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Ecco per chi appesantiamo le nostre città, devastiamo i nostri paesaggi, peggioriamo le nostre condizioni di vita , cediamo i nostri poteri di decisione, rendiamo più amaro il future dei nostri figli (e nipoti). La Repubblica, 27 febbraio 2015

La Hines sgr, guidata da Manfredi Catella, ha annunciato la transazione: passa di mano il 60% dei nuovi palazzi che costellano la zona tra il quartiere Isola e la nuova sede di Unicredit. Il valore commerciale dell'area è di 2 miliard

I grattacieli di Milano passano in mano agli emiri: il fondo sovrano del Qatar diventa il proprietario unico di Porta Nuova, l'area del capoluogo lombardo dove sono sorti numerosi nuovi grattacieli. Lo ha annunciato in conferenza stampa Manfredi Catella, a capo di Hines sgr. "È il padrone di casa", ha aggiunto, spiegando che il fondo controllava il 40% ed è salito al 100%. "Una delle transazioni più importanti degli ultimi tempi", l'ha definita ancora Catella.

Il fondo emiratino subentra quindi agli investitori iniziali: Hines, Unipol Sai, ed i fondi Mhrec, Hicof, Coima e Galotti. L'entità dell'investimento non è stata resa nota: l'area oggetto del progetto di riqualificazione comprende tutta l'area attorno a Porta Garibaldi, e nel suo complesso i 25 edifici hanno un valore di mercato di oltre 2 miliardi. "Gli investitori in Porta Nuova hanno guadagnato il 30%", ha detto Catella. "E' una delle transazioni più importanti a livello europeo - ha infatti aggiunto - ci sarà in futuro la possibilità di un ingresso di altri fondi sovrani in posizione di minoranza


Porta Nuova comprende 25 edifici tra cui la torre che ospita la sede di Unicredit, ed il cosiddetto 'Bosco Verticale' che è già stato venduto al 65%. La parte residenziale di Porta Nuova comprende 380 unità abitative in 13 edifici. Tra le società che già hanno scelto Porta Nuova come sede ci sono: Nike, Google e molte griffe della moda. Hines Italia Sgr continuerà a gestire i fondi d'investimento di Porta Nuova, property e project management invece sarà gestita da Coima della famiglia Catella.

«Il condono compie 30 anni. Cresme: dal ’94 a oggi costruiti 362mila nuovi alloggi. Il 70% fuori dalle aree più popolate. E sui Comuni pesano oneri doppi di quanto lo Stato riesce a incassare». Il Fatto quotidiano, 27 febbraio 2015

A trent’anni dal primo condono edilizio, i conti non tornano. Né dal punto di vista ambientale né da quello economico. Tre sanatorie, la prima nel 1985, le altre nel 1994 e nel 2003, hanno portato allo Stato solo 16 miliardi di euro, facendo sempre registrare entrate al di sotto delle aspettative. Nel 1985 l’erario ha riscosso il 58% del gettito previsto, nel 1994 il 71%, nel 2003 addirittura il 34%.

Ad ogni costo


Ecco una delle sorprese che spunta da un rapporto del Cresme, il Centro Ricerche Economiche Sociali di Mercato per l’ Edilizia e il Territorio, sui condoni varati per sanare l’abusivismo edilizio. Un rapporto ricco di cifre e curiosità che offre anche uno spaccato impietoso sui costi che l’Italia ha dovuto sopportare in termini economici e di devastazioni ambientali. Si scopre per esempio che ammontano a circa 362.000 le case abusive realizzate dal 1994 ad oggi. Di queste, solamente il 30% è stato costruito in aree densamente edificate e già attrezzate da un punto di vista urbanistico. Il restante 70% si è sviluppato invece in aree di scarsa densità e prive dei servizi necessari. Da qui un duro salasso per le casse pubbliche. La spesa media che glienti locali hanno dovuto affrontare per i costi di urbanizzazione (fogne, acqua, strade, eccetera) è stata infatti di 24.000 euro per ogni abitazione, per un totale di 8,7 miliardi di euro a fronte dei 4 miliardi di oneri pagati dai proprietari. Chi decideva di mettersi in regola, infatti, sosteneva in media una spesa che si aggirava intorno agli 11.000 euro. Si è avuto, dunque, undisavanzo per alloggio pari a 13.000 euro per un totale di 4,7 miliardi. Ma non basta. Dallo studio si scopre pure che se lo Stato, invece di condonare, avesse semplicemente proceduto multando gli abusivi e abbattendo le costruzioni irregolari avrebbe facilmente e semplicemente incassato 5,1 miliardi di euro.

Colata a picco


Anche nel 2003 il condono edilizio si è rivelato un pessimo affare per i Comuni: a fronte di un importo medio di 15 mila euroversato per il singolo abuso, gli enti locali ne hanno spesi in media 100 mila per portare strade, fognature e altre infrastrutture. Questo per i condoni storici. Ma attenzione, anche successivamente gli italiani hanno continuato a costruire illegalmente. Tra il 2003, anno dell’ultima sanatoria, e il 2011, il Cresme ha censito la cifra record di 258 mila nuove case abusive, per un giro di affari illegale che, secondo una stima di Legambiente, si aggira intorno ai 18,3 miliardi di euro. Arrivando a tempi più recenti, nel 2013, tra case realizzate ex novo e ampliamenti di volumetria in immobili preesistenti, sono stati invece calcolati 26 mila nuovi abusi. Una cifra che rappresenta oltre il 13 per cento del totale delle nuove costruzioni. A questa colata di cemento fuorilegge si deve poi sommare il vecchio abusivismo, quello precedente al 2003 e non più condonabile.

Cemento selvaggio


Altra pagina inquietante del rapporto Cresme -che verrà presentato oggi in un convegno promosso dal Movimento 5 Stelle(“Trent’anni dal primo condono, un anno di sblocca Italia: che fare?”) -quella relativa ai cosidetti “condoni dimenticati”, ossia i casi legati a tutte le pratiche giacenti negli uffici tecnici dei Comuni italiani e in attesa ancora di essere esaminate. Sommando le tre sanatorie (1985, 1994 e 2003) nei capoluoghi di provincia italiani sono state depositate 2.040.544 domande di regolarizzazione, di cui ben il 41,3% risulta ancora oggi inevaso. Con il rischio che finiscano sul mercato, in vendita o in affitto, abitazioni che potrebbero, invece, essere destinate all’abbattimento. “L’Italia è l’unico Paese in Europa che ha miseramente delegato al privato il governo del territorio con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti -accusa Claudia Mannino, deputata del M5S -Purtroppo si è fatto ricorso ai condoni soprattutto per fare cassa”. Con un ultimo rimpianto della portavoce grillina: “Perché il governo di Matteo Renzi non ha approfittato del semestre europeo per rilanciare la grande partita della salvaguardia del suolo?”.

«Prima deturpa il territorio, poi intasa le aule dei tribunali. “Bisogna dare ai Comuni un tempo limite”». Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2015



È un’emergenza silenziosa, trascurata, ma imponente, che prima deturpa il territorio, poi intasa le aule dei tribunali: Tar, magistratura ordinaria e persino la scrivania del Capo dello Stato. A distanza di oltre 12 anni dall’ultimo condono edilizio, si continua a costruire abusivamente (26mila nuovi immobili l’anno, stima 2013 del centro studi Cresme), mentre poco o nulla si abbatte (500 demolizioni in media all’anno nei capoluoghi di provincia, stima Legambiente). L’associazione ambientalista ha calcolato che solo una su dieci delle ordinanze di demolizione di immobili abusivi va effettivamente a buon fine: delle 46.760 ordinanze emesse dal 2000 al 2011 (ultimo censimento disponibile) nei capoluoghi di provincia solo 4.956 sono state portate a termine.

E non per un problema di mezzi: i soldi non mancano. Alla Cassa depositi e prestiti risulta utilizzato solo per il 55% il Fondo per la demolizione delle opere abusive. Dal 2004 a disposizione dei sindaci ci sono 50 milioni, su un Fondo rotativo che anticipa tutte le spese con commissioni minime da restituire al recupero dei costi o comunque entro cinque anni. «Dopo un primo rodaggio, ora lo strumento è conosciuto - sottolineano da Cdp - e utilizzato soprattutto dai piccoli Comuni del Sud, per un importo medio di 509mila euro». Ma in proporzione rispetto al fenomeno i numeri sono infinitesimali: solo 120 domande nel 2014, la metà l’anno precedente.

A mancare non sono neanche gli uomini: risale al lontano 2009 la convenzione tra ministero dei Beni culturali e della Difesa per usare l’esercito nella lotta all’abusivismo. Ebbene, a distanza di sei anni dall’intesa - fanno sapere dai Beni culturali - «non si è ancora data concreta attuazione, sebbene sia formalmente in essere». Come dire: neanche un mattone è stato portato via dai nostri militari. Ma sempre il Mibact si difende: «A bloccare non è l’inerzia del ministero, bensì i tempi dei procedimenti giudiziari». S

piega Francesco Scoppola, a capo della direzione Belle arti e paesaggio: «Le demolizioni sono molto rare, non tanto perché mancano i fondi o i mezzi, quanto perché non è facile giungere fino all’esito giudiziario definitivo». E aggiunge: «La materia, infatti, è giuridicamente molto complessa, con tante strade processuali a disposizione di chi ha commesso gli abusi e vuole resistere all’applicazione delle norme di tutela».

I ricorsi

In effetti a portata di mano dell’abusivo ci sono più percorsi, fuori e dentro i tribunali. Oltre ai Tar (si veda l’articolo a fianco) e alla magistratura ordinaria, c’è anche l’insolita strada del ricorso straordinario al Capo dello Stato che, visti i numeri, di straordinario non ha più nulla. Basta infatti un’istanza in carta semplice al presidente della Repubblica per mettere in moto una complessa macchina amministrativa e giudiziaria e tenere in scacco le ruspe per anni. Lo hanno capito in molti: a oggi sono più di 13mila i ricorsi straordinari censiti nel Conto annuale delle infrastrutture, relativi al condono edilizio. Tremila solo negli ultimi tre anni. Una valanga che ha travolto gli uffici del ministero delle Infrastrutture: basti pensare che per vagliare la legittimità di ogni domanda occorre svolgere un’istruttoria in contraddittorio con il Comune, preparare una relazione firmata da un sottosegretario e inviarla al Consiglio di Stato.

Quest’ultimo, a sua volta, emette un parere che il presidente della Repubblica recepisce formalmente con un decreto. «Per definire una pratica servono anni», spiegano dalle Infrastrutture. Tempo prezioso per ogni abusivo, che nel frattempo vede sospesa la demolizione.

Del resto, per bloccare gli abbattimenti basta la semplice domanda di condono, che rende anche il peggiore degli abusi potenzialmente sanabili fino al “no” (di fatto non basta il silenzio assenso). «In attesa di esame formale c’è ancora il 60% dei 2 milioni di istanze di condono presentate - spiega Laura Biffi, responsabile dell’Osservatorio legalità per Legambiente. Che propone: «Bisogna dare ai Comuni un tempo limite». Scadenze certe e sanzioni che possono arrivare fino allo scioglimento del Comune che non rispetta il piano di demolizioni annuali sono il perno del disegno di legge sulla demolizione presentato nel 2013 dal presidente della Commissione ambiente della Camera, Ermete Realacci. Ma il Ddl non è mai stato esaminato.

Nella sola Milano sono in vendita immobili per una superficie fondiaria equivalente a cento campi da calcio. E così a Roma, Firenze, Torino e Napoli. Ecco la mappa degli sprechi. Il Fatto quotidiano, 23 febbraio 2015

Nella sola Milano sono in vendita immobili per una superficie fondiaria equivalente a cento campi da calcio. A fronte di tanto patrimonio in eccesso, si spende un milione di euro l’anno per ospitare il "rappresentante del governo" nel prestigioso Palazzo Diotti. E così a Roma, Firenze, Torino e Napoli. Ecco la mappa degli sprechi

Nella sola Milano il governo conta di vendere caserme per unasuperficie fondiaria equivalente a cento campi di calcio. E tuttavia, a fronte di tanto patrimonio in eccesso, non rinuncia a spendere un milione di euro l’anno per affittare Palazzo Diotti, il monumentale edificio in Corso Monforte che nel 1803 fu scelto da Napoleone in persona per insediare il suo Regno D’Italia. Cortile d’onore, giardino gentilizio, i colonnati e gli affreschi dell’Appiani ne fanno uno fra i più prestigiosi del centro storico. Da 156 anni questo gioiello è il “Palazzo del Governo”, la sede della locale Prefettura. E da lì, nessuno la schioda. A Roma, del resto, sono sei le caserme oggetto di “valorizzazione” a fronte di quattro milioni di euro che ogni anno vengono versati per affittare due immobili in centro con la funzione di uffici territoriali del governo. Città che vai, paradossi che trovi.

Se però si prende l’elenco dei beni pubblici in vendita (scarica) e lo si incrocia con la lista dei 150 che il governo affitta a privati(scarica), il paradosso diventa un assegno da 30 milioni di euro che ogni anno vola letteralmente fuori dalla finestra delle Prefetture. Quasi mai per motivi logistici e funzionali, quasi sempre con la causale della “rappresentanza di governo” che tiene fuori dai portoni la “razionalizzazione” della spesa e pure il buon senso dell’uomo comune, quello che ha portato il 78,2% delle famiglie italiane a fare enormi sacrifici per avere una casa di proprietà anziché buttare i soldi in un affitto. Ecco, lo Stato fa l’esatto contrario: pur avendo patrimonio da vendere ne affitta altro, a peso d’oro.

Guai poi a chi alza la testa e mette il dito nella piaga. Se un sindaco prova a sfrattare il prefetto fa subito notizia. Succede a Grosseto, dove il primo cittadino, ormai “commissario liquidatore” della Provincia, ha proposto di salvare i conti dell’ente vendendo lo storico palazzo in piazza Fratelli Rosselli. Potrebbe fruttare sei milioni di euro, se solo prefetto e funzionari si “accontentassero” del nuovo e grandissimo palazzo della Questura, che appartiene al Tesoro e dunque non richiederebbe alcun affitto. L’epilogo è tutto da scrivere, ma Grosseto potrebbe diventare un caso di scuola e l’occasione per mettere in discussione la pretesa dei prefettizi di stare in centro a carico dei contribuenti italiani che varcano quei portoni solo per gentil concessione il 2 di giugno, in occasione della Festa della Repubblica. Firenze, Milano, Torino, Roma e Napoli. Ecco una carrellata di situazioni surreali.

Caserme, riparte il carosello della vendita
La premessa è che sono 25 anni che governi d’ogni colore carezzano l’idea di fare cassa col mattone, a partire dalle fantomatiche caserme che l’abolizione della leva e la riduzione dei corpi militari ha reso gusci vuoti dentro le città. A ogni curva di finanziaria l’esecutivo di turno rimette in ballo una giostra di liste e ambiziosissimi programmi di vendita, con risultati finora alquanto modesti. Anche il governo Renzi ci prova con 1.500 immobiliritenuti non necessari dai quali prevede di incassare 220 milionidi euro quest’anno e 100 nel 2016. L’operazione è affidata alle cure del ministro della Difesa Roberta Pinotti che ha istituito una task force e predisposto un decreto per facilitare il processo di dismissione in tutto il Paese. Da allora sono partite girandole ditavoli tecnici e si sono sottoscritti protocolli d’intesa con cinque grandi comuni italiani. Come andrà a finire si vedrà. Ma quel che è certo è che se si prende l’elenco delle dismissioni annunciate e gli si sovrappone quello dei canoni di locazione pagati dal Viminale nelle stesse città, ci si rende conto della contraddizione di questo Monopoli che si gioca con soldi veri e pubblici.

Il paradosso parte proprio da Firenze
E’ simbolicamente partita da Firenze, manco a dirlo, l’operazione del governo Renzi. Già da sindaco premeva per vendere le caserme dismesse ma diventato premier ha premuto l’acceleratore. Così il 3 aprile 2014, a pochi giorni dall’insediamento, il ministro Pinotti, il neo sindaco Dario Nardella e l’Agenzia del Demanio hanno sottoscritto un apposito protocollo d’intesa. Ancora non si è venduto nulla, ma quel che conta è che tra i contraenti non ha trovato posto l’idea di tenersi un angolo del patrimonio per metterci gli uffici del Prefetto. Eh sì, perché la Prefettura di Firenze di sedi ne ha due:dal 1876 l’ufficio di gabinetto è ospitato nello storico Palazzo dei Medici Riccardi, gli uffici amministrativi sono in via Antonio Giacomini. Per le due locazioni lo Stato ogni anno paga, rispettivamente, 883mila euro e 435mila. E dire che le 15 caserme fiorentine non sono poi da buttare: alcune sono sottoposte a vincolo della Soprintendenza ai Beni Culturali perché dichiarate di pregio storico e architettonico. Redi, San Gallo, Perotti, Ferrucci e Cavalli… ce ne sono anche certe dislocate nel cuore della città. Ma neppure questo basta a far scattare la scintilla dell’opzione più economica: un trasloco negli stabili di proprietà al posto di un affitto che costa 1,3 milioni di euro l’anno.

Milano, si diceva. A novembre si è svolto l’ultimo tavolo tecnico ministero-comune-Demanio per mettere a punto il piano che dovrebbe portare alla cessione di tre caserme: due sono a Baggio, zona sud, la terza è la storica “Mameli” nell’area nord del capoluogo. Insieme fanno una superficie fondiaria di 720mila metri quadri equivalente a 50 volte Piazza Duomo, cento campi da calcio. Vuoi non trovare uno spazio per metterci gli uffici della locale Prefettura? Nessuno, a quanto pare, ci ha pensato. E così mentre la Difesa dismette, il Viminale spende. Fino all’anno scorso erano due milioni di euro per affittare sia il cinquecentesco Palazzo Diotti al 31 di Corso Monforte, proprietà della Provincia, sia il civico 27 di proprietà di un privato. “Due mesi fa abbiamo dato la disdetta dal 27 e il personale si è trasferito tutto nella sede principale”, fanno sapere dalla Prefettura. A conferma del fatto che di spazio, forse, ce n’era in abbondanza. Ma da quanto c’era la doppia sede? “Da quando sono qui c’è sempre stata”, dice la funzionaria. Difficile allora calcolare per quanti anni l’assegno è stato doppio.

Più paradossale ancora la situazione nella Capitale. Il 7 agosto 2014 è stato sottoscritto il protocollo tra gli enti interessati. L’elenco mette insieme tre caserme (Ulivelli, Ruffo e Donato) lo Stabilimento Trasmissioni Polmanteo, la Direzione magazzini del Commissariato, la Forte Boccea e l’area adiacente. Ma sempre a Roma il Ministero guidato da Alfano affitta come sede prefettizia il sontuoso Palazzo Valentini di via IV novembre alla modica cifra di due milioni di euro l’anno. A incassarli è la Provincia di Roma che ne è proprietaria dal 1873. Una partita di giro tra amministrazioni. Ma c’è anche l’Ufficio territoriale del governo divia Ostiense che fa sempre capo alla Prefettura e che in locazione costa all’amministrazione degli Interni un altro milione e mezzo di euro. Perché non usare le caserme vuote che non si riescono a vendere e magari liberare i ben più prestigiosi e appetibili gioielli di famiglia? L’opzione avrebbe tanto più senso considerati i costi di affitto che il ministero di Alfano sostiene per gli uffici dell’amministrazione centrale: i più costosi sono quelli di via Cavour 5 e 6 che costano 7 milioni di euro l’anno. Ma chi l’ha detto che si debba stare a due passi dal Colosseo e dai Fori imperiali? A seguire quelli al civico 45/a di via De Pretis che vien via, si fa per dire, a 1,6 milioni.

