicino Aeroporto-Fara Sabina hanno visto cancellare 4 treni, quando la linea è progettata per 50mila viaggiatori al giorno”.
La ricetta di Moretti: “Tassare i pendolari”
L’Ue: “Italia a rischio deferimento”
«Entro il 2020 le politiche comunitarie dovranno tenere conto dei loro impatti diretti e indiretti sull’uso del territorio, a scala europea e globale, e il trend del consumo di suolo dovrà essere sulla strada per raggiungere l’obiettivo del consumo netto di suolo zero nel 2050». Ma cominciare domani è già troppo tardi. Con postilla
La necessità dilimitare il consumo di suolo e in particolare di suolo agricolo (8 metriquadrati al secondo, secondo i dati di ISPRA) è ormai entrata a tutti glieffetti nell’agenda politica nazionale. Dopo il DDL Catania, presentatodall’omonimo Ministro del governo Monti e arrivato fino all’approvazione dellaConferenza Stato-Regioni, nell’attuale legislatura sono stati depositati tredisegni di legge di iniziativa parlamentare che hanno come obiettivo dichiaratola limitazione del consumo di suolo, a cui va aggiunto un ulteriore disegno dilegge promosso direttamente dal governo Letta.
postilla
Mi domando quale sarebbe il risultato di questa compensazione in Italia, dove l'unica legge rispettata dai forti è l'elusione della legge, deve la rendita e i "diritti edificatori"imperano, e dove la pubblica amministrazione è sempre meno motivata, autorevole, competente e attrezzata.
Una efficace ricomposizione delle principali documentate denunce sui motivi dei disastri, del responsabile della Protezione Civile e delle associazioni ambientaliste. Corriere della Sera, 21 novembre 2013
ROMA — «Centri funzionali decentrati»: con questo nome astruso si chiamano le strutture regionali che dovrebbero essere i pilastri del sistema di allerta in caso di alluvioni. Ieri si è scoperto che nella Sardegna funestata dal ciclone Cleopatra quel «Centro» non era attivo. Anche se non è stata proprio una scoperta. Si sapeva dal 9 ottobre scorso, quando il capo della Protezione civile Franco Gabrielli aveva denunciato, in un’audizione alla Camera dei deputati, che a dieci anni di distanza dal provvedimento che le ha istituite, il 24 febbraio 2004, soltanto in dieci Regioni quelle strutture funzionano a pieno regime. Quali sono? «Piemonte, Liguria, Valle D’Aosta, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Campania e le Province autonome di Trento e Bolzano. Le Regioni non ancora attive sono sei: Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna. Umbria, Lazio, Molise e Calabria hanno invece attiva solo la parte idro e hanno il supporto del Dipartimento per la parte meteo». Parole del medesimo Gabrielli.
Il Friuli Venezia Giulia potrà rivendicare di avere una struttura regionale di Protezione civile assolutamente eccellente, mentre la Puglia ha già rispedito l’accusa al mittente, sostenendo che la colpa dei ritardi è tutta dell’apparato nazionale. Replica non incassata a sua volta da Gabrielli, che ha invitato le autorità pugliesi a non girare la frittata. Episodio, a prescindere dalle ragioni di ciascuno, che fa ben capire come il nostro federalismo pasticcione non abbia risparmiato nemmeno la Protezione civile: vittima di quella che il suo capo ha bollato come «una Babele di competenze» capace di frenare la prevenzione dei disastri ambientali. «Sul dissesto idrogeologico hanno competenze Autorità di bacino, Province, Regioni e Comuni», ha spiegato Gabrielli, aggiungendo che davanti a un alluvione come quella del 1966 a Firenze saremmo indifesi come allora.
Si è forse dimenticato qualcuno, il capo della Protezione civile: i consorzi di bonifica, per esempio. Ma il quadro è ugualmente disarmante. Tanto più che in questa Babele chi ha il compito di prevenire i dissesti fa esattamente il contrario. Dal febbraio del 2004 a oggi, quando sono stati formalmente istituiti i «Centri funzionali», i Comuni e le Regioni hanno continuato nell’opera di selvaggio e scriteriato consumo di suolo, ponendo le basi per future catastrofi più gravi. Se i cambiamenti climatici producono con sempre maggiore frequenza eventi estremi, i loro effetti «sono stati esacerbati», denuncia anche Gabrielli, «dagli ormai ben noti caratteri di elevata antropizzazione del territorio, dall’aumento del consumo di suolo alla conseguente notevole impermeabilizzazione delle superfici». Un allarme simile a quello lanciato nel rapporto 2012 perfino dall’Istat, che mai si era spinto prima di allora in valutazioni tanto critiche sulle questioni ambientali. E qui l’abusivismo c’entra ben poco. C’entrano invece i piani regolatori sfornati con leggerezza dai Comuni e vidimati con altrettanta leggerezza dalle Regioni. C’entrano programmi territoriali e piani paesistici regionali spesso insensati. C’entrano le sconsiderate variazioni di destinazione d’uso delle superfici che hanno fatto perdere all’Italia negli ultimi quarant’anni qualcosa come 5 milioni di ettari di terreni agricoli. E qui le responsabilità sono tutte delle classi dirigenti locali, spesso coinvolte nel torbido intreccio di interessi affaristici e speculativi.
Dice una indagine di Legambiente che «negli ultimi quindici anni il consumo di suolo è cresciuto in modo abnorme e incontrollato», con il risultato che nel 2011 il 7,6% del territorio italiano non era più naturale: parliamo di una superficie superiore a quella dell’intera Toscana. Si tratta di una percentuale nettamente superiore a quella della media europea (4,3%) e della stessa Germania (6,8%), Paese pressoché interamente pianeggiante (mentre un terzo del territorio italiano è montuoso) e con una densità abitativa superiore di circa il 15 per cento alla nostra.
