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Ma come? Si continua a scuotere la testa sulla crisi rovinosa dei Valori, ci si mette addirittura a piangere sulla ineluttabile scomparsa dei Valori, ci si conduole pubblicamente ad ogni passo con quanti ancora credono, ingenui, alla esistenza dei Valori, e poi, appena qualcuno pretende di affermare che il lavoro “è un valore”, che la sua giornata-simbolo - il 1° Maggio - va rispettata con qualche concessione al consumismo, al turismo, al consumerismo, si prende del “retrogrado”, anzi del “regredito” al passato, al primo Novecento, magari all’Ottocento? Non a caso non piace più nemmeno che l’Italia sia, costituzionalmente, una “repubblica fondata sul lavoro” e la si vorrebbe rifondare su altri “valori”. Non ha forse detto Silvio Berlusconi che la nostra Costituzione è nata “sovietica”? Del resto l’espressione “fondata sul lavoro” la propose alla Costituente un “comunistello di sacrestia” come Amintore Fanfani che quella denominazione si era meritato insieme a Giuseppe Dossetti e a Giorgio La Pira. Quest’ultimo, da sindaco di Firenze, organizzò una memorabile conferenza internazionale sul Mediterraneo, mentre il suo attuale successore promuove una crociata per tenere aperti tutti i negozi il 1° Maggio. Visioni un po’ distanti. Ma oggi non si è “moderni” se non si rottama qualcosa, magari anche la Festa del Lavoro (scusate le maiuscole, ma è colpa dell’età).

Il ministro del Welfare, il prode Sacconi Maurizio, che Gianni De Michelis in una perfida intervista sostenne di aver scoperto su un campo di tennis dove insegnava (Sacconi, non De Michelis), vorrebbe infatti che si parlasse di “lavori” e non più di “lavoro”. Per cui, frantumato, sminuzzato, parcellizzato in tanti pezzi e pezzetti il lavoro, resolo flessibile, modulabile, adattabile, perché mai si dovrebbe continuare a festeggiarlo? Come valore simbolico? Già, ma di che cosa? Facciamo come i giapponesi che il 1° Maggio non l’hanno (credo) mai celebrato. Mi capitò una volta di arrivare a Tokio un 1° Maggio e tutto funzionava, tutti correvano, pedalavano, producevano, lavoravano come formiche alacri e ubbidienti. Un modello. A me, a noi italiani faceva una certa raggelante impressione.

Ripensavamo alle origini della festa del lavoro, alla grande manifestazione operaia di Chicago, il 1° Maggio 1886, alla polizia che la reprime sparando sulla folla, e la colpa viene rigettata sui soliti anarchici (succede ancora) poi condannati a morte senza prove, uno trovato già cadavere in cella e altri 4 impiccati. Anche in Italia diventa presto una data-simbolo, per rivendicare altri diritti fondamentali come il suffragio universale. Alla fine dell’800 lavoratrici e lavoratori festeggiano 1° Maggio totalmente a loro spese, cioè scioperando, privandosi di un giorno di paga. A Voghera, all’epoca ricca di fabbriche tessili, gli operai costretti dai padroni al lavoro, protestano recandovisi vestiti della festa. Uno scandalo. Tanto più che intonano pure un coro verdiano dell’”Ernani” (“Si ridesti il leon di Castiglia”) al quale un vivacissimo giornalista locale, Ernesto Majocchi, ha dato nuovi versi: “Su compagni, lasciate le glebe/Questo giorno sacrato alla plebe/Della plebe sarà il redentor/Siamo tutti una sola famiglia/Operaj della penna e del braccio/Su venite correte all’abbraccio”…

Una festa gioiosa e ribelle dunque. Che Benito Mussolini subito abolisce. In Romagna, nella stessa natia Predappio, la si continua a festeggiare di nascosto con una minestra allora di lusso, i tortelli. Allora i fascisti locali vanno nelle case degli antifascisti, i fratelli Cappelli, i Cagnani, i Farneti, e se scoprono che sta bollendo una pentola coi tortelli, rovesciano tutto sul pavimento per spregio. Ma qualche bandiera rossa – mandandoli in bestia – intanto è comparsa lo stesso sulla ciminiera di una fornace, o sull’albero di un viale.

Tante altre lotte, tante altre vicende simboliche sono legate al 1° Maggio. Roba vecchia? Roba superata? Certo, per chi non vuole più ricordare chi eravamo, da dove siamo venuti, dove vogliamo dirigerci. Verso una società “bottegaia” di consumatori pilotati e indistinti. Pilotati dalle tv commerciali. Indistinti perché senza più identità. La mattina del 25 aprile Raitre, meritoriamente, ha trasmesso il più bel film di Florestano Vancini “La lunga notte del ‘43” dal racconto di Giorgio Bassani. Uscito nel 1960, indicava nell’indifferenza rispetto alla propria storia la causa prima di una società piatta, soddisfatta di sé e, quella sì, retrograda. Il finale era un vero pugno nello stomaco.

E adesso? Chi osa dire che un popolo senza memoria ha già ucciso anche la storia e quindi non ha più futuro, sia subito ridotto al silenzio e magari rottamato. Non è “moderno”, fa danno a sé (pazienza) e soprattutto agli altri, ai più giovani. I quali (per lor signori) è bene che non ricordino quella festa “ribelle” da vivere gioiosamente.

Meno nota e non sempre sotto i riflettori, la (non) politica ambientale dei vari governi Berlusconi ha provocato effetti disastrosi da molti punti di vista: la salute, la fertilità dei suoli, la sicurezza alimentare, il riscaldamento climatico, le frane e le alluvioni. Oltre a distruggere il nostro ecosistema, ha un costo economico e sociale enorme che ricade soprattutto sui soggetti più deboli.

Il problema

Il filo rosso che attraversa e orienta la politica ambientale dei governi Berlusconi dal 1994 ad oggi è efficacemente espresso dallo slogan «Padroni a casa propria», con cui Forza Italia vinse le elezioni politiche del 1994. Questo slogan, usato ripetutamente a sostegno delle scelte liberiste della politica ambientale, ne esprime bene anche le ambiguità: dichiara di voler sostenere la libertà individuale di tutti i cittadini, mentre nella sostanza serve a costruire e foraggiare l’alleanza con le forze della rendita, della speculazione, degli affari e spesso della malavita organizzata. L’ambientalismo berlusconiano si fonda sull’ideologia del «mercato senza regole», della privatizzazione di tutto quello che è «comune» o statale, dell’equiparazione tra il pubblico e il privato, della cancellazione dello Stato ridotto a impresa.

Tra il berlusconismo e l’ambiente esiste una contrapposizione insanabile e a priori: il primo si basa sul privato e sull’arricchimento individuale, sull’appropriazione individuale delle risorse naturali, sociali e culturali, sul governo della cosa pubblica da parte di un comitato d’affari; il secondo, sul pubblico e sulle regole, sui beni comuni, sul rispetto della natura e dei suoi cicli vitali, sulla giustizia ambientale oltre che su quella sociale, sulla democrazia intesa come partecipazione dei cittadini alle scelte che regolano la loro vita.

Negli anni Ottanta, e in particolare con la caduta del Muro di Berlino, l’ideologia del libero mercato ha fatto breccia anche nelle forze politiche di sinistra – in tutta la gamma delle sue articolazioni – e questo ha aperto un varco importante per il diffondersi in Italia di una destra populista, che si autodefinisce «liberale». Il rispetto delle regole e il controllo sulla loro applicazione non fanno parte del resto della tradizione italiana, come avviene in altri paesi europei; la cultura ecologista è nata in Italia molto più tardi che nel resto d’Europa e «il mattone» è un male antico, che trovava giustificazione in passato quando il paese era povero e la casa di proprietà era un fattore di sicurezza, e ne trova una anche oggi perché il costo delle abitazioni e il livello degli affitti è proibitivo per la stragrande maggioranza della popolazione rispetto al livello dei salari, molto di più di quanto non avvenga negli altri paesi europei. L’edilizia continua inoltre a essere considerata il motore o volano dello sviluppo da parte delle forze produttive – imprenditoriali e del lavoro – senza alcun serio ripensamento sui limiti intrinseci e sulla pochezza di un tale modello di sviluppo.

Nel secondo dopoguerra, anche in Italia c’è stata una stagione positiva di pianificazione territoriale e una «primavera» ambientale, che hanno prodotto strumenti e leggi di regolazione, ora nel mirino della destra al potere. Il berlusconismo, coadiuvato dalla Lega, ha cavalcato la situazione dando dignità di progetto politico a un disegno reazionario, senza trovare un’opposizione convinta da parte delle forze politiche di sinistra. Nella politica ambientale di questo governo c’è molta arroganza ma anche ignoranza sul ruolo insostituibile delle regole nella convivenza umana e dei servizi ecosistemici che la natura offre gratuitamente a tutti noi.

Gli effetti sono disastrosi da molti punti di vista: la salute, la fertilità dei suoli, la sicurezza alimentare, il riscaldamento climatico, le frane e le alluvioni, e hanno anche un notevole costo economico che pesa sulle casse dello Stato e che potrebbe essere evitato con politiche di prevenzione. Questa politica ambientale è inoltre iniqua e ingiusta, perché il suo costo ricade soprattutto sui soggetti più deboli – bambini, anziani e meno abbienti – e appare tanto più grave in un paese come l’Italia geologicamente giovane, fragile e instabile dal punto di vista idrogeologico sia nella pianura padana che lungo l’Appennino.

Uno sguardo d’insieme

La politica ambientale dei governi Berlusconi – che resta tale anche quando è una non politica, perché l’assenza di norme è in questo caso funzionale al progetto – ha spaziato fin dall’inizio in tutte le direzioni, usando tattiche diverse a seconda delle opportunità, sempre allo scopo di ottenere il consenso del popolo, che di quelle scelte e non scelte è comunque chiamato a pagare il prezzo maggiore.

Ha tagliato fin dagli inizi il bilancio del ministero dell’Ambiente fino al 60 per cento di quest’anno e ne ha ridimensionato il ruolo modificandone la legge istitutiva; non ha finanziato nessuno dei piani di riforestazione, la cui realizzazione spetta alle regioni; nel gennaio 2010 ha concesso a quest’ultime libertà di deroga sui calendari della caccia stabiliti dalla legge 157 dell’11 febbraio 1992 per gli uccelli migratori e alcuni mammiferi come cervi, caprioli e cinghiali, con conseguenze negative sulla biodiversità; ha negato l’esistenza del cambiamento climatico in molte dichiarazioni ufficiali e paga all’Unione Europea 42 euro al secondo per violazione degli accordi climatici; usa il milleproroghe – il decreto del Consiglio dei ministri per «prorogare o risolvere disposizioni urgenti entro la fine dell’anno in corso» – per cancellare, reintegrare o istituire norme e finanziamenti come nel caso della detrazione fiscale del 55 per cento sulla spesa di riqualificazione energetica degli edifici già esistenti; o, peggio ancora, per smembrare il Parco dello Stelvio tra le province di Trento e Bolzano e la regione Lombardia e «ringraziare» in questo modo i deputati della Svp che si sono astenuti sulla mozione di sfiducia il 14 dicembre 2010; inserisce norme ambientali in coda a leggi che si occupano d’altro o gioca sulle parole per dire e non dire, come nel caso della legge sulla prima sanatoria edilizia del 1994 dove un articolo esclude dal condono le volumetrie superiori a 750 mc per edificio mentre un altro articolo precisa che l’esclusione non riguarda la volumetria dell’intero edificio ma la singola domanda di condono: basta dunque presentare due domande, per aggirare l’ostacolo. Last but not least, il federalismo demaniale approvato dal Consiglio dei ministri il 20 maggio 2010, che trasferisce agli enti locali i beni del demanio patrimoniale dello Stato, al fine della loro «valorizzazione ambientale»: ma che cosa ci può essere di ambientale nella messa sul mercato dei beni pubblici? L’idea è quella che i «gioielli di famiglia» possano restare pubblici anche se dati in gestione al privato, che ne trae un profitto con cui compensare il taglio dei trasferimenti da parte dello Stato. L’esperienza dell’acqua, in Italia e nel mondo, dimostra che la gestione privata di un bene comune serve solo a privatizzare quel bene e, con esso, lo Stato e il pubblico in generale.

Condoni edilizi e morte dell’urbanistica

Urbanistica e assetto idrogeologico del suolo sono i due terreni privilegiati della controriforma ambientale berlusconiana. Per sostenere l’edilizia, e quindi con il consenso trasversale di cittadini, costruttori, speculazione edilizia, lobby del cemento e sempre più spesso della mafia e della camorra, il governo Berlusconi ha realizzato due condoni edilizi (rispettivamente nel 1994 e nel 2003), mentre un terzo è nell’aria; ha abolito l’Ici (2008) sulla prima casa per tutti indipendentemente dalla tipologia dell’abitazione e dal livello di reddito del proprietario; ha approvato un piano di edilizia abitativa (2009) da realizzare con l’ampliamento delle abitazioni esistenti senza alcuna considerazione dei servizi pubblici che tale piano richiede e che graveranno sulla spesa pubblica. Il piano stenta a decollare per vincoli burocratici, affermano governo e Confindustria. Era già stato realizzato abusivamente, fa capire l’Istat quando informa che nei dieci anni precedenti 24 mila alloggi (e 87 mila stanze) in media ogni anno erano già stati ampliati, abusivamente e illegalmente.

Il primo condono, subito dopo l’ingresso di Berlusconi a Palazzo Chigi, era una promessa fatta in campagna elettorale, con lo slogan: «Padroni a casa propria». Il condono riguardava tutte le costruzioni abusive anche quelle realizzate nelle zone ecologicamente fragili e soggette a rischio frana, nelle aree a elevato livello di biodiversità e in quelle soggette a vincolo paesaggistico, e quindi con divieto di edificazione in base alla legge Galasso (n. 431 del 1985), perché vicine a fiumi o sulla riva dal mare; la disposizione mirava a consentire ai fiumi di avere lo spazio di espansione nei periodi di piena. Quel condono rispondeva del resto a una domanda popolare diffusa anche perché le costruzioni abusive non erano più opera della vecchia borghesia parassitaria e dei grossi speculatori sulle aree del secondo dopoguerra ma di gruppi medi di proprietari e di esponenti della nuova borghesia commerciale. La legge di condono 724 del 23 dicembre 1994 si intitolava «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica», evidenziando un altro punto fermo della politica berlusconiana, far credere ai cittadini che il nuovo governo alimenta le casse dello Stato con le entrate della sanatoria «senza mettere le mani nelle tasche degli italiani». Era una grandissima bugia, perché i costi di urbanizzazione a carico dello Stato sono stati, in questo caso, almeno 5 volte superiori alle entrate.

Il secondo condono (decreto legge 269 del 2003) è servito soprattutto a sanare il cambiamento della destinazione d’uso di magazzini e capannoni in piccole attività artigianali, palestre, supermercati e centri commerciali, discoteche e altre attività terziarie necessarie al modello di sviluppo del Nord-Est ora in crisi e alla trasformazione della pianura padana in un continuo urbano senza forma né identità. Anche in questo caso, la legge aveva un titolo ambiguo: «Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici». L’esiguità delle somme stanziate per lo sviluppo – 50 milioni di euro per la riqualificazione urbanistica e 100 per la sicurezza idrogeologica – rivelarono subito l’imbroglio del titolo, che dice una cosa diversa da quella che si sta facendo.

L’abusivismo dell’era berlusconiana è un piaga storica, che la legislazione urbanistica del secondo dopoguerra non è riuscita a debellare perché l’abusivismo porta voti e perché lo Stato italiano non ha né la forza né l’autorità per far rispettare le sue leggi, specie in materia di edilizia; non per una predisposizione alla trasgressione del popolo italiano, come ha recentemente precisato Paolo Berdini (Breve storia dell’abuso edilizio in Italia, Donzelli 2010). Con i governi Berlusconi questa piaga non è più un costo da pagare ma un’opportunità da utilizzare: l’illegalità nelle costruzioni è pertanto diventata permanente. L’abusivismo edilizio tollerato, e anzi «atteso», esprime anche il tentativo di chiudere definitivamente la stagione delle leggi di regolazione urbanistica e territoriale, che avevano dato agli enti locali gli strumenti per il controllo della rendita fondiaria: l’esproprio a prezzi agricoli della aree da edificare e l’abbattimento degli edifici costruiti illegalmente. Il poker delle leggi importanti, per il periodo preso in esame, era costituito dalle seguenti leggi (tra altre): la 167 del 1962 per l’edilizia economica e popolare, la 765 del 1967 contro l’abusivismo nei centri storici, la 10 del 1978 sull’edificabilità dei suoli, la 457 del 1978 sull’edilizia residenziale.

I costi ambientali dei condoni edilizi sono molto elevati da molti punti di vista, primo tra tutti la devastazione del territorio che è in larga misura irreversibile, e quindi non quantificabile. Può essere in parte reversibile, ma a un costo elevato e nei tempi lunghi. I suoi effetti negativi dipendono da un consumo di suolo superiore a quello ecologicamente e socialmente sostenibile; dalla scomparsa di aree verdi e agricole essenziali per respirare e per un’agricoltura sana; dalla deturpazione del paesaggio; da un sistema di trasporti caotico che insegue gli insediamenti senza mai raggiungerli; dall’inquinamento idrico per la mancanza di fognature; dal degrado sociale e umano di chi è costretto a vivere lontano dai servizi e dalle scuole, senza negozi, parchi, librerie, teatri e spazi pubblici. Costi elevati si calcolano anche nell’industria edile – da quelli legati al ciclo del cemento scavato nell’alveo dei fiumi agli incidenti sul lavoro nei cantieri privi di controlli.