Passiamo a Torino. Nel paniere delle vendite sono finite le casermeCesare di Saluzzo, La Marmora, la Sonnaz, il Magazzino dell’artiglieria e difesa chimica. A novembre si è svolta la conferenza dei servizi per la verifica di assoggettabilità alla Valutazione ambientale strategica (Vas) dei sedimi militari. Ma nessuno che abbia alzato un dito per prospettare il trasferimento in uno di quegli edifici degli uffici della Prefettura che in locazioni bruciano oltre400 mila euro l’anno per garantire un affaccio in Piazza Castello e via del Carmine.

Si poteva fare di più o diversamente? Sì, e lo dimostra il casoNapoli. Nel capoluogo campano tutti i soggetti interessati sono finiti al tavolo del Monopoli. Il risultato è un incastro un po’ complicato che attesta, quantomeno, lo sforzo comune di ridefinire la destinazioni d’uso secondo una logica funzionale. Il Comune di Napoli riceve a titolo di permuta il trasferimento in proprietà dell’edificio residenziale di via Egiziaca a Pizzofalcone, che appartiene allo Stato. In cambio, lo Stato riceve la caserma “Nino Bixio” di proprietà del Comune che veniva utilizzata dal ministero degli Interni per ospitare il IV Reparto mobile della Polizia di Stato. Il Ministero dell’Interno, a sua volta, riceve ad uso governativo la caserma “Boscariello” finora usata dall’Esercito e lì metterà i reparti della “mobile”. Infine, la Difesa si prende la Bixio per aumentare lo spazio della Scuola militare “Nunziatella”. Manca qualcuno? Sì, la Prefettura che non tocca palla. Nel 2014 ha pagato1,3 milioni di euro per stare ai civici 8 e 22 della centralissimaPiazza del Plebiscito che è una delle più grandi e belle d’Italia. Difficile, del resto, trovare una location altrettanto prestigiosa per onorare il rappresentante del Governo.

«Da Istat e ministero delle Finanze identikit delle abitazioni: 116 metri quadri, quattro stanze, 80% di proprietà. Spazi più ampi e confortevoli rispetto a dieci anni, famiglie meno numerose. Per chi non può permettersi proprietà né affitto privato, un’altra storia». La Repubblica, 22 febbraio 2015

La casa degli italiani - la casa privata, di proprietà - è sempre più grande e confortevole. E ha sempre meno cucina: deve lasciare spazio al soggiorno, nuovo centro del vivere interno. Per i fornelli è sufficiente un angolo cottura, in cucina non serve più abitarci. Soprattutto, le abitazioni (private) degli italiani sono in continua crescita. I “730” del 2013, ultimi analizzati dal ministero delle Finanze, dicono che a catasto sono inserite più unità immobiliari di quanta popolazione sia iscritta all’anagrafe: 60 milioni e 217mila pezzi quando i residenti, in Italia, nel 2012, erano 59 milioni e 394 mila. Di questi accatastamenti (cinque milioni in più in cinque anni), 33 milioni e 481mila sono abitazioni a uso residenziale, uno stock impressionante. Il resto, sono box e pertinenze. Il rapporto numerico dice che c’è un appartamento intero a disposizione di ogni italiano virgola 56. In un anno - 2011 su 2012, piena crisi economica - sono state costruite o sono emerse un milione e 100mila abitazioni in più. Gru e impastatrici non si fermano, e così l’anelito degli italiani: la casa.

Ecco, il 76,6% delle famiglie vive in un’abitazione di proprietà, dice il Mef. Al Sud si supera l’82 per cento. E l’abitazione in media, sorprendente, è larga 116 metri quadrati. Nell’immaginario immobiliare italiano ci sono i bilocali metropolitani per coppie, o per famiglie con un bambino: tutti stipati in un fazzoletto, ci si racconta. Ma i dossier statistici dicono che nell’Italia delle città medio-piccole, della provincia, delle molte seconde case, in verità le metrature si allargano.
In Umbria le abitazioni arrivano - è la media - a 133 metri quadrati, in Friuli e Veneto a 132. Visto che le nostre famiglie si assottigliano ma in cifra generale aumentano (sono passate da 21 milioni e 811mila nel 2001 a 26 milioni e 612mila nel 2011), cresce anche lo spazio a disposizione di ogni persona: 40,7 metri quadrati. Era di 36,8 metri dieci anni prima. Il dato che fa comprendere come gli italiani a casa loro stiano larghi è questo: su oltre 12 milioni di edifici residenziali quelli con un solo numero interno (uno stabile, un appartamento) sono più della metà: 6 milioni e 300mila. Quelli con più di dieci interni sono solo 455 mila, meno del 4 per cento. Significa che villette e appartamenti unici sono dodici volte più diffusi dei grandi palazzoni metropolitani.
I dati dell’Agenzia delle Entrate, presentati alla Camera la scorsa settimana, s’incrociano e incontrano con quelli prodotti tra giugno e agosto del 2014 dall’Istat con un ponderoso lavoro di tre anni sul censimento 2011 della popolazione (e delle sue case). Si scopre che un terzo dei cittadini italiani vive in quattro stanze, un quinto in cinque stanze, un sesto in appartamenti con più di sei stanze. Ecco, sono solo il 12 per cento i residenti compressi in mono e bilocali.
Gli studi certificano, poi, che la civiltà ha raggiunto davvero tutti. Il 99,9% delle case ha almeno un gabinetto: sono rimaste fuori solo 33mila residenze. Il 99,4% accoglie almeno una doccia o una vasca. Il 98,3% è servito dall’acqua potabile (si scende di cinque punti nelle Isole), il 96,8% è raggiunto dalle tubature di un acquedotto. Sì, il 99% delle abitazioni italiane conosce l’acqua calda, anche in campagna, anche in montagna. Sette volte su dieci con lo stesso impianto si possono riscaldare sia le camere che i rubinetti (si sale all’85,6% nel Nord-Est, si crolla al 35,5% nelle Isole). Sei residenze su dieci hanno un solo gabinetto, ma la quota di appartamenti con il secondo e terzo bagno è cresciuta del 27,1% sul 2001 (+29,6% al Sud).
Dicevamo la cucina, segno delle scelte architettoniche e di comfort degli italiani. È vero che tre quarti delle abitazioni del paese hanno una cucina abitabile, ma sono 2,3% in meno rispetto al 2001. Anche il cucinino, sottrazione per le case più piccole, è in decrescita dell’1,9% negli ultimi dieci anni. Poiché far da mangiare è necessario, si abolisce il vecchio schema per insediare un angolo cottura (+7,9%) che consente al soggiorno di avanzare nelle case moderne. In Valle d’Aosta e nella Provincia di Trento un quarto delle case è ormai dotato solo di angolo cottura, elemento che invece non decolla in Sicilia (5,3%), Puglia (7,5%) e Calabria (8,2%).
Dal 1971 al 2011 le abitazioni occupate sono passate da 15 milioni e 301mila a 24 milioni e 141mila per crescere ancora l’anno successivo. Le costruzioni non si fermano, e questo nonostante il 22,7% degli appartamenti sia vuoto o occupato da non residenti. Il fenomeno non può che svalutare il patrimonio degli italiani. Oggi una casa in Italia ha un valore medio di 181 mila euro, 1.560 euro a metro quadrato, l’1,8% in meno sul 2011. Un box vale in media 20mila euro, una soffitta di pertinenza 5.400 euro. A Roma un’abitazione viene prezzata 380mila euro, 800 mila nelle zone pregiate. A Milano 250mila euro, 700mila per i quartieri migliori. A Napoli 300mila nella media.
Poi ci sono quattro milioni e mezzo di affittuari, e sono l’11,2% in più in due anni. Nel Centro Italia guadagnano in media 11.500 euro l’anno, al Nord 10mila, al Sud e nelle Isole 7.500. Infine l’esiguo stock delle case popolari, per chi non può permettersi una proprietà, né un affitto privato. Ma questa è un’altra storia, di disponibilità, di metrature, di decenza. Lì - Milano e Roma l’hanno fatto vedere di recente - per ottenere e poi conservare un appartamento si fa la guerra.
Una bandiera di Forza Italia su un cantiere edilizio abusivo: è una metafora dell'Italia di ieri e di oggi. Forse al vecchio Duce le cose andavano un po' meglio. Il manifesto, 19 febbraio 2015

Qual­che volta capita di vedere una ban­diera ita­liana sopra una casa in fase di costru­zione. Sta ad indi­care in pri­mis l’orgoglio degli ope­rai per essere arri­vati all’ultima «get­tata», quella che cor­ri­sponde, di solito, alla coper­tura del tetto, senza alcun inci­dente nel can­tiere. Secondo poi indica che quell’edificio è stato rego­lar­mente auto­riz­zato. Que­sta con­sue­tu­dine è stata arro­gan­te­mente umi­liata alcuni mesi fa in un can­tiere situato a Borgo Piave, all’ingresso di Latina. Al posto del tra­di­zio­nale tri­co­lore è stata appo­sta una ban­diera di Forza Ita­lia. Sem­brò appa­ren­te­mente una goliar­data del costrut­tore, tale Vin­cenzo Mal­vaso, ori­gi­na­rio di Ser­rata (Reg­gio Cala­bria), che nel capo­luogo pon­tino è anche con­si­gliere comu­nale e pro­vin­ciale per conto di quel par­tito. Ma l’umiliazione con­si­steva, e con­si­ste ancora, nel fatto che i lavori erano molto lon­tani dalla fase in cui è «ammessa» quell’esposizione; il can­tiere non era ancora ulti­mato e pro­ba­bil­mente non lo sarà più. Da alcune set­ti­mane infatti l’edificio è stato posto sotto seque­stro dalla locale pro­cura della Repub­blica attra­verso gli ispet­tori del nucleo inve­sti­ga­tivo del Corpo fore­stale dello Stato, a causa delle gravi irre­go­la­rità emerse per la con­ces­sione del per­messo a costruire. A dimo­stra­zione dell’insopportabile «sgarro», il con­si­gliere Mal­vaso si sarebbe con­trad­di­stinto per una minac­cia diretta all’ispettore del Corpo fore­stale che stava appo­nendo i sigilli. Gli avrebbe infatti rivolto frasi del tipo «ti ricor­de­rai di me, ti ricor­de­rai bene di me», e ancora «così vi sputo addosso».

Nella città voluta dal Duce il Piano Rego­la­tore attual­mente vigente è stato com­ple­ta­mente stra­volto con cuba­ture che sono già in eccesso per il dop­pio rispetto alla popo­la­zione resi­dente. È usanza inol­tre sfrat­tare i pove­racci ma non i «came­rati» men­tre può capi­tare, come nel 2007, di vedere sotto inchie­sta (giu­dice Lucia Aielli, recen­te­mente desti­na­ta­ria di gravi minacce pub­bli­che di morte) la pro­prietà della società Key a seguito della ven­dita ad una casa­linga e ad un pen­sio­nato, entrambi cam­pani e quasi nul­la­te­nenti, ad un prezzo rite­nuto troppo basso (2,5 milioni di euro), di un grat­ta­cielo in pieno cen­tro. Si con­ti­nuano però ad edi­fi­care palazzi che restano vuoti. Segno evi­dente che chi inve­ste soldi in tal modo non ha urgente biso­gno di un ritorno eco­no­mico da tale investimento.

Nella Pia­nura Pon­tina si sta deva­stando l’intero ter­ri­to­rio, com­preso il Parco nazio­nale del Cir­ceo, in nome di un’economia che potremmo defi­nire malata di «cemen­ti­smo». Per non finirla qui, nella terra che doveva essere «sol­cata dagli ara­tri e difesa con le spade» fatte con lo stesso acciaio, ormai comanda solo quello che tutti chia­mano il «par­tito dei palaz­zi­nari». Guarda caso, tra i tanti edi­fici rea­liz­zati di recente c’è n’è uno dove l’attuale sin­daco Gio­vanni Di Giorgi avrebbe com­prato un appar­ta­mento di più di cento metri qua­dri da una società di cui è socio pro­prio Vin­cenzo Mal­vaso, ad un prezzo par­ti­co­lar­mente con­ve­niente. Il con­di­zio­nale è pre­sto spiegato.

Su richie­sta del pm Gre­go­rio Capasso è stata la gip del tri­bu­nale di Latina, Mara Mat­tioli, nella suo ordi­nanza di seque­stro, a met­tere in rela­zione il pre­sunto acqui­sto dell’appartamento da parte del sin­daco con la variante con­cessa al con­si­gliere for­zi­sta; variante che in realtà nascon­de­rebbe il gigan­te­sco abuso edi­li­zio, visto che vi è stato inse­rito un enorme pre­mio di cuba­tura rite­nuto ille­git­timo. L’ordinanza aveva posto pesanti dubbi sull’effettivo acqui­sto e spe­ci­fi­cava che comun­que que­sto è avve­nuto «a cavallo tra la prima deli­bera della giunta numero 359/2012 (quando la giunta comu­nale ha appro­vato la variante del Ppe di Borgo Piave) e la seconda deli­bera n. 3/2013 (appro­va­zione defi­ni­tiva della variante)». Incal­zato dall’opposizione, Di Giorgi si è giu­sti­fi­cato dicendo che per com­prare quell’appartamento avrebbe con­tratto un mutuo con una banca di Milano e che sta­rebbe rego­lar­mente pagando le rate di 1.350 euro al mese. Aldilà degli aspetti eco­no­mici, dalla let­tura dell’atto nota­rile risulta che l’edificio dove abita il sin­daco di Latina ha otte­nuto il cer­ti­fi­cato di abi­ta­bi­lità dallo stesso Comune per silen­zio assenso. Tra l’altro è stato costruito su un ter­reno appar­te­nuto ad altri costrut­tori molto vicini a Fi con il solito mec­ca­ni­smo delle pere­qua­zioni: cioè cedendo al mede­simo Comune le aree sotto le quali i pri­vati hanno rea­liz­zato i par­cheggi a ser­vi­zio del con­do­mi­nio. Le pere­qua­zioni infatti rap­pre­sen­tano una sorta di buli­mia cemen­ti­fi­ca­to­ria nel capo­luogo pon­tino. Coe­rente con tale impo­sta­zione Di Giorgi dice che anche per quanto riguarda il seque­stro dell’immobile a Borgo Piave sarebbe tutto a posto: la cuba­tura con­cessa, anche in que­sto caso con il mec­ca­ni­smo delle pere­qua­zioni, è in linea con la legge sul Piano casa. Una legge che per la verità aggiunge cuba­tura soprat­tutto la dove ce n’è già tanta. In defi­ni­tiva nelle ex paludi pon­tine ormai l’urbanistica è diven­tata nient’altro che un indi­stinto assem­blag­gio di edi­fici ano­nimi, costruiti spesso a disca­pito del verde pub­blico, senza alcun governo del ter­ri­to­rio e con lo scopo unico di fare soldi: un luogo insomma dove ti per­met­tono di costruire in libertà quello che ti pare. E se ogni tanto ti scappa di issare un bef­fardo sim­bolo di Fi dove stai costruendo più o meno legal­mente, magari nell’imminenza di una cam­pa­gna elet­to­rale, va anche meglio. Tanto chi lo sa cosa signi­fica met­tere in quel posto la ban­diera che iden­ti­fica una nazione chia­mata Italia?

«L’università Statale nel dopo Expo è un’idea del rettore dell'Università Statale Gianluca Vago. Una mossa da gioco d’azzardo: Arexpo è sull’orlo del crack, l’università alla canna del gas (vent’anni di politiche governative scellerate l’hanno messa in ginocchio)? Bene, l’unione di due crisi può fare la forza». La Repubblica Milano, 16 febbraio 2015

In un contesto fra i più densamente popolati d’Europa, qual è l’area milanese, l’ultima cosa di cui si sentiva il bisogno è la messa in campo di nuovo, massiccio consumo di suolo, oltretutto promosso direttamente dal soggetto pubblico. Tanto più in presenza di tante aree dismesse, che da anni attendono di essere recuperate, alcune delle quali già dotate di elevata accessibilità trasportistica e perfettamente integrabili con la città compatta. Ma questa è la scelta operata per Expo 2015 da un ceto politico che ama creare valori immobiliari anziché città. Ora c’è da fare i conti con un’isola metropolitana, estesa per 1,1 milioni di metri quadri e separata dal resto del territorio da autostrade e ferrovie.

Il masterplan ha ulteriormente accresciuto il carattere insulare con un profluvio di specchi d’acqua e una fascia boschiva lungo tutto il perimetro. L’acqua sarà ben presto putrescente, mentre il recinto alberato è destinato al degrado perché non strutturale a qualsiasi ipotesi di riuso dell’area. Qui sta il secondo errore: non aver progettato insieme Expo e dopo Expo. Ora si dovrà fare i conti con una enorme “piastra” cardodecumanica: un’infrastruttura di reti primarie (fognatura, acqua, elettricità ecc.), costata 165 milioni di euro, da cui sarà difficile prescindere e che renderà difficile, se non impossibile, il rispetto del piano inserito nell’Accordo di Programma che vuole il 54% dell’area destinata a parco pubblico. La grande colata di cemento della “piastra”, in ogni caso, costringerà il parco a brandelli e in una posizione marginale. Il contrario del modello del campus inaugurato da Thomas Jefferson con l’Università della Virginia (1800-1819), dove una grande radura verde è il cuore del complesso.

Già, l’università. È questo il coniglio dal cappello che, a detta del presidente della Regione Roberto Maroni e di molti commentatori, può fare uscire dai guai Arexpo spa, la società proprietaria dell’area in cui figurano il Comune di Milano e la Regione Lombardia (34,67% entrambe), Fondazione Fiera (27,66 % di pura rendita), l’ex Provincia di Milano (2%) e il Comune di Rho (1%). Una società indebitata per 160 milioni di euro con le banche e che ha messo all’asta l’area a partire da una base di 315,4 milioni, registrando lo scorso novembre una prima risposta negativa del mercato.

L’università Statale nel dopo Expo è un’idea del rettore dell'Università Statale Gianluca Vago. Una mossa da gioco d’azzardo: Arexpo è sull’orlo del crack, l’università alla canna del gas (vent’anni di politiche governative scellerate l’hanno messa in ginocchio)? Bene, l’unione di due crisi può fare la forza: i soldi dovranno saltare fuori (ci penserà Renzi, o chi per lui). Quanti? I 315,4 per l’area più i 400 milioni di euro per realizzare il nuovo campus, che ospiterebbe tutte le facoltà scientifiche della Università Statale ora a Città Studi (Fisica, Veterinaria, Agraria, Chimica, Scienze e Informatica).

Tace per ora il Comune di Milano, a cui spetta l’ultima parola. Anche perché questa operazione gigantesca richiede un passaggio da far tremare i polsi: decidere il destino del grande quadrilatero che verrebbe liberato a Città Studi (sulla cui vendita l’Università Statale conta di ricavare 200 milioni di euro). Un’operazione simile a quella riuscita a Fondazione Fiera? Se il balzo localizzativo ha punti in comune con quell’operazione, si presentano difficoltà ben maggiori sia nel punto di partenza (cosa fare a Città Studi?) che nel punto di atterraggio (chi paga e come sarà il campus?). A Città Studi un altro scempio come quello di Citylife? Non lo sopporterà la città e, in una condizione di bolla immobiliare cronica, non lo sopporterà il mercato.

Quanto a un campus universitario nell’area Expo, sarebbe la somma di due debolezze: quella di Milano città che perde una risorsa preziosa e quella di un’università che sul terreno delle relazioni territoriali si assimila a uno shopping center.

