loader
menu
© 2025 Eddyburg

"E' ARRIVATA la bufera / è arrivato il temporale / chi sta bene e chi sta male...": così cantava Renato Rascel trent'anni fa. Bisogna ricorrere alla triste risata dei comici e alla loro lungimiranza per capire meglio a quale punto della nostra "road map" siamo arrivati.

"Resistere" disse il giudice Francesco Saverio Borrelli davanti ai suoi colleghi nel gennaio 2002, all'apertura dell'anno giudiziario, e lo ripeté tre volte. Di fronte all'uragano mediatico scatenato da Berlusconi sulle teste di 46 milioni d'italiani adulti, a noi che facciamo un altro mestiere non resta che ripetere, ripetere, ripetere. Forse sarà stucchevole ma non abbiamo altro modo per tenere acceso un lumicino d'onestà intellettuale nel paese dove la comunicazione è la più monopolizzata e manipolata del mondo e dove il gioco delle tre carte non va in scena nelle suburre metropolitane o nelle piazze di paese, ma nella sala stampa di Palazzo Chigi e nel salotto rosso-oro del presidente del Consiglio. Perciò ripetiamolo questo catalogo delle bugie e del capovolgimento della verità e aggiorniamolo perché ogni ora che passa s'aggiunge un fatto nuovo di stupefacente enormità.

Tutto è cominciato con la lettera di Berlusconi al giornale di Giuliano Ferrara, poi con le "dichiarazioni spontanee" al processo Sme, poi con il comizio all'assemblea-quadri della Pubblica amministrazione, poi ancora con le ispezioni nella redazione del Tg3, e infine (per ora) con lo spot di 51 minuti a Excalibur l'altro ieri sera su Rai2 in prima serata.

Cinque giorni, cinque sortite riprese da tutte le reti televisive pubbliche e private e da tutta la stampa. Parla il presidente del Consiglio, diamine, che è anche imputato in tre processi per corruzione di magistrati (anche se da uno è miracolosamente scomparso per decorrenza dei termini), che tra un mese e mezzo diventerà presidente di turno dell'Unione europea e che controlla il 97 per cento dei media televisivi e una cospicua porzione dei giornali quotidiani e settimanali.

Ieri, parlando a Siena con i giornalisti in margine a un convegno di studi, Romano Prodi ha definito "indecente" l'intervista di Berlusconi ad Antonio Socci (Excalibur di cui sopra). Il presidente della Commissione europea non aveva mai usato un aggettivo di così totale squalifica nei confronti del massimo rappresentante di uno dei paesi fondatori dell'Unione.

Indecente e indegna ha detto Prodi aggiungendo "mi auguro che gli italiani ci riflettano". Lo faranno? Fino a che punto riusciranno a liberarsi dalla cappa della manipolazione mediatica che grava su tutti noi?

L'obiettivo dichiarato di quest'offensiva è di intimidire l'Ordine giudiziario riducendolo all'impotenza. Ma ce ne sono altri non meno rilevanti: intimidire l'opposizione, intimidire il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale e più in generale tutte le istituzioni di garanzia, intimidire la stampa. Tutti questi obiettivi sono perseguiti con lucida pertinacia e dovizia di mezzi. Alcuni sono già stati in larga misura realizzati, altri sono in corso d'opera.

Secondo i disegni del nuovo Principe, dovrebbero andare a segno entro l'anno in corso e concludersi a fine legislatura con l'ascesa di "Mister B." al Quirinale con poteri di capo dell'esecutivo, alla francese. Se tutto sarà fatto come si conviene, gli italiani si godranno il regime (come altro chiamarlo?) fino al 2012. Ai posteri l'ardua sentenza. È fin troppo ovvio che ci saranno parecchi ostacoli da superare.

Perciò è già in movimento la tecnica dei veleni, inaugurata dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Telekom Serbia, dove s'è consentito a un faccendiere sott'accusa in Italia e in Svizzera per riciclaggio di capitali d'accusare di corruzione Prodi, Dini e Fassino. Poiché in quello stesso periodo Ciampi era ministro del Tesoro e quindi azionista di Telecom, vedrete che ce ne sarà anche per lui se non starà buono. La Commissione parlamentare s'è comportata come un ventilatore che schizza materia ignobile intorno a sé.

Analogamente il presidente del Consiglio nel comizio tenuto nell'aula del tribunale di Milano dove si celebra il processo Sme che lo vede imputato di corruzione di giudici. In quella sede, parlando senza subire né interruzioni né domande, il Principe ha di fatto messo in un colpo solo Prodi e Amato sul banco degli imputato al posto suo. Naturalmente non ha detto una sola parola sul reato dal quale dovrebbe difendersi; ha parlato d'altro, del prezzo al quale Prodi voleva vendere la Sme a De Benedetti, del maggior prezzo che fu invece realizzato dall'Iri nove anni dopo e di tangenti che sarebbero state versate, ma non ha detto da chi e a chi. I "media" della sua parte (quattro quinti del totale) ci sono andati a nozze.

"Un fatto è comunque certo - ha lapidariamente commentato il vicepresidente del Consiglio Fini - Prodi voleva vendere a 500 miliardi, ma la Sme fu poi venduta a circa 2000 pochi anni dopo". Ebbene: la Sme dell'84 era ben diversa da quella del '93 (nove anni dopo): piena di debiti, passivo alle stelle, obbligo per il compratore di non rivendere e di non scorporare l'azienda per dieci anni mantenendo lo stesso livello d'occupazione nell'84; nove anni dopo l'Iri aveva ripianato gran parte dei debiti investendo molte centinaia di miliardi nella società, che fu scorporata e venduta a pezzi fin dall'inizio con tanti saluti alla creazione d'un polo alimentare nel sud e ai livelli di occupazione di nove anni prima.

Quale delle due vendite - quella virtuale dell'84 e quella effettiva del '93 - sarebbe stata più utile all'economia italiana e allo Stato? Onorevole vicepresidente del Consiglio, la risposta non è affatto certa come lei sembra di ritenere; a lume di naso direi che la vendita effettiva del '93 si risolse in una catastrofe che non abbiamo ancora finito di pagare come contribuenti. Lei, tifoso della Lazio, dovrebbe ben saperne qualche cosa.

Visto che abbiamo parlato di Fini per logico sviluppo del nostro ragionare, fermiamoci un momento su questo personaggio che molti anche a sinistra giudicano migliore di Berlusconi, democraticamente parlando. Può anche darsi: battere nel peggio quel che Altan ha denominato una volta per tutte Silvio Banana è infatti un'ardua impresa. Ma anche Fini ci prova ogni volta che può.

Prendete il dibattito sulla reintroduzione dell'immunità parlamentare, cioè dell'obbligo per i magistrati inquirenti di ottenere l'autorizzazione preventiva del Parlamento per poter avviare un processo contro uno dei suoi membri. Fini, come tutti i cani da pagliaio che fanno parte dell'alleanza del centrodestra, è schierato fino in fondo con Berlusconi. Nel suo partito c'è ancora qualche mal di pancia ma rientrerà, oh, se rientrerà! Dobbiamo comunque al bravo Gian Antonio Stella (sul Corriere della Sera dell'altro ieri) un rinfresco di memoria. Cito: "È ora che si sospendano gli stipendi ai parlamentari inquisiti, se non altro a quelli per i quali è stata chiesta l'autorizzazione all'arresto, che solo in virtù d'un privilegio medievale come l'immunità non hanno ancora fatto la fine del giudice Curtò": dichiarazione di Fini del settembre '93, quando già erano stati incriminati Craxi e Andreotti.

E più oltre, dopo il suicidio in carcere del presidente dell'Eni, Cagliari: "È inammissibile che si prenda spunto da questo suicidio per avviare la campagna di delegittimazione dell'inchiesta che la magistratura sta conducendo contro le ruberie del sistema di potere". Giuliano Ferrara conosce senza dubbio questi precedenti ma non ne parla mai. Neanche Vespa ne parla. E Socci. Perché il Fini del 2003 si è ravveduto, come Gasparri, come La Russa, come Storace, come Bossi. Miracoli di padre Pio? Potenza suggestiva di Silvio B.? Vai a sapere.

Nelle dichiarazioni "spontanee" rese al processo Sme il presidente del Consiglio ha spiegato ripetutamente che il suo intervento per mandare a monte la vendita della società dall'Iri a De Benedetti fu dovuto alla pressante richiesta di Craxi, allora suo predecessore a Palazzo Chigi. Di bugie ne dice più d'una al giorno il nostro capo del governo, ma questa volta ha detto certamente la verità. Apprendiamo dunque (si sapeva già ma ora ne abbiamo l'autentica certificazione) che il presidente del Consiglio Craxi, volendo bloccare un'operazione di mercato, chiese anzi pretese l'intervento di un imprenditore il quale non poteva dirgli di no.

Perché non poteva dire di no a una richiesta così anomala e sicuramente illecita? Per l'evidente ragione che l'impero tv berlusconiano era stato edificato sull'amicizia personale con Craxi e si reggeva - contro le sentenze della Corte costituzionale - unicamente su quell'amicizia e sui decreti-legge ad personam che ne derivarono. Il presidente del Consiglio di oggi è figlio di quello di ieri e ha il palato forte come il suo padre d'adozione. Semmai c'è da osservare che il figlio ha di gran lunga superato il padre.

L'istituto dell'autorizzazione a procedere - privilegio medievale secondo il Fini del '93 - fu abolito perché servì per quarant'anni a sottrarre sistematicamente i membri del Parlamento al controllo di legalità da parte della magistratura. Quando le evidenze erano così schiaccianti da non consentire l'omertà di casta, si faceva in modo di far avocare il processo dal tribunale competente a quello di Roma, non a caso denominato "il porto delle nebbie". Ed è esattamente su quel porto delle nebbie che hanno puntato i riflettori i magistrati di Milano nei casi Imi-Sir, Lodo Mondadori, Sme.

Poiché ho nominato poco prima Giuliano Ferrara, osservo che, proprio durante la trasmissione "indegna" di Excalibur il direttore del Foglio ha ricordato che i magistrati godono del diritto all'inamovibilità dalla loro sede; per simmetria, secondo Ferrara, i membri del Parlamento dovrebbero essere tutelati dal controllo di legalità della magistratura. Spettabile Giuliano Ferrara, l'inamovibilità non sottrae il magistrato al giudizio di giurisdizione, l'autorizzazione a procedere invece sottrae i parlamentari all'accertamento di possibili reati. Non si possono paragonare le pere con i pesci e lei dovrebbe ben saperlo.

È vero che Berlusconi, in quella stessa trasmissione, ha detto che l'autorizzazione a procedere sarà di rigore concessa in casi di flagranza del reato. Ha fatto anche qualche esempio: un parlamentare investe un passante e non lo soccorre; oppure viene sorpreso a compiere atti di libidine su un bambino; o ad uccidere un suo nemico. E la corruzione di magistrati per accomodare sentenze è una bagattella, signor presidente del Consiglio? Non è uno dei più gravi reati previsti dal codice penale? Cose da pazzi.

Eppure lui le dice e gliele lasciano dire, anzi è applaudito per averle dette. Ma obiettano: ci sono giudici politicizzati che incriminano per danneggiare l'onore d'un cittadino e rendono sentenze settarie. Quei giudici vanno dunque ridotti al silenzio. Chi sostiene questa tesi è nientemeno che il presidente del Consiglio, cioè il capo del potere esecutivo. Non è un'interferenza macroscopica mirante a intimidire per ridurre al silenzio l'esercizio della giurisdizione? Non è dunque una violazione intollerabile della separazione dei poteri? Quale concetto ha mai questa gente della separazione dei poteri? Che ogni potere amministri la propria giustizia a casa sua? Cioè che i panni sporchi si lavino in famiglia? O invece, come sta scritto in tutte le Costituzioni del mondo dopo il 1789, che ogni cittadino sia considerato eguale di fronte alla legge?

Gli "equidistanti" che passano il tempo a misurare la forza con cui un giorno danno il colpo al cerchio e il giorno dopo il colpo alla botte, suggeriscono alla sinistra "ragionevole", d'accettare il "lodo Maccanico", cioè la non procedibilità per le cinque più alte cariche dello Stato. E' ragionevole. Molto meno ragionevole è invocare una legge del genere (di modifica costituzionale) mentre è in corso da anni un processo che vede imputato un uomo che riveste una di quelle cariche. Ma sia pure. Fatela quella legge. Alla quale, per essere accettata, occorre almeno mettere due paletti. Primo: riguardi solo i titolari di quelle cariche e non altri. Secondo: la non procedibilità valga solo per il mandato in corso; chi ne gode non potrà concorrere ad altro mandato successivo che goda anch'esso della stessa esenzione.

Quanto all'immunità dei parlamentari, l'autorizzazione si è rimessa - se proprio si vuol ripristinare un filtro che fu abolito a furor di Parlamento appena dieci anni fa con 525 voti favorevoli, 5 contrari e un astenuto - a un collegio "terzo", composto pariteticamente da parlamentari e da magistrati. S'invoca tanto la terzietà, ebbene questo è il caso più adatto per utilizzarla.

Aprile

Finalmente individuata una sede idonea per il processo Imi-Sir. Escluse per manifesta ostilità ambientale tutte le città italiane (in ciascuna delle quali Cesare Previti sta sulle balle a qualcuno), la scelta è caduta sul minuscolo villaggio altoatesino di Seppwald, dove nessuno conosce Previti e vedendo la sua foto tutti ridono credendo sia uno scherzo. Ottimi i requisiti politici per garantire a Previti un processo equo: a Seppwald l’unico comunista scomparve misteriosamente nel dopoguerra durante la Fiera delle affettatrici per spek. L’Amministrazione è di centrodestra, formata da una coalizione di ex Esse Esse e di casalinghe integerrime con i gerani al balcone. Le Esse Esse rappresentano il centro. La prima udienza viene sospesa per cause tecniche: Previti non capisce le domande in tedesco del pretore, e una mucca ostruisce l’ingresso dell’aula. Si trova con urgenza un interprete, riesce a intendersi con la mucca, che si sposta, ma non con Previti, che gli comunica a gesti di non capire la traduzione in italiano dei numeri di conto corrente svizzeri. Il processo è nuovamente sospeso.

Maggio

Una legge-quadro del governo (detta legge Schifani anche se Schifani non l’ha scritta, però l’ha decorata di cuoricini fatti col pennarello) parifica giustizia pubblica e privata, istituendo le pay-procure. Davanti al neonato Libero Tribunale “Cesare Previti” di Portofino, Cesare Previti ricusa il posteggiatore e parcheggia direttamente nell’atrio. Con un incalzante interrogatorio, l’imputato mette in seria difficoltà i giudici, incapaci di spiegare perché non sono membri della Canottieri Lazio e perché nessuno di loro ha sposato la sorella di Previti, pur avendone piena facoltà.

Memorabile arringa conclusiva di Cesare Previti, intitolata «Perché il processo Imi-Sir deve considerarsi illegittimo?». Lo svolgimento del tema è: «Perché sì». Giuristi di tutto il mondo non riescono a trattenere la loro ammirazione per la concisione e l’acume dialettico dell’ex imputato.

Giugno

Cesare Previti, definitivamente prosciolto e restituito ai suoi effetti, concede una clamorosa intervista a “Panorama”, spiegando quanto calunniose e persecutorie furono le imputazioni mossegli per il caso Imi-Sir. «Non ho mai conosciuto Guido Imi, e Abel Sir era solo un conoscente di mia moglie».

Luglio

Il ministro della Giustizia Castelli si dimette per protesta: il Consiglio Superiore della Magistratura rifiuta la nuova denominazione di Consiglio Inferiore (o in alternativa, Suggerimento Medio), offendendo gravemente il governo. Il nuovo ministro Cesare Previti stabilisce la separazione delle carriere tra magistrati e uscieri. Funziona così: ci si può laureare in legge, vincere il concorso e perfino aprire un’inchiesta. A partire dal giorno dopo, si diventa uscieri.

Agosto

In vacanza in Costa Smeralda, nella villa di Berlusconi chiamata “Nocciolo Duro” (confina ai quattro lati con altre quattro ville di Berlusconi), Cesare Previti prepara la bozza della nuova legge per abbreviare le vergognose lungaggini del processo penale. Accertato che a indignare i cittadini è l’interminabile attesa della sentenza, viene eliminata la sentenza, evidente punto debole della catena.

Settembre

Previti invita Francesco Saverio Borrelli da Fortunato al Pantheon, per una cena pacificatrice nella tradizionale e simpatica tavolata dove vive e pernotta Lino Jannuzzi (è un tavolo-letto della Ikea, con i ceci della pasta e ceci trasformabili in fiches da poker).

Borrelli rifiuta l’invito. Il ministro Previti lo fa arrestare per resistenza, resistenza, resistenza a pubblico ufficiale.

Alla quinta richiesta di rinvio dell’imputato-capo del governo, il tribunale si chiude in camera di consiglio ed esce con una decisione un po’ a sorpresa, ma non troppo: il processo al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi continuerà a parte, per gli altri otto imputati - da Cesare Previti in giù - si andrà avanti senza dover fare i conti con gli impegni del premier. E questo perché, reclamano i giudici di Milano, un procedimento penale non può annaspare «in una situazione di continua incertezza». Ennesima dimostrazione di uso politico della giustizia, ha subito tuonato qualche «falco» da destra. Ma si può sostenere anche il contrario: secondo il tribunale di Milano l’amministrazione della giustizia non dev’essere condizionata dai tempi e dalle esigenze della politica.

Che la decisione del presidente del Consiglio di presentarsi davanti ai giudici per fare le sue «dichiarazioni spontanee» avesse dei risvolti politici oltre che processuali è opinione di tutti gli osservatori. Così, l’ordinanza letta ieri mattina dal presidente del collegio Luisa Ponti viene anche letta come un sussulto di autonomia e indipendenza della magistratura: un processo che va avanti da centosei udienze non si può impantanare perché l’imputato più eccellente e più impegnato ha improvvisamente deciso di occuparsene personalmente dopo essersene disinteressato per tre anni, come lui stesso ha ammesso.

Berlusconi potrà proseguire a difendersi coi suoi tempi, ma separatamente. Per gli altri si procede secondo il calendario stabilito. Una sorta di Lodo Maccanico deciso in tribunale con l’esclusione dei coimputati dal «congelamento» del processo per il premier, anche se non è proprio la stessa «soluzione politica» che porta il nome dell’ex ministro. Perché, per dirne una, il procedimento contro Berlusconi non è sospeso ma andrà avanti, seppure compatibilmente coi suoi «impedimenti».

Presa questa decisione, nel pomeriggio i giudici pronunciano una nuova ordinanza riguardante Previti e le altre persone accusate di corruzione giudiziaria e reati minori: il dibattimento è chiuso, le nuove prove testimoniali invocate dalle difese non servono. Alla prossima udienza, già fissata per venerdì 23 maggio, il pubblico ministero Ilda Boccassini potrà cominciare la sua requisitoria, con le prevedibili richieste di condanna per gli imputati.

L’esperienza di tre anni e più insegna che nei processi chiamati «toghe sporche» nulla si può dare per certo finché non è avvenuto, ma il calendario è questo. E anche se non farà richieste specifiche sull’imputato-premier, il pm trarrà le sue conclusioni su una vicenda dove ci sono passaggi di denaro e presunte corruzioni commesse da Previti e altri nei confronti di alcuni ex magistrati per conto di Silvio Berlusconi, all’epoca dei fatti imprenditore amico del capo del governo e oggi lui stesso capo del governo. Con l’inevitabile conseguenza di far rientrare dalla finestra dell’aula di giustizia quella politica che i giudici, con la scelta del mattino, avevano tentato di far uscire dalla porta.