Già verso la fine degli anni Ottanta la pianificazione urbanistica e territoriale cedeva il passo all’urbanistica contrattata e alla privatizzazione dell’urbanistica, che consegnava le trasformazioni del territorio alla proprietà immobiliare, con il consenso e anche il concorso della sinistra entrata nell’ottica del mercato, in particolare di alcune amministrazioni come il comune di Roma delle giunte Rutelli e Veltroni. Al cuore delle politiche di privatizzazione delle nostre città c’è la proposta presentata dall’onorevole Maurizio Lupi di riforma della legge urbanistica del 1942, che da anni il governo di destra cerca di far passare in parlamento. L’obiettivo della proposta è liquidare i piani regolatori e «convincere» le amministrazioni pubbliche a scendere a patti con la proprietà fondiaria, i cui esponenti sono equiparati allo Stato.

Agli inizi del 2010 è esploso infine lo scandalo della Protezione civile, dove Guido Bertolaso ha importato il «modello del fare» che risponde alla cultura dell’emergenza. Il modello era stato sperimentato per le infrastrutture dei Mondiali di nuoto del 2009 a Roma (con la costruzione delle piscine sulle rive del Tevere, nella fascia a rischio esondazione dove niente dovrebbe essere costruito) ma era stato messo a punto già prima, per il Giubileo del 2000. Il governo Prodi allora in carica nominò commissario straordinario alla costruzione delle opere per il Giubileo il sindaco di Roma Francesco Rutelli, che a sua volta nominò come vicecommissario Guido Bertolaso. È un modello che sottrae le decisioni urbanistiche alle amministrazioni locali e mette nelle mani di una sola persona – il commissario – ingenti somme di denaro pubblico fresco, da usare al di fuori dei vincoli paesaggistici, archeologici e di sicurezza delle opere. È il trionfo del «fai da te», dell’economia dell’illegalità e dell’impunità.

La primavera ecologica e i talebani di Roma

La cancellazione delle leggi per la difesa idrogeologica del suolo sono l’altro versante della devastazione compiuta dai «talebani di Roma», come la Frankfurter Allgemeine Zeitung chiamò i politici italiani che nel 2002 approvarono la legge sulla vendita ai privati del patrimonio culturale dello Stato. Vendita, o svendita, motivata con l’obiettivo di ricavarne le risorse monetarie per realizzare le grandi infrastrutture quali il Ponte sullo Stretto e l’Alta velocità in Val di Susa (che ci permetterebbe di andare da Lisbona a Kiev senza cambiare treno, ammesso che qualcuno fosse interessato a un simile viaggio). Scambiare il patrimonio culturale, che esprime l’identità di un popolo, con le grandi infrastrutture elencate nel Patto con gli italiani, sottoscritto da Berlusconi in diretta tv a Porta a Porta nel 2001 pochi giorni prima di entrare a Palazzo Chigi per la seconda volta, è un paradosso che avrebbe dovuto essere denunciato con più forza, come fece notare il grande quotidiano tedesco.

Le infrastrutture del Patto con gli italiani non erano infatti quelle necessarie per prevenire il dissesto idrogeologico del paese, di cui ci sarebbe estremo bisogno visti i danni che esso provoca. L’ultimo rapporto del Consiglio nazionale dell’ordine dei geologi informa che in Italia, nel periodo 2002-2010, la mancata cura del territorio ha provocato 37 frane e 72 alluvioni con 219 vittime pari a 30 morti all’anno, e un costo economico crescente nel tempo, pari a 1,2 miliardi di euro all’anno nel periodo che va dal 1990 ad oggi. Le infrastrutture di cui ci sarebbe bisogno per prevenire le frane e le alluvioni sono altre, come ad esempio la manutenzione degli argini e la costituzione delle casse di espansione lungo le sponde dei fiumi, che impediscano alle acque di esondare quando la pressione dell’acqua aumenta a causa delle piogge come è successo a Vicenza a novembre e dicembre scorsi. È stato stimato ad esempio che la costituzione della cassa di espansione del Bacchiglione, uno dei fiumi che ha messo sott’acqua Vicenza e il Veneto, sarebbe costata 35 milioni di euro se realizzata trent’anni fa, e cioè meno della metà del costo dell’alluvione veneta del novembre scorso. Secondo altre stime, la prevenzione dei danni da frane e alluvioni costerebbe il 10 per cento di quel che costa riparare i danni a posteriori, senza contare le vite umane che si perdono in queste occasioni.

La difesa del suolo non è un problema nuovo, ma è diventato più urgente per l’aumento della pressione dell’attività dell’uomo sulle risorse e per il conseguente aumento della deforestazione e del rischio siccità. Negli anni Settanta, durante la «primavera ecologica», erano state approvate alcune leggi per regolare e frenare i fattori che causano il dissesto idrogeologico – leggi che sono state poi abrogate o «ammorbidite»: la Merli del 10 maggio 1976 n. 319 sul controllo dell’inquinamento idrico da scarichi industriali, modificata in senso permissivo dal decreto legislativo 152 del 3 aprile 2006 (istitutiva del Testo unico o Codice ambientale); la Galasso dell’8 agosto 1985 n. 431 sul vincolo paesaggistico e il divieto di costruzione nella fascia di rispetto dei fiumi; la 349 dell’8 luglio 1986 sull’istituzione del ministero dell’Ambiente e la valutazione del danno ambientale; la 183 del 18 maggio 1989, «Riassetto e difesa dei suoli», per la pianificazione territoriale e la gestione delle acque, da realizzare sulla base dei distretti idrografici intesi come unità geograficamente definite di programmazione delle attività economiche. Anche questa legge, applicata poco e male, è stata abolita dal Codice ambientale del 2006, con la motivazione di recepire le direttive comunitarie; il decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997 sulla raccolta e lo smaltimento dei rifiuti (la legge Ronchi – Edo Ronchi, ministro dell’Ambiente con Prodi, non Andrea Ronchi ministro, dimissionario, per le Politiche comunitarie dell’attuale governo Berlusconi), approvata dal governo Prodi e anch’essa abrogata dal Codice ambientale del 2006.

Queste leggi non ci sono più, ma l’esigenza di prendersi cura del territorio è sempre più pressante anche a causa dei cambiamenti climatici in corso, che acuiscono la fragilità fisica del paese. C’è da augurarsi che la frequenza dei disastri «naturali» porti a prendere in considerazione la prevenzione, che è l’unico strumento realistico per affrontare questo problema.

Altri aspetti della controriforma

Acqua e acquedotti. Nel 1994 un altro governo – di centro-sinistra – approvò la pessima legge Galli (n. 36 del 5 gennaio). Per mettere ordine negli acquedotti, che allora erano più di 8 mila e decisamente troppi, fissò il principio assurdo che le tariffe del servizio idrico dovessero essere coperte dalle entrate, con l’aumento del prezzo del servizio. Quel principio è assurdo perché l’acqua è necessaria alla vita e quindi un diritto universale e non una merce da mettere sul mercato, e perché è dimostrato che gli investimenti fissi continuano a ricadere sul bilancio pubblico in quanto la remuneratività di un servizio pubblico come l’acqua non può coprire le spese fisse di investimento e gestione degli impianti. Il governo Berlusconi ha peggiorato ancora la norma, quando l’ha inserita nel Testo unico, permettendo l’ingresso dei privati nelle società di gestione degli acquedotti e del servizio idrico. Questa decisione è stata la premessa di tutta la legislazione successiva sempre più orientata alla privatizzazione, fino al decreto Ronchi del 23 novembre 2009 (Andrea Ronchi, in questo caso). Con quest’ultimo decreto, la gestione del servizio idrico integrato, la raccolta dei rifiuti e il trasporto locale sono stati consegnati ai privati, vietandone la gestione in house degli enti locali. È contro questa norma che sono state raccolte un milione e 400 mila firme per il referendum abrogativo, che si dovrebbe svol­gere nella primavera 2011.

Infrastrutture, tra grandi opere e messa in sicurezza del territorio. Un’altra questione ambientale di grande rilevanza è quella delle grandi infrastrutture o opere pubbliche, gestita dai governi Berlusconi con la politica degli annunci. Si tratta di opere faraoniche, la cui utilità è controversa, con scarse prospettive di arrivare a compimento. Ma vengono riproposte ogni anno e realizzate in piccola parte (a pezzetti), per far girare i soldi dellecommesse e delle relative tangenti, incluse quelle della mafia. Il piano, riconfermato nel novembre 2010 dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) con qualche modifica e aggiunta e previsioni di spesa sempre al rialzo, è uno dei cinque punti del già citato Patto con gli italiani del 2001. Riguarda opere a forte impatto territoriale, energivore e cementificatorie, di dubbia utilità sociale e difficili da realizzare come il Ponte sullo Stretto di Messina, il Mose di Venezia, la Tav della Val di Susa e l’Alta velocità in genere, i grandi valichi ferroviari e molte altre autostrade, alcune delle quali utili mentre la maggior parte di esse non migliorerebbero sicuramente la mobilità delle persone e delle merci, essendo dimostrato che ogni nuova strada induce nuovo traffico. La realizzazione di queste infrastrutture è sempre rimandata, ufficialmente per mancanza di risorse; molto probabilmente per l’impossibilità pratica di costruirle veramente. Ciò non significa che l’operazione sia inutile o inoffensiva: serve invece moltissimo perché permette alle grandi imprese del cemento e della camorra di far soldi facili con le commesse, e legittima la mancata costruzione di altre opere pubbliche di minore impatto territoriale e sicuramente più necessarie come la messa in sicurezza delle scuole o quella degli argini dei fiumi. Anche in questo caso, le incertezze e le connivenze della sinistra offrono un salvacondotto al governo: basti dire che il piano annunciato nel 2001 da Berlusconi venne integralmente recepito dal successivo governo Prodi e dal suo ministro delle infrastrutture, Antonio Di Pietro.

Il rilancio del nucleare. Un altro terreno su cui il governo Berlusconi procede con la politica degli annunci è quello dell’energia nucleare, che ha deciso di rilanciare nonostante il referendum popolare che oltre trent’anni fa respinse questa opzione e nonostante la mancanza di un piano energetico nazionale che ne giustifichi la necessità. Si tratta di un rilancio impossibile per i costi elevati di costruzione e gestione, per i tempi lunghi di messa in opera e per i problemi irrisolti e irrisolvibili della sicurezza degli impianti e dello smaltimento delle scorie. L’operazione non è comunque inutile dal punto di vista del governo: serve a far girare i soldi delle commesse, che nel nucleare impegnano somme enormi, e a frenare lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili che sono la sola risposta possibile per superare la dipendenza dall’energia fossile, che è alla base del riscaldamento climatico.

Il terremoto dell’Abruzzo e le new towns. La dichiarazione dello «stato di calamità naturale» con cui il governo ha affrontato il terremoto dell’Abruzzo del 7 aprile 2009 – 308 morti tra cui 8 studenti universitari – ha messo nelle mani del commissario alla ricostruzione che all’epoca era Guido Bertolaso un ingente flusso di denaro pubblico. Ma le scelte della ricostruzione sono così state sottratte alla popolazione e alle amministrazioni locali, e il commissario nominato dal governo ha pertanto potuto decidere di ricostruire le abitazioni non tanto nel centro storico dell’Aquila dove si trovano i luoghi simbolo della città ma in una ventina di new towns, nuclei abitativi localizzati in aree sparse sulle colline intorno alla città, in aree verdi preziose per assorbire le piogge e neutralizzare la CO2. Il centro storico dell’Aquila è stato «militarizzato» e reso inaccessibile ai cittadini, motivando questa scelta con problemi di sicurezza delle persone per possibili crolli di parti degli edifici. Gli abitanti della città sono stati delocalizzati nelle new towns, o in costosissimi alberghi sulla costa adriatica, lontani dalle loro radici e dai luoghi degli affetti e della quotidianità. Mentre il governo raccontava ai quattro venti di aver compiuto un miracolo e di avere ridato casa ai terremotati, si è scoperto che le «macerie» off limits per i cittadini erano state trasformate in rifiuti smaltiti illegalmente dalla mafia e che gli appalti per la costruzione delle new towns erano stati pilotati da Bertolaso, il commissario alla ricostruzione. L’inchiesta della magistratura è ancora in corso, ma difficilmente essa potrà misurare e far pagarea qualcuno il danno ambientale della ricostruzione su aree vergini, distanti e non attrezzate.

Lo scandalo dei rifiuti in Campania. Su questo scandalo, che da un paio d’anni sta facendo il giro del mondo, non basta la critica sulle false promesse del governo, regolarmente smentite dai fatti tanto che l’Unione Europea ha sospeso i suoi finanziamenti per la raccolta differenziata affermando che «la situazione dei rifiuti in Campania è ferma da almeno due anni». Il problema vero è che dietro le promesse «il re è nudo», perché la soluzione del problema richiederebbe scelte radicali di democrazia partecipativa, com’è la raccolta differenziata, e di forte contrasto al business dei rifiuti messo in piedi dalla camorra, che ormai domina il settore. Le soluzioni prospettate dal governo sono state invece la «militarizzazione» dei siti e l’incenerimento dei rifiuti, due strade che non portano da nessuna parte: la prima, perché indebolisce le forze vive interessate a risolvere il problema; la seconda, perché i termovalorizzatori o inceneritori non funzionano se i rifiuti non sono stati prima trattati, richiedono tempi lunghi di costruzione e sono osteggiati dalla popolazione per la diossina derivante dall’incenerimento di rifiuti non trattati. La popolazione è scesa in piazza per difendere la salute e il futuro dei propri figli, minacciati dall’inquinamento del territorio e per contrastare la prepotenza con cui il governo con il primo decreto del 23 maggio 2008 ha trasformato in discarica la cava Sari di Terzigno, un comune localizzato nel Parco del Vesuvio, e intendeva trasformare in discarica anche la cava Vitiello di Boscoreale, altro comune nel Parco del Vesuvio, che sarebbe così diventata la più grande d’Europa. Il decreto aveva infatti consentito di derogare alla legge del 1991 istitutiva dei nuovi Parchi in Italia e a quella del 1995 istitutiva del Parco nazionale del Vesuvio, che vietano lo smaltimento nelle aree protette. I rifiuti non sono un problema di ordine pubblico ma un problema ambientale, hanno precisato i comitati cittadini per bloccare la discarica Vitiello e costringere le autorità a risanare il territorio. Ma il problema resta del tutto aperto, anche perché tra Napoli e Caserta ci sono da anni otto milioni di tonnellate di ecoballe, che inquinano il territorio e che nessuno sa come e dove smaltire.

È una notiziona.

«Beh...» .

Leggo il titolo di «ItaliaOggi» : «L’architetto rosso diventa verde» .

«E va bene, sì, ammetto possa essere una notizia il fatto che il sottoscritto, Pier Luigi Cervellati, assessore all’Urbanistica di Bologna fra il 1964 e il 1980, alle prossime elezioni amministrative voterà per il Manes Bernardini, candidato sindaco leghista...» .

Architetto, lei è stato molto di più di un assessore: lei è stato il più famoso e apprezzato urbanista del Pci, il creatore di quella Bologna pedonalizzata e vivibile, molto comunista e però anche molto ammirata, studiata, imitata...

«E adesso vuol sapere se a 74 anni sono diventato leghista? No, leghista no, perché su tanti temi, dall’immigrazione alla sicurezza, con quelli del Carroccio non mi trovo.

Ma poiché qui dobbiamo eleggere un sindaco, io penso che sia giunto il momento di andare al di là delle ideologie e di dare fiducia a un giovane di 38 anni, il Bernardini appunto, che, da tempo, con i fatti e con serietà, dimostra di avere a cuore le sorti di questa città, che vive un inesorabile declino culturale ed economico» .

Lei perciò pensa che...

«Io sono assolutamente deluso da ciò che ha combinato da questa parti, negli ultimi anni, il centrosinistra, prima con Cofferati e poi con Delbono... Vede, io sono un urbanista, e perciò sono sensibile ad alcune faccende. Una di queste è quella che riguarda quei giganteschi autobus Civis, quei filobus che dovrebbero essere a guida ottica e che rappresentano un follia per questa città, così grossi, difettosi, mostri d’acciaio che non risolvono il problema del traffico di Bologna e che rischiano solo di far venire giù, con terribili vibrazioni, le Due Torri.

Ecco: su questo problema, il Bernardini s’è impegnato, ci ha portato a Roma dai suoi amici ministri leghisti, insomma ha dimostrato di essere sensibile a un problema che, per i bolognesi, è grosso, serio» .

La Lega, tra la gente, come faceva il Pci. Sta pensando a questo, vero?

«Sì, sto pensando a questo. E senza un filo di nostalgia» .

Non ci credo.

«E invece deve crederci! È solo, tragicamente, un problema pratico. Il punto politico, si sarebbe detto una volta, è che la Lega affronta le questioni che riguardano la città, il bene comune, cercando di mettersi dalla parte del cittadino. Mi creda: questi della Lega ti ascoltano, cercano di capire, valutano con te, stanno con te. Mentre...» .

Continui, architetto.

«Ma no...» .

Ma sì.Coraggio.

«No, dico: vogliamo parlare di tutte quelle aree militari che nelle promesse degli anni passati sarebbero dovute diventare magnifici parchi verdi e che invece si sono tramutate o stanno per tramutarsi in grandi alberghi?» .

Lei, architetto, pone anche la questione del cosiddetto Passante Nord...

«Che non riguarda, è chiaro, il cuore di Bologna, ma che è un segnale preciso, enorme, di come si cementifichi la pianura con un’opera altamente inquinante, con manovre economiche poco chiare, con i privati che partecipano a un fantomatico "financial project"...» .

