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Il caso di un'anziana morta per un incidente stradale, battendo la testa urtata da un ciclista, scatena il partito degli automobilisti, tutti uniti al ministro Lupi nella richiesta di repressione e/o (improbabili) opere pubbliche. Ma basterebbe così poco. La Repubblica nazionale e Corriere della Sera Milano, 29 ottobre 2014, postilla (f.b.)


la Repubblica
L’ultima battaglia della strada
“Contromano e imprudenti
anche i ciclisti sono un pericolo”
di Luca De Vito


MILANO - Sono croce e delizia del traffico in città. I ciclisti non inquinano, riducono gli ingorghi e obbligano gli automobilisti a rallentare. Ma sempre più spesso sono oggetto di critiche feroci per comportamenti ritenuti poco o per nulla rispettosi delle regole. Il fatto di cronaca più recente è la tragedia che, domenica scorsa, ha visto un ciclista investire una signora di 88 a Milano. La donna ha perso l’equilibrio ed è morta dopo aver battuto la testa. Un caso su cui non sono ancora state chiarite del tutto le responsabilità, ma che ha comunque dato il via alle polemiche. Per primo è stato il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, a rivolgere un appello direttamente a chi si muove in bicicletta: «Troppi ciclisti oggi pensano di passare col rosso, ma così mettono a rischio la propria incolumità e quella degli altri. Lo vedo tutti i giorni: vanno contromano. Ecco, questo è pericoloso».

In effetti, la crescita esponenziale delle due ruote in città — per la prima volta nel 2011 sono state vendute più bici che auto — ha fatto aumentare anche le occasioni di conflitto. E ingrossato le fila del partito anti-bici, che invoca più sanzioni e forme di controllo per chi pedala. Per esempio, c’è chi chiede di rendere i ciclisti sempre identificabili: «Bisogna obbligarli a munirsi di un contrassegno di identificazione visibile a distanza — ha spiegato Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia — perché ogni mezzo di trasporto deve essere munito di targa quando circola ». Spesso nel mirino finiscono alcuni comportamenti - pedalare sui marciapiedi, passare con il rosso, andare contromano -, e non mancano le polemiche contro le piste ciclabili: da Napoli a Treviso, comitati di residenti e ne- gozianti raccolgono firme per chiedere che non ne siano più costruite. Sempre a Milano, un’insolita alleanza tra tassisti e tranvieri ha chiesto di aumentare i controlli contro i ciclisti che entrano nelle corsie preferenziali per bus e taxi: «Sono un pericolo prima di tutto per se stessi — ha sottolineato Pietro Gagliardi, dell’Unione Artigiani Taxi — dovrebbero essere estromessi dalle corsie preferenziali che sono a scorrimento veloce».

Le critiche arrivano anche dalla rete, dove sempre più spesso blogger e gruppi sui social network si lasciano andare a commenti che scadono nella violenza verbale. Nelle settimane scorse, è saltato fuori il caso del gruppo Facebook che istigava a «investire i ciclisti che non usano la pista ciclabile». La pagina è stata chiusa dopo le polemiche, quando aveva già raggiunto oltre tremila like. Violenza, e non solo verbale, si è vista invece a Catania, dove a metà ottobre un ciclista è stato aggredito da alcuni gestori di camionbar sul lungomare cittadino con calci e pugni, durante la domenica senz’auto voluta dal sindaco Enzo Bianco. Motivo? Attriti tra i ciclisti e una manifestazione di commercianti contrari all’iniziativa pro-bici.

Contro la rabbia e l’emotività scatenati da un incidente come quello di Milano, c’è però anche chi richiama alla calma. E a ragionare con statistiche (reali) alla mano: «Quello di Pisapia è un appello giusto e legittimo — spiega Alberto Fiorillo, promotore della campagna #Salvaiciclisti, nata sul web dall’iniziativa di blogger e associazioni per aumentare la sicurezza dei ciclisti sulle strade italiane — ma mi piacerebbe che i sindaci delle grandi città e i presidenti delle regioni facessero dieci appelli analoghi ogni volta che sulle strade muoiono ciclisti e pedoni a causa di incidenti con le auto. Quello è un bilancio drammatico: ogni anno sulle nostre strade registriamo 4mila morti».

Corriere della Sera ed. Milano
Più rispetto sulle strade
di Isabella Bossi Fedrigotti

Pur essendosi probabilmente trattato di una tragica fatalità — perché quanto in fretta può andare una bicicletta? — ha comunque fatto molta impressione il primo incidente mortale, a danno di un’anziana signora in piene strisce pedonali, provocato in città da un giovane ciclista che, come hanno scritto i giornali, avanzava con grande velocità. E lasciando perdere i paradossali messaggi di soddisfazione, se non quasi di esultanza, apparsi in rete a firma di automobilisti che notoriamente detestano più di tutti gli utenti delle due ruote, paghi di poter una volta dare loro addosso a ragione veduta, è comunque davvero tempo di richiamare questi ultimi alle regole della strada.

È vero che nessuno le rispetta, non gli automobilisti, non i motociclisti, non i ciclisti e nemmeno i pedoni, tuttavia sarebbe saggio che almeno le due categorie più deboli, quelle che lasciano il maggior numero di vittime in strada, le osservassero in vista, se non altro, della loro sopravvivenza. La rieducazione sotto la minaccia concreta di un pericolo dovrebbe, tra l’altro, essere meglio accetta di quella imposta dal puro obbligo di osservare il codice. In questo senso il semaforo vale per tutti allo stesso modo, ma se lo «brucia» un pedone o un ciclista nella maggioranza dei casi rischia molto di più di un automobilista che compie la medesima infrazione.

E attraversare una carreggiata — a piedi — fuori dalle strisce, così come viene, fidando nella ragionevolezza dei padroni della strada, è probabilmente pericoloso come girare —
in bicicletta — senza luci alla sera oppure infilare vie in contromano o peggio percorrere le corsie preferenziali in avventurosa, rischiosa convivenza con taxi e autobus. Tuttavia, anche questo tipo di rieducazione — in un certo senso «opportunistica» — non può che passare, almeno inizialmente, dal controllo; controllo — purtroppo soltanto eventuale — che per certo farebbe dire ai controllati, pedoni e ciclisti, in tono niente affatto conciliante: cari vigili, gentili poliziotti, non avete niente di meglio da fare? Non guardate come si comportano quegli automobilisti, come corrono, come parcheggiano dove loro pare?

E quelle moto, quei motorini che salgono sui marciapiedi non li vedete? Proprio a noi dovete dare le multe? Eppure, visto che la disciplina non sembra ormai più fare parte del nostro dna, soltanto sanzionando — sia pure in maniera ovviamente più morbida — anche le categorie più deboli del traffico si potrà assicurare loro maggior sicurezza.

postilla

L'idea di città porosa, concetto vagamente evocato in uno degli ultimi progetti di Bernardo Secchi, per Parigi, oltre alla componente strettamente fisica comprende anche quella indispensabile dei flussi, ovvero dei comportamenti di tutto ciò che quella porosità, reale o virtuale, sfrutta. Ed è proprio questa duplicità a non essere a quanto pare colta (forse per crassa ignoranza, forse per interessi lobbistici, forse per un miscuglio di entrambe le cose) da chi continua a ragionare di mobilità urbana a soli colpi di trasformazioni fisiche, e pure assai tradizionali: corsie riservate, segregazione modale, grandi percorsi lineari. Saltando a piè pari, nel proprio automatismo ottuso, incollato a certe desuete convinzioni novecentesche, il fatto che quando i comportamenti dei flussi puntualmente contraddicono certe organizzazioni spaziali, di sicuro qualcosa che non va c'è, e di solito sta nel metodo più che nel merito. Scendendo parecchio di quota rispetto a queste considerazioni generali, nella pratica quotidiana, si può osservare che: con le regole attuali, anche prendendo per buona la logica segregazionista modale, per provare a risolvere qualcosa occorrerebbero tempi e risorse non disponibili. Ergo, è molto, ma molto, più conveniente cambiare regole, ed effettuare anche sulla base di queste nuove regole le piccole trasformazioni fisiche in grado di amplificarne l'effetto: eliminazione di barriere alla porosità (dislivelli, sbarramenti, passaggi, sensi di marcia), realizzazione di minimi requisiti di sicurezza per tutti gli utenti, a partire da una adeguata segnaletica. Sono cose che si possono anche fare a livello locale, ma subito. Altrimenti, all'italiana, si continuerà ad arrangiarsi, male, provando ogni volta a scordarsi la “fatalità”, o parlando di crisi urbane come di questioni filosofiche (f.b.)

Qualche considerazione in più e "in positivo" su la Città Conquistatrice: Mobilità cittadina, il problema non è un altro

«Gran parte del nostro suolo è edificato, il doppio di venti anni fa. Da tempo non si costruisce per la domanda sociale: la rendita fondiaria, poi immobiliare, si è trasformata in finanziaria. I "nuovi vani" dovevano costituire le "basi concrete" per "costruzioni virtuali" di fondi d'investimento o risparmio gestito». La Repubblica, 27 ottobre 2014

Nel nostro ormai ex Belpaese, il combinato tra la crescita di energia nell'atmosfera causata dai cambiamenti climatici e i dissesti del territorio da ipercementificazione generalizzata rivela effetti sempre più drammatici. Diverse ricerche ne indagano i motivi, anche per quanto riguarda gli aspetti quantitativi.

Il primo dato che emerge è la recente forte crescita di suolo consumato: meno di venti anni fa, l'ingombro era pari alla metà. Il contraltare di questo incredibile consumo di suolo - che significa distruzione di sistemi idrogeologici e di conseguenza dissesti, oltre che perdita di paesaggio - è costituito dall'abnorme quota di volumi, spesso vuoti che sono stati edificati nella "città diffusa" italiana.

I dati del censimento 2011 mostrano che gli appartamenti inutilizzati sono più di sette milioni: in attesa del dato esatto relativo ai vani, infatti, ipotizzando un'ampiezza media di 2,8 stanze per appartamento, si può stimare una quota di circa 20 milioni di stanze vuote. L'aumento di vuoto nel decennio è stato pari al 350%. I dati conclusivi forniti oggi dall' Istat , sono impressionanti: oggi il numero degli edifici presenti sul territorio nazionale è pari a circa 14,5 milioni per poco più di 31 milioni di appartamenti residenziali. In attesa di avere il dato netto anche su volumetrie e stanze, appare accettabile la stima di OLT (Osservatorio sui Laboratori Territoriali) di almeno di 18 miliardi di metri cubi edificati, di cui 15,5 miliardi (84,3%) residenziali; laddove il fabbisogno nazionale aggregato è di 6,2 miliardi di metri cubi (siamo 62 milioni di persone, includendo una stima molto largheggiante anche degli immigrati non censiti).

Le Regioni meridionali esasperano il quadro nazionale: la Campania presenta circa 1 milione di edifici, di cui 65.000 vuoti e inutilizzati per una popolazione di 5.760.000 abitanti; la Puglia ha 1.100.000 edifici di cui 54.200 vuoti per quattro milioni circa di abitanti; la Basilicata 117.000 edifici di cui 11.700 vuoti per 580.000 abitanti; la Sicilia 1.722.000 edifici di cui 132.000 vuoti per circa 5 milioni di abitanti; la Calabria 1.250.000 alloggi, di cui 420.000 vuoti per poco meno di 2 milioni di abitanti; la Sardegna presenta "solo" 570.000 edifici, di cui 70.000 vuoti o inutilizzati, per 1.640.000 abitanti.

LE CASE NON OCCUPATE IN ITALIA

Il dato relativo agli appartamenti vuoti è strabiliante: quasi un alloggio su quattro è vuoto, con una "punta" presentata ancora dalla Calabria con una quota pari al 40%; seguono Sicilia e Sardegna con circa il 30% del patrimonio abitativo inutilizzato. In Piemonte 1 alloggio su 4 è vuoto, laddove in Veneto e Toscana il rapporto è di uno su cinque circa poco meno del Lazio (22%) e poco più della Lombardia (16%).

Per quanto riguarda le città, in attesa del dato finale, si possono considerare consistenti le proiezioni parziali, che presentano quote di vani vuoti superiori a 100.000 a Torino, Milano e Roma, poco meno a Napoli, decine di migliaia nelle città di Venezia, Padova, Bologna, Firenze e Genova. In diverse città del sud il numero dei vani costruiti supera quello degli abitanti (ancora in Calabria, a Reggio, "il top" con 40.000 stanze in più dei residenti!). In molte aree interne, non solo meridionali, gli edifici sono più degli abitanti. Emerge una considerazione: solo fino a venti anni fa il dato forse più significativo era il rapporto abitanti/stanze. Con il censimento 2001, per l'emergere della "cascata di case", oltre alla rilevanza di aspetti più sociologici, quale la tendenziale forte crescita delle famiglie mononucleari, è apparso consistente parlare in termini di abitante/appartamento. Oggi diventa significativo e iconico il rapporto abitante/edificio! In Piemonte abbiamo poco più di 3 abitanti per edificio, in Lombardia poco meno di 5, in Toscana poco più di 4, nel Lazio circa 5. Nelle regioni meridionali abbiamo addirittura meno di 3 abitanti per edificio in Sardegna e in Sicilia, 2,5 in Calabria (!), 5 in Campania, 3,2 in Basilicata, poco meno di 4 in Puglia, che è in linea con il dato medio nazionale.

Ci siamo chiesti a lungo perché nel nostro paese si continuasse a costruire, a dispetto del declino demografico (la quota di immigrazione appare tuttora relativa) e socioeconomico. La spiegazione è stata fornita dagli studiosi di marketing immobiliare: da tempo non si costruisce più per la domanda sociale: la rendita fondiaria, poi immobiliare, si è trasformata sempre più in finanziaria. I "nuovi vani" dovevano costituire le "basi concrete" per "costruzioni virtuali" di fondi d'investimento o risparmio gestito. A parte la quota di riciclaggio di capitale illegale, facilmente intrecciata a essa. La schizofrenia delle politiche urbanistiche delle ultime fasi ha largamente favorito tutto ciò, con accelerazioni da parte del presente governo, per cui tutela e attenzione all'ambiente e al paesaggio sono solo declaratio: in realtà si tenta di continuare ad aggirarle per realizzare nuove "Grandi opere inutili" e cementificazioni; come dimostrano lo "Sblocca Italia" e il ddl Lupi, da cancellare subito.

Alberto Ziparo è professore associato in Pianificazione Urbanistica presso l'Università degli Studi di Firenze

«Gestire un’autostrada è attività molto semplice e senza rischi imprenditoriali. Tutti gli interventi sono stati finanziati a debito e i debiti ripagati con i pedaggi. Eppure, attraverso le proroghe si perpetuano le rendite per le società concessionarie. Investimenti pagati due volte dai cittadini». La voce info, 24 ottobre 2014

I “REGALI” AI CONCESSIONARI

Lo Stato francese, dopo aver incassato 15 miliardi nel 2005 dalla privatizzazione delle principali concessioni autostradali, si accorge oggi di aver fatto un pessimo affare, tanto che il sottosegretario al bilancio Christian Eckert ha dichiarato che gli altissimi profitti delle concessionarie sono “immorali se non illegali”.

In Italia ci si appresta invece a fare enormi “regali” alle concessionarie, senza introiti per lo Stato, occultando questi benefici sotto la veste di proroghe, previste dall’articolo 5 del decreto sblocca Italia. C’è scarsa opposizione nell’opinione pubblica (o nel parlamento) perché pochi si rendono conto di quanto valga per una concessionaria la proroga della concessione.

Possiamo fare una stima proiettando la differenza tra ricavi e costi operativi (Mol, milioni) realizzati nel 2013 per gli anni di proroga che il Governo sembra intenzionato a concedere:

INVESTIMENTI PAGATI DUE VOLTE

I pedaggi continueranno poi a crescere nel tempo oltre i livelli del 2013 per l’inflazione e altri fattori e con essi continuerà a crescere anche il Mol; quindi le stime di cui sopra possono considerarsi una buona approssimazione del valore attuale dei maggiori flussi di cassa ottenuti grazie alle proroghe.

È una cifra imponente, circa 16 miliardi, quasi la metà della manovra annunciata da Matteo Renzi. Solo una piccola parte di questi flussi di cassa serviranno a coprire i costi degli investimenti già effettuati e non ancora ammortizzati. Per il resto, il beneficio della proroga viene giustificato dal Governo come compenso per i nuovi investimenti, circa 11 miliardi, che le concessionarie si sarebbe impegnate a fare. Pare però che il beneficio delle proroghe superi di gran lunga il costo dei nuovi investimenti, tanto più che, poi, quando si realizzano, i pedaggi vengono aumentati per coprirne i costi: finiamo per pagare due volte il costo degli investimenti, prima con le proroghe e poi con gli incrementi di pedaggio?

Alle concessionarie viene assicurato un rendimento molto elevato, 9-10 per cento (almeno), sul capitale investito, ma qual è il loro ruolo e quale il loro contributo che giustifichi tale redditività? Gestire un’autostrada è attività molto semplice: non occorre cercarsi clienti né temere concorrenza o innovazioni tecnologiche. Non ci sono rischi: nemmeno il forte calo di traffico degli ultimi anni ha ridotto i loro profitti. Gli azionisti non hanno poi mai versato in passato capitali nelle società concessionarie se non per importi irrisori, né prevedono di versarne in futuro. Tutto è stato finanziato a debito e i debiti ripagati con i pedaggi. Anche i nuovi investimenti di cui si parla verranno interamente finanziati dalle concessionarie con i margini man mano accumulati o con crediti ottenuti grazie ai flussi sicuri dei pedaggi e alla certezza che le tariffe verranno comunque adeguate per garantire il livello dei profitti pattuito. Non pare quindi che le concessionarie svolgano un ruolo che giustifichi la perpetuazione di rendite a loro favore.