Vuoi per la fretta di approvare una legge sostanzialmente improvvisata, vuoi per le pressioni delle lobbies, in Lombardia si è quantomeno combinato un pasticcio. La Repubblica Milano, 14 febbraio 2015

La nuova legge regionale sul consumo del suolo impedisce ai sindaci che lo desiderano di approvare delle varianti al Pgt che riducano l’impatto sul territorio. Ci hanno già provato Bergamo, Brescia e Cremona. È l’effetto paradossale delle nuove norme che prevedono che per tre anni i progetti in essere potranno essere confermati o meno da sindaci e operatori. Il Pd lombardo denuncia: «È un’assurdità. Lo avevamo detto che questa legge era un pasticcio. Presenteremo una mozione urgente martedì in aula». L’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio getta acqua sul fuoco: «Non è vero. La circolare interpretativa che arriverà nelle prossime settimane chiarirà tutto».

La legge contro il consumo del suolo, fortemente voluta dal governatore Roberto Maroni, impedisce di fatto ai comuni che lo desiderano di approvare varianti ai loro Pgt che prevedano una riduzione dell’impatto sul territorio. A fare l’amara scoperta finora sono state le amministrazioni di Crema, Brescia e Bergamo, tutte guidate dal centrosinistra, che hanno chiesto ai tecnici della Regione un’interpretazione della legge: vogliono sapere se era possibile approvare una variante al Pgt per ridurre i cosiddetti residui, ovvero le aree non ancora lottizzate. Un dettaglio tutt’altro che irrilevante, visto che l’ultimo rapporto sul consumo del suolo redatto dalla società di ricerca regionale Eupolis rivela che le previsioni di trasformazione del Pgt lombardi già approvati comporteranno un ulteriore consumo di suolo attualmente libero pari a 53mila ettari, più altri 22mila relativi ai residui.

La denuncia è del consigliere regionale del Pd Jacopo Scandella che attacca: «Lo avevamo detto che la legge era un pasticcio e adesso i fatti ci danno ragione. Se un comune non può approvare una variante al proprio Pgt per ridurre il consumo di suolo da subito perché la Regione permette di farlo solo tra quale anno significa che il provvedimento è sbagliato e inadeguato. È un’assurdità. Presenteremo una mozione urgente martedì in aula». Il dubbio nasce dall’interpretazione del quarto comma dell’articolo 3 della nuova legge regionale, che stabilisce che «i comuni possono approvare unicamente varianti al Pgt e ai piani attuativi al Pgt, che non comportino nuovo consumo di suolo, diretti alla riorganizzazione delle previsioni di trasformazioni già vigenti». In altre parole, a pari previsioni. Un effetto paradossale, dato che le nuove norme dovevano avere lo scopo di combattere il consumo del suolo, non di impedirne la riduzione. La nuova legge prevede infatti che i documenti di piano dei Pgt, compresi quelli già scaduti prima dell’entrata in vigore della legge, devono considerarsi “cristallizzati”. Almeno per i prossimi 30 mesi, il periodo transitorio entro il quale comuni e operatori del settore dovranno confermare o meno i progetti in essere.

Alcuni comuni capoluogo hanno chiesto nei giorni scorsi un’interpretazione agli uffici dell’assessorato. Anche diversi comuni del bergamasco avrebbero chiesto spiegazioni al dirigente dell’assessorato regionale al Territorio e all’Urbanistica durante la tappa del tour a Bergamo per illustrare i contenuti delle nuove norme. L’assessore regionale Viviana Beccalossi nega tutto: «Nelle prossime settimane emaneremo una circolare applicativa che chiarirà tutto. Si tratta di una legge molto complessa. Fino ad ora non è stata presa alcuna decisione». Il direttore generale dell’assessorato regionale al Territorio e all’Urbanistica Paolo Boccolo ammette che il passaggio della legge è «controverso» e che la circolare applicativa servirà per «chiarire in modo inoppugnabile » se i comuni potranno o non potranno approvare varianti per ridurre i residui. Per chiarirlo, sarà decisivo stabilire nella circolare se tra le previsioni di trasformazioni già vigenti potranno essere aggiunte anche quelle che prevedano una riduzione dell’entità e non il rispetto del vincolo delle pari previsioni. Fino a quel momento, però, il dubbio e l’effetto paradossale rimarranno.

Le recenti "opinioni" di Vezio De Lucia e di Maria Cristina Gibelli, che abbiamo pubblicato pochi giorni fa, e il punto cui è giunta la discussione sulle norme volte a limitare il consumo di suolo, ci inducono a riesporre il nostro punto di vista. con molti link nel testo

Nel settembre 2005, nell’ambito di una sessione della Scuola di eddyburg dedicata al consumo di suolo ci si rese conto che in Italia nessuno, sia sul versante della cultura urbanistica ufficiale, sia su quello della politica e dell’amministrazione, si era reso conto della drammaticità del fenomeno, lo aveva denunciato e aveva proposto soluzioni al riguardo. Nei mesi successivi un gruppo di amici di eddyburg elaborò una proposta di legge che voleva costituire un’alternativa alla malfamata proposta Lupi di quegli anni. Essa concerneva i “Principi fondamentali in materia di pianificazione del territorio” (quindi lo stesso tema della legge Lupi) ma aveva il suo focus sul contenimento del consumo di suolo.

La “legge di eddyburg” fu pubblicizzata con un libro, numerosi articoli sulla stampa nazionale, e con una serie di incontri, tra i quali una presentazione ai parlamentari nella Sala delle colonne della Camera dei deputati. Tra il novembre e il dicembre 2007 gruppi di parlamentari delle varie articolazioni parlamentari della sinistra presentarono la proposta di eddyburg come un loro progetto di legge, cosa di cui ovviamente fummo felici.

La XV legislatura si concluse nell’aprile 2009, senza che fosse giunto a compimento l’iter della proposta Lupi né che fosse avviata la discussione delle altre proposte legislative.

Ma il tema era diventato di generale interesse. Ha contribuito notevolmente, nel novembre 2008, la costituzione del forum “Stop al consumo di suolo”, (promosso e organizzato dal sindaco di Cassinetta di Lugagnano, Domenico Finiguerra) di cui eddyburg fu tra i fondatori.

Gli anni passarono. Nel 2012 il ministro per l’agricoltura Mario Catania definì e fece approvare dal Consiglio dei ministri un ddl «in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo», di cui furono ampiamente apprezzate le buone intenzioni ma criticato, spesso severamente, il dispositivo. (vedi qui numerosi scritti in proposito). Ulteriori proposte legislative seguirono. Nessuna giunse all’approvazione, mentre si susseguirono provvedimenti nazionali e regionali che accrescevano, “facilitavano” e “snellivano” l’ulteriore consumo di suolo.

Il blocco immediato dell’irragionevole consumo di suolo (di cui ormai si cominciavano a valutare la quantità e le conseguenze) apparve sempre più urgente. Ma nessuna delle proposte presentate in sede di legislazione nazionale apparve idonea a quella che si rivelava un’emergenza sempre più drammatica, Alcuni degli stessi amici di eddyburg che avevano formulato la proposta del 2006 si convinsero che era illusorio basarsi su procedure che assegnassero un ruolo determinante alle regioni e ai loro poteri.

L’unica possibilità concreta per agire subito sul territorio era quella di affidarsi alla norma della Costituzione che attribuisce poteri esclusivi allo Stato e quindi alla sua diretta capacità di “comando” sui comuni: nella fattispecie, al riferimento del secondo comma, lettera s), dell’articolo 117 della Costituzione. Un gruppo di amici di eddyburg formulò e presentò, sulle pagine del sito, una nuova proposta.

Nella sintetica relazione allo snello articolato si afferma che la nuova normativa proposta non attiene, come la precedente e quasi tutte quelle sul tappeto, «alla materia “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione», (una disposizione che affida la potestà legislativa alla Regioni, riservando allo Stato la sola determinazione dei principi fondamentali): un percorso - si afferma - inadatto a raggiungere risultati soddisfacenti in tempi ragionevoli. Altrettanto incerti – si prosegue - sarebbero stati i risultati facendo riferimento, per salvaguardare il territorio non urbanizzato, a una apposita categoria da aggiungere a quelle ex lege Galasso, il che avrebbe comportato l’assoggettamento ai tempi e alle determinazioni della pianificazione paesaggistica, che lo Stato e quasi tutte le Regioni hanno di fatto accantonato»

Nella nuova proposta di legge di eddyburg si suggerisce invece di affermare all’art. 1 della proposta «che la salvaguardia del territorio non urbanizzato, in considerazione della sua valenza ambientale e della sua diretta connessione con la qualità di vita dei singoli e delle collettività, costituisce parte integrante della tutela dell’ambiente e del paesaggio. Pertanto la relativa disciplina rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione". Questo cambio di prospettiva, che si traduce in una significativa compressione delle competenze legislative delle regioni, è giustificato dal valore collettivo che tali porzioni di territorio hanno assunto non solo per i singoli e le collettività di oggi ma, in una logica di solidarietà intergenerazionale, anche per quelli di domani.

Il testo della proposta e la relazione sono pubblicati in eddyburg del giugno 2013 nel testo dell’articolo di Vezio De Lucia “Una proposta di legge per la salvaguardia del territorio non urbanizzato”.

L’obiettivo della proposta del 2013 è più limitato di quello cui si riferiva la “legge di eddyburg” del 2006 (è terribile la velocità con la quale peggiora la situazione culturale, politica e territoriale dell'Italia!). E' un obiettivo parziale rispetto a quello di trasformare il nostro territorio in un ambiente pienamente adeguato al ben-vivere delle persone di oggi e di domani. Ma è l'obiettivo che è indispensabile raggiungere subito se non vogliamo che il territorio sia interamente trasformato in una "repellente crosta di cemento e asfalto", e che sia distrutto per sempre il residuo patrimonio di bellezza, saggezza e civiltà che la generazioni che ci hanno preceduto ci hanno tramandato.
«Sono solo affari. In fondo non ammazzano nessuno. Cioè quasi nessuno, ma comunque gente loro. In fondo qui non chiedono il pizzo. Cioè quasi, ma solo a gente immigrata dal sud. Alla fine, si tratta soltanto di soldi. Sappiamo che non è così». La Repubblica, 30 gennaio 2015 (m.p.r.)

Fino a poco tempo fa c’era un solo posto in Italia in cui si diceva ancora che la mafia non esiste, ed era il Nord, in particolare l’Emilia Romagna. L’idea che qua fossimo diversi e che la nostra diversità offrisse una barriera insormontabile al radicamento mafioso era così forte dal mettere al bando chiunque ne parlasse e con le stesse accuse rivolte a chi trent’anni fa ne parlava per il sud: procurare un immotivato allarme e screditare ingiustamente il territorio. Roberto Saviano, Beppe Sebaste e tanti altri giornalisti e scrittori - compreso il sottoscritto - bollati da prefetti, politici e anche alcuni magistrati come visionari e paranoici, deformati da una concezione esageratamente e volutamente noir di questa nostra isola così felice.

Eppure. Eppure da tempo ogni operazione antimafia di carattere nazionale finiva per avere numerosi arresti anche in Emilia Romagna, e quasi sempre con conti correnti sequestrati a San Marino.
Eppure storici, studiosi e associazioni come Libera - solo per citarne una - lanciavano allarmi continui su una situazione attentamente monitorata e che da tempo vedeva praticamente le sedi sociali di ‘ndrine calabresi e della mafia di Casal di Principe stabilirsi in provincia di Reggio Emilia e di Modena. Eppure da tempo chi si fosse trovato a parlare con sindaci, amministratori o imprenditori delle nostre zone così diverse e così felici, si sarebbe sentito dire, timidamente, ecco, io veramente avrei un problemino.
Senza contare incendi di macchine nei cantieri, intimidazioni di amministratori, persone incaprettate nei bauli di auto bruciate e un giornalista come Giovanni Tizian - per citare l’esempio più noto - minacciato di morte e costretto a vivere sotto scorta, proprio qui da noi. Ma perché qui da noi avrebbe dovuto essere tutto così diverso? È dai tempi dell’inchiesta in Sicilia di Sonnino e Franchetti - 1876 - del rapporto Sangiorgi e del libro di Colajanni su Il Regno della Mafia - 1900 - che sappiamo come le mafie abbiano sempre trattato col potere politico ed economico diventandone parte loro stesse. E andando sempre a cercare i soldi là dove stavano.
Qui da noi, in Emilia Romagna, i soldi c’erano e un po’ ce ne sono ancora. E tra tanta, tantissima gente per bene, tra tante associazioni sindacali, cooperative, imprenditori e lavoratori attenti, che non scenderebbero mai a compromessi, c’è anche qualcuno che in nome del pragmatismo tipicamente attribuito agli emiliani romagnoli ha accettato soldi e lavoro senza farsi troppe domande. Bancari, imprenditori, amministratori, i primi che hanno pensato ma in fondo sono solo affari hanno aperto falle enormi in quella nostra presunta barriera di diversità.
In fondo sono solo affari. In fondo qui non ammazzano nessuno. Cioè quasi nessuno, ma comunque gente loro. In fondo qui non chiedono il pizzo. Cioè quasi, ma comunque solo a gente immigrata dal sud. In fondo lavorano in fretta e bene. Cioè, bene no, ma non importa, il mondo è quello che è. Alla fine, si tratta soltanto di soldi. Sappiamo che non è così. Lo sappiamo da tanto tempo. Mi ricordo un convegno nei primissimi anni ‘90, per esempio, in cui l’allora presidente della Commissione Antimafia Luciano Violante parlò della presenza mafiosa in questa Emilia Romagna così apparentemente diversa. State cercando l’animale sbagliato, disse. Cercate la piovra, come al sud, e invece dovreste cercare un pescecane, che non controlla il territorio militarmente ma si mangia politica ed economia. Morale, etica e salute. Futuro.
E invece abbiamo continuato a cercare la piovra e visto che non la trovavamo abbiamo continuato a parlare di tentativi di infiltrazione mafiosa, soltanto tentativi. Qualcuno di noi ci ha fatto inchieste sopra e qualcuno ci ha anche scritto romanzi, molto credibili, ma si sa, i romanzi sono solo romanzi, soprattutto se noir. E così qualche mese fa mi sono trovato ad assistere all’udienza di un processo a Bologna, quello nato dall’inchiesta “Black Money”, che cerca di far luce su ‘ndrangheta e gioco d’azzardo tra Emilia e Romagna, e tante altre cose tra cui le minacce di morte a Giovanni Tizian.
Sono seduto tra il pubblico e accanto a me ho due veterani di processi di quel genere, profondi conoscitori di mafie, come Attilio Bolzoni e Lirio Abbate, a cui tante volte ho chiesto aiuto per farmi raccontare personaggi e luoghi, dove sta quella borgata, quanto dista da Palermo o da Catania, come è fatta quella strada a Corleone.
Ecco, in quel processo si parlava di luoghi che stanno a pochi chilometri da dove vivo, e quella volta a spiegare ad Attilio e Lirio come era fatta quella strada e dove stava quel parcheggio, ecco, quella volta ero io. Quando me ne sono accorto ho provato un senso di doloroso stupore. E poi mi sono chiesto: ma perché me ne stupisco. Perché ce ne stupiamo. Perché ora, quando l’ennesima retata arresta più di cento persone attorno a casa nostra. Perché non prima, quando era già così evidente?

Schema del dialogo tra Edoardo Salzano, Sergio Pascolo, Mariarosa Vittadini, Enrico Tantucci, organizzato da Corte del fòntego editore, a Venezia, palazzetto Bru Zane, il 15 gennaio 2015. In calce il link alla registrazione su youtube

1 il paradosso:

EDOARDO SALZANO: Venezia è una città nella quale alla perfezione dell’assetto urbanistico si accompagna una grave difficoltà, da parte dei residenti, a continuare ad abitarla: “Ogni anno qualche migliaio di persone abbandona Venezia rinunciando a vivere in una delle più straordinarie strutture urbane del mondo. Come spiegare questo paradossi?”. Questa è la domanda che pone Sergio Pascolo, autore di "Abitando Venezia”. Gli chiedo di argomentarla.

SERGIO PASCOLO: vorrei precisare che quando diciamo “una delle più straordinarie strutture urbane del mondo” oggi, più che qualche decennio fa, significa anche una delle città più attuali del mondo; infatti ovunque si sta facendo una riflessione profonda sulla crescita urbana e sull’insostenibilità dei modelli ormai obsoleti basati sulla crescita infinita e sregolata permessa dalla diffusione del trasporto individuale con l’automobile; oggi si sta discutendo proprio della necessità di fissare nuovi paradigmi dello spazio urbano che riportino la città a dimensione umana; la condizione di pedonalità, il rapporto continuo con la natura (l’acqua) il vivere muovendosi all’aria aperta e potendo incontrare persone, sono i valori che costruiscono questi nuovi paradigmi necessari per la città del XXI secolo; mentre molte città cercano di perseguire questi obiettivi anche con progetti impegnativi e difficili Venezia è già così ma viene abbandonata – Abitare = Vivere = Lavorare= Tempo libero: qualità complessiva della vita

2. l ragioni del disagio:

EDOARDO SALZANO: a me sembra che le ragioni essenziali del disagio, i suoi fattori, siano tre:
1. il prezzo, in termini economici, del vivere a Venezia (la casa, i prodotti, i servizi per la casa)
2. il disagio provocato dalla congestione: le code e la ressa ai vaporetti, le movida nei campi più frequentati, …
3. l’assenza, da almeno un ventennio, di un governo che si faccia carico dei problemi degli abitantistabili.

MARIAROSA VITTADINI: Il problema dei trasporti è stato storicamente un fattore potente di abbandono della città da parte dei suoi abitanti. Per il costo generalizzato, come lo chiamano i trasportisti, fatto dei costi diretti e soprattutto del tempo di viaggio. Ma fatto anche di profonde ragioni culturali. Negli anni sessanta e settanta l’automobile è stata una conquista sociale, un simbolo di ricchezza e averla sotto casa un fattore di libertà. Venezia è stata vissuta come una città difficile, scomoda, frenante. Da qui molte politiche di omogeneizzazione della città finalizzate ad una presunta efficienza. Emblematica la storia di piazzale Roma, della concentrazione di uffici e attività e del rovesciamento della città storica intorno alla testa di ponte.

Il grandissimo successo dell’automobile nel mondo ne ha fatto uno dei principali problemi per la città. Inquinamento, congestione (che vuol dire lentezza, incertezza sui tempi di spostamento, disagio collettivo oltre che individuale), limitazioni crescenti e anche disaffezione stanno cambiando radicalmente le cose. Non c’è ragionamento sulla città di domani, etichettata come amichevole, intelligente, eco-sostenibile, resiliente e così via che non inizi con la riduzione delle mobilità automobilistica, la riconquista della salute e del piacere di muoversi a piedi e la trasformazione dell’auto in un servizio piuttosto che in un bene privato. Questa aspirazione d’altrove a Venezia è già un fatto, con una qualità dello spazio che fa del semplice camminare una continua gioia per gli occhi e una continua avventura di scoperta della storia. delle tradizioni, dei valori culturali ed artistici. Ma gli amministratori di Venezia non se ne sono accorti e perseguono con impegno degno di miglior causa l’ostinazione a omogeneizzare Venezia a vecchi modelli, magari sentendosi innovativi quando propongono la metropolitana sub lagunare da Tessera a Fondamente Nuove.