Le alchimie tecnico-giuridiche innescate dalle decisioni di ieri offrono ancora altri sbocchi, e aprono la strada a ulteriori incertezze sull’esito di questa partita politico-giudiziaria. In teoria i giudici che hanno appena stralciato la posizione di Berlusconi potrebbero addirittura riunirla nuovamente a quella degli altri imputati; se infatti il premier facesse le sue dichiarazioni di qui a pochi giorni, esaurendo la fase del dibattimento anche nel processo-bis, il tribunale avrebbe la possibilità di tornare a un unico procedimento. Viceversa, se il presidente del Consiglio ritarderà ancora, o i giudici dovessero successivamente accettare l’esibizione di nuove prove, allora i due processi dovrebbero proseguire autonomamente. Con l’insidia finale paventata dai difensori degli altri imputati: qualora nel processo principale si dovesse arrivare alla sentenza, quegli stessi giudici non potrebbero più pronunciare il verdetto nei confronti di Berlusconi, poiché avrebbero già espresso un parere sugli stessi fatti.

La matassa, insomma, è tutt’altro che sbrogliata. E il ping-pong tra giustizia e politica non sembra finito. Nonostante il tentativo di un tribunale che proclama di voler «assolvere al dovere di garantire l’ordinato svolgimento del processo» dopo essere passato indenne, in oltre tre anni, dagli «impedimenti» degli altri onorevoli coinvolti (imputati o avvocati che siano), da ricusazioni e ricorsi alle Alte Corti, dalle nuove norme sulle rogatorie, dal tentativo di sottrarre un giudice al collegio e dal «legittimo sospetto» di parzialità introdotto con la legge Cirami.

Trucco da fiera con sorpresa finale, a ben vedere, l'arrivo in pompa magna di Silvio Berlusconi al Palazzo di Giustizia di Milano. Un evento. Mai il presidente del Consiglio ha preso la parola in un suo processo. "Andrà a Milano e farà delle dichiarazioni spontanee al processo Sme" annuncia un sussurro giovedì pomeriggio. A sera, il sussurro prende corpo e trova conferma nella disperazione (apparente) dei suoi. Paolo Bonaiuti (portaparola) confessa: "Tutti gli stiamo sconsigliando di venire, ma non vuole sentire ragioni...". Gli avvocati del "giro stretto" simulano quiete. Minimizzano, banalizzano, scolorano. "Che volete che dica: dirà quel che ha sempre detto: che è un perseguitato! Viene al banco per rifinire un'operazione mediatica. Dieci minuti in aula. Trenta fuori con i giornalisti. Il processo non ne avrà alcun frutto".

L'attesa ingrassa le congetture e le domande. Perché proprio ora? Perché soltanto ora Berlusconi si decide ad affrontare l'aula legittimando quella magistratura che egli sempre accusa di essere politicamente orientata alla sua distruzione? Alla vigilia si raccolgono, grosso modo, due risposte.

La prima la propongono gli addetti alla vita politica: lo deve a Previti. Meglio, è Previti, con quel suo maligno fare ribaldo, che glielo impone. Il fedele Cesare sta precipitando verso una sentenza che teme e Berlusconi, dopo aver sperimentato tutte le strade tecnico-politiche per soffocare quel processo (Imi/Sir-Lodo Mondadori), non può più tirare la corda con i suoi alleati (soprattutto con An). Può soltanto spendere se stesso, la sua faccia, le sue parole.

Ecco perché sarà a Milano. Per essere fedele a un'amicizia, a un legame che (se tradito) può diventare minaccioso. Che Previti affronti poi il suo destino e la sentenza: "In fondo si tratta soltanto del primo grado, in seguito si vedrà..." .

Gli addetti alla macchina giudiziaria raccontano invece un'altra storia. Berlusconi viene per difendere se stesso e soltanto se stesso. Ora che si approssima la fine del processo Sme, il presidente del Consiglio teme di esserne travolto e decide di fare le sue mosse per coprirsi le spalle.

Altro che amicizia! Altro che Cesare! Gli avvocati di Previti sembrano scossi da un (apparente) brivido di preoccupazione. "Speriamo che si limiti a denunciare quella magistratura che soffoca i diritti della difesa - dice Alessandro Sammarco - Sa, il presidente Berlusconi a volte si lascia prendere la mano. Dio non voglia che affronti il merito delle questioni. Perché, se affronti il merito, legittimi quella magistratura che noi da anni vogliamo delegittimare..." .

Sono le 9,50 del mattino e la giornata comincia a correre molto rapidamente. Berlusconi entra in aula. Prende posto tra i suoi avvocati. Sorride, sorride, sorride, e tuttavia appare a disagio. Chi se ne può meravigliare? Come un imputato qualsiasi, sbircia nervoso gli appunti che ha preparato. Ad allungare il collo sulle sue spalle, si vede un scaletta di argomenti annotati, su tre pagine, in stampatello con una grafia larga e sottile. Al primo punto, "Le testimonianze negate dei giudici".


- Pubblicità -

Ora sono le dieci, entra il tribunale (mai così puntuale). Appello delle parti... Imputati presenti... Avvocati presenti... Il consueto rito... Attenzione, c'è qualcosa che non va. L'avvocato dell'"imputato Pacifico Attilio" non è in aula. E' da qualche parte nei dintorni, ma non in aula. L'avvocato dell'"imputato Misiani Francesco" non c'è, e non verrà. Dunque, bisogna attendere l'arrivo del difensore di Pacifico. Pochi minuti. E dieci, venti minuti per nominare un difensore d'ufficio per Misiani e permettergli di raggiungere l'aula.

Subito salta su Gaetano Pecorella, avvocato del presidente del Consiglio e presidente della commissione Giustizia alla Camera per conto del partito del presidente del Consiglio. Eh no, spiega, il capo del governo ha soltanto pochi minuti. Al più, può attendere "due minuti" perché deve raggiungere Roma e presiedere il Consiglio dei ministri.

In due minuti, in un tribunale, non si declinano nemmeno le generalità, lo sanno tutti. Lo sa anche Pecorella che, soddisfatto, conclude che "presidente Berlusconi farà allora le sue dichiarazioni spontanee in un'altra occasione, quando i suoi impegni glielo permetteranno" . L'assenza dei difensori in avvio di udienza era programmata? Quell'improvviso vuoto era stato definito a tavolino come l'impaziente fretta dell'imputato venuto fin qui per dichiarare spontaneamente le sue ragioni e disposto soltanto ad attendere "due minuti"? Forse sì, forse no (se si pensa a quella scaletta di argomenti stropicciata con nervosismo da Berlusconi). E comunque ogni risposta è buona, in assenza di fatti.

Le parole di Pecorella comunque suonano per il presidente del Consiglio come la campanella di fine lezione. Guadagna in fretta il corridoio. E' inseguito dalle telecamere, dai microfoni, da guardie del corpo con gomiti energici e puntuti. Berlusconi si ferma come una statua nel punto che ritiene più adatto per sé (inadatto per chi lo deve ascoltare). Vuole dire qualcosa. Quasi si scusa. "Avevo solo un quarto d'ora... Alle 10 ho il Consiglio dei ministri, successivamente un impegno col primo ministro del Giappone. Alle 12.30 ho la firma dell'accordo con il presidente della Regione Toscana per le infrastrutture sul territorio e alle 13.30 un importante incontro con il primo ministro della Federazione Russa. E questo solo per la mattina...".

Accenna poi alle ragioni della sua sortita. "Sapete, a tutti processi che mi sono stati scatenati contro, dopo la mia entrata in politica, io non ho mai partecipato, a parte una volta, su richiesta dei miei difensori. Per il resto mi sono sempre disinteressato...". Questo processo, ripete, gli appare "assolutamente inverosimile e ritengo che dovrebbe essere riconosciuto al cittadino Berlusconi il merito per avere evitato una spoliazione del patrimonio dello Stato".

Il premier era convinto che l'affare si sarebbe chiuso in fretta e bene. "Invece, gli avvocati mi hanno chiesto un incontro e mi hanno illustrato una serie di situazioni processuali francamente paradossali. Allora, dato che si tratta di una vicenda anche importante per la storia del nostro Paese, ho ritenuto che, facendo una eccezione, io dovessi venire qui, non solo per esercitare in pieno il mio diritto a difendermi, ma anche per far conoscere questa vicenda alla generalità dei cittadini".

"Credo quindi - conclude - che si possa ottenere da parte del tribunale che le udienze siano fissate in modo tale da consentirmi di essere presente per chiarire delle situazioni, pur con gli impegni importanti che ho come presidente del Consiglio e soprattutto, oggi, come componente della troika europea e, fra due mesi, come presidente dell'Unione Europea. Ritornerò alla prossima udienza".

Ce n'è anche per l'amico Previti, come è ovvio. Due parole gettate lì, dopo tanta insistenza. "E' indubbio che Previti sia oggetto di una persecuzione. Ciò è confermato anche dal voto della Camera dei Deputati che, quando ci fu la richiesta di arresto, sottolineò l'esistenza del fumus persecutionis" .

Ora Berlusconi va via. Lascia tutti di princisbecco. Tutto qui, l'evento? Quattro parole in croce in un corridoio e la promessa di tornare, se può, quando può? C'è un trucco? E, se c'è, dov'è? Il trucco - o, per dirla in altro modo, la sapientissima e scandalosa mossa per rendere definitiva la fuga dal giudizio - è lì sotto gli occhi di tutti.

Non c'è chi non lo veda. Finora l'imputato Silvio Berlusconi, "validamente citato" , non è mai comparso. Dichiarato "contumace", è stato "rappresentato" soltanto dai suoi difensori. Ma, contumace, l'imputato non può far valere i "legittimi impedimenti" o le assenze "causate da forza maggiore" . Ecco allora la mossa di Berlusconi. La sua presenza in aula a Milano e l'annuncio di voler fare delle dichiarazioni spontanee cancellano la contumacia, lo reintegrano nel suo diritto di essere sempre presente, di vedere rinviate le udienze a cui non può partecipare.

E a quali udienze potrà partecipare un premier già tanto soffocato da un "lavura' de la madona", oggi nella troika europea e tra settanta e passa giorni addirittura, e per sei mesi, presidente di turno dell'Unione europea? La maggioranza degli addetti crede che difficilmente Berlusconi lo si rivedrà tra queste mure inospitali e abbozza uno scenario alquanto ragionevole. Questo. Anche se dovesse davvero ripresentarsi il 2 maggio, per lunghi mesi, diciamo per i sei mesi della presidenza europea, Berlusconi chiederà che gli sia concesso il "legittimo impedimento".

Come non concederglielo? Per comprendere che cosa accadrà al processo, bisogna allora far di conto. I fatti dell'affare Sme risalgono al 1986. L'ultimo presunto pagamento corruttivo ai giudici è del 1991. Da questa data si deve contare la prescrizione del reato che, per la corruzione in atti giudiziari, è di quindici anni. 1991 più 15 uguale 2006.

Entro il 2006, il processo non arriverà mai alla sua conclusione definitiva (primo e secondo grado più Cassazione) se si considera che, bloccato per sei mesi, il primo giudizio arriverà nel 2004. Ma c'è di più. In caso di concessione delle "attenuanti generiche", i tempi della prescrizione diminuiscono di un terzo, di cinque anni. Come non concederle a un incensurato, e per di più capo di governo, come Berlusconi?

E allora l'efficacissimo trucco da fiera andato in scena ieri sotto il naso di tutti - la fine della contumacia di Berlusconi - libera l'eccellentissimo imputato dalla rogna milanese. Per sempre. Per lui, il processo è morto, è una cosa morta. Se la procura vorrà salvare il dibattimento contro gli altri imputati non potrà che chiedere lo stralcio della posizione dell' "imputato Berlusconi Silvio". La fuga dal giudizio del premier sarà allora coronata da un successo costruito con una mossa a sorpresa in un venerdì santo con un'Italia distratta dal lungo ponte pasquale.

(19 aprile 2003)

Signor Presidente del Consiglio,

ho visto "Porta a Porta" di giovedì scorso e ho ascoltato le sue dichiarazioni sui magistrati che si sono occupati dell’indagine Telekom Serbia, in particolare quando ha detto che essi avrebbero chiesto l’archiviazione nei confronti degli indagati perché "magistrati combattenti ... collaterali alla sinistra"; e quando ha detto: "Lo credo bene che Rutelli e Fassino dicono di aver fiducia nei magistrati, sono dei loro".

Mi sono molto arrabbiato, essendo io il Procuratore Aggiunto che, insieme con i Sostituti Roberto Furlan e Paolo Storari, ha condotto quell’indagine; e ho deciso di querelarla. Non esiste infatti per un magistrato un’accusa peggiore di quella che lei ci ha mosso, quella di non essere imparziale; e non esiste quindi un insulto peggiore.

Poi, quando ho cominciato a scrivere, mi sono reso conto che stavo per fare uno sbaglio. Io non voglio querelarla: non ho interesse a che lei sia punito per gli insulti che ha rivolto a me e ai miei colleghi; e non ho interesse a ricevere una somma di danaro a risarcimento del danno morale che ci ha cagionato: per lei sarebbe comunque poca cosa; e io non ho mai attribuito importanza al danaro, ne ho quanto mi basta.

Io voglio che lei capisca la gravità di quello che ha detto; che si renda conto di aver accusato ingiustamente persone che hanno lavorato con rigore morale e serietà professionale. Io voglio, signor Presidente, che lei accetti il fondamentale principio che ho in me da quando ho l’età della ragione e che uno dei miei maestri dell’Università ha così bene espresso: se al mondo ci fossero solo due uomini e questi uomini fossero San Francesco e Santa Chiara, il diritto starebbe tra loro ad indicare quello che è giusto. Io voglio che lei capisca che quando un giudice assolve o condanna fa proprio questo, indica quello che è giusto.

I miei colleghi ed io abbiamo governato il diritto; forse non lo abbiamo fatto con sapienza, con competenza e sensibilità adeguate. Ma, signor Presidente, lo abbiamo fatto con imparzialità e senso della giustizia. E lei ha fatto male quando ci ha accusato di essere amici degli indagati, o di persone che a questi erano vicine, o di parti politiche cui gli uni e gli altri sarebbero appartenuti; e quindi di aver preso una decisione contraria al diritto.

Lei, signor Presidente, non aveva nessuna ragione per dire quello che ha detto: non conosce né me né i miei colleghi e non può sapere se noi si sia "amici" di questo o di quest’altro; e nemmeno può sapere se noi siamo giudici disposti a tradire la nostra funzione per favorire eventuali "amici". Non sa nulla di Telekom Serbia, non avendo letto un solo foglio dei 35 o 40 "faldoni" che abbiamo riempito nel corso dell’indagine; e, se per avventura qualcosa avesse saputo, avrebbe avuto il dovere, come cittadino e più ancora come Presidente del Consiglio, di portarlo a nostra conoscenza e di aiutarci a prendere la decisione più giusta.

Ma, soprattutto, lei non doveva dire al nostro Paese, senza motivo e senza prove, che ci sono giudici disposti a favorire gli amici. In questo modo lei ha imbarbarito la coscienza civile dei cittadini, li ha indotti a cercarsi protettori potenti in modo da avere la garanzia di essere "favoriti" se mai ce ne sarà bisogno, ha sostituto la fiducia nello Stato con l’asservimento a questa o quella parte politica.

I miei colleghi ed io, signor Presidente, vogliamo che lei riconosca di aver sbagliato; vogliamo che si informi sulla nostra storia professionale, sul nostro impegno e sul nostro onore. E vogliamo sentirci dire che è vero, non siamo "amici" di nessuno e che, comunque, siamo uomini e giudici per cui eventuali affinità di cultura, di passione politica o di impegno sociale mai possono prevalere, come mai hanno prevalso, sul nostro dovere di imparzialità e indipendenza.

Ci chieda scusa, signor Presidente. Riconoscerà l’onore a giudici onesti e imparziali; e renderà fiducia al Paese.

Con osservanza.

Bruno Tinti

Il nuovo direttore del Tg1, Clemente Mimun, dichiara in un' intervista ( del 21 maggio) che il suo «editore di riferimento» è soltanto il telespettatore e che, essendo la Rai un «servizio pubblico», lui non si sa «immaginare un prodotto che non punti a fare il pieno di ascolti». Colgo l'occasione per dissentire. Ho molto rispetto per Mimun. Le critiche gli sono dovute ex officio, perché è lui che guida l'ammiraglia della tv di Stato. Editore di riferimento è dizione zuccherata e cincischiata. Messa in chiaro vuol dire chi comanda. E la risposta può essere altrettanto chiara: in passato comandava la Dc, poi ha comandato la sinistra e ora comanda Berlusconi. Certo non comanda il pubblico dei 25 milioni di telespettatori del quale Mimun si fa scudo. Magari fosse così. Ma così non è. In un'economia di mercato il consumatore è sovrano perché può scegliere tra prodotti differenziati (dall' utilitaria alla Ferrari) che paga. Nel cosiddetto mercato televisivo io non posso rifiutare di pagare e non posso passare a prodotti di qualità superiore perché nessuno me li offre. A me tocca ascoltare quel che mi passano conventi che sono tutti eguali nel ridurre l' informazione seria a quasi nulla. Sono un sovrano? No, il vero sovrano, qui, è la pubblicità calcolata sui dati di ascolto dell' Auditel. Per i signori di Saxa Rubra il compito del servizio pubblico è di fare un pieno di pubblico, di fare «il pieno di ascolti». Ma se così fosse, qual è la differenza tra servizio pubblico e televisione commerciale? Se così fosse, il servizio pubblico è da chiudere e basta. Perché dobbiamo pagare un canone per ottenere un prodotto commerciale che possiamo ottenere gratis? Il nodo della questione è, allora, che un servizio pubblico è tale perché è tenuto a servire interessi generali, interessi collettivi. Restando al caso dei telegiornali, il loro compito pubblico è, prima di tutto e soprattutto, d' informare sulla cosa pubblica, e in questo senso di formare cittadini in grado di g estire la loro democrazia. Si avverta: informare non è dare notizie di 20-30 secondi che di per sé non significano nulla. Informare è spiegare, è far capire, è far discutere gli eventi non da politici che si urlano addosso, ma da esperti. Questo corretto modo d' informare io negli Stati Uniti lo vedo e seguo tutte le sere. Il modello esiste. Volendo, è facile da replicare. È che non lo si vuole. All' Italia occorre un Biagi ingrandito e moltiplicato per dieci (non può fare tutto lui da solo). In vece il nostro cosiddetto editore di riferimento si propone di silenziare persino Biagi, vuole un oscuramento totale, sovrastato dalla voce del padrone. I poveri 25 milioni di telespettatori del Tg1 non si rendono conto, ovviamente, di quanto non vie ne loro mai detto. Sono imbottiti di cronaca nera, di cronaca rosa, di storie strappalacrime. E i pochissimi minuti di notizie rilevanti sono confezionati in modo da evitare grane. Manca l' acqua in Sicilia? Perché? Silenzio di tomba. Spiegarlo irriterebbe i politici siciliani svelando orripilanti retroscena di mafia (dell'acqua). C' è o non c' è un buco nel bilancio? Esistono economisti in grado d' illuminarci. Ma Tremonti non gradirebbe una verità diversa dalla sua. Meglio abbozzare. E cosa sta succedendo delle fondazioni bancarie? E' un'ennesima, scandalosa pappata dei nostri politici, oppure no? Questi, e moltissimi altri, non sono temi da talk show alla Vespa o alla Santoro (che fanno spettacolo ma che non chiariscono un bel nulla). Sono temi che almeno un telegiornale non commerciale dovrebbe sottoporre a un dibattito di esperti in un'ora di massimo ascolto. La Rai di canali ne ha tre. Ma per un servizio pubblico che si occupa della cosa pubblica non ha posto. Anche se ne avesse sei, li lottizzerebbe. Che vergogna.