Lo Stato potrebbe, alla scadenza delle concessioni, affidarle senza gara a una società pubblica emanazione dell’Anas o di Cdp reti, senza dover remunerare così generosamente alcune società private e assicurando altri benefici per la collettività, come gare per le costruzioni aperte senza preferenze per le controllate delle concessionarie. Si dice che ciò sarebbe oneroso per i prezzi di subentro da versare alle concessionarie a fine concessione per investimenti effettuati e non ancora ammortizzati. Ma a fronte di questi costi le concessionarie hanno debiti che potrebbero semplicemente passare a carico della società pubblica, che sarebbe in grado di rimborsarli con i proventi dei pedaggi, esattamente come fanno le concessionarie. Con l’unbundling la società pubblica potrebbe subappaltare con gare i vari servizi (esazione, manutenzione) alle società più efficienti, magari alle stesse ex concessionarie, senza dar vita a nuovi carrozzoni di Stato. Anche l’Autostrada del Sole fu costruita tutta a debito creando un patrimonio pubblico poi monetizzato dall’Iri.

Se venissero concesse le proroghe previste (ancora subordinate all’approvazione da parte della Commissione europea) tutta la rete autostradale italiana verrebbe “ingessata” con concessioni non più alterabili per trenta-quaranta anni e finiremmo ben presto di rammaricarcene, come avviene oggi in Francia, ma senza poter nulla cambiare se non violando i contratti con misure retroattive. Come succede oggi dopo l’altra follia dei sussidi alle energie rinnovabili.

CHI DECIDE LE PRIORITÀ?

C’è poi il problema delle scelte di priorità degli investimenti, che sembrano decisi più dalle concessionarie che li propongono che dal potere pubblico. Un buon esempio è la E45, 400 chilometri da Orte a Mestre, una delle poche arterie con due corsie per parte e senza pedaggio. Ampliare le carreggiate e costruire una corsia d’emergenza con un costo di circa 10 miliardi non parrebbe un progetto prioritario per il paese, considerando che oggi la strada è ampiamente sufficiente per il traffico (vi sono ingorghi solo per lavori di manutenzione). Ma c’è una società di progetto che preme da anni per trasformarla in autostrada – cioè per fare quegli investimenti che giustificherebbero l’introduzione del pedaggio e quindi la trasformazione di un’arteria stradale in un nuovo, profittevole (sperano) “affare”. E il Governo sembra intenzionato ad agevolarli, avendo previsto, all’articolo 4 del decreto sblocca Italia, la possibilità di concedere la defiscalizzazione con un beneficio di circa 2 miliardi per la società di progetto della Orte-Mestre.

Prima di impegnare risorse pubbliche in quello che pare un altro investimento a redditività sociale scarsa o negativa meriterebbe che fosse resa pubblica una convincente analisi costi-benefici e che si effettuasse anche un sondaggio tra gli attuali utenti dell’arteria per chiedere loro se preferirebbero viaggiare su carreggiate un po’ più ampie con corsia di emergenza, ma pagando un elevato pedaggio oppure mantenere la situazione attuale. Gli investimenti dovrebbero essere intesi ad accrescere i benefici per gli utenti o i profitti degli investitori?

Una legge per il contenimento del consumo di suolo, che (roba da matti) invece di stabilire cosa lo è e cosa no, prevede «criteri che definiranno di volta in volta il concetto di consumo di suolo». Articoli di Andrea Montanari e Ilaria Carra. La Repubblica, ed. Milano, 24 ottobre 2014 (f.b.)

Nuove costruzioni nessun vincolo per almeno tre anni
di Andrea Montanari

Accordo fatto nella maggioranza di centrodestra che governa la Regione Lombardia sulla nuova legge sul consumo del suolo. Ridimensionato il progetto dell’assessorato regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi (FdI) che prevedeva restrizioni anche retroattive. Il vincolo scatterà solo tra tre anni. I progetti già previsti nei piani di governo del territorio dei Comuni potranno andare avanti. Vincolati solo i terreni agricoli, ma solo se non sono già destinati ad edificazioni. Il via libera del Consiglio regionale è previsto a metà novembre.

Restrizioni non più retroattive, tre anni di tempo per Comuni e costruttori per adottare le nuove regole e approvare i progetti attuativi e vincoli solo sui terreni agricoli sui quali non siano ancora previste destinazioni edificatorie. L’accordo raggiunto a fatica nella maggioranza di centrodestra sulla nuova legge sul consumo del suolo che sarà illustrato oggi al Pirellone, a prima vista, appare una netta vittoria della lobby dei costruttori, che avevano alzato le barricate contro l’iniziale testo molto restrittivo portato in giunta dall’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi, di Fratelli d’Italia, nell’ormai lontano febbraio di quest’anno. Un compromesso raggiunto dopo mesi di liti, veti incrociati, che per l’immediato dovrebbe impedire esclusivamente nuove varianti per cambiare la destinazione d’uso dei terreni attualmente agricoli. Ma solo per il futuro.

I fautori del nuovo testo spiegano che si è voluta evitare una pioggia di ricorsi e contenziosi con le imprese di costruzione, se fosse stato approvato il vecchio progetto di legge, che di fatto stabiliva il blocco totale al consumo di nuovo suolo sul territorio lombardo. Un divieto che a questo punto dovrebbe scattare tra tre anni. Nel frattempo, da un lato i Comuni dovranno adeguarsi alle nuove regole senza dover riapprovare i loro Pgt. Mentre le imprese di costruzione potranno verificare se i loro progetti già previsti saranno ancora in linea con la domanda di abitazioni e nuovi edifici. Inoltre, entro un anno la Regione approverà il nuovo Piano territoriale regionale che conterrà le nuove regole nel dettaglio.

La nuova legge sul consumo del suolo, infatti, non dovrebbe più contenere i limiti volumetrici che erano previsti nel primo testo approvato dalla giunta, per sostituirli con «criteri» che definiranno di volta in volta il concetto di consumo di suolo. Determinante per raggiungere il nuovo accordo la mediazione di Forza Italia e Nuovo centrodestra, visto che finora erano stati presentati ben quattro progetti di legge differenti. Non è difficile immaginare, però, la delusione delle associazioni ambientaliste. Ora il nuovo testo dovrà iniziare l’iter per l’approvazione in commissione Territorio prima di approdare in Consiglio regionale a metà novembre.

La colata di cemento sul bacino del Seveso
di Ilaria Carra

Il comune di Varedo è uno dei casi più emblematici. Negli ultimi dieci anni la superficie urbanizzata, in questa cittadina della bassa Brianza, è cresciuta del 10 per cento, salendo così al 67. Capannoni, edifici pubblici, abitazioni private, parcheggi: in una parola, cemento. Ma nello stesso periodo, i nuovi abitanti sono aumentati “solo” del 2,5 per cento. OGNI nuovo cittadino, cioè, ha occupato idealmente mille metri quadri di terreno, spesso per farci una villetta con giardino, che prima era libero. Una sproporzione netta, per gli esperti, tra il consumo di suolo e le esigenze demografiche. Non è un caso isolato, questo, tra i vari comuni lungo il bacino del Seveso, il fiume maledetto che in 140 anni ha causato 350 allagamenti, l’ultimo l’8 luglio portando in dono oltre venti milioni di danni anche a Milano città. E quanto si è costruito in questi comuni è tutt’altro che secondario in questa partita.

Il ragionamento è questo: un terreno vuoto fa da spugna. Un dato per capire: un ettaro di prato è in grado di assorbire 3,8 milioni di litri di acqua, una quantità pari a una pioggia di 400 millimetri. Lo stesso ettaro, se urbanizzato, non solo non trattiene nulla ma produce anche un costo sociale di 6.500 euro ogni anno. Perché se l’acqua, quando piove, non s’infiltra nel terreno perché incontra ostacoli di qualsiasi natura — da un capannone a un edificio fino a un parcheggio asfaltato — il flusso scorrerà e riempirà più velocemente il fiume, nella fattispecie il Seveso, che strariperà prima. Tocca dunque alle amministrazioni governarne il flusso, ovvero farsi carico del drenaggio che non avviene in modo naturale causa cemento.

La fotografia dei livelli di urbanizzazione la scatta il Politecnico, che da anni assieme a Legambiente ha una squadra di esperti incaricata proprio di studiare gli effetti sull’ambiente del consumo di suolo. E lungo l’asse del Seveso sono visibili a ogni esondazione. È qui che si arriva a picchi di 80 per cento di territori costruiti, specialmente a valle, nei comuni verso Milano. Bresso su tutti, ma anche Bovisio Masciago, Cinisello Balsamo. Ma ci sono anche comuni del Comasco di pochi abitanti, come Montano Lucino, dove si continua a costruire ben oltre la necessità demografica.

«Se i terreni attorno al bacino del Seveso vengono progressivamente impermeabi-lizzati, una quantità maggiore di acqua arriva nel fiume in un tempo inferiore — spie- ga Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale ambientale al Politecnico —. L’acqua va dove vuole e contribuisce alla formazione delle piene: il fiume è come un registratore, ci sono stati comportamenti urbanistici fuori controllo sia a monte sia a valle dell’asse del Seveso». Tradotto, si è costruito troppo. Lo pensa anche il ministro all’Ambiente, Gian Luca Galletti, che tre giorni fa, dopo la presentazione del maxi progetto per contenere il Seveso per il quale il governo promette di sborsare 140 milioni, diceva che «le cause dell’attuale condizione di dissesto idrogeologico, e si pensi, per stare sull’attualità, ai fiumi Seveso, a Milano, e Bisagno, a Genova, vanno ricercate anche nell’eccessivo consumo di suolo dovuto alla speculazione edilizia e all’urbanizzazione senza regole che hanno trasformato radicalmente la morfologia dei suoli».

... e intanto nella padania che nutre il pianeta ...

«La città dei Sassi è l’unico capoluogo tagliato fuori dalla rete Fs Dal 1986, data di inizio dei lavori, si sono sprecati 270 milioni. Un progetto nato male e finito peggio». La Repubblica, 21 ottobre 2014 (m.p.r.)

Matera. Per le Ferrovie dello Stato Matera non esiste. Cancellata. Il nome della futura capitale europea della cultura non appare in nessun tabellone delle partenze. Non viene mai pronunciato dalla voce metallica degli speaker nelle stazioni. Inutile pure cercarlo tra le destinazioni sul sito di Trenitalia dove si comprano i biglietti online: “Nessuna soluzione trovata”. La città dei Sassi, il patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’Unesco, è l’unico capoluogo d’Italia tagliato fuori dalla rete ferroviaria nazionale. Benvenuti a Matera, dove il binario che non c’è porta alla stazione mai aperta. Questa che da altre parti suonerebbe come un paradosso, una frase ad effetto, qui è la realtà.

Perché uno scalo targato Fs, Matera, ce l’ha. Basta scendere in località “la Martella”, a pochi minuti dal centro, per goderselo in tutta la sua incompletezza. Centinaia e centinaia di metri quadrati di piazzale, l’ipotetico parcheggio, nel mezzo del quale si erge la stazione rivestita in pietra: le porte sono murate, le pensiline cadono a pezzi, nei due solchi per i binari crescono sterpaglie alte due metri. Abbandonata e in rovina. Presenza ormai accettata dai 60mila materani, che tra cinque anni vedranno arrivare, quasi tutti in macchina o in pullman, almeno 5 milioni di turisti.
Già così, fa male. E però dallo scalo mai aperto si allunga una lingua di cemento di 29 chilometri, che passa davanti alla Cripta del Peccato Originale sfregiandone la bellezza, attraversa colline su ponti con pilastri di trenta metri e campate di acciaio, taglia tutta la valle del Basento con una cicatrice di calcestruzzo, si infila in una galleria lunga 11 chilometri sotto il bosco della Manferrana fino a sbucare a Ferrandina. Un vilipendio alla Basilicata che rimarrà tale, perché dal 1986, data di inizio lavori, le Fs non sono state in grado di completare l’opera con rotaie e cavi elettrificati. Dunque la linea che doveva collegare Matera e creare un corridoio fino a Napoli, è rimasta incompiuta.
«Un progetto nato male e finito peggio», sostiene Pio Acito, architetto di Legambiente, che ha seguito la storia maldestra della Ferrandina- Matera fin dalla sua genesi. «Già allora pareva inutile, perché poco fruibile. Sarebbe stato meglio seguire un percorso diverso, collegare Metaponto sullo Ionio allo snodo di Foggia, passando per Matera». I lavori sono andati avanti a passo di lumaca: le aziende ingaggiate fallivano una dopo l’altra, per colpa degli eccessivi ribassi nelle gare d’appalto. La costruzione della galleria Miglionico, scavata nel terreno argilloso e resa fragile da gas sotterranei, fu un disastro e comportò un incremento di spesa di decine di miliardi di lire e il giorno del varo del ponte di ferro sul fiume Bradano la struttura si piegò. «Costò alle casse pubbliche 115 miliardi di vecchie lire», ricorda Acito. Secondo altri calcoli, la spesa complessiva della Ferrandina- Matera ammonta a 530 miliardi di lire (270 milioni di euro).
Nel 2007 la ferrovia morta sembrò risorgere, ma fu un fuoco di paglia. La regione Basilicata e il ministero delle Infrastrutture conclusero un accordo per completarla, «entro il 31 dicembre 2008» con i fondi delle aree sottosviluppate. Non si è mossa una ruspa. Ormai era evidente a tutti che fosse un affare in perdita. Le Fs hanno recentemente dichiarato che per completare l’opera servirebbero altri 150 milioni di euro, che non hanno. Aggiungendo una frase che sa di epitaffio: «Per questo progetto al momento tutti i lavori sono sospesi ».
Matera non avrà i convogli di Trenitalia entro il 2019, quando vestirà i panni della capitale europea della cultura. Forse non li avrà mai. «Non ci interessa nemmeno più quel rudere di stazione — sbotta Nino Paternoster del comitato Matera2019 — abbiamo in programma 600 milioni di euro di investimenti in infrastrutture, raddoppieremo le corsie della strada che porta a Bari, allargheremo le due statali che vanno a Gioia del Colle e Ferrandina. Le navette con l’aeroporto Bari Palese al momento sono tre, ma le faremo diventare quindici, copriranno la distanza in 50 minuti. E poi i treni, Matera, ce li ha già».
È vero. Sono i vecchi Fiat diesel a due e quattro vagoni delle Fal, le Ferrovie Appulo Lucane (di proprietà del ministero dei Trasporti) che arrancano fino al capoluogo, tra olivi e mandorli, su un binario a scartamento ridotto, uno dei pochi che non è stato smantellato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fu inaugurato nel 1915. Difficile immaginare che la gran massa di turisti arriverà a bordo di quei trenini, se non cambieranno le cose. Attualmente ce ne sono solo 13 che, nell’arco della giornata, servono Bari e Matera. Ci mettono un’ora e 40 per fare una settantina di chilometri, fanno 15 fermate, nelle ore di punta molti passeggeri devono stare seduti a terra o in piedi nel corridoio. E c’è da sperare pure di trovarsi nella parte giusta del convoglio, perché ad Altamura il trenino si divide in due, la testa va a Matera, la coda a Gravina. Alle biglietterie è vietato pagare con carte di credito e bancomat: accettano solo i contanti (9,80 euro andata e ritorno).
«È la ferrovia calabro- lumaca — scherza Giuseppe Appella, creatore e direttore del Musma, il museo della scultura contemporanea — abbiamo un problema di accessibilità, è vero. Ma mancano ancora cinque anni, e non è il caso di lamentarsi per la stazione delle Fs mai aperta. Le Fal, ad esempio, possono diventare una sorta di “metropolitana” molto efficiente, se aumenteranno le corse». Intanto però non fanno servizio su rotaia di domenica e nei festivi. Suppliscono con i pullman. Quello da Potenza delle 14.24, per dire, ci mette 3 ore e 55 per arrivare a Matera e prevede 4 cambi. Insomma, la capitale europea è fatta, il problema ora è portarci l’Europa.