Accade così che si aggiungano così nuovi parcheggi a Piazzale Roma, al Tronchetto, alla Marittima, alla radice del ponte translagunare. Arrivare presto e più vicino possibile, rosicchiando i margini per far posto alle auto: quelle privilegiate degli addetti al porto, quelle dei turisti che partono con le grandi navi, quelle dei turisti che possono permettersi alte tariffe giornaliere. Anche per i residenti, certo, riservando loro quote minime. Tuttavia per quelli che abitano Venezia il problema automobile è veramente minimo. Il servizio acqueo funziona benissimo quando non è congestionato dai turisti, anche se recentemente i tagli ai finanziamenti ne hanno minato la regolarità. La ferrovia, l’aeroporto una fin troppo estesa rete autostradale collegano efficacemente al resto del mondo. Il problema sono piuttosto i trasporti di vicinato, una terraferma ad insediamento disperso, fondata sull’uso obbligatorio dell’automobile, dove gli investimenti si concentrano sulle autostrade e contribuiscono potentemente alla ulteriore dispersione. Il SFRM vent’anni dopo la decisione di farlo non ha partorito neppure una linea e soprattutto non è riuscito a raccordare Venezia e la sua area metropolitana. Si arriva più facilmente dalla Francia o dalla Germania che da Spinea.

EDOARDO SALZANO: Sul tempo avrei qualcosa da aggiungere. Io sostengo che per valutare la qualità del trasporto, della mobilità, non basti misurare la durata del percorso, ma anche la sua qualità. Altro è una brutta metropolitana, altro è un bel tram, come a Strasburgo, altro ancora è un vaporetto nell’arciplago che è Venezia. La riflessione di Maria Rosa sugli effetti della mobilità interamente affidata al mezzo individuale mi induce ad anticipare un tema su cui fra poco vorrei tornare: Venezia, proprio per il modo in cui storicamente si è organizzata la sua mobilità, ha molto da insegnare al mondo. Se non ricordo male era Le Corbusier che diceva che a Venezia si era raggiunto un obiettivo che era stato proposto ma raramente raggiunto dall’urbanistica moderna: la separazione del traffico pedonale da quello meccanico. Ma sentiamo anche Sergio.

SERGIO PASCOLO: sui PREZZI: sicuramente quello del costo della casa è il problema maggiore e non può che essere affrontato con un ri-equilibrio del mercato tramite interventi di housing sociale; per quanto riguarda il costo generale della vita credo che si debbano considerare molti aspetti; per esempio non avere bisogno dell’automobile è un grande risparmio nell’economia di una famiglia; è chiaro però che i servizi di trasporto pubblico, di car sharing e quant’altro debbano essere efficientisssimi; uno stile di vita diverso, migliore più sano, più ecocompatibile è un valore e non va considerato un difetto rispetto all’omologazione con altri stili di vita urbana; E questo corrisponde a significativi risparmi; sulle RAGIONI del disagio: ne aggiungerei una quarta a mio avviso fondamentale: la mancanza di prospettive di lavoro per la fascia più importante della popolazione attiva, quella che si butta nella vita reale appena finiti gli studi; quella fascia di popolazione da 25 a 40 anni, gli anni più dinamici di invenzione e crescita, non c’è oggi e non ci sarà in futuro se la città non cambia passo

EDOARDO SALZANO: La questione del lavoro è certamente nodale. Ci torneremo tra poco. Ho invece qualche perplessità quando si parla di social housing. In Italia significa una forma nuova di speculazione. Il comune, o lo Stato, danno al proprietario del un suolo più cubatura di quanta ne consentirebbe il piano urbanistico, e in cambio ottiene che il proprietario riservi, per qualche tempo, un po’ di alloggi a un costo inferiore a quello di mercato. Il problema, e l’obiettivo, devono essere quelli di offrire abitazioni a chi non può permettersi di pagare gli intollerabili prezzi che fa il mercato. Si tratta perciò di avere edilizia pubblica da dare in uso a prezzi accessibili a chi effettivamente dimostra di avere, e di conservare i requisiti giusti.

3. l'autodifesa:

EDOARDO SALZANO: I cittadini tentano di difendersi in molti modi. Voglio sottolinearne due:
1. Chi ha una stanza in più, diventa affittacamere. Conseguenza negativa: diminuiscono le abitazioni per gli abitanti stabili.
2. Nei luoghi della movida gli abitanti recintano pezzi del suolo pubblico, la città viene negata,

MARIA ROSA VITTADINI: L’autodifesa passa attraverso molti modi. Vivere ai margini, ad esempio. Alla Giudecca o a Castello o a S. Elena dove la pressione turistica è minore si vive molto bene e si esce dal proprio quartiere più spesso per uscir da Venezia che per andare a S. Marco. Anche perché le attività e i negozi tra Rialto e S. Marco sono ormai solo a misura di turista e molti negozi e servizi necessari all’abitare si trovano a Mestre (e questo è un grave problema dell’abitare a Venezia).

EDOARDO SALZANO: Hai ragione, Mariarosa. Ma non possiamo pensare di obbligare gli abitanti di Venezia a vivere ai margini della loro città. E temo che la situazione della Giudecca sia del tutto transitoria. Comunque, hai toccato un tema centrale: il peso dell’attuale forma del turismo. Sergio, Enrico, avete qualcosa da dire su questo argomento? O sulla ghettizzazione crescente degli spazi pubblici come risposta all’effetto movida?

SERGIO PASCOLO: Chi ha pensato e pensa ancora oggi al turismo come unica fonte di economia ne ha evidentemente considerato le grandi OPPORTUNITA’ ma non le MINACCE che invece sono molto rilevanti proprio per la qualità della vita; adesso le minacce sono sempre più evidenti ……

4. Le cause:

EDOARDO SALZANO: Perché succede questo? Perché viviamo le contraddizioni paradossali tra qualità urbana e disagio degli abitanti permanenti? Abbiamo toccato una delle cause: La prevaricazione del turismo. Anzi, dei due tipi di turismo attualmente dominanti: il turismo mordi e fuggi e il turismo di lusso. Ma ce ne sono altre due rilevanti: le convenienze personali e l’assenza di governo.

Insomma, quattro cause fondamentali del veneziano disagio di abitare Venezia:
1. Turismo mordi e fuggi: conseguenze: una mandria di bufali in una cristalleria
2. Turismo di lusso: la ghettizzazione e privatizzazione della città
3. Le convenienze degli abitanti (quelli che gravitano attorno al turismo di massa, gli affittacamere, ecc)
4. L’assenza di un governo efficace della città

MARIAROSA VITTADINI: Prevaricazione significa che la facilità e la convenienza di lavorare nel turismo vincono sistematicamente su qualsiasi altra attività. Gli spazi si convertono in negozietti di ricordini e cianfrusaglie, le attività artigianali si inaridiscono nelle produzione di mascherette, con un ricambio rapidissimo dato l’alto livello degli affitti. Nelle vetrine delle Mercerie si trovano, a carissimo prezzo, gli stessi abiti e le stesse firme di ogni altra città, ovviamente prodotti altrove. E’ naturale? è fatale? Si se non si governa in alcun modo. In altri paesi esiste una alleanza forte tra attività e amministrazioni, che si aiutano non tanto in termini finanziari quanto in termini stimolo di innovazioni, creazione di occasioni per attività di eccellenza, reti di relazioni.
Venezia e la sua storica capacità di rapportarsi con l’ambiente lagunare ne farebbero un campo privilegiato per gli studi sulle acque, sulla laguna, sul cambiamento climatico. Dove i ricercatori producano ricerca e non, come ora avviene, vetrina di lusso per presentare le ricerche condotte altrove. Invece Venezia pur avendo due università non è capace di radicare gli studenti che fuggono ogni giorno per le loro case di terraferma e dopo la laurea se ne vanno perché non trovano qui alcuna possibilità di costruirsi un avvenire con quello che hanno imparato.

ENRICO TANTUCCI: cause e responsabilità (soprattutto delle Amministrazioni comunali degli ultimi mandati, da Cacciari a Costa e Orsoni), con alcuni rapidi esempi significativi di ciò che non si è fatto e si poteva fare, e su come la prevaricazione del turismo ha influito sul problema dell'abitare sia in termini di disponibilità di alloggi che di comportamenti e di scelte anche amministrative.

SERGIO PASCOLO: le convenienze degli abitanti sono conseguenza della mancanza d’altro rispetto al turismo; la prevaricazione è diventata esclusiva e quindi comprensibile in quanto priva di alternative credibili; per quanto riguarda la limitazione del turismo è già stato detto molto da molti: bisogna creare un sistema di programmazione controllata degli arrivi turistici come si sta facendo in molte città europee (vedi Barcellona e Berlino) La prenotazione obbligatoria e programmazione per lo meno dei viaggi organizzati è fattibile senza grandi difficoltà e comporterebbe una significativa limitazione dell’ altrimenti inevitabile esponenziale ed insopportabile aumento degli afflussi. Spero che non ci sia più da discutere se fare o non fare la limitazione ma solo sul come realizzarla; qui le nuove tecnologie possono essere di grande aiuto; Recentemente i contributi di Scurati e quelle del Prof. Fabio Carrero hanno messo in evidenza le possibilità; è un tema specifico che va portato avanti

5 La strategia in atto

EDOARDO SALZANO: se queste sono le cause allora è chiaro che non è certamente sufficiente l’autodifesa individuale o localistica dei cittadini per rimuoverle. E’ necessario un forte governo pubblico, espressione della volontà dei cittadini, ed è necessaria una chiara strategia. Un governo pubblico diverso da quello che guida la città da qualche decennio, e una strategia diversa da quella seguita da chi oggi ci governa. Domandiamoci intanto quali sono oggi il governo della città e quale sia la strategia dominante, A me sembra che esiste oggi una precisa strategia, che fa capo a poteri che stanno dietro all’attuale governo della città (da vent’anni, un’amministrazione complice) . E che può riassumersi nella mercificazione della città.

Due distinzioni essenziali:
1. città come patrimonio / città come risorsa,
2. città come bene / città come merce
Oggi sono egemoni i gruppi sociali che utilizzano la città, la sua qualità, come una risorsa da sfruttare (il turismo come petrolio, Venezia come giacimento: estraggo, trasformo in altro da sé, vendo)

E oggi, per chi governa la città, compiti essenziali sono di fatto due:
1. promuovere, incoraggiare, servire lo sfruttamento economico della città
2. fare cassa per compensare la diminuzione delle risorse che arrivano dal bilancio dello stato
Un esempio: ci si indebita per fare il carnevale, e si cancella dal bilancio comunale l’acquisto di libri per le librerie comunali: più feste, più promotionE, e meno cultura.

SERGIO PASCOLO: Vendere piuttosto che Fare mi sembra sia la malattia della società e dell’ economia occidentale di questo secolo; sicuramente è stata la malattia dell’Amministrazione Comunale; molte città hanno fatto grandi trasformazioni urbane a vantaggio dei cittadini proprio a partire dalla logica contraria: la città deve acquisire (terreni, edifici) e gestire le trasformazioni; la vendita del patrimonio è in ogni caso una politica distruttiva del bene comune che nella vita urbana è altrettanto importante del bene individuale…..oltre alla vendita del Patrimonio di pregio in città palazzi sul Canal grande e molti altri – il Comune ha venduto anche aree a Marghera che erano da considerare preziose per poter avere in mano la Regia di qualsiasi trasformazione urbane per il futuro

6. una strategia alternativa

EDOARDO SALZANO: Una coppia di domande su cui vorrei concludere questa prima fase dell’incontro di stasera, per aprire un dibattito con gli altri presenti:
1. Come costruire una strategia alternativa?
2. E soprattutto e di conseguenza: come costruire un blocco sociale in grado di implementarla?
Io credo che una strategia alternativa debba partire proprio dal rovesciamento di quelle coppie di parole che ho prima enunciato: bisogna vedere Venezia e la sua Laguna come patrimonio e non come risorsa, come bene e non come merce.

Venezia e la sua Laguna sono:
1. un modello di equilibrato rapporto tra lavoro e natura, tra storia e natura, tra cultura e natura tra conservazione e trasformazione
2. un deposito di insegnamenti da proporre al mondo intero, perché il rapporto tra ambiente e lavoro è un tema centrale in tutto il mondo
3. un patrimonio che richiede un’enorme applicazione di lavoro per essere restaurata, manutenuta, studiata, raccontata, presentata a chi vuole conoscerla nei suoi mille spessori – e non per usarla come scenografia per un selfie

Ecco, credo che partire da Venezia come patrimonio e da Venezia come occasione di lavoro qualificato sia un punto di partenza giusto per costruire una nuova strategia e un nuovo “blocco sociale”

MARIA ROSA VITTADINI: Lavorare e produrre a Venezia non è certo solo per i residenti. Si lavora e si produce per il mondo intiero e i turisti sono anch’essi una componente di domanda interessante . Lo straordinario ambiente veneziano può offrire opportunità di incontro, di cultura, di creatività per una vastissima gamma di attività di produzione ad alta intensità di cultura, ad esempio in materia di comunicazione o di ricerca scientifica o per attività artistiche o, ancora, per un artigianato di qualità . Quanti studenti e ricercatori e artisti sarebbero ben felici di passare a Venezia qualche mese alimentando con il loro lavoro le reti internazionali della loro disciplina solo che fosse possibile abitare e lavorare a Venezia.

EDOARDO SALZANO: torniamo così al tema del turismo. Domandiamoci adesso: quale turismo è omogeneo a una visione di Venezia come patrimonio? E come governarlo?

MARIAROSA VITTADINI: L’arrivo dei circa 30 milioni di turisti pone un serio problema di sopravvivenza per la città. Tutte le misure per gestire tali flussi come il tiket di ingresso (paradossalmente fatto pagare solo a coloro che pernottano negli alberghi) o le card di prenotazione volontaria con vari sconti sui servizi non sono serviti a frenare la massa dei “giornalieri” che passano poche ore in città. La misura principale per costoro è stata la istituzione della grande ZTL per i bus turistici, con tariffe di ingresso calibrate sulle prestazioni ambientali dei veicoli. Un bus euro 0, ovvero vecchio e inquinante in massimo grado, paga 340 euro e può portare i turisti al Tronchetto oppure ai terminal di Tessera o di Fusina. Per ciascun passeggero fa poco più di 5 euro: una tariffa che non scoraggia nessuno. Se è vero, come credo che la congestione turistica deriva dalla massa e dalla brevità del tempo della visita prima ancora che porre ticket o improbabili numeri chiusi si può pensare al rallentamento degli arrivi.

Si arriva solo per acqua e per acqua si accede alla città principalmente dai margini e non dal canal grande. Per percorrere il ponte occorre un permesso, così come succede normalmente negli accessi regolati delle città in ogni parte d’Europa. E allora sì il permesso può essere governato sulla base del tetto massimo di turisti sostenibili. Certo se non si può arrivare dal ponte si può arrivare dai terminal: via acqua, ovvero lentamente, e anche qui in base alla prenotazione e al rispetto del numero sostenibile di visitatori. Tutte formule davvero da subito fattibili, solo che ci sia la volontà politica. Ma proprio questa difetta: gli interessi legati a questo tipo di turismo sono oggi assai forti e ben rappresentati nelle istituzioni.

EDOARDO SALZANO: La direzione di marcia giusta per il governo del turismo era già stata proposta all’inizio degli anni 80. Luigi Scano: Il razionamento programmato dell’offerta turistica.

SERGIO PASCOLO: Partire dal lavoro; è necessario creare le basi perché si stabiliscano e crescano diventando sempre più rilevanti, nuove attività oltre a quelle legate al turismo. Questo è fondamentale per ri-creare una base sociale equilibrata generazionalmente; oggi le persone giovani che iniziano la loro carriera professionale vogliono avere opportunità, cercano occasioni e sinergie. A Venezia non trovano nulla e se ne vanno per lavorare e fare famiglia altrove in Italia o all’estero. Esistono molte sinergie da rafforzare ed è possibile farlo con un grande progetto pubblico che coinvolga tutte le istituzioni cittadine; è fondamentale però che questo progetto sia trasmesso in modo chiaro e trasparente nei suoi obiettivi, perché possa essere capito e condiviso, nella sua necessità (pena la scomparsa della città stessa) e nella sua opportunità per tutti nel medio e lungo periodo…..
partire dall’attrarre attività e quindi capitali, selezionandoli, per coerenza con le sinergie ricercate
partire da progetti di sinergia per la creazione di un comun sentire; bisogna creare un clima di fiducia nel nuovo futuro della città; bisogna creare la consapevolezza che un nuovo futuro è possibile ed è migliore di quello offerto dal turismo soffocante; per dare respiro alla città si potrebbero seguire i percorsi di Programmi come L’European Green Capital Award, o altri che riguardano la città resiliente e la città vivibile del futuro in uno scenario internazionale

EDOARDO SALZANO: Un grande progetto pubblico: un New Deal roosveltiano per Venezia. Quesito forse è lo slogan che occorrerebbe lanciare.

Ma apriamo un dibattito più ampio

Qui i video dell'evento

Al netto dell'ovvia non necessaria corrispondenza fra il dire e il fare, il governo francese pare aver colto in senso di cosa significa oggi intervenire in modo non semplicione sulle periferie. La Repubblica, 23 gennaio 2015, postilla (f.b.)

Prima ha parlato di «apartheid», ora di «ripopolamento » delle banlieue. Manuel Valls è in prima linea sulle banlieue considerate da molti esperti come un potenziale vivaio di odio. Gli attentati di Parigi sono stati compiuti da nemici interni, terroristi cresciuti in casa, in quei quartieri da tempo abbandonati dalla République. Per lottare contro la ghettizzazione delle banlieue, ha detto Valls, bisogna organizzare una «politica di ripopolamento» dei quartieri più sensibili, abitati in grande maggioranza da immigrati, di prima, seconda e terza generazione. Il premier non vuole solo una politica di nuovi alloggi o infrastrutture, ma misure che possano lottare contro la «segregazione sociale»”, un concetto che aveva già espresso tre giorni fa.

«Paragonare la Repubblica francese all’apartheid è un errore. Sono costernato», ha tuonato Nicolas Sarkozy, rompendo così il clima di unità nazionale, due settimane dopo le stragi. «Bisogna essere grandi, non piccoli», ha replicato il premier socialista, aggiungendo: «Pensate che ora ci mettiamo a perdere tempo con le polemiche?». Il premier è tornato anche a spiegare la sua risposta sociale agli attentati nella capitale. «Non sopporto che in alcune scuole non si trovino che studenti figli di famiglie povere, provenienti solo dall’immigrazione, dallo stesso ambiente culturale e dalla stessa religione » ha detto Valls, ricordando di essere cresciuto in una cittadina di periferia, Evry, sud di Parigi.