Questi suoi ragionamenti così gravi, in un momento in cui la segreteria del Pd è guidata dall’emiliano Bersani.

«Pensa forse che quando c’erano Veltroni e Cofferati fosse meglio? Vede, qui siamo ben oltre la questione morale: qui deve tornare ad essere centrale l’attenzione al territorio e a chi vi abita. E la sinistra, purtroppo, ha dimenticato come si fa» .

(Canta Francesco Guccini nell’ultima strofa della canzone «Bologna» : «Bologna ombelico di tutto/mi spingi ad un singhiozzo e ad un rutto/rimorso per quel che m’hai dato/che è quasi un ricordo/e in odor di passato...» ).

Paolo Sylos Labini
Cari Ds manca ancora il rospo
l’Unità, 16 novembre 2001

I leader dei ds hanno detto che la perdita dei consensi dipende in primo luogo dalla
grave inadeguatezza dei programmi. Vero. Hanno detto anche che dipende dai litigi
interni. Anche questo è vero. Manca però il ROSPO: il grave errore di strategia
commesso quando, per avviare la Bicamerale, quei leader hanno cercato in tutti i
modi un accordo con Berlusconi, che doveva essere il socio di un’impresa tanto
ambiziosa quanto assurda: riformare la Costituzione, che era costata lacrime e sangue,
con la collaborazione di un personaggio che aveva gravi conti aperti con la giustizia e
che quindi avrebbe cercato innanzi tutto di informare a proprio vantaggio il sistema
giudiziario: se non avesse avuto soddisfazione, avrebbe fatto saltare il tavolo, com’è
accaduto e come alcuni avevano previsto fin da principio. Non si poteva, da un lato,
chiedere ed ottenere la collaborazione di Berlusconi per la Bicamerale e, dall’altro,
combatterlo, per esempio, sul terreno del mostruoso conflitto d’interessi. Ecco perché
i leader dei ds accettarono come buona la «finzione» – il miserabile cavillo – secondo
cui non era Berlusconi ma Confalonieri il titolare delle concessioni televisive,
aggirando così la legge del 1957 che stabiliva l’ineleggibilità dei titolari di
«concessioni pubbliche di rilevante interesse economico».


Accettato quel cavillo ed avendo così resa inutilizzabile la legge del 1957, i ds hanno
dovuto imboccare la strada della nuova legge. Nello sciagurato spirito della
collaborazione con Berlusconi fu preso per buono ed approvato, solo alla Camera, un
disegno di legge presentato dallo stesso Berlusconi e dai soci, fondato sull’idea
americana del blind trust un’idea ragionevole nel caso di titoli e di beni fungibili,
come i beni immobili, ma inattuabile – diciamo pure ridicola – nel caso di reti
televisive. Il disegno di legge non fu presentato al Senato e rimase con la sola
approvazione della Camera, viene tuttavia ripetutamente gettato fra le gambe dei ds
da Berlusconi e da chi sia pure non apertamente lo difende. Forte del tacito assenso
dei ds il Cavaliere è diventato sempre più sfrontato sul conflitto d’interessi ed ora ha
fatto presentare da Frattini un nuovo disegno di legge che è una vera e propria
burletta. Ha scritto giustamente Sartori che «in Italia sta scomparendo un principio
fondante della democrazia, la pluralità e la concorrenzialità degli strumenti
d’informazione». Dalla collaborazione con Berlusconi, che era l’inevitabile corollario
dello sciagurato errore strategico della Bicamerale, sono derivati vari altri «errori», fra
cui lo scarsissimo impegno nel ratificare in tempi brevi la convenzione italo-svizzera -
poteva essere approvata già nel 1998 – e la critica ai «demonizzatori» di Berlusconi,
come me e come diversi miei amici, tutti o quasi tutti dalla tradizione liberalsocialista
(saremmo dovuti essere cooptati nella «Cosa 2», mi pare, ma forse abbiamo capito
male). È vero almeno che «esagerando» nelle critiche a Berlusconi avremmo fatto il
suo gioco? No, non è vero: secondo uno studio serio di un centro torinese di ricerche
sui flussi elettorali la nostra azione, insieme con gl’interventi di Benigni, di Travaglio
e di Veltri e dei giornalisti dell’Economist, avrebbe spostato a favore del
centrosinistra, il minor male, da uno a due milioni di voti. Non chiedevamo né
ringraziamenti né riconoscimenti, ma almeno una qualche presa di posizione, nei fatti
e negli atti, che la nostra azione non andava duramente criticata, ma utilizzata: siamo
nella stessa barca. A giudicare da recenti dichiarazioni di diversi leader del
centrosinistra e dei ds in particolare sembra che ciò stia finalmente avvenendo.
Tuttavia, per contrastare con efficacia i reiterati attacchi di Berlusconi e di altri sulle
posizioni dei ds riguardanti il conflitto d’interessi e la «pigrizia» nella ratifica della
convenzione sulle rogatorie e per persuadere i votanti delusi ed amareggiati che
muteranno veramente la loro politica i leader ds debbono fare chiaramente ed
esplicitamente autocritica per quel grave errore strategico, magari invocando come
attenuante il fatto che il cinismo e la slealtà di Berlusconi hanno superato ogni limite,
sia pure riconoscendo che la politica non è un’attività per educande. Solo con una tale
autocritica – e non con la generica ammissione che errori sono stati compiti – i leader
ds possono via via recuperare credibilità. http://www.syloslabini.info/online/?p=416

Replica di Massimo D’Alema

L’Unità 22.11.2001



Gentile professore, in generale cerco di non replicare agli attacchi personali. Tendo
volentieri a discutere – questo sì – opinioni e punti di vista anche assai distanti dai
miei, ma di solito mi trattengo quando colgo nell’interlocutore un elemento di
pregiudizio.
Se nel suo caso mi sottraggo a questa consuetudine è per due ragioni: la stima che
nutro verso la sua figura di intellettuale e di studioso e, su un piano diverso, la
speranza di sgomberare il campo – chissà – una volta per tutte – dall’accusa che da più
parti mi viene rivolta di essere stato l’artefice di uno scambio inconfessabile e
immorale in materia di Costituzione e di conflitto di interessi con l’onorevole Silvio
Berlusconi. «Un pettegolezzo, invecchiando, diventa un mito» così scrive in uno dei
suoi illuminanti aforismi Stanislaw Lec. E questo mito mi viene fatto gravare sulle
spalle da diversi. Da alcuni per una concezione consapevolmente calunniosa della
lotta politica; da altri in buona fede, come nel suo caso, ma con non minore asprezza.


«D’Alema – lei scrive – ha come prima responsabilità quella di aver consentito che
venisse aggirata, con un miserabile cavillo, una legge del 1957 che stabiliva la
ineleggibilità di titolari di importanti concessioni pubbliche, e ha bloccato ogni serio
tentativo di risolvere il problema del conflitto di interessi; tutto ciò per portare a
compimento, niente meno, la riforma della Costituzione: con quel socio! Sembra
incredibile». Già, sembra incredibile; ma soprattutto ciò che lei scrive è falso, caro
professore. Ma procediamo con ordine.
Nel luglio del 1994 la giunta per le elezioni della Camera dei deputati rigettò a
maggioranza il ricorso contro la elezione a deputato di Silvio Berlusconi. I deputati
del mio partito (del quale ero segretario da pochi giorni) votarono ovviamente contro,
come gli altri parlamentari progressisti. Con la maggioranza si schierarono due
deputati del Partito popolare, allora sotto la guida dell’on. Buttiglione.

Non vedo
proprio quindi che cosa mai avrei io consentito, in cosa potesse entrarci con la
Bicamerale la decisione del ’94. In realtà ciò che si dimostrò allora è (come poi più
volte ho sostenuto) la insostenibilità di una norma che, in tempi di sistema elettorale
maggioritario, affida alla giurisdizione domestica e politica del Parlamento il giudizio
in materia di ineleggibilità. Anche per questo proposi in seguito una riforma che
consentisse il ricorso di fronte alla Corte costituzionale, cioè a un giudice
indipendente dalle parti politiche. E anche questo aspetto dimostra quanto fosse
necessaria una riforma della Costituzione. Per realizzare le riforme l’Ulivo indicò la
via di una commissione parlamentare in alternativa alla proposta della destra di una
Assemblea costituente. E insistemmo molto sulla necessità che le riforme non fossero
imposte dalla volontà di una maggioranza parlando – come recita il programma
elettorale dell’Ulivo – di «un patto da scrivere insieme». Continuo a pensare che
quella scelta fosse giusta e comunque quella linea politica, del dialogo e della
comune responsabilità di fronte alle istituzioni, ci consentì di vincere le elezioni del
1996.

Non è affatto vero che l’istituzione della Commissione Bicamerale bloccò o
impedì l’esame di una legge sul conflitto di interessi. La legge venne discussa e
approvata all’unanimità nell’aprile del 1998. Certo, si trattò di quella legge che il
centro-sinistra considerò poi del tutto inadeguata a risolvere in modo efficace e serio i
nodi del conflitto di interessi.

Ma non fui certo io ad imporla, né vi era alcun nesso
con la vicenda della Bicamerale che aveva tra l’altro già concluso i propri lavori. In
un bel libro di recentissima pubblicazione («Democrazia e conflitto di interessi. Il
caso italiano») Stefano Passigli, che pure ricostruisce in chiave fortemente critica
l’intera vicenda, ridicolizza la tesi dello scambio o «dell’ inciucio» tra D’Alema e
Berlusconi. In effetti basta leggere gli atti del Parlamento per rendersi conto che
quella legge fu voluta dall’intero centro-sinistra; dal governo che fu attivamente
partecipe della discussione e della elaborazione del testo con il sottosegretario
Bettinelli, sino alle componenti più insospettabilmente anti-berlusconiane. Come
ricorda Passigli in sede di dichiarazione di voto l’on. Elio Veltri, braccio destro del dr.
Di Pietro, ebbe a dire «Questo testo non è molto distante dalla proposta di legge che
avevo presentato – abbiamo ottenuto garanzie maggiori nelle procedure – perché la
separazione della gestione fosse effettiva e il trust fosse effettivamente cieco». Nella
maggioranza dell’Ulivo la posizione più critica fu invece proprio quella dei Ds che
cercarono, almeno sul piano fiscale, di rendere la normativa meno “di favore” per il
proprietario di Mediaset. Se dunque errore vi fu, e certamente vi fu, esso rivelò un
limite culturale dell’intero centrosinistra. Ma i fatti smentiscono nel modo più netto la
teoria dello scambio Bicamerale/conflitto di interessi di cui sarei stato protagonista
io.

Non mi sfugge tuttavia che, al di là dei fatti, il diffuso pregiudizio, il sospetto, il
disagio per la ricerca di una intesa costituzionale con la destra ha finito per incrinare
il rapporto di fiducia fra noi e una parte dell’opinione pubblica di sinistra. E ciò,
paradossalmente, è tanto più significativo proprio perché quel pregiudizio non è
fondato sui fatti né su una seria analisi politica della vicenda della Bicamerale. La
Bicamerale rappresentò infatti un momento indubbiamente positivo per l’Ulivo. Fu un
aiuto per il governo Prodi in quanto concorse ad un clima parlamentare favorevole
alle scelte difficili ma necessarie per la rincorsa dell’Euro. Fu un momento alto del
profilo riformista. Costrinse la destra a un confronto che ne stemperò il carattere
“eversivo” di forza di rottura istituzionale e fece emergere articolazioni e divisioni.
Soprattutto delineò un impianto di riforme – certo non privo di debolezze e
incongruenze – ma che avrebbe potuto rappresentare la base per una grande riforma
da fare in Parlamento e che segnasse un approdo sicuro della lunga transizione
italiana. Fra l’altro sul tema che ci appassiona, della incompatibilità e ineleggibilità, il
progetto della Bicamerale segnava un netto passo in avanti prevedendo la possibilità
di ricorso alla Corte Costituzionale.

Fu Berlusconi a rompere e a far fallire il disegno
della Bicamerale. Prova questa indubitabile che nel progetto di riforme non si
nascondeva alcuna oscura concessione sui principi e sui valori, come pure invece si è
poi detto in questi anni. E da questa rottura comincia la sua rivincita. Anche perché
egli non pagò alcun prezzo e fu anzi aiutato dalla campagna sull’ «inciucio» che,
sostenuta in modo aspro anche da una parte della opinione del centrosinistra, gli
spianò la strada scaricandolo di ogni responsabilità per aver fatto fallire le riforme
costituzionali.
La verità è che non pochi furono quelli che, anche nel nostro campo, tirarono un
sospiro di sollievo. E l’Ulivo, prigioniero delle divisioni e delle resistenze
conservatrici, finì per lasciare sbiadire via via (con l’eccezione della legge sul
federalismo) il suo profilo di forza riformista e di cambiamento sul terreno
costituzionale.


Resta in me la convinzione che ci abbia danneggiato di più – anche elettoralmente -
non averle fatte le riforme che avere cercato di farle con la Bicamerale. Ma lei dice:
«con quel socio!». Capisco il problema. E sarebbe troppo facile rispondere che le
riforme si fanno in Parlamento e i soci non li scegliamo noi ma il popolo italiano.
Questo non la commuove dato che come lei scrive nel suo libro non esclude – per una
comprensibile indignazione civile – di «dimettersi da italiano».
Ma questa è una via preclusa a chi ha scelto l’impegno politico, ha l’ambizione di
tornare a governare questo paese e intanto il dovere di concorrere a far vivere e
funzionare le istituzioni. Con questa destra, sulla quale il mio giudizio non differisce
molto dal suo, continuo a pensare che tra «l’inciucio» (che non ci fu ma apparve), e la
demonizzazione reciproca (che giova solo a Berlusconi) possa esserci una terza via
capace di unire la nettezza della contrapposizione politica, programmatica, etica
(quando ci vuole) alla necessaria comune responsabilità quando siano in gioco le
istituzioni e il bene dell’Italia. http://www.syloslabini.info/online/?p=418

Paolo Sylos Labini

Noi, Berlusconi, l’Opposizione

l’Unità 24.11.2001

Nella lunga lettera pubblicata su l’Unità del 22 novembre D’Alema risponde alle
critiche da me sollevate alle sue scelte politiche nel libro-intervista «Un paese a civiltà
limitata» e poi in un articolo pubblicato su l’Unità del 16 novembre. Da principio
riconosce la mia «buona fede nel credere ad un pettegolezzo che invecchiando diventa
un mito, come scrive Stanislav Lec»; poi però si lascia un po’ andare e, riferendosi
alla posizione da lui presa consentendo che la legge del 1957, che stabiliva
l’ineleggibilità dei titolari di concessioni di rilevante interesse economico, venisse
aggirata con un cavillo (titolare delle concessioni tv sarebbe stato non Berlusconi ma
Confalonieri), afferma: «ciò che lei scrive è falso, caro professore» e ricorda, in primo
luogo, che «nel luglio 1994 la Giunta per le elezioni della Camera dei deputati rigettò
a maggioranza il ricorso contro la elezione di Silvio Berlusconi».
Subito dopo aggiunge: «I deputati del mio partito votarono ovviamente contro, come
gli altri parlamentari progressisti».

Sono costretto a ribattere: no, caro presidente,
quello che scrivo non è falso e il suo ricordo non è esatto. A suo tempo, quando, per
far rispettare quella legge, io ed altri amici costituimmo un gruppo di pressione,
intorno al quale fu fatto un vuoto pneumatico, mi documentai con scrupolo; ho con
me vari documenti. Così, negli atti della Giunta per le elezioni della Camera di
mercoledì 20 luglio 1994 a pagina 3 risulta che l’unico oppositore fu il deputato ds
Luigi Saraceni, che, come dichiarò ad un mio amico del gruppo di pressione e come
mi ha confermato oggi per telefono, prese la decisione autonomamente: i suoi colleghi
ds votarono a favore. Tutto questo avveniva nel 1994, quando la maggioranza era del
cosiddetto centrodestra. Anche più grave è ciò che accadde dopo le elezioni del 1996:
allora la maggioranza era del centrosinistra ma non ci fu nessuna opposizione; anche
in questo caso ho gli atti della Giunta – martedì 17 ottobre, pagine 10-12.

Del 1996 il
presidente D’Alema non parla. Di tutto questo scrissi diffusamente in un lungo
articolo apparso nel fascicolo 5 del 2000 della rivista MicroMega; debbo ritenere che
sia sfuggito alla sua attenzione.
Siamo d’accordo sulla regola, praticata dagli altri paesi europei, che sui ricorsi in
materia d’ineleggibilità il giudizio non deve essere affidato al Parlamento, ma ad un
organo esterno, come la Corte Costituzionale; questa esigenza, però, fu considerata in
seguito e non nell’avvio della Bicamerale. Desidero essere chiaro: non sostengo che ci
sia stato uno scambio Bicamerale/conflitto d’interessi. Sostengo una tesi diversa e
cioè che una volta scelta come prioritaria la linea della Bicamerale l’inevitabile
corollario – lo scrivo nel mio articolo su l’Unità – sarebbe stato quello di un
atteggiamento non ostile verso il Cavaliere: non si poteva, da un lato, chiedere la sua
collaborazione per riformare – niente meno – la Costituzione e, dall’altro lato,
combatterlo con la necessaria intransigenza. Questa è la mia tesi e non quella dello
scambio che necessariamente presuppone una sorta di trattativa.