«Ferrovie e autostrade sono monopoli naturali regolati. Con molte similitudini. A partire dal fatto che manca la volontà di intaccarne il potere. Permettendo così a Fsi di bloccare qualsiasi apertura alla concorrenza o riduzione dei sussidi pubblici». Lavoce.info, 17 ottobre 2014

Le vite parallele di ferrovie e autostrade


Appare evidente che i concessionari autostradali costituiscano “poteri forti”, soprattutto dopo il decreto “sblocca Italia”, che di fatto elimina ogni possibilità di avere competizione in un settore che ha già visto vistosi fenomeni di rendita nel passato (vedi gli interventi su lavoce.info di Giorgio Ragazzi e di Tito Boeri su La Repubblica). Ma qui cercheremo di dimostrare che le Ferrovie dello Stato (Fsi) non sono da meno. Entrambi i gruppi sono monopoli naturali regolati (solo l’infrastruttura, nel caso ferroviario), di grandi dimensioni, con fatturati rilevantissimi, dell’ordine dei 5 miliardi annui per le autostrade e di 8 per Fsi. Generano forti interessi esterni tramite forniture e appalti, anch’essi miliardari, interessi che ovviamente contribuiscono a generare una straordinaria capacità di pressione politico-economica (“clout”, in termini regolatori).
Fin qui le similitudini. Le differenze forse sono a favore di Fsi. Infatti, mentre l’occupazione diretta nel settore autostradale è limitata a poche migliaia di unità, e frazionata tra i diversi concessionari, per Fsi si tratta di 80mila lavoratori di una stessa azienda, per di più interamente pubblica, quindi con straordinarie capacità di influire sul consenso elettorale. E qui il fatto che Fsi costi alla Stato 8 miliardi annui in media (12 miliardi calcolando anche il fondo pensioni straordinario di cui gode l’azienda), paradossalmente ne aumenta il “clout”: mentre la redditività delle autostrade garantisce sia l’occupazione che i livelli retributivi, per Fsi questi dipendono strettamente dalla sfera politica.
La durata delle concessioni vede in vantaggio Fsi: 60 anni per l’infrastruttura, una durata di fatto eterna, mentre le concessioni autostradali hanno scadenze lunghe, ma finite. Inoltre, Fsi è anche monopolista nei servizi passeggeri che eroga (si tratta di monopoli legali) sulle linee non di alta velocità. E lo è di fatto nei servizi regionali, avendo sempre vinto le poche gare bandite per l’affidamento, gare il cui bando non era certo favorevole a “new entrants”, a volte per esplicita scelta politica.

Un'impresa troppo grande

Vediamo ora alcune caratteristiche tecniche che per entrambe le realtà rafforzano il ruolo tutto politico della loro natura di “grandi monopolisti” (per il settore autostradale ci si riferisce all’impresa di gran lunga dominante, Autostrade per l’Italia, che detiene circa il 60 per cento della rete a pedaggio, ma percentuali ancora maggiori in termini di traffico). La teoria regolatoria, ma anche il buon senso, insegna che occorrerebbe, per le imprese regolate, che il regolatore determini “dimensioni minime efficienti”. Cosa significa? Che il regolatore deve soppesare le economie di scala possibili (l’efficienza produttiva delle imprese) con dimensioni tali da non rendere eccessivo il peso politico-economico dei soggetti regolati, che vanificherebbe nei fatti il suo stesso reale potere regolatorio (accanto al già citato termine “clout” si potrebbe introdurre quello del “too big to fail”).

Per Fsi, la separazione verticale tra rete e servizi già sarebbe una azione che ne diminuirebbe sensibilmente il “clout”, e l’ipotesi è allo studio da parte della neo-costituita Autorità di regolazione dei trasporti (Art), ma solo a fini conoscitivi. Per le reti infrastrutturali di entrambi i regolati, l’esistenza di economie di scala è quantomeno dubbia, e comunque mai misurata. Per la ferrovia, un tentativo fu fatto anni fa da Gian Carlo Loraschi, che lo portò a ipotizzare in termini intuitivi la suddivisione della rete in quattro imprese (Nord, Centro, Sud e Isole, sul modello giapponese), da sottoporre a una qualche forma di “yardstick competition” (competizione per confronto).
Si ricorda solo l’ira delle ferrovie per tale ipotesi e la fine improvvisa della collaborazione con quello studioso. E in effetti qualche economia di scala si potrebbe verificare per la rete solo negli acquisti di materiali di manutenzione, comunque già oggi frazionati dalla dimensione nazionale della rete stessa perché l’obsolescenza non è certo simultanea nel tempo, per tali materiali. Un’altra componente che potrebbe scoraggiare il frazionamento delle rete è il livello di progresso tecnico del settore (è stata questa una delle basi della difesa di Microsoft contro ipotesi regolatorie di frazionamento dell’impresa, allora dominante, anche in termini di contendibilità). Ma la natura di monopolio naturale della rete ferroviaria, al contrario del caso Microsoft, esclude ogni possibilità di apertura della concorrenza per questa via.

Il sostegno politico

Da ultimo, va considerata la solida capacità di entrambi i monopolisti di avere supporti politici, sia a livello parlamentare che a livello locale. Per il livello locale, la cosa è ovvia: entrambi i settori non pesano sulle risorse locali, ma costruendo infrastrutture e, per Rfi, gestendo anche servizi finanziati dallo Stato, costituiscono importanti fattori di consenso locale “senza costi politici”. Il tentativo di modificare l’incentivo perverso implicito nei finanziamenti statali “earmarked” per i sussidi ai servizi ferroviari locali, trasferendo le risorse corrispondenti direttamente alle Regioni, è paradossalmente fallito a causa delle Regioni stesse, che hanno “restituito” allo Stato la discrezionalità di tale finanziamento. E ciò al fine di evitare conflitti locali nell’allocazione delle risorse, soffocando così anche il contenuto democratico di un dibattito esplicito sulle priorità sociali della spesa.

A livello centrale, il “clout” di Rfi è costituito verosimilmente anche dalla pressione delle lobby dei costruttori, data l’enorme quantità di risorse pubbliche destinate alle infrastrutture ferroviarie, finanziate integralmente a fondo perduto (si stimano 40 miliardi , in moneta attuale, solo per l’alta velocità). Su tutto, regna l’asimmetria informativa: Fsi continua (giustamente, dal suo punto di vista) a dichiarare utili di esercizio, ma nessuno sembra ricordare che tali utili avvengono a valle di trasferimenti pubblici (che, secondo Ugo Arrigo, hanno contribuito per non meno di 300 miliardi di euro al debito pubblico nazionale. Quei conti possono essere discussi, ma l’ordine di grandezza è indubbio). A fronte di tali trasferimenti, non è mai stata tentata una verifica di risultati (per esempio, rapporto costi/benefici per gli investimenti, riduzione delle emissioni, effetti distributivi, eccetera).
Per concludere: come per le autostrade nessuna azione politica sembra intenzionata a intaccarne il potere monopolistico, così Fsi sembra godere di un simmetrico e forse ancor maggiore potere, in grado di sventare qualsiasi disegno sia di reale apertura alla concorrenza, almeno tale da metterne a rischio la posizione dominante, sia di riduzione dei sussidi pubblici (chiamati pudicamente “corrispettivi”). Si può stimare infatti che Fsi detenga circa il 90 per cento del fatturato del settore ferroviario italiano, tra ricavi e trasferimenti pubblici. E il problema è notoriamente presente anche a livello europeo, come è emerso nel convegno sulle ferrovie promosso recentemente a Torino proprio dalla Autorità di regolazione: il Parlamento europeo poche settimane fa ha sostanzialmente bocciato il “quarto pacchetto” della Commissione (organo tecnico del Parlamento), che proponeva timide accelerazioni del processo di liberalizzazione del settore ferroviario, pacchetto giudicato eccessivamente pro concorrenziale. Se Sparta piange, Tebe non ride: la lobby ferroviaria appare fortissima anche a livello europeo.

Consumo di suolo in pratica: al giorno d'oggi per fortuna esiste Google Earth, che consente al volo di paragonare a colpo d'occhio la vecchia sede con quella nuova, e suggerire un paio di osservazioni. La Repubblica Milano, 13 ottobre 2014, postilla (f.b.)

La firma di un archistar per il nuovo dipartimento di Veterinaria della Statale. Si tratta dell’architetto giapponese Kengo Kuma, autore del progetto che verrà presentato nei prossimi giorni dai vertici di via Festa del Perdono. È la ciliegina sulla torta di un lungo — e tormentato — processo di trasferimento del dipartimento dall’attuale sede di via Celoria al nuovo polo di Lodi, molto più grande e accogliente degli spazi di Città Studi.

Il progetto di trasferimento risale al 1998, quando l’ateneo guidato dall’allora rettore Enrico Decleva aveva deciso di trasferire a Lodi la facoltà (insieme con quella di agraria): da allora sono stati spesi 40 milioni che hanno portato alla costruzione della clinica veterinaria per grandi animali, del centro zootecnico aziendale e di altre strutture universitarie come la foresteria, gli stabulari e le residenze. A maggio il rettore Luca Vago aveva annunciato un forte abbattimento dei costi per la fine dei lavori, passati da 77 a 57 milioni di euro, anche considerato la prevista riduzione del numero di iscritti («era doveroso correggere i numeri di un piano divenuto sovradimensionato rispetto alle esigenze effettive», aveva spiegato in quell’occasione il rettore).

Il quartiere della sede attuale

Adesso tocca al completamento del campus, ovvero le aree didattiche dove sorgeranno le aule per i corsi di studio, la sede dei dipartimenti, i laboratori di ricerca e il centro zootecnico. Spazi dedicati alla trasformazione degli alimenti, alle cucine, al laboratorio di etologia e al mangimificio. Ad aggiudicarsi la gara d’appalto per l’affidamento dell’incarico è stato un pool guidato dal prestigioso studio internazionale Kuma and associates Europe. «Sarà un progetto molto bello — spiega Mauro Di Giancamillo, professore del dipartimento di scienze veterinarie e sanità pubblica — e diventerà un centro di eccellenza completo in tutto. Ci sarà anche una parte di campus, con un’idea di facoltà che favorisce l’integrazione degli studenti. Non mancheranno anche locali bar, sale studio, centri d’accoglienza ». L’architetto vanta nel suo curriculum lavori molto prestigiosi costruiti principalmente in Asia (dalla casa bamboo di Pechino al quartier generale di Lvmh di Osaka), mentre in Italia il suo primo progetto è stata la “Casalgrande Ceramic Cloud”, sede di un’azienda di piastrelle in ceramica in provincia di Reggio Emilia.

Il campo di atterraggio dell'archistar

Il trasloco della facoltà, a questo punto, sembra aver imboccato un percorso ben definito per i prossimi tre anni. All’ateneo spetterà coprire il 60 per cento dei rimanenti 57 milioni, l’altro 40 per cento se lo divideranno Comune e provincia di Lodi e Regione Lombardia. Il trasferimento totale delle attività è previsto per il secondo semestre dell’anno accademico 2016/2017, ma potrebbe slittare al 2017/18 qualora i lavori non fossero ancora completati. Resterà poi da capire cosa sarà degli spazi di Città Studi, attuale sede della facoltà: 15 aule pensate per la didattica dotate di videoproiettore, computer e videoregistratori che si trovano in via Celoria 10.

postilla
Nella certezza che chiunque, in un batter d'occhio, possa liquidare questa questione con montagne di studi e rapporti, aggiungendoci un sorriso di compatimento: ha senso parlare e straparlare di contenimento del consumo di suolo agricolo, se poi sono proprio le facoltà universitarie legate all'agricoltura a praticare la nobile arte dello sprawl? Al netto di tutte le osservazioni organizzative, accademiche, didattiche, di ricerca e di contesto, sta di fatto che si passa da una sede (che viene lasciata al momento vuota, ergo non pare ci fossero pressioni mostruose per uscirne) in un ambiente urbano denso e servito dalle reti dei mezzi pubblici, a un campus semirurale raggiungibile grazie alla “comoda navetta” dalla stazione ferroviaria di Lodi, ma ubicato oltre la circonvallazione della via Emilia, vale a dire in campagna. Se poi, mettere su una superficie di terreno dei contenitori edilizi di cervelli dediti all'agricoltura, sia particolarmente sostenibile, possiamo discuterne, al netto delle chiacchiere sull'archistar giapponese. L'importante è capire cosa faccia davvero bene alle campagne (f.b.)

«Se soltanto il 5 per cento delle risorse destinate alle grandi infrastrutture fosse indirizzato a moderni sistemi pubblici di car-sharing e neo-autostoppismo, ci sarebbero molte meno auto nelle strade. Meno auto in coda. Meno inquinamento e forse più socialità». Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2014

Autostrade, raccordi, anelli tangenziali, concessioni, project financing, Sblocca Italia oggi, Legge Obiettivo ieri. Miliardi di euro per fantomatiche opere pubbliche. Cemento e asfalto per realizzare infrastrutture che dovrebbero, queste le intenzioni delle istituzioni pubbliche, aiutare la mobilità dei cittadini.

Non è questa la sede per affrontare le critiche al decreto Sblocca Italia e la devastazione ambientale che potrebbe portare con sé. Ci ritorneremo, magari con una parentesi di questa rubrica. Ma tutta la retorica del fare, delle grandi opere, ha sostanzialmente fatto intravedere ai cittadini italiani un grande sogno: basta con il traffico! Stop alle lunghe code! L’Italia si muove!

Quando i vari premier, di ogni colore politico, si presentano in tv e tracciano sulla grande cartina del Belpaese tante linee colorate per quante sono le nuove vie di comunicazione che promettono di regalare agli italiani, il telespettatore-automobilista sogna.

Sogna ad occhi aperti. Come un moderno Fantozzi. “Alle 8 in punto suonerà la sveglia. Barba e doccia. Uscirò fresco come una rosa dal garage. Imboccherò la nuova superstrada che passa proprio li, a due passi dal mio quartiere. Via veloce a 130 chilometri all’ora lungo l’asfalto liscio e pulito. Potrò fermarmi a fare colazione all’autogrill. Poi, sterzata a destra, ecco la mia uscita. Direzione centro città. Sopra la nuova sopraelevata. Parcheggio sotterraneo. Ascensore. Ufficio. Dalla sveglia alla scrivania: 45 minuti.” Sogna il telespettatore. Sogna. Si sente in sintonia con il Gallo Cedrone: “Finalmente se score signori…”. Poi, il brusco risveglio. La benzina è sempre più cara. Le strade esistenti sono un colabrodo. Le autostrade nuove sono care. I treni, dove ci sono, sono fatiscenti e sempre in ritardo. Dalla sveglia di casa alla scrivania (per i fortunati che hanno un lavoro) 2 ore e 40. Questo avviene perché le istituzioni, a tutti i livelli, hanno poca fantasia, oppure devono accontentare la lobby del cemento e dell’asfalto. Perché se si invertissero le proporzioni tra risorse per la mobilità privata e risorse per i pendolari la situazione sarebbe ben diversa.

O magari, se soltanto il 5 per cento delle risorse destinate alle grandi infrastrutture fosse indirizzato a moderni sistemi pubblici di car-sharing e neo-autostoppismo, ci sarebbero molte meno auto nelle strade. Meno auto in coda. Meno inquinamento e forse più socialità. Abbondano le idee, le apps per smartphone e i siti internet (clacsoon.com , blablacar.it, roadsharing.com e tanti altri). Ma il nostro tweet-premier nella cartella hashtag per la mobilità ha solo le opzioni #asfalto #autostrade #concessionarie e vedrete come le twitterà veloce grazie allo #sbloccaitalia.

Ciò che colpisce di più, in questa lettura desolatamente obsoleta di alcuni processi sociali in corso, è la sostanziale assenza delle discipline territoriali, o almeno di un punto di vista vagamente interdisciplinare, come il tema meriterebbe. La Repubblica, 7 ottobre 2014, postilla (f.b.)

L’esodo dalle città verso la provincia non è un fenomeno solo italiano. Riflette il deterioramento della qualità della vita e dell’ambiente soprattutto nelle periferie urbane. Dove si addensano i flussi migratori. Dove, al tempo stesso, il sistema residenziale e il paesaggio si sono degradati. Così, quelli che possono, se ne vanno. Per echeggiare il linguaggio dell’ecologia sociale: “evadono” dalle città e si “rifugiano” nei paesi più piccoli. Possibilmente, non lontano dai centri urbani, perché, comunque, le città restano il principale luogo di offerta di servizi. L’Italia, d’altronde, è un Paese di compaesani (come ha osservato il sociologo Paolo Segatti). La “provincia”, il mondo dei piccoli paesi e delle piccole città, d’altronde, è, ancora, fonte di soddisfazione, personale e sociale. Anzitutto, perché offre una rete di relazioni più fitta.

Tra coloro che risiedono in comuni con meno di 10 mila abitanti, 7 persone su 10 affermano di avere legami e conoscenze con i vicini di casa. Oltre i 30 mila abitanti, la quota scende a poco più del 50% e negli agglomerati metropolitani, con più di 500 mila abitanti, al 40% (Indagini Demos). Di conseguenza, al crescere della dimensione urbana cresce anche il senso di solitudine. Che affligge il 26% di coloro che vivono nelle metropoli, ma solo il 18% nelle località più piccole. Nei piccoli centri, inoltre, risultano più elevate la soddisfazione economica e la fiducia nel futuro. Perché stare in mezzo agli altri, considerarsi parte di una “comunità”, abbassa il sentimento di vulnerabilità sociale. Proprio la provincia italiana, soprattutto nel Centro-Nord, peraltro, negli ultimi trent’anni, ha espresso il maggior grado di crescita economica, grazie allo sviluppo della piccola e piccolissima impresa, sostenuta dal ruolo della famiglia e dell’associazionismo. E dall’importanza del lavoro come valore. Anche per questo, la “provincia italiana” è divenuta, in effetti, “capitale”. Del benessere sociale e dello sviluppo economico. Tuttavia, i vantaggi del piccolo mondo locale, negli ultimi anni, si sono ridimensionati. Mentre emergono problemi, sempre più evidenti.