E proprio sul ruolo delle scuole, il governo ha annunciato un piano per lottare contro la radicalizzazione dei giovani. «La scuola non può fare tutto, ma è un elemento essenziale» ha commentato il premier. «La laicità deve imporsi dappertutto, perché permette la fraternità e permette a ciascuno di vivere insieme ». Il governo ha indetto per il 9 febbraio una conferenza nazionale in cui saranno elaborati metodi di insegnamento di valori come il rifiuto del razzismo o l’eguaglianza tra uomo e donna. Il pacchetto di misure, di cui alcune già note, comporta un investimento di 250 milioni di euro per il prossimo triennio. Tra i provvedimenti più simbolici la creazione di una «Giornata della Laicità», indetta nelle scuole il 9 dicembre, in riferimento a quel giorno del 1905 in cui venne adottata la legge sulla separazione tra Stato e Chiesa. La ministra dell’Istruzione, Najat Vallaud- Belkacem, ha annunciato che mille tutor selezionati verranno incaricati di fornire le linee guida su «laicità» e «insegnamento morale e civico» ai professori. «La trasmissione della conoscenza è il modo migliore di combattere l’oscurantismo», ha avvertito la ministra, deplorando «la disinformazione», le «teorie del complotto», il «sospetto generalizzato» veicolati ai giovani attraverso web e social network. Tutti problemi a cui Parigi intende rispondere anche attraverso un «percorso educativo civico», con tanto di valutazione finale, dalle elementari al liceo, e la sottoscrizione da parte di genitori e studenti di un’apposita «Carta della Laicità».

postilla

Almeno così d'istinto, la dichiarazione sulla centralità della scuola del primo ministro francese, così intimamente legata al concetto di periferia, non può non evocare il nome di Clarence Perry, giovane sociologo dei servizi che nella Chicago del piano di Daniel Burnham, alla vigilia della prima guerra mondiale studiava le potenzialità politiche, culturali, identitarie di un nuovo spazio pubblico, appunto l'edificio scolastico, la cui localizzazione baricentrica (per puri motivi funzionali) al centro dei quartieri ne faceva uno straordinario strumento per costruire cittadinanza. Ma Perry ovviamente, e giustamente, ragionava in termini di mezzi, non di fini, come oggi fa Valls, riteneva che quella forma del quartiere periferico, quella localizzazione e organizzazione del complesso scolastico, potessero svolgere un ruolo di medium, e amplificare un messaggio di inclusione. Fece l'involontario azzardo, la sua teoria ancora acerba, di confrontarsi direttamente con gli architetti una decina d'anni dopo, introducendone alcune riflessioni nello studio sulla “unità di vicinato”. Grande successo e immediato tradimento delle premesse: il mezzo diventava fine, il fine originario spariva nel nulla, lasciandoci quei progetti spaziali sulle periferie che non hanno mai risolto alcun problema, semplicemente perché non se lo pongono neppure il problema centrale, che non è architettonico o urbanistico, ma ovviamente, di cittadinanza e inclusione. Riflettere su questo aspetto, indipendentemente dagli sviluppi pratici dell'intuizione di Valls, forse serve a farci uscire dal vicolo cieco delle periferie intese come pura espressione geografica, già stigmatizzato ad esempio da Enzo Scandurra sul manifesto (f.b.)

Un bel convegno con l'archistar ecologicamente corretta, e sponsorizzato da un grande produttore del principale materiale per le trasformazioni edilizie: se non altro è chiarissimo cosa si intenda in genere sulla stampa per “rammendo delle periferie”. Corriere della Sera, 21 gennaio 2015, postilla (f.b.)

Non c’è bisogno di costruire sempre un Guggenheim in stile Gehry per fare buona architettura, non c’è bisogno di progetti su grande scala (musei, grattacieli o stadi che siano) per poter trasformare davvero una città e non è nemmeno necessario scegliere la via del glamour a tutti i costi (il fascino della super residenza costosa e del parco da miliardario) per sentirsi una archistar, anzi il tempo delle archistar può dirsi ormai davvero finito. Mario Cucinella (fondatore nel 1992 dello studio MCA) sintetizza in questi paradossi l’intervento che terrà sabato 24 gennaio, alla Fiera di Bergamo, nell’ambito del convegno annuale della Fondazione Italcementi sul tema Rammendo e rigenerazione urbana per il nuovo Rinascimento , un convegno in cui protagoniste saranno prima di tutto quelle stesse periferie dove per lungo tempo si è concentrato il lato più oscuro della urbanizzazione.

Cucinella (nato nel 1960, tra i suoi progetti più recenti il Villaggio residenziale per l’Expo di Milano) segue tra l’altro in qualità di tutor il gruppo di lavoro incaricato di studiare la periferia di Catania, e in particolare il quartiere Librino, nell’ambito del «G124», il laboratorio per progettare la riqualificazione delle periferie delle città messo in piedi da Renzo Piano e che oltre a Catania sta studiando le periferie di Roma e Torino. E proprio Piano, senatore a vita per meriti architettonici oltre che progettista del Centre Pompidou di Parigi e dell’ampliamento dell’Harvard Art Museum di Boston, aprirà con un suo video il convegno di sabato che vede tra i partecipanti Giampiero e Carlo Pesenti, Emanuela Casti, Michele Molè, Silvano Petrosino, Geminello Alvi, Francesco Daveri, Aldo Mazzocco, Giorgio Gori.

«Periferie come Librino o come Scampia a Napoli — spiega Cucinella — dimostrano da una parte il fallimento della ricostruzione degli anni Settanta, quella ricostruzione globale che è stata prima di tutto una manovra politica, un paradigma da esibire e che ha portato solo emarginazione. Ma dall’altro che non ci devono essere mai cittadini di serie A e di serie B perché in quelle stesse periferie prodotto di quell’idea sbagliata di architettura ci sono persone che vivono e lottano tutti i giorni per recuperare una giusta dimensione dell’esistenza». Ma Cucinella va oltre: «Il degrado è solo il sintomo evidente di un malessere ben più grave, sociale e non solo progettuale, che per essere curato deve essere prima di tutto studia-to e conosciuto bene. I politici ma anche certi famosi architetti preferiscono invece teorizzare senza sapere, senza essere mai andati a vedere una di quelle periferie così degradate». Il risultato? «Un populismo contro tutto e contro tutti».

Partendo sempre dall’esperienza del Librino, Mario Cucinella (che tra i buoni modelli cita anche il laboratorio «A di Città» di Rosarno, in provincia di Reggio Calabria) definisce i modi per un buon rammendo delle periferie: «A volte può bastare progettare una piccola biblioteca di quartiere, mettere una nuova panchina in un giardinetto o disegnare il percorso pedonale tra una scuola e una palestra per creare nuove opportunità e per migliorare la qualità della vita. Questa è la mia idea di rammendo: qualcosa che non sia imposto, ma che sia ragionato, qualcosa che serva prima di tutto a mettere insieme e non a dividere».

Per fare questo bisogna parlare con chi vive nel degrado delle periferie: «Non si possono fare interventi dall’alto, non c’è più bisogno dell’architetto-personaggio e non bisogna neppure più inseguire l’effetto a tutti i costi con progetti che facciano parlare i giornali o le tv, altrimenti si rischiano nuovi fallimenti. I giovani architetti, come quelli che lavorano con me al Librino, in questo sono davvero eccezionali, perché riescono a far parlare le persone dei propri bisogni, riescono insomma a entrare nel cuore della gente. Forse perché sono più consapevoli e non inseguono più i sogni della celebrità. Anche se la cosa più grave resta la totale assenza dello Stato, mentre la distanza tra cittadini e istituzioni continua a crescere giorno dopo giorno».

Seguendo la lezione di Piano, Cucinella ipotizza dunque «una serie di interventi sulle periferie che sappiano essere inclusivi e che non siano mai estranei agli abitanti». Anche perché nell’idea delle grandi aree metropolitane che tanto piace ai politici «non esisterà più la divisione tra centro e periferia». Proprio quelle periferie spesso indicate come bacino di elezione della violenza e del degrado («Lo ripeto, la violenza e il degrado sono i sintomi di un malessere più generale») e dove oggi, più che in altre aree urbane, si trovano a convivere popoli e religioni. Eppure per l’architetto Cucinella (che ha firmato anche progetti per scuole ecosostenibili, centri di assistenza e ministeri in Palestina, a Gaza e ad Algeri) non ci sono dubbi: «Finché c’è tolleranza, finché non si giudica l’altro, finché non si hanno pregiudizi contro chi non la pensa come noi ogni confronto, anche quello tra religioni, è fonte solo di nuove idee, mai di conflitti».

postilla
Un produttore di cemento e una grande firma delle trasformazioni edilizie che da sempre usano quel cemento, con vari risultati qualitativi, per tenerci le terga all'asciutto, darci un tetto sopra la testa, a volte contemplare pensosi l'insieme degli edifici, chiedendoci se non si poteva far meglio. Forse bastano queste poche note sugli ingredienti, a capire quanto il cosiddetto “dibattito sulle periferie” nelle forme saldamente imboccate sulla stampa (ma forse non nelle ultime dichiarazioni del premier francese, che parevano un pochino più serie) non abbia alcun rapporto col disagio, le forme di convivenza, i conflitti. Certo, come accade in qualunque comunicazione promozionale di settore, che si tratti di scarpe sportive o apparecchiature mediche, non può mancare lo sfondo del mondo in cui viviamo, o i suoi problemi generali. Ma va da sé: le soluzioni non sono ovviamente da riferire a quei problemi generali, e riguardano invece singole emergenze, sintomi, aspetti particolari. Ci sono gravi problemi di qualità abitativa, che dipendono a volte dal tipo di progettazione e costruzione, ok. A patto di non scambiare sul serio questa cosa col “problema delle periferie” (f.b.)

L'entusiasmo muscolare degli attivisti biciclettari e in genere anti-auto, di sicuro potrebbe dispiegarsi meglio riflettendo un istante sulla forma urbana dentro cui ci si sposta: perché è caduta in disuso la scuola (e in genere lo spazio pubblico) come fulcro del quartiere? La Repubblica, 18 gennaio 2015, postilla (f.b.)

Sono pochi, pochissimi, i bambini italiani che vanno a scuola da soli, senza essere accompagnati dai genitori. E il loro numero continua a diminuire. Secondo i dati del Consiglio nazionale delle ricerche sono appena il 16 per cento dei piccoli che frequentano le scuole elementari. Il 70 per cento, invece, viene portato in auto. Ma non è sempre stato così. Anzi. Negli Anni Settanta i numeri erano capovolti. E l’autonomia dei bimbi cala, oggi, all’8 per cento nel Nord e sale al 30 per cento nel Sud. Il Cnr spiega, poi, che queste percentuali si alzano insieme al titolo di studio di madre e padre. Altre ricerche dicono, ancora, che soltanto metà dei ragazzini delle medie va a scuola senza accompagnamento adulto. Accade quindi, in Italia, che i nostri ragazzi ricevano il motorino e le sue chiavi senza aver mai sperimentato la libertà e la responsabilità di dover organizzare spostamenti autonomi.

Il pediatra-ricercatore Francesco Tonucci (del portale online “Un pediatra per amico”), ricorda che in Inghilterra nel 1970 andavano a scuola a piedi (e da soli) otto bambini su dieci, vent’anni dopo il rapporto era crollato a uno su dieci e oggi è di nuovo in risalita: il 32 per cento. L’accompagnamento di massa è una tipicità occidentale e metropolitana, ma altrove in Europa è stata affrontata e risolta. Grazie a piste ciclabili, diffusione del messaggio e moral suasion. In Germania — dove le città hanno numeri di residenti raffrontabili con le nostre — la percentuale dei bambini sciolti dai genitori nel percorso casa-scuola è del 76 per cento.

Una risposta consapevole ai bimbi auto-dipendenti è quella pratica chiamata Bike to school che si sta diffondendo nel nostro Paese. I pionieri sono stati i genitori della “Di Donato” di Roma, scuola materna, elementare e media multietnica all’Esquilino. Ci provarono nella settimana europea della mobilità sostenibile, venerdì 20 settembre 2013. In onore del Critical mass adulto, i genitori scelsero di radunarsi sul colle a gruppi sempre crescenti ogni ultimo venerdì del mese per dirigersi verso la scuola: oggi i venerdì in bicicletta sono diventati quattro al mese: i baby bikers sono cresciuti. Come gli ispiratori critici, i ciclomarmocchi in rotta per la classe spesso nel percorso rallentano le auto dietro di loro: segnale politico. Gli eventi Bike to school sono diventati nazionali, Roma è rimasta capofila e in questa stagione scolastica ha pedalato verso scuola nell’ultimo venerdì prima della chiusura natalizia — 19 dicembre 2014 — contando oltre 60 istituti partecipanti, ciascuno con tre-quattro percorsi possibili. Nell’evento precedente, quello del 28 novembre, in un gruppo della Di Donato con pettorina verde c’era anche il sindaco Ignazio Marino: ha accompagnato i bambini fino al portone della scuola. A Napoli si sono attivati diversi istituti superiori: un percorso è stato individuato e praticato a Scampia, con patrocinio del Comune. Aderiscono da due anni all’iniziativa genitori e figli di Caserta, Milano, Torino, Genova e Bologna.

E scrivono nei gruppi aperti su Facebook: «I bambini percepiscono che non è sano passare, la mattina, da un ambiente chiuso (la casa) a un altro (la macchina) e infine a un terzo (la classe) senza fare alcuno sforzo né attività fisica». Anna Becchi, madre della Di Donato, racconta: «Ho tre figli, sono un’attivista del gruppo romano #salvaiciclisti e insieme abbiamo voluto dimostrare che andare a scuola in bici è bello e si può fare, soprattutto se si è in tanti. La prima volta eravamo una trentina, adesso non li conto più».

Già. Perché i bimbi vivono la loro lunga giornata tra banchi, tv in salotto, corsi pomeridiani. Tutto sempre al chiuso. «Assistiti e vigilati da adulti, ma il rischio è una condizione necessaria per procedere nello sviluppo cognitivo, sociale, delle capacità e delle competenze», dice Tonucci. I bambini che vanno a scuola accompagnati in macchina, sostiene la letteratura medica, sono meno reattivi di quelli che vanno in bicicletta o a piedi. Giocano meno, sono spesso in sovrappeso, hanno minore sicurezza e minore autostima. Durante l’adolescenza soffriranno di più la solitudine. Chi si è abituato a spostarsi in macchina tenderà a conservare l’abitudine da adulto. Il numero di bambini investiti da automobili con alla guida genitori che portano i loro figli a scuola è il doppio della media.
E infine, come dice il pediatra Tonucci: «I nostri figli in bicicletta o a piedi per strada rendono più sicura la città».

postilla

Francamente, vengono i nervi, ogni volta che si leggono questi articoli dove qualcuno ha scoperto la pietra filosofale, la soluzione panacea ai problemi urbani dell'umanità tappandosi occhi e orecchie rispetto a cosa dovrebbe poi significare quell'aggettivo, “urbano”. Ovvero al contesto dentro cui sono maturati i problemi, e a cui si dovrebbe guardare sempre: perché si va e viene da scuola (come da ogni altra cosa) in auto? Certo esistono aspetti abitudinari, psicologici, di ansia dei genitori e nonni da iper protezione dei pupi, ma ancora: cosa stuzzica questa ansia, se non un ambiente generale che non si percepisce come sicuro? Di questo, buona parte del cosiddetto dibattito sulla mobilità dolce non parla mai, salvo con quella rituale richiesta di piste ciclabili, che pare ormai assimilabile a quella dei militari per strada a tutela del cittadino, o all'essere giovani per occupare dei posti, quanto a banalità. Ci si muove in auto perché lo spazio dentro a cui ci spostiamo è stato concepito male, senza seguire il criterio minimo individuato da un sociologo dei servizi scolastici nel 1913: l'edificio con la scuola dell'obbligo si deve trovare a una distanza percorribile facilmente a piedi in tutta sicurezza rispetto alle abitazioni. Quel sociologo si chiamava Clarence Perry, dieci anni dopo perfezionò il tutto nella teoria della “unità di vicinato”, che però venne al volo sequestrata da un commando mascherato di architetti, e rapidamente ridotta a un confuso ammasso di slogan estetizzanti, pronti a evaporare, nonostante alcune positive sperimentazioni negli odiati quartieri razionalisti del '900. Forse tornare a quel concetto base, dove c'è un bambino in età scolare, la porta della casa da cui esce, e quella della scuola all'altra estremità, aiuta. Oppure siamo come sempre “oltre”? (f.b.)

«Il collegamento deve essere preso molto alla lontana, non perché non esista, ma perché ha bisogno di una serie fin troppo lunga di precisazioni e contestualizzazioni. Basta a volte spostarsi di qualche centinaio di metri, nel medesimo quartiere, per scoprire che il disagio pare svaporato per miracolo, pur restando immersi nei medesimi spazi fisici, tipi di edifici, strade, verde». Today.it, 11 Gennaio 2015

Ce l'hanno raccontato in lungo e in largo, come la biografia degli autori degli attentati di Parigi sia inscindibile dall'ambiente della banlieu. E del resto da qualche anno, con notevole puntualità e regolarità, che siano i saccheggi dei negozi perbene a Londra, o le manifestazioni surreali tra le villette e i fast food di Ferguson, o qualche comportamento oltre i limiti della demenza dalle nostre parti italiane, non si manca mai di collegare un certo tipo di spazi ad alcuni problemi. Il collegamento però deve essere preso molto alla lontana, non perché non esista, e non sia per certi versi diretto, ma perché ha bisogno di una serie fin troppo lunga di precisazioni e contestualizzazioni. Infatti se solo ci pensiamo un istante, la nostra testa quando evoca quelle arterie commerciali britanniche, i parcheggi del suburbio americano, o certe nostre distese di prati spelacchiati tra palazzi razionalisti, ricostruisce spazi diversissimi, chiamandoli nello stesso modo. E dicendoci in modo piuttosto chiaro, che se hanno qualcosa indubbiamente in comune, non si tratta delle forme fisiche.

Hanno tutte la capacità di produrre quel genere di disagio che spesso sfocia, seguendo un canale o l'altro, nelle psicopatologie violente e senza sbocco non autoreferenziale. Che siano i saccheggi e gli incendi di negozi per rubacchiare stupidaggini da consumi infantili, o urlanti confuse spesso autolesionistiche manifestazioni contro tutto e contro tutti, o addirittura l'innescare l'altrettanto confusa conflittualità estrema che poi sfocia nella criminalità organizzata o nelle varie forme di terrorismo, a seconda del caso che fa incontrare i disagiati con questo o quel maître à penser. Questo plasmare cervellini particolarmente fragili è un carattere delle periferie, evidentemente non proporzionale alla distanza tra gli edifici, agli standard a parcheggio o verde, allo stato di manutenzione delle tubature, o degli spazi comuni. Ovvero tutti quegli aspetti che, attraverso processi partecipativi o meno, con assemblee nelle scuole, urla di casalinghe, riunioni pensose al centro civico, affrontano i vari cosiddetti piani per le periferie, puntualmente focalizzati nel risolvere tutto ciò che evidentemente, almeno così da solo, non produce affatto disagio.

Del resto basta a volte spostarsi di qualche centinaio di metri, nel medesimo quartiere, per scoprire che il disagio pare svaporato per miracolo, pur restando immersi nei medesimi spazi fisici, tipi di edifici, strade, verde. A volte esiste qualche indizio abbastanza chiaro almeno a indicare un percorso di riflessione: come le case in proprietà anziché in affitto, ad esempio, che secondo molto pensiero conservatore sono sinonimo di identità e stabilità, delle famiglie e degli individui. Oppure l'epoca di costruzione e tipo di occupazione dei fabbricati, o presenza o meno di attività economiche in qualche pianterreno. Altre volte neppure un indizio labile del genere, salvo la constatazione che in un posto c'è il disagio, nell'altro no, e che di sicuro gli spazi fisici sono identici. Ma una cosa è certa: quegli spazi, da soli, non cambiano nulla. E chissà che quest'ultima traumatizzante esperienza, di pochissimi balordi psicopatici terroristi, che si sono maturati tutto il loro disadattamento nel brodo di coltura della periferia, non convinca qualcuno di importante. Lo convinca, sul serio, a piantarla per sempre, ogni qual volta succede qualche manifestazione di disagio nelle periferie, ad uscirsene con la solita pensata: chiamiamo un bravo architetto!