MILANO - Severo, preciso, silenzioso. Quarantanove anni di cui gli ultimi diciotto passati in magistratura, Paolo Carfì è una delle toghe più riservate del tribunale di Milano. Nessuno ricorda una sua intervista, nessuno ricorda un suo commento, una qualunque frase che sfuggisse dalla dialettica processuale. A parte una sua passione per Giacomo Leopardi, e in particolare per "A Silvia", non ci sono dettagli sulla sua vita privata.

Carfì non ha mai vestito i panni della pubblica accusa. Sin dal suo ingresso in magistratura, nel 1985, è sempre stato alla "giudicante". Davanti alla sua sezione, la quarta, negli anni si sono presentati imputati di ogni genere, pedofili, spacciatori, ladri e truffatori. Tutti si sono scontrati contro quel muro di silenzio e rigore. Una rigidità che divenne celebre una prima volta già ai tempi dei processi di Tangentopoli quando si rifiutò di interrogare Craxi ad Hammamet perché i difensori non avevano presentato alcun certificato che ne provasse l’effettiva intrasportabilità. Carfì andò contro anche al pool di Mani Pulite: nel 1996 negò il patteggiamento a Dell’Utri per i fondi neri Publitalia. «La pena di 14 mesi patteggiata con il pm - scrisse - appare a dir poco inadeguata per difetto».

Nel 1993 il "Carfì style" entrò nelle leggende del palazzo di giustizia: denunciò una sua segretaria che, dopo aver dichiarato di non poter fare più straordinari, se ne andò a casa costringendolo a sospendere l´udienza alle due del pomeriggio.

(ma. me.)

A Silvia

Se qualcuno avesse dubbi sulla natura della signoria berlusconiana, la svolta del Corriere li dissiperebbe. Sua Maestà B. esige dalla stampa un lessico a tre vocali: e, o, u; eufemismo, ossequio, unzione. Ricapitoliamo in questa chiave gli ultimi 10 anni. Primo tempo: l' uomo d' Arcore salta fuori dalla scatola, allestisce il Barnum forzaitaliota, raccoglie i moderati orfani, imbarca post-neofascisti e Lega, vince, forma un governo, cade dopo sei mesi, tradito da quel Giuda d' un Bossi (parole sue). Quante cose tacciono i pulpiti: che fosse cresciuto come un parassita della consorteria; saltando sul carro politico, vi porti istinti da predatore, tale essendo l' unica logica in cui pensa; intenda lo Stato come roba sua; devasti i cervelli disseminando narcosi, volgarità, fobie, stereotipi ebeti; conduca una compagnia prossima alla gang più che al cenobio; editore dominante, promuova l' analfabetismo; sia monco dell' organo morale; venda fumo; punti al profitto, lasciando alle prede sì e no l' aria che respirano. No, lo dicono campione d' una destra liberal-liberista. Secondo atto: sconfitto, sebbene abbia raccolto qualche voto più degli avversari, meglio schierati, trova Nostro Signore nell' orto: accordandosi col leader del partito ex comunista, salva l' impero mediatico, consolida i conflitti d' interesse, finge intese su riforme delle quali nessuno sentiva il bisogno; raccolto ogni possibile lucro, le rinnega, scatenando furiose campagne contro i partiti al governo; li chiama usurpatori; grida al colpo di Stato; denuncia un regime antidemocratico. Viva la dialettica bipolare, cantano ugole neutrali. Terzo tempo: s' è reinsediato e stavolta chiude ogni spiraglio; converte le Camere in succursali Mediaset; siccome l' unico punto debole sono i processi su episodi dell' irresistibile ascesa tra gli Ottanta e Novanta, scatena un Poltergeist avvocatesco-mediatico-legislativo. Gesta inaudite ma agli oracoli non fanno caldo né freddo: è nelle regole del gioco spartire le spoglie; ventilano una legittima difesa dall' accanimento persecutorio; esortano gli sconfitti a stare quieti 5 anni. Nessuno nota cose ovvie: le norme penali valgono rispetto a tutti, abbiano o no networks televisivi; mai saputo che le vittorie elettorali lavino i delitti; risultando infondata l' accusa, i giudici assolvono; la condanna è appellabile e sopra le corti d' appello siede una Cassazione. Nel caso suo i rischi d' errore sono infinitesimi: recluta quanti avvocati vuole; ha quotidiani, settimanali, tre reti televisive, più tre pubbliche; irradia l' influsso intimidatorio radicato nel triplo potere, economico, mediatico, politico. Macché, parlano d' altro: che iattura se fosse condannato; l' aborto del sistema bipolare causerebbe una funesta instabilità; suvvia, liquidiamo i processi; interessi supremi giustificano deroghe al metro legale, e simili massime poco tollerabili da chi non abbia lo stomaco fortissimo. Quarto atto: l' autocrate abusa dei poteri; calpesta forme elementari del galateo politico; aveva un ministro serio agli esteri e se ne disfa subito; allunga le mani sulla Rai, dissestandola a beneficio delle sue reti; presenta alle Camere un ddl fraudolento sul conflitto d' interessi; siccome le Sezioni unite negano il trasloco a Brescia dei suoi processi, comanda articoli del codice su misura (déja vu sulle rogatorie); i senatori glieli votano in torride sedute notturne; da Montecitorio escono imbellettati. Cosa dicono i santoni alla finestra? Non battono ciglio o addirittura spendono parole dure a proposito d' un tentato ribaltone giudiziario. I meno sordi al lato morale deplorano aspetti canaglieschi del fenomeno forzaitaliota, come se lui non c' entrasse, e lo invocano affinché castighi i manigoldi. Chiedono poco, quasi niente, un minimo rispetto delle forme: i numeri sono suoi; li giochi senza soperchierie troppo visibili. Quinto tempo: s' è riscritto le norme scomode, partendo dal falso in bilancio che gli conveniva ridurre a bagatella; del conflitto d' interessi nessuno fiata più; vuol insediarsi al Quirinale, purché sia una repubblica presidenziale dove lui guidi l' esecutivo e diriga la politica estera, altrimenti rimane capo del governo, futuro premier o cancelliere eletto dal popolo con poteri rinforzati (sciogliere le Camere). Ma qualcosa stride: i maledetti processi pendono ancora; le Sezioni unite negano la rimessione anche sul nuovo testo, perché esiste una logica del diritto insensibile alle fatture parlamentari; l' indomani mattina mugola a reti unite un proclama da monarca assoluto. Dopo 23 mesi, la seconda avventura governativa volge al disastro: nel famoso contratto aveva garantito mirabilia; il mago della finanza virtuale annunciava un' impetuosa crescita del pil, 3.1%, e siamo allo 0.3; casse vuote; è nata col forcipe una pitocca legge finanziaria; vola il debito pubblico; sale l' inflazione; rischiamo il posto nell' Ue. Infine, dopo pietose furberie arranca nel brago mesopotamico con un occhio all' opinione pacifista, quasi guerriero malgré lui: lo seguono 64 italiani su 100, racconta mercoledì 19 marzo, vantando il "capolavoro diplomatico"; l' indomani espone al consesso europeo una maschera cupa. Incantava i topi, come il pifferaio d' Hamelin, e non vi riesce più. Ha l' acqua politica alla gola, mentre gli affari vanno a gonfie vele: accumula soldi senza muovere dito; non c' è giro dove non guadagni; Publitalia divora la Rai nella raccolta pubblicitaria. Nel sesto atto vuole più che mai istituire un sistema legale variabile secondo le persone; che i tempi stringano, lo dicono gli affari Imi-Sir e lodo Mondadori (due sentenze comprate, secondo l' accusa): l' on. avvocato d' affari P., suo mandatario, incassa la condanna a 11 anni come agente delle baratterie. Nell' allegra compagnia ci sarebbe anche lui se l' art. 321 c.p., versione 26 aprile 1990, corrispondesse all' art. 319-ter, che commina 8 anni quando il corrotto sia un giudice: rimedia alla svista una l. 7 febbraio 1991, ma i fatti erano anteriori; il corruttore quindi "gode" d' una pena minore, 5 anni, sicché, con l' elemosina delle attenuanti generiche, il reato risulta prescritto (Corte d' appello, 25 giugno 2001). Dal 30 aprile erutta fuoco: «criminalità giudiziaria»; toghe rosse; c' è «un cancro» nella giustizia italiana ma lui, gran chirurgo, lo estirperà, dichiara al Figaro; e da Arcore, luogo santo, chiama alla crociata "i guerrieri della libertà" su scenari soap opera, tali essendo i suoi gusti. I soliti "terzi" chiedono una sospensione dei processi, o meglio immunità, votata subito: la motivavano col sistema bipolare; il semestre europeo fornisce un secondo motivo, impellente. Sentiamo due oracoli spesso interloquenti, frigido e bollente. Non consumi ribalderie superflue, bisbiglia uno: niente impedisce riforme organiche; leghi pubblico ministero e tribunali al potere esecutivo. L' altro obietta su P., «uomo chiacchierato». Chi vuol «cambiare le cose» plani sopra ogni sospetto. Aurea massima non applicabile alla fattispecie: se il predetto era suo agente, simul stabunt, simul cadent; 9 anni fa l' impresentabile capo del governo lo voleva guardasigilli. Tolto l' hard core, resta poco del fenomeno forzaitaliota. Contava sull' en plein nelle amministrative e incappa in una domenica nera, allora frusta i vogatori. Votino subito quel lodo d' immunità processuale. Seguiranno aperture, perché non essendo più tempi da partito unico, ha bisogno d' oppositori morbidi: quando presieda una repubblica Mediaset, starà bene chiunque se lo sia meritato, ad esempio sedendo al tavolo delle riforme: parlamentari immuni, pubblico ministero comandato dal governo, via libera alla criminalità dei colletti bianchi, riguardi verso la mafia rispettabile; non ha pulsioni peroniste, garantiscono i dottori Dulcamara. Che B. sia un virus, non è slogan apocalittico: l' aveva detto Indro Montanelli, diagnosta attendibile; sapendo vita e miracoli del suo editore, prevedeva calamità se fosse sceso in politica. Chi lo tiene più? Da San Pietroburgo assale i pubblici ministeri milanesi persecutori del fido P. (31 maggio); al consesso degli Otto detta una formula memorabile: aumento terapeutico del debito pubblico, purché la gente lavori, risparmi, non scioperi (Evian, 2 giugno). Altro che secondo Rinascimento, l' Italia non aveva mai volato così alto.

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo ( e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza ( così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.

Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche ( e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d'ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione ( non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé ( almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

LA DISPERAZIONE che stringe alla gola Silvio Berlusconi lo ha portato ieri, poco dopo la condanna di Cesare Previti ad 11 anni per corruzione di magistrati, a compiere un atto apertamente eversivo. Una dichiarazione politica che accusa i magistrati di golpismo, denuncia una trama che vuole rovesciare il governo per via giudiziaria e proclama una ribellione contro la sentenza di Milano: schierando così il Primo Ministro italiano dalla parte dei corruttori condannati e contro i Tribunali della Repubblica, avvertendoli: adesso ripristinerò il sistema di immunità e risolverò la politicizzazione della magistratura.

Tutto questo è accaduto mentre i giornali e le agenzie straniere diffondevano nel mondo la notizia che "uno stretto amico e alleato del primo ministro italiano Silvio Berlusconi è stato condannato per corruzione di magistrati in due battaglie di corporate takeover". Nel Paese rovesciato in cui viviamo, il Capo del governo non sta dalla parte della giustizia, amministrata dai Tribunali per conto dello Stato e nel nome del popolo italiano, ma sta a fianco dei condannati che hanno violato la legge con un reato gravissimo, deformando insieme, con la loro condotta, la giurisdizione dello Stato e la democrazia economica. Che sia l'impudenza del potere, a dettare questi comportamenti, o la disperazione della politica, poco importa ai cittadini. È un gesto gravissimo, prima di tutto perché travolge la separazione e l'equilibrio tra i poteri dello Stato, con il giudiziario pesantemente e apertamente minacciato dall'esecutivo subito dopo una sentenza, attraverso la ritorsione immediata ed esplicita del presidente del Consiglio.

E infatti ieri si sono mossi tutti i membri togati del Csm, per difendere i giudici di Milano dagli attacchi del premier, mentre il vicepresidente Rognoni - immaginiamo dopo una consultazione con Ciampi, che non potrà non intervenire personalmente - ha denunciato la delegittimazione dell'attività giudiziaria, attraverso una contrapposizione "patologica" tra i poteri.

Ma c'è a nostro parere un limite in più, anche nel mondo senza limiti del berlusconismo, che è stato violato in queste ore, e riguarda l'autonomia dello Stato, la separazione tra la cosa pubblica e i destini individuali dei governanti pro tempore.

In un gesto inconsulto e tuttavia per lui inevitabile e naturale, il Capo del governo ha trascinato il nostro Stato dalla parte dei malfattori, in un sentimento istintivo di arditismo verbale e di sacrilegio democratico che rovescia i parametri e le norme su cui si regge la convivenza civile in uno Stato moderno. È qualcosa di eversivo, una sorta di congiura dei dannati che affonda la sua forza nel peggio, esaltando il disordine, la devianza e la licenza come elementi creatori di un nuovo ordine, contro ogni maestà delle istituzioni, ogni autorità dei valori, ogni rispetto delle regole. Un impasto di istinto cieco di sopravvivenza, quasi rivoluzionario, e di una cultura politica terribile che ricorda quell'"empia audacia" di cui parlava negli Anni '30 Roger Caillois e che speravamo di non dover vedere mai all'opera in Italia: "Chi vuole comandare gli uomini deve aver sconfitto gli dei, e non con la preghiera ma con la forza".

Perché "nulla rende sacro come un grande sacrilegio, come la violazione solenne degli interdetti che sospende il castigo" e pone il sacrilego "al di sopra dei comuni mortali, votandolo ad una fatalità regale".

La destra che governa l'Italia è dunque fatta con l'impasto della peggior destra, e oggi ne sta dando prova. Berlusconi tenta addirittura una rilettura tecnicamente rivoluzionaria degli ultimi dieci anni italiani, immaginando una congiura giustizialista nata nell'aprile del 1993, e collegando se stesso a Bettino Craxi come vittime di un golpismo organizzato dai "comunisti" diessini, dal "partito giustizialista" e naturalmente da , la sua ossessione. Eugenio Scalfari e i suoi articoli del '93 sono usati come i pifferai magici di un'operazione antidemocratica che secondo Berlusconi dura tuttora e punta a scalzare il suo governo. L'attacco a Repubblica e al suo fondatore non stupisce. Nell'afasia italiana, e di fronte all'egemonia culturale del Caf allora, del Polo oggi, questo giornale rappresenta semplicemente un'idea diversa dell'Italia, un'idea non riducibile al berlusconismo, una difesa dello Stato di diritto e delle istituzioni democratiche. Per questo Berlusconi lo mette al centro di un disegno costruito dalla sua disperazione, che assegna al Cavaliere il ruolo rivoluzionario di unica forza sana, sempre vincente, sempre con il favore del popolo (e per questo si tace accuratamente la sconfitta del '96 da parte di Romano Prodi), costretto a combattere ieri come oggi contro i golpisti che vogliono fermarlo. Uno schema che sarebbe ridicolo, e folle, se non fosse l'incubazione di un progetto di ribellione organizzata davanti al corso istituzionale degli eventi. La formula è inedita e terribile: la definirei una specie di "ribellione della maggioranza", impaurita e spaventosa insieme, pronta a tutto pur di mantenere il potere.

Vorrei dire che non è un caso se questo accade sul terreno della giustizia, che è il cerchio magico del mistero berlusconiano, e attorno alla figura prima onnipotente e ormai politicamente maledetta di Cesare Previti, che è lo stregone custode di quel mistero. Uno stregone che ha celebrato in pubblico per anni il rito di un potere basato sulla licenza e sugli eccessi e che oggi vede il fuoco del suo sortilegio ormai spento, ma con fumi e ceneri di cui lui e il Cavaliere conoscono bene significati occulti e potenza palese.

Il caso del "lodo" è esemplare, quanto a sortilegi, perché parla da solo: con una provvigione di denaro occulto che parte dai conti esteri intestati alla Fininvest, Previti organizzò un sistema di corruzione che portò nel '91 la Corte d'Appello di Roma ad annullare un lodo arbitrale in base al quale il controllo della Mondadori era stato assegnato alla Cir di Carlo De Benedetti. Quella sentenza è stata pilotata, quel pronunciamento è stato comprato, quella battaglia imprenditoriale è stata vinta illegalmente, con la frode e attraverso la corruzione.

Silvio Berlusconi, padrone della Fininvest, era imputato insieme con le persone ieri condannate, ed è uscito dalla vicenda giudiziaria grazie alla prescrizione. Dunque penalmente è al riparo. Ma la provvista di soldi per la corruzione dei magistrati, in modo da piegare la sentenza a favore della Fininvest, secondo il Tribunale di Milano viene dalla All Iberian, il cui beneficiario era proprio il Gruppo Fininvest. E il risultato della sentenza pilotata e comprata, cioè la sua ricaduta imprenditoriale, economica, editoriale, di potere, è andato a indubbio ed esclusivo vantaggio di Silvio Berlusconi. Queste due circostanze accertate da un Tribunale della Repubblica avrebbero dovuto consigliare da sole, per decenza e per prudenza, all'imprenditore Berlusconi di tacere. Quanto al presidente del Consiglio Berlusconi, lui no, lui doveva parlare, ma per dire il contrario di quanto ha detto. Per testimoniare il suo imbarazzo agli italiani, per spiegare magari balbettando, ma con parole finalmente sincere, ciò che può spiegare di una storia scandalosa, per chiedere scusa, per prendere le distanze da Previti se può farlo, per assicurare infine che scendendo in politica ha abbandonato per sempre quei metodi: e dunque si augura nell'interesse della giustizia e per sua personale trasparenza, che la giustizia vada avanti celermente in appello, e componga una triste vicenda.

Tutto ciò Berlusconi non lo farà mai, e c'è una ragione. Perché questa sentenza, dimostrando e condannando la forma fraudolenta con cui fu ottenuta la proprietà di una grande azienda, colpisce al cuore l'identità imprenditoriale di Berlusconi, quella sovrastruttura pre-politica attraverso la quale il Cavaliere è potuto scendere in campo e conquistare una parte rilevante del suo consenso: presentandosi cioè come l'imprenditore puro, capace di rimettere in piedi l'Italia e i suoi conti dopo aver creato e conquistato aziende, spazzato via i concorrenti, dominato il campo con la sua purissima energia industriale. Solo che quell'identità imprenditoriale risulta oggi bacata, minata alla base. E dunque, il presidente-imprenditore deve fare i conti con quel sistema di corruzione a cui la Fininvest ha concorso e da cui ha tratto beneficio, e che lui non poteva naturalmente non conoscere, come dimostra anche lo strettissimo legame, l'amicizia personale che lo lega a Cesare Previti.