Anzitutto, l’ambiente e il paesaggio si stanno degradando. Lo sviluppo economico impetuoso del passato recente oggi è in declino. Ma ha ridotto molte aree di provincia in agglomerati di aziende e capannoni. Altrove, in micro- quartieri dormitorio. La diffusione urbanistica, spesso, è avvenuta senza regole. All’italiana. Così, la provincia ha smesso di essere accogliente come un tempo. Mentre il “localismo”, come sentimento e identità, si è tradotto in “spaesamento”. Tanto più di fronte all’impatto con la globalizzazione — economica, sociale e cognitiva. Ben testimoniata dall’immigrazione. Così, proprio in provincia, nei paesi più piccoli, oggi incontriamo indici di insicurezza crescenti. Che si traducono in reazioni sociali e (anti) politiche di autodifesa. Intercettate da “imprenditori politici” dello spaesamento, come la Lega. Per questo, occorre evitare che la spinta verso la provincia si traduca in “provincialismo”. E riduca le città in periferie. Abbiamo, invece, bisogno di riqualificare le città, ma anche la provincia. Per fare degli italiani un popolo di compaesani e, al tempo stesso, di cittadini.

postilla
In questo articolo firmato da uno dei più noti e ascoltati studiosi di discipline sociali nel nostro paese, colpisce soprattutto la prospettiva scelta per leggere il fenomeno, che pare in pratica piallata su certe santificazioni del Censis a proposito di distretti paesi e dintorni, del tutto ignare (e scarsamente interessate) ad aspetti che invece parrebbero ovvi, dopo mezzo secolo di critica internazionale alla suburbanizzazione, ai suoi rovesci della medaglia ambientali, sociali, economici. Certo, siamo ancora nel paese in cui basta intravedere qualche rudere di campanile piantato in mezzo allo sprawl per evocare lisergiche nostalgie, e cancellare miracolosamente tutto il resto, almeno finché spunterà la prossima emergenza (il terremoto, la crisi economica, il consumo di suolo, i servizi sociali …). Però da uno studioso di rango ci si aspetterebbe almeno un briciolo di consapevolezza, del fatto che quanto noi chiamiamo “borghi” altrove si chiama più o meno nello stesso modo, ovvero “suburbs”, e non evoca affatto di per sé qualcosa di buono, anche quando c'è qualche fienile qui e là a commuovere l'osservatore. L'occhio critico dovrebbe saper cogliere anche il resto, per esempio le tendenze del tutto opposte di contro-suburbanizzazione (f.b.)

Un titolo un po' schematico per un articolo che racconta abbastanza eloquentemente tutte le miserie della nostra politica quando si tratta di consumo di suolo e ambiente in generale, magari per tirarla lunga e aspettare la bipartisan Legge Lupi. Corriere della Sera, 6 ottobre 2014

Fra i purtroppo numerosi disegni di legge impantanati da mesi e mesi in Parlamento ce n’è uno che aveva fatto storcere il naso a parecchi, fuori e dentro il Palazzo. Certi costruttori lo guardavano come fosse stato il loro epitaffio e certe Regioni si erano inalberate lamentando presunte lesioni alla propria autonomia. L’idea di quel provvedimento era restituire dignità a un territorio meraviglioso come il nostro ma che a partire dal dopoguerra è stato letteralmente stuprato dalla cementificazione selvaggia e dalla speculazione con la fattiva collaborazione della politica. Ancora oggi che le città italiane, dice Legambiente, traboccano di case vuote (250 mila soltanto a Roma) si continua a divorare suolo a ritmo incessante.

Siamo arrivati al punto che in Italia il consumo del suolo, ormai superiore all’8 per cento di una superficie montuosa per oltre un terzo, è praticamente doppio rispetto alla media dei 28 Stati dell’Unione Europea, attestato intorno al 4,3 per cento. La Germania, con una densità di popolazione superiore del 15 per cento alla nostra, un territorio pianeggiante nonché un apparato industriale non inferiore a quello italiano, è al 6,8 per cento.

Per non parlare delle conseguenze per l’agricoltura, che in quarant’anni ha sacrificato al cemento 5 milioni di ettari, una superficie pari a Lombardia, Emilia Romagna e Liguria messe insieme. Con il risultato che la produzione interna non arriva a coprire che il 75 per cento del fabbisogno. E siamo a quel disegno di legge. Il primo che aveva proposto una norma per limitare il consumo del suolo era stato Mario Catania, ex ministro dell’Agricoltura del governo di Mario Monti. Ma il tempo era poco e la melina parlamentare si mise subito in moto: la legislatura finì senza che si potesse fare qualche passo avanti significativo. Catania allora tornò alla carica a maggio del 2013, riproponendo la stessa proposta di legge in qualità di deputato di Scelta civica. Anche qui, però, senza grossi risultati. Per sette mesi il suo testo, insieme a quelli di altre proposte dello stesso tenore, è rimasto chiuso in qualche cassetto.

Finché a febbraio di quest’anno, pochi giorni prima della fine del governo di Enrico Letta, la responsabile dell’Agricoltura Nunzia De Girolamo presenta a sua volta un disegno di legge che ricalca nella sostanza quello di Catania. E nonostante il brusco cambio a Palazzo Chigi, il treno sembra partire speditamente. Il 6 marzo viene costituito a tambur battente un comitato ristretto in commissione alla Camera, con la missione di partorire in fretta un testo condiviso da portare in aula. Quattro riunioni, di cui l’ultima il 28 maggio. Poi più nulla.

Il motivo? C’è chi tira in ballo l’esigenza di aspettare una legge urbanistica. Chi diversamente ricorda le avversioni di una parte del mondo delle costruzioni, lasciando intendere che al blocco non sarebbe estranea l’azione delle lobby. E chi invece parla di incomprensioni fra il ministero dell’Ambiente retto dall’esponente udc di stretta osservanza casiniana Gian Luca Galletti, e quello dell’Agricoltura affidato al lombardo Maurizio Martina, democratico: contrasti sulle competenze che ciascuno dei due rivendica. Qualunque sia la ragione, se questioni di lobby o di potere, oppure soltanto le solite stucchevoli faccende burocratiche, il fatto è che da più di quattro mesi una legge ritenuta urgente è su un binario morto. Dal quale non si sa quando e se potrà muoversi. Intanto, ogni giorno che passa, altri cento ettari di territorio vengono sbranati: alla faccia delle migliaia di appartamenti invenduti, delle periferie urbane che cadono a pezzi, del nostro paesaggio che va in malora.

Il Movimento No TAV e l’Opposizione francese alla Lyon-Turin richiamano l’attenzione degli organi di informazione sui ritardi dell'opera e sulla consistente perdita di finanziamenti europei. Notav.info, 4 ottobre 2014

La Torino-Lione è pronta a perdere altri 33 milioni di euro di contributi europei. E’ ufficiale: lo scavo del Tunnel de La Maddalena non sarà ultimato entro il termine perentorio fissato dall’Unione Europea del 31 dicembre 2015. A sconfessare tutti i pomposi annunci governativi è la stessa LTF (la società pubblica italo-francese cui è affidata l’opera): nelle sue ultime gare di appalto, pubblicate questa estate, la fine lavori è indicata a dicembre 2016. Ancora più pessimista il Ministero delle Infrastrutture: il suo sito web comunica che la galleria sarà finita solo a giugno 2017. Eppure la Commissione Europea era stata chiara: nessun contributo sarà erogato per lavori svolti oltre il termine. Sconti e indulgenze sono passati di moda a Bruxelles.

Strano ma vero, a dirlo sono proprio loro. L’11 giugno 2014 LTF pubblica un avviso di gara di appalto per il monitoraggio ambientale sullo scavo del Tunnel de La Maddalena. LTF richiede di indicare il costo di tali servizi «jusqu'au PK 7+741 environ (qu'il est actuellement prévu d'atteindre en décembre 2016)» ovvero fino a 7741 metri di scavo “che attualmente si prevede di raggiungere nel dicembre 2016” (1). Le pagine “Cantieri Italia” del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti pubblicano i dati ufficiali e aggiornati delle opere finanziate dal CIPE. La scheda “Cunicolo esplorativo de La Maddalena in variante” non lascia spazio ad interpretazioni: “Fine lavori: Data Prevista: giugno 2017” (2).

Solo metà galleria? Perso metà contributo. Nel marzo 2013 la Commissione Europea è costretta a revocare metà dei contributi agli studi preliminari per la Torino-Lione, in quanto “per via di ulteriori ritardi, l’azione non potrà essere portata a termine entro il 31 dicembre 2015. Si è dovuto pertanto aggiornare l’ambito dell’azione per includervi unicamente le attività che potranno effettivamente essere realizzate.” (3).

Oggi, dopo 39 mesi dall’apertura del cantiere, LTF ha scavato appena il 17% dei 7541 metri totali del tunnel geognostico (4). E non finirà prima di dicembre 2016, forse giugno 2017, forse oltre. La decisione UE è perentoria: sarà erogato il contributo esclusivamente su quanto realizzato effettivamente entro la “data di completamento dell'azione: 31.12.2015”. Ad allora, al ritmo attuale, LTF non sarà che al 50% dello scavo. Quindi metà dell’importo non risulterà finanziabile perché fuori tempo massimo. Il conto è presto fatto. L’intero Tunnel de La Maddalena sono 131,6 milioni € di costo ammissibile, metà Tunnel non realizzato vale 65,8 milioni €. Qui il contributo UE coprirebbe il 50%, quindi si perdono 32,9 M€.

L’Europa non starà a guardare. Il 30 settembre scorso alcuni eurodeputati del nuovo Parlamento Europeo hanno incalzato Maroš Šefčovič
, candidato Commissario ai Trasporti, nel corso della sua audizione, per richiamare la sua attenzione sulla necessità di una revisione delle decisioni sul progetto Torino-Lione, inutile, esorbitante e sottostimato. Una riunione al Parlamento Europeo di Bruxelles avrà luogo il 14 ottobre per scambiare conoscenze tra esperti No TAV ed eurodeputati e per migliorare il dialogo tra cittadini e istituzioni europee affinché i nuovi deputati possano argomentare le loro posizioni in vista delle decisioni che il PE dovrà assumere nei prossimi mesi sul progetto della Torino-Lione (5)

Numerosi eurodeputati invieranno interrogazioni scritte al nuovo Commissario ai Trasporti, non appena sarà nel pieno dei suoi poteri, con riferimento all’inutilità del progetto, alla cattiva gestione dei lavori in corso a La Maddalena, e alla necessità che il co-finanziamento europeo sia erogato a progetti sicuramente utili e con ritorno economico rapido proprio con riferimento alla necessità di risanamento dei bilanci di Italia e Francia. Una richiesta di esame delle attività svolte da LTF sarà inviata anche alla Corte dei Conti e all’OLAF.

Le ultime parole famose di Lupi e Virano, Il 15 luglio 2014, durante una visita al cantiere de La Maddalena, il Ministro Lupi conferma che «i tempi di conclusione al 31 dicembre 2015 dell'intero tunnel saranno rispettati» (6). Peccato sia sconfessato in contemporanea proprio dal suo stesso Ministero, il cui sito segnala già un ritardo di un anno e mezzo rispetto alle “garanzie” del Ministro. L’8 settembre 2014 il Commissario Virano rincara dicendo che “gli scavi di Chiomonte per la Tav Torino-Lione«stanno procedendo senza reali problemi ed è confermata la previsione di terminarli entro la fine del 2015» (7). Un’affermazione che ha dell’incredibile, in plateale contraddizione con quanto indicato in appalti pubblici usciti solo due mesi prima. Il Commissario controlla l’operato di LTF o si affida all’immaginazione?

Confrontate con le banali informazioni di immediata consultazione pubblica qui richiamate, le roboanti quanto compulsive rassicurazioni di ministri e commissari si salvano a malapena dal ridicolo. In un paese normale la conclusione sarebbe una sola: dimissioni.

Dossier
Il dossier con la documentazione completa è disponibile qui, nel sito NoTAV:

Note e riferimenti
(1) LTF - Lyon Turin Ferroviaire, Francia-Chambéry: Servizi di consulenza in ingegneria ambientale, 2014/S 110-195236, Avviso di gara – Settori speciali, Servizi, II.2.1
(2) Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Cantieri Italia, Cunicolo esplorativo de La Maddalena in variante, Cronoprogramma dell'opera
(3) Decisione della Commissione C(2013)1376 5.3.2013
(4) LTF - Lyon Turin Ferroviaire, http://www.ltf-sas.com/accueil-italien/
(5) http://www.presidioeuropa.net/blog/?p=5025
(6) Adnkronos, “Tav: Lupi, ad agosto riunione task force su opere compensazione”, 15 luglio 2014,
(7) Ansa, “Tav: Virano, si procede senza problemi”, 8 settembre 2014,

«Salire sui treni è ancora troppo spesso complicato per le persone con ridotte capacità motorie. Peccato che anche il “Governo del fare” si sia fatto trascinare sul terreno delle grandi opere che fanno immagine, ma non producono ricadute sui territori attraversati e comportano vantaggi marginali per i potenziali utenti». Lavoce.info, 30 settembre 2014 (m.p.r.)

La doppia barriera di treni e marciapiedi
La normativa italiana sull’abbattimento delle barriere architettoniche (Dpr 503/1996, articoli 24 e 25) vorrebbe che le stazioni e i mezzi di trasporto pubblico su gomma e su ferro fossero accessibili alle persone con ridotte capacità motorie: per i veicoli sono cogenti le specifiche tecniche di interoperabilità previste dalla decisione della Commissione europea 2008/164 (emendata dalla 2012/464/EC), e si applicano inoltre le norme del regolamento Ce 1371/2007, capo V.

Nei mezzi su gomma, il pianale ribassato – ed eventualmente le piattaforme elevatrici – fanno a volte o’miracolo, soprattutto se l’autista accosta bene il mezzo a marciapiedi alti almeno 30 centimetri come spesso sono quelli alle fermate del tram su rotaie, però il combinato autista-autobus-marciapiede non sempre è collaborativo.

Per i treni, invece, il macchinista si accosta automaticamente al marciapiede, ma se questo è basso (la vecchia misura italiana è 25 centimetri sul piano del ferro) c’è poco da fare, la “scalata” è garantita anche se il treno ha il pianale basso. E pensare che le prime carrozze con le porte a 60 centimetri dal piano del ferro (le celeberrime pianale ribassato) furono ordinate nei primi anni Sessanta – una vera novità per l’epoca – e divennero di uso abbastanza comune negli anni Ottanta. In seguito, dopo vari lotti di carrozze ed elettromotrici più (o meno) indovinate e affidabili, tutte però con il pianale alto, da quasi venti anni il nuovo materiale rotabile del trasporto regionale, sia di Trenitalia che delle imprese “regionali”, ha una buona parte del pianale basso, con porte a 55-60 centimetri sul piano del ferro. Sono i tipi EtrY0530 di Fiat, Taf e Tsr di Ansaldo, Vivalto di Corifer, Flirt e Gtw di Stadler, Atr 220 di Pesa, Coradia di Alstom, Civity di Caf, Alfa2 di Firema.
I treni ad alta velocità, a cominciare da Etr 1000 (“Zefiro” di Bombardier) e Agv di Alstom, invece, hanno il pianale alto e la fretta con cui sono stati ordinati è sospetta: ci si è riforniti prima della entrata in vigore, all’inizio del 2013, delle specifiche tecniche di interoperabilità relative alle persone con ridotta mobilità? Parallelamente si vanno diffondendo (con molta lentezza) sia sulla rete in gestione a Rfi sia sulle reti “regionali” i marciapiedi alti 55 centimetri sul piano del ferro. Quando treni e marciapiedi “giusti” finalmente si incontrano, l’incarrozzamento è rapidissimo, come in metropolitana, e un eventuale cliente a ridotta capacità motoria può salire o scendere senza bisogno di assistenza.

Ascensori o rampe?
Certo tutto questo non basta, è bene che sul treno vi sia anche un’area dove si possano ancorare una o più sedie a rotelle, un bagno accessibile e, se si tratta di una stazione importante o comunque di località con sottopassaggio, dovrebbe esserci anche un ascensore o le rampe a pendenza adeguata. E qui il problema diventa spinoso. Rete ferroviaria italiana ha deciso unilateralmente di installare “elevatori” o ascensori solo a patto che il comune o un altro ente o società pubblica si accollino l’onere della manutenzione ordinaria e (soprattutto) del servizio di pronto intervento in caso di guasto e per liberare persone imprigionate. Dato che si tratta di circa 10mila euro all’anno per ascensore, è evidente che pochissimi comuni si sobbarcano la spesa, soprattutto ultimamente. In alcuni casi, sono stati installati dei “montascale”, vittima di vandalismo nel giro di poche settimane e che comunque richiedono spesso la presenza di un operatore terzo.

Gli elevatori hanno poi il brutto vizio di rompersi, e non sempre Rfi, che è titolare della manutenzione straordinaria, interviene rapidamente. Il marciapiede diventa così inaccessibile anche per settimane (per esempio, a Modena l’ascensore tra atrio e sottopassaggio è chiuso per lavori da oltre tre mesi). Talvolta, durante i lavori di costruzione del sottopassaggio, è stato predisposto il “pozzo” per l’ascensore, poi murato per mancanza di un accordo con l’ente locale. Eppure, nella maggior parte dei casi, basterebbe realizzare una rampa: con pendenza 8 per cento si tratta di solito di cinque tronchi da 10 metri e relative piazzole, in totale 60 metri. La rampa ha il vantaggio di non rompersi ed eventualmente permette di rinunciare alla scala. Il problema è che costa circa il triplo dell’ascensore (che viaggia sui 15-20mila euro).