«Alcune dichiarazioni fanno scattare per lo scrittore una denuncia da parte della società francese che realizza la Torino-Lione. L'accusa è "istigazione pubblica a commettere delitti" per aver detto che la TAV va sabotata. "Ma chi è davvero minacciato dall'incriminazione che mi è stata rivolta è l'articolo 21 della Costituzione». Altreconomia.it, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)

Nel settembre 2013, la LTF, ditta francese costruttrice della linea TAV Torino-Lione, annuncia una denuncia contro lo scrittore Erri De Luca, per le dichiarazioni rese all'Huffington Post Italia e all'Ansa. La denuncia viene effettivamente depositata il 10 settembre 2013 presso la Procura della Repubblica di Torino. «La Tav va sabotata», aveva detto Erri De Luca. Il 5 giugno 2014 sì è svolta la prima udienza preliminare, a porte chiuse. Il 9 giugno 2014 viene stabilito il rinvio a giudizio, per il 28 gennaio 2015. L'accusa è di aver «pubblicamente istigato a commettere più delitti e contravvenzioni ai danni della società LTF sas», come si legge nell'avviso di garanzia.

A due settimane dall'inizio del processo, il 14 gennaio 2015, uscirà in Italia e Francia un piccolo libretto di 64 pagine. Si intitola La parola contraria, è edito da Feltrinelli e costa 4 euro. È la “pubblica difesa” dello scrittore. Lo abbiamo intervistato.

Erri De Luca, quella in Val di Susa è una «lotta massicciamente diffamata e repressa». Perché?
La Val di Susa è un caso unico per la resistenza che la vallata ha saputo opporre a una 'grande' opera. In altri territori le ruspe e le trivelle sono passate con più facilità. È un caso unico per la qualità della resistenza civile degli abitanti di questa valle. È una lotta di pura e legittima difesa, indispensabile in un Paese come l'Italia. Ma attenzione, non è una lotta di retroguardia, semmai di avanguardia. Gli abitanti della Val di Susa dimostrano e stabiliscono il diritto di sovranità delle popolazioni locali sulle risorse, sull'aria, sull'acqua, sulla salute. Le loro voci sono minacciate dalla strafottenza pubblica nei confronti della vita civile. È una lotta di lunga durata ormai: una lotta esemplare per quel che riguarda il Paese e l’Europa. Una volta archiviato il cantiere, credo che verrà studiata nei libri di scuola.

Riflettendo sulla “istigazione” di cui l'accusano, lei scrive: «Vorrei essere lo scrittore incontrato per caso, che ha mischiato le sue pagine ai nascenti sentimenti di giustizia che formano il carattere di un giovane cittadino. […] Istigare un sentimento di giustizia, che già esiste ma non ha ancora trovato le parole per dirlo e dunque riconoscerlo. […] Di fronte a questa istigazione cui aspiro, quella di cui sono incriminato è niente».
Lo scrittore è una voce pubblica, che ha il compito di proteggere il diritto di tutti a esprimere la propria. Io mi considero un cittadino sia della Val di Susa sia di Lampedusa: posti nei quali la tenacia popolare ha smentito la diffamazione che è stata rivolta loro. I valsusini sono definiti "montanari" contrari al treno e all’alta velocità, amanti forse del calesse. La verità è che difendono il loro territorio da quello che ho definito '"stupro", in una delle più intense e durevoli lotte di prevenzione popolare contro la distruzione. È quindi ovvio che non possano transigere, che non siano trattabili la vallata e la loro salute. Non possono cambiare la loro posizione. Possono solo essere deportati. Non si può transigere sul diritto ad abitare quel suolo.

Il processo cui va incontro è un processo sulla libera informazione e sulla libertà di parola.

Nel nostro Paese l'informazione è piuttosto compromessa. Io la chiamo informazione 'embedded", al seguito delle truppe, del bollettino di guerra degli stati maggiori. I giornali sono aziende la cui linea è dettata dal cda, dove i giornalisti sono impiegati. La libertà di stampa si è ridotta a termini simili a quelli precedenti alla Seconda guerra mondiale. Solo che oggi siamo sotto la dittatura dell’economia. Anche i nostri rappresentanti politici sono stati scelti in base alle loro fortune economiche. La tradizione di idolatria dell’economia è recente. Ma chi è davvero minacciato dall’incriminazione che mi è stata rivolta è l’articolo 21 della Costituzione. Le accuse nei miei confronti sono un tentativo di imporre il silenzio nei confronti degli altri. Nei miei confronti ovviamente non funziona. Qui è in discussione la libertà di parola contraria. Finché è ossequiosa e rispettosa delle autorità e delle malefatte, la libertà di parola è sempre ben accetta. Quella contraria invece è sottoposta a giudizio o censura.

Ci sono montagne di documentazione che dimostrano, da anni, che la TAV in Val di Susa è inutile e dannosa. Allora perché tanti si ostinano a sostenerla, e lo Stato la considera un'opera “strategica”?
Si tratta di motivi di uniformità alle direttive economiche. Si tratta dei vantaggi delle imprese che devono realizzarla. Non la faranno mai, ma finché dura continueranno a lucrarci, anche a cantiere svuotato continueranno a guadagnarci. Un po' come accade con il Ponte sullo stretto di Messina. Sul fatto che sia strategica per lo Stato, registro che però io sono stato denunciato da una ditta privata. Sfido allora la pubblica autorità a costituirsi parte civile contro di me. Manca questo tassello a completare l’intimidazione. Non è detto che non lo facciano entro il 28 gennaio.

Tuttavia non si ritiene una vittima, né di aver subito un torto.
'"Vittima" è una parola che mi dà fastidio. Io sono testimone di un abuso nei miei confronti e nei confronti di una comunità. Se verrò condannato, non ricorrerò in appello -i miei avvocati sono ormai rassegnati-. I miei ragionamenti sono quelli contenuti nel libro: se non saranno sufficienti in primo grado non vedo il motivo per andarmi a cercare una seconda aula in cui ripetere gli stessi argomenti cercando migliore udienza. Se quello di cui sono accusato è un reato, allora mi dichiaro reo confesso e recidivo. Ho scelto anche di non cambiare tribunale (per incompatibilità ambientale, ndr), poiché per i processi No Tav non è mai stato fatto. La linea difensiva è svolgere il dibattimento il prima possibile, senza presentare obiezioni né testimoni. Le mie sono parole che ho sempre pronunciato. Non era la prima né l’ultima volta che le pronunciavo: sono convinto della ragioni della Val di Susa. Per me prendere la parola a favore di una comunità è un dovere. Fa bene alla mia salute. Se mi censuro, censuro il mio vocabolario, mi danneggio. Le leggi dicono che potrei andare in carcere.

In questi mesi ha ricevuto molto sostegno. «I tempi cambiano», scrive nel suo libro.
C'è stata molta solidarietà nei miei confronti a partire sin da giugno. Molte persone hanno letto in pubblico le mie pagine. È la cosa più bella che mi sia capitata in questa vicenda. Non si tratta di solidarietà sull’argomento, ma affetto nei confronti delle pagine scritte. È questa la mia linea difensiva: se ci sono dei precedenti di istigazione vanno cercati nella scrittura, non nella mia biografia. Io ho espresso una mia opinione, che è stata criminalizzata. Inoltre c'è stata la solidarietà degli editori, che hanno deciso per un prezzo così basso per il libro. Col resto ci si prende un caffè.

Serie di osservazioni condivisibili sull'opportunità di spostare il tiro negli investimenti infrastrutturali, che così servirebbero certamente meglio il territorio. Corriere della Sera Milano, 10 gennaio 2015

Il tema della mobilità nell’area metropolitana milanese merita qualche nota per capire se esistono margini di miglioramento. Quella che segue è la sintesi di riflessioni che per molti anni sono state condotte da un fertile gruppo di pensiero all’interno del Politecnico di Milano. Di recente esse sono avvalorate da un serio rapporto della Corte dei conti francese. L’analisi che qui interessa sostiene che «mettere in esercizio un sistema europeo di segnalamento e gestione del traffico lungo le linee ferroviarie esistenti raddoppierebbe la capacità, con un costo pari a un quindicesimo di una linea ad alta velocità». Una verifica veloce conferma la possibilità di ottenere risultati analoghi anche da noi. Oggi questa tecnologia in Lombardia è attiva solo sulle linee Alta Velocità e il costo della gestione è pari a circa 1,5 milioni/km, anche se sono allo studio sistemi molto meno costosi. Di contro, realizzare ogni chilometro di linea Alta Velocità della Milano-Torino è costato, incluse le compensazioni territoriali, circa 62 milioni (in pianura, un primato di costo).

Veniamo al dunque. Con risorse scarsissime (ma per la diffusione della tecnologia c’è il Fondo europeo per gli investimenti), le disponibilità andrebbero orientate verso le opere più efficaci, in primis il potenziamento del sistema ferroviario metropolitano e dei parcheggi di corrispondenza nei luoghi di partenza dei pendolari. Sarebbe illusorio pensare di dotare l’area metropolitana di servizi di trasporto pubblico capillari, mentre è ragionevole pensare che l’auto privata possa coprire il primo segmento dello spostamento, casa-stazione. Il risultato sarebbe la riduzione di congestione e inquinamento. Se gli amministratori saranno coraggiosi, fra qualche anno in città troveremo, oltre ai mezzi pubblici collettivi, bici e micro veicoli elettrici da noleggiare, in quantità decisamente superiore a quelli oggi disponibili, per coprire primo e ultimo miglio.

Questo significa rinunciare all’Alta Velocità? Sì, se pensiamo al modello Milano-Roma; no se pensiamo a infrastrutture meno ambiziose e più adatte a un territorio caratterizzato dalla presenza di città medie, più o meno a 50 chilometri l’una dall’altra. Che senso avrebbe non servirle con cadenze ragionate? E se il servirle implicasse una riduzione delle velocità di punta da 300 a 200 chilometri/ora sarebbe un problema? Certamente no. La Germania, con una struttura urbana molto simile alla nostra, ha già optato con successo per un modello simile, risultato efficace e redditizio, sulla rete esistente.

«Alcuni brani da La parola contraria di Erri de Luca, da oggi nelle librerie per Feltrinelli. La difesa preparata dallo scrittore nel processo che lo vede imputato per le sue dichiarazioni sulla necessità di bloccare i lavori in Val di Susa». Il manifesto, 8 gennaio 2015
Uno scrit­tore ha in sorte una pic­cola voce pub­blica. Può usarla per fare qual­cosa di più della pro­mo­zione delle sue opere. Suo ambito è la parola, allora gli spetta il com­pito di pro­teg­gere il diritto di tutti a espri­mere la pro­pria. Tra i tutti com­prendo in prima fila i muti, gli ammu­to­liti, i dete­nuti, i dif­fa­mati da organi d’informazione, gli anal­fa­beti e chi, da nuovo resi­dente, cono­sce poco e male la lingua.

Prima di dovermi impic­ciare del mio caso, posso dire di essermi occu­pato del diritto di parola di que­sti altri.

«Ptàkh pìkha le illèm»: apri la tua bocca per il muto (Proverbi/Moshlé 31,8). Oltre a quella di comu­ni­care, è que­sta la ragione sociale di uno scrit­tore, por­ta­voce di chi è senza ascolto. Sal­man Rush­die con il suo romanzo Ver­setti sata­nici ha sca­te­nato mani­fe­sta­zioni di masse isla­mi­che con­tro una bla­sfe­mia risen­tita nel suo rac­conto. Delle per­sone sono scese in piazza e sono morte per que­sto effetto di rea­zione. Il romanzo di Goe­the I dolori del gio­vane Wer­ther sca­tenò un’ondata di sui­cidi nei gio­vani europei.

Con minori con­se­guenze, Rei­n­hold Mes­sner 25 con le sue pub­bli­ca­zioni ha atti­rato let­tori a salire in mon­ta­gna e alpi­ni­sti a ten­tare le sue imprese. Mauro Corona ha fatto venire voglia ai suoi let­tori di visi­tare Erto e la diga del Vajont. Que­sti sono casi di isti­ga­zione? O con più pro­prietà di lin­guag­gio e nes­suna con­se­guenza penale sem­pli­ce­mente sug­ge­stioni dovute al verbo ispi­rare? Se dalla parola pub­blica di uno scrit­tore seguono azioni, que­sto è un risul­tato ingo­ver­na­bile e fuori del suo controllo.

Le parole pos­sono solo que­sto, anche quando inci­tano a più impe­tuosi impe­gni: Aux armes citoyens è isti­ga­zione pre­sente nella Mar­si­gliese, inno nazio­nale fran­cese, il più bello che cono­sco. Incita alla guerra civile, a pren­dere le armi con­tro il tiranno. Fa da colonna sonora sot­tin­tesa di ogni insur­re­zione. Claude Joseph Rou­get de Lisle, autore del testo, aspetta da un paio di secoli denun­cia per istigazione.

L’utopia non è il tra­guardo ma il punto di par­tenza. Si imma­gina e si vuole rea­liz­zare un luogo che non c’è ancora.

Uno stu­pro del territorio

La Val di Susa si batte dal tempo di una gene­ra­zione per il motivo oppo­sto: per­ché il luogo ci sia ancora. Non quello imma­gi­nato da chi, pur di rea­liz­zare pro­fitto su uno dei tanti grandi lavori, è indif­fe­rente al danno pro­cu­rato alla salute pub­blica. Uto­pia, e delle peg­giori, è l’asservimento di un ter­ri­to­rio a una spe­cu­la­zione dichia­rata, per meglio abu­sare, stra­te­gica. Le per­fo­ra­zioni e la pol­ve­riz­za­zione di gia­ci­menti di amianto fanno inor­ri­dire chiun­que abbia noti­zia del gua­sto mici­diale di uno spar­gi­mento delle sue fibre tos­si­che. La mia defi­ni­zione è: stu­pro di ter­ri­to­rio. La Val di Susa si batte con­tro il disa­stro ambien­tale per scon­giu­rarlo, per non doverlo pian­gere dopo. Si tratta della più intensa e dure­vole lotta di pre­ven­zione popo­lare. Paga que­sta sua volontà con una repres­sione su scala di massa e con la mili­ta­riz­za­zione della sua vita civile.

Una grande pre­po­tenza pre­tende di schiac­ciare le ragioni e i corpi di una pic­cola val­lata. Resi­stono da una gene­ra­zione con deter­mi­na­zione com­mo­vente. Da com­mosso ho ade­rito alle loro ragioni aggiun­gendo spesso e da molti anni la mia pre­senza fisica alle loro mani­fe­sta­zioni. Il nostro paese ha biso­gno di rin­no­varsi scrol­lan­dosi di dosso i paras­siti delle cor­ru­zioni, degli inte­ressi pri­vati a danno delle pub­bli­che spese, dei pri­vi­legi. L’organismo è sano ma il suo manto è aggre­dito. In Val di Susa il corpo rea­gi­sce e osta­cola lo scavo degli acari infe­stanti, dei tarli rosic­chianti le mon­ta­gne. La resi­stenza civile pro­duce gli anti­corpi necessari.

Così pure a Lam­pe­dusa una comu­nità ha saputo rea­gire alla degra­da­zione impo­sta da leggi cri­mi­nali. Gli ordini venuti dal con­ti­nente hanno voluto strin­gere un nodo scor­soio intorno all’isola e farne terra chiusa. I Lam­pe­du­sani hanno sle­gato e fatto terra aperta.

Dare cibo, acqua, vestiti, allog­gio, pre­mura per gli amma­lati, i pri­gio­nieri, i morti: le sette opere di mise­ri­cor­dia sono state com­piute da loro, che vivono sul mare e usano leggi oppo­ste. E non sono Lam­pe­du­Santi, ma sem­pli­ce­mente Lam­pe­du­Sani. La rima nord e sud, Val di Susa e Lam­pe­dusa, riscatta oggi il titolo di cit­ta­dini da pre­po­tenze che li vogliono sudditi.

Per­ché si dia isti­ga­zione alla vio­lenza biso­gna dimo­strare la con­nes­sione diretta tra parole e azioni com­messe. In una dichia­ra­zione ripor­tata su «Left», sup­ple­mento di «l’Unità» (21 giu­gno 2014), Gae­tano Azza­riti, pro­fes­sore di Diritto costi­tu­zio­nale, afferma: «L’articolo 21 della nostra Costi­tu­zione ci per­mette la mas­sima libertà di espri­mere le nostre opi­nioni. Per que­sto i pub­blici mini­steri, in un caso come quello di De Luca, dovranno dimo­strare la con­nes­sione diretta tra le parole e l’azione… Se non si può dimo­strare un’immediata suc­ces­sione di eventi tra parole e azioni, allora il reato non esi­ste».

Isti­ga­zione alla vio­lenza: negli anni pas­sati degli auto­re­voli espo­nenti di par­titi, con largo seguito di iscritti e mili­tanti, hanno di volta in volta pub­bli­ca­mente minac­ciato il ricorso alle armi per rag­giun­gere dei loro obiet­tivi. In altre cir­co­stanze hanno annun­ciato il ricorso all’evasione fiscale di massa. Non sono stati inqui­siti dalla magi­stra­tura per il reato di istigazione.

Omis­sione di confronto

Sono d’accordo: anche se inve­stiti di auto­rità e di con­se­guente facoltà di pro­muo­vere azioni cri­mi­nose presso il largo seguito di ade­renti, hanno eser­ci­tato il loro diritto di parola. Nel mio caso la pub­blica accusa afferma che le mie parole hanno avuto un seguito di azioni. Mi attri­bui­scono un ruolo che nem­meno gli alti espo­nenti di par­tito hanno avuto.

Non appar­tengo a nes­suna for­ma­zione poli­tica. Par­te­cipo da cit­ta­dino a mani­fe­sta­zioni che con­di­vido e per inte­resse di testi­mone. Ma la pub­blica accusa afferma che avrei influen­zato il com­por­ta­mento di per­sone e la com­mis­sione di reati.

Si è arri­vati a pro­nun­ciare que­sto ragio­na­mento: dopo le mie frasi si sono pro­dotti tali epi­sodi. E prima delle mie frasi? Manca per omis­sione il con­fronto. Dopo la fab­bri­ca­zione dei faz­zo­letti di carta le per­sone si sono sof­fiate il naso. E prima? L’argomento è di quelli messi in ridi­colo da un buon mil­len­nio e fis­sati dalla frase latina: «Post hoc, ergo prop­ter hoc»: dopo di que­sto, dun­que a causa di questo.

I pub­blici mini­steri hanno esi­bito un elenco di epi­sodi com­piuti da mili­tanti No Tav, com­pi­lato dalla Digos di Torino, acca­duti a par­tire da set­tem­bre 2013. Tutti que­sti epi­sodi sono stati riven­di­cati da ano­nimi mili­tanti No Tav che dichia­ra­vano di avere agito in soli­da­rietà con quat­tro loro mili­tanti arre­stati. Tutti gli autori degli epi­sodi di quell’elenco hanno agito per soste­nere la causa dei loro com­pa­gni. Almeno uno, uno solo, poteva aggiun­gere, magari anche in mar­gine come postilla: e poi per­ché l’ha detto De Luca sull’«Huffington Post».

I pub­blici mini­steri esi­bi­scono come dimo­stra­zione un elenco incom­pleto, privo di raf­fronto con il periodo pre­ce­dente, e che per giunta dimo­stra il con­tra­rio.

Que­gli epi­sodi non c’entrano niente con le mie frasi incri­mi­nate da loro.

Dalle mie parti, al Sud, esi­ste un altro tipo di respon­sa­bi­lità della parola. Uno augura il peg­gio a una per­sona e quella più tardi subi­sce un inci­dente. Il tale del malau­gu­rio viene rite­nuto respon­sa­bile dell’accaduto e dà così avvio alla sua fama di iettatore.