Ancora. Nel 2007 a Napoli e Milano il 62% del suolo comunale era impermeabilizzato. A Roma, nei 15 anni fra il 1993 e il 2008, ben 4.800 ettari di terreno agricolo sono stati resi edificabili e occupati da abitazioni inutili. Nel 2009 si contavano nella capitale 245.142 abitazioni vuote: record nazionale assoluto. Ma al secondo posto c’era Cosenza con 165.398 case vuote, numero superiore di quasi due volte e mezzo a quello degli abitanti della città.
E mentre si prosegue a tirare su dappertutto palazzine e centri commerciali al ritmo (stime del ministero dell’Agricoltura) di cento ettari al giorno, un anno fa il Dipartimento della Protezione civile informava che ben quindici Regioni non avevano presentato l’elenco dei Comuni con i piani d’emergenza aggiornati: questo in un Paese come l’Italia che ha ben 6.600 enti locali su poco più di 8 mila sui quali incombe il rischio idrogeologico. Per non parlare poi delle scaramucce fra il centro e la periferia che vanno avanti dal 2001, anche a colpi di ricorsi alla Corte costituzionale.
Al verificarsi di tragedie come quelle di Sardegna 2013, Maremma 2012 e Liguria e Toscana 2011, contribuisce certo la cronica mancanza di denari da destinare alla prevenzione. Trenta milioni l’anno, quanti ne sono stanziati dalla legge di stabilità, in effetti sono pochini per un Paese che avrebbe bisogno di un miliardo e mezzo l’anno per almeno un decennio. Ma siamo sicuri che la carenza di risorse non sia in qualche caso una scusa per pietose autoassoluzioni? Ha fatto scalpore in Liguria una denuncia del gruppo regionale del Popolo della Libertà, spalleggiato dall’allora capogruppo del partito all’europarlamento, l’attuale ministro della Difesa Mario Mauro, secondo cui appena il 7 per cento dei fondi europei venivano impiegati per prevenire il dissesto, in una delle Regioni più a rischio. Argomentazioni «pretestuose», per l’assessore regionale Enzo Guccinelli.
E ricordate invece la tragedia di Messina del 2009, quando un alluvione provocò la morte di 37 persone? Mentre infuriavano «pretestuose» polemiche la Regione siciliana, punta sul vivo, diramò un comunicato nel quale sosteneva che in dieci anni aveva speso 200 milioni di euro allo scopo di prevenire il dissesto idrogeologico nel solo messinese. Ma qualcuno dei solerti dirigenti regionali si era forse accorto delle palazzine spuntate come funghi nell’alveo dei torrenti?
Un’iniziativa da seguire con interesse, e da monitorare con attenzione soprattutto per gli aspetti sociali e a quelli economici: chi ci guadagna e chi chi rimette, oggi e domani? La Repubblica, 15 novembre 2015
SOTTO forma di un condominio formato da quattro edifici di nove piani, per un totale di 123 appartamenti, sorto in soli 18 mesi nel quartiere San Siro di Milano, non lontano dallo stadio. Domani, con l’ingresso degli ultimi inquilini, ci sarà una sorta di cerimonia ufficiale per l’ultimo atto di un progetto in cui pochi credevano quattro anni fa, quando partì l’iter burocratico.
Perché l’obiettivo era ambizioso: dare in affitto a prezzi calmierati abitazioni in edilizia convenzionata abbattendo i costi di edificazione e allo stesso tempo ottenendo un prodotto di qualità in classe energetica A. Un progetto, firmato dallo studio Rossi Prodi di Firenze, molto particolare: una struttura portante in legname sovrapposto (abeti e larici provenienti da foreste sostenibili austriache), ricoperto da uno strato di cartongesso ad elevate prestazioni, tenuta insieme da viti lunghe 40 centimetri. Tanto che nell’ambiente già si scherza definendolo come “il modello Ikea delle costruzioni”. Tutto questo, a canoni di locazione “fuori mercato”: per un bilocale di 75 metri quadrati si paga un affitto di 450 euro al mese. Quando la media per la stessa metratura nel nostro Paese si aggira sui mille euro. Tutto questo garantendo comunque un profitto alla società che ha curato l’operazione.
Il privato che ha realizzato il progetto, la Polaris Real Estate, si è rifatta a realtà che in Europa esistono da almeno vent’anni. E rispondono al nome di “housing sociale”, un settore che fa parte del più vasto mondo dell’economia e della finanza etica e che vuole dare risposte abitative a chi non si potrebbe permettere i prezzi di mercato. In pratica, quasi più nessuno: perché se è vero che i prezzi degli affitti in Italia sono in media con l’Europa, gli stipendi sono molto al di sotto.
Progetti che per avere gambe devono far convivere in modo virtuoso pubblico e privato: le case di San Siro - il progetto social più grande d’Europa - è stato realizzato con un finanziamento del Fondo Immobiliare di Lombardia, promosso da Fondazione Cariplo e Regione, ma i cui sottoscrittori sono banche come Intesa e Bpm, assicurazioni come Generali, la Cassa Italiana geometri e la Cassa Depositi Prestiti.
Come detto, è bastato copiare quanto già accade nel resto d’Europa. Pochi giorni fa, in un convegno sul tema organizzato a Torino, la società di consulenza Scenari Immobiliari ha presentato uno studio che evidenzia lo scarso peso dell'housing sociale: a Roma e Milano incide per il 4 e il 7 per cento sul totale delle locazioni. A Londra raggiunge il 26, a Copenaghen il 20, a Parigi il 17, mentre la media europea è del 15. Ecco perché, potrebbe essere una risposta sia alla crisi dell'immobiliare (prezzi crollati del 30 per cento in 7 anni e compravendite scese del 20 solo nell'ultimo anno e del 50 in un decennio) sia dell’edilizia (i permessi di costruzione nel 2012 sono calati di un altro 22 per cento, ai minimi dal dopoguerra). L’housing sociale diventa così una strada su cui si potrebbero avviare in tanti. Proprio la Cassa Depositi Prestiti, la spa controllata del Tesoro che si occupa di mettere a frutto il risparmio postale degli italiani, ha destinato nell’ultimo bilancio un miliardo di euro per progetti edilizi con locazioni calmierate. E il caso di San Siro a Milano potrebbe fare da modello.