Un altro corollario -
anche questo scrivo nell’articolo – era quello di prendere le distanze dai critici duri e
intransigenti di Berlusconi, ossia da quelli che sono stati denominati i
«demonizzatori», una categoria alla quale appartengo. Vedo, con rammarico, che lei
non ha abbandonato l’idea che la «demonizzazione reciproca giova solo a
Berlusconi». Mi sembra evidente che la linea alternativa, quella della legittimazione
reciproca, è stata catastrofica per il centrosinistra ed ha giovato solo al Cavaliere, il
quale ha incassato i vantaggi della legittimazione offerta dai ds, ma li ha ripagati
continuando, anche più ossessivamente di prima, a definirli «comunisti», collusi con
le «toghe rosse» e quant’altro: in breve, la non demonizzazione è stata unidirezionale.
Quanto alla tesi che i demonizzatori avrebbero portato acqua al mulino del Cavaliere,
è una tesi smentita da un’analisi dei flussi elettorali diretta dal professor Ricolfi della
Facoltà torinese di sociologia, secondo cui l’azione congiunta di vari «demonizzatori»
ha spostato a favore del centrosinistra da uno a due milioni di voti pescandoli
principalmente fra chi pensava di non andare a votare: questo ha ridotto quella che lei
ha chiamato un’«incrinatura» – parlerei di una grave incrinatura – fra una parte
dell’opinione pubblica di sinistra e i ds. Non sarebbe allora il caso di riconoscere che
la critica dei demonizzatori va abbandonata? Che altro debbono combinare Berlusconi
ed il suo governo per convincere tutto il centrosinistra che è necessaria
un’opposizione intransigente? Lei, presidente D’Alema, riconosce che, nell’assai
ambizioso progetto di riformare la Costituzione, Berlusconi non era un socio
raccomandabile. Ma, osserva, le riforme si fanno in Parlamento e i soci non li
scegliamo noi ma il popolo italiano. Un tale ragionamento dà per certo che, non le
riforme in generale, ma – niente meno – la riforma della Costituzione non fosse in
alcun modo procrastinabile. Non è così: era sconsigliabile intraprenderla fino a
quando bisognava farla con un socio che aveva quel po’ po’ di conti da regolare con
la giustizia. Io, proponendo idee condivise da molti miei amici, le inviai una lettera
aperta pubblicata su Repubblica – certo se ne ricorda. D’altro canto, l’unica riforma
veramente urgente era quella riguardante la giustizia, per la quale quel pessimo socio
aveva evidenti interessi personali. Ma, a detta di numerosi giuristi e di magistrati, le
più importanti riforme in questo campo potevano e dovevano essere attuate con leggi
ordinarie, lasciando in pace la Costituzione. Verso la fine della sua lettera osserva,
rivolgendosi a me: «Lei non esclude – per una comprensibile indignazione civile – di
dimettersi da italiano. Ma questa è una via preclusa a chi ha scelto l’impegno politico
ed ha l’ambizione di tornare a governare questo paese ed intanto ha il dovere di
concorrere a far vivere e funzionare le istituzioni». È vero: io non escludo di essere
costretto a dimettermi da italiano. Ma per ora, come vede, non mi sono affatto
dimesso. E l’opposizione a questa destra, sulla quale il suo ed il mio giudizio non
differiscono molto (salvo che nell’idea che questa sia veramente una destra),
dev’essere netta ed intransigente proprio per salvaguardare le istituzioni. Dico questo
con una certa fiducia che anche su tale campo vitale le nostre differenze oramai non
siano grandi: penso che quel che ha combinato il governo Berlusconi nei suoi primi
centoventi giorni di vita abbiano fatto cadere ogni illusione, per via dell’assalto che
hanno dato proprio alle istituzioni, a cominciare dalla giustizia. Come lei sa, le
illusioni sono cadute anche nei nostri partner, in Europa e fuori, principalmente per il
mostruoso conflitto d’interessi, che a detta di intellettuali che ben possono essere
considerati di destra è all’origine del discredito – Sartori ha parlato di disprezzo – che
oggi all’estero ricopre, non l’Italia, ma Berlusconi e il suo governo. In Parlamento ed
a Pesaro ho notato segnali incoraggianti, come – faccio solo due esempi – la vigorosa
reazione agli attacchi alla magistratura e l’appoggio, da lei proclamato, alla proposta
del referendum volto ad abrogare la vergognosa legge sulle rogatorie, una proposta
lanciata da tre riviste della sinistra liberale (MicroMega, Il Ponte, Critica liberale),
alla quale auspichiamo che lei voglia aderire – proprio ieri abbiamo avuto l’adesione
di Sergio Cofferati. È da considerare anche la possibilità di cancellare le altre due
vergogne: la depenalizzazione del falso in bilancio e la gigantesca sanatoria fiscale
legata al rientro di capitali. Sì, discutiamo pure delle formule – socialdemocrazia,
liberalsocialismo – e, ancor più, dei programmi. Ma il cosiddetto popolo di sinistra
vuole comprendere se i ds sono disposti a fare un’opposizione robusta e non
oscillante. Anche qui qualche segnale positivo c’è: recentemente lei su Berlusconi ha
fatto dichiarazioni così dure che l’ottimo Giuliano Ferrara, che qualche mese fa
paragonò Bobbio e me a Goebbels, l’ha minacciata d’includerla nella mia stessa
categoria. Caro presidente, tutte le forze di opposizione sono nella stessa barca. Noi
non chiediamo a nessuno prebende o posti e neppure orologi d’oro. Ci muove
l’aspirazione a vivere in un paese dove non solo non venga la tentazione di dimettersi,
ma in cui si possa vivere bene e senza angoscia civile. Se in qualche modo possiamo
collaborare, eccoci qua. http://www.syloslabini.info/online/?p=419#more-419

Siamo di fronte ad una aggressione continua, manifestazione pericolosa di una ossessione quotidiana di un presidente del Consiglio che, privo da sempre del senso delle istituzioni, affida la propria sopravvivenza alla riduzione d'ogni istituzione ad un cumulo di macerie. La sua furia si nutre di insinuazioni, minacce, aggiunge all'attacco alla magistratura, abituale oggetto polemico, un nuovo affondo contro la scuola pubblica.

In questi giorni la Repubblica italiana sta prendendo congedo dall'Europa e dalla sua stessa Costituzione. Sta così tagliando le proprie radici. Non siamo solo di fronte ad una crisi istituzionale e politica, pur profondissima. Sprofondiamo in un tunnel oscuro, diviene sempre più evidente una "tirannia della maggioranza" ben al di là dei timori manifestati da Alexis de Tocqueville, perché la perversa legge elettorale maggioritaria e la sciagurata deriva verso il bipolarismo hanno separato i "designati" dai cittadini, hanno fatto perdere al Parlamento la sua virtù rappresentativa.

Ha scritto un filosofo liberale, Ronald Dworkin, che "l'istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far rispettare il diritto, dev'esser ancor più sincera".

Questi principi non scritti, ma fondativi della città democratica, sono ormai estranei al modo d'essere dell'attuale maggioranza. E forse la stessa nozione di maggioranza parlamentare ha perduto il suo significato storico, poiché siamo di fronte ad una semplice propaggine del potere di un autocrate, che premia famigli e designa successori, riceve suppliche da chi vuole andare ad occupare qualche posto di governo, dispone delle cariche pubbliche come di un pezzo del suo patrimonio personale.

Compiuta la prima fase della sua alta missione con l'edificazione di un muro a tutela della sua persona, il presidente del Consiglio annuncia ora una inquietante e pericolosa "fase due". Possiamo legittimamente chiamarla "decostituzionalizzazione". Questo è il tratto che unisce le proposte che dovrebbero segnare l'imminente stagione legislativa, nella quale si vuole sfruttare la spinta propulsiva delle radiose giornate del processo breve. Si tratta dell'"epocale" riforma costituzionale della giustizia, del minaccioso ritorno della legge bavaglio sulle intercettazioni, della disciplina ideologica e proibizionista del testamento biologico.

La riforma della giustizia, infatti, vuole in primo luogo rendere disponibile per i voleri della maggioranza l'intero sistema giudiziario. Questo non avviene soltanto attraverso una crescita complessiva del peso della politica in snodi fondamentali. Il punto chiave della riforma è rappresentato dal fatto che materie oggi affidate ad una diretta garanzia costituzionale vengono trasferite alla legislazione ordinaria. Due esempi. Nell'attuale articolo 112 della Costituzione si stabilisce che: "Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale". La riforma proposta dal Governo aggiunge le parole "secondo i criteri stabiliti dalla legge": sarà dunque la maggioranza del momento a stabilire in quali casi il pubblico ministero può indagare. Nell'attuale articolo 109 si stabilisce che "l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria". La riforma proposta dal Governo prevede che "il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge": sarà dunque la maggioranza del momento a determinare le informazioni di cui i magistrati potranno disporre. Il mutamento è radicale, la decostituzionalizzazione è compiuta. Ciò che la Costituzione aveva voluto sottrarre alla possibile prepotenza delle maggioranze, per garantire l'autonomia della magistratura, dovrebbe essere assoggettato proprio a questa ipoteca.

Ed è sempre la decostituzionalizzazione a comparire negli altri casi. Sappiamo bene che la stretta sulle intercettazioni colpisce uno dei fondamenti della democrazia, la libertà d'informazione di cui parla l'articolo 21. E la proposta di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (il testamento biologico) è congegnata in modo tale da espropriare ogni persona del diritto fondamentale all'autodeterminazione, riconosciuto dalla Corte costituzionale sulla base degli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione.

Per chiudere definitivamente questa partita, l'obiettivo finale è indicato appunto nell'odiata Corte costituzionale, con la quale il presidente del Consiglio annuncia un definitivo regolamento di conti, probabilmente affidato ad una legge che escluderebbe la possibilità di decidere con il voto della maggioranza dei suoi componenti, sostituito da un quorum particolarmente elevato. Una mostruosità giuridica, sconosciuta a ogni civile sistema giuridico, che produrrebbe l'assurdo effetto di mantenere in vigore leggi che la maggioranza dei giudici costituzionali ha ritenuto illegittime. Il risultato complessivo di tutte queste mosse sarebbero la scomparsa di un effettivo sistema di garanzie, una alterazione degli equilibri costituzionale che ci porterebbe verso un mutamento di regime.

Quest'orizzonte ravvicinato, realistico e ineludibile, è quello al quale si deve guardare per individuare le strategie possibili per opporsi a questa ascesa, che appare a qualcuno non più resistibile con i mezzi ordinari della democrazia. Ma immaginare rovesciamenti del tavolo rischia di distogliere l'attenzione dalla faticosa ricerca di quel che deve essere fatto qui e ora.

Dicevo che la fase due, quella della decostituzionalizzazione, è inquietante, ma pure pericolosa. Il pericolo nasce dal fatto che siamo di fronte a proposte che potrebbero dividere il fronte delle opposizioni. Quando comparve la proposta di riforma costituzionale della giustizia, subito si materializzò il singolare partito dei "sedersialtavolisti". Ma chi mai accetterebbe di sedersi ad un tavolo da gioco insieme ad un baro, al tavolo di un ristorante dove il cuoco è un noto avvelenatore travestito da chef creativo? Mi auguro che la lezione del processo breve alla Camera sia servita a dissuadere gli aperturisti ad ogni costo, convincendo tutti della necessità di mantenere saldo un fronte comune. Allo stesso spirito l'opposizione dovrebbe ispirarsi in tutti gli altri casi, compreso quello del testamento biologico dove qualche cattolico potrebbe essere sedotto dall'ingannevole richiamo a valori non negoziabili.

In questi ultimi mesi Berlusconi ha costruito un conglomerato di cui non possono soltanto essere denunciate le modalità corruttive e i rischi grandi che fa cogliere al paese senza accompagnare questa diagnosi con una strategia politica conseguente - parlamentare, sociale, elettorale. E allora. Riprodurre in tutte le prossime occasioni parlamentari i comportamenti tenuti in occasione del processo breve, sfruttare ogni spazio parlamentare per far discutere le proposte dell'opposizione. Può reggere la maggioranza ad una mobilitazione permanente che coinvolga l'intero Governo? Non chiudersi in Parlamento, troppe cose avvengono nel paese. Costruire, quindi, una solida sponda politica per il crescente numero di cittadini che non si limitano a manifestare nelle piazze reale e virtuali ma, così facendo, costruiscono una concreta agenda politica. Ma, soprattutto, per le opposizioni scocca l'ora obbligata dell'unione, la sola a poter ricostruire le condizioni per una vera dialettica democratica.

Forse solo la saggia parola alle Camere del Presidente della Repubblica può ricordare a tutti che la politica deve essere sempre "costituzionale".

Silvio Berlusconi potrà pure scamparla con la prescrizione breve e col processo lungo sui casi Mills e Mediatrade. Potrà perfino riuscire, grazie al genio dei suoi avvocati, alla servitù della sua corte e al potere del suo danaro, a costruire, nel processo Ruby, una verità giudiziaria diversa dalla verità effettiva (si sa che esse raramente coincidono). Ma sa lui stesso che nel caso Ruby c'è scritta la sua fine. Firmata dalle testimoni. Donne. E' il punto cruciale su cui ha sbagliato i suoi calcoli: «le sue bambine» non sono tutte a sua disposizione. Quale che sarà la verità giudiziaria, è firmata da loro la sua fine politica. E con la sua fine politica, la fine di un'epoca, di un'etica e di un'estetica.

Non sono nuovi i fatti che emergono dalle deposizioni, rese spontaneamente, di Ambra Battilana e Chiara Danese, meno di diciannove anni ciascuna oggi, poco più di diciotto al tempo, agosto 2010, della loro prima e unica cena a Arcore: i particolari inediti - e raggelanti - confermano e aggravano un quadro già noto, e al quale il premier conta, quando la mette in burletta ostentando pubblici inviti al bunga-bunga, che ci siamo assuefatti. Nuovo però è lo sguardo, nuova è la voce, nuovo il vissuto e lo sconcerto delle due ragazze. A conferma che in questa storia quello che è decisivo non sono i nomi comuni - escort, prostitute, veline, meteorine - con cui si continuano a guardare le protagoniste e le comparse, ma i nomi propri, le storie singolari e le parole singolari; la singolare posizione di soggetto che ciascuna riesce o non riesce a conquistare, contro la comune condizione di oggetto cui il sultano e i suoi complici le vogliono costringere.

Soggetto non si nasce, si diventa: bisogna che qualcuno o qualcosa ci interpelli, perché riusciamo a dire «io». Può essere il richiamo della legge, può essere lo scandalo della menzogna. Per Chiara e Ambra, è lo scandalo della menzogna di un premier che sulla scena pubblica definisce «cene eleganti» quelle serate fatte di volgarità trash, con seni e sederi che si offrono alla sua bocca, barzellette «tanto sconce da essere irritanti» e statuette falliche da adulare a mo' di totem ma senza tabù. Sentirle definire eleganti, «proprio no», non era sopportabile, dice Chiara. E nemmeno era sopportabile, aggiunge Ambra, vedere il proprio nome associato, su Google, al bunga-bunga, oppure, sui giornali, a un numero, quello delle trentadue (o cinquantacinque che siano diventate nel frattempo) prostitute frequentatrici di Villa San Martino. E' stato di fronte a questa doppia e insopportabile menzogna che hanno detto «io», e deciso di consegnare ai magistrati la loro verità sulle notti di Arcore, assistite da un'avvocata, «che perdipiù è donna».

Non si sentono e non sono prostitute, Ambra e Chiara. Giocavano a diventare Miss Italia, prima e terza alle selezioni del Piemonte, quando il ruffiano di corte Emilio Fede le invita a Arcore, dopo averle «provinate» per fare le meteorine e averle già fatte passare per il primo esame: mani sui fianchi e sguardi sul sedere, così procede il direttore del Tg4 per decidere chi è degna e di no. Le due ragazze potevano e dovevano sottrarsi già a quel punto, e lo sanno: già nella cena con Fede, racconta Ambra, «ero stupefatta e mi vergognavo tantissimo», «non era un atteggiamento normale», «eppure non riteniamo di andare via, perché ci interessa quel tipo di contratto con il direttore che, tutto sommato, si era mantenuto abbastanza nei limiti». Tutto sommato, abbastanza nei limiti: è la contabilità misera e amorale in cui vivacchia il precariato di massa sotto perenne e sistematico ricatto. Tutto sommato, mi serve un contratto; il direttore è un porco, ma se si tiene abbastanza nei limiti glielo strappo e ne esco in piedi. Invece quello era solo l'assaggio; il piatto forte arriva la sera dopo a casa del Presidente. Conosciamo la scena ed è inutile tornare a descrivere la cena e il dopocena, le canzoni e la lap-dance, le paroline dolci e le palpatine ruvide del padrone di casa. Anche se degli inediti particolari raggelanti di cui sopra, corre l'obbligo di segnalare il tasso di feticismo che promana da quell'oggetto che viene fatto passare di mano in mano e di bocca in bocca: «E' una specie di guscio. Dal guscio esce un omino con un pene grosso. Ha le dimensioni di una bottiglietta d'acqua da mezzo litro. Il pene è visibilmente sproporzionato». Il feticcio giusto, per uno che appena può si definisce «un premier con le palle» e che dallo stato maggiore del suo partito, sezione lombarda, riceve in dono un toro Swaroski «con due palle come le tue, Silvio», e un uovo di Pasqua alto due metri con dentro Charlotte Crona in carne e ossa che suona il violino (dalle cronache della cena offerta da Berlusconi a villa Gernetto due sere fa).