Quando in uno sta­dio del Nord Ita­lia si incita la natura invo­cando «Forza Vesu­vio» si sta isti­gando un vul­cano all’eruzione. La rea­zione da parte meri­dio­nale non è stata una denun­cia ma l’esorcismo effi­cace di una grat­ta­tina in zona pubeale. Che la linea Tav in Val di Susa possa essere sabo­tata, che possa non sbu­care dall’altra e da nes­suna parte. Che pos­sano finire i fondi pub­blici desti­nati all’affarismo di aziende col­le­gate ai par­titi. Che un governo di nor­mali capa­cità di inten­dere e volere la lasci incom­piuta, come già altri 395 (tre­cen­to­no­van­ta­cin­que) grandi lavori in Ita­lia. Che possa essere dichia­rata disa­stro ambien­tale e i suoi respon­sa­bili per­se­guiti per que­sto. La linea Tav va sabo­tata: la frase rien­tra nel diritto di malaugurio.

Mini­stri di que­sto e di altri governi hanno dichia­rato la linea Tav in Val di Susa opera stra­te­gica. Stra­te­gico è agget­tivo di ori­gine mili­tare, stra­tega era il coman­dante dell’esercito greco. L’effetto è anche mili­tare: il can­tiere della per­fo­ra­zione e la val­lata sono sotto pre­si­dio di forze armate oltre che di corpi di poli­zia e carabinieri.

Stati di emergenza

Area di inte­resse stra­te­gico vuol dire sem­pli­ce­mente area sot­tratta a dis­senso, dove non si può pro­te­stare e dove per­tanto si può usare l’esercito con fun­zione di ordine pub­blico. La defi­ni­zione di area d’interesse stra­te­gico è pom­posa ma recente. Appli­cata al can­tiere Tav di Chio­monte, con legge del 12 novem­bre 2011, è stata in pre­ce­denza inven­tata per la Regione Cam­pa­nia, allo scopo di pro­teg­gere dalle pro­te­ste civili la costru­zione di impianti di smal­ti­mento rifiuti. Si capi­sce che l’aggettivo «stra­te­gico» infi­lato nella legge del 2011 è stato preso dalla spaz­za­tura (il DL 23/5/2008 n. 90 32 attri­bui­sce qua­li­fica di «area di inte­resse stra­te­gico nazio­nale» a siti, aree, impianti con­nessi alla gestione di rifiuti).

Sono incri­mi­nato per avere espresso la neces­sità di sabo­tare un’opera stra­te­gica per lo Stato. Ma a costi­tuirsi parte civile con­tro di me è una ditta pri­vata, Ltf sas. Non dovrebbe essere lo Stato con la sua avvo­ca­tura? Lo Stato non si ritiene dan­neg­giato dalla mia insu­bor­di­na­zione con­tro l’opera così deci­siva per le sorti pub­bli­che? Si nasconde die­tro la parte civile di una qua­lun­que ditta privata?

A pro­po­sito, la ditta in que­stione non è ita­liana ma fran­cese, con sede a Cham­bery: ltf sta per Lyon Turin Fer­ro­viaire. Biz­zar­rie del destino: caso vuole che in Fran­cia non siano in vigore le nostre nor­ma­tive anti­ma­fia nell’assegnazione degli appalti. Caso vuole che per la Fran­cia la linea Lyon-Torino non sia stra­te­gica né prio­ri­ta­ria. L’entusiasmo della ditta ltf non è con­di­viso in patria.

Chiedo che sia lo Stato a costi­tuirsi parte civile con­tro di me. Mi si pro­cessa per una dichia­ra­zione con­tro un’opera solenne e stra­te­gica del nostro ter­ri­to­rio e in caso di con­danna dovrei rim­bor­sare un’azienda fran­cese anzi­ché lo Stato ita­liano? Chiedo alla pub­blica e distratta auto­rità di pro­ce­dere alla costi­tu­zione di parte civile con­tro di me. Sarò con­dan­nato per essermi oppo­sto a un’opera di Stato e non a una qua­lun­que ditta estera venuta a far danno da noi

Mille proroghe nella legge del governo, ma per i più deboli non c'è proroga alcuna. Gli assessori di Roma, Milano e Napoli contro il governo. Il ministro Lupi: «Non drammatizzate». Il manifesto, 7 gennaio2015

Le deci­sione del governo di non rin­no­vare la pro­roga degli sfratti per il 2015 rischia di tra­sfor­marsi in «una bomba sociale». A lan­ciare l’allarme su un pro­blema che non si può ridurre a una pura e sem­plice que­stione di ordine pub­blico sono stati ieri Fran­ce­sca danese, Daniela Benelli e Ales­san­dro Fucito, asses­sori alle poli­ti­che abi­ta­tive di Roma, Milano e Napoli, tre dei quat­tro Comuni ita­liani ( l’ultimo è Torino) mag­gior­mente col­piti dall’emergenza sfratti. E lo hanno fatto lan­ciando un appello al governo Renzi in cui si chiede di fer­mare l’intervento delle forze dell’ordine per quanti si tro­vano ad avere il con­tratto sca­duto, scon­giu­rando così «una situa­zione altri­menti inge­sti­bile». Un appello al quale il mini­stro dei Tra­sporti Mau­ri­zio Lupi ha rispo­sto invi­tando i tre asses­sori a «non dram­ma­tiz­zare». per l’emergenza casa, ha detto Lupi, «il governo nel 2014 non è stato a guar­dare, anzi ha final­mente imboc­cato una strada nuova, cosciente che l’emergenza andava affron­tata in modo più radi­cale e e non con lo stru­mento vec­chio e logoro della proroga».

Il pro­blema nasce con al fine dell’anno e l’approvazione del decreto Mil­le­pro­ro­ghe senza l’abituale pro­roga degli sfratti per fine loca­zione. Un inter­vento giu­sti­fica dal mini­stero delle Infra­strut­ture con il fatto che nel decreto casa sono già attivi due fondi per un totale di 446 milioni, e salu­tato con sod­di­sfa­zione da Con­fe­di­li­zia, l’organizzazione dei pro­prie­tari immo­bi­liari per il cui pre­si­dente Cor­rado Sforza Fogliani, il governo ha messo fine a quella che era ormai diven­tata una «litur­gia». In realtà si tratta di un auten­tico dramma per le fami­glie inte­res­sate, circa 30 mila in tutta Ita­lia, che rischiano adesso di ritro­varsi con la poli­zia alla porta di casa. Tanto più se si con­si­dera che si tratta di fami­glie par­ti­co­lar­mente disa­giate dal punto di vista economico(il prov­ve­di­mento riguarda quanti hanno un red­dito infe­riore ai 27 mila euro annui lordi) oppure con a carico un parente anziano, por­ta­tore di han­di­cap o malato ter­mi­nale. «Non sono fami­glie che vogliono restare nella casa in cui sono per­ché par­ti­co­lar­mente attratte da quell’abitazione, ma per­ché non sono in con­di­zione di tro­vare sul mer­cato un altro allog­gio ade­guato alle loro ristrette pos­si­bi­lità», ha denun­ciato nei giorni scorsi il segre­ta­rio gene­rale del Sunia Daniele Barbieri.

Nei pros­simi giorni i tre asses­sori por­te­ranno la que­stione sfratti anche all’attenzione dell’Anci ma i tempi sono stretti e la situa­zione rischia dav­vero di diven­tare esplo­siva in tutta Ita­lia, dove le fami­glie a rischio sfratto sono tra le 30 e le 50 mila.

Quella legata agli sfratti è un’emergenza ulte­rior­mente aggra­vata dalla crisi eco­no­mica. Dal 2008 a oggi Roma ha regi­strato oltre die­ci­mila sen­tenze per finita loca­zione, Napoli 4.500 e Milano 4.000. Anche se lo stesso Vimi­nale ammette di no avere dati certi, il 70% delle fami­glie inte­res­sate dal prov­ve­di­mento ha i requi­siti pre­vi­sti dalla legge per otte­nere una pro­roga. Delle oltre 70 mila sen­tenze di sfratto emesse nel 2014 in Ita­liane sono state ese­guite 30 mila il 90% delle quali per moro­sità spesso incol­pe­vole. In pra­tica nel nostro paese si ese­guono media­mente 140 sfratti al giorno con la forza pub­blica e se si esclu­dono le fami­glie pro­prie­ta­rie di case e gli asse­gna­tari di alloggi pub­blici, que­sto signi­fica che ogni anno in Ita­lia uan sen­tenza di sfratto quasi sem­pre per moro­sità incol­pe­vole, tocca una fami­glia su quattro.

Defi­nire allar­mante un simile qua­dro della situa­zione è a dir poco ridut­tivo. La pro­roga sarebbe dovuta ser­vire pro­prio per inter­ve­nire in aiuto a que­sti nuclei fami­liari, che il governo ha invece pre­fe­rito igno­rare garan­tendo in com­penso un inter­vento a soste­gno di ade­guati piani casa da parte dei comuni,. Inter­vento che, però, finora non si è visto.

Chiaro che la situa­zione rischia adesso di diven­tare incan­de­scente. «Si rischia una bomba sociale deva­stante», ha detto ieri il depu­tato di Sel Fili­berto Zaratti. «Serve un piano straor­di­na­rio che affronti e risolva l’emergenza abi­ta­tiva con stan­zia­menti di risorse per l’edilizia resi­den­ziale pub­blica e poli­ti­che abi­ta­tive che ci con­sen­tano di uscire dalla logica dell’emergenza»

«Il "progetto di rammendo" di Renzo Piano, pur originale e privo di sensazionalismi, non basta a risolvere la questione sociale. Dimenticate da tutti, perfino da urbanisti e sociologi, le diseguaglianze sono il vero motore delle rivolte». Il manifesto, 6 gennaio 2015

Ces­sato l’allarme, la “que­stione peri­fe­rie” torna nel cono d’ombra dei media come fosse stata un feno­meno iso­lato e pas­seg­gero, un capric­cio di una parte della città delusa e abban­do­nata. Ora c’è il “pro­getto di ram­mendo” affi­dato a Renzo Piano e al suo gruppo di lavoro G124, e così la poli­tica passa volen­tieri la mano (meglio sarebbe dire la palla) all’architettura e all’urbanistica, rinun­ciando al suo ruolo guida.
È invece utile non sot­to­va­lu­tare quanto è suc­cesso nelle nostre peri­fe­rie (e quello che potrebbe ancora acca­dere) ricor­dando le parole di una lunga inter­vi­sta a Fou­cault («spa­zio, sapere e potere») a chi gli chie­deva quale fosse il ruolo dell’urbanistica e dell’architettura nella società moderna: «All’inizio del XVII secolo si smette di con­ce­pire la città come un luogo pri­vi­le­giato, come un’eccezione all’interno di un ter­ri­to­rio costi­tuito da campi, fore­ste e strade. D’ora in poi le città, con i pro­blemi che sol­le­vano e le con­fi­gu­ra­zioni par­ti­co­lari che assu­mono, ser­vono da modelli per una razio­na­lità di governo che verrà appli­cata all’insieme del territorio».

E del resto lo stesso Renzo Piano con­ferma come «il grande pro­getto del nostro Paese sia quello delle peri­fe­rie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasce­remo in ere­dità ai nostri figli. Sono ric­che di uma­nità, qui si trova l’energia e qui abi­tano i gio­vani cari­chi di spe­ranze e voglia di cam­biare».

Tut­ta­via incal­zato dai suoi allievi che gli chie­dono se certi pro­getti archi­tet­to­nici pos­sono rap­pre­sen­tare delle forze di libe­ra­zione o, al con­tra­rio, delle forze di resi­stenza, Fou­cault risponde: «La libertà è una pra­tica. Dun­que può sem­pre esi­stere in effetti un certo numero di pro­getti che ten­dono a modi­fi­care deter­mi­nate costri­zioni, ad ammor­bi­dirle, o anche ad infran­gerle, ma nes­suno di tali pro­getti, sem­pli­ce­mente per pro­pria natura, può garan­tire che la gente sarà auto­ma­ti­ca­mente più libera».

Il con­tri­buto di Renzo Piano al pro­blema delle peri­fe­rie, sia pure mosso da buoni pro­po­siti, ha il punto debole (non impu­ta­bile a lui) nell’affrontare la que­stione solo nella dire­zione dell’architettura e dell’urbanistica: «Si deve inten­si­fi­care la città, costruire sul costruito, sanare le ferite aperte. Di certo non biso­gna costruire nuove peri­fe­rie oltre a quelle esi­stenti: devono diven­tare città ma senza espan­dersi a mac­chia d’olio, vanno ricu­cite e fer­ti­liz­zate con strut­ture pubbliche.È neces­sa­rio met­tere un limite a que­sto tipo di cre­scita, non pos­siamo più per­met­terci altre peri­fe­rie remote, anche per ragioni eco­no­mi­che». Su que­sta que­stione, nel pro­ce­dere dell’intervista, Fou­cault si esprime con molta deter­mi­na­zione: «Penso che l’architettura (e l’urbanistica, ndr) possa pro­durre, e pro­duca, degli effetti posi­tivi quando le inten­zioni libe­ra­to­rie dell’architetto coin­ci­dono con la pra­tica reale delle per­sone nell’esercizio delle loro libertà».

Ora biso­gna rico­no­scere che Renzo Piano è uno dei più bravi archi­tetti ita­liani per cul­tura, serietà e pro­fes­sio­na­lità, ma ha ragione Ema­nuele Picardo ad affer­mare su que­sto stesso gior­nale (il mani­fe­sto del 30/12/2014) che: «Affron­tare la peri­fe­ria solo con lo sguardo dell’architetto è un pec­cato ori­gi­nale che ne impe­di­sce una let­tura com­plessa e arti­co­lata».

E qui è neces­sa­rio resti­tuire di nuovo la parola a Fou­cault: «L’esercizio della libertà non è del tutto insen­si­bile alla distri­bu­zione degli spazi, ma esso può fun­zio­nare sol­tanto dove si dà una certa con­ver­genza; se vi è diver­genza o distor­sione l’effetto pro­dotto è imme­dia­ta­mente con­tra­rio a quello ricer­cato». Que­sto è quello che è acca­duto al pro­getto rutel­liano delle «cento piazze». Alcune di esse, come a San Basi­lio hanno avuto un certo suc­cesso; altre, come al Quar­tic­ciolo, stanno per essere sman­tel­late per­ché gli abi­tanti le sen­tono estra­nee e vogliono ritor­nare alla piazza che c’era negli anni ’50.

Dun­que un pro­getto architettonico-urbanistico o viene con­ce­pito e rea­liz­zato diret­ta­mente (e auto­ri­ta­ria­mente) dal Prin­cipe, oppure, in epoca moderna, non può che sca­tu­rire (sia pure con l’autonomia neces­sa­ria) all’interno di una cor­nice poli­tica che detta una pro­pria visione della società, una poli­tica intesa come media­zione di inte­ressi in gioco, inter­pre­ta­zione dei biso­gni, espli­citi o meno, degli abi­tanti che quei luo­ghi li abi­tano e li attra­ver­sano quo­ti­dia­na­mente. Se la poli­tica delega in toto la solu­zione dei pro­blemi sociali all’architettura e all’urbanistica, il pro­getto che ne con­se­gue risulta monco, affi­dato al libero arbi­trio (ed estro) del suo Pro­get­ti­sta che viene gra­vato di un com­pito impro­prio e improbo, ovvero quello di risol­vere que­stioni sociali che non gli com­pe­tono diret­ta­mente, il che facil­mente dege­nera in opere auto­ce­le­bra­tive che a Roma, per fare un esem­pio, si chia­mano la “Nuvola” o lo “Sta­dio del nuoto” (e rimane solo da spe­rare che tra di esse non com­paia infine anche il nuovo sta­dio della Roma a Tor di Valle).

È vero che il “pro­getto di ram­mendo” di Piano ha una sen­si­bi­lità diversa e si rivolge ai quar­tieri peri­fe­rici senza cer­care effetti sor­pren­denti né sen­sa­zio­na­li­smi e uti­liz­zando poche risorse (poco più dello sti­pen­dio di sena­tore a vita messo a dispo­si­zione da Piano), ma è la cor­nice poli­tica che manca, ciò che a suo tempo dava senso alle geniali ini­zia­tive di Nico­lini nello sce­na­rio poli­tico impo­stato da Petro­selli. Per­ché a fronte di tante dema­go­gie popu­li­ste biso­gna pur affer­mare e difen­dere l’autonomia delle scelte pro­get­tuali — archi­tet­to­ni­che o urba­ni­sti­che — che mai deb­bono essere pie­gate al volere dei poteri domi­nanti quale che siano, come avve­niva già nel Rinascimento.

Una delle prin­ci­pali con­di­zioni che distin­gue le attuali peri­fe­rie da quelle degli anni ’50 e ’60 è la cre­scita pro­gres­siva delle disu­gua­glianze sociali. Anche nelle prime peri­fe­rie urbane, la causa del degrado nasceva dalle con­di­zioni di povertà ma, all’epoca, c’era l’attesa e la quasi cer­tezza che lo svi­luppo e il benes­sere prima o poi, avrebbe rag­giunto tutti gli strati sociali. Que­ste con­di­zioni di povertà sono diven­tate ora strut­tu­rali, cro­ni­che, fisi­che, esi­sten­ziali, tra­sfor­mate in con­di­zioni di mise­ria, senza che si abbia più la per­ce­zione che esse pos­sano miglio­rare, in un qua­dro sociale imbar­ba­rito dove pre­vale il morbo indi­vi­dua­li­sta del «spe­riamo che io me la cavo».

E al tempo stesso la que­stione sociale al cen­tro di tante e famose opere let­te­ra­rie dell’800 e della prima metà del ’900, da Zola a Stein­beck, da Bal­zac ad Hugo, come affer­mava qual­che giorno fa Alberto Asor Rosa su La Repub­blica, «non vive più nelle coscienze delle per­sone. La per­ce­zione e la con­danna delle disu­gua­glianze sociali è stata respinta ai mar­gini, non inte­ressa». La stessa sorte capita agli urba­ni­sti, ai socio­logi, agli antro­po­logi per i quali la que­stione delle disu­gua­glianze in quanto sud­di­vi­sione della società tra chi pos­siede molto e chi non pos­siede niente, si con­suma e si dis­solve nella ricerca di impro­po­ni­bili solu­zioni specialistiche.

Per­fino i gio­vani ricer­ca­tori la aggi­rano: anche loro inda­gano casi par­ti­co­lari, seg­men­ta­zioni sociali, quasi che que­sti fos­sero iso­la­bili dal con­te­sto sociale più gene­rale. Ci si occupa di rifu­giati, pro­fu­ghi, Rom, bar­boni, occu­panti di case, sto­rie iso­late di vicende per­so­nali. È come se que­sta società si fosse fatta distratta, avesse rimosso il tema del con­flitto sociale e non tenesse più in conto di quello che Sti­glitz chiama il prezzo della disu­gua­glianza, il vero motore delle rivolte. Se il mondo diventa sem­pre più duale e la peri­fe­ria rap­pre­senta quel 99% di chi non pos­siede niente che asse­dia le comu­nità blin­date di quel l’1% che pos­siede tutto, la solu­zione può essere solo quella di cam­biare dire­zione, e politica

Dato per scontato che una personalità come quella dell'autore intervenga su questo aspetto della “questione periferie”, lascia sgomenti però l'assenza di contributi di tipo scientifico o politico esterni al progetto spaziale. Corriere della Sera, 5 gennaio 2015, postilla (f.b.)