Un Commento di Michela Barzi a questo articolo e alle proposte descritte
L'autore appartiene ai pochi che non contrastano il consumo di suolo solocon le parole, ma anche con i fatti. Lo ha fatto come sindaco di un piccolo comune alle porte di Milano e lo ha fatto come fondatore dell'associazione Stop al consumo di suolo.
Quante volte, partecipando ad un dibattito sul territorio, su una grande opera, su un piano regolatore, vi è capitato di essere etichettati come dei radicali ambientalisti, degli estremisti, dei sovversivi annidati nei comitati? A me è capitato moltissime volte.
La cosa mi ha sempre dato anche un certo godimento. Aumentava la mia autostima. Essere accusato di essere un sovversivo dai dirigenti del partito del calcestruzzo (sia da quelli di matrice neoliberista che da quelli di matrice progressista) era motivo di grande orgoglio. Cose da raccontare ai nipotini. «Ma smettila di opporti alle autostrade e al Tav! Vuoi farci tornare all'età della pietra? Vuoi muoverti con i cavalli! Estremista e ambientalista del c...!», «Si, adesso siete anche contro l'expo 2015! Ma vergognatevi. Siete dei talebani del verde! Volete farci perdere occasioni di sviluppo, di crescita, di competitività! Irresponsabili», «Ma che problemi vi da questo outlet? Ci sistemano anche tutta la viabilità e ci fanno 7 rotonde. Ah certo! Voi volete andare nei campi a caccia di farfalle, oppure volete tornare a coltivare la terra! Bravo! Oltre ad essere ambientalista sei pure terrone!»(questa me la sono beccata da parte dei dirigenti del partito del cemento della corrente leghista).
Ma poi, con il passare del tempo, questa etichetta ha cominciato a starmi stretta e con mia grande sorpresa mi sono reso conto che in realtà, io e direi anche tutti gli ambientalisti, siamo dei veri ed autentici moderati. Nel senso che siamo impegnati nel moderare il peso dell'uomo sulla terra. Vorremmo mantenere, difendere o ripristinare i delicati equilibri esistenti tra il genere umano, gli altri esseri viventi e la terra. Terra intesa sia come pianeta che come terra che abbiamo sotto i piedi.
Di converso, quelli che ad ogni assemblea pubblica, consiglio comunale o talkshow televisivo, non perdono occasione per sbeffeggiarci, disegnarci su un albero intenti ad abbracciare un panda oppure additarci all'opinione pubblica come i nemici della patria, hanno perduto la natura e lo smalto di moderati. Approvando e finanziando grandi opere, speculazioni edilizie, saccheggi vari del territorio, distruggendo biodiversità e suoli agricoli, con lo scorrere dei cronoprogrammi dei loro cantieri promessi alla lavagna di Porta a Porta, i rispettabili politici e lobbisti in doppiopetto hanno subito una metamorfosi che li ha trasformati in veri estremisti sovversivi, quasi sempre polemici e pronti ad alzare i toni della discussione. Se necessario anche usando il manganello...
Esagero? Mi pare proprio di no. Anzi possiamo affermare con pochi dati certi, che i veri nemici del benessere del paese e dei cittadini che lo abitano siano proprio loro. Loro che in un quarantennio hanno compromesso il futuro delle presenti e delle future generazioni. Vediamo perché.
Che cosa è fondamentale per un popolo, per le persone che vivono su un determinato territorio? Che cosa è indispensabile alla sopravvivenza dei cittadini? Il cibo. E che cosa è accaduto al nostro paese? È accaduto che dal 1971 al 2010 ha perso 5 milioni di ettari di Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Questo dato è dovuto a due fenomeni: l'abbandono delle terre e la cementificazione.
Per la risoluzione del primo, la politica è completamente assente e non riesce, anzi non prova neanche, ad arginare la perdita di terreno del settore primario rispetto al mattone. Coltivare la terra rende sempre meno in termini di reddito ed è molto faticoso, nonostante la meccanizzazione. Una crisi che richiederebbe anche un cambio di modello di produzione, avviando una riconversione che emancipi il settore stesso dalla monocoltura intensiva aprendo nuove prospettive. Non solo in termini di produzione ma anche di occasioni per riprodurre comunità e socialità.
Per il secondo fenomeno, la cementificazione, la politica dominante, non solo non ha arginato il fenomeno irreversibile della impermeabilizzazione dei suoli, ma lo ha facilitato e promosso: approvando normative che hanno spinto i comuni a fare cassa con la monetizzazione del territorio, progettando e realizzando opere infrastrutturali che hanno accompagnato l'espansione urbanistica (lo sprawl), favorendo la rendita urbana ai danni della tutela del territorio, del paesaggio e dell'agricoltura, coltivando il consenso facile con gli oneri di urbanizzazione che arrivano grazie alle colate di cemento.
A questi dati, tenuti nascosti sapientemente all'opinione pubblica (ne avete mai sentito parlare al TG1, al TG3, a Ballarò, a Otto e mezzo?) se ne aggiunge un altro ancor più preoccupante: l'Italia è il terzo paese in Europa ed il quinto nel mondo nella classifica del deficit di suolo. In sostanza ci mancano 49 milioni di ettari per coprire il nostro intero fabbisogno che è pari a 61 milioni di ettari. Siamo destinati ad essere sempre più dipendenti dalla produzione di terreni di altri paesi. Il buon senso del buon padre o madre di famiglia dovrebbe portarci a fermare per decreto ed immediatamente la cementificazione ed il consumo di suolo, a bonificare le aree compromesse dal cemento e dai veleni, ad incentivare seriamente il ritorno alla coltivazione delle terre abbandonate. Ma purtroppo il buon senso e l'interesse collettivo sono spesso in contraddizione con gli interessi dei pochi e soliti noti...