Lavori in corso in poco tempo
In molte stazioni e fermate, tuttavia, l’ascensore c’è già o addirittura non serve, bisogna invece alzare il marciapiede. Le direzioni territoriali di Rfi hanno intrapreso azioni in tal senso, ma la scarsità di risorse (non è alta velocità…), la necessità di lavorare sotto esercizio e la “non visibilità mediatica” degli interventi non ne incoraggiano la diffusione. Sarebbero lavori facili, senza necessità di gara perché rientrano nella manutenzione straordinaria e realizzabili con il “global service” che le strutture di Rfi hanno sottoscritto con imprese di lavori edili opportunamente qualificate e selezionate. Il costo si aggira sui 250 euro al metro quadro e i lavori si possono avviare e concludere in meno di un mese.

Se ne è visto un esempio questa estate nella stazione centrale di Bologna dove un marciapiede lungo oltre 300 metri e largo 9 con tre sottopassaggi (cinque scale) e tre ascensori (due di servizio) è stato alzato in 15 giorni, interrompendo completamente i due binari adiacenti (10 e 11). Certo, non in tutte le stazioni si può chiudere per due settimane marciapiede e binario adiacente, ma in molte – medie e grandi – sì. E dunque quante centinaia di cantieri si possono aprire in poche settimane, oltretutto offrendo occasioni di lavoro ai relativi operai? Quante (centinaia di) migliaia di viaggiatori si possono agevolare? Quanti minuti di percorrenza si possono togliere ai treni regionali che per evitare le penali dei contratti di servizio hanno ormai velocità da sbadiglio? Quante ore di ritardo per servizio viaggiatori si possono risparmiare ogni giorno?
Negli ultimi tempi, in alcune stazioni sono stati alzati solo quei marciapiedi dove fermano i treni alta velocità, ma non gli altri: Rimini, Pesaro, Verona PN, Firenze SMN, Milano Centrale,Roma Termini, per citarne solo alcune, nonostante i treni alta velocità non abbiano il pianale ribassato. È una strategia per certi versi incomprensibile e anche un po’ odiosa.
Per le piccole stazioni su linee che chiudono in agosto (o per tutta l’estate) sarebbe facile da programmare un intervento a tappeto in quel periodo e forse permetterebbe anche qualche risparmio. In casi limite, si può anche chiedere un sacrificio agli utenti: per due-tre settimane i treni non fermano per i lavori, oppure non fermano dalle 9 alle 17, oppure si sale e scende solo dalla prima carrozza mentre sul resto del marciapiede si lavora, preferibilmente in periodi di “morbida” come ferie estive, Natale, Pasqua.
Sono lavori con una notevole parte manuale, che quindi darebbero lavoro a centinaia e forse migliaia di operai per qualche anno. Ed è anche improbabile che si formino comitati “anti-marciapiede”, che soprintendenze poco sensibili frenino, che qualche ricorso al Tar o ritrovamento archeologico blocchi tutto sul nascere. Peccato che anche il “Governo del fare” si sia fatto trascinare sul terreno delle grandi opere che fanno immagine (come l’alta velocità Napoli-Bari), ma non producono ricadute sui territori attraversati e comportano vantaggi marginali per i potenziali utenti.
Per quanto riguarda i treni del trasporto regionale, poi, una parte è prossima alla fine della vita utile, ma la parte (di Trenitalia come di altre imprese, sia chiaro) che ha più di 20 anni ma meno di 35 e quindi potrà servire per altri 15-30 anni, potrebbe essere adattata alle esigenze delle persone con mobilità ridotta con una spesa irrisoria, molta buona volontà e senza rischio di incorrere in procedure di infrazione UE, basterebbe aggiungere una carrozza a pianale ribassato.
Insomma, la domanda che rivolgiamo al presidente del Consiglio e al ministro dei Trasporti è semplice: è troppo difficile sbloccare treni e marciapiedi per le persone a ridotta mobilità? Ricordando che la categoria comprende genitori con passeggini, turisti con valige, bambini, persone attempate.

«Alla faccia dell’authority, del mercato, dell’Europa. Un film già visto al momento della privatizzazione della società Autostrade, quando la concessione venne prolungata ope legis di vent’anni senza colpo ferire». Corriere della Sera, 28 settembre 2014

Andrea Camanzi lo ha definito: «Un passo indietro». Anche la diplomazia vuole la sua parte. Ma il piatto che il decreto «sblocca Italia» sta servendo ai potentissimi concessionari autostradali va ben oltre una semplice retromarcia. Perché per l’authority dei Trasporti presieduta da Camanzi, a cui la legge affida il compito di regolare quel settore, è uno smacco duro da digerire.

Basta leggere l’articolo 5. Le società autostradali possono ottenere la proroga delle concessioni con «l’unificazione di tratte interconnesse» impegnandosi a fare investimenti e mantenendo «un regime tariffario più favorevole all’utenza». Senza gare, ovviamente. Alla faccia dell’authority, del mercato, dell’Europa. Un film già visto al momento della privatizzazione della società Autostrade, quando la concessione venne prolungata ope legis di vent’anni senza colpo ferire. Con qualche differenza. Allora non esisteva l’autorità dei Trasporti. E la proroga oggi proposta dal governo di Matteo Renzi riguarda solo di striscio il gruppo Autostrade. L’impronta digitale sembra di Fabrizio Palenzona, ex presidente margheritino della Provincia di Alessandria, vicepresidente di Unicredit e da ben undici anni presidente dell’Aiscat, l’associazione che riunisce le concessionarie autostradali. Un gruppo di pressione dalla forza irresistibile, come sta a dimostrare la frequenza incessante degli aumenti tariffari. Cascasse il mondo.

Dal 1999 al 2013 le tariffe sono salite mediamente del 65,9 per cento, contro un’inflazione del 37,4 per cento. E dietro Palenzona non è difficile intravedere il gruppo imprenditoriale che fa capo agli eredi di Marcellino Gavio. Ovvero uno dei principali concessionari privati. I legami fra Palenzona e i Gavio, che l’avrebbero anche voluto alla presidenza di Impregilo, non sono in discussione. Il presidente dell’Aiscat risulta essere fra l’altro uno degli azionisti di riferimento della società di autotrasportatori Unitra di Tortona: proprio insieme al gruppo Gavio. Certamente uno dei soggetti più interessati a una soluzione quale quella prevista dal decreto «sblocca Italia». La sua concessione della Torino-Piacenza dovrebbe essere infatti fra le prime a scadere. La data prevista, secondo i dati pubblicati lunedì 22 settembre da Alessandra Puato sul CorrierEconomia , è il giugno 2017. Dieci mesi prima, nell’agosto 2016, scadrà un’altra concessione nella quale è coinvolto Gavio, quella della Torino-Valle D’Aosta.

Ma dietro il rompighiaccio Palenzona nemmeno qualche concessionario pubblico ha rinunciato a far pesare le proprie ragioni. Come le Autovie Venete. La società è controllata all’88,8% dalla Regione Friuli-Venezia Giulia e al 4,8% dalla Regione Veneto. Dovrebbe realizzare la terza corsia, un’operache richiede investimenti per 1,7 miliardi. Ma le banche, argomentano, non sarebbero disposto a finanziarla se la concessione scadesse, com’è previsto, nel marzo 2017. Occorre quindi prolungarla.

La concessione dell’Autobrennero, società con un consiglio di amministrazione da 14 poltrone, è invece scaduta nell’aprile 2014 ed è in attesa di gara. Però i suoi azionisti preferirebbero la proroga. Sono la Regione Trentino Alto Adige, le Province autonome e i Comuni di Trento e Bolzano, le Province di Modena e Mantova, il Comune di Mantova... Nell’elenco, anche alcune banche finanziatrici che vantano diritti di pegno: fra queste la famosa Banca del Mezzogiorno di Poste Italiane, fortemente voluta dall’ex ministro Giulio Tremonti per sostenere l’economia del Sud (Tirolo?).

A dispetto del guard rail perennemente arrugginito, per le Province e i Comuni azionisti l’Autobrennero è una gallina dalle uova d’oro: 140 milioni di utili negli ultimi due anni. Senza considerare un tesoretto di 550 milioni investiti in titoli di Stato costituito dal prelievo sulle tariffe per finanziare il tunnel ferroviario del Brennero. Di sicuro la lobby autostradale ha lavorato di fino. Come dimostra il raffronto fra il testo entrato nel Consiglio dei ministri e quello pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Nel primo si stabiliva che la concessione venisse estesa al massimo a quella più lunga delle autostrade accorpate: poi questo limite è scomparso. Nella versione iniziale c’era pure come contropartita alla proroga un aumento del canone pagato allo Stato dai concessionari, dall’attuale 2,4% dei pedaggi netti al 3 o al 4%: scomparso anche questo.

Certo è che la stessa Authority, del tutto scavalcata in questo frangente, ha incontrato non poche difficoltà fin da subito quando ha cominciato a occuparsi di autostrade, nel gennaio scorso. Dice tutto una lettera del capo della Struttura di vigilanza sulle concessionarie autostradali del ministero delle Infrastrutture, in risposta alle richieste dell’Autorità per il passaggio di consegne. Che si concludeva così: «Si rappresenta l’impossibilità di trasmettere i relativi contenuti della banca dati della Struttura tenuto anche conto dei protocolli di riservatezza che caratterizzano l’accesso al sistema e l’obbligo da parte degli uffici di Struttura di attenersi a precisi vincoli di riservatezza».

«Nonostante un’inflazione vicina allo zero, i pedaggi continuano ad aumentare. Il motivo sarebbe la necessità di remunerare gli investimenti. Ma spesso si tratta di investimenti utili solo alle concessionarie, che così ottengono proroghe ingiustificate». Lavoce.info, 26 settembre 2014

Pedaggi sempre più cari
Da qui a fine anno si deciderà il futuro della rete autostradale italiana. Con tre concessioni scadute e altre tre di prossima scadenza si potrebbe avviare un loro graduale ritorno allo Stato. Ma l’intenzione del Governo sembra tutt’altra: l’articolo 5 del decreto “sblocca Italia” prevede infatti che si possano accorpare concessioni prorogandole alle scadenze più lontane. Così, ad esempio, quattro delle concessioni del gruppo Gavio in prossima scadenza potrebbero essere prorogate sino al 2038: il futuro della rete sarebbe così cristallizzato per i prossimi due decenni e oltre, assicurando la perpetuazione delle ricche rendite del settore.

Nel 2012-13 il traffico è diminuito del 10 per cento, ma grazie agli aumenti tariffari gli introiti complessivi da pedaggi sono persino lievemente aumentati e i profitti pure. Dal 2010 i pedaggi (in media) sono cresciuti del 15 per cento, cioè il doppio dell’inflazione del periodo. Ci dicono che il motivo principale degli aumenti sia la necessità di remunerare gli investimenti. Dai dati risulta però che di investimenti le concessionarie ne hanno sempre fatti molto pochi e con ritardi addirittura di decenni rispetto ai piani concordati.
Nel 2013 le concessionarie hanno registrato introiti di 4.900 milioni per pedaggi e registrato utili di 1.100 milioni, ma gli investimenti ammontano a poco più di 900 milioni. Autostrade per l’Italia, la maggiore, ha avuto un flusso di cassa operativo di 1.230 milioni, ma ha investito solo 470 milioni (dato della Vigilanza). Paghiamo un altissimo scotto sulla mobilità a fronte di investimenti modestissimi.
Per remunerare gli investimenti la delibera Cipe del 2007 prevede che l’incremento di tariffa debba essere tale che “il valore attualizzato dei ricavi previsti sia pari al valore attualizzato dei costi ammessi (…) scontando gli importi al tasso di congrua remunerazione”. Il criterio è perfetto, ma la sua applicazione è largamente discrezionale. L’eventuale incremento del pedaggio dipende essenzialmente dalla redditività attesa dell’investimento nell’arco della sua vita utile. Dunque, il pedaggio dovrebbe aumentare solo se la redditività attesa dell’investimento fosse inferiore al tasso di rendimento che si intende assicurare al concessionario. Ma, in tal caso, perché l’Ispettorato autorizza investimenti non remunerativi?
Investimenti, proroghe e rendite
Quantificare i benefici degli investimenti è difficile e incerto. Le concessionarie (e l’Aspi in particolare) notoriamente sostengono che gli investimenti per la costruzione di nuove corsie (i più rilevanti) migliorano la qualità del servizio, ma non generano apprezzabili aumenti di proventi da maggior traffico e devono pertanto essere remunerati con incrementi di tariffa. Ma su una rete già tanto congestionata come quella italiana, l’aggiunta di corsie parrebbe invece essenziale per sostenere ulteriori incrementi di traffico i cui proventi andranno interamente a vantaggio della concessionaria: se si quantificasse questo beneficio potrebbe non esservi alcun bisogno di aumentare i pedaggi. Se il costo di una nuova corsia non è in grado di ripagarsi con maggior traffico nell’arco dei venticinque anni di vita residua di una concessione come quella dell’Aspi, perché realizzarla? E se è in grado di ripagarsi, perché concedere anche incrementi di tariffa?
Gli investimenti sono poi proposti dalle concessionarie e pertanto il sistema tende a selezionare quelli che, di volta in volta, sono più utili a loro e non al paese. Un tipico esempio è quello dell’autostrada Torino-Milano. Negli anni Novanta aveva tre corsie con piazzole d’emergenza ed era ampiamente sufficiente per il traffico. Allargare l’autostrada e costruire una corsia d’emergenza non era certo un investimento prioritario per il paese, lo era invece per la concessionaria che così è riuscita a ottenere una proroga della concessione in scadenza nel 1999, prima sino al 2014 e poi sino al 2026. Intanto, i lavori per la corsia di emergenza non sono ancora terminati, mentre i pedaggi negli ultimi anni sono addirittura raddoppiati. Parrebbe che, in questo caso come in altri, gli investimenti vengano pagati due volte: prima con le proroghe della concessione e poi con gli aumenti di tariffa.
Ogni concessionaria a rischio di scadenza individua nuovi lavori “urgentissimi” che giustifichino la proroga della concessione: nuove corsie o nuovi tratti, come il prolungamento da Parma a Nogarole Rocca che ha consentito alla Cisa di ottenerne il prolungamento dal 2010 al 2031 (oltre a forti aumenti di tariffa). Per la Serenissima (Brescia-Padova) è assolutamente necessario costruire il tratto Piovene Rocchette-Rovigo (Valdasticco nord), che di per sé non pare né essenziale né remunerativo, perché solo così potrebbe ottenere una bella proroga della concessione già scaduta ed evitare quindi il rischio più temuto, la gara per il rinnovo.
Per le concessionarie non esistono investimenti a rischio: la remunerazione in tariffa è garantita e c’è sempre la possibilità di richiedere il “riequilibrio” del piano economico finanziario. Anche quando si sbagliano di molto le previsioni di costo e di traffico, come nel caso della Asti-Cuneo, a evitare il rischio di perdite ecco che viene prospettata una soluzione facile e profittevole: accorparla ad altri due tronchi (Torino-Milano e Torino-Piacenza), ottenendo così pure una proroga di quelle due concessioni che altrimenti scadrebbero prima della Asti-Cuneo.
Se la convenzione di Autostrade per l’Italia prevede incrementi tariffari senza alcuna relazione col livello di profitto, la maggior parte delle altre concessionarie si è avvalsa della facoltà di richiedere il “riequilibrio del piano economico-finanziario”. In sostanza, all’inizio di ogni periodo regolatorio (ogni cinque anni), su proposta della concessionaria, si definisce un piano economico-finanziario che prevede incrementi di tariffa tali da assicurarle una “congrua remunerazione” sul capitale investito. Il rendimento assicurato è di 4 punti sopra quello medio dei buoni del tesoro decennali: davvero ottimo, per i tempi che corrono, considerato anche che si tratta di investimenti senza rischio.
Se però guardiamo alla storia, gli azionisti non hanno mai versato capitali nelle concessionarie, se non per importi irrisori: tutto è stato finanziato da debiti, poi rimborsati coi proventi dei pedaggi. Qual è dunque l’origine e come è determinato il capitale proprio da remunerare? Resta un mistero sepolto nella storia dei piani finanziari, rigorosamente secretati. Le rivalutazioni monetarie effettuate ancora pochi anni addietro da varie concessionarie vengono considerate come maggior capitale proprio investito? Con un’inflazione ormai prossima allo zero, i cospicui aumenti dei pedaggi (3,91 per cento nel 2013 e 3,9 per cento nel 2014) appaiono sempre più inaccettabili per gli utenti e imbarazzanti per il Governo. Per contenerli in futuro, è stato istituito un tavolo di lavoro tra Aiscat e Governo che si dice consideri interventi in quattro direzioni: 1) prolungamento delle concessioni; 2) accorpamenti di concessioni e proroghe alle scadenze più lontane; 3) maggiori indennizzi di subentro a fine concessione; 4) slittamenti, cioè riduzioni, degli investimenti previsti.
Tutte queste misure hanno in comune un chiaro obiettivo: prolungare sempre di più, verso un orizzonte infinito, la durata delle attuali concessioni, e quindi gli utili delle concessionarie e l’onere dei pedaggi, rendendo nello stesso tempo sempre più difficile l’effettuazione di gare a fine concessione per il crescere degli indennizzi richiesti all’eventuale subentrante. I pedaggi, introdotti per finanziare opere come l’Autostrada del sole, sono divenuti per le concessionarie una rendita pressoché perpetua, sulla quale poi lo Stato carica anche Iva e parte dei costi dell’Anas. L’elevato onere sulla mobilità non contribuisce certo alla crescita e alla competitività del paese.