E da qui, nasce un'altra domanda. Conoscendo quel che conosceva, sapendo ciò che era successo e che il Tribunale adesso ha sanzionato, come ha potuto Silvio Berlusconi, l'uomo che è sceso in campo perché "ama il suo Paese", pensare nel '94 di proporre proprio Previti come ministro Guardasigilli, cioè alla testa della giustizia italiana?

Sono queste le domande a cui Berlusconi non potrà mai rispondere: né sulle piazze, né sui giornali, neppure a "Porta a Porta". Piuttosto, parla di persecuzione, di giudici politicizzati. Ma questo processo riguarda reati tutti commessi ben prima che il Cavaliere scendesse in campo, dunque la politica non c'entra. Quanto alla persecuzione, il lodo Mondadori è del '91, la sentenza che riconosce la corruzione arriva oggi, dodici anni dopo, al termine di 6 anni di inchiesta e ben 3 di pubblico processo, durante il quale la difesa ha potuto giocare tutte le carte giudiziarie e anche molte extragiudiziarie. Per la prima volta nella storia della Repubblica sono state costruite norme ad personam, provvedimenti ad hoc, si è cioè deformata la giurisdizione, sono stati manomessi alcuni istituti, si è intervenuti su trattati internazionali per costruire appositamente e fisicamente una qualsivoglia forma di salvacondotto. Questo processo è diventato qualcosa di improprio, con il governo, la maggioranza parlamentare, il presidente del Consiglio che alzavano quotidianamente la loro ombra dietro la figura dell'imputato Previti, pronti a trasformare in legge nelle Camere le tesi che i difensori avanzavano in aula, appena il Tribunale le respingeva.

Il sistema di garanzie è stato dunque dispiegato pienamente, e certo in misura enormemente superiore a quanto avviene per un normale cittadino. Ad un certo punto, abbiamo vissuto il paradosso drammatico in cui lo Stato era schierato e in forma gladiatoria con un imputato, nell'aula in cui un Tribunale doveva amministrare la giustizia per conto dello Stato. Non sono mancate le intimidazioni, le accuse gravissime ai magistrati. Che però hanno portato il loro compito fissato dalla legge fino alla fine.

Questo è ciò che conta, in uno Stato di diritto. Voglio dirlo con chiarezza ai lettori. Nel caso del "lodo", com'è noto, il gruppo editoriale Espresso-Repubblica subì un danno rilevantissimo, perché fu spogliato fraudolentemente del possesso della Mondadori. Ma nel giudizio che oggi diamo della vicenda, più della soddisfazione per il ristabilimento della verità dei fatti conta la conferma venuta da Milano che in Italia la legge è ancora uguale per tutti. Non perché c'è stata una condanna: ma perché c'è stata una sentenza, che Previti e Berlusconi hanno fatto di tutto per evitare e scongiurare, costruendo una sorta di immunità politica con le loro mani, che avrebbe colpito a morte lo Stato di diritto.

Ora, regolato il caso giudiziario, resta aperto il caso morale e politico. Non ci interessa nessuna speculazione, basta la verità: e avanza. La lezione è chiara. Saperla leggere tocca a Berlusconi, è affar suo, e la ferocia della reazione di ieri dimostra che ha capito per chi suona la campana. Qualcuno dovrà fermarlo, consigliandogli di interrompere questo duello eterno col paese che dovrebbe invece governare. È facile prevedere, al contrario, che il Cavaliere finirà prigioniero dell'incendio istituzionale che ha appiccato. E purtroppo, trascinerà lo Stato dentro quel cerchio previtiano di fuoco che lo circonda in eterno.

Caro direttore,

la parola d'ordine nelle stanze alte del è sopire, troncare, minimizzare, allontanare il fuoco dalla paglia, fare in fretta, soprattutto, a collocare il nuovo direttore sulla poltrona con l'Enciclopedia Treccani di spalle. Io mi sono dimesso stamattina perché non credo per nulla nella versione ufficiale delle dimissioni di Ferruccio De Bortoli - i motivi personali - e non credo neppure nelle assicurazioni date sulla continuità del giornale, più o meno provvisoria. Una conquista, persino, il meno peggio che potesse accadere, secondo alcuni protagonisti di questa vicenda che è un po' il simbolo della vecchia politica delle stanze chiuse, dei patti riservati, degli occhieggiamenti, dei favori, delle poco sublimi mediazioni, delle trattative sottobanco, dell'eterna ambiguità.

Mi dimetto per protesta. Contro l'arroganza del governo e dei suoi ministri, contro una Proprietà subalterna, contro le interferenze, difficili da negare, piovute dall'alto ai danni di un possibile libero giornalismo. In un momento grave per la Repubblica in cui non è certo il caso di fare gli struzzi.

Ho consegnato la mia lettera di dimissioni alla Rita, una delle intelligenti segretarie di direzione e nel giornale deserto della prima mattina sono andato su e giù per i corridori dei vari piani. Ho dato un'occhiata alle vuote stanze della direzione, poi alla celebrata sala Albertini, coi tavoli simili a quelli del Times, con le lampade di ottone che hanno sostituito le lampade verdi. Chissà che cosa è successo qui dentro nel Novecento, conflitti, bassezze, viltà, crimini e misfatti. Ma anche il coraggio di tanti e la passione.

Che cosa significa, mi sono detto, il concetto di continuità predicato ora in un giornale come questo che ha segnato la vita nazionale? Da Bava Beccaris e dalla parte dei suoi cannoni al fascismo dopo le non sempre focose resistenze di Albertini fino a quel famoso direttore del dopoguerra esaltato dai manuali, Missiroli, che era solito dire, negli anni 50: " Ci vorrebbe un giornale. Oh, se avessi un giornale!". La continuità arriva fino alla P2 - Di Bella, Rizzoli, Tassan Din o per continuità - speriamo - si vuole intendere soltanto la parte civile della storia, Mario Borsa, Ottone, Cavallari, Stille, Mieli? E Ferruccio de Bortoli. Che ha diretto con dignità un giornale moderato dove a occupare la prima pagina sono stati soprattutto Panebianco, Galli Della Loggia, Merlo, Ostellino e qualcun altro, guardie bianche da cui Berlusconi non ha avuto certo da temere, soltanto benevolenza e consigli filiali.

Io sono stato accolto da Ugo Stille nel 1987. Lo ricordo con affetto. Aveva lo sguardo di un uomo che molto sa e molto ha vista, sa del presente e intuisce del futuro, come l'ignoto marinaio del romanzo di Vincenzo Consolo. Con lui ho scritto molto, di cultura, di politica. Era curioso, gentilmente beffardo. Solo una volta parlò del suo grande amico Giaime Pintor. Nel 1999, poi, de Bortoli mi ha affidato una rubrica di politica e società, " Storie italiane", e in quattro anni non mi ha mai chiesto di togliere una riga o una sola parola garantendo con correttezza esemplare una rubrica dissonante dal resto del giornale. Sono grato anche a lui.

" Come mai - dicono adesso gli ingenui cittadini di Milano che si incontrano per la strada e ti fanno domande allarmate - Ferruccio de Bortoli era inviso al governo o ad alcuni governanti e il suo successore non lo è?". " Come mai - dicono altri - si sostiene che non è successo niente?". Berlusconi vuole tutto. Non gli bastano le sue tre reti televisive, la Rai, i giornali parentali e quelli amici, le radio e le case editrici, come non succede in nessun paese del mondo.

Il , nonostante non fosse nemico, era ed è un inciampo da togliere di mezzo. Perché adesso? Le elezioni non sono state un successo. L'economia ristagna. Non pochi elettori forzisti fanno i conti della spesa, il vecchio carisma del capo è entrato in crisi, il loro cuore è tremulo e intristito.

Il semestre europeo può essere un ostacolo micidiale, non un'occasione dorata. E il Corriere conta, resta una spina, ha mantenuto intatto il suo prestigio. Può influenzare milioni di persone. Che cosa dà fastidio al Cavaliere? La quantità di informazioni che de Bortoli ha sempre cercato di dare non gli giova. Alcuni collaboratori di certo non gli piacciono, Giannelli e le sue vignette, qualcun altro, il professor Sartori, liberale autentico, che ha battuto per anni sull'incudine del conflitto di interessi e non si è stancato mai perché questo è l'insoluto problema generatore di tanti disastri reali e d'immagine per l'Italia in tutto il mondo.

Il 15 maggio, Giovani Sartori ha avuto l'impudenza che non è stata perdonata né a lui né a De Bortoli di scrivere: " Lei ha dichiarato, signor Presidente del Consiglio, che “non sarà consentito a chi è stato comunista di andare al potere”. Queste cose le diceva Mussolini. Lei non ha nessun motivo di aver paura. Io sì".

Figuriamoci il Cavaliere che con i suoi fedeli vassalli non ha mai dimenticato il no alla guerra di de Bortoli. Le pressioni governative sono state assillanti, padronali, offensive. A proposito dell'economia e di inchieste su questioni finanziarie. A proposito della giustizia, tema ossessivo. Il direttore de Bortoli l'ha affrontato nell'unico modo possibile per un giornalismo civile pubblicando gli articoli dei bravi, generosi e minacciati cronisti giudiziari che non ritengono il presidente del Consiglio e l'onorevole Previti al riparo dalle notizie documentate. Questi eminenti imputati dei processi di Milano che debbono rispondere di un reato comune così grave come la corruzione di magistrati e che stanno per ottenere l'impunità dalla maggioranza parlamentare con una legge ad personam che certo viola la Costituzione, vogliono essere liberati anche da ogni controllo dell'informazione. Sorretti dai loro avvocati-parlamentari che fanno il diavolo a quattro in difesa dei loro clienti. Le ricusazioni toccano anche alla stampa libera.

Gli azionisti, poi. Quella del è una proprietà frantumata, un pentolone che contiene tutti i possibili beni e servizi, le auto, i cavi, le telecomunicazioni, i frigoriferi, la finanza, Mediobanca, le assicurazioni. Appassionati sostenitori del libero mercato gli azionisti si sono rivelati fedifraghi, bisognosi come sono delle stampelle e dei favori del governo che certo non dà senza nulla ricevere in cambio. Anche loro hanno protestato infuriati ed esterrefatti - un reato di lesa maestà - quando l'informazione economica del giornale ha rivelato, per alcuni, oscure verità su traffici e affari. Il capitalismo democratico è di là da venire. Anche coloro che deprecano a parole i comportamenti di una società che opera solo in nome degli interessi e lamentano la mancanza di idee e l'assenza di ideali, in quest'occasione non hanno rotto un fronte comune che non li rappresenta. Il grido della foresta è stato più forte.

Mentre nella mia passeggiata d'addio dentro il giornale deserto passavo davanti alle stanze dell'Economia, al secondo piano, nel vecchio fabbricone di vetro, mi venivano in mente " gli interessi inconfessabili" denunziati da un grande maestro non certo marxista-leninista, Luigi Einaudi quando, forse proprio sul , si riferiva ai traffici dei cotonieri, dei siderurgici, degli armatori, degli agrari che si servivano dei giornali di cui erano proprietari non certo per difendere idee, ma per calcoli mercantili e usavano i loro poteri e i loro denari per promuovere disegni di legge adatti agli interessi di casa.

Quel che è accaduto al Corriere è grave. È sbagliato usare anche qui i criteri perdenti della tattica anziché cercare di aprire un po' la mente e capire quali possono essere le conseguenze rovinose di un del tutto addomesticato ai voleri di Berlusconi. E questo vale per la sinistra. Il cambio di un direttore di giornale avvenuto chiaramente per impulso governativo non è, come ha detto qualcuno dall'anima questurina, simile a un banale cambio di prefetti. Soprattutto in via Solferino, dove la forza della tradizione conta, nonostante la retorica, dove, malgrado tutto, anche se con fatica, il giornale ce l'ha quasi sempre fatta a uscire dalle tempeste. (La P2 non era un club di gentiluomini: basta ricordare che Giuliano Turone e Gherardo Colombo, allora giudici istruttori, arrivarono alle liste di Gelli indagando sulla mafia, sul finto rapimento di Sindona in Sicilia, sull'assassinio dell'avvocato Giorgio Ambrosoli).

Sono uscito dal palazzo pieno solo di ombre e di fantasmi scendendo per le antiche scale. Sulle pareti sono appese le fotografie dei redattori e dei collaboratori illustri. Mi guardano, li guardo. Soltanto alcuni, faziosamente. Memoria e monito. Giovanni Amendola, Benedetto Croce, Giovanni Verga, G.A. Borgese, Federico De Roberto, Eugenio Montale, Italo Calvino. E Ferruccio Parri, con i suoi occhiali sulla fronte.

Corrado Stajano



Giorgio Bocca, Il tirannello di Vittorio Alfieri

Il postino bussa sempre due volte e così la legge Frattini sulla rimozione dei dirigenti pubblici. Il primo e più grave colpo è stato inferto ai direttori generali, in scadenza il 7 ottobre, e il nostro giornale ne ha ampiamente parlato (Repubblica del 5 u.s. e seguenti). Il secondo è sospeso come una mannaia sulla testa dei 4500 dirigenti di seconda fascia che, entro il 6 novembre, conosceranno la loro sorte, in gran parte nelle mani dei nuovi direttori generali, subentrati agli epurati. Mentre, però, per i 420 direttori generali, la decadenza è stata automatica, nel senso che tutti - graditi e sgraditi - hanno visto il loro contratto annullato e, nei casi più fortunati, rinnovato nello stesso ruolo, per i dirigenti di seconda fascia la rimozione scatta solo per chi avrà esplicitamente ricevuto l’invito ad andarsene. Una disposizione transitoria dà, a questo scopo, al ministro libera facoltà "ruotare" in un’altra posizione il dirigente sgradito.

È evidente che si è messo in moto un meccanismo di asservimento politico dell’Amministrazione pubblica che non ha precedenti, non solo nella storia del nostro paese e nella prassi degli altri stati europei, ma neppure nello spoils system americano dove investe solo i vertici dell’Amministrazione, collegati per funzione alla gestione della politica governativa (modello sulla cui falsariga il centro sinistra aveva introdotto, con la legge Bassanini, la possibilità per il governo di avvicendare una quarantina di altissimi burocrati). Ma ora questo spiraglio è stato talmente allargato che c’è solo da domandarsi se dopo aver filtrato al vaglio della fedeltà politica, ma non della competenza, i 5000 delle prime due fasce, si passerà ai gradini successivi, per arrivare fino agli uscieri. Forse, però, si reputerà bastevole aver "marchiato" i capi di ogni ordine e grado col bollo di garanzia di Forza Italia, An e Lega, per indurre tutto l’universo sottostante ad allinearsi ai desideri della maggioranza di governo.

Comunque, tornando alle sorti specifiche dei dirigenti della seconda fascia tacitamente confermati sulla base del silenzio-assenso, si deve aggiungere che neppure loro potranno ritenersi al sicuro. Tutti dovranno, infatti, accettare un nuovo contratto, peggiore in termini di garanzia e di durata di quello che avevano firmato in base alla legge di riforma del centrosinistra. Questo prevedeva, infatti, una durata minima di 2 anni e massima di 7, mentre ora la durata minima è abolita e potranno venire imposti contratti di pochi mesi, eventualmente rinnovabili, così da ridurre in condizione precaria e timorosa il dirigente. Inoltre la durata del contratto non è più stabilita in base a una contrattazione tra le parti ma con un atto amministrativo unilaterale che, in quanto tale, può essere modificato in qualsiasi momento dal ministro. Anche l’oggetto dell’incarico è fissato dal ministro e soggiace a identica alea. Infine salta tutta la procedura garantistica che era stata introdotta, sia nei contratti individuali che nella parte coperta dal contratto collettivo, per misurare i risultati e stabilire l’eventuale rinnovo. Quella che conterà d’ora in avanti sarà soprattutto la valutazione politica del vertice ministeriale. Per di più, sperando di sfuggire ad ogni contenzioso, nei nuovi contratti verranno definite solo le competenze economiche accessorie, affidando tutto il resto alla normativa amministrativa di spettanza governativa. Viene così minata alla base l’idea ispiratrice della riforma Bassanini, tendente a dislocare il rapporto di lavoro pubblico nell’ambito del diritto privato e non più di quello amministrativo, per realizzare per questa via una modernizzazione di stampo anglo sassone. «Forse - come riconosce oggi lo stesso Franco Bassanini - il tentativo dell’Ulivo di modernizzare l’Amministrazione, ancorandola a criteri di efficienza, professionalità e competenza, era troppo in anticipo sui tempi». Si potrebbe aggiungere, che invece di introdurre contratti a tempo determinato, sarebbe bastato probabilmente trovare una formula per facilitare il licenziamento, nel quadro di contratti a tempo indeterminato (come esistono anche per molti dirigenti dell’industria privata), per non schiudere quel varco attraverso cui, travolgendo ogni paletto, sta passando la carica travolgente della Destra al potere.

Ma, stando almeno alle scarse reazioni del centro sinistra, vien da pensare che i suoi capi si emozionino solo delle epurazioni mass-mediatiche e che l’oscuramento tv di Santoro e Biagi preoccupi assai più dei 5000 dirigenti pubblici finiti sotto scacco.

MILANO

Gerardo D’Ambrosio è in pensione da qualche mese, dopo quarantasei anni di magistratura. Procuratore a Milano, ha vissuto per intero la vicenda giudiziaria di Tangentopoli, dall’arresto di Mario Chiesa in poi, e ha subito le conseguenze di molte polemiche e di infiniti attacchi. Poco più di un anno fa, a proposito di una delle tante manovre per bloccare i processi milanesi, commentò con parole durissime: «È la notte della democrazia». Adesso uno di quei processi è arrivato a sentenza.

Signor procuratore, la notte può apparire meno scura?

«È estremamente importante che nel contesto difficile che tutti conosciamo si sia riusciti comunque ad arrivare alla decisione di primo grado. Questo dimostra in modo del tutto evidente che la nostra democrazia, se pure giovane, funziona, che la nostra democrazia è forte. Sotto il profilo della giustizia è positivo, profondamente positivo, aver raggiunto questo risultato, nonostante tutte le tecniche dilatorie che sono state poste in essere contro la sentenza. Tecniche dilatorie che sono state da tutti riconosciute come esasperate, tanto esasperate che persino gli avvocati penalisti hanno in modo aperto criticato una politica giudiziaria, in questa legislatura, così influenzata da questa vicenda. Si sono allungati i tempi del processo in modo anomalo. Si sono contate in tre anni otto ricusazioni. A questo punto davvero la notte può apparire meno oscura. Quei tentativi di dilazione erano compiuti in attesa di una soluzione che intervenisse prima della sentenza e che venisse data dal Parlamento. Il Parlamento invece non ha voluto dare un colpo di spugna e quindi, sotto questo profilo, anche nella maggioranza non si è voluto dare un colpo di spugna, a proposito peraltro di episodi anteriori all’assunzione di incarichi parlamentari. Abbiamo assistito a una mobilitazione che ha contribuito a dissuadere il Parlamento e una parte della maggioranza a ricorrere a ulteriori espedienti, come quelli rappresentati da alcuni disegni di legge sulla sospensione dei processi a carico di parlamentari. E mi riferisco in particolare al progetto di legge 3393, firmato dall’onorevole Nitto Palma, che è stato presentato, ma non è stato approvato. Il che significa che per il Parlamento vale ancora il principio della nostra Costituzione secondo il quale la legge è uguale per tutti, anche se vi è un articolo, il 68, che comunque introduce dei temperamenti, perché è noto che per la cattura, per le perquisizioni, per le intercettazioni telefoniche e per l’acquisizione di tabulati occorre comunque che vi sia una autorizzazione parlamentare.