Ma oltre che della perduta sovranità alimentare, gli estremisti dirigenti del partito del cemento si sono resi protagonisti dell'alterazione e della sovversione di delicati equilibri ecosistemici. Alterazione condotta grazie alle loro azioni irriducibili, condotte talvolta nottetempo: mitici i consigli comunali alle 3 di notte per approvare varianti ai piani regolatori (Nei quindici anni dal 1995 al 2009, i comuni italiani hanno rilasciato complessivamente permessi di costruire per 3,8 miliardi di mc). Le scelte di questi estremisti sono concausa certificata del dissesto idrogeologico e dello sprofondamento quotidiano del paese nel fango. Ma essi si ostinano quotidianamente a tenere la posizione, si oppongono in maniera davvero ideologica e radicale alle decine di proposte veramente moderate che presentiamo tutti i giorni.
Noi (ambientalisti, comitati, cittadini) chiediamo di investire le scarse risorse nella messa in sicurezza del territorio; loro ci rispondono arroganti che sono prioritari i buchi nelle montagne per portare merci a 300 km all'ora da Torino a Lione. Noi proponiamo di incentivare il recupero degli immobili esistenti, rendendoli più efficienti dal punto di vista energetico, di puntare sul risanamento/ricostruzione dei centri storici abbandonati (a partire da L'Aquila, dove recentemente si sono recati 22 sindaci moderati della Val di Susa per chiedere di impiegare in quella città le risorse destinate al Tav); loro si impuntano con le newtown in aperta campagna, le cittadelle dello sport, della moda, del design. Noi proponiamo di restaurare il paesaggio, di elaborare un grande piano nazionale di piccole opere, che aiuterebbe l'edilizia ad uscire dalla crisi (dall'abbattimento delle barriere architettoniche alla realizzazione di fognature, marciapiedi e piste ciclabili); loro ci rispondono polemicamente e strumentalmente con nuovi piani casa, nuovi grattacieli, nuovi grandi eventi e relative nuove grandi autostrade e nuovi grandi padiglioni. Insomma, noi chiediamo di andare più piano; loro accelerano con sprezzo del pericolo, spingendo il vapore a tutta velocità verso le estreme conseguenze, verso il baratro. Degli irresponsabili.
Risultato di queste scelte scellerate portate avanti con tanta veemenza bipartisan? Secondo l'ISPRA (Istituto Superiore per Protezione e la Ricerca Ambientale) ogni giorno vengono impermeabilizzati 100 ettari di terreni naturali. 10 mq al secondo. Quindi cosa facciamo?
Dobbiamo fermarli. Non c'è alternativa. Perché sono dei veri sovversivi. I veri estremisti di questo paese.
Basterebbe questo per fermare il mostro. Ma c'è altro, più consistente che StopOr_Me da tempo denuncia. Il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2013
Alcune cose, invece, appaiono sicure: quei 380 chilometri di asfalto in 5 regioni (Lazio, Umbria, Toscana, Emilia e Veneto) costeranno quasi 10 miliardi di euro, 4 in più di quelli preventivati per il fu Ponte sullo Stretto. L'altra sicurezza è che, nonostante la promessa che tutto sarà pagato dai privati con il project financing, alla fine dalle casse statali uscirà invece una cifra di uguale entità a favore dei realizzatori, un debito che peserà sui conti per almeno un quindicennio. La terza sicurezza è che i cittadini-automobilisti fino ad ora abituati a viaggiare gratis su quel tragitto, dovranno contribuire con il pagamento di pedaggi autostradali che per circa mezzo secolo finiranno nelle casse della società concessionaria dell'opera.
La quarta certezza è che si tratta di un affare destinato a finire in bocca a Vito Bonsignore, il finanziere-costruttore-politico che per primo ha presentato un progetto assicurandosi un preziosissimo diritto di prelazione che varrà oro al momento della gara europea per la scelta dell'azienda che dovrà realizzare l'opera. La gara sarà indetta tenendo come punto di riferimento proprio la proposta Bonsignore e nel caso in cui qualcuno riuscisse ad offrire condizioni migliori, lo stesso Bonsignore avrà diritto all'ultima parola.
Bonsignore è uno dei protagonisti della Tangentopoli di vent'anni fa e vanta una sfilza di procedimenti giudiziari lunga mezza pagina, condannato in via definitiva a 2 anni per corruzione e turbativa d'asta, presente nella lista dei cittadini italiani esportatori di capitali in Liechtenstein, fondatore dell'Udc, tuttora vice presidente del Partito Popolare al Parlamento europeo. L'ultima certezza è che il ripescaggio della mega opera avviene con ministro delle Infrastrutture uno dei politici più vicini a Bonsignore, il ciellino Maurizio Lupi, ovviamente desideroso di legare il suo nome ad un'opera destinata a restare nella storia d'Italia (sempre che alla fine si faccia). Tutto ciò dimostra che a dispetto delle dicerie, il governo delle larghe intese è vivo e vegeto e molto reattivo quando si tratta di affari con nove zeri.
La storia dell'autostrada Orte-Mestre comincia 12 anni fa, lo stesso giorno in cui il governo Berlusconi approva la famosa legge Obiettivo, quella che avrebbe dovuto far sbocciare il “nuovo Rinascimento italiano” assicurando pure un periodo di splendore ai costruttori, soprattutto i 13 maggiori riuniti nell'Agi. Come è andata a finire lo sanno tutti: di grandi opere nemmeno l'ombra, l'edilizia agonizza e proprio alcuni mesi fa una bella fetta di costruttori piccoli e medi ha abbandonato l'Ance e la Confindustria proprio in polemica con la legge Obiettivo. L'Orte-Mestre fu inserita nell'elenco degli “interventi strategici” e nella tacita spartizione dei pani e dei pesci, Bonsignore si fece avanti con una proposta e un progetto. L'iniziativa poi sembrava si fosse arenata perché lo Stato non trovava i quasi 2 miliardi iniziali necessari per passare dalle intenzioni ai primi passi concreti. Quei quattrini sono spuntati questa estate con un sistema molto complesso, sulla cui correttezza e linearità si sa già che alla fine dovrà pronunciarsi la Corte dei Conti. I quattrini sono stati promessi ai futuri realizzatori (leggi Bonsignore) con un abbuono di circa 2 miliardi di euro sulle tasse delle imprese (Ires e Irap) valido per 15-20 anni. Il periodo ritenuto necessario per completare i lavori e avviare la gestione. Nel frattempo quei quattrini Bonsignore se li farà anticipare cash dalle banche e quindi su di essi graveranno fior di interessi che lo Stato dovrà via via coprire.