Novant'anni, e sembra ieri, soprattutto per quanto riguarda il modo di concepire e non governare le grandi arterie stradali alimentatrici di sprawl. Corriere della Sera Lombardia, 19 settembre 2014, postilla (f.b.)

«Uniforme, disadorna ma levigatissima, si dilunga come la guida di un corridoio d’albergo, evitando sino al possibile le curve ed ogni contatto, ogni intimità e ogni emozione, il pittoresco e il romantico; arida e muta come un’asta, precisa come una pagina di orario, obbediente a una disciplina, la brevità, e a uno scopo, l’utilitarismo». Doveva apparire davvero strabiliante agli occhi di cronisti dell’epoca, quel grande miracolo che in soli 15 mesi aveva portato un paese in miseria alla ribalta internazionale. L’apertura della Milano-Varese, prima autostrada del mondo, inaugurata il 21 settembre del 1924, proiettava di colpo l’Italia nel futuro in un momento in cui (era l’anno del delitto Matteotti) il regime aveva bisogno di consensi e di un rilancio dell’immagine.
Tutto era nato due anni prima dalla lungimiranza di un imprenditore lombardo, Piero Puricelli,che costruendo strade aveva costruito la propria fortuna. Il suo sogno era quello di realizzare la prima «via per sole automobili», intravedendo le grandi possibilità che lo sviluppo della motorizzazione avrebbe presto avuto. Una vera scommessa se si pensa che all’epoca in Italia circolavano solo 85 mila veicoli.

All’inizio del 1922 Puricelli, proprio mentre stava progettando l’autodromo di Monza (il terzo più vecchio impianto fisso dopo Indianapolis e Brooklands) che sarebbe stato inaugurato a luglio dopo soli 50 giorni di lavori, cominciò a dedicarsi a tempo pieno al suo sogno, quello di unire con un’autostrada Milano a Varese ma anche a Como e al Lago Maggiore. Preparò uno studio di fattibilità è trovò subito l’entusiastico appoggio dall’Aci e dal Touring Club. Il 18 novembre del 1922 costituì la «Società anonima autostrade» e, 5 giorni dopo, a meno di un mese dalla marcia su Roma, andò da Mussolini a illustrare il suo progetto.

Il capo del governo capì al volo che quella era un’occasione da non perdere («grandiosa anticipazione italiana, segno della nostra potenza costruttiva degna degli antichi figli di Roma», avrebbe detto a opera conclusa), anche perchè i costi per la realizzazione, 90 milioni, sarebbero stati a carico dell’imprenditore: un prototipo del tanto sbandierato project financing cui si fa ricorso oggi per costruire le nuove autostrade, ma che allora (come adesso) finì poi per mostrare tutti i suoi limiti. Il duce chiamò il ministro dei lavori pubblici ordinandogli di mettere a punto tutti gli atti necessari per autorizzare l’opera. Fissò il giorno dell’inizio lavori, a Lainate, in cui sarebbe intervenuto con il primo colpo di piccone, e quello dell’inaugurazione. Tra le due date c’erano soltanto 500 giorni per costruire 43 chilometri. Tempi pienamente rispettati.

Fu così un grandioso cantiere quello che si aprì nel maggio del 1923, considerate anche le tecnologie dell’epoca. Ci lavoravano a tempo pieno, 7 giorni su 7, quattromila operai che movimentarono due milioni di metri cubi di terra, costruendo 219 manufatti in cemento, tra cui 35 ponti e 71 sottopassi. Per la pavimentazione (spessa sino a 20 centimetri), realizzata mischiando sassi con sabbia e cemento, furono usati 120 mila metri cubi di pietrisco che venivano trasportati in treno dalle cave di Puricelli alle stazioni più vicine e poi, con vagoncini che si muovevano su appositi binari, sino al luogo di utilizzo.

Per il calcestruzzo Puricelli comprò nelle Stati Uniti cinque grosse betoniere che potevano produrre 1200 metri cubi di conglomerato al giorno. I progettisti trovarono soluzioni all’avanguardia anche per realizzare le opere più impegnative, come il cavalcavia sulla stazione di Milano Certosa (che ancora esiste), tre campate ad arco di 21 metri l’una, il ponte sull’Olona a Castellanza e la galleria di Olgiate Olona. L’autostrada (la prima al mondo, anche se i tedeschi ritengono che il primato vada alla loro Avus, un circuito di prova inaugurato a Berlino nel 1921)aveva solo una corsia per ogni senso di marcia ed era larga tra gli 11 e i 14 metri. A Milano il casello era in viale Certosa all’altezza di Musocco, i dipendenti erano in divisa e avevano l’obbligo di fare il saluto militare. La sbarra si alzava alle sei del mattino e si chiudeva a mezzanotte.

Alla cerimonia di inaugurazione intervenne il re, a bordo di una Lancia Trikappa guidata da Puricelli. Per l’ingegnere fu il coronamento di un sogno ma pure l’inizio di un’intensa attività che lo portò a costruire molte autostrade anche all’estero. Ricevette onoreficenze, lauree honoris causa, il titolo di «conte di Lomnago» e, nel 1929, fu pure nominato senatore.

postilla
Negli anni '20, come si è ricordato anche alla penultima edizione del Seminari di Eddyburg, dedicata alla dimensione metropolitana, insieme alle autostrade nascevano, o provavano a nascere, anche piani territoriali per affrontare l'emergere della nuova geografia urbana indotta dalla compressione spazio-temporale delle autostrade. Come ci spiegava poco dopo (1933) il sociologo Roderick McKenzie, la scala metropolitana si sostituiva in senso identitario, fisico, socioeconomico, a quella urbana così come la grande città industriale delle stazioni ferroviarie, e poi dei tram, aveva soppiantato la città murata della tradizione. Anche nell'area milanese si discuteva della possibilità di questi “piani regionali”, puntualmente sabotati da chi riteneva di sapersi regolare benissimo da solo, ed è continuata così nel dopoguerra facendo saltare i modelli virtuosi del Pim, fino ai nostri giorni della cosiddetta città infinita, che si allarga ad archi concentrici principalmente (guarda un po') dal vecchio asse dell'Autolaghi, all'altrettanto storica Milano-Brescia, via Pedemontana Lombarda. Di piani territoriali, neppure l'ombra, salvo quelli che “recepiscono” passivi un nuovo segmento della mega lottizzazione in corso. C'è un'alternativa? Lo chiediamo spesso (f.b.)

Un emendamento M5S propone di introdurre nel disegno di legge collegato alla legge di stabilità 2014 (AC 2093) una nuova sanzione economica contro l’abusivismo edilizio. Dum spiro spero, sebbene sperare in questo parlamento sia davvero difficile.

Gli abusivi ora dovranno “pagare”. L’abusivismo edilizio, questa piaga che ha distrutto le nostre coste e la vivibilità delle città, ha finalmente un efficace strumento di contrasto. Tutto questo grazie a un emendamento inserito dal Movimento 5 stelle (a prima firma di Claudia Mannino) nel testo del collegato ambientale evaso dalla Commissione ambiente, di prossima discussione alla Camera.

Il testo, semplice quanto innovativo, dispone che qualora l’abusivo non demolisca il proprio manufatto entro 90 giorni dall’ordine di demolizione, esso debba pagare una sanzione da 2.000 a 20.000 euro e, qualora l’abuso sia realizzato in zona vincolata, soprattutto a livello idrogeologico, che questa sanzione sia comminata nella misura massima.

La sanzione, inoltre, potrà essere reiterabile (ad esempio ogni anno) qualora persista la mancata demolizione e, ovviamente, la sua corresponsione non sana l’abuso.

Gli abusivi, quindi, si dovranno fare due conti. Se ad oggi, tutto sommato, delinquere gli conveniva poiché le demolizioni si contano sulle dita di una mano e loro abitano in immobili per i quali non si paga nulla allo Stato e ai comuni (né oneri concessori, né IRPEF, né TARSU), la nuova sanzione potrebbe spingerli concretamente all’autodemolizione. E questo non perché abbiano a cuore la legalità, il paesaggio e le generazioni future, ma solo perché non farlo fa male al loro portafoglio.

I comuni, intanto, cominciano a sfregarsi le mani rispetto a questa nuova forma di entrate totalmente destinata a loro (anche se da dedicare esclusivamente al controllo del territorio e alla realizzazione di parchi pubblici). D’altronde chi non ha un abuso sul proprio territorio? Secondo il Dossier “Terra rubata” del FAI e del WWF dal 1948 al 2013 sono stati realizzati 4 milioni e seicentomila abusi edilizi e per il Dossier “L’Italia frana” di Legambiente sono state depositate, fra il 1983 e il 2004, 2.040.544 domande di condono di cui il 41,3% ad oggi ancora inevase ( e in buona parte da dichiarare inammissibili o rinunciate). Le somme sono presto fatte: ci sono ancora due milioni di abusi edilizi non sanati in piedi, di cui poco meno di un milione con una improbabile domanda di condono e poco più di un milione senza neanche uno straccio di carta a giustificarne l’esistenza. Le cifre sono confermate dal risultato del censimento delle case “fantasma” (perché in gran parte abusive) effettuato nel 2010. Si tratta di un milione e duecentomila case, come ha dichiarato il Governo Monti a marzo 2012.

Tenendosi prudenzialmente sul milione di immobili moltiplicato per la sanzione minima di 2000 euro, abbiamo la cifra record di 2 miliardi da destinare (potenzialmente ogni anno) ai comuni, in particolare a quelli delle 5 regioni (Calabria, Campania, Lazio, Puglia e Sicilia) dove risiedono i due terzi degli abusi edilizi d’Italia.

Ovviamente è importante che ognuno faccia la sua parte, anche i dipendenti comunali,che dovranno infliggere le sanzioni economiche da mancata demolizione, senza dimenticarsene, come è avvenuto, in gran parte, nel Lazio dove nel 2008 è stata introdotta questa sanzione. Pertanto, nella disposizione sono state previste apposite ripercussioni, anche economiche, per i dirigenti “distratti”.

La strada è ancora lunga. Ora il provvedimento approderà all’assemblea della Camera e poi al Senato dove si spera che i parlamentari e il Governo siano d’accordoche a pagare siano, una volta tanto, quelli che violano le regole e non quelli che le rispettano.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a carte in regola

Gli appartamenti costruiti dal governo Berlusconi dopo il sisma non sono affatto sicuri. Dopo il crollo di tre giorni fa il Sindaco ha emanato un'ordinanza di divieto. Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2014

A Preturo, a soli undici chilometri da L’Aquila, una delle frazioni devastate dal sisma del 2009, di finanziamenti pubblici ne sono arrivati molti per l’aeroporto, dove sono sbarcati i Grandi della Terra, ma oggi di aerei che decollano e atterrano neppure l’ombra. Mentre, anche per mancanza di manutenzione, crollano, come fossero di carta pesta, i balconi delle C.a.s.e. costruite per dare un tetto agli sfollati. “Abbiamo sentito un boato e la prima cosa a cui abbiamo pensato è stato il terremoto e siamo usciti in strada” raccontano i condomini di via Volonté, una delle 19 new town volute dall’allora premier Silvio Berlusconi, che ospitano oltre 16 mila famiglie.

Molte di loro, da ieri, come recita l’ordinanza emessa dal sindaco, non potranno più affacciarsi sui balconi finché non terminerà il sopralluogo che ne dovrà constatare la non pericolosità. La causa? «Tutta da accertare» ci spiega il Procuratore capo Fausto Cardella che ha assegnato il fascicolo dell’indagine appena aperta alla dottoressa Roberta D’Avolio. Reato ipotizzato: crollo colposo di costruzioni. Nel frattempo che vengano accertate le responsabilità penali, il sindaco Massimo Cialente punta il dito sulla mancanza di risorse per la manutenzione delle C.a.s.e. realizzate con 500 milioni di finanziamento dell’Unione europea che dallo Stato sono passate di proprietà del Comune.
A realizzare i 23 palazzi dislocati tra Preturo, Collebrincioni, Sassa e Arischia era stato un raggruppamento di imprese su bando indetto dalla Protezione civile allora capeggiata da Bertolaso. Ma «a ditta che ha realizzato la palazzina dove è avvenuto il crollo del balcone è fallita» come fa notare il sindaco. Tra i condomini c’è chi ancora ricorda quel 19 agosto 2009 quando Silvio Berlusconi con le braccia aperte rivolte alla folla al di là delle transenne “benedì” il cantiere incassando un fiume di applausi. «Eravamo disperati e lui ci restituiva una casa, dovevamo fischiarlo? Ma se tornasse oggi la musica sarebbe diversa». Erano quelli i tempi della distribuzione delle dentiere e dello spumante sul tavolo della cucina da stappare appena varcata la soglia della nuova vita offerta dal governo Berlusconi.
L’importante è fare e il “come” lo vede chi si trova di nuovo senza una casa. Monica spinge il passeggino della sua piccola Cristina, nata tre anni dopo il terremoto. È giovane ma i suoi occhi sono tristi nel guardare il palazzo dove è venuto giù il balcone a pochi metri da quello dove abita lei. Occhi che la morte l’hanno vista troppo da vicino, sotto le macerie ha perduto la sua più cara amica, per poterla dimenticare: «Sono indignata e allo stesso tempo stanca di indignarmi». Rabbia e rassegnazione due sentimenti che si respingono e si mescolano fino a togliere la forza per sperare ancora in una vita dignitosa e soprattutto sicura. Ne sa qualcosa il signor Leonardis, 88 anni, che dorme nella camera che dà sul balcone su cui si è schiantato quello del piano di sopra. «Era appena mezzogiorno quando sono rientrata in casa e poco dopo un boato ci ha riportato indietro di cinque anni» racconta la figlia Luciana Leonardis proprietaria di un noto ristorante. «Mio padre è vivo per miracolo, era stato sul balcone fino a qualche minuto prima come fa ogni giorno per annaffiare le piante. Questo è quello che dobbiamo continuare a sopportare, un’angoscia senza fine».
Due famiglie di nuovo sfollate e molte altre costrette a vivere con la paura finchè tutti i sopralluoghi disposti non accerteranno che non vi è pericolo di altri crolli. E dire che sono state realizzate senza guardare a spese visto che le C.a.s.e., acronimo di antisismiche, sostenibili, ecocompatibili, sono costate 2.800 euro al metro quadrato. Case dove vengono giù i balconi, dove anche le caldaie non sono a norma, dove volano via pezzi di tetto, dove gli isolatori antisismici (cilindri posti alla base delle case per rafforzare l’effetto antisismico) sono difettosi come ha dimostrato l’inchiesta sui Grandi Rischi. A Sassa, altra frazione terremotata, ne sono state evacuate 30 perché ritenute inagibili. Un dono della Protezione civile di Guido Bertolaso, costruite attraverso un bando di 500 milioni di euro finanziato dall’Unione europea.
È una furia l’assessore al bilancio Lelio De Santis: «Il crollo conferma quello che in tanti avevano detto sul progetto C.a.s.e.: costi pesanti, realizzazioni superficiali e fatte con i piedi, sicurezza poco e nulla e affari per le imprese” che pensa a come mettere in sicurezza le persone prima che vengano giù altri balconi visto che la pioggia continua a cadere e le previsioni non sono benevoli. E infine si rivolge al governo, reo di non aver stanziato risorse per la manutenzione: «Noi abbiamo messo in bilancio un milione di euro, ma c’è bisogno di fondi straordinari. Poi dobbiamo accelerare le procedure per il soggetto che deve gestire per una manutenzione seria altrimenti il patrimonio cadrà a pezzi». Manutenzione ordinaria che il Comune aveva affidato alla società Manutencoop e che richiede almeno nove milioni. Mentre il tempo continua a dimostrare che il terremoto non è stata la sola disgrazia che si è abbattuta su L’Aquila.

Che cosa c'è dietro lo scontro tra rabbia e repressione a Ferguson City; e, per chi sa leggere la città d'oggi, anche altrove. Millennio urbano, 20 agosto 2014

Dal sito Millennio urbano riprendiamo questo articolo (pubblicato originariamente da CBS News, 19 agosto 2014, col titolo: Hit by poverty, Ferguson reflects the new suburbs) scelto tradotto e commentato in calce da Fabrizio Bottini.

Il violento confronto fra polizia e cittadini a Ferguson, Missouri, evidenzia lo sconvolgimento demografico che interessa le fasce suburbane, dove oggi abita la maggioranza della popolazione povera del paese. Nelle 100 principali aree statistiche metropolitane si è assistito a un drastico impennarsi dei poveri nel suburbio, secondo le ricerche della Brookings Institution. La quantità di zone dove oltre il 20% degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà federale è più che raddoppiata dopo il 2000. Non solo cresce, questa povertà, ma si concentra in aree specifiche. Nel 2012, il 38% dei poveri suburbani stava in quartieri con oltre il 20% di povertà, secondo i calcoli della Brookings. Per quanto riguarda i poveri neri, è il 53% ad abitare zone con tassi di povertà oltre il 20%.