Gli scontri nelle periferie delle città italiane hanno fatto riemergere alla fine del 2014 la questione sociale generale della vita nelle periferie. È certo una questione che nelle forme che conosciamo ha inizio soltanto duecento anni or sono. Prima dell’età della meccanizzazione, non senza ragione, esse si definivano borghi o sobborghi o banlieues; e dopo invece slums, o bidonvilles nei Paesi in via di sviluppo. La questione delle periferie è stata oggetto (nelle vicende della società europea) di dibattiti, studi e proposte molto articolate e, da parte dell’architettura, di molte proposte strutturali, come le garden cities e le new towns. E, prima ancora, delle utopie di Fourier oppure in quanto «ripresa» del modello insediativo rurale (come nel Movimento Moderno) o ancora in quanto «risposta» razionale e moralmente doverosa dell’abitazione operaia: il tutto secondo diverse interpretazioni degli ideali socialdemocratici del welfare state, ma pur sempre in quanto «risposta» di soccorso urgente di un problema abitativo a basso costo di costruzione, di terreno e di servizi. Tutto questo anche con progressivi interventi di miglioramento delle loro connessioni con le parti centrali e storiche della città accanto alla quale erano collocate e la cui espansione le avrebbe poi travolte e riassorbite in quanto categoria insediativa e sociale diversa e separata.

Nello stato di incertezze culturali, di forte scarsità economica e di richiesta di attenzione nell’aumento della povertà e delle emergenze sociali dei nostri ultimi anni, mi rendo conto, forse è possibile rispondere solo con l’idea di «rammendo» e di «aggiustamento»; tuttavia questo non dovrebbe far dimenticare la necessità di indirizzare le opere nuove o di modificazione verso una concezione strutturale che deve proporre una discussione di fondo sulla nozione stessa di periferia, anche in relazione alla tensione in aumento verso l’abitare urbano e, quindi, verso un’organizzazione nuova dell’espansione delle città. Le città, almeno quelle europee, grandi e piccole, di fondazione, o come ingrandimento di un villaggio, come polis o come «città coloniale», con tutte le loro stratificazioni hanno conservato nella storia (pur con le loro modificazioni, rifacimenti, ristrutturazioni, aumenti e diminuzioni di popolazione) il carattere irrinunciabile della loro mescolanza sociale e funzionale e della presenza di servizi essenziali. Ma anche di monumenti di riferimento all’identità della città stessa e della sua cultura delle sue parti.

Nonostante le rilevanti differenze della vita collettiva e singolare dei nostri anni, l’espansione delle tecnologie e delle comunicazioni (e nonostante la presa di coscienza della globalità e delle differenze culturali dell’abitare del nostro intero pianeta) il fatto urbano deve offrire ovunque il proprio carattere fondamentale di mescolanza sociale, di lavoro, di cultura e di servizi che caratterizza da sempre l’idea di città: contro ogni specializzazione ingiustificata, contro ogni idea di gated community di poveri, di ricchi o di diversi. Questo non significa negare il carattere dei quartieri che costituiscono l’insieme urbano ognuno dei quali nasce in una particolare occasione economica e di costume storico, con regole insediative, densità, eccezioni e principi diversi di costruzione delle forme architettoniche, e degli spazi aperti. Quindi anche il «rammendo», l’emergenza, il soccorso dovuto, non dovrebbero mai dimenticare l’obbiettivo di modificazione strutturale di qualunque parte urbana costituito dalla coltivazione progressiva della mescolanza funzionale, sociale, di lavoro. Ma anche della presenza di elementi eccezionali (un’università, un teatro, un museo, ecc.) a servizio dell’intera città che favoriscano l’interscambio necessario delle parti alla costituzione dell’identità urbana.

postilla

Per chiarire forse meglio il senso di questo articolo, il suo inserirsi organico in un filone di dibattito sostanzialmente architettonico e progettuale (quindi parziale) sul tema periferie, basta ripercorrere il modo in cui si citano i riferimenti: le città giardino sia nella versione originaria che nello sviluppo novecentesco della
new town, o prima ancora alcuni portati spaziali delle utopie classiche ottocentesche, sono riproposti coerentemente nell'interpretazione dello spazio fisico mediata dagli architetti. Tutto bene, se non fosse che, come praticamente da sempre provano a ricordare tanti, tantissimi quanto inascoltati critici di questo approccio, si confonde non solo la parte col tutto, ma si ribalta per così dire l'iceberg logico, ponendo gli aspetti spaziali alla base di tutto quanto. Mentre invece, come ben sanno ad esempio gli studiosi del movimento legato a Howard, la centralità dello strumento città giardino nella promozione del “sentiero pacifico verso la riforma sociale” finisce già da subito per schivare il punto centrale, ovvero quella riforma. La stessa cosa vale per ogni contenitore fisico, che è un prodotto delle idee di giustizia e progresso, al massimo uno strumento adeguato per perseguirle, non certo l'unico e altrettanto certamente non quello centrale e indispensabile. E concludendo questa nota di postilla al tempo stesso troppo lunga e troppo breve: possibile che le discipline storiche, sociali, politiche, nulla abbiano da dire se non accodarsi a questa o quella cordata di progettisti, o rivendicando una fettina di visibilità e prestigio, nel dibattito sulle periferie aperto sinora solo fra architetti? Probabilmente, se qualcosa merita di essere rammendato, è prima di tutto una seria interdisciplinarità, che non vuol dire (come succede con certe riviste) invitare qualcuno per un commento collaterale (f.b.)

Riferimenti

Alle periferie eddyburg ha riservato molta attenzione. Si vedano, tra l'altro, i materiali raccolti nella cartella Periferie.

Ricerche USA sull'influenza delle tipologia insediative sui comportamenti sociali rivelano interessanti corrispondenze. Sarebbe bello se anche nello Stivale ci fossero analoghe ricerche. Millennio urbano, 29 dicembre 2014 Sono le caratteristiche insediative ad orientare le persone verso gli schieramenti politici o viceversa? Negli Stati Uniti è noto da tempo come gli abitanti delle aree urbane dense votino in prevalenza per i democratici, mentre quelli della dispersione suburbana per i repubblicani, ed una recente ricerca ha messo in luce il fatto che l’orientamento politico e la scelta del posto in cui vivere tendano a coincidere. Invece nel nostro paese analoghe rilevazioni sono ancora di là da venire, anche se si potrebbero trovare analogie con le dinamiche statunitensi ad esempio in quelle regioni, come la Lombardia e il Veneto, fortemente caratterizzate dalla dispersione insediativa e da quasi un quarto di secolo inclini a far prevalere lo schieramento politico di centro destra.

Tornando dall’altra parte dell’Atlantico, un nuovo rapporto del Pew Research Center sulla crescente polarizzazione politica mostra quanto grande sia il divario tra liberal, che coincidono con i democratici, e conservatori, identificabili invece con i repubblicani, riguardo a comportamenti e stili di vita. Il fatto che gli appartenenti ai due gruppi tendono a socializzare e ad informarsi solo al loro interno – anche se i conservatori lo fanno in modo più radicale – era già noto da tempo e tuttavia l’ aspetto che spicca di più, perché raramente misurato, sono le divisioni ideologiche tra chi preferisce vivere in luoghi caratterizzati dalla percorribilità pedonale e chi invece si affida alla dipendenza dall’auto tipica dello sprawl suburbano.

La correlazione tra modelli insediativi e voto

L’istituto che ha svolto la ricerca ha chiesto agli intervistati de preferiscono vivere in una zona dove “le case sono più grandi e più distanziate, le ma scuole, i negozi ed i ristoranti si trovano a diversi chilometri di distanza,” oppure dove “le case sono più piccole e più vicine tra di loro, e le scuole, i negozi e ristoranti sono raggiungibili a piedi”. Gli intervistati si sono equamente divisi tra il 49 per cento che sceglie la prima ubicazione e il 48 per cento che preferisce la seconda. Il fatto che il divario circa la preferenza del luogo in cui vivere corrisponda all’orientamento politico all’interno dei due gruppi è la novità messa in luce dalla ricerca. Mentre i tre quarti degli intervistati “costantemente conservatori” preferiscono una ubicazione suburbana come luogo in cui vivere, e solo poco più di un quinto sceglie un ambito urbano caratterizzato dalla pedonalità, tra gli americani “coerentemente liberali” le percentuali sono invertite.

Se da una parte la distribuzione del voto hanno da tempo mostrato una correlazione tra l’orientamento liberal e la densità tipica dei centri urbani – che potrebbe spiegarsi con il fatto che gli abitanti delle città americane sono più spesso poveri ed appartenenti a minoranze – la relazione tra le preferenze di un certo modello insediativo e l’ideologia politica non erano necessariamente così evidenti. Si tendeva a considerare probabile che chi vive in città semplicemente non possa permettersi di vivere nei sobborghi. Al di là delle condizioni economiche non era stata presa in considerazione la possibilità che ci fosse una precisa scelta che ha a che fare con le caratteristiche insediative. Specularmente gli elettori delle circoscrizioni non urbane potevano semplicemente essere conservatori in quanto più prossimi al mondo rurale, espressione di un modello sociale che attribuisce un grande valore alla disponibilità di spazio e di risorse, anche se non particolarmente incline ad usare l’auto per ogni necessità.

Al di là delle condizioni economiche

Il sondaggio dimostra che in effetti i liberal preferiscono potersi spostare a piedi ed i conservatori invece danno più valore allo spazio ed alla privacy. I liberal d’altra parte hanno maggiori preoccupazioni ambientali, sono consapevoli di quanto sia più efficiente vivere in case più piccole e cercano di evitare l’uso dell’auto. Le aree più dense ad accessibilità pedonale contribuiscono inoltre a creare un senso di comunità, basata sugli incontri che si possono fare camminando o sul trasporto pubblico, che prevede anche la diversità economica, etnica, culturale, eccetera. Inoltre, chi preferisce la condizione urbana tende a dare più valore allo spazio pubblico piuttosto che a quello privato.

Al contrario i conservatori non conferiscono alcun valore alla condivisione ed alla diversità e preferiscono investire i loro soldi nei giardini privati piuttosto che in un parco pubblico. Nell’indagine del Pew Research Center emerge che essi hanno più probabilità dei liberal di affermare che è importante per loro di vivere vicino solo a ai loro simili e, rispetto ai democratici, i repubblicani tendono ad essere meno giovani, istruiti e cosmopoliti.

Insomma la questione sulla quale invita a riflettere il rapporto sembra un po’ essere quella ben nota dell’uovo e della gallina: sono le scelte urbanistiche ad esse in grado di modificare gli orientamenti individuali in relazione alla desiderabilità di un certo modello sociale o è la politica che veicola la propria idea di società anche attraverso gli strumenti dell’urbanistica?

Riferimenti

Pew Research Center for People & the Press, Political Polarization in the American Public.
Ben Adler, Why liberals like walkability more than conservatives, Grist, 13 giugno 2014.
Sullo stesso argomento si veda anche, M. Barzi, La città è di sinistra e la campagna è di destra?, Millennio Urbano, 8 marzo 2013.

«Nella legge di stabilità 300 ml di euro per l'autostrada nata "senza soldi statali". Aiuti anche dalla Regione Lombardia, 60 ml sottratti dal fondo destinato all’edilizia sanitaria. Svelato il grande inganno chiamato project financing il miracoloso sistema che apparentemente fa finanziare le grandi opere dai privati». Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2014

L’autostrada meno trafficata d’Italia la dovevano pagare i privati. E invece no. Perché alla fine tra le pieghe della legge di Stabilità 2015 approvata nelle scorse settimane dal governo spunta uno stanziamento pubblico di 300 milioni per la A35 meglio conosciuta come Brebemi. Contributo che la società concessionaria controllata da Intesa Sanpaolo e dal gruppo Gavio aveva chiesto per riequilibrare il suo piano economico e che va ad aggiungersi agli altri 60 milioni assegnati dalla Regione Lombardia prima di Natale.

A sollevare il caso è stato ieri l’Eco di Bergamo ricordando anche che il finanziamento della Regione aveva suscitato non poche polemiche anche fra lo stesso governatore Roberto Maroni, favorevole alla concessione, e il ministro ai Trasporti e alle Infrastrutture Maurizio Lupi il quale, solo pochi giorni fa, era sembrato contrario. Durante un conferenza stampa a Palazzo Lombardia aveva, infatti, evidenziato che i vertici della Brebemi spa si erano spesso vantati di essere riusciti a costruire l’autostrada solo con soldi privati: «Mentre ora ci chiedono un contributo pubblico» aveva detto. Non solo. Durante la discussione per l’approvazione della legge regionale finanziaria 2015, il capogruppo del Pd in Consiglio regionale, Enrico Brambilla ha duramente criticato la decisione della Regione di partecipare al riequilibrio del piano economico della Brebemi-A35 attraverso un contributo da 60 milioni da versare in tre anni, dal 2015 al 2017. Ad aggravare la questione, secondo Brambilla, è che i 60 milioni sono stati stanziati togliendoli dal fondo destinato all’edilizia sanitaria.

Dalla maggioranza è stato però fatto notare come anche il governo Renzi, che ha come principale partito all’interno lo stesso Pd, abbia deciso di sostenere Brebemi. Sono così affiorati i fondi pubblici inseriti attraverso un emendamento, nella legge di stabilità 2015 con un nome tecnico che passa inosservato. Si chiama “Fondo interconnessione tratte autostradali” e ha una dotazione complessiva di 300 milioni di euro che verranno stanziati, 20 milioni di euro all’anno, dal 2017 al 2031. Alla ripartizione delle risorse, da utilizzare esclusivamente in erogazione diretta, si provvede con delibera Cipe (il comitato che coordina gli investimenti statali) su proposta del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

«Nata con la promessa di autofinanziarsi, la Brebemi diventa ora l’autostrada più sussidiata del mondo», ha commentato Dario Balotta, responsabile trasporti di Legambiente Lombardia. A rendere i contributi pubblici «una farsa», secondo Balotta, ci sono poi gli sconti del 15 per cento (fino a maggio) per i pendolari annunciati da Brebemi. Dalla sua inaugurazione, avvenuta a luglio, la “direttissima” di 61 chilometri che collega Milano, Bergamo e Brescia viene utilizzata da meno di 17 mila veicoli al giorno contro i 60 mila previsti. «Inoltre - conclude l’esponente di Legambiente - lo sconto di 1,60 centesimi non basterà a far cambiare idea agli automobilisti, perché il pedaggio costerà comunque il 45 per cento in più della parallela A4».

Di certo è stato svelato il grande inganno chiamato project financing di cui aveva già scritto il Fatto Quotidiano nell’agosto scorso. Il miracoloso sistema che apparentemente fa finanziare le grandi opere dai privati perché le casse pubbliche sono vuote. Solo che alla fine paga comunque lo Stato.

«Ma non ci avevano detto che il mercato nel settore dell’elettricità avrebbe portato dei benefici? È allora tempo, ancora una volta, di qualche riflessione». La Repubblica, 29 dicembre 2014 (m.p.r.)

Ho avuto occasione di sfogliare un corposo studio sui costi dell’energia elettrica in Italia. Esso è stato redatto da Rse, società dello Stato che sviluppa attività di ricerca nel settore. Alla fine quello che più impressiona un lettore generico è che la bolletta elettrica per gli italiani è la più cara di tutte. Lo sapevamo, ma non con così tanta differenza. Paghiamo la luce il doppio della media famiglia francese.

Viene spontanea e diretta la domanda: ma non ci avevano detto che il mercato nel settore dell’elettricità avrebbe portato dei benefici? È allora tempo, ancora una volta, di qualche riflessione. Andiamo per ordine. Fino a tutti gli anni Novanta esisteva il monopolista Enel e qualche azienda municipalizzata che producevano e distribuivano l’energia elettrica. Il suo prezzo veniva stabilito dallo Stato sulla base principalmente dei costi del petrolio e del carbone, tenendo comunque conto della situazione generale del Paese. Le aziende elettriche non avevano i bilanci in rosso, non erano forse efficientissime, ma tutto sommato non pesavano più di tanto sui contribuenti.
Arrivò poi una direttiva europea che impose di introdurre il mercato dell’elettricità (anche quello del gas). Un po’ difficile da comprendere come si possano applicare le regole di mercato su un prodotto “invisibile” al cliente. La modalità che noi scegliemmo fu quella di vendere gli impianti migliori dell’Enel a francesi e tedeschi. Poi dopo la svendita ci siamo messi a competere con loro in Italia. Il governo francese scelse diversamente: mantenne intatta la sua azienda di Stato (la Electricité de France - EdF), lasciando aperte agli altri le ulteriori quote di mercato disposte a competere. Alla luce di quanto è successo, sono stati più bravi loro. Le ragioni del mercato erano molto semplici: più concorrenza avrebbe portato a maggiore efficienza così che l’utente francese avrebbe avuto l’energia elettrica a minor prezzo. I governi dell’epoca decisero di fare ancor di più: privatizzarono l’Enel e la quotarono in Borsa, tenendosi il 30%. Lo Stato fece cassa ma il risparmiatore certamente no. All’epoca (circa 12 anni fa) ogni azione Enel valeva più di 8 euro, oggi 3,7. Per di più l’azienda è oggi oberata di debiti. Alcune aziende municipali seguirono la stessa strada (Acea, Aem,…), un disastro per i piccoli azionisti.
Per quanto riguarda il mercato va anche detto che è molto poca l’energia elettrica che viene gestita secondo le sue regole, in quanto deriva per il 30% da fonti rinnovabili immesse in rete con il beneficio di apparire bene di importazione meno caro di quello prodotto dalle centrali nucleari francesi. Allora continua ad aver ancora senso tenere ferme tantissime moderne centrali a gas? Sotto il profilo del regime tariffario, gli utenti finali si distinguono principalmente in due categorie: clienti in regime di mercato libero che si riforniscono direttamente senza intermediari e clienti in regime di maggiore tutela.
I clienti in regime di mercato libero rappresentano sia utenti industriali/ commerciali sia domestici che hanno esercitato il diritto a scegliere un proprio fornitore. In questo caso la tariffa elettrica applicata è definita sulla base di condizioni economiche determinate in regime concorrenziale fra gli operatori (venditori/compratori). Per le famiglie con consumi molto bassi si applica un regime cosiddetto di “maggior tutela” garantito dallo Stato. Il problema è che per poter soddisfare i consumi ed il benessere di una famiglia di oggi con tenore di vita “europeo” occorre impegnare una potenza di circa 6KW (lavatrice, condizionatore, ferro da stiro, forno,..). E guarda caso le tariffe odierne vanno a penalizzare proprio questa fascia di utenti, che finisce per pagare per tutti e che comprende anche negozi, artigiani e piccoli uffici.
La prima azione “democratica” da compiere consisterebbe nel far pagare in maniera proporzionale alla quantità utilizzata, in regime di mercato infatti chi consuma di più dovrebbe godere di sconti corrispondenti. Ma il vero nodo sta nella “struttura della bolletta”. Nonostante ci sia una diversificazione degli utenti finali per tipologia di consumo e di trattamento tariffario, tutti sono accomunati dalla stessa struttura di prezzo del kilowattora consumato, che include le seguenti componenti: costo di approvvigionamento (combustibili, produzione, commercializzazione,..); costo per il servizio di gestione del sistema elettrico italiano; costo dei servizi di trasmissione e distribuzione (trasporto dell’energia dalla centrale di produzione fino al cliente Terna ed Enel); oneri generali di sistema (incentivazione alle fonti rinnovabili ed altre voci); imposte.
È tra queste componenti che si deve andare a trovare la riduzione dei costi. Su quelli di approvvigionamento, una volta ottimizzata la gestione operativa delle centrali alimentate con combustibili tradizionali, il risparmio dipende dai prezzi internazionali del petrolio (in questo periodo la congiuntura sarebbe favorevole). Una sforbiciata sui costi di funzionamento del Gse (gestore della rete) e di altre società collegate non farebbe male (spending rewiew). Per quanto riguarda i servizi di trasmissione ad alta tensione e di distribuzione gli oneri pretesi dalle due società Terna ed Enel sono molto più alti rispetto a quelli praticati in Europa. Gli utili delle due società appaiono comunque eccessivi perché dovuti a questi elevati margini. Non sono necessarie strategie energetiche, ma urgenti misure di equità.
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