Applaudita dalle due ali del partito larghe intese, una delle più devastanti Grandi opere, tra le moltissime che si programmano e realizzano nell’Italia berlusconista, finanziandole coi debiti dei nostri posteri e con tagli sulla pelle degli abitanti, a partire dalle fasce più deboli. La Nuova Venezia, 9 novembre 2013
VENEZIA La prima applicazione della defiscalizzazione su un investimento infrastrutturale porta al Veneto un passo decisivo verso la realizzazione dell’autostrada Orte-Mestre e, con questa, della Nuova Romea. Ieri, grazie alla sostituzione del previsto contributo pubblico da 1,8 miliardi con una cifra equivalente di riduzioni fiscali (Ires, Irap e Iva) che la società concessionaria dovrà pagare dopo l’avvio della gestione, il Cipe ha dato il via libera (con prescrizioni) al progetto preliminare di nuovo corridoio autostradale (396 chilometri) Nord-Sud in grado di collegare Mestre a Orte.
L'ennesimo scontro globale locale sull'insediamento della grande distribuzione, letto come misera baruffa di interessi di bottega, e probabilmente percepito come tale anche dai protagonisti. Corriere della Sera, 9 novembre 2013
«Non fateci chiudere». Battaglia tra la Confcommercio milanese e l’Ikea sull’insediamento di un nuovo centro commerciale a Rescaldina, a 30 chilometri da Milano e a 5 da Legnano: 74 mila metri quadrati di cui 22 mila destinati ad ospitare mobili e arredamenti della ditta scandinava e gli altri 52 mila finalizzati a realizzare una galleria che offrirà differenti merceologie. I negozianti: overdose di centri commerciali. Possiamo già chiamarla la battaglia di Rescaldina perché il conflitto che si è aperto tra la Confcommercio milanese e l’Ikea è di quelli destinati a segnare quantomeno una stagione. La querelle verte sull’insediamento di un nuovo centro commerciale nel comune di Rescaldina a 30 chilometri da Milano e a 5 da Legnano. Si parla di 74 mila metri quadrati di cui 22 mila destinati a ospitare mobili e arredamenti della ditta scandinava e gli altri 52 mila finalizzati a realizzare una galleria commerciale che offrirà differenti merceologie. È il nuovo format dell’Ikea che ha visto una prima realizzazione a Villesse, in provincia di Gorizia e a ridosso della autostrada A4 e ora sbarca nell’Alto Milanese per poi puntare su Brescia. Rischiando di creare però quella che i commercianti denunciano come «un’overdose di centri commerciali» perché sull’asse Rho-Gallarate ne esistono già 13 oltre a un altro centro shopping sempre nel territorio di Rescaldina che occupa 46 mila metri quadri.
La contestazione dei progetti svedesi è iniziata ieri con un’assemblea di un centinaio di commercianti a Legnano e con la presenza di un paio di sindaci della zona, assessori e consiglieri regionali. Ma siamo solo all’inizio, da qui alla fine di novembre ne sono previste altre due a Saronno e Gallarate sempre con la regia dell’associazione che fa capo a Carlo Sangalli. Oltre ai danni che il centro Ikea provocherebbe per il tessuto dei dettaglianti costretti a chiudere i battenti, nel corso dell’assemblea è stato denunciato «un consumo di suolo di ulteriori 280 mila metri quadrati sottratti al verde e all’agricoltura in un’area già fortemente urbanizzata». La Confcommercio contesta anche i dati sull’occupazione, secondo il suo ufficio studi per 840 nuovi posti di lavoro creati con l’insediamento Ikea se ne distruggerebbero 1.085 nelle piccole imprese della zona e quindi il saldo sarebbe negativo.
La battaglia di Rescaldina scoppia in una congiuntura drammatica per il settore del commercio, la contrazione dei consumi ha messo in gravissima difficoltà i piccoli esercenti ma ha creato problemi anche ai centri commerciali. Non è un caso che le nuove aperture siano quasi esclusivamente da parte di operatori specializzati come Ikea, Decathlon o LeroyMerlin mentre i punti vendita generalisti soffrono e non pensano certo di espandersi. Se a Rescaldina si pensa di varare una nuova galleria commerciale lo si fa solo in virtù del traino Ikea perché altrimenti non avrebbe speranze di audience. Il tempo dello sviluppo esagerato dei centri commerciali in realtà è già terminato, il consumatore privilegia gli acquisti frazionati e non più la «spesona» e ovviamente questa tendenza al ribasso colpisce in primo luogo gli ipermercati. È vero poi che in Lombardia la grande distribuzione è cresciuta più che in altre regioni (ha una quota di mercato attorno al 70%) e l’orientamento programmatico della giunta regionale di centrodestra è considerato nettamente a favore dei Piccoli.