Corre l'obbligo, ancora, di segnalare l'insistenza con cui le due ragazze vengono vigorosamente invitate a lasciarsi prendere da un gioco dal quale vogliono scappare. E il cinismo con cui, quando se ne vanno senza averci partecipato, il direttore del Tg4 le avverte che così sfuma il loro contratto e il loro sogno. Questa è la scena che un noto intellettuale di punta berlusconiano, intervistato sul Riformista di ieri, definisce «amicale» e improntata a libere e consapevoli strategie seduttive nelle quali, si sa, sono le donne ad avere in mano il gioco e a sfruttare l'uomo di potere. Per fortuna, nel caso di Chiara e Ambra, ci sono alle spalle due madri che loro definiscono «semplici». Due collabortatrici domestiche, disposte ad accompagnarle nel sogno di diventare miss. Ma capaci di dire, al momento giusto: il gioco è finito, andate a dire la verità.

Mercoledì 13 aprile, alle 20.00, al Cinema Astra di Napoli si presenta il film documentario “Soltanto il mare” (50’, 2011), di Dagmawi Yimer, Giulio Cederna e Fabrizio Barraco, con le musiche originali di Nicola Alesini. [qui il trailer e il calendario delle proiezioni]. Girato a Lampedusa nel corso del 2010, periodo nel quale l’isola aveva smesso di fare notizia, e completato all’inizio del 2011, quando i nuovi sbarchi l’hanno riportata su tutti i media, il film propone lo sguardo incrociato di due realtà che a Lampedusa raramente dialogano tra loro: quella di un migrante, in questo caso Dagmawi Yimer, sbarcato da clandestino sulle coste dell’isola nel 2006, e quella dei lampedusani.

Soltanto il Mare vuole essere innanzitutto un omaggio a Lampedusa da parte di chi, come Dagmawi, all’isola deve la sua stessa vita. Le proiezioni sarabnno un’occasione per riflettere sul dovere morale di aiutare un’isola stretta tra una crisi umanitaria epocale, che non può fronteggiare da sola, una guerra a due passi, la stagione turistica ormai compromessa e una serie di problemi irrisolti che si trascinano da anni. Prodotto dall’Archivio Memorie Migranti di Asinitas, Alessandro Triulzi e Marco Guadagnino, in collaborazione con fondazione lettera27, il film ha ottenuto il premio del pubblico al Salina DocFest e il riconoscimento per il miglior film nella sezione migranti e viaggiatori al Festival del Cinema Africano di Verona.

Dalla note di regia:

“Giorno dopo giorno l’isola si apre e ci regala nuove storie, situazioni inaspettate, cortocircuiti. Al migrante fresco di sbarco l’isola era apparsa come l’avanguardia del benessere - con i suoi alberghi, le sue barche, i suoi turisti - alla sua videocamera si svela ora piena di problemi; l’aveva immaginata come frontiera del progresso, la ritrova isolata dal mondo, con lo sguardo nostalgico rivolto al passato e una patina fresca di vernice già incrostata di salsedine”.

Di fronte a Sarkozy e alla Merkel in camicia verde, i camaleonti della destra italiana reagiscono cambiando colore: si appellano ai principi della Ue che fino a ieri dileggiavano, nelle campagne contro la moneta unica e gli "euroburocrati" di Bruxelles.

Per colmo d’ironia la circolare diramata dal ministro degli Interni francese Guéant, allo scopo di bloccare l’accesso oltralpe dei tunisini dotati di permesso di soggiorno temporaneo in Italia, sembra fotocopiata da certe "ordinanze antisbandati" frutto della creatività di vari sindaci leghisti e dello stesso Maroni. Le ultime a poterne criticare la mancanza di carità sono dunque le sbiadite camicie verdi nostrane, esposte all’insofferenza di una base che avevano illuso con la retorica dei "respingimenti" e l’ignominia del fora di ball.

I tedeschi, invece, come al solito si rivelano ferrati nel conteggio delle cifre: difficile ignorare le decine di milioni di euro già oggi stanziati dalla Ue a sostegno dell’accoglienza dei disperati del mare. Vero è che i fondi comunitari non basteranno se gli sbarchi dal Nordafrica dovessero continuare al ritmo attuale. Ma intanto a Berlino fanno presente che il loro numero complessivo, tuttora inferiore ai trentamila arrivi nei primi tre mesi e mezzo del 2011, non ha le caratteristiche dell´"esodo biblico" o dello "tsunami umano" sbandierato dalle autorità italiane.

È certo per ragioni poco commendevoli di politica interna che Sarkozy e la Merkel indossano la camicia verde, rammentandoci che alla geografia non si comanda e dunque in Europa i meridionali siamo noi. Di fronte alla loro grettezza, una classe dirigente nordista spiazzata dalla perdita dei suoi abituali interlocutori africani, Gheddafi, Mubarak e Ben Ali, misura lo svantaggio dei rapporti di forza. Ben poco le servirà minacciare una rottura dei trattati europei, eventualità sciagurata da cui gli italiani avrebbero solo da perdere. Diverso sarebbe stato se, assumendo come virtuoso il suo destino mediterraneo, l’Italia si fosse protesa nel sostegno alla crescita di società aperte sulla vicina sponda sud del mare. Ma Berlusconi, Bossi e Maroni sono per loro natura impossibilitati a farsi portavoce di una fratellanza euro-africana, da recare in dote a tutta l’Unione.

Basti pensare che Maroni chiede a Bruxelles l’applicazione ai tunisini della direttiva 55 del 2001, per la protezione dei rifugiati in fuga dalle zone di guerra, quando ancora il governo italiano si ostina a non recepire l’altra direttiva europea che chiede un percorso più graduato nel rimpatrio dei migranti irregolari. In altre parole, vorremmo un’Europa compassionevole nei confronti dell’Italia fino al punto di considerare eccessivo per il nostro Paese sobbarcarsi da solo 14.500 permessi di soggiorno temporanei (tanti sono i possibili beneficiari del decreto, sulla base delle presenze registrate dal Viminale); lasciando però che nei confronti dei profughi e dei migranti venga ripristinato il "metodo Gheddafi-Maroni", con sbrigative pseudo-identificazioni in mezzo al mare e respingimenti immediati.

Nella trattativa con la Commissione europea non ha certo giovato alla credibilità del governo Berlusconi la disinvoltura con cui i suoi ministri diramavano previsioni a casaccio: prima l’annuncio di tre-quattrocentomila profughi in arrivo, poi ridotti a centocinquantamila. Tutte cifre lontanissime dalla realtà. Fermo restando che l’Italia, come del resto gli altri Paesi europei, accoglie ogni anno sul suo territorio un numero di immigrati di gran lunga superiore a quello per cui ora lancia allarmi sconsiderati (l’Istat calcola più di 350 mila nuovi arrivati nel solo 2010). Rispetto agli altri paesi europei accoglie un numero molto più basso di rifugiati politici. E in barba al proclama mendace, "aiutiamoli a casa loro", resta in assoluto il paese occidentale che destina meno fondi per lo sviluppo dei paesi poveri.

Certo i militanti leghisti chiamati a manifestare sotto il consolato tunisino di Milano con lo striscione Fora di ball si riconoscono più facilmente nel Mario Borghezio che scende a Lampedusa insieme a Marine Le Pen per invocare il rimpatrio forzato dei tunisini, magari con la flotta militare come ieri proponeva a Radio Padania il trevigiano Giancarlo Gentilini; faticano a giustificare il loro Roberto Maroni costretto a decretare permessi temporanei.

C’è da stupirsi se Sarkozy ripaga i leghisti della loro stessa moneta, visto che soffre l’asse xenofobo dei padani con la sua concorrente Le Pen? E l’Europa perché dovrebbe prendere sul serio le richieste di chi tuttora giustifica le truffe sulle quote latte?

“Lavoro, ambiente, beni comuni, dimensione nazionale e internazionale del conflitto sociale, interazione con i movimenti, temi della laicità, della lotta all’ omofobia e al patriarcato”. A questo modo, il 31 marzo scorso, il direttore Dino Greco ha annunciato i contenuti che saranno asse portante della “nuova Liberazione”: una rielaborazione imposta da pesanti difficoltà finanziarie, che - se i risultati risponderanno ai propositi - promette anche un significativo rilancio della qualità del giornale.

Non c’è dubbio infatti che quanto annunciato come “pietra angolare attraverso cui guardare alla realtà” rappresenti un catalogo pressoché completo dei problemi più urgenti e decisivi per il mondo, attuale e futuro. Tanto che, se potessi permettermi un suggerimento, proporrei di sostituire le virgole con un trattino (lavoro – ambiente – beni comuni – ecc.) a evidenziare nel modo più cogente la stretta relazione, spesso anzi l’immediata reciprocità di determinazione, tra categorie politiche e sociali troppo spesso invece considerate e affrontate separatamente, come materie ognuna a sé stante, prive di qualsiasi nesso. Cosa d’altronde dovuta anche al fatto che non di rado le ragioni di questi rapporti sono frutto di mutamenti prodottisi negli ultimi decenni, non ancora recepiti come decisivi fattori della Politica, quali in realtà sono. Ciò che vale ad esempio per i rapporti tra la politica e i “movimenti” nati e impostisi negli ultimi decenni; o per le problematiche ambientali, di fatto nate con il modo di produzione industriale-capitalistico, che però solo nella seconda metà del secolo scorso hanno rivelato la loro crescente, distruttiva pericolosità; o ancora per i “beni comuni”, di cui solo il loro progressivo accaparramento e sfruttamento da parte dell’industria privata, secondo le logiche neoliberistiche universalmente vincenti, ha messo in luce il senso e il valore della loro legittima appartenenza alla collettività… E così via.

Ma il “trattino” di cui più avverto la necessità è quello tra “lavoro” e “ambiente”. “Produrre inquina,” scrive Joseph Stiglitz, che non è un “verde” né un simpatizzante di Rifondazione, ma un economista americano, il quale duramente stigmatizza alcuni gravi “peccati” del sistema socioeconomico attuale (dalla vergognosa distanza di remunerazione tra manager e operai, al fatto che nel nostro mondo sprecone esista più di un miliardo di affamati, ecc.) e però non si sogna di augurarsene la fine. E la cosa non stupisce. Stupisce invece (o almeno io da gran tempo ne stupisco) che le sinistre siano state, e continuino ad essere, così poco sensibili alle problematiche ambientali, mentre più di ogni altro avrebbero dovuto avvertirne la gravità: innanzitutto perché le prime vittime del fatto che “produrre inquina” sono i lavoratori di ogni categoria, e perché sono sempre i ceti più deboli a soffrire le conseguenze di alluvioni e dissesti ecologici di ogni sorta, a pagare per temperature che inaridiscono i campi, inquinamenti che azzerano la pescosità di fiumi e mari, distruzione sistematica di ecosistemi millenari in cui da sempre vivono, e così via. Di tutto questo il fatto che, nel programma della “nuova Liberazione”, l’ambiente figuri subito dopo il lavoro, indica finalmente (così almeno io leggo la cosa) un’adeguata consapevolezza. E ciò mi induce ad accennare alcune riflessioni, anch’esse riguardanti le sinistre, che da tempo vado considerando.

Più volte infatti mi sono domandata come mai le sinistre non abbiano sfruttato, o abbiano sfruttato solo in minima parte, a favore dei lavoratori ciò che il progresso scientifico e tecnologico avrebbe potuto consentire, mediante un utilizzo adeguato di “macchine” via via più capaci di sostituire il lavoro umano, non soltanto fisico ma in misura crescente anche mentale. Eppure la “liberazione del lavoro e dal lavoro”, da sempre è stato non solo sogno di grandi utopisti, ma obiettivo dichiarato dei padri del marxismo; poi recuperato negli anni Venti da Keynes con l’annuncio della prossima possibilità di soddisfare i nostri bisogni con tre ore di lavoro al giorno; e negli ultimi decenni fatto proprio, in difesa di una riduzione generalizzata degli orari, da economisti come Gorz e Napoleoni…

Tutto questo a sinistra è stato rimosso, o così pare. Di fatto soltanto (o in misura in assoluto prevalente) la paura della disoccupazione tecnologica ha finito per governare le scelte delle sinistre. “Creare lavoro” era l’insistito slogan degli anni Novanta, in presenza di una produzione in crescita cui l’occupazione non rispondeva più come in passato: assurdo paradossale proposito (non dovrebbe il lavoro essere la risposta a una domanda di merci o servizi?), che però parlava di una tendenziale omologazione delle scelte delle sinistre alle logiche neoliberistiche. In obbedienza a quell’imperativo della “crescita”, che da un lato andava dilapidando il patrimonio naturale e in modo irrecuperabile squilibrando gli ecosistemi, dall’altro induceva una pericolosa assimilazione dell’intero corpo sociale agli obiettivi del mercato e delle sue regole.

Non ho qui spazio per affrontare le singole tematiche indicate (come accennavo sopra) quali linee portanti della “nuova” Liberazione. Ma in qualche modo, quanto detto finora, pur nelle strettoie di una stringatissima sintesi, credo possa aprire un breve discorso relativo agli altri obiettivi indicati: in particolare per quanto riguarda la “dimensione nazionale e internazionale del conflitto sociale”. Perché in effetti la velocità e la molteplicità del mutamento prodottosi nel mondo negli ultimi decenni, si è realizzato nei termini di un vistoso squilibrio.

Ha creato infatti una crescente omologazione tra tutti i popoli del pianeta dal punto di vista economico, nei modi di una vera e propria “globalizzazione economica” ad immagine del capitalismo neoliberistico, nel trionfo di logiche iperconsumistiche a convivere con intollerabili povertà . Ha creato un’altrettanto vistosa “globalizzazione culturale”, insistentemente imposta dai mezzi di comunicazione di massa, cui sempre più faticosamente resistono antiche consuetudini di carattere eminentemente religioso, ma specie tra i giovani destinate a prossima estinzione. Manca invece ogni traccia di “globalizzazione politica”: di fatto in una sorta di dichiarata resa della politica al mercato, tra disuguaglianze sempre più intollerabili e sconquassi ecologici sempre più insostenibili.

Non toccherebbe alle sinistre di affrontare questo “problema dei problemi” e magari farsene carico? Non era il mondo la dimensione del marxismo? E non significa nulla che l’inno dei lavoratori si intitoli (ancora) “L’internazionale”?

A Lampedusa il colpo di teatro e la demagogia promozionale, a Roma il colpo di mano e la macelleria costituzionale. Diciassette anni dopo il suo primo trionfo elettorale del 29 marzo 1994, Silvio Berlusconi regala all´Italia un altro mercoledì nero della democrazia. L´ultimo strappo si è dunque compiuto. Con un atto di forza, tecnicamente eversivo e politicamente distruttivo, la destra inverte l´ordine dei lavori, e impone alle Camere l´approvazione immediata della legge sul processo breve e sulla prescrizione «corta» per gli incensurati. Cioè la trentottesima legge ad personam dell´era berlusconiana.

Eccola, la vera «riforma epocale» della giustizia che il presidente del Consiglio ha sempre avuto nel cuore e nella testa. Non è il disegno di legge di revisione costituzionale di Alfano, spacciato tre settimane fa dal guardasigilli al Capo dello Stato e all´opinione pubblica come una «svolta storica». L´epifania di una nuova era, nella quale la destra rinunciava alle leggi tagliate a misura per i bisogni di un solo imputato, per tutelare quelli di tutti i cittadini. E su questa piattaforma proponeva una fase di pacificazione, chiedendo alla magistratura di scendere alle barricate, e all´opposizione di aprirsi al dialogo.

Non abbiamo mai avuto dubbi. Ma ora abbiamo la «smoking gun». Quello è stato solo un inganno istituzionale e un tranello comunicazionale. Fabbricato ad arte, insieme alla guerra non guerreggiata contro la Libia e all´emergenza profughi sbandierata e non gestita, per distrarre l´attenzione. Mentre armava malvolentieri i nostri caccia in volo verso Tripoli e le nostre navi in rotta verso Lampedusa, in realtà il Cavaliere militarizzava la sua maggioranza in vista dell´unica battaglia che gli sta a cuore: quella contro la procura di Milano. Una battaglia che lo deve vedere a tutti i costi vincitore, e dunque finalmente e definitivamente libero da tutte le sue pendenze giudiziarie.

Il blitzkrieg sul processo breve è la conferma di un lucido progetto di destrutturazione del sistema giurisdizionale ad uso privato. Tutti i passi compiuti in quest´ultimo mese sono stati funzionali all´obiettivo. Lunedì la scena madre a Milano, con il predellino bis davanti a un Palazzo di Giustizia trasformato in palaforum da campagna elettorale: colossale finzione propagandistica, per dimostrare alla sua gente la «persecuzione giudiziaria» dei soliti comunisti. Ieri, nel retroscena di Montecitorio, al riparo dai riflettori concentrati sull´imbarazzante televendita approntata nella nostra povera Ellis Island del Mar di Sicilia, il «delitto perfetto» sul processo breve. Ultimo e tombale «salvacondotto», per mettersi al riparo entro l´estate dalla probabile condanna nel processo Mills.

Così, in un giorno solo, il Cavaliere torna Caimano. Cioè quello che, in fondo, non ha mai smesso di essere. A dispetto di tutte le dissimulazioni, alle quali hanno creduto alleati agguerriti e avversari spauriti. E confusi dalla tattica collaudata in un quasi Ventennio. Con una mano, esibita al pubblico plaudente, ti porgo un ramoscello d´ulivo. Con l´altra mano, nascosta dietro la schiena, mi preparo a colpirti con un bastone. Adesso c´è un´aggravante in più. Per salvare il premier, passa una legge che azzera migliaia di processi, e manda impuniti reati comuni gravissimi, dalla rapina alla violenza sessuale. È il prezzo, intollerabile, messo da Berlusconi sul conto degli italiani: per garantire la sua impunità, devono rinunciare alla loro giustizia.