Si può dire che in qualche misura questa sentenza potrebbe aiutare a voltare pagina...

«Bisogna anche dire che questo disegno di legge di cui si temeva l’approvazione e con cui si sarebbe tentato di differire questa pronuncia, sarebbe stato assai pericoloso in un sistema maggioritario, perché si prevedeva in questo modo la sospensione del processo alla fino alla conclusione del mandato sulla richiesta del parlamentare senza alcun motivazione sul fumus persecutionis. Sarebbe diventato una forma di immunità per la maggioranza, senza alcun tutela per la minoranza. Nel contesto generale, nonostante le traversie, questo fa sperare in un diverso orientamento futuro della politica giudiziaria e soprattutto che si vada nella direzione di rendere più rapidi i processi per giungere a sentenza in tempi ragionevoli, così come indica la Costituzione».

Un fatto positivo, ovviamente, a prescindere dagli undici anni di condanna...

«Teniamo conto che si tratta sempre di una sentenza di primo grado...».

Una sentenza che ha peraltro assolto l’imputato Verde...

«E che dimostra dunque che la giustizia è sempre molto attenta, prima di condannare. A volte le tesi dell’accusa vengono accolte, a volte no. Questa è la logica del processo. Non è detto che tutto debba finire in condanna. Evidentemente in questo caso la tesi dell’accusa non è stata ritenuta fondata. Mi pare che anche questo rientri nella assoluta normalità. Bisogna dire che tante questioni sollevate rientrano nei meccanismi interni al processo, anche le questioni di competenza. Il processo è fatto di tre gradi, si vedrà».

Come giudica l’ultima, oserei dire estrema iniziativa del ministro Castelli, che ha chiesto proprio l’altro ieri documentazione al Tribunale di Milano per verificare la fondatezza dell’esposto annunciato da Previti contro i pm Boccassini e Colombo? Qualcuno, Carlo Fucci, presidente dell’associazione nazionale magistrati, ha accusato il ministro di interferenza...

«Questo rientra nei poteri del ministro Castelli. Non è la prima volta che la Procura di Milano viene sottoposta a queste indagini, che si sono poi rivelate infondate. Non giudico questa iniziativa una interferenza, dal momento che si è deciso che l’azione disciplinare dipenda dal ministro, che è nella possibilità dunque del ministro di aprire una inchiesta, è un suo diritto verificare come sono andati i fatti e poi archiviare... Insomma non mi fa meraviglia. Il ministro, lo sappiamo, molte volte ha preso iniziative analoghe nei nostri confronti. Il problema è non intaccare la credibilità delle istituzioni che da questo punto di vista dipendono una dall’altra. Se perde credibilità una, non è che le altre rimangano indenni».

Roma, 10 giugno 2003

ILL.MO PRESIDENTE della

REPUBBLICA ITALIANA

CARLO AZEGLIO CIAMPI

Illustre Presidente,

la salvaguardia dell’ambiente e la tutela della sua integrità rappresentano un valore fondamentale e primario per tutta la comunità nazionale.

Ed è un valore che non può non trascendere l’alternanza delle diverse coalizioni e delle diverse formazioni politiche nella responsabilità del Governo del Paese.

Del resto in questo campo così delicato le direttive comunitarie costituiscono un riferimento invalicabile e sicuro.

Nel nostro Paese, invece, con la delega sulla normativa ambientale richiesta dal Governo, il bene ambiente è sottoposto ad un grave e preoccupante indebolimento.

Suscitano forte inquietudine l’ampiezza che non ha precedenti della delega e le modalità previste per il suo esercizio, con la completa espropriazione del ruolo del Parlamento e della sua funzione legislativa.

Infatti spetterà ad una Commissione di esperti, scelti dal Ministro per l’Ambiente ed alle sue dipendenze, l’intera elaborazione di decreti attuativi della delega, con il conseguente esautoramento delle Assemblee legislative.

In questo contesto già così difficile, con specifica circolare del Capo di Gabinetto del Ministro dell’Ambiente, tutto il personale del Ministero, dell’Agenzia per la protezione ambientale, dell’ICRAM e di tutti gli organismi collegati è stato invitato a non svolgere alcuna attività sugli argomenti – pressoché tutti - oggetto della delega legislativa.

Si realizzerebbe, così, una singolare e per tanti versi incredibile “sospensione” della vigente normativa in campo ambientale, con accentramento inammissibile di ogni questione in capo all’ufficio del Ministro.

Questa vicenda non ha ovviamente alcun riscontro negli altri Stati dell’Unione Europea.

La incertezza legislativa, che così si determina sul versante ambientale, è ancora più grave in vista del semestre europeo affidato alla presidenza italiana, che vedrà il nostro Paese in una condizione assolutamente anomala e gravida di pericolose incognite rispetto ad un valore così rilevante, come la tutela dell’ambiente.

Riteniamo pertanto, nella veste di componenti della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, di affidare alla sua autorevole attenzione la delicatezza estrema di questa situazione che riveste il bene ambientale, ormai caratterizzato e vitale per tutta la nostra democrazia.


DS On. Bandoli
DS On. Vigni
DS On. Abbondanzieri
DS On. Sandri
DS On. Chianale
DS On. Vianello
DS On. Mariani
DS On. Dameri
DS On. Piglionica
DS On. Zunino
Margherita On. Realacci
Margherita On. Iannuzzi
Margherita On. Merlo
Margherita On. Reduzzi
Margherita On. Villari
Margherita On. Fusillo
PCDI On. Nesi
Verdi On. Lion
Rif. Com. On. Vendola
SDI On. Pappaterra

ALMENO a parole la guerra civile fra sostenitori ed eversori della democrazia liberale è dichiarata. Il capo del governo Silvio Berlusconi, al ritorno da uno dei suoi viaggi nuziali, l’ha dichiarata in modo non equivocabile: «Perseguirò la guerra alla magistratura di parte fino alla sua sconfitta. Fosse anche questo il mio unico successo». La magistratura di parte per dire quella che non sta ai suoi ordini. E gli fanno eco gli uomini di assalto di Forza Italia o della Lega, gli stessi che minacciano di riaprire il movimento di secessione della Padania. Non a caso, fra il secessionismo della Lega e il rifiuto della giustizia di Berlusconi esistono le affinità elettive di un autoritarismo che non accetta controlli e freni.

I metodi di lotta politica sono certamente simili: l’offensiva continua, le spallate successive, l’avversario "lavorato al corpo" per vedere se gli saltano i nervi, se cede a stanchezza o impotenza. È il solito dire e disdire. Le rodomontate dei vari Calderoli e dei Bondi smentibili se la manovra intimidatoria non passerà.

La guerra fra la democrazia delle istituzioni e i suoi aggressori autoritari è un dato di fatto. In una dichiarazione congiunta i magistrati del Consiglio superiore della magistratura del centrosinistra fanno il punto su questa guerra preventiva e continua tipica del conservatorismo radicale diffuso nel mondo intero: "La istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta per accertare se una parte della magistratura ha operato e opera come associazione a delinquere a fini eversivi mette in pericolo gli equilibri istituzionali previsti dalla Costituzione e pone, a nostro avviso, non più e non solo un problema di tutela della onorabilità e della credibilità dei singoli magistrati e della intera magistratura ma anche la necessità di valutare che cosa il Consiglio superiore possa fare per adempiere al dovere costituzionale di difendere l’indipendente esercizio della giurisdizione".Con il suo esercito di avvocati pronti a procurare armi formali alla offensiva autoritaria si è già arrivati, nel caso della commissione di inchiesta, a mettere in pratica la dittatura della maggioranza. Prima questa maggioranza vota la creazione di una commissione inquirente che punta a mettere sotto accusa la magistratura che ha osato opporsi ai voleri del "piccolo Cesare" e come secondo e definitivo passo minaccia chi si oppone di offesa a un organo dello Stato democraticamente eletto. Dice il leghista Calderoli: «Dichiarazioni sottoscritte da una parte dei componenti del Consiglio superiore della magistratura sulla istituzione di una commissione di inchiesta sono di una gravità estrema e rappresentano, esse stesse, motivo in più per procedere alla approvazione della commissione».

Quando la democrazia autoritaria scopre il potere formale che è a sua disposizione non ha più limiti. Il rifiuto dei magistrati di prestarsi a una operazione di potere diventa un reato punibile con la galera. Il vicepresidente del Senato Calderoli, riconoscibile per il tovagliolo verde che straborda dal suo taschino, si rivolge già al Codice penale: «Sarei lieto che chi di competenza valutasse se ricorrono o meno gli estremi previsti dall’articolo 289 del Codice penale, quello che fa riferimento all’attentato contro organi istituzionali. È assolutamente necessario dare il via alla Commissione estendendo, con un emendamento, l’indagine anche sulla attività degli ultimi anni proprio del Consiglio superiore della magistratura. Continuo a essere sempre più convinto che si debba prevedere nelle riforme anche la revoca del potere disciplinare del Csm. Gli esiti della inchiesta confermeranno questa necessità».

Il bulldog della Lega, da perfetto liberale, sa già come finirà la commissione di inchiesta e ha la faccia tosta di chiedere al «presidente della Repubblica nella sua qualità di presidente del Csm di approvare l’iniziativa».

C’è da chiedersi a questo punto il perché di questa accelerazione berlusconiana verso lo scontro frontale. Una ragione solo in apparenza marginale è che egli non conosce altra organizzazione del potere che quella aziendale dove il comando del padrone è totale e indiscutibile. In buona o in mala fede i "Ceo", come chiamano in America i sommi dirigenti aziendali, sono indiscutibili, al di sopra delle leggi e della morale.

Per Berlusconi, arrivato per vie magiche più che politiche al sommo del potere, la resistenza di una parte della magistratura al suo disinvolto modo di governare non è un ostacolo imprevisto ma un’offesa imperdonabile, un rifiuto della sua missione provvidenziale, del Bene che egli rappresenta contro il Male dei sempre comunisti che sono tutti coloro che non si inginocchiano di fronte a lui. La seconda ragione, più politica che personale è che egli si sente, come dovette sentirsi Mussolini nei giorni della crisi Matteotti, i giorni in cui un capo politico sa di poter guadagnare o perdere tutto e perciò non esita a giocare forte e pesante. Fa specie vedere che il berlusconismo dilaga anche in campo sportivo: chi tenta di mettere ordine viene accusato di essere nemico delle istituzioni.

Titolo a tutta pagina di quasi tutti i giornali: «Ciampi smentisce Berlusconi». Ovvero: il presidente della Repubblica, sulla cui lealtà, coerenza, rispettabilità non esistono né dubbi né riserve, è tirato ingiustamente in ballo. Dice il capo del governo: «Il Quirinale non critica la riforma tv». Tre ore dopo secca smentita e precisazione: «Non è vero niente, non ne abbiamo mai parlato». Addirittura. Si tratta dunque, scegliete voi il vocabolo che vi sembra più adeguato, di menzogna, frottola o più semplicemente di bugia? Tra i due personaggi di cui si discute, chi vi sembra il più credibile? Domanda legittima: ma il Berlusca, come lo chiamava Bossi, il pensatore della Lega, che concetto ha dei suoi compatrioti? E di questa nazione? Si è reso conto che quando entra a Palazzo Chigi non sta andando in ditta?

Gli americani, quando non danno credito a un individuo, dicono: «Comprereste un’auto usata da questo signore?». L’ Economist ha tracciato un ritratto poco lusinghiero di Berlusconi, confermando quello che modestamente sosteniamo da tempo: in lui non c’è affatto conflitto di interessi, perché pensa soprattutto al suo. Le sue aziende, i suoi soldi. È un caso, credo, unico al mondo: ha tre reti televisive, pari con quelle statali, la più forte casa editrice italiana, un quotidiano e un importante settimanale, e divide l’universo in due: o con me o contro di me. Non c’è da abbassare i toni, ma da stare zitti.

Non avete una idea di quali disponibilità al servilismo dimostrino gli estimatori, neppure ai tempi di Starace c’erano così clamorose e pubbliche dichiarazioni di devozione. C’è chi ha parlato non solo per sé ma per tutta la famiglia, nonni compresi. Con che faccia sorridente, per ispirare penso ottimismo, si presenta oggi il presidente del Consiglio, smentito senza equivoci o sfumature, da Ciampi? Chi deve credergli?

Non sarà forse che il gruppo Pearson, azionista di controllo dell'Economist, ce l'ha con Mediaset, magari perché il Biscione, che ha la maggioranza della spagnolaTelecinco, si oppone alla vendita di un pacchetto azionario detenuto dalla Dresdner Bank agli inglesi? O è tutta opera di Tana De Zulueta, l'ex corrispondente da Roma del settimanale britannico, che oggi siede come senatrice nei banchi dei Ds? Oppure, come ripetono dalla Fininvest, non si tratta che di «materiale di importazione» in cui si riconoscerebbero le «tesi colpevoliste» dei «professionisti dell'informazione ideologizzata specializzata in anti-berlusconismo»? E invece no, il dossier su Berlusconi del settimanale The Comunist (come lo definisce Nando Dalla Chiesa, quando fa la parodia del Cavaliere) non ha nulla a che fare con i complotti della finanza o le imboscate della sinistra. «Già a pensarla così, dimostrate di essere italiani», taglia corto il direttore Bill Emmett, che ha firmato la «lettera aperta» recapitata personalmente al presidente del Consiglio con qualche giorni di anticipo rispetto alla pubblicazione.

Al Riformista Emmett chiarisce innanzitutto che «le decisioni editoriali non sono mai discusse con i nostri azionisti, incluso il gruppo Pearson. Io ho tutto il diritto di prendere le mie decisioni in piena autonomia». Dunque la proprietà non c'entra, come non c'entra Tana De Zulueta. «Naturalmente abbiamo lavorato con fonti italiane», continua il direttore, «ma l'inchiesta è stata interamente gestita da Londra». A coordinarla è stato Tim Lackson, uno degli investigative reporter di punta del giornale, che parallelamente sta scrivendo un libro su Tangentopoli. «Quanto tempo ci abbiamo messo? Direi che abbiamo lavorato ininterrottamente sul tema dalla nostra prima inchiesta dell'aprile 2001 (quella della celebre copertina Fit to run Italy?, ancora oggetto di una querela per diffamazione, ndr), ma solo negli ultimi mesi abbiamo deciso di ricorrere alla forma di una lettera aperta». Emmett respinge ogni dietrologia: «Abbiamo pubblicato adesso il dossier semplicemente perché ci sentivamo pronti, perché avevamo delle notizie che ce lo consentivano». Ma a far scattare l'iniziativa è stato il lodo Maccanico: «Quando la legge sull'immunità ha messo fine alla possibilità che Berlusconi potesse rendere conto di tutti questi interrogativi davanti ad un tribunale, ci siamo convinti che sarebbe stata una buona idea fargli delle domande per mezzo di una lettera aperta». Una procedura insolita anche per l'Economist, che pure in passato aveva attaccato con inchieste al vetriolo capi di Stato come Boris Eltsin o Jacques Chirac. «Ma il caso di Berlusconi è diverso - insiste il direttore - perché nessuno prima si era messo al riparo dalla legge così come ha fatto lui». Dunque, anche tenuto conto degli standard di moralità italiani (che devono apparire assai bassi, giudicati da lassù), gli inglesi hanno ritenuto che la misura fosse colma e sono usciti con una nuova copertina sul Cavaliere (la seconda da maggio). Consultando ovviamente prima i loro uffici legali, che sono già impegnati in una causa per diffamazione a Roma, il cui esito è atteso per la fine dell'anno.

E nemmeno è esatto parlare di «materiale d'importazione», ribattono da Londra, perché almeno un elemento nuovo nel dossier dell'Economist c'è. Lo si individua alla quinta domanda, disponibile solo sul sito Internet del giornale (Your other trials), nel paragrafo dedicato ai processi per falso in bilancio, quando si scrive che l'avvocato londinese David Mills, contrariamente a quanto sostenuto nelle sue deposizioni ai magistrati italiani, avrebbe intrattenuto un rapporto professionale con la Fininvest già a partire dal 1980 (e non nel '89 o '90 come dichiarato sotto giuramento). In base ai registri camerali consultati dal settimanale, Mills avrebbe infatti iniziato in quello stesso anno a mettere in piedi una rete di società off-shore (come la All-Iberian) nota come «Fininvest-B», allo scopo di accantonare fondi neri, da impiegare successivamente anche per il pagamento di tangenti. Uno schema che tramite Mills e il suo mandante, Giancarlo Foscale, cugino di Berlusconi e manager della holding di famiglia, avrebbe sottratto oltretutto al fisco inglese tasse su utili lordi per 75 milioni di dollari, solo nel periodo '80-'87. L'avvocato Mills, in sostanza, a detta dell'Economist, sarebbe un evasore fiscale. Piccolo particolare: il legale è il marito di Tessa Jowell, ministro della Cultura di Tony Blair. Se l'accusa dovesse dimostrarsi vera, il premier inglese si troverebbe ancora di più sulla graticola. E forse è lui il vero obiettivo di questo attacco.

GIUSEPPE D’AVANZO

LE ULTIME parole di Ilda Boccassini sono un urlo alla luna nera, una protesta civile, il tentativo finale di proteggere almeno, soffocato il processo con una legge palesemente incostituzionale, la limpidezza del lavoro della procura di Milano, lo spirito di servizio e la correttezza degli addetti in toga e in divisa. Il pubblico ministero ha buone ragioni per farlo.

Appena qualche giorno fa. L’imputato Berlusconi entra nell’aula del suo processo con l’aria spavalda di chi è uso agli schermi e al riflettore. Libera il suo flusso verbale, accortissimo a tenersi lontano dalle circostanze, dalle testimonianze, dai documenti che lo indicano come corruttore di giudici.Accusa i magistrati, insinua trame e complotti, indica burattinai, dileggia testimoni. Può farlo a mano libera e senza timore perché è l’imputato e perché non accetta il contraddittorio. Promette al tribunale (e all’opinione pubblica) che tornerà in quell’aula «a dirne di altre», finalmente «nel merito». Quando lo promette, sa che non terrà fede alla sua parola perché la maggioranza ha già pronto un salvacondotto che non trova ostile l’opposizione né in dissenso il capo dello stato: e tuttavia, non è l’assenza (o la fuga) dell’imputato eccellentissimo dopo il j’accuse, come sembra pensare la Boccassini, l’epilogo di questo processo.

Il compimento s’era già consumato il 17 di giugno. È un’osservazione di Marcello Dell’Utri. «La scena con cui martedì si sono chiuse le "dichiarazioni spontanee" del presidente del consiglio sono l’immagine plastica della fine di una stagione. Berlusconi, che nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano risponde all’ultimo affondo della Boccassini: "Venga a Palazzo Chigi se crede, ora mi scusi devo andare a governare", è il segno che sul decennio giustizialista cala il sipario», (La Stampa).