L’Ikea per ora non ha intenzione di replicare direttamente, ha affidato all’università di Castellanza uno studio sull’impatto del nuovo insediamento e quindi si appresta a una battaglia a colpi di slide e che non potrà non avere risvolti politici. Si sa che l’investimento sarà di 250 milioni di euro e che gli 840 saranno i soli posti di lavoro diretti ai quali va aggiunto il potenziale indotto. L’operazione non sarà tutte sulle spalle degli svedesi ma sono previsti dei partner immobiliari che si suddivideranno, ad esempio, i costi di realizzazione di nuove infrastrutture di viabilità stimati in 25 milioni. Per andare avanti sarà necessario però quello che in gergo si chiama un accordo di programma che dovrebbe prevedere le varianti urbanistiche, la licenza di vendita e l’assetto della nuova viabilità e alla fine richiederebbe le firme dei sindaci dei due comuni coinvolti (Rescaldina e Cerro Maggiore), della Regione e della Provincia di Milano. Se tutto dovesse filare liscio questo documento potrebbe vedere al luce non prima della primavera 2015 mentre per l’inaugurazione del centro bisognerebbe comunque attendere il 2018. Come si può arguire dalle date l’investimento guarda lontano ed è considerato strategico dai manager Ikea. Ma mentre sul fronte dei commercianti trapela come ipotesi di mediazione un ridimensionamento del progetto (solo il magazzino Ikea e niente galleria commerciale), l’azienda scandinava non sembra disposta a esaminare subordinate. O tutto o niente, ma siamo solo alla prima puntata.
Pare ovvio, che non bastino i cartelli per un'idea diversa di flussi urbani, ma si debba lavorare sulle forme. Basterà? La Repubblica Milano, 7 novembre 2013, postilla (f.b.)
Una nuova isola ambientale per “proteggere” via Sarpi pedonalizzata e per ridurre la congestione dell’intera zona. Parte dal Consiglio di zona 1 la proposta bipartisan di trasformare le vie della Chinatown milanese in una nuova zona che privilegia il traffico pedonale e riduce la velocità delle auto. Proposta che il Comune si prepara a recepire perché, come conferma l’assessore all’Ambiente Pierfrancesco Maran, «l’ambito di via Sarpi ha tutte le caratteristiche per diventare una zona 30», intesa come velocità massima consentita. Un progetto, quindi, che sarebbe l’ideale prosecuzione dell’isola ambientale approvata dalla giunta a luglio tra corso Como e Porta Garibaldi e su cui lavorano da tempo le associazioni e i comitati di zona Sarpi per migliorare la qualità della vita nel quartiere. Potrà prendere il via dopo che si sarà risolta la controversia sull’uso delle telecamere nella Ztl di via Sarpi (a maggio il Tar aveva dato ragione ai commercianti cinesi che ne contestavano l’utilizzo, così il Comune ha sospeso la delibera).
Quello che chiedono, i residenti delle vie comprese tra Melzi d’Eril, Elvezia, Montello e Sarpi, sono «una serie di provvedimenti mirati, per migliorare la circolazione, la qualità dell’aria, la mobilità ciclistica e pedonale », spiega l’ordine del giorno votato dal Consiglio di zona. Il cui presidente, Fabio Arrigoni del Pd, spiega: «Il quartiere è fatto di molte strade strette che attraversano via Sarpi dove le auto sfrecciano mettendo a rischio l’incolumità della gente: servono per lo meno dissuasori, come cordoli o restringimenti della carreggiata, e cartelli per ridurre la possibilità di correre». Il problema riguarda soprattutto via Giusti: qui c’è una scuola media dove spesso genitori e insegnanti lamentano la scarsa sicurezza degli attraversamenti, ed è proprio sul tratto di strada davanti alla scuola che il Consiglio di zona chiede un maggior intervento. A corredo, poi, l’ultima richiesta: far esaminare dall’Amat, l’Agenzia per la mobilità del Comune, i flussi di traffico pubblico e privato nella zona, per capire se e come si potrebbe deviare da alcune strade, troppo piccole o troppo congestionate, su altre.
Il piano per l’estensione delle isole ambientali milanesi, assicura Maran, arriverà presto anche a coprire quell’area (che ricade anche in parte nel Consiglio di zona 8): qui, del resto, ci sarà la fermata della linea 5 della metropolitana nel piazzale del cimitero Monumentale «quindi si potrebbero creare già prima dell’apertura della fermata condizioni che favoriscano il traffico pedonale in tutta la zona». Non sarà l’estensione di Area C a via Sarpi — proposta che i comitati di zona avevano anche immaginato nei mesi scorsi — ma sarebbe comunque un inizio. Per la giunta, poi, conferma Maran, sarebbe la naturale prosecuzione delle decisioni che hanno portato in due anni Milano a scendere di dieci posizioni (dal 14esimo al 24esimo posto) nella classifica fatta da “Tom Tom traffic index” sulle città maggiormente congestionate dal traffico.
postillaSu questo sito abbiamo già sottolineato più volte, come la gestione della mobilità sicura e tendenzialmente sostenibile (per quanto vale ancora la banalizzata definizione) debba necessariamente passare per una considerazione complessiva del contesto urbano in cui si sviluppa, e l'idea di procedere per passi successivi non alla chiusura-pedonalizzazione, ma a un riequilibrio delle modalità, pare davvero cosa diversa dalla pura imposizione di regole, cartelli, sanzioni. A maggior ragione come, nel caso specifico della zone detta Chinatown a Milano, si colloca su un asse di sviluppo particolarissimo, vero e proprio urban mall a connettere zone storiche e quartieri nuovi, tessuti tradizionali e (anche discutibili) sperimentazioni moderniste. Resta da vedere sino a che punto risulti davvero efficace agire esclusivamente a scala urbana, dato che specie in zone così mixed use i flussi interessati sono per loro natura di raggio assai più vasto. Ovvero, se non si rischi di chiamare con un nome diverso e più accattivante l'ennesima pedonalizzazione, buona sicuramente a migliorare la qualità della vita locale, ma scaricandone i costi all'esterno (f.b.)
Hanno ucciso una città, e hanno pure frodato per farlo. Altro che bunga-bunga! Ma molti altri silenzi sono censurabili, oltre a quello dell’Europa. La Repubblica, 4 novembre 2013
OGNI appartamento è costato il 158 per cento in più del valore di mercato, il 42 per cento degli edifici è stato realizzato con i soldi dei contribuenti europei (e non con quelli del governo italiano, come ha sempre sostenuto l’ex premier Silvio Berlusconi), solo il calcestruzzo è stato pagato 4 milioni di euro in più del previsto. E 21 milioni in più i pilastri dei palazzi.