Questa è dunque la vera «riforma» del centrodestra. Non c´è da gridare allo scandalo, se di fronte a questo nuovo abuso di potere mezzo Parlamento si sia sollevato, per gridare «vergogna». Quello che stupisce, semmai, è che interi pezzi di una destra che una volta fu legalitaria si adeguino. Dalla Lega agli ex di An. Gente che negli anni di Mani Pulite agitava nell´emiciclo i cappi davanti alla Prima Repubblica (come Bossi, un ministro ormai chiaramente impresentabile) e che oggi difende, perché li incarna, i privilegi della Seconda. Gente che sfilava in piazza per i magistrati (come La Russa, un ministro ormai palesemente inadeguato) che per difendere l´indifendibile insulta a viso aperto il presidente della Camera Fini.

Si grida allo scandalo, invece, perché fuori dal Palazzo tornano le folle che contestano e lanciano monetine, come all´epoca di Craxi davanti al Raphael. Ogni forma di protesta violenta va stigmatizzata. Ogni forma di deriva anti-politica va arginata. Il berlusconismo si supera solo con la fatica della politica e con la pazienza della democrazia. Ma manifestare il proprio dissenso, di fronte a quanto accade, è lecito e doveroso. E al premier e ai suoi cantori, che oggi lamentano il «clima», verrebbe da dire: chi semina anti-politica, raccoglie anti-politica. Le scorciatoie populiste non corrono sempre nella stessa direzione. Capita che si muovano all´inverso, e generino populismi uguali e contrari.

Su questa linea del fronte, la destra accusa «Repubblica». Usando strumentalmente l´articolo 68 della Costituzione, appellandosi alla sovranità del voto popolare, invocando il ripristino dell´immunità parlamentare e deprecando la bocciatura dello scudo per le alte cariche dello Stato. Ma farebbe bene a ricordare una verità elementare. Storica e politica. Quando scrissero quelle norme, i padri costituenti e i legislatori lo fecero in astratto, e su casi indistinti. Era la grundnorm di Hans Kelsen, concepita per regolare un sistema, non per proteggere un singolo.

La questione odierna è totalmente diversa. Qui si vara una legge che, mentre altera e snatura il sistema, entra nella carne viva di una specifica vicenda processuale e strappa una persona (proprio «quella» persona) al suo giudice naturale. In qualunque democrazia occidentale sarebbe inutile rammentare questa abissale differenza, a chi finge di non vederla e non vuol farla vedere ai cittadini elettori. Ma nell´Italia di oggi è doveroso: per rompere la nube tossica di mistificazione politica e di manipolazione semantica che l´egemonia culturale della destra berlusconiana sparge a piene mani sul Paese.

Se la prima vittima della guerra è la verità, la seconda, nel caso della guerra che infuria in Libia, rischia di essere quel che ancora resta dell'unità della sinistra anticapitalista in Italia e in Europa. Mai come in questo caso le differenze di valutazione sono apparse profonde, sino a tramutarsi in una sorta di conflitto intestino. Vale la pena invece, proprio in occasione dell'appuntamento contro la guerra «umanitaria» del 2 aprile, di riflettere su questo stato di cose. Perché la mancanza di chiarezza può contribuire all'estinzione di un un campo di forze critiche e alla dissoluzione di culture politiche che in questi vent'anni hanno orientato la lotta dei movimenti contro le «guerre democratiche» e la cosiddetta globalizzazione neoliberista.

Parlando di una inversione di ruoli (la sinistra sarebbe diventata interventista, la destra pacifista) la stampa alimenta la confusione. Ovviamente le cose non stanno così. Il centrosinistra ha una lunga tradizione guerresca (sin dai primi anni Novanta, quando contribuisce alla elaborazione del «nuovo concetto strategico» che trasforma in chiave offensiva la politica estera italiana e che mira a fornire una formale legittimazione all'intervento armato nei Balcani) mentre il centrodestra non è per nulla contrario alla guerra (la Lega ha brontolato solo per rafforzare la propria immagine di baluardo della «Fortezza Europa»). Ma qualcosa di nuovo è effettivamente avvenuto da quando la crisi libica è precipitata, Gheddafi ha reagito militarmente alla rivolta e si è cominciato a parlare di un intervento armato dei Paesi occidentali.

Vent'anni fa le cose andarono diversamente. Quando Saddam Hussein invase il Kuwait, Norberto Bobbio si schierò a favore dell'intervento della coalizione internazionale, di cui faceva parte anche l'Italia. I suoi argomenti somigliavano a quelli di quanti ora approvano l'intervento occidentale. Come oggi Gheddafi, così ieri Saddam era il bandito, il tiranno. Come la Libia di Lockerbie, anche l'Iraq era uno «Stato canaglia». La presa di posizione di Bobbio - il quale, suppongo, ignorava i retroscena della crisi (il voltafaccia del Kuwait, che prima aveva sostenuto l'Iraq contro l'Iran e poi pretese l'immediata restituzione dei prestiti di guerra, e, soprattutto, la garanzia di non-interferenza fornita a Saddam dagli Stati Uniti in caso di invasione del vicino) - fornì una patente di legittimità all'intervento (la prima guerra dell'era post-bipolare, motivata dall'esigenza di ristabilire la «legalità internazionale» e non dalla necessità di fermare l'avanzata del comunismo), destò scalpore e provocò divisioni anche tra i suoi allievi diretti. Ma vent'anni fa la sinistra critica fu sostanzialmente compatta contro quella tragedia (nessuno saprà mai quanti civili caddero sotto le bombe di Desert storm e quanti soldati iracheni finirono sepolti vivi nelle trincee spianate dai carri armati trasformati in bulldozer) e contro le altre che seguirono, sino alla seconda guerra irachena. Ora invece ci si divide e ci si scambiano, tra compagni, accuse pesanti. Perché? Che cosa è cambiato dal gennaio del 1991 ad oggi?

Una prima e parziale risposta può venire dal confronto tra le due posizioni in campo. Agli uni appaiono decisivi la natura dispotica del regime di Gheddafi e la brutalità della sua reazione contro una insurrezione popolare tesa - come in Tunisia e in Egitto, in Yemen, Giordania e ora in Siria - a instaurare un regime democratico. In questa prospettiva passa in secondo piano tutto il resto (la cifra politica del governo provvisorio di Bengasi; la composizione dello schieramento degli insorti; l'illegittimità della risoluzione del Consiglio di sicurezza e dell'intervento armato; le motivazioni strategiche ed economiche dei Paesi che hanno spinto per la guerra e si contendono la guida delle operazioni) che appare invece cruciale agli altri. Nella discussione le posizioni di irrigidiscono e si polarizzano. Pur di avere ragione dell'avversario, si ignorano le sue ragioni (che sussistono, da entrambe le parti).

Come accade, i toni si inaspriscono proprio per la vicinanza dell'interlocutore. I «democratici» accusano i «geopolitici» di cinismo («pur di denunciare la volontà di potenza degli Stati abbandonereste gli insorti sotto le bombe di Gheddafi») o, al contrario, di essere «anime belle», preoccupate solo di non farsi coinvolgere in un inevitabile conflitto. Accusati di essere «amici del tiranno», i geopolitici reagiscono trattando i democratici come «utili idioti» che, bevuta la favola della rivolta popolare, si sono fatti reclutare dagli impresari dell'ennesima guerra democratica. Eppure basterebbe poco per sottrarsi a questa tenaglia e far valere la verità interna a ciascuna delle due posizioni. Perché opporsi alla guerra dovrebbe implicare l'avversione nei confronti degli insorti, l'indifferenza verso la loro domanda di libertà e addirittura il sostegno a Gheddafi e alla sua azione militare? Perché mai affermare la necessità di proteggere l'insurrezione dalla controffensiva delle forze lealiste imporrebbe di ignorare il contesto internazionale in cui è maturata la decisione del Consiglio di sicurezza e gli inconfessabili propositi di Sarkozy e di Cameron? Perché risulta così arduo, questa volta, tenere la posizione di sempre: dire che Gheddafi va fermato ma che una guerra è inaccettabile? che la «comunità internazionale» ha (avrebbe avuto) un solo compito: interporsi e imporre immediatamente il cessate-il-fuoco e il negoziato tra le parti?

Non ho la pretesa di conoscere la risposta, quindi mi limito a formulare due ipotesi. La prima è che siamo rassegnati all'impotenza e per questo subiamo, prima ancora delle ragioni prevalenti (in questo caso, l'idea della necessaria difesa armata dell'insurrezione), la rappresentazione delle alternative sulle quali prendere posizione. Pesa a tal punto la sconfitta del movimento contro la guerra, che, pur di conservare un ruolo attivo nel dibattito pubblico, accettiamo - certo inconsapevolmente - di inscrivere i nostri giudizi nel quadro discorsivo imposto all'opinione pubblica. La seconda ipotesi, che non esclude la prima, chiama in causa la cultura politica di ciò che resta della sinistra.

Sbaglierò, ma ho l'impressione che i democratici imputino ai geopolitici di non essersi ancora sbarazzati della strumentazione concettuale della critica dell'imperialismo, che essi considerano arcaica e per di più contaminata dall'esperienza del movimento comunista novecentesco. Questa pervicacia intellettuale appare imperdonabile, nella misura in cui attesta il rifiuto di congedarsi senza riserve da una storia che anche a sinistra si considera in toto indifendibile. Se le cose stanno così, sarebbe il caso di discuterne seriamente, perché nessuno può illudersi che con la Libia il capitolo delle «guerre democratiche» si chiuderà per sempre. Nel 1983 Reagan creò un organismo (il National Endowment for Democracy) che aveva il compito di promuovere la «global democratic revolution» e mentre gli Stati Uniti attaccavano per la seconda volta l'Iraq qualcuno propose l'istituzione di un sottosegretariato di Stato per la «defenestrazione dei dittatori». Forse ha ragione chi sostiene che, andato a casa Bush, è cominciata un'altra epoca e che nella guerra contro Gheddafi l'imperialismo americano o franco-inglese non c'entra niente. O forse l'imperialismo, che non è una categoria etica, magari c'entra ancora, ma in modo diverso e perfino più cogente. Comunque, varrebbe la pena di vederci più chiaro.

Quella che segue è una parte dell’introduzione di Gianfranco Pasquino al libro «La rivoluzione promessa. Lettura della Costituzione italiana» (Bruno Mondadori) , da giovedì in libreria

Le Costituzioni moderne sono soprattutto carte che codificano le libertà; sanciscono diritti e doveri dei cittadini; delineano i rapporti fra cittadini e le istituzioni; specificano la divisione dei poteri e i limiti del loro esercizio a opera di ciascuna istituzione e di coloro che vi sono preposti. Oggi, possiamo affermare con sicurezza che le Costituzioni danno forma a un sistema politico, e potremmo aggiungere che dove non c’è una Costituzione non esiste, pur con la luminosa eccezione della Gran Bretagna, democrazia. Tutti i sistemi politici che si sono affacciati alla democrazia, negli ultimi trent’anni alcune decine, si sono dati Costituzioni il cui elemento centrale è rappresentato dal riconoscimento e dalla garanzia dei diritti dei cittadini. Molto spesso i rispettivi costituenti hanno approfittato della possibilità, qualche volta una vera e propria necessità, di scrivere la Carta costituzionale per delineare anche il tipo di sistema politico, sociale ed economico da loro preferito. Nessuna Costituzione contemporanea potrebbe oggi fare a meno di offrire spazio al mercato e alla concorrenza economica. Né potrebbe tralasciare di regolamentare tutto quello che attiene all’istruzione, al lavoro, alla salute dei suoi cittadini.

Tra il 1946 e il 1948 i costituenti italiani ebbero la grande opportunità di collaborare alla stesura della prima vera e propria Carta costituzionale della Repubblica democratica italiana. Da uno dei più autorevoli di loro, per statura intellettuale e conoscenza del diritto, Piero Calamandrei, vennero contributi significativi, ma anche forti critiche al testo approvato. In particolare, Calamandrei, giurista positivista, manifestò forte contrarietà alle norme programmatiche, quelle che indicano quanto deve essere fatto, che, per l’appunto, delineano un programma. Quando, pochi anni dopo la promulgazione, Calamandrei si trovò a fare un bilancio, ancorché preliminare, della Costituzione italiana, affermò con una frase memorabile che era una«rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata».

Negli articoli della Costituzione, addirittura nel suo impianto complessivo, stava un disegno di trasformazione dei rapporti politici, sociali ed economici che, almeno in parte, rifletteva le grandi e nobili aspirazioni della Resistenza, ovvero la «rivoluzione mancata».

Quella di Calamandrei non era soltanto una frase a effetto. Purtroppo la fase di applicazione della Costituzione non si è mantenuta fedele alle sue promesse e alle norme programmatiche. La storia della Repubblica italiana spiega il perché delle inadempienze, ma non può giustificarle, anche se la guerra fredda (1946-1989) sicuramente non facilitò scelte che la Costituzione suggeriva e incoraggiava. In seguito, lo strapotere dei partiti, ovvero la partitocrazia, tutt’altro che un fenomeno inevitabile e meno che mai insito nella Costituzione italiana, provocò non poche inadempienze e distorsioni costituzionali.

Da più di tre decenni, ormai, l’attenzione si è spostata e si è concentrata sulle istituzioni e sulla loro riforma, spesso addirittura esclusivamente sul sistema elettorale, nella ricerca spasmodica della formula che convenga maggiormente a partiti che si sono alquanto indeboliti, ma che rimangono gli attori politici dominanti. È probabile che i costituenti, non soltanto Calamandrei, guarderebbero preoccupati, se non addirittura inorriditi, alle proposte particolaristiche di cambiamento delle regole e delle istituzioni. Preoccupazione e orrore non deriverebbero affatto da una loro difesa a oltranza, come fanno alcuni politici, giuristi e intellettuali italiani, di tutto il testo costituzionale quasi fosse un oggetto sacro. Al contrario, pochi di loro riterrebbero la Costituzione immodificabile poiché le modalità delle eventuali modifiche sono chiaramente indicate e regolate. I costituenti non meritano l’appellativo di «conservatori istituzionali». Si chiederebbero, però, se la classe politica italiana ha davvero operato per tradurre la rivoluzione promessa in quelle riforme politiche, sociali ed economiche che renderebbero migliore l’Italia.

La lettura del testo costituzionale, effettuata senza interferenze politicizzate e senza paraocchi ideologici, consente di cogliere in molti articoli le potenzialità tuttora vive di una trasformazione profonda dell’Italia, anche grazie al suo inserimento, previsto in maniera lungimirante, negli organismi europei e nelle istituzioni internazionali.

Credo che sia doveroso sottolineare che i problemi politici, sociali, economici e istituzionali italiani non hanno nessuna radice negli articoli della Costituzione, anche se alcuni articoli sono, senza dubbio, da rinfrescare e da ritoccare, talvolta anche da riscrivere. Ma la rivoluzione promessa è ancora tutta davanti a noi, perseguibile e conseguibile. La Repubblica alla quale i costituenti hanno affidato il compito ambiziosissimo ed esigentissimo di rimuovere gli ostacoli che «impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale» siamo noi, cittadini e detentori di cariche politiche a tutti i livelli. La responsabilità maggiore è sempre quella di chi ha più potere politico, ma qualsiasi rivoluzione, anche pacifica, da effettuarsi attuando le norme programmatiche, ha bisogno diunampio sostegno popolare e di una convinta partecipazione di cittadini informati. Sono entrambi elementi che una buona conoscenza della Costituzione è in grado di costruire e potenziare. Era la speranza dei costituenti italiani. È rimasta tale.

Tutti i diritti riservati © 2011, Pearson Italia, Milano - Torino. Prima edizione: marzo 2011

Neppure l’oppositore più prevenuto avrebbe potuto attribuire a Berlusconi le parole che ha realmente pronunciato presentando il suo progetto sulla giustizia: con questa legge - ha detto - non vi sarebbero mai state le indagini di Mani pulite. In altri termini, non sarebbe mai stato rivelato ai cittadini il degrado etico-politico che ha portato all’agonia e al tracollo della "Prima Repubblica". Il premier ha aggiunto: desidero questa legge dal 1994.

Cioè dal momento in cui il suo populismo antipolitico ha potuto affermarsi sulle macerie di un sistema partitico minato dalla corruzione e incapace di rinnovarsi. Perché Berlusconi ha voluto e potuto proclamare ad altissima voce opinioni e propositi che anni fa sarebbero stati vissuti dal sentire comune del Paese come un vero e indecente vulnus?

Perché, anche, ha fatto una dichiarazione di guerra così aperta alla magistratura e alla Costituzione proprio alla vigilia di processi che ha tentato di evitare in tutti i modi e con tutti i lodi possibili, entrando in ripetuto conflitto con la Corte Costituzionale e con la Presidenza della Repubblica (con Ciampi prima, e con Napolitano poi)?

Si tratta di una vera prova di forza - favorita dal dissolversi di una possibile "destra diversa" e dall’ormai cronico stato di confusione del centrosinistra - o è l’escalation di una pericolosissima debolezza?

Il progetto proposto è senza dubbio una "contro-riforma incostituzionale", come ha scritto Massimo Giannini, basata sul predominio del potere politico sul potere giudiziario, in dispregio di quell’equilibrio fra poteri che è alla base di ogni Costituzione democratica.