Se lasciamo in un canto la rituale classificazione («decennio giustizialista»), Dell’Utri non ha torto. Quella rapidissima scena occorre imprimersela a fuoco nella memoria perché non chiude soltanto un decennio (e il tentativo di ripristinare il controllo di legalità sull’azione dei poteri pubblici e privati: questa è stata Tangentopoli) ma ribalta alla radice il tratto costitutivo della nostra repubblica. Riavvia il nostro futuro verso un passato storico che fu di Rousseau e dei giacobini per i quali «deve avere comunque l’ultima parola chi, in sede politica, è legittimato a rappresentare la volontà generale». Ecco allora il significato di quell’immagine che chiude il processo di Milano. Berlusconi non accetta di farsi processare come un cittadino qualunque perché non si sente un cittadino qualunque. Egli è un potere, anzi il potere. Lo incarna perché rappresenta il popolo sovrano, la sua volontà e il suo interesse. Egli, come Rousseau, come Saint Just e Robespierre, pensa che il potere debba essere, sia uno. Crede che l’unicità di quel potere sia custodita dal potere politico, il solo potere legittimato mentre gli altri poteri, quando non sono funzioni amministrative, si definiscono al più eccezioni o supplenze. È l’onnipotenza della politica come versione moderna della sovranità del principe.

Quest’idea "istintiva" del signore di Arcore ("istintiva" perché tutta iscritta nel codice genetico del suo animal spirit) è apparsa all’inizio di questa avventura la pretesa stravagante (arrogante? ingenua?) di un parvenu della democrazia. Ora che quella convinzione è stata codificata in una legge che ne riconosce l’intangibilità; ora che alla luce del sole il sistema istituzionale gli ha dato il via libera fermando la mano del giudice, va preso molto sul serio Giuliano Ferrara quando annuncia la nascita della «terza repubblica» e scrive dell’immunità firmata da Ciampi come di «un atto rifondativo del primato della democrazia e della politica dopo dieci anni di veleni di interdizioni».

La notizia, come si dice, è la riproposizione del «primato della politica» come fondamento della democrazia italiana o della "democrazia berlusconiana", e non è una buona notizia. Come è evidente, non parliamo più di un processo o di un imputato che è anche capo del governo né di pubblici ministeri e di procure, di mani pulite e di baratti giudiziari. Quel che appare a chi governa addirittura «un atto rifondativo» è l’epifania di un nuovo sistema politico che ha al suo centro un convincimento vecchio di tre secoli - la concezione "assolutista" della politica - che, se ha ragione Jacob L. Talmon nelle «Origini della democrazia totalitaria», ha ispirato le ideologie e i regimi totalitari del Novecento: la sovranità popolare come potere primigenio e illimitato di fronte al quale ogni altro deve cedere, un potere che non tollera limiti e contrappesi. E’ un’idea che annichilisce quella che Giuliano Amato ricorda essere «la concezione lockiana della divisione dei poteri, quella all’interno della quale i poteri sono davvero plurali, l’uno non dipende dagli altri e c’è una legge superiore (la Costituzione)». In questa architettura liberale, al contrario di quanto annuncia Giuliano Ferrara, i poteri sono distinti ed equiordinati, non esiste una primazia dell’uno rispetto agli altri perché sono collocati in ambiti diversi.

Ci saranno i tempi, i modi e le intelligenze per riflettere dalle colonne di questo giornale sul ripiegamento giacobino della nostra democrazia, quel che qui si vuole osservare è che quell’idea di «primato della politica» non nasce con Berlusconi, ma è nel cuore stesso della cultura politica del nostro Paese e l’attraversa a destra, come a sinistra. Che cosa fu la Bicamerale, presieduta da Massimo D’Alema, se non il tentativo esplicito e risoluto di restituire alla politica (a chi governa) quel che sembrava fosse andato perduto nel crollo della "prima repubblica"? E non fu quello il tentativo di trovare «la via per condurre i magistrati all’allineamento alla law making majority» (Stefano Rodotà)? Non è negli anni del centro-sinistra (1996/2001), e sempre in ossequio a un ambiguo «primato della politica», che non venne affrontata la crisi delle garanzie che affligge il nostro sistema politico innovato dal maggioritario? Quell’«atto rifondativo», che è la morte del processo di Milano e la legge di immunità/impunità per Silvio Berlusconi, non è un fiore nato nel deserto. E’ un pensiero di fondo di cui la cultura politica italiana non riesce a liberarsi. E non riuscirà mai a disfarsene, soprattutto nell’opposizione di sinistra, «mostrificando» Berlusconi senza ripensare con critica severità alle proprie antiche e pericolose convinzioni, a quella tentazione giacobina che l’ha affascinata fino ad ieri. E che oggi, per mano della destra, diventa governo, metodo, cultura e addirittura legge.

ROMA - Secondo i suoi portavoce, Silvio Berlusconi non risponde alle domande dell’Economist perché «ha altro da fare» e «non ha tempo». Strano, perché ha avuto quindici anni per farlo: davanti agli elettori, ai pm, ai giudici, alla stampa, all’Europa. Invece niente, nessuna risposta. Non ha tempo, o magari non può?

La villa. «Pensa che la signora Casati Stampa abbia concluso un’equa transazione per villa San Martino e i terreni di Cusago?» . Nel 1975 la marchesina Annamaria Casati, orfana e minorenne, assistita dal pro-tutore Cesare Previti, cede a Silvio Berlusconi la villa e la tenuta di Arcore a un prezzo irrisorio. Per giunta non in contanti, ma in azioni di una società non quotata. Si scoprirà poi che Previti era contemporaneamente prestanome di Berlusconi in un paio di società. Nel '94 l’Espresso sbatte la storia in copertina: «La grande truffa». Previti chiede 2 miliardi di danni. Il Tribunale di Roma dà ragione all’Espresso: è tutto vero.

Le holding. «Chi versò 16,94 miliardi nella Fininvest Srl come prestiti agli azionisti negli anni 1977-78 e da dove veniva il denaro? E perché lo fece in 25 tranche in 20 mesi?». Queste e altre domande i pm e i giudici del processo Dell’Utri, in trasferta da Palermo a Palazzo Chigi, intendevano rivolgergli il 26 novembre 2002. Ma il premier si avvalse della facoltà di non rispondere. Idem sulla presenza per due anni in casa sua del boss Vittorio Mangano, inopinatamente scambiato per uno stalliere o un «fattore». Le operazioni di finanziamento e capitalizzazione delle 22 holding «Italiana» che controllavano Fininvest sono oggetto delle famose perizie del vicedirettore della Banca d’Italia di Palermo Francesco Giuffrida al processo Dell’Utri: «si ignora la provenienza» di 99 miliardi (pari a 6-700 oggi) entrati nelle holding nel quinquennio 1978-’83, almeno 14 dei quali in contanti. Lo stesso consulente della difesa Dell’Utri, professor Paolo Jovenitti, dopo aver sostenuto che a finanziare Berlusconi era Berlusconi, ha dovuto ammettere che alcune operazioni «potremmo definirle non trasparenti». E che il Cavaliere non gli aveva trasmesso le carte sui movimenti finanziari dal 1975 al '78 («non ne ero al corrente»). Tre anni di omissis. La Procura sostiene che i miliardi provenivano da Cosa Nostra, come raccontano il pentito Di Carlo e il finanziere Rapisarda. Le operazioni «anomale», dicono i pm, sarebbero servite a far perdere le tracce del riciclaggio del denaro sporco.

La P2. «Perché ha mentito sulla data di affiliazione alla loggia P2?». Nel '90 Berlusconi fu riconosciuto colpevole di falsa testimonianza (e salvato dall’amnistia) per aver giurato di essersi iscritto alla P2 «poco prima dello scandalo» (1981), mentre la sua tessera risale al 1978. Senza la P2, non avrebbe mai ottenuto enormi favori e prestiti da Bnl e Montepaschi, due istituti che – denunciò la commissione Anselmi - gli garantirono «appoggi e finanziamenti al di là di ogni merito creditizio». Non solo. Nel 1979 una pattuglia della Guardia di Finanza ispeziona l’Edilnord, scoprendo tracce di irregolarità valutarie. Berlusconi, il titolare, si spaccia per un «semplice consulente» . Il blitz si conclude in meno di un mese: nulla di fatto. Pochi mesi dopo, il caposquadra, colonnello Gallo, entra nella P2, mentre l’altro sottufficiale, il capitano Berruti, lascia le Fiamme Gialle per diventare avvocato nello studio Carnelutti. Lavorerà per la Fininvest, specializzato in società off-shore. Sarà condannato per favoreggiamento nelle mazzette alla Guardia di Finanza.

Mister Mills. «Con che frequenza, se mai l’ha fatto, ha parlato con Mr. Mills?». David Mills è un avvocato d’affari londinese, marito di una ministra del governo Blair, grande architetto della finanza estera Fininvest. Anche lui lavorava per lo studio Carnelutti. Sentito l’11 marzo al processo Sme, assicura di aver lavorato per il Biscione «solo dopo il 1989». E poi: «Berlusconi lo conobbi nell’estate '95 nella villa di Arcore per consigli legali». L’avvocato Pecorella esulta: «Visto che la Procura ci contesta corruzioni giudiziarie estero su estero fino al 1991, vuol dire che Berlusconi non c’entra». Ora però l’Economist scopre che Mills costituiva società per conto della Fininvest fin dal 1980. Bugie che minacciano di danneggiare il Cavaliere, ma anche Mills, che rischia un’indagine fiscale nel suo paese.

All Iberian. «Quanto sapeva della rete off-shore della Fininvest?» . Nel 1998 Berlusconi dichiara: «Di All Iberian non so nulla» . Ma per il Tribunale (condanna), la Corte d’appello e la Cassazione (prescrizione), il Cavaliere mente: fu con il suo «rilevante concorso» che, nel 1989-’91, All Iberian versò 23 miliardi al conto «Northern Holding» di Craxi. La stessa All Iberian usata, secondo il pool, per pagare i giudici.

La medaglia. «Perché lei meriterebbe una medaglia d’oro?». Berlusconi l’ha chiesta «per aver fatto risparmiare 2000 miliardi allo Stato sventando la svendita della Sme a De Benedetti per un quinto del valore. Una rapina!». Ma la Sme, secondo i suoi stessi alleati Barilla e Ferrero, valeva non più di 470 miliardi. L’Iri ne chiese all’Ingegnere 497. Berlusconi, tramite l’avvocato Scalera amico di Previti, rilanciò offrendo appena il 10% in più (550). Rapinatore anche lui? Economist, la Fininvest contrattacca

di Andrea GagliardoROMA - Il dossier dell´Economist ha lasciato il segno. L´inchiesta contro Berlusconi è su tutti i giornali, ma il premier si trincera nel no comment. Non ha nulla da aggiungere a quanto già aveva riferito il portavoce Paolo Bonaiuti: «L´Economist lo leggeranno gli avvocati del premier».

Il presidente del Consiglio non ha nessuna voglia di entrare nel merito e di rispondere alle 28 domande del settimanale della City. Preferisce la via giudiziaria. I suoi legali stanno curando i dettagli dell´azione penale. Sono al lavoro per identificare i presunti aspetti diffamatori del dossier. In sede civile si ipotizza poi una citazione per danni, probabilmente presso il tribunale di Roma. Il settimanale inglese si accinge così a ricevere la seconda querela per diffamazione da parte di Berlusconi. La prima seguì all´articolo dell´aprile 2001, che aveva definito il premier «inadatto a guidare l´Italia».

L´ufficio legale della Fininvest è durissimo. Respinge tutte le accuse e in una nota dà per scontato un «esito giudiziario» di quella che viene definita una «deprecabile e sedicente inchiesta giornalistica», ennesimo episodio di «una campagna ostile e tutta politica nei confronti di Berlusconi». Campagna basata su «materiale d´importazione, rubato dalla vasta pubblicistica anti-berlusconiana che da anni tiene banco in Italia».

«Quella lanciata dal dossier dell´Economist - prosegue la nota Fininvest - non è una sfida all´on. Berlusconi, bensì una sfida alla verità dei fatti e alla decenza giornalistica». Tanto che saremmo di fronte «alla caduta di un mito del giornalismo internazionale».

Sul fronte politico l´opposizione si gode il clamore suscitato in tutta Europa dal dossier. Tacciono An, Udc e Lega. Forza Italia riarruola invece certa stampa estera tra i «detrattori a prescindere». La difesa d´ufficio del premier è affidata a Renato Schifani. Il capogruppo forzista alla Camera spara a zero e accusa l´opposizione di essere corresponsabile del «violento scontro socio-politico in atto, con le sue delegittimazioni totali dell´avversario, consumate anche attraverso un inaccettabile uso politico della giustizia e la connivenza di certa stampa estera, come l´Economist».

«Fino a questo momento nella Repubblica-Berlusconi è valsa solo una regola: diventa legge solo ciò che può servire al piccolo uomo alto un metro e sessantaquattro ma con un grande Ego. Tutto ciò che disturba, deve scomparire. Berlusconi era entrato in politica per risolvere, lo dice lui stesso, tutti i suoi problemi giudiziari e finanziari. E lui lo fa in un modo che finora in una democrazia europea non era nemmeno immaginabile. L’Italia viene smontata e ricostruita secondo le esigenze del suo capo di governo. Della divisione

«Il suo partito Forza Italia, un urlo usato per incoraggiare la squadra di calcio italiana, è la più grande forza in Parlamento. Pende dalle sue labbra. L’ha fondato sul modello di un’azienda, tant’è che molti deputati di Forza Italia sono stati scelti tra i suoi consiglieri personali. Non era nemmeno arrivato al potere, che già pensò di fare ordine in Rai. Tutti i critici di Berlusconi furono allontanati, perché rei di aver fatto, secondo Berlusconi, un «uso criminoso» della televisione. (cita poi il caso Biagi, ndt)

«A gennaio il Consiglio europeo, dopo che un gruppo di esperti avevano preso in esame il caso Italia, aveva constatato: Il conflitto di interesse tra il ruolo politico di Berlusconi e i suoi interessi privati nel campo dei media, è una minaccia al pluralismo dell’informazione.

Martedì prossimo quest’uomo guiderà per sei mesi la presidenza del Consiglio dell’Unione europea. L’Europa lo accetta in silenzio, imbarazzata e tutto al più solo nelle stanze chiuse della politica critica il fatto che tocca al “Lider Maximo” del Tevere, essere per sei mesi “Mr. Europa”. Occhi chiusi e via, questo è il motto dei suoi 14 colleghi europei. Perché ciò che irrita i suoi colleghi europei non è solo la sua quantità di potere, il fatto che lui, il padrino delle politica italiana, smonta e usa per il suo bisogno la repubblica romana, ciò che rende davvero nervosi i principali leader europei è l’umiliante consapevolezza di essere rappresentati da qualcuno che molti europei molto semplicemente considerano un imbroglione».

«Perché nonostante Berlusconi senta su di sé il “profumo di santità”, la sua carriera fin dall’inizio è stata in penombra. (Elenca tutti suoi guai giudiziari avuti con la giustizia italiana e internazionale, ndt). Non c’è dubbio che Berlusconi abbia vinto democraticamente le elezioni. Berlusconi ha talento per la messinscena politica. Giorno per giorno fino ad oggi, è stato il regista e il protagonista principale del Berlusconi-Show: re Silvio, il buon padre, l’imprenditore di successo, l’avvocato di tutti gli italiani». «Anche con i suoi colleghi internazionali ci tiene a fare bella figura. È piaciuto all’istante per esempio al presidente americano George W. Bush, così come è piaciuto al russo W. Putin. Racconta barzellette, suona il piano, canta, prende tutti sotto braccio e li assicura, “sono il vostro migliore amico”.

...«Non è un segreto per nessuno cosa pensa Prodi del prossimo presidente di turno dell’Ue. Lo considera pericoloso. Durante la preparazione della presidenza italiana, prendendo parte alla guerra in Iraq, andando in Medio Oriente quasi in missione per conto di Bush, Berlusconi si è allontanato in maniera eclatante dalle decisioni dell’Unione europea, in un modo che non ha paralleli nei 50 della storia della comunità europea. I colleghi di Berlusconi non sono così entusiasti dei prossimi sei mesi della sua presidenza. Chirac considera il premier italiano un “pallone gonfiato”. Secondo lui, l’Italiano ha dei problemi con il proprio ego. Tant’è che da quando Berlusconi è al governo le relazioni tra Francia e Italia, sempre serene, sono diventate di colpo più fredde. A Berlino invece si guarda all’Italia come un paese con delle inclinazioni anti-europee. Ai diplomatici tedeschi, rimasti anonimi, si sente dire che in questo momento “non è tanto semplice avere a che fare con gli italiani”. Molto meglio è visto Berlusconi invece a Londra». «Ciò che di Berlusconi irrita Bruxelles non è il fatto che lui difenda a spada tratta gli interessi italiani accorpando cose che non hanno a che fare l’una con l’altra, minacciando poi il veto. Quanto soprattutto il fatto che lui costringa i capi di Stato e di Governo, ad un vertice peraltro sull’Iraq, di parlare delle quote latte e inscenare uno show quando l’olandese Balkanende cerca di difendere gli interessi dei propri contadini: tutto ciò fa venire dei dubbi se Berlusconi sia davvero in grado di tenere una presidenza imparziale».

MILANO - E’ durato tanto il processo sulla presunta compravendita delle sentenze Imi-Sir e Lodo Mondadori. Sicuramente troppo. Ma i tre anni trascorsi tra la prima udienza e la sentenza sono stati rosicchiati da interi mesi di sospensione imposti da impedimenti degli imputati e nuove leggi varate dal Parlamento. I giudici del tribunale di Milano se ne rammaricano, perché un dibattimento così lungo contrasta con la «ragionevole durata» prevista dalla Costituzione. E però, aggiungono, i tempi morti sono serviti a studiare fin nelle virgole le migliaia di documenti portati da accusa e difesa, «fino all’ultima ora dell’ultimo giorno». Giungendo al risultato che quella compravendita di sentenze non è più presunta, bensì «documentalmente provata». Per i giudici «si può concludere che sia stato un bene» poter usufruire dei rinvii, mentre per gli imputati sembra una sorta di contrappasso: se pensavano che tirarla per le lunghe li avrebbe aiutati, ora si scoprono incastrati da «prove» che la Procura non aveva visto o ben valutato, e che il tribunale ha avuto tempo e modo di scovare tra montagne di carte.

Arrivando a stabilire che due magistrati romani e un gruppo di «avvocati d’affari» di cui fa parte il deputato di Forza Italia ed ex ministro Cesare Previti sono stati protagonisti della «più grande corruzione nella storia dell’Italia repubblicana», simbolo del «degrado della Giustizia (la maiuscola è degli estensori della sentenza, ndr) che da cieca fu trasformata in "giustizia ad uso privato"». Giacché è dimostrato, secondo il tribunale, che un giudice ha venduto le cause Imi-Sir e lodo Mondadori «alla parte Sir di Nino Rovelli e a quella Fininvest di Silvio Berlusconi, dietro pagamento di denaro».