Cifre ufficiali della Corte dei Conti europea, tutte richiamate nel report di Søndergaard. Dove si censura il silenzio dell’Europa che è stata a guardare mentre qui si sperperava, dove si «deplora » l’invio di dati «apparentemente non corretti» trasmessi a Bruxelles dal Dipartimento della Protezione Civile, dove si elenca minuziosamente tutto ciò che lui stesso ha riscontrato nelle sue missioni. Su prefabbricati, acciaio, ammortizzatori sismici, bagni chimici, contratti a imprese. Sempre oltre i costi preventivati, soprattutto quelli fissati dai «manuali». E anche di tanto.
Il suo dossier sarà discusso al Parlamento europeo giovedì 7 novembre e presentato questa mattina, in anteprima all’Aquila, nelle sale del consiglio regionale. È la sintesi di una lunga «istruttoria» condotta in Abruzzo da Søndergaard - membro della Cont, la commissione di controllo del bilancio di Bruxelles - insieme al suo collaboratore Roberto Galtieri per indagare su dove erano finiti gli stanziamenti comunitari dopo la potentissima scossa di quella notte, trecentonove morti, decine di migliaia di sfollati e un business infinito intorno ai cinquantasei comuni abruzzesi dentro il «cratere ». La prima volta sono arrivati all’Aquila l’8 ottobre del 2010. Poi hanno cominciato a investigare mese dopo mese, fino a ultimare questo report che giovedì prossimo dovrà vagliare il Parlamento di Bruxelles.
Il dossier del deputato danese comincia dalla fine, dall’ultima visita all’Aquila: «La situazione del centro storico rimane sostanzialmente invariata. In quattro anni solo un paio di edifici (uno pubblico e uno privato) sono stati ricostruiti nella cosiddetta zona rossa…». Poi informa la sua commissione dei sopralluoghi negli edifici del progetto CASE (Complessi Antisimici Sostenibili ed Ecocompatibili) e in quello dei MAP (Moduli Abitativi Provvisori), dove ha verificato con il suo «ispettore» Galtieri cosa c’era cosa e cosa non c’era: «Nelle case e nelle scuole non ci sono pannelli a indicare che sono state costruite con i fondi Ue… ma al contrario ci sono pannelli che specificano “edifici realizzati con donazioni da enti privati e amministrazioni locali”. Ciò è in contraddizione con le norme europee... ». Poi ancora segnala alla commissione la qualità delle costruzioni dei MAP: «Il materiale è generalmente scarso... impianti elettrici difettosi... intonaco infiammabile... alcuni edifici sono stati evacuati per ordine della magistratura perché “pericolosi e insalubri”... Quello di Cansatessa è stato interamente evacuato (54 famiglie) e la persona responsabile per l’appalto pubblico è stato arrestato e altre 10 persone sono sotto inchiesta».
Un capitolo intero è dedicato alla criminalità organizzata e alle infiltrazioni nei lavori della ricostruzione. Primo punto: «Un numero di sub appaltatori non disponeva del certificato antimafia obbligatorio». Secondo punto: «Il Dipartimento della Protezione civile ha aumentato l’uso del sub appalto consentito dal 30 al 50 per cento». Terzo punto: «Un latitante è stato scoperto nei cantieri della Edimo, che è una delle 15 imprese appaltatrici ». Quarto punto: «Una parte dei fondi per i progetti CASE e MAP sono stati pagati a società con legami diretti o indiretti con la criminalità organizzata… ma le competenti autorità italiane non hanno ancora reso pubblici questi dati... ». Quinto punto: «La commissione bilancio Ue ha dichiarato di avere scoperto casi di frode, ha comunicato tali risultati al Dipartimento della Protezione Civile, che successivamente ha scambiato questi progetti connessi con la frode con progetti nei quali non è stata scoperta alcuna fro-de...».
Nel report Søren Søndergaard elenca le denunce dell’associazione Libera e di Site. it (la testata online che ha sollevato fin dai primi giorni lo scandalo della ricostruzione) e poi bacchetta il governo europeo dopo l’ispezione di una delegazione in Abruzzo nel 2010: «Nella sua relazione non menziona nessuno dei problemi che sono stati portati alla sua attenzione da diversi deputati. Un caso di evidente negligenza». È un’accusa di omesso controllo. E infine, il deputato danese ricorda come la commissione bilancio Ue abbia anche elaborato una propria valutazione dei conti, tenendola però segretissima. Solo i deputati della Cont l’hanno potuta conoscere - e solo il 15 luglio del 2013 - con divieto di prendere appunti e divieto anche di commentare citare il contenuto di quanto avete appena letto. Tutto top secret. Per quattro anni, i contribuenti europei non hanno avuto il diritto di sapere come era stato speso il loro denaro.
Nelle ultime pagine del dossier Søndergaard cita ampiamente la relazione della Corte dei Conti con sede in Lussemburgo. «In questo documento vengono fornite al Parlamento e ai cittadini europei risposte ad alcune delle domande riguardanti la gestione dei fondi Ue in Abruzzo», scrive il deputato danese. E riferendosi alla corte di giustizia europea, ribadisce quale è stata la sua «raccomandazione » al governo di Bruxelles: «È la richiesta all’Italia di rimborsare i fondi europei in caso, nel futuro, derivasse profitto dai progetti finanziati dall’Ue». È uno dei punti centrali del dossier. I regolamenti Ue impongono che i soldi dirottati ai vari Stati non debbano «generare reddito», ma nelle case nuove dell’Abruzzo fra un po’ si pagherà l’affitto.