Se avesse una maggior dimestichezza con la storia patria Berlusconi forse evocherebbe, nelle sue ville e nelle sue feste, quell’articolo dello Statuto Albertino secondo cui "la Giustizia emana dal Re ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch’Egli istituisce". In questo scenario la riabilitazione della corruzione politica degli anni Ottanta - di questo si tratta - ha il senso di un atto simbolico interamente proiettato sul presente e sul futuro. E ha trovato, al solito, incauti ed entusiasti seguaci.

L’entusiasmo ha reso un pessimo servizio al direttore de "Il Giornale", che ha iniziato un suo editoriale di damnatio della magistratura evocando addirittura il 1974 ed attaccando frontalmente l’allora magistrato Luciano Violante, reo d’aver incriminato per tentato golpe Edgardo Sogno. "Una bufala", scrive elegantemente Sallusti. Peccato che lo stesso Sogno poco prima di morire abbia ammesso che l’accusa era pienamente fondata, e abbia affidato la sua testimonianza a un libro scritto con Aldo Cazzullo (è stato pubblicato dieci anni fa dalla Mondadori e ristampato di recente: il direttore del "Giornale" non dovrebbe avere difficoltà a procurarselo).

In quello stesso 1974 alcuni giovani pretori portavano alla luce le tangenti petrolifere e documentavano in modo inoppugnabile un salto di qualità decisivo della corruzione: non più somma di episodi ma metodo, con percentuali concordate e procedure sempre più "istituzionalizzate".

Scavò qui la talpa del degrado - non della rivoluzione, come avrebbe voluto il vecchio Marx - che portò alla crisi del "sistema dei partiti", e gli anni Ottanta furono il decennio della sua escalation. Una escalation che era sembrata allora tanto evidente quanto inarrestabile, ampiamente documentata dai processi che progressivamente si allargarono alle più differenti parti del Paese.

Era il 1984 quando un vicepresidente della Camera, di solida appartenenza democristiana, dichiarava: "Hanno reso fiorente la cultura della tangente tanto da farne la ragione di ogni attività politica". E negli anni successivi i principali quotidiani, con parole sempre più attonite e convergenti, ebbero a segnalare appunto l’affermarsi della tangente come "taglia permanente, tassa di cittadinanza", o di un potere "che incombe come fardello imposto alla società sotto forma di lottizzazioni e tangenti". O, ancora, l´"incrociarsi della corruzione dall’alto e di quella dal basso".

Di fronte alla realtà che le indagini rivelavano, Norberto Bobbio scrisse che una fine così miseranda della "Prima Repubblica" era l’espressione del fallimento di tutta una nazione. Non del solo ceto politico: dell’intero Paese.

L’incapacità di interrogarsi su quel nodo, la volontà di autoassolversi (un tratto non effimero della nostra storia) favorirono una rimozione profonda, e grazie ad essa fece progressivamente le sue fortune il progetto berlusconiano di imporre nuove e più solide forme di impunità. Un progetto sempre più esplicito e sempre più condiviso all’interno del centrodestra, i cui esponenti hanno dichiarato a più riprese nell’ultimo periodo: Berlusconi non farà la fine di Craxi perché, a differenza del Psi, il Pdl farà muro. Hanno cioè dichiarato: la salvezza del premier non risiede nella sua innocenza ma nella salda omertà di un partito in cui le "cricche" sono diventate cemento e ragion d’essere.

Su un punto il premier ha ragione: il rovesciamento incostituzionale che oggi vuol portare a termine è stato preparato in un lunghissimo scorrere di anni. E non sarebbe stato possibile senza gravissimi errori compiuti dal centrosinistra negli anni stessi in cui ha governato.

Non fu rimosso allora il conflitto di interessi, destinato così a ingigantirsi, e - ancor di più - vi furono vistosi cedimenti di fronte ad una offensiva che si basava sugli stessi cardini del disegno di legge attuale: l’attacco alla obbligatorietà dell’azione penale e la subordinazione della magistratura al potere politico. Fu questa offensiva ad avere troppo larghi spazi nella Commissione Bicamerale, favorita dalla insipiente illusione del centrosinistra di "normalizzare" Berlusconi (e il berlusconismo). Nel momento stesso in cui affossava la Commissione il Cavaliere andò a dire a un convegno dei giovani industriali: fino a quando il potere politico non diventerà il "dominus" dell’azione giudiziaria non si potranno fare riforme in Italia (lo sottolineava con chiarezza su questo giornale Eugenio Scalfari: era il 1998).

Il progetto oggi giunge a termine, e anche oggi intreccia obiettivi concreti e atti altamente simbolici: atti destinati comunque a lasciare il segno, a scavare a fondo in un terreno che è diventato sempre più friabile, perlomeno nelle stanze della politica. E il vero bersaglio, come nei recenti (o recentemente reiterati) attacchi alla scuola pubblica, è l’essenza stessa della Costituzione.

Alcuni anni fa Christoper Lash osservava che nel mondo contemporaneo la democrazia corre seri rischi non tanto per intolleranza quanto per indifferenza. In Italia, oggi, non è più solo così: intolleranza e arroganza del potere non sembrano avere limiti, e solo la fine dell’indifferenza potrà porvi rimedio. Solo la difesa intransigente di principi e valori irrinunciabili.

Da anni, lo sappiamo, la Costituzione è sotto attacco. Un attacco che, negli ultimi tempi, è divenuto sempre più diretto, violento, sfacciato. Le proposte di modifiche costituzionali riguardanti la giustizia ne sono l’ultima conferma. Per questo siamo qui, per contrastare una volta di più una voglia eversiva dei fondamenti della Repubblica.

Sedici milioni di cittadini, ricordiamolo, hanno saputo difendere la Costituzione e i suoi principi il 25 e il 26 giugno 2008, votando contro la riforma costituzionale voluta dal centrodestra.

Ma quella straordinaria giornata è stata troppo rapidamente archiviata. Da chi ha tratto un frettoloso sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. E da chi si era preoccupato di dire che la bocciatura di quella riforma non doveva pregiudicare la necessaria riforma costituzionale. E così quel voto non ha costituito il punto di partenza per una nuova consapevolezza costituzionale, neppure per le timorose forze politiche d’opposizione che pure avevano sostenuto il referendum contro quella riforma.

Così è tornato con prepotenza il progetto di mutare alla radice la tavola dei valori di riferimento, la Costituzione, fuori da ogni regola condivisa, ora facendo prevalere interessi particolari se non personali, ora lasciando spazio a pressioni di matrice ideologico-religiosa che vogliono agire in presa diretta sul funzionamento del sistema politico. Gli equilibri istituzionali ne risultano sconvolti, le tutele giudiziarie sono contestate, la garanzia di libertà e diritti, perduta nel Parlamento, si rifugia nella Presidenza della Repubblica e, soprattutto, nella Corte costituzionale.

Ma, in tempi così perigliosi, la Costituzione sta conoscendo una rinnovata e inattesa attenzione. Parlar di Costituzione ha un suono benefico e sta producendo una identificazione con essa di un numero crescente di persone, consapevoli della necessità di essere esse stesse protagoniste di una azione di promozione e difesa dei diritti. In questo momento, in decine di città, vi sono flash mobs di studenti che distribuiscono copie della Costituzione, come già quel prezioso libretto era stato impugnato in tante altre manifestazioni. La Costituzione sta incontrando il suo popolo. E questo popolo è consapevole che la politica deve essere in primo luogo, e sempre, politica costituzionale, se vuole riguadagnare la sua forza e la sua nobiltà.

Questo è un estratto dell’appello che sarà letto oggi in Piazza del Popolo a Roma nella manifestazione "A difesa della Costituzione"

Ringrazio Paolo Franchi che, sul Corriere della Sera di lunedì, dà conto in modo intelligente del dibattito che, a proposito della Libia, si è animato sulle pagine del manifesto. Nel suo articolo non gli viene infatti neppure in mente di accusare Rossana, Valentino e me di connivenza con Gheddafi e, riferendosi alla nostra domanda di riflessione sulla parabola tragica dei regimi nati dalla lotta anticoloniale, riconosce che effettivamente «esattamente di questo sarebbe bene discutere. Non cancellando la storia, ma prendendo atto della durezza delle sue repliche».

Franchi ritiene che nell'accapigliarsi attorno a questo problema emerga fra lettori e scrittori del manifesto una divaricazione generazionale: i giovani che gridano boia sempre, i vecchi che chiedono di ricordare un passato che quaranta-cinquanta anni fa ha riscosso enormi consensi popolari. Credo abbia ragione: anche in questo caso scopro con smarrimento le dimensioni della rottura che fra anziani e giovani si è verificata, in che misura la storia del Novecento sia stata cancellata, l'intero secolo scorso solo un cumulo di orrori. Non è solo fenomeno italiano: anche i ragazzi egiziani che hanno affollato piazza Tahrir e sono tutti nati molto dopo la morte di Nasser sembra che di quel raìs non abbiano più memoria e a loro è presente solo l'immagine del suo orrendo successore. E la stessa cosa si può probabilmente dire per i giovani libici che, forse, neppure sanno bene com'è che un gruppo di giovani ufficiali, usciti dalla sofisticata accademia militare britannica, abbiano preso il potere a Tripoli e a chi lo hanno strappato. Un po' più ricordano certo i ragazzi algerini, perché l'epopea della guerra di indipendenza ha avuto in quel paese ben altre proporzioni, ma anche lì il senso di quella storia appare ormai svilito da quanto le è succeduto. Niente indubbiamente ricorda Igiaba Scego delle vicende del suo paese, che ha conosciuto una parabola altrettanto tragica. Anche in Somalia all'origine, negli stessi anni '60, ci fu un golpe militare che cacciò un'èlite corrotta e servile e avviò un rinnovamento importante. Tant'è vero che ne furono protagonisti giovani ministri onesti e intelligenti. Finiti poi in carcere e persino condannati a morte per mano dello stesso generale Siad Barre che pure, nel quadro di una svolta positiva, aveva loro affidato responsabilità di primo piano (vorrei ricordare qui ancora una volta il nostro amico Mohamed Aden Schek, deceduto solo qualche mese fa, che di questa tremenda involuzione è stato vittima e protagonista).

Come è potuto accadere? Troppo facile è rispondere che non poteva che finire così perché un colpo di stato militare, anche il meglio intenzionato, non è una rivoluzione. Perché non è un caso se in tutta l'Africa a prendere il potere nell'era postcoloniale sono stati i militari, giacchè erano gli unici che allora, in quei paesi, sapevano leggere e scrivere, e che, in assenza di una società civile strutturata, rappresentavano la sola istituzione nazionale esistente. E facilone, lasciatemelo dire, è ritenere che abbiano fatto solo danni, sin dal primo giorno. Per ognuno dei paesi di cui stiamo discutendo la letteratura è ampia e di prim'ordine, la consiglio a chi abbia voglia, anziché di sputare sempre sul passato, di farsi un'opinione. E questo vale anche per il colonnello Gheddafi, che ho definito spavaldo ricordando come ha tenuto testa ad un'aggressività americana che è giunta sino a bombardare Tripoli e ad ammazzargli una figlia. Ho usato l'aggettivo anche ricordandolo - ero pure in questo caso lì come inviata del - ad Algeri, nel settembre 1973, in occasione del summit dei non allineati (e il ministro degli esteri cileno, Almeida, era rientrato precipitosamente in patria perché Pinochet stava già muovendosi). Dinanzi ad una platea di sceicchi petrolieri vestiti di bianco, e di uno spaurito drappello di rappresentanti di paesi obbedienti a Mosca, nel peggior periodo di una coesistenza pacifica intesa come rigido status quo, andò alla tribuna e disse: «Voi non allineati? Ma fatemi ridere, siete tutti allineati da una parte o dall'altra, siete un branco di mercanti». Perché Gheddafi era così, rozzo ma senza peli sulla lingua. Un amico algerino mi disse una volta di lui: «Non è la testa del mondo arabo, ma è la sua pancia» («entrailles», disse), con ciò volendo indicare proprio la sua selvaggia rudimentale protesta, che però coglieva un sentire profondo della sua gente.

Quella spavalderia di allora col tempo è diventata una maschera ributtante, le sue iniziative politiche da stravaganti sono diventate tragicamente ridicole. E se oggi ricordo - i vecchi servono del resto a questo - lontani episodi del genere, non è per amnistiarlo delle tante orribili cose fatte successivamente, ma perché proprio quei fatti rendono ancora più angoscioso l'interrogativo che ci siamo posti: perché, ovunque, è finita così male? Cosa è accaduto, in quelle società e a livello internazionale (perché si è prodotta una parabola catastrofica) perché ovunque è degenerazione? Sarebbe stato possibile un altro esito? E se sì cosa avrebbe dovuto esser fatto, da quei popoli e da noi?

Diffido sempre quando si invoca la libertà ma non ci si fa carico di disegnare un processo di liberazione, perché la libertà non è un concetto astratto, è una conquista storica che intanto è possibile se si fanno i conti con il proprio contesto. Analizzare il passato, con tutte le sue contraddizioni, serve a questo e c'è da augurarsi che questa dolorosa operazione venga fatta dai giovani che hanno avuto il coraggio di uscire dalla passività e dalla rassegnazione per porre fine a regimi ormai imputriditi. Nella prossima fase della loro lotta, forse ancora più difficile, sarà loro indispensabile rileggere il passato.

Riportiamo di seguito gli articoli di Luciana Castellina (il manifesto, 23 febbraio), Rossana Rossanda (il manifesto, 24 febbraio) e Paolo Franchi (Corriere della sera, 28 febbraio)

il manifesto, 23 febbraio 2011

Tragico epilogo

di Luciana Castellina

Ha finalmente parlato, il vecchio leone libico. Ancora spavaldo, ma un'immagine tristissima, patetica, di un uomo obnubilato dalla solitudine e dal distacco dal resto dell'umanità che solo il potere dittatoriale possono produrre. Fino a dire che le piazze gremite di libici pronti a farsi ammazzare perché il suo regime crolli, sono solo agenti stranieri. E, pronto a morire da martire, ha tragicamente incitato alla fine alla guerra civile.

Eppure non è stato sempre così. Tutti gli anticolonialisti gioirono quando il giovane tenente, assieme ai suoi amici usciti dalle accademie militari britanniche ma nati e cresciuti nel deserto, presero il potere, deposero re Hidriss, marionetta dell'Impero britannico, e posero fine ad un sistema feudale.

Era il 1969. Nel gennaio del '70 Muammar Gheddafi tenne la sua prima conferenza stampa internazionale. Partecipai all'evento con un gruppo di giornalisti italiani. Io ero lì per Noi Donne e ricordo bene il viaggio perché, bloccati da una tempesta di sabbia all'areoporto di Bengasi, a sera inoltrata, l'inviato dell'Unità, Arminio Savioli, guardò l'orologio e mi disse: «A quest'ora sei già fuori dal Pci». Proprio in quelle ore, infatti, la Commissione federale di controllo di Roma aveva varato l'ultimo atto del mio processo di radiazione, causa il manifesto.

A Tripoli l'entusiasmo popolare era incontenibile. Anche noi felici che un nuovo capitolo nella storia di un paese in cui l'Italia si è comportata nel peggiore dei modi, fosse iniziato. E infatti Gheddafi annuncia riforme profonde che cambieranno effettivamente in meglio la condizione dei libici.

Pochi mesi più tardi sono al Cairo - questa volta già per Il Manifesto rivista, per cui ho seguito ad Amman il «Settembre nero» - partecipe di un evento inatteso, luttuoso e forse non naturale: la morte improvvisa del comandante Nasser. Ho lasciato i palestinesi in lacrime, qui i funerali sono giganteschi, milioni di egiziani piangono, con commozione reale, l'uomo che ha impersonato il sogno del riscatto arabo, nazionalizzato il canale di Suez, retto all'urto dell'intervento armato franco-britannico, artefice del progetto di unificazione della nazione araba.L'Algeria fu storia solo di poco precedente: per la mia generazione fu come il Vietnam per quella del '68.

Ricordo questi eventi di cui sono stata testimone perché è incredibile che oggi la sacrosanta ribellione popolare del Maghreb e del Mashrak, così come dei popoli più a sud del continente africano, sia dipinta come l'esplosione di un malcontento secolare di popoli che non hanno avuto luci e il cui passato sia stato solo fanatismo e oppressione. Non è così, negli anni '60, anche qui c'è stata una straordinaria mobilitazione in favore di una rottura che ha imbastito una svolta sostenuta da uno straordinario consenso. Che ha introdotto riforme modernizzatrici e laiche ( fra le altre anche quella alfabetizzazione che oggi consente la rivolta).Non solo localmente: questi sono i paesi che proprio in quegli anni sono stati - raggiungendo Tito, Nehru, Ciu en lai, Sukarno nel patto di Bandung - protagonisti di quel grande fatto che fu la nascita del movimento dei non allineati.

Se si vuole giudicare quanto avviene oggi occorre domandarsi perché queste che non sono state rivoluzioni in senso proprio, ma certo straordinari sommovimenti popolari, siano finiti così: con regimi dittatoriali brutali e corrotti, insidiati dal fondamentalismo, le speranze spezzate, l'unità frantumata, la solidarietà con la Palestina calpestata, la memoria della loro storia perduta, il solo miraggio la disperata traversata del Mediterraneo verso il nord ex colonialista e oggi arrogante reclutatore di schiavi.

Le risposte sono complesse, ma una cosa intanto va detta: anche in questo caso riemerge con incredibile evidenza la cancellazione della storia che è stata operata in questi decenni. Riesumarla sarebbe necessario per sottolineare, non solo i limiti fatali di ogni mutamento affidato a vertici che per una fase possono anche sembrare illuminati, ma presto diventano responsabili di inauditi rovesciamenti, ma anche per capire quanto nei meccanismi che hanno portato all'imbarbarimento abbiano giocato le tremende complicità occidentali, che non hanno nemmeno esitato ad alimentare il peggior fondamentalismo islamico pur di procedere alla riconquista di territori che si erano almeno parzialmente emancipati. Per non parlare dell'uccisione del premier Mossadeq, di cui quando piangono sull'Iran non fanno nemmeno un gesto per ricordarlo.