I motivi di una simile certezza sono racchiusi nelle 536 pagine della sentenza. Ma prima di esporre le «prove» raccolte in tre anni, a cominciare dalle bozze preparatorie dei provvedimenti giudiziari sull’Imi-Sir trovate negli studi degli avvocati, i giudici hanno voluto inserire una premessa che suona come uno scatto d’orgoglio in difesa della toga che indossano. «Questo Tribunale - scrivono a pagina 2 - è stato oggetto delle "critiche" più aspre e delle accuse più gravi, dentro e soprattutto fuori dall’aula; fino a quella più infamante per un giudice, di essere non al servizio della legge ma al soldo di una parte politica. Accuse che mai un organo giudicante ha dovuto sopportare "in corso d’opera"». Per tre anni il presidente Paolo Carfì e i giudici Enrico Consolandi e Luisa Balzarotti non hanno replicato a invettive e sospetti. Tacere era un «assoluto dovere», spiegano oggi, perché «per un Magistrato (anche qui la maiuscola è degli autori, ndr) la sede istituzionale ove rispondere a "critiche" e accuse è la motivazione che solo, condivisa o meno che sia, può dar conto dell’onorabilità di un Tribunale della Repubblica». Come dire che la replica a tutte le grida di illegalità e parzialità sta nel frutto del lavoro che è ora a disposizione di chiunque voglia guardarlo e giudicarlo. Con l’aggiunta che il tribunale resta «aperto alle più serie critiche che si vorranno muovere», laddove il «serie» sembra escludere i prevedibili e generici attacchi sul «teorema politico» che già ieri sono cominciati a piovere sulla sentenza. Da alcuni imputati e non solo, per le evidenti ripercussioni di un processo che vede alla sbarra un ex ministro e dal quale l’attuale presidente del Consiglio è uscito prima del dibattimento grazie alla concessione delle «attenuanti» e alla prescrizione.

Nel ripercorrere le vicende della sentenza Imi-Sir che diede ragione a Rovelli nella controversia con lo Stato, il tribunale ritiene di aver accertato che non solo un verdetto fu comprato da Rovelli stesso tramite gli avvocati di cui s’è servito (Previti, Pacifico e Acampora) e venduto dal giudice Metta, ma che pure passaggi intermedi come la consulenza d’ufficio sul valore della Sir sono sospetti di «aggiustamenti». Nuove indagini potranno scaturire da questo e altri particolari, a conferma del motivo per cui la Procura ha tenuto aperto l’ormai famoso fascicolo 9520/95: attendere che dal dibattimento emergessero ulteriori spunti investigativi. E se il dibattimento è durato tre anni, come hanno sottolineato i giudici, le responsabilità vanno cercate altrove.

Anche nella disputa sul lodo Mondadori - dov’è nuovamente coinvolto il giudice Metta, il quale «si apprestava a relazionare quando ancora non aveva finito di depositare nei suoi conti correnti il prezzo della compravendita della causa Imi-Rovelli» - il tribunale ritiene di aver ricostruito «un quadro che definire gravemente indiziante è dire poco». Arrivando alla conclusione che tre miliardi di lire versati nel ’91 su un conto estero di Previti altro non siano che la «"provvista" pagata dalla Fininvest di Silvio Berlusconi per regolare rapporti di natura illecita (corruzione del giudice Metta) strettamente connessi alla causa Mondadori».

Dal conto di Previti sono poi partiti i soldi per i magistrati corrotti, sostiene il tribunale che ha analizzato tutte le tesi difensive dell’ex ministro ritenendole infondate una a una. Attirandosi ulteriori attacchi (in parte già giunti a destinazione) dall’imputato, dai suoi difensori e dai suoi colleghi di partito. Ma all’accusato più noto, replicano i giudici, è mancato l’aiuto più importante: «Forse un contributo di chiarezza sui rapporti anche economici tra l’imputato Previti e il gruppo Fininvest poteva essere dato dal "dominus" del gruppo, Silvio Berlusconi. Ma il presidente del Consiglio, dopo aver concordato con il tribunale, tramite i suoi avocati, la data dell’esame previsto a palazzo Chigi, comunicava il sopravvenire di un impedimento per quella data, e contestualmente manifestava la volontà di avvalersi del diritto di non rispondere».

NELLA sua deriva ogni giorno più tragica e inarrestabile, Silvio Berlusconi ieri è andato a sbattere contro lo scoglio dell’Europa, trascinato dalla sua mancanza di cultura istituzionale, da quel dilettantismo che tanto piace in Italia, con i muscoli che sostituiscono la competenza, dall’incapacità politica e più ancora morale di rispondere alle accuse che riguardano il clamoroso conflitto d’interessi di cui è insieme prigioniero e beneficiario. È come se tutto il castello posticcio costruito in questi anni attorno a una leadership fortissima sul piano elettorale, e fragilissima sul piano politico, fosse crollato di colpo, appena investito dal vento dell’opinione pubblica europea, fuori dalla campana di vetro domestica, dentro la quale il dominio proprietario sui media e su pezzi interi di società politica consente alla realtà virtuale del berlusconismo di galoppare all’apparenza indisturbata. Il risultato è drammatico per il presidente del Consiglio, squalificato dalle sue stesse parole nella solenne seduta del Parlamento europeo, che non aveva mai udito nulla di simile: tanto che si può considerare la data di ieri come l’inizio ufficiale del declino del Cavaliere.

Ma insieme, il risultato è amarissimo per il nostro Paese, che paga un prezzo ingiusto e sproporzionato agli errori e alla natura di Berlusconi, precipitando nel girone infernale dei Paesi europei sotto osservazione, per colpa di una leadership che costituisce un’eccezione assoluta nell’intero continente.

Il semestre di guida italiana della Ue rappresentava un’occasione irripetibile per l’Italia e per il suo premier. Riflettiamoci un momento.

Paese fondatore dell’Unione, schierato per tutto il dopoguerra a fianco dell’America ma solo e sempre passando attraverso la costruzione continua dell’Europa, unendo De Gasperi e Spinelli, l’Italia aveva l’opportunità di tentare in prima persona una ricucitura tra europei e americani, dopo lo strappo della guerra. Poteva farlo per i buoni rapporti che Berlusconi ha costruito con Bush da un lato, e per il suo ruolo storico europeo dall’altro.

Di questa grande operazione avrebbe potuto giovarsi - insieme con tutti i soggetti politici del nostro continente - in particolare il presidente del Consiglio, che aveva un bisogno disperato di legittimazione internazionale, dopo la condotta erratica della sua politica estera, le improvvisazioni ai vertici, il velleitarismo da piccola superpotenza mediatrice e arruffona, la mancanza di uno standard da statista riconosciuto.

In più, una forte, convinta e trasparente legittimazione in Europa avrebbe aiutato Berlusconi anche in Italia, dove la sua politica e il suo programma dopo due anni arrancano visibilmente. Ecco perché il presidente Ciampi aveva sottolineato più volte l’importanza di questo appuntamento casuale (perché fissato dalla turnazione semestrale) ma cruciale. Conosceva il rischio, che da oggi potremmo a ragione chiamare «fattore B», ma vedeva anche l’opportunità: fissare finalmente una netta linea d’azione europeista per l’Italia, capace di confermare il successo ottenuto con l’aggancio dell’euro in condizioni difficilissime, e di cancellare quell’antico pregiudizio anti-italiano che riaffiora implacabile in ogni momento di debolezza della nostra immagine e della nostra politica.

Il semestre italiano ha invece spazzato via in una sola giornata - la prima - tutte le straordinarie opportunità che l’Europa ci offriva, ed è naufragato all’istante in una vera e propria crisi internazionale, con almeno tre fronti aperti: il primo è la «grave offesa» da parte di Berlusconi all’Europarlamento, come ha dovuto denunciare ieri sera il presidente Cox. Il secondo è la frattura con la Germania per l’incredibile insulto (Kapò) lanciato dal premier italiano a un deputato socialdemocratico tedesco che gli aveva rivolto critiche politiche, con il governo di Berlino che in una nota ufficiale ha giudicato «inaccettabile» il comportamento del nostro presidente del Consiglio. Il terzo è la polemica con il gruppo europeo dei socialisti e più in generale con le sinistre che contestavano l’incredibile dichiarazione del Cavaliere secondo cui il conflitto d’interessi non esiste «perché le mie televisioni mi criticano». C’è poi un quarto fronte, quello degli alleati italiani di Berlusconi, e da ieri è il fronte della disperazione. Bastava vedere l’incredulità sui volti dei ministri Frattini e Buttiglione, seduti sulle spine alle spalle del Cavaliere, mentre lui spiegava che «sono solo tre» le leggi da lui stesso varate in suo favore. E soprattutto, bastava vedere la disperazione di Gianfranco Fini - che sa da dove viene, lui e il suo partito - mentre Berlusconi attaccava il tedesco Schultz offrendogli una parte da kapò in un documentario che le televisioni stanno preparando «sui campi di concentramento nazisti». Questa volta, Fini racconterà al suo partito in subbuglio ciò che gli è toccato ascoltare e vedere a Strasburgo. E da ieri, l’uscita di An (o almeno del suo uomo simbolo, il vicepresidente) dal governo, è qualcosa di più di una minaccia.

Verrebbe da chiedersi: com’è potuto accadere tutto questo, dove nasce il cupio dissolvi del Cavaliere, perché nessuno si è preoccupato di gestire, occultare, educare gli spiriti animali che dominano il presidente del Consiglio in questa fase? Com’è possibile che in quegli staff e tra quei consiglieri nessuno abbia avvertito il premier della dogana politica e morale che corre tra l’Italia berlusconiana di oggi e l’Europa? Che nessuno abbia capito che la mistificazione e la dissimulazione propagandistica che sono la regola nell’Italia delle sei televisioni del re, non hanno corso in Europa, dove esiste una libera stampa, dove valgono regole precise e comuni, dove c’è un’opinione pubblica non ancora mitridatizzata da opinion leader compiacenti? L’Europa, oggi, è il Paese dei parametri di Maastricht, delle regole e dei comportamenti, più che di una politica e di una politica estera: come si può pensare di farla franca con il conflitto d’interessi che configura un improprio accumulo di «potere economico, mediatico e politico» (come ha detto ieri il socialista Baron Crespo) e sfocia addirittura nell’abuso delle leggi su misura confezionate dall’imputato-presidente per sfuggire al suo giudice? Eppure, anche se avevamo avvertito che l’Europa è il tallone d’Achille del Cavaliere, che la platea europea è diversa dal teatrino addomesticato italiano, che i giornali stranieri giudicano l’anomalia berlusconiana per quello che è, a differenza dei giornali italiani, non ci aspettavamo che lo scontro avvenisse così presto, con questo fragore, e con queste dimensioni.

Berlusconi è andato incontro al più clamoroso incidente di politica estera della storia repubblicana come se dovesse compiere il suo destino, citando Erasmo da Rotterdam, attaccando ancora giudici e comunisti, come in un’ossessione devastante, quasi non sapesse più distinguere la sua stessa finzione dalla realtà. La scena era politicamente crudele: il Capo di un governo europeo, nel momento solenne in cui assumeva la sovranità delegata della guida dell’Unione, riusciva a mettersi contro il Parlamento di Strasburgo, e davanti alle critiche reagiva con toni da gazzarra come in una riunione notturna di partito dopo che si sono perse le elezioni, con modi, linguaggio, immagini del tutto improprie per la seduta e per l’occasione.

L’impotenza dei suoi alleati al fianco è la controprova di una leadership assoluta, sciolta da ogni vincolo, anche quello del buon senso politico. Una leadership che è puro istinto e pura forza (gli "attributi" di cui ha parlato ieri la Lega plaudente) nella convinzione che il berlusconismo allo stato puro, se può dispiegarsi liberamente, sia sempre vincente.

L’incidente non nasce dunque dal caso, ma è figlio di una cultura, che determina una politica. È la cultura, oggi vincente in casa Berlusconi, dei "toni forti", con l’intimidazione degli avversari, gli insulti, la spallata, un misto di dilettantismo e di forza, nell’illusione rivoluzionaria di vivere ogni momento come passaggio di una sfida epocale, fuori dalla mediocrità della politica, ma dentro l’epica populista di un’avventura mitologica, con il Cavaliere invincibile alfiere della libertà in un Paese dominato da comunisti e agenti del male che congiurano contro il bene supremo, coincidente col dominio berlusconiano. C’è, in questo paesaggio politico fittizio, la rinuncia al vero compito politico supremo del Cavaliere, la missione necessaria e tuttavia già fallita, dopo la vittoria elettorale: fondere le diverse anime errabonde delle diverse destre italiane (postfascisti, leghisti, forzisti, ex democristiani) in una moderna cultura conservatrice europea per un Paese che non l’ha mai avuta.

No. Ormai è chiaro che il berlusconismo fa vincere elettoralmente la destra, ma poi la tiene prigioniera di una sub-cultura muscolare e gridata, anti-istituzionale, miracolistica, titanica e populista: una cultura che è fuori dall’Europa, e trascina tutta l’Italia in questa triste posizione pre-politica, marginale, autarchica e solitaria. Una posizione tragica per un Paese come l’Italia, trascinata dal Cavaliere nel suo stesso declino. Un declino che si annuncia terribile, se il senso dello Stato e delle istituzioni è quello mostrato ieri a Strasburgo.

Berlusconi, lite a Strasburgo

La cronaca del primo scontro tra B. e l’Europa, firmata da Gianluca Luzi per la del 3 luglio 2003

STRASBURGO - «Signor Schulz, so che in Italia c’è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò. Lei è perfetto». Parlamento europeo, mezzogiorno. Berlusconi replica agli interventi degli europarlamentari e al capogruppo socialista tedesco Martin Schulz, che nel suo intervento lo aveva aspramente criticato per le vicende giudiziarie e per la politica sull’immigrazione, Berlusconi risponde con una offesa che è apparsa così intollerabile da costringere il presidente del Parlamento europeo Cox a intervenire e chiedere di cancellare la frase dal verbale della seduta.

Inutilmente, per tutto il giorno, e anche nella conferenza stampa che ha seguito lo scontro in aula, Berlusconi ha cercato di minimizzare l’incidente derubricando l’offesa a «una battuta ironica in risposta a una provocazione che offende me e tutti gli italiani che mi hanno votato». Non c’è stato niente da fare: il capo del governo non ha presentato ufficialmente le sue scuse, «non ci penso nemmeno. Mi scuso con chi non ha capito che era una battuta, anche con il popolo tedesco, ma non con chi mi ha provocato», e ha insistito nella sua tesi: «Il Signor Schulz con il suo gesticolare mi ha ricordato l’attore di una serie tv che faceva quella parte. Era solo una battuta ironica». Anzi, per spiegare che voleva scherzare, Berlusconi ha anche spiegato agli esterefatti parlamentari popolari che «in Italia tengono banco da decenni storielle sull’Olocausto. Gli italiani sanno scherzare sulle tragedie per superarle e forse non abbiamo la sensibilità che avete voi in Germania».

Comincia così, in modo certamente insolito per gli standard dell’Unione Europea, il semestre di presidenza italiana. E quasi a confermare le perplessità della stampa di mezzo mondo, l’esordio di Berlusconi è andato al di là della più sfrenata e pessimistica previsione. Ha incassato - è vero - le congratulazioni arrivate molto provvidenzialmente dal presidente americano Bush, ma le espressioni del vicepremier Fini e del ministro per i rapporti europei Buttiglione fotografavano con spietata sincerità l’imbarazzo per l’incidente. E pensare che alle nove passate da pochi minuti Berlusconi aveva cominciato la sua presidenza europea con un discorso dai toni quasi «ciampiani». Senza asprezze, ma anzi con una grande attenzione per la «mediazione» allo scopo di varare la Costituzione europea.

Poi, dopo un paio d’ore di interventi dei rappresentanti dei vari gruppi, la tempesta. Se in apertura di seduta Berlusconi aveva letto un testo scritto, nella replica ha parlato a braccio. E i segnali che stava per cambiare tono si sono avvertiti subito. Ancora una volta la giustizia è stato il drappo rosso di fronte al quale ha caricato a testa bassa. Con una importante ammissione, per la prima volta. Rispondendo alle critiche sulle leggi ad personam approvate in Italia, ha detto: «Quei tre disegni di legge sono stati la risposta, con gli strumenti della democrazia, un voto parlamentare, a chi invece profitta del suo ruolo di funzionario della giustizia per attaccare con la giustizia dei nemici politici». Comunque «è stato fatto soltanto in tre casi».

Cresce la contestazione, ma Berlusconi insiste: «Probabilmente gli amici e colleghi socialdemocratici dovrebbero ampliare le loro frequentazioni al di là dei colleghi italiani che trovano qui in Parlamento e dovrebbero ampliare le loro letture al di là dei giornali di estrema sinistra che evidentemente hanno formato i loro convincimenti». Una replica anche agli ecologisti: «Forse i signori verdi non sanno che l’hobby principale del presidente Berlusconi è quello dei fiori, del verde, dei giardini, dei parchi. E’ praticamente l’unico hobby dopo che il calcio si è allontanato da me. E la nostra politica va nella direzione di una maggiore tutela dell’ambiente».

In molti interventi era stato contestato a Berlusconi il conflitto di interessi. «Forse - ha risposto il presidente del consiglio - non avete la conoscenza del fatto che in Italia i giornali ma soprattutto le televisioni che ancora appartengono al mio gruppo e alla mia famiglia sono tra i nostri più decisi critici». Risate dai settori di sinistra del Parlamento. «Evidentemente vi manca il sole dell’Italia e non avete mai acceso la televisione italiana. Dovreste sapere che ogni giornalista ha come massima sua preoccupazione quella di apparire indipendente nei confronti dei suoi colleghi e questa indipendenza lo porta ad essere ogni giorno critico nei confronti di colui che considera il padrone».

A questo punto gli europarlamentari socialisti cominciano a battere rumorosamente le mani sui banchi: «Se questa è la forma di democrazia che volete usare per chiudere le parole del presidente del consiglio europeo - scandisce Berlusconi alzando la voce - vi posso dire che dovreste venire come turisti in Italia, ma che qui sembrate turisti della democrazia, dei turisti della democrazia. Sono stato capo dell’opposizione sei anni in Italia, non mi fanno paura questi interventi, ho l’abitudine ad essere contraddetto». Ormai il grande emiciclo è una bolgia, ma Berlusconi carica ancora: «Il signor Schulz mi ha offeso sul piano personale, gesticolando e con un tono di voce inammissibile in un parlamento come questo. Io ho detto con ironia quello che ho detto. Se non siete in grado di capire l’ironia mi dispiace, ma non ritiro, non ritiro quello che ho detto se il signor Schulz non ritira le offese personali che mi ha rivolto. Io l’ho detto con ironia lui l’ha fatto con cattiveria».

Si chiude il primo giorno di Berlusconi presidente europeo: «Nella mia storia ci sono solo successi e solo cose tese a fini buoni. Ai nostri avversari vorrei dire con un sorriso che non devono fare una tragedia di questa nostra presidenza: sei mesi passano molto in fretta. Stamattina abbiamo cominciato a divertirci».

Ecco i punti salienti delle motivazioni della sentenza

MILANO - "Una gigantesca opera di corruzione" che dagli imputati è stata "eletta a vero e proprio sistema di vita". "Il più grande caso di corruzione nella storia, non solo d'Italia", "un degrado della

giustizia che da cieca fu trasformata in giustizia ad uso privato". Parole durissime quelle che i giudici della quarta sezione penale del tribunale di Milano usano nelle motivazioni della sentenza con la quale, lo scorso 29 aprile, hanno condannato sei dei sette imputati, fra i quali Cesare Previti, nel processo Lodo Mondadori - Imi-Sir.

Vediamo i passaggi salienti delle oltre 534 pagine redatte dal tribunale presieduto da Paolo Carfì per spiegare le condanne inflitte.

Imi-Sir: gigantesca opera di corruzione. Lo studio dell'enorme materiale processuale, spiegano i giudici, ha permesso di arrivare alla conclusione che "la causa civile Imi-Sir fu tutta frutto di una gigantesca opera di corruzione".