“All’inizio degli anni 2000 le cinque circoscrizioni censuarie in cui si articola la zona di Ferguson registravano tassi di povertà oscillanti fra il 4% e il 16%” commenta l’analista della Brookings Elizabeth Kneebone in un post recente. “Ma nel periodo 2008-2012 quasi tutta Ferguson supera la quota del 20% e iniziano ad emergere gli effetti negativi della povertà concentrata”. Effetti che comprendono scarse possibilità di trovarsi un lavoro o di avere assistenza sanitaria, scuole di bassissimo livello, elevati tassi di criminalità. “Rileviamo come i quartieri suburbani poveri siano più propensi al tracollo sociale di quanto non avvenga in equivalenti contesti urbani, specie per quanto riguarda la possibilità di migliorare” scriveva l’anno scorso in una relazione Alexandra Murphy del National Poverty Center all’Università del Michigan.

Ferguson è emblematica di questo impatto della povertà sul suburbio americano. Il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato, da meno del 5% nel 2000 a più del 13% nel 2010-12. Secondo l’ufficio censimento nel 2012 un abitante su quattro era al di sotto della soglia di povertà federale (ovvero viveva con meno di 23.492 dollari in una famiglia di quattro persone), e il 44% era ben due volte sotto quella soglia. Il reddito pro capite di Ferguson di 21.000 dollari la colloca all’ottantottesimo posto fra le 140 circoscrizioni cittadine del Missouri, secondo i calcoli del sito BiggestUSCities.com, mentre il reddito medio familiare con 36.645 dollari è al centotreesimo.

“Per chi abita a Ferguson e ha un lavoro, il reddito reale è stato falcidiato di un terzo dall’inflazione” aggiunge Kneebone della Brookings. “Il numero delle famiglie che usano i buoni casa federali è salito più o meno da 300 nel 2000 a oltre 800 alla fine del decennio”. Oltre alla crescita della povertà, si aggiunge un cambio nella composizione razziale di parecchi suburbi Usa. Un cambio che non trova corrispettivo nelle classi dirigenti locali. Gli scontri di Ferguson avvengono dopo l’uccisione di Michael Brown, nero disarmato a cui ha sparato un poliziotto. E sia l’amministrazione cittadina che la polizia qui sono in stragrande maggioranza bianche, con una popolazione afroamericana al 67%.

Secondo una ricerca dell’American Communities Project alla American University, “Nel 2000 i suburbi erano al 67% bianchi e non ispanici, al 12% afroamericani, al 13% ispanici. Nel 2012, la popolazione bianca non ispanica era scesa al 59%, l’afroamericana cresciuta al 13% e la ispanica circa il 18%”. A livello nazionale i poveri mostrano bassi livelli di partecipazione al voto, e ciò si conferma a Ferguson. Gli abitanti sono 15.000 maggiorenni, ma per le ultime votazioni al sindaco lo scorso aprile si sono espressi solo in 1.350, confermando senza alcuna opposizione James Knowles III. Alle elezioni consiliari del 2013 i voti sono stati 1.500. Nel 2011 un consigliere si è insediato per un totale di 72 consensi.

Commento
Vedi anche Michela Barzi Nuove povertà suburbane, Millennio Urbano 22 dicembre 2013; e del resto il tema della povertà suburbana, sempre ufficialmente messo in secondo piano, è all’ordine del giorno da quasi un decennio come si deduce anche da questi primi studi della Brookings Institution datati 2006, Cfr. I sobborghi sempre più vecchi e poveri, Mall 20 agosto 2006

«In settimana il decreto. Risorse aggiuntive per 4,5 miliardi.Tra i lavori considerati prioritari l’alta velocità Napoli-Bari». La Repubblica, 28 luglio 2014

Roma. Conto alla rovescia per il decreto sbocca-Italia che dovrebbe vedere la luce, secondo le indicazioni giunte ripetutamente dal governo, questa settimana, probabilmente venerdì. In prima linea l’abbattimento delle barriere burocratiche alla realizzazione delle grandi opere, spesso incagliate, per ricorsi al Tar, ritardi nel via libera relativi all’impatto ambientale o inadempienze dei concessionari. In tutto, come annunciato dal premier Matteo Renzi, 43 miliardi «già conteggiati» ai quali si potrebbero aggiungere risorse fresche ogni anno per circa 4,5 miliardi per le grandi opere e altri 3,7 (ma in 6 anni) per la miriade di piccoli cantieri.

Deregulation per le licenze private
La sorpresa dell’ultima ora riguarda tuttavia l’edilizia privata dove si annuncerebbe una deregulation che ha già fatto storcere il naso alle associazioni ambientaliste. Secondo una bozza del testo, anticipata ieri dall’Adnkronos, si andrebbe incontro a una piccola rivoluzione sul rilascio delle concessioni edilizie: fino ad oggi si deve infatti presentare al Comune una regolare domanda di licenza per dar corso ai lavori di edificazione. Con la riforma ci si potrà rivolgere direttamente allo sportello unico, muniti di una autocertificazione con le caratteristiche essenziali del progetto, realizzata da uno studio professionale, che testimonia il rispetto del piano regolatore e delle altre norme urbanistiche. A quel punto lo sportello unico avrebbe trenta giorni di tempo per rispondere, nel caso contrario si potrebbe procedere ai lavori. La norma sulla deregulation delle licenze di costruzione sarebbe stata inserita a sorpresa - il governo parla di bozze ancora in discussione - in base ad uno stralcio dell’articolo 20 della riforma urbanistica presentata nei giorni scorsi dal ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi.
Le grandi opere
Tornando al pacchetto che riguarda invece i lavori pubblici, la lista delle grandi opere sulla quali il governo è chiamato a scegliere i progetti da sbloccare, comprende circa 300 cantieri. In prima linea c’è l’alta velocità Napoli-Bari (che dovrebbe munirsi di un commissario ad hoc) e la tratta ferroviaria Brescia-Padova. Sul tavolo ci sono anche le infrastrutture indicate nel 2013 nel decreto «del fare» del governo Letta: il potenziamento della ferrovia Novara-Malpensa, la rimozione dei passaggi a livello sull’Adriatica nel tratto Foggia-Lecce e la terza corsia autostradale in Friuli.
La riforma dei porti
Nell’ambito del provvedimento è previsto anche un intervento di razionalizzazione delle autorità portuali: attualmente sono 23 e scenderebbero a quota 15. Inoltre le autorità che includono due o più scali saranno tenute aavere una unica sede nel porto più importante mentre negli scali minori rimarrà solo un direttore generale che gestirà le risorse finanziarie, coordinerà le risorse umane e curerà l'attuazione delle direttive del presidente.
Il nodo del Brennero
Secondo, la bozza diffusa ieri, nella lunga lista ci sarebbero anche i valichi ferroviari del Frejus, del Sempione e del Brennero. Una possibilità per alleviare i costi, sponsorizzata soprattutto dal ministro per le Infrastrutture Lupi, riguarderebbe il finanziamento di opere come il traforo ferroviario del Brennero sulle quali c’è una pressione europea: per questi grandi lavori si starebbe valutando di chiedere a Bruxelles - anche i margini in questa direzione sono assai limitati - una flessibilità del rapporto deficit-Pil scomputando la spesa per investimenti. Un capitolo a parte è quello dei termovalorizzatori, cui Renzi nei giorni scorsi ha fatto esplicito riferimento: un terreno minato per i vari movimenti «anti» presenti sul territorio: il Forum Nimby ha calcolato nei giorni scorsi che ben 22 di queste opere sono soggette all’azione di contestazione di comitati civici di varia natura.
I lavori segnalati dai sindaci
Nel pacchetto potrebbero figurare anche alcune opere segnalate dalle amministrazioni locali, che sono state sollecitate da Renzi nel giugno scorso ad indicare via mail i cantieri bloccati sul proprio territorio. Molte le richieste che si sono affastellate sui tavoli e nei tablet di Palazzo Chigi. Tra queste starebbero prendendo quota la Metro C a Roma, il Teatro Margherita a Bari e la metanizzazione di alcuni quartieri di Catania. A questa lista degli enti locali si aggiungerebbe il monitoraggio dello stato dell’arte delle opere pubbliche effettuato dalle Regioni (all’appello manca solo la Calabria): si tratta di un altro elenco di oltre 600 cantieri, la maggior parte già avviati e che attendono la spinta decisiva.
I ritardatari perdono la concessione
Come agire sulla burocrazia? Per ora si parla di un intervento sui ricorsi al Tar e di velocizzazione della valutazione di impatto ambientale, ma le misure sono da definire. Quello che sembra certo è che si interverrà con una norma che costringerà strutturalmente a velocizzare i lavori per i quali si è ottenuta una concessione: infatti nel caso in cui chi ha ottenuto una concessione per un’opera pubblica, nel giro di tre anni non sia riuscito a realizzare un progetto talmente avanzato da ottenere i relativi finanziamenti bancari, si provvederà alla revoca della concessione. Che sarà oggetto a questo punto di una nuova gara e assegnata ad un’altra azienda. Nel pacchetto anche semplificazioni, incentivi e sgravi fiscali per rilanciare gli investimenti privati. Allo studio ci sono strumenti finanziari innovativi volti a produrre un effetto leva su capitali privati attraverso le risorse pubbliche, come i project bond e il parternariato pubblico-privato.

«Appalti, cemento, progettazioni di opere nate con questi presupposti daranno benefici scarsi, una sicura ferita all’ambiente e tanto consumo di suolo ma però faranno tanto consenso. Adesso questa politica, se non la corregge Renzi, dovranno pagarla gli italiani». Ilfattoquotidiano.it, 22 luglio 2014

Nel sistema nazionale dove la regolazione pubblica delle vecchia rete autostradale vede il Ministero delle infrastrutture nel ruolo più di spettatore che di programmatore e concedente di concessioni autostradali, anche la nuova rete in costruzione ne subisce un’influenza negativa. Contribuisce la frammentazione di 23 società che gestiscono in concessione i 7 mila km di rete autostradale, sia pubbliche che private, a rendere disorganico il quadro per la viabilità e gli utenti. Le concessionarie hanno una forte influenza politica (appalti, progettazioni, assunzioni), pagano canoni risibili allo Stato e si sono garantite, con i diversi governi che si sono succeduti, tutti disattenti, un automatismo tariffario con pedaggi salasso che generano extra-profitti.

Ciò grazie alla promessa di un maxi piano (sulla carta) di potenziamento della rete autostradale esistente che assicura rendite di posizione monopoliste con rinnovi delle concessioni automatici che evitano le gare suggerite dall’Europa. E’ in questo contesto che vanno valutati i sette grandi project-financingautostradali affidati negli anni passati e messi in “legge obiettivo”. Essi prevedevano investimenti complessivi per 15,3 mld e per i progetti più complessi lo Stato aveva stanziato un allettante pacchetto di risorse: oltre due miliardi di euro.

Ora, dopo tanti avvertimenti di esperti ed ambientalisti, questi progetti sono in grave difficoltà finanziaria. Si tratta della Pedemontana Veneta e Lombarda, della Tem milanese, dell’Asti Cuneo, della Tirrenica Nord della Cispadana e della Brebemi. Tutti questi progetti scontano non solo la grave crisi economica che si è abbattuta sul Paese ma anche l’inasprimento delle condizioni finanziarie poste dalle banche che non si sono più rese disponibili per prestiti a lungo termine se non con quote di equity, e quindi di rischio, degli azionisti che non hanno mai sottoscritto. Nel corso della progettazione e della realizzazione delle opere le banche sono diventate azioniste di controllo come nel caso di Tem e di Brebemi e i closing finanziari sono avvenuti durante il corso delle opere grazie ai prestiti di istituti pubblici come la Bei e Cassa Depositi prestiti.

Ma in questi anni i nodi della “grandeur autostradale privata” sono venuti al pettine facendo saltare i piani economico-finanziari. Ecco perché ora queste 7 concessionarie hanno richiesto complessivamente 2,9 miliardi di aiuti pubblici; o attraverso la defiscalizzazione o attraverso stanziamenti a fondo perduto e con l’allungamento della durata della concessione. Le previsioni di traffico erano state sovrastimate e i costi di realizzazione sottostimati per giustificare le tratte da realizzare. Le difficoltà a raccimolare le risorse per avviare i cantieri e la modifica dei progetti chiesta dagli enti locali e dalle valutazioni ambientali hanno allungato i tempi di anni.

Ciò ha incrementato il peso degli interessi sul costo dell’opera. Per esempio per Brebemi, i costi sono triplicati passando da 800 milioni a 2,4 mld di cui ben 800milioni di soli interessi ed oneri finanziari. All’atto dell’apertura della direttissima Brescia Milano, parallela alla A4 Milano Brescia, si è scoperto che le tariffe saranno doppie rispetto a quelle già salate di autostrade per l’Italia. Tra abbassare le tariffe per aumentare i volumi di traffico o tenerle alte Brebemi ha scelto la seconda opzione. E cosi anche l’utilità sociale, oltre a quella trasportistica, vengono meno. Con un traffico previsto di 20mila veicoli giornalieri, contro gli 80mila stimati, il Project -financing non poteva che essere “aggiustato” spostando sulla spesa pubblica i maggiori costi e le minori entrate.

Puntuale è arrivata la richiesta al Cipe di Brebemi di defiscalizzazione per 497 milioni di euro e di allungamento della durata della concessione di 10 anni, cioè da 20 a 30 anni. Così verrebbe modificato il Project financing e stravolta le condizioni della gara fatta nel 2007, la stazione appaltante perderebbe ulteriormente di credibilità e ciò spiega il motivo per cui in questi 7 Project -financing che ora chiedono 2,9 miliardi non c’è un euro di una banca straniera. Appalti, cemento, progettazioni di opere nate con questi presupposti daranno benefici scarsi, una sicura ferita all’ambiente e tanto consumo di suolo ma però faranno tanto consenso. Adesso questa politica, se non la corregge Renzi, dovranno pagarla gli italiani. E’ cosi che i Project financing fatti per non gravare sullo Stato finiscono per essere modificati dagli stessi promotori delle opere e subiti (con entusiasmo) dai committenti pubblici Ministero delle Infrastrutture, Anas e Regioni.

Dario Balotta è esperto di trasporti e ambiente

Evoluzione quasi naturale delle politiche su una mobilità meno legata all'auto privata, il nuovo limite di velocità manca però di una indispensabile chiara idea spaziale di riferimento. La Repubblica Milano, 13 luglio 2014, postilla (f.b.)

É il provvedimento con l’impatto più forte sulla mobilità di Milano, dopo Area C: Palazzo Marino vara il progetto di trasformare tutte le strade all’interno della Cerchia dei Navigli in un’unica “Zona 30” in cui, quindi, le auto dovranno viaggiare a bassissima velocità. L’ordinanza è stata firmata venerdì e disegna il percorso che arriverà a completa attuazione entro l’inaugurazione di Expo, anche se una prima partenza è fissata già a inizio 2015. È tanto il lavoro da fare: bisogna far realizzare e sistemare tutti i cartelli che andranno posizionati all’inizio delle vie lungo l’intera Cerchia per segnalare agli automobilisti l’obbligo di rallentare.

Spiega l’assessore alla Mobilità Pierfrancesco Maran che «con questo passaggio il centro diventa a tutti gli effetti una zona a pedonalità privilegiata, sull’esempio di altre metropoli europee». Tradotto, più spazio a chi lo percorre a piedi, in bici o con i mezzi pubblici, scoprendone i suoi tesori artistici e archeologici, spingendo (metaforicamente) sull’acceleratore di un percorso già iniziato con la congestion charge, le isole pedonali, le piste ciclabili. L’obiettivo è anche quello di ridurre il rumore e il pericolo incidenti, come si è visto nelle città in cui i limiti di velocità in centro sono già realtà da tempo.

La filosofia è contenuta lì, in quelle due pagine di ordinanza che l’assessore ha firmato tre giorni fa a nome del sindaco. E che fa nascere la nuova “Zona a velocità limitata”. Perché la circonferenza della Cerchia dei Navigli abbraccia pezzi di città «di pregio dal punto di vista artistico, storico e urbanistico», si legge, da vivere ancora di più a piedi o in bicicletta: da Sant’Ambrogio con il reticolo di vie della Milano romana a Brera, dal «polo attrattivo di fama mondiale» rappresentato dal Quadrilatero della Moda a Corso Venezia che corre costeggiando i giardini, fino ai raggi — corso di Porta Ticinese, corso di Porta Romana, corso Italia, corso di Porta Vittoria — che puntano verso il Duomo, «dove la componente di mobilità pedonale risulta preponderante rispetto alle altre», cita il documento. Un altro strumento che Palazzo Marino ha scelto «per aumentare la vivibilità » e che si affianca alle chiusure vere e proprie ai motori, come l’ultima isola pedonale di piazza Castello. «Questa ordinanza — spiega Maran — certifica quello che sta già avvenendo con i progetti della “Milano Romana” ad esempio, o gli interventi per le piste ciclabili e l’allargamento dei marciapiedi in corso Venezia, e che sarà ancora più evidente durante i sei mesi di Expo: il centro storico è sempre più pedonale ». Non solo centro, però. Il piano complessivo di Palazzo Marino, infatti, prevede che sempre più porzioni di città diventino “Zone 30”. «In questi giorni stanno finendo i la- vori in via Caterina da Forlì e presto partiranno quelli in via Melzo. L’idea è di aprire un cantiere in ogni quartiere», continua Maran. Seguendo una mappa da disegnare negli anni che va dall’Isola a via Washington.