È già in corso un censimento per capire chi e quanto dovrà sborsare per abitare in quegli edifici dopo il terremoto. Se accadrà, stando alle norme comunitarie, l’Italia dovrebbe restituire all’Europa parte di quei fondi. Sono all’incirca 350 milioni sui 493,7 ricevuti dopo il terremoto. La relazione della Corte dei Conti è finita alla Commissione europea nel mese di febbraio di quest’anno. In un primo momento, Bruxelles ha giustificato le scelte del governo italiano («Il progetto Case corrisponde pienamente agli obiettivi Ue…»), ha ignorato le «violazioni» denunciate ma giovedì sarà costretta a esaminarla con più cura quel documento insieme al report del deputato danese. E questa volta, non in segreto. Ma in seduta pubblica e con diretta streaming dal sito del Parlamento europeo. La Corte aveva già fornito numeri espliciti. Aveva fatto una premessa la Corte, sul post terremoto in Abruzzo: «Ai costi è stata assegnata scarsissima importanza relativa». E aveva tirato le sue conclusioni: «A giudizio della Corte il progetto Case non ha rispettato le specifiche disposizioni del regolamento europeo... la Commissione dovrebbe anche riesaminare, alla luce dei criteri di ammissibilità stabiliti dal regolamento, la domanda di assistenza presentata dalle autorità italiane».
Riferimenti
Un ampio dossier sullo scandalo del dopoterremoto all’Aquila è contenuto inb eddyburg, precisamentrìe nella cartella Terremoto all'Aquila
Un intervento repressivo, l'ennesimo, contro i rischi e i disagi indotti dalla mobilità urbana auto-centrica, non pare riflettere davvero la natura del problema. La Repubblica, 3 novembre 2013, postilla (f.b.)
LIMITE a 30 km orari per le auto in città: la rivoluzione prende corpo. L’Anci, l’associazione dei Comuni italiani, ha lanciato la sua proposta di modifica del codice della strada e subito il governo ha risposto. Lo ha fatto accorciando i tempi di un progetto che martedì prossimo inizia l’iter legislativo, per «tutelare e garantire la sicurezza nelle aree urbane», come conferma il sottosegretario alle Infrastrutture e ai trasporti Erasmo D’Angelis. La misura più importante lanciata dai Comuni e recepita dal governo? La possibilità, appunto, «di moderare la velocità massima nei centri abitati a 30 km/h in tutte quelle aree con caratteristiche infrastrutturali che lo consentono, con eccezione delle principali arterie di scorrimento».
Il tema è dibattuto: anche se l’idea di abbassare il limite piace, perché difende gli anelli più deboli della mobilità, ossia utenti delle due ruote e pedoni, restano tanti dubbi: l’Anci è composta da sindaci e assessori che nei loro Comuni non hanno (quasi) mai realizzato nulla del genere. E poi è sotto gli occhi di tutti come in pochissime città si riesca a far rispettare il limite dei 50 all’ora, figuriamoci quello dei 30. Senza contare l’esempio romano, che brucia ancora: nella nuova viabilità intorno al Colosseo è stato da poco introdotto proprio il limite dei 30 km/h, sorvegliato dauna fitta rete di autovelox. Com’è finita? Nessuno sapeva di questi nuovi limiti, segnalati male, con il risultato che è stato multato praticamente chiunque passasse di lì: il limite c’è ancora, ma gli autovelox sono spenti.
In realtà, anche se il passaggio da 50 a 30 porterà non poche polemiche, il progetto dell’Anci è molto più articolato, e non consiste nella semplice imposizione di un limite. Si parla infatti di «una drastica rivoluzione dei principi delle regole della strada ». La proposta prevede, per esempio, che il lato destro delle strade sia libero da parcheggi e dedicato alle piste ciclabili. Si chiedono poi nuovi semafori con la precedenza di ripartenza dei ciclisti e la fine per le due ruote dell’obbligo di utilizzare le corsie a loro dedicate. I sindaci vorrebbero anche impedire ai regolamenti condominiali di vietare il parcheggio negli androni dei palazzi. La rivoluzione dei 30 all’ora, spiega il sottosegretario De Angelis, sarà «il punto di partenza per un’idea nuova di città e di mobilità che risolva la malattia italiana di ritardi accumulati da almeno 15 anni di sostanziale immobilismo con norme tecniche ormai da rottamare ». Siamo il Paese più indisciplinato d’Europa, con 78,5 milioni di multe l’anno, 215.000 al giorno. Per il governo, però, non si tratterà di un attacco frontale alle quattro ruote: «Non è guerra all’auto, ma al suo abuso. Del resto, le nostre città non sono più autocentriche. Ormai c’è una forte domanda di mezzi pubblici, di aree pedonali. E, finalmente, un intelligente investimento sulla bicicletta vista come fattore di modernità». I dati lo confermano: siamo passati dal 2,9% di ciclisti urbani del 2001 al 9% di oggi, con 5 milioni di persone che pedalano per spostarsi da casa al lavoro. E non è un caso d’altra parte che il nostro Paese — a livello europeo — sia secondo solo alla Grecia per numero e gravità di sinistri che coinvolgono le due ruote e i pedoni. È ora di fare qualcosa.
postilla
Difficile non concordare sulle premesse e gli obiettivi di quanto descritto, ma resta una certa perplessità sullo strumento e le specifiche strategie che delinea: PRIMA un nuovo divieto, un cartello, la minaccia di sanzioni, e POI si vedrà. Come sottolinea anche l'articolo, i cartelli (nel nostro paese, poi, dove anche i limiti di velocità paiono decisi con criteri del tutto surreali, e le sanzioni applicate in modo altrettanto discrezionale) quando non corrispondono a comportamenti indotti in altro modo restano solo una pia intenzione. Ovvero, ci sfugge qualcosa, o forse, più probabilmente, siamo di fronte all'ennesima iniziativa estemporanea di qualche esponente politico che cerca visibilità, magari consenso da parte di alcuni settori sociali, ma che susciterà subito le ire di chi, magari con qualche motivo, si sente inutilmente penalizzato. Come sosteniamo da sempre su queste pagine, le città sono un'insalata mista di spazi e comportamenti, e per raggiungere un pur vago equilibrio non basta intervenire solo su un aspetto, e neppure tre o quattro. Occorre pensare in modo complesso, e con tutto il rispetto un paio di cartelli, qualche straordinario dei vigili, e una mano di vernice a tracciare piste ciclabili, non paiono proprio riflettere la complessità urbana (f.b.)