Precise prove documentaliv. Se la sentenza è arrivata dopo due anni, 11 mesi e 88 udienze è perché al Tribunale "è stato 'concesso' molto tempo per studiare in modo capillare e approfondito tutto l'enorme materiale processuale". Il problema del "ritardo" non è stato dunque, come hanno sostenuto i legali di Previti, che il processo si è basato "solamente su un magmatico, indistinto e insufficiente quadro indiziario" ma su "precise prove documentali".

Analogie con il Lodo-Mondadori. Sempre lo studio e la comparazione degli atti ha permesso "di constatare, pure qui con un quadro che definire gravemente indiziario è dire poco, che anche la coeva causa Mondadori presenta impressionanti analogie (per l'iter processuale e la presenza sempre degli stessi protagonisti) con ciò che si è appurato rispetto alla 'gemella' controversia Imi-Sir".

La più grande corruzione nella storia dell'Italia Repubblicana. Il quadro che si delinea, per il collegio, è "quello della "più grande corruzionè nella storia dell'Italia Repubblicana e forse anche di più, se si dovesse seguire l'opinione di uno degli imputati di questo processo (Cesare Previti, n.d.r).

Imparzialità della giurisdizione. Per i giudici "certo è che si tratta di un caso di corruzione devastante, atteso che tocca uno dei gangli vitali di uno stato democratico: quello della imparzialità della giurisdizione". "Questo Tribunale - scrivono - è stato oggetto, negli ultimi due anni in particolare, delle 'critiche' più aspre e delle accuse più gravi - perché di questo si è trattato - dentro e, soprattutto, fuori dall'aula, fino a quella più infamante per un giudice: quella non poche volta propalata, di essere non al 'servizio della legge' ma al soldo di una parte politica".

Giustizia a uso privatoI. Il dibattimento Imi-Sir/Lodo, "principalmente è - ed è sempre stato - un processo ad alcuni magistrati della corte d'appello di Roma, al loro modo di concepire la funzione cui sono stati chiamati, ai loro inconfessabili rapporti con un gruppo di "avvocati d'affari e a ciò che ne è conseguito, fino al punto di poter parlare - in questo caso sì - di un degrado della giustizia che da cieca fu trasformata in "giustizia ad uso privato".

Corruzione come stile di vita. "Appare assolutamente evidente" come gli imputati Vittorio Metta, Renato Squillante, Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora "avessero eletto la corruzione in atti giudiziari a vero e proprio sistema di vita, a metodo attraverso il quale conseguire nel modo più facile, ma anche tra i più sordidi, quella ricchezza materiale evidentemente mai sufficiente, ponendo la loro professioni, le loro capacità e le loro intelligenze al servizio ora di questo ora di quello tra i 'clienti' disposti a pagare qualsiasi cifra pur di raggiungere il loro scopo".

Autodifesa dall'accusa di "moralismo". Per i giudici milanesi la condotta degli imputati non lascia dubbi. E aggiungono: "Sarà anche 'moralismo', come sicuramente qualcuno obietterà, ma ritiene questo collegio che nessuna scusante possa essere addotta da imputati a cui nessuno e nulla, nè le condizioni famigliari, nè quelle sociali, nè quelle economiche, ha imposto di vendere in tal modo, la loro imparzialità, correttezza e professionalita".

La versione di Previti: inattendibile. Sulla posizione del parlamentare di Forza Italia "pesa a suo sfavore l'iniziale menzogna relativa alla destinazione dell'ingente somma ricevuta nel 1994, a causa finita, dagli eredi Rovelli, inserita in un quadro di generale presa di distanze da tutti i soggetti in quel momento protagonisti della indagine. Una menzogna - scrivono i giudici - che pesa ancora di più quando si vanno a valutare le giustificazioni addotte dall'imputato allorquando, nel corso dell'esame dibattimentale, ha rappresentato uan diversa verità dei fatti, sempre e comunque lontana dall'accusa di corruzione".

Familiari dell'ingegner Rovelli. Il trattamento più favorevole per i familiari di Nino Rovelli è determinato "non tanto per lo stato di incensuratezza, comune a tutti gli imputati, ma più che altro in considerazione di alcune "particolarità della loro condotta criminosa". La vedova e il figlio di Nino Rovelli, per il collegio, hanno agito infatti "in un certo senso 'iure ereditario', trovandosi inseriti in un "iter criminoso già in stato di avanzata realizzazione". "Certo, nessuno dei due - è scritto -, e in particolare Felice Rovelli, sembra aver fatto troppa 'fatica' a trovare un accordo con tre intermediari". "Tutto ciò - a detta dei giudici - nella più assoluta indifferenza dei danni enormi causati non solo alla "giustizia", ma all'intera tenuta morale di una comunità".

Pessimo comportamento processuale degli imputati. A questo va aggiunto "un comportamento processuale a dir poco pessimo, volto a negare qualsiasi circostanza, anche la più evidente, così dimostrando una assoluta mancanza di un sia pur minimo 'ripensamento' della loro condotta di vita". Comportamento che "si è concretizzato in una serie di tentativi volti esclusivamente ad impedire lo svolgimento del processo, strumentalmente utilizzando gli istituti previsti dal codice: una serie infinita di ricusazioni per i più diversi motivi fin sulla soglia della camera di consiglio, la revoca del mandato ai propri difensori nel novembre 2001 in risposta alle ordinanze di questo Tribunale sulle rogatorie e sulle problematiche poste dalla sentenza 225/2001 della Corte Costituzionale, manovre dilatorie di ogni genere".

"Reati gravissimi - concludono i giudici milanesi -, anche e soprattutto da un punto di vista soggettivo; condotta processuale pessima da qualsiasi parte la si osservi; si può ribaltare agli istanti la domanda: su quali basi giuridiche potrebbero essere concesse le invocate attenuanti generiche?".

D’AvanzoLe domande al Cavaliere

MOSSA incauta lasciar troppo tempo a giudici non impigriti o burocratici. Previti si difende dal processo più che nel processo. Pensa di guadagnare tempo, di strozzare il dibattimento e cancellare ogni dubbio con la prescrizione. Si sta invece cacciando in un pasticcio peggiore perché i giudici, come talpe, sono al lavoro e nei tempi morti di due istanze di astensione, sette dichiarazioni di ricusazione e una richiesta di rimessione (non si contano i "legittimi impedimenti" di imputati e avvocati) "scavano" nei cento faldoni del processo. Milioni di carte e documenti. Riascoltano e incrociano testimonianze. Verificano date. Controllano versamenti.

Accade così che le motivazioni della sentenza di condanna del processo "toghe sporche" aggiungano al "quadro indiziario" messo insieme dall'accusa, "già di per sé concordante, preciso e univoco", un paio di prove documentali che convincono il tribunale di Milano: "La causa civile Imi-Sir fu il frutto di una gigantesca opera di corruzione che si è spinta a concordare, tra il giudice Metta e gli "avvocati occulti di Nino Rovelli" (Previti, Acampora e Pacifico), la preventiva decisione e la motivazione della sentenza d'appello che poi diverrà definitiva". E ancora di "constatare che anche la coeva causa Mondadori presenta impressionanti analogie con ciò che si è appurato rispetto alla "gemella" controversia Imi-Sir". Non solo indizi, come si affannano a ripetere senza molta convinzione i corifei del Capo, ma documenti. "Prove regine", le chiamerebbe Previti.

I giudici scoprono nelle carte sequestrate negli studi di Acampora e Pacifico la "prova" della corruzione. Minute di perizie volute dal Tribunale concordate con gli avvocati di parte e poi "travasate" in Tribunale. Bozze di sentenze dei giudici preparate prima della sentenza con la collaborazione degli avvocati di una delle parti in causa. ("Una realtà che questo Tribunale fatica a non definire sconvolgente").

Sono "prove documentali" che giustificano le conclusioni del Tribunale: Vittorio Metta (ha giudicato sia l'Imi-Sir che il Lodo Mondadori) "si è fatto "aiutare" da alcuni avvocati nella stesura della sentenza di rinvio della causa Imi-Sir per dar ragione alla parte Rovelli dietro compenso in denaro ... Se la motivazione Imi-Sir è stata stesa "in collaborazione" con studi legali esterni, quella del Lodo risulterà quanto meno dattiloscritta in "ambito non istituzionale" e, con ogni probabilità, anche redatta prima della stessa Camera di Consiglio".

Per il Tribunale è provato ("assolutamente provato") che "il giudice Vittorio Metta, fosse un magistrato corrotto, ormai a " libro paga" (come dimostra l'afflusso continuo e costante di denaro nella sua disponibilità); un giudice non "occasionalmente" ma "stabilmente" organico a quella lobby di magistrati e avvocati "gestita" da Cesare Previti con la stretta collaborazione di Pacifico e (almeno per quanto riguarda questi due processi) Acampora".

L'affresco disegnato dal migliaio di pagine della motivazione milanese "delinea il quadro della "più grande corruzione" nella storia dell'Italia repubblicana". E' un caso di corruzione devastante, ragionano i giudici, perché deforma uno dei gangli vitali di un moderno stato democratico: quello della imparzialità della giurisdizione. "Perché, indipendentemente da come è stato "presentato" al di fuori dell'aula, questo processo solo "mediaticamente" è stato definito come "processo Previti"; in realtà, principalmente è ? ed è sempre stato ? un processo ad alcuni magistrati della Corte di Appello di Roma, al loro modo di concepire la funzione cui sono stati chiamati, ai loro inconfessabili rapporti con un gruppo di "avvocati d'affari" e a ciò che ne è conseguito, fino al punto di poter parlare ? in questo caso sì - di un degrado della Giustizia che da cieca fu trasformata in "giustizia ad uso privato"".

Ora soltanto l'ipocrisia (o una colpevole acquiescenza) potrebbe impedire di porre qualche questione a un presidente del Consiglio che qualche fortuna ha lucrato da quell'uso privato della giustizia. Cesare Previti è stato il braccio destro dell'imprenditore Silvio Berlusconi. E' stato ed è sodale di Silvio Berlusconi politico, il più stretto e ascoltato tra i collaboratori dai tempi dell'acquisto della villa di Arcore dai marchesi Casati fino alla nascita di Forza Italia e alla vittoria elettorale della Casa delle Libertà. Cesare Previti, nel tempo, è stato in possesso, come dice (come egli stesso ha detto in aula durante il processo, 28 settembre 2002), "di un mandato professionale molto ampio per rappresentare la persona fisica come il gruppo di Silvio Berlusconi". Ha detto Previti: "Io rappresentavo il dominus per le questioni legali, sceglievo gli avvocati, esaminavo nei dettagli tutti gli argomenti che avremmo usato e anche le persone e le operazioni da organizzare nelle varie situazioni".

Questo ruolo era occulto, segreto. Non c'è (né Previti lo ha mostrato) un solo documento processuale che porta la sua firma: un atto di citazione, una comparsa di risposta, una memoria conclusiva, un parere giuridico, un atto di transazione; come non esiste neppure (né è stata mostrata) una fattura, una ricevuta informale, un estratto dei libri contabili di Fininvest, un qualsivoglia documento che attesti la causale dei pagamenti effettuati dal Gruppo a favore di Cesare Previti. Bene. Né la Fininvest né Previti amano il fisco, e questo si sa. Ma quel ruolo di dominus che Previti rivendica, i suoi metodi, le scelte delle "operazioni" era, anche se in controluce, a conoscenza di Silvio Berlusconi?

Le conclusioni di questo processo che non si doveva fare, che il governo e il Parlamento hanno in ogni modo provato a soffocare, mostrano il lavoro di Previti nel momento più saliente e autentico. Altro che comparse di risposta o atti di transazione. Il lavoro di Previti, dice la sentenza milanese, era il lavoro sporco del corruttore. Di quel lavoro sporco si è avvantaggiato anche Silvio Berlusconi mettendo illecitamente le mani sulla più grande casa editrice del Paese costruendo così il più grande gruppo italiano di media. Qualcosa il presidente del Consiglio dovrà pur dire perché purtroppo qualcosa, questa sentenza, dice di lui.

Dice, innanzittuto, che non tutti i suoi successi luccicano. A coronamento del suo impero ? se leggiamo le pagine del tribunale di Milano ? c'è la corruzione, il maneggio, il baratto. Non c'è scritto da nessuna parte che Berlusconi sapesse dei metodi opachi di Cesare Previti. E' lecito pensare che Berlusconi non poteva immaginare nemmeno che quando "Cesarone" gli diceva: "Silvio, ci penso io!", Previti aveva già in mente quale scorciatoia imboccare, qualche giudice muovere, qualche collegio comporre, qualche toga infine corrompere. Certo, ha ragione il tribunale di Milano, "un contributo di chiarezza alla problematica dei rapporti, anche economici, fra l'imputato Previti e il Gruppo Fininvest, poteva essere dato da Silvio Berlusconi, atteso che da un conto non ufficiale del suo gruppo, è stata bonificata a un suo strettissimo e "storico" collaboratore (sono concetti espressi dallo stesso Previti) la comunque considerevole somma di 3 miliardi di lire in dollari, cui non corrisponde alcuna regolare fattura. Ma il presidente del Consiglio, dopo aver concordato con il Tribunale la data del suo esame (previsto per il 15-7-2002 a Palazzo Chigi), comunicava il sopravvenire di un impedimento per quella data e contestualmente manifestava la volontà di avvalersi del diritto di non rispondere".

Berlusconi può, adesso che le ragioni della condanna di Previti sono squadernate, "avvalersi del diritto di non rispondere" come sempre ha fatto dinanzi ai giudici, all'opinione pubblica, ai media? Al di là di quel che ieri sapeva o non sapeva, oggi dinanzi agli occhi di Berlusconi c'è la trama che per decenni ha tessuto il suo Cesare. Il capo del governo non può far finta di non vedere. Non può continuare a parlare di "complotto" perché i fatti sono i fatti, le parole parole, i documenti documenti e fatti, parole e documenti dicono che Previti era il regista di una squadra di "barattieri di sentenze" che ha favorito anche gli affari del capo del governo. Che cosa pensa Berlusconi del suo amico e dei vantaggi che, grazie a lui, ha ottenuto? Anche se fino a sentenza definitiva a ogni imputato va garantita la presunzione di non colpevolezza, non crede Berlusconi che sia più saggio prendere subito le distanze dal suo "compagno di strada"? Non conviene attendere in maniera più neutra, più distaccata, meno "politica" gli ulteriori gradi di giudizio? Non è utile per sé, e per il Paese che governa, liberarsi da quel vincolo amicale e professionale che rischia di trascinarlo a fondo?

Non avverrà nulla di ciò, come è ovvio. Berlusconi accetterà di condividere con il suo braccio destro il calvario che, dopo la legge che lo rende immune, sarà per lui soltanto politico. E' fin d'ora chiaro però che sarà arduo e irragionevole, nei prossimi mesi, posare a "indignato" quando l'intera stampa internazionale a ogni sortita pubblica gli chiederà: signor Berlusconi, lei sapeva che Cesare Previti ha corrotto i giudici chiamati a decidere degli affari di Fininvest? E oggi che lo sa, non ha niente da dire?

Auguri, signor Berlusconi.

MAI come in questi giorni è parso visibile il confine che separa l'Italia berlusconiana dall'Europa democratica. Viviamo, noi italiani, in un mondo a parte e basta accendere la televisione per capirlo. La folle volgarità con cui Silvio Berlusconi ha inaugurato lo show semestrale ha provocato uno scandalo internazionale, regalato tonnellate di discredito all'Italia e costretto l'autore a scusarsi ufficialmente con il governo tedesco. "L'Europa è compatta nel disgusto per Berlusconi", per citare un titolo inglese. E i nostri (anzi, i suoi) telegiornali, pubblici e privati, che cosa fanno? Prima nascondono e censurano, poi minimizzano secondo il manzoniano "troncare, sopire".

Mezzibusti da sbarco e da riporto s'affannano a precisare che si è trattato appena di un "battibecco", di un "piccolo incidente". Il cittadino comune non si spiega allora perché intorno a un'inezia si muovano le cancellerie, venga convocato l'ambasciatore a Berlino, Fini e Follini prendano le distanze. Per non sbagliarsi, i servizi di Tg1, Tg2, Tg5 adottano come propri gli slogan del capo, come si faceva nei cinegiornali Luce. Lo schema è dunque "l'ironia di Berlusconi" opposta alla "cattiveria di Schulz". Che cosa c'entri l'ironia nel dare del kapò a qualcuno, Dio solo lo sa. Anzi lo sanno Berlusconi e i suoi servi. Non è del tutto chiaro neppure il criterio morale per cui fare una battuta sul conflitto d'interessi o sulle leggi ad personam rappresenterebbe un delitto contro l'umanità, indice di cattiveria "nazista", roba insomma da Norimberga. Mentre scherzare sui lager è indice di raffinato sense of humour. Lo stesso Berlusconi a mente fredda, si fa per dire, si è giustificato così: "Circolano numerose storielle sull'Olocausto. Gli italiani sanno ridere delle tragedie".

Ma in questo modo il Cavalier barzelletta offende, dopo i tedeschi, anche il nostro popolo. Non gli italiani ma certi italiani amano ridere sulle tragedie altrui. In particolare, dice il portavoce della comunità ebraica, "pochi imbecilli che evidentemente il presidente del consiglio frequenta".

Questo scandalo è l'ultimo di una lunga serie che basterebbe nell'Europa democratica a stroncare qualsiasi carriera politica. Non sarà così da noi, dov'è destinato a cadere nel vuoto della rassegnazione. Ma almeno può servire a sbarazzare il campo da un equivoco e da una leggenda che ha trovato spesso adepti anche a sinistra. Silvio Berlusconi non è affatto quel Grande Comunicatore che crede e soprattutto che riesce a far credere ai suoi avversari. Se lo fosse, non commetterebbe colossali sciocchezze come quella dell'altro giorno o l'altra, clamorosa, sullo "scontro di civiltà" con l'Islam. Berlusconi è un padrone arrogante e paternalistico, un politico ignorante e autoritario, che perde la testa ogni volta che si trova di fronte a una singola domanda o critica da parte di un uditorio giornalistico e politico sul quale non ha influenza. È insomma incapace di affrontare una delle situazioni più normali, quotidiane, di un politico democratico.

Se da noi Berlusconi passa per Grande Comunicatore è perché, molto banalmente, possiede o controlla il novanta per cento dell'informazione. In questi anni non ha mai dovuto affrontare un pubblico contraddittorio democratico. Può fare e dire quel che gli pare senza dover rispondere o chiedere scusa a nessuno perché gode dell'impunità e immunità mediatica, la più ampia, pericolosa e antidemocratica che esista nell'era dell'informazione. Bush è sotto accusa per le bugie sulla guerra, il mito di Blair demolito dalla tv pubblica. Ma nell'Italia di Berlusconi i cittadini non sanno, non devono sapere, non possono dunque giudicare. Questa è la differenza fra noi e loro, la strana legge di questo mondo a parte, la vera anomalia italiana. Ed è un dramma che gli avversari di Berlusconi non abbiano capito che sarebbe bastata una riforma liberale dell'informazione (e della Rai) per vedere svanire il portentoso fenomeno berlusconiano.

Per fortuna c'è l'Europa. Dove il re in doppiopetto appare sempre più nudo. Gli basta trovare sulla strada un giornalista libero o un socialista europeo, senza neppure poter gridare ai carabinieri "identificatelo!". E non sarà certo la ridicola legge sul conflitto d'interessi in preparazione a fornirgli un po' di decenza. Agli italiani che non scherzano sulle tragedie e sulla libertà rimane soltanto da vergognarsi per lui. Detto con ironia, sia chiaro

© 2025 Eddyburg