L’ordinanza sul centro storico, dopo gli studi e i progetti accarezzati anche nel piano del traffico approvato l’anno scorso, ora fa scattare la fase operativa. La macchina del Comune può mettersi in moto per organizzare la rivoluzione (dolce) per la mobilità. L’obiettivo, sull’esempio di altre metropoli europee è ridurre la velocità delle auto, il numero e la pericolosità degli incidenti, il rumore. Secondo i dati del Comune, ad esempio, con questo modello a Londra c’è stato un calo degli incidenti del 40 per cento; in Germania la norma è partita dal 1980 e, ormai, le stime dicono che il 70 per cento della popolazione delle grandi città vive in “Zona 30”. Inizialmente, Palazzo Marino aveva ipotizzato di far partire la sua rivoluzione in un’area ancora più vasta, ovvero farla coincidere con la Cerchia dei Bastioni per irrobustire gli effetti della congestion charge.

«Ma in questo momento — è la spiegazione dell’assessore — ci sembra che quelli dei Navigli siano i confini migliori perché sono già quelli di una sorta di Zona 30 naturale». Cosa succederà quando saranno montati i cartelli? In tutte le vie all’interno della Cerchia le auto dovranno viaggiare a 30 chilometri all’ora. Lungo la circonvallazione più piccola non cambierà il limite, così come non saranno modificate le strade già oggi pedonali o riservate a bus e tram. L’ordinanza prevede anche sanzioni: «L’inosservanza è punita ai sensi del combinato disposto de- gli articoli 7 e 142 del vigente Codice della strada», si scrive nel documento. «Ma non ci saranno telecamere o autovelox per dare multe — dice già oggi Maran — . Questo non è un provvedimento per fare cassa, ma per dare una visione di progressiva pedonalizzazione del centro, per responsabilizzare chi si muove in macchina a rispettare chi si muove a piedi. Servirà anche agli stessi progettisti del Comune come un impegno a intervenire in quest’ottica ogni volta che sarà rivisto un incrocio o ridisegnata la viabilità».

postilla


Pare davvero logico, intelligente, consequenziale, che il primo grande spazio in cui applicare quella che a New York e altrove chiamano Visione Zero, ovvero la massima sicurezza stradale garantita dal limite dei 30kmh, sia il nucleo più centrale di Milano. In fondo non stiamo neppure parlando di chissà cosa, al netto della ipersensibilità dei pochi che considerano questa fettina urbana “la città”, se pensiamo che non si chiude un bel nulla, ma semplicemente si riduce di qualche punto percentuale il pessimo vizio di schiacciare troppo l'acceleratore. Non si costruisce neppure un tappo alla circolazione, visto che le auto continueranno a entrare e uscire, solo un po' più lente, e neppure tanto. Ma rispetto a New York e alle altre grandi città della Visione Zero, le lacune (superabili) del piano milanese traspaiono se necessario dal fatto che si senta solo ed esclusivamente la voce del pimpante assessorino a ambiente e mobilità, solo lui. Così come successo in occasione delle Isole Digitali, o del progetto attorno al Castello, pare che tutto ruoti attorno a un'idea sola, mentre invece non è affatto così: che si dice ad esempio dell'indispensabile adattamento spaziale delle carreggiate, degli attraversamenti, dei nodi? Le amministrazioni delle città del mondo pubblicano addirittura dei manuali divulgativi, con tanto di nomignoli per il nuovo tipo di innesto a L con scivolo e aiuola, dove l'auto può curvare e il passeggino attraversare in comodità e sicurezza. Noi niente, solo cartelli, vigili e multe, perché “non è di mia competenza”? (f.b.)

Pare davvero surreale che proprio nei giorni in cui la padania va sott'acqua esattamente per gli eccessi dell'urbanizzazione speculativa a vanvera, il partito dei palazzinari non arretri di un millimetro. La Repubblica Milano, 10 luglio 2014 (f.b.)

Forza Italia e Ncd pronti a stravolgere la legge sul consumo del suolo dell’assessore Viviana Beccalossi. Norme non più retroattive e vincoli solo sui terreni agricoli. Tre anni di tempo per comuni e costruttori per adattarsi alle nuove regole e approvare i progetti attuativi. Una vittoria per il partito dei costruttori. Dopo la nuova legge sui boschi, che aumenta il periodo di tempo in cui è possibile abbattere gli alberi sia in montagna che in pianura senza autorizzazione e il pagamento di compensazioni, il centrodestra che governa la Lombardia è pronto ad abolire le restrizioni previste dal progetto di legge sul consumo del suolo dell’assessore regionale all’Urbanistica e al Territorio Viviana Beccalossi di Fratelli d’Italia approvato dalla giunta lo scorso febbraio. Ora in stallo, ancora in attesa del voto del Consiglio regionale dopo il no di Forza Italia e Nuovo centrodestra a un testo ritenuto eccessivamente penalizzante per la categoria dei costruttori. Dopo una serie di rinvii, un vertice di maggioranza con il governatore Roberto Maroni e una riunione del tavolo di lavoro ristretta solo ai partiti della maggioranza la scorsa settimana, torna riunirsi oggi il tavolo allargato anche agli esponenti dell’opposizione.

Il compromesso proposto da forzisti e alfaniani agli alleati prevede la non retroattività della legge. L’eliminazione dei limiti volumetrici previsti dal testo della giunta per sostituirli con «criteri» per definire di volta in volta il concetto consumo del suolo. Inoltre, i comuni avranno fino a tre anni di tempo per adeguarsi alle nuove regole. Adeguandosi al nuovo piano regionale. Lo stesso limite di tempo concesso ai costruttori per verificare l’attualità dei progetti per le aree di espansione lottizzate a destinazione residenziale e produttiva dove tutto resterà come prima. Il vincolo dello stop al consumo del suolo, di fatto, si applicherà solo ai terreni agricoli. Mentre tutti i progetti già approvati relativi ai centri urbani saranno considerati diritti acquisiti. Novità che di fatto smantellano la rivoluzione promessa dall’assessore Beccalossi, quando aveva illustrato la legge in giunta. Un testo poi rimasto nel cassetto a causa delle divisioni interne nella maggioranza. A cominciare da Forza Italia, preoccupata, secondo alcuni maligni, di non irritare troppo la lobby dei costruttori e in particolare Paolo Berlusconi, fratello di Silvio. Tanto che il provvedimento era stato messo in calendario per la scorsa seduta del Consiglio regionale di martedì, per poi essere rinviato alla prossima del 15. Anche se ormai con ogni probabilità il voto finale slitterà a dopo l’estate. Negli scorsi giorni, però, Ncd e Forza Italia avrebbero incontrato sia Maroni che l’assessore Beccalossi proponendo una mediazione. Il tavolo di lavoro oggi dirà se la quadra è stata trovata realmente. Il capogruppo di Forza Italia Claudio Pedrazzini è fiducioso.

Nel frattempo, l’opposizione di centrosinistra alza il tiro. Il presidente del tavolo di lavoro Agostino Alloni del Pd ha già minacciato di dimettersi se oggi non arriverà un testo. Il movimento Cinque stelle, al contrario, fa sapere che resterà. «Sul consumo del suolo basta melina — dichiara il grillino Gianmarco Corbetta — l’esondazione del Seveso è solo l’ultimo esempio dei danni ai quali ha portato la totale anarchia nella cementificazione in Lombardia».

A furia di pensare i flussi di mobilità in modo meccanico e sconnesso rispetto alla qualità degli spazi, dei soggetti, dei comportamenti, si combinano un sacco di evitabili guai. Due aspetti diversi da due articoli di Ivan Berni ( la Repubblica) e Marta Ghezzi (Corriere della Sera Milano), 6 luglio 2014 (f.b.)

la Repubblica
CHE AVVENTURA RISPETTARE I LIMITI
di Ivan Berni


Fra le notizie, diciamo così minori, delle ultime settimane mi ha particolarmente colpito quella del numero delle multe per eccesso di velocità «prodotte» dai nuovi sette autovelox installati da Comune e Prefettura lo scorso 10 marzo. Sono 9000 infrazioni al giorno, di cui 4349 inflitte ai trasgressori del limiti sul Cavalcavia Ghisallo. Per chi non lo sapesse, il cavalcavia Ghisallo è il grande raccordo che porta alle autostrade dei Laghi e alla Milano Venezia. Siccome sono fra chi percorre, un paio di volte al mese, quel raccordo — e dato che mi è quasi certamente capitato, senza accorgermene, di violare i limiti — mi sono impegnato in una prova di autodisciplina: rispettare rigorosamente la segnaletica, senza sgarrare di un solo chilometro rispetto alle indicazioni. Sono sopravvissuto, ma ho corso il rischio di essere travolto da un paio di camion, da una decina di furgoni e da un numero incalcolabile di auto. Nessuno andava piano come me. Sono stato sorpassato da sinistra e da destra — e strombazzato — da camioncini carichi di macerie, compattatori dell’Amsa, una Panda con quattro suore e persino da un carro funebre. La quantità di contumelie, insulti, esibizioni di dito medio e vaffa assortiti la lascio, facilmente, immaginare a chi legge.

È stata una pessima e pericolosa avventura perché chi ha posizionato gli autovelox — segnalati, è vero, da appositi (ma piccoli) cartelli — se ne è allegramente sbattuto di «armonizzare » la segnaletica verticale (sui pali) e orizzontale (sulla strada). Sicché imboccando viale De Gasperi, che precede l’inizio del Cavalcavia Ghisallo vero e proprio, i cartelli indicano un limite di 50 all’ora, mentre sulla carreggiata è dipinto un limite di 70 chilometri orari. Quando inizia la rampa ecco apparire i cartelli con i 70 all’ora, ma un centinaio di metri più avanti — mentre le corsie disponibili per senso di marcia sono quattro, come in una highway di Los Angeles — ecco ricomparire nuovamente un limite di 50 all’ora. Poco dopo si torna a 70, ma è un’illusione che dura un attimo, perché in corrispondenza di una immissione da destra tornano in vigore i 50. La tortura dura all’incirca tre chilometri e l’automobilista ligio alle regole ne esce con una doppia convinzione: non ripetere mai più l’esperienza per non subire un tamponamento rovinoso e che anche a Milano i limiti di velocità, come più in generale le regole in Italia, funzionano, per così dire, a la carte. A seconda della convenienza di chi li impone. Non sappiamo, infatti, quante delle 4349 infrazioni quotidiane registrate sul «Ghisallo » vengano realmente perseguite. Sappiamo, però, che chi si propone di non violare le regole lo fa a suo rischio e pericolo.

Per uscirne basterebbe stabilire un limite unico — i 70 all’ora citati dagli assessori al momento della messa in servizio degli autovelox, (ma perché non i 90 all’ora di qualsiasi strada provinciale a due corsie?) — togliere la segnaletica verticale contraddittoria e, magari, mettere un pannello a segnaletica variabile all’imbocco del cavalcavia con una indicazione chiara. E a quel punto punire severamente chi sgarra. Gli automobilisti ligi, ma anche quelli discoli, ringrazierebbero. E comincerebbero a pensare che i limiti di velocità, nelle strade urbane di grande scorrimento, non sono un trucco per far cassa. Ma sono un provvedimento sensato, che serve alla sicurezza di tutti.

Corriere della Sera
UNA CITTà A MISURA DI TUTTI
di Marta Ghezzi


I conti sono stati fatti partendo da dati concreti. Nelle ultime edizioni di Expo i visitatori con disabilità erano 800 mila. La differenza, questa volta, la farà la crisi. Ma secondo le associazioni di settore, «Nutrire il Pianeta, Energia per la vita» attirerà il prossimo anno almeno 300 mila disabili. All’inizio di Expo mancano 300 giorni. Pochi per mappare l’accessibilità del capoluogo lombardo, sufficienti per testare una decina di percorsi «sensibili». Itinerari ad alto tasso di interesse artistico-culturale, arterie dello shopping, zona del nuovo skyline che devono dimostrarsi friendly con chi ha mobilità o vista ridotta.

In un pomeriggio di sole, Marco Rasconi, presidente Ledha, ne verifica uno. E mentre da piazza Duomo si avvia verso la Loggia dei Mercanti, lancia subito una proposta. «Quando c’è carenza di risorse bisogna mettere in campo tutte quelle disponibili — dice —. La mappatura è un’operazione complessa, che richiede tempo ed energie: perché non coinvolgere Università e scuole superiori? Sarebbe anche un modo indiretto per creare cultura sulla disabilità». Parla e intanto le ruote della carrozzina faticano sul pavé. «È un problema, ovviabile asfaltando o rendendo piani i soli attraversamenti pedonali».

Lungo i marciapiedi del centro gli scivoli sono onnipresenti (anche se di frequente occupati da mezzi con le quattro frecce accese), e il percorso non risulta difficile. Il problema sono i negozi: un gradino di 3-4 centimetri è sempre presente, spesso anche più alto. «Un brutto biglietto da visita, a pochi passi dal Duomo», riflette Rasconi. È solo cattiva volontà: basterebbero piccole pedane». Poca sensibilità e zero spirito pratico. Mohamed Baidi, studente di Economia in Cattolica, ferma la carrozzina davanti all’insegna di una toilette per disabili di un bar. «Ma come la raggiungo se è in fondo a una rampa di scale?», osserva divertito. Abituato a girare sui mezzi pubblici, aspetta un tram con pedana estraibile. Salita perfetta, discesa rocambolesca: il pulsante per l’autista è rotto, bisogna affidarsi agli altri passeggeri, rischiando di non scendere in tempo. «Sono abituato — commenta — abito a Qt8, ma la prima fermata di metrò accessibile è Amendola, la distanza la copro in carrozzina».

Anche l’Unione Italiana Ciechi ha risposto all’appello del Comune sulla mappatura. Franco Lisi, referente Commissione Autonomia Lombardia, e Francesco Cusati, delegato Tavolo tecnico Expo, affrontano il percorso da via Vivaio ai Giardini di Porta Venezia. Si muovono rapidi, evitando angoli e ostacoli. «Non sarà così per chi viene per la prima volta», chiariscono. La riflessione davanti alle strisce pedonali di via Cappuccini. Un punto pericoloso: la curva del marciapiede, non in asse con le strisce, invita a una discesa sbagliata. «Gli attraversamenti sono la criticità: dovrebbero essere sempre indicati con l’apposito codice tattile a terra, in colore contrastante per gli ipovedenti», rilevano. Stesso problema per il semaforo. In corso di Porta Venezia mancano guide tattili a terra: affidarsi all’intuito? Fermare un passante? «Si pensa che il dispositivo sonoro risolva tutto, ma per attivare il pulsante di chiamata devo prima raggiungere il semaforo». Intanto fioriere, cartelli pubblicitari, moto, costringono chi cammina con il bastone a uno zig zag continuo e improvviso. Nuovo pericolo a pochi passi dall’ingresso del parco.

C’è la ciclabile, ma come scoprirlo? «Le bici sono mezzi silenziosi e veloci: è fondamentale segnalarne il passaggio». Nello stesso momento, Guido Marchetto e Paolo Parimbelli testano l’accessibilità nella nuova zona di Porta Garibaldi. E provano a individuare la fermata di un mezzo pubblico. Impossibile, senza un aiuto. «Basterebbe poco: guide a terra e segnalazione sonora, come all’estero», dicono. Expo è oramai dietro l’angolo, ma potrebbe essere il punto di partenza.

Ogni tanto, quando il mitico mercato pare proprio non funzionare affatto, soprattutto nelle mani dei monopolisti, anche i cristallini liberali se ne accorgono. Corriere della Sera, 5 luglio 2014 (f.b.)

Come molti, anche io, a suo tempo, ho salutato con favore il nuovo corso delle Ferrovie inaugurato dall’ingegner Moretti e simboleggiato dall’Alta Velocità. Mi pare però, che alla lunga l’ansia sacrosanta di stare sul mercato, di avere bilanci in ordine e di ottenere utili, stia facendo perdere di vista alle Ferrovie medesime altri obiettivi non meno importanti. Per esempio quello di non deturpare parti importanti del patrimonio artistico-culturale del Paese: e cioè le stazioni, alcune stazioni ferroviarie.

Il desiderio di fare soldi comunque, a qualunque costo, infatti, sta inducendo da tempo la società di Fs che si occupa di tale settore a trasformare in altrettanti centri commerciali intasati di box e chioschi orribili, dediti alla vendita di ogni cosa, stazioni come quella di Roma, di Milano, di Firenze, che costituiscono pezzi importanti della storia dell’architettura italiana. Con l’inspiegabile beneplacito degli organi statali di vigilanza, opere di pregio — talora di altissimo pregio come la stazione di Michelucci a Firenze — vengono trasformate in squallide caricature di shopping center di periferia.

Un solo esempio macroscopico che dura da anni: nell’atrio d’ingresso della stazione Termini di Roma la possibilità voluta dal progettista che da una grande parete a vetri laterale si vedesse uno dei pochi tratti sopravvissuti della più antica cerchia di mura della città (le mura serviane) è stata brutalmente cancellata. Tutto quel lato, infatti, oggi è oscurato da un grande magazzino. E più o meno è così in molti altri posti. Infischiandosi di tutto quanto non sia il loro guadagno le Ferrovie che ancora si dicono (e sono) dello Stato stanno alterando gli equilibri volumetrici, i rapporti spaziali, il disegno, le prospettive visive, di manufatti spesso insigni della nostra vicenda culturale.

Cioè in pratica li stanno distruggendo. E in questo modo stanno anche rendendo impossibile in molte stazioni l’attesa dei passeggeri, costretti per la presenza di box e chioschi commerciali in spazi comuni sempre più piccoli, privi della possibilità di accomodarsi nei pochi sedili a disposizione, costretti in piedi per decine di minuti, stipati come un gregge.

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