È stato detto da qualcuno che quanto accade oggi nel mondo arabo è l'equivalente dell'abbattimento del Muro, nel 1989: un'esplosione di libertà. Sì, certo, ma l'89 non è stato solo questo. Ha anche prodotto, sia all'est che al sud, l'appropriazione privata, da parte di famiglie o di élites già potenti, della ricchezza che il socialismo reale, pur con tutti i suoi gravi difetti, aveva reso patrimonio comune e che il nostro occidente si è subito premurato di dissolvere. Anche gli odierni oligarchi russi e le ricchezze dei Mubarak e Ben Ali sono frutto dell'89. Che ha riportato, sanguinosamente, l'attualità della guerra perfino nel cuore d'Europa e che ha significato il fallimento di ogni tentativo di autonomia da parte dei popoli del terzo mondo. Il loro incartarsi in difficoltà insormontabili e fatalmente nei tragici errori che queste hanno in gran parte determinato, è anche dovuto al mondo unipolare degli ultimi decenni, che non ha offerto più margini per liberarsi dal pensiero unico. Che in occidente ha una faccia democratica, altrove dittatoriale. Anche la rivoluzione sovietica non è finita gran che bene, ma, santiddio, per qualche decennio ha consentito a una parte del mondo - il terzo in particolare - di alzare la testa.

Non scrivo queste cose per attenuare le responsabilità dei rais arabi, ma al contrario per evitare semplificazioni che non aiuteranno i ragazzi che stanno sacrificandosi per la democrazia dietro le barricate di Tripoli e altrove.

il manifesto, 24 febbraio 2011

Illusioni progressiste

di Rossana Rossanda

Luciana Castellina fa la domanda giusta: come è successo che uomini e movimenti sui quali erano state riposte tante speranze ed erano stati magnifici nelle lotte di liberazione siano arrivati al punto di sollevare il rancore di tanta parte del loro popolo? Le rivolte nel Maghreb e nel Medio Oriente ci interpellano su questo. E così la reazione dei dirigenti al potere, specie di quelli che lo avevano preso con impeto progressista - il libico Muammar Gheddafi e il governo derivante dal Fln algerino.

Non è una domanda diversa da quella che dovremmo farci sul perché le rivoluzioni comuniste hanno subito la stessa sorte. Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler, stessa razza, tesi degli storici post 1989), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e del resto non fa che spostare la domanda: perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader? Nel caso di Gheddafi, con le sue uniformi rutilanti e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l'elemento di delirio è evidente, come i zigzag nei rapporti con le potenze occidentali e il terrorismo. Anche lui all'inizio non parve affatto demente, e non lo era.

Sarebbe interessante seguire alcune ipotesi, anche per l'immediato futuro dei movimenti che stanno scuotendo i paesi arabi. La prima è capire la natura illusoria di un anticolonialismo, spesso declinato come antimperialismo e, più raramente, anticapitalismo, affidato, in presenza di masse incolte, a un'avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e, anche per mezzo di Costituzioni ad hoc, lo difende non solo dagli avversari ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente" un nemico. E spesso lo è o lo diventa, perché una lotta anticoloniale non si svolge nel vuoto ma in presenza di grandi poteri politici ed economici, che intervengono in ogni spazio o contraddizione presente nel "processo rivoluzionario".

Il quale si difende con misure aspre, ma che sembrano giustificate anche ad osservatori esterni, perché la storia è complicata. Chi avrebbe detto che l'opposizione allo scia di Persia, Reza Palevi, sarebbe stata guidata da un movimento religioso fondamentalista? La Cia non lo aveva sospettato, e molti di noi si sono detti che, dunque, il progresso si fa anche per vie inaspettate, penso non solo al manifesto, ma a Michel Foucault. Invece sbagliavamo come sbagliano Chavez o Lula quando invitano Amadhinejad.

In questo errore è grande la responsabilità dell'Urss da quando difende soltanto i suoi interessi come stato, (e in essi a medio termine perde e si perde), ma anche dei partiti comunisti, che in essa e nelle sue politiche hanno visto la sola barriera rimasta dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa. Quando a Bandung, su iniziativa jugoslava, si delineò il blocco dei paesi non allineati, si deve individuare la causa della loro breve sopravvivenza soltanto nell'antipatia per essi nutrita dalle due superpotenze? Le loro intenzioni di pace erano forti, ma il loro modello sociale era debole. Molto più grave, la decolonizzazione passò presto - liquidati i Patrice Lumumba o Amilcar Cabral - attraverso la formazione di borghesie nazionali (anche su di esse per un certo tempo il movimento comunista sperò) o su forze che, partite anticapitaliste o progressiste attraverso forme di proprietà pubblica, presto soggiacquero o ai problemi di una crescita tutta statalizzata, lo stato ridotto alla sua espressione più rozza, ogni forma di controllo dal basso inesistente o,peggio, a forme diverse di corruzione. Libia e Algeria, in possesso di grandi fonti di energia, sono due esempi affatto diversi di un sequestro di potere che ha sottratto da ogni partecipazione le stesse popolazioni cui erogava alcuni servizi che ne facevano crescere i bisogni, ma che non ha mai coinvolto se non in una rete, più o meno trasparente, di affari o da appelli basati sull'emotività.

E sulle quali la mondializzazione ha indotto un doppio processo: coalizza al vertice le forze economiche, utilizzando gli stati come una agenzia di affari di ambigua proprietà, e produce una immensa massa di lavoratori sfruttati ma in parte crescente acculturati, e dotati di mezzi di comunicazione sconosciuti ai dannati della terra di quaranta anni fa: la folla in piazza Trahir era in possesso di telefonini e conosceva in buona parte Internet, attraverso la quale si era in buona parte formata. Gli sfruttati e oppressi di oggi non sono più gli umiliati e oppressi di allora. Né sono soltanto, come ci è piaciuto di credere dopo l'11 settembre, massa di manovra di imam fondementalisti. Questo nuovo tipo di proletariato - che tale è - non sta più facilmente ai progressismi dispotici, dai quali ha tratto in passato alcuni benefici. E' esso che ha invaso le piazze, che fa vacillare i regimi, che si è fatto scivolar di dosso l'egemonia dell'islamismo in una sua secolarizzazione, esclusion fatta per il potere della dinastia wahabita dell'Arabia saudita. E soprattutto degli ayatollah iraniani, capaci nel medesimo tempo di sviluppare e tenere in gabbia con un sistema del tutto inchiavardato una sia pur riluttante "società civile", cui non permetterà di certo i sussulti del mondo arabo.

In Tunisia e in Egitto sono solo gli eserciti i bizzarri e pericolosi mediatori fra potere e popolazione. Pericolosi, perché anch'essi sono una casta chiusa, e per sua natura fortemente gerarchizzata, nella quale non si dà alternativa fra obbedienza e insurrezione, insurrezione e obbedienza, una necessariamente di seguito all'altra. Non penso, come alcuni amici, che sia da proporsi una sorta di scontro permanente fra movimenti aperti e istituzioni chiuse, e tanto meno che lo sviluppo della persona possa darsi un perpetuo lasciarsi ogni contesto alle spalle, come su questo stesso giornale si suggeriva ai tunisini che sono sbarcati a Lampedusa. Forse qualcuno crescerà nell'esodo, ma non saprei proporre a chi ha appena sbarazzato il paese da una autocrazia di andarsene altrove, non occuparsi di ridare un senso al tessuto sociale da cui viene, e tanto meno di passare nel nostro continente, chiuso in un suo declino. In tutti i paesi dove una forma di dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l'articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto, una folla generosa ma atomizzata, e che tale voglia restare, sarà sempre prima o poi preda di un nuovo potere. Non per niente i totalitarismi vietano l'esistenza di corpi intermedi che non siano una loro diretta emanazione.

Il problema delle rivolte arabe - che forse non è giusto neppure chiamare tali - è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo. E' un problema anche nostro, e siamo lungi dall'averlo risolto se, nel caso italiano, siamo paralizzati da un personaggio di modesto livello come Berlusconi. C'è in occidente un malessere della democrazia rappresentativa che è impossibile ignorare. Ma non lo risolveremmo se scagliassimo qualche moltitudine su un Palazzo di Inverno; la storia dovrebbe averci insegnato anche questo. La domanda, spalancata oggi dalle folle vincenti di Tunisi e del Cairo, o dalle battaglie in atto in Libia, non è diversa da quella che è venuta maturando nella nostra desolante quotidianità.

Corriere della sera, 28 febbraio 2011

Un despota o antico liberatore?

Gheddafi imbarazza ancora la sinistra

di Paolo Franchi

M a chi è Muhammar Gheddafi? Una «bestia immonda» , come lo definisce la lettrice Iglaba Scelgo? Un «dittatore sanguinario» , come scrive l’abbonata Mariletta Calazza? Oppure il «vecchio leone ancora spavaldo» nonostante la sua immagine sia quella «tristissima e patetica di un uomo obnubilato dalla solitudine» di cui scrive Luciana Castellina? O il leader «invecchiato» e travolto dalla propria «vanità» , certo, e però a lungo protagonista «non solo in Africa di uno straordinario tentativo di innovazione, che andava apprezzato e sostenuto» , che Valentino Parlato continua a difendere? Il manifesto sta, si capisce, dalla parte della rivolta. E neppure sta troppo a chiedersi, come fa invece Liberazione, se per caso quella libica non sia «una guerra civile sponsorizzata dalle potenze capitalistiche» . Ma su Gheddafi al manifesto si discute. Anzi, ci si accapiglia. E si tratta di una discussione che potrebbe diventare molto istruttiva, e anche utile. Sin qui, somiglia a un conflitto generazionale. A rifiutarsi al giudizio sommario (e in certi casi, come quello di Parlato, a chiedere quanto meno l’onore delle armi al colonnello) sono soprattutto i grandi vecchi del quotidiano comunista; e sono soprattutto, anche se non soltanto, i redattori e i lettori più giovani a indignarsene.

Ha cominciato Luciana Castellina, ricordando che nel ’ 69, quando il «giovane tenente» prese il potere, «tutti gli anticolonialisti gioirono» , come avevano gioito per la vittoria di Nasser, «l’uomo che ha impersonato il sogno del riscatto arabo» , e ancor più per l’Algeria, qualcosa di assai simile, per la sua generazione, a quello che fu il Vietnam per la generazione del Sessantotto. Non c’è dubbio, scrive Castellina, «la ribellione del Maghreb e del Mashrak è sacrosanta» , ma non si può rappresentarla come l’esplosione del malcontento secolare di popoli che hanno conosciuto solo «fanatismo e oppressione» . Per chi sta a sinistra, e soprattutto per chi ci è stato, guardando alla Libia, all’Egitto, all’Algeria, la domanda (terribile) è tutta diversa: «Perché queste che non sono state rivoluzioni in senso proprio, ma certo straordinari sommovimenti popolari, sono finite così?».

Ecco, esattamente di questo sarebbe bene discutere. Non cancellando la storia, ma prendendo atto della durezza delle sue repliche. Lo scrive apertis verbis Rossana Rossanda. Che allarga la domanda a un fallimento ancora più clamoroso, quello delle rivoluzioni comuniste: «Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler stessa razza, tesi degli storici post ’ 89), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e d’altronde non fa che spostare la domanda. Perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader?» . Rossanda azzecca, almeno in parte, anche la risposta. La prima illusione tragica (ma anche, alla lunga, colpevole, aggiungerei) è consistita, scrive, nell’affidarsi «in presenza di masse incolte, a un’avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e (…) lo difende non solo dagli avversari, ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente"un nemico» . E forse corre rischi analoghi anche «la folla generosa ma atomizzata» che affolla e insanguina del proprio sangue le piazze in Paesi in cui «un dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l’articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto» . Anche «il problema delle rivolte arabe (…) è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo» . Irritati dalle provocazioni di Parlato, che al Sole24Ore ha detto di considerarsi tuttora «un estimatore convinto del colonnello» , i lettori del hanno scritto parecchie lettere contro di lui, riservando invece sin qui un’attenzione tutto sommato modesta all’intervento «menscevico» di Rossanda. Capita, di questi tempi, anche sul quotidiano diretto da Norma Rangeri, a chi si ostina a inerpicarsi in ragionamenti complessi, che non si lasciano imprigionare in un’immagine televisiva. Per quel che vale, la speranza è invece che la riflessione impietosa sollecitata da Luciana Castellina, e avviata da Rossanda, si allarghi, e non solo sul manifesto. Arrivando sin là dove nell’ 89 non aveva saputo o voluto arrivare. Una sinistra incapace di affrontare coraggiosamente i suoi ieri ha poco o nulla da dire sull’oggi. E ancora meno sul domani.

È bello che l’onorevole Gelmini, nel commentare le dichiarazioni del presidente del Consiglio sulla scuola, abbia citato la Costituzione. Peccato che l’abbia citata a sproposito, capovolgendone il senso. Secondo l’on. Gelmini, «Il pensiero di chi vuol leggere nelle parole del premier un attacco alla scuola pubblica è figlio della erronea contrapposizione tra scuola statale e scuola paritaria. Per noi, e secondo quanto afferma la Costituzione italiana, la scuola può essere sia statale, sia paritaria. In entrambi i casi è un’istituzione pubblica, cioè al servizio dei cittadini».

Ma la Costituzione non dice questo, dice il contrario (art. 33). Dice che «la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». Che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Dice che «la legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali». L’art. 34 aggiunge che «l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita», e prescrive che la Repubblica privilegi, con borse a aiuti economici alle famiglie, «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi».

La Costituzione stabilisce dunque una chiarissima gerarchia. Assegna allo Stato il dovere di provvedere all’educazione dei cittadini (obbligatoria per i primi otto anni) e di garantirne l’uguaglianza con provvidenze ai «capaci e meritevoli». Fa della scuola di Stato il modello a cui le scuole private devono adeguarsi, e non ipotizza nemmeno alla lontana due modelli di educazione alternativi e concorrenti. Ma come può esser mantenuta l’efficacia del modello, se la scuola pubblica viene continuamente depotenziata tagliandone personale e risorse, e per giunta irridendo chi ci lavora?

Lo smottamento in direzione della scuola privata comincia coi governi di centro-sinistra (decreti Berlinguer del 1998 e 1999, legge 62 del 2000, governo D’Alema), e coi governi Berlusconi diventa una frana: si taglia la scuola pubblica e si incrementano i contributi alla scuola privata, sia in forma diretta che con assegni alle famiglie, e senza alcun rispetto per il merito degli allievi. A meno che il merito non consista, appunto, nell’aver scelto una scuola privata. Ed è dal 1999 (riforma Bassanini) che il ministero oggi ricoperto dall’on. Gelmini non si chiama più "della Pubblica Istruzione", ma "dell’Istruzione" (senza "pubblica").

Anziché inveire contro «la scuola di Stato dove ci sono insegnanti che vogliono inculcare negli alunni principi contrari a quelli che i genitori vogliono inculcare ai propri figli», ipotizzando una scuola pubblica dominata dalla sinistra, Berlusconi dovrebbe dunque ringraziare la sinistra per aver inaugurato con tanto successo la deriva in favore della scuola privata. Ancora una volta, l’uomo che per il suo ruolo istituzionale dovrebbe rappresentare lo Stato e il pubblico interesse agisce dunque come il leader dell’anti-Stato. A una Costituzione che assegna allo Stato il compito di dettare regole sulla scuola e di imporre ai privati il rispetto delle stesse regole (e l’onere di cercarsi i finanziamenti dove credono), si va così sostituendo, con l’applauso del ministro della già Pubblica Istruzione, una Costituzione immaginaria, nella quale "libertà" vuol dire distruzione della Scuola pubblica, vuol dire convogliare i finanziamenti pubblici sulle scuole private, vuol dire legittimare l’idea che nelle scuole pubbliche si «inculcano» principi antilibertari, mentre nelle scuole private tutto è automaticamente libero, perfetto, "costituzionale". Eppure nel riformare la scuola, uno dei pochissimi provvedimenti di un governo che ha il record dell’inazione e della paralisi, l’on. Gelmini si è fondata sull’articolo 33 della Costituzione, secondo cui «la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione». E’ lo stesso articolo che, una parola dopo, stabilisce la centralità e la priorità della scuola pubblica, disprezzata dal presidente del Consiglio.

Ma la "Costituzione materiale" di cui si va favoleggiando (cioè l’arma impropria con cui si vuol demolire l’unica e sola Costituzione, quella scritta) ha ormai come principio fondamentale il cinico abuso di quanto, nella Costituzione, può esser distorto a beneficio di una "libertà", quella del premier, che consiste nell’elogiare l’evasione fiscale in un discorso alla guardia di Finanza (11 novembre 2004), nell’attaccare ogni giorno la magistratura, nel regalare al suo amico Gheddafi cinque miliardi di dollari tolti alla scuola, al teatro, all’università, alla musica, alla ricerca, alla sanità, nel consegnare il territorio del Paese alla speculazione edilizia, nel legittimare col condono chi viola le leggi, nel creare per se stesso super-condoni, usando le (sue) leggi contro la forza della Legge. «Inculcare principi»: questa la concezione dell’educazione (pubblica o privata) che Berlusconi va sbandierando. Fino a quando lasceremo che «inculchi» impunemente nell’opinione pubblica l’idea perversa che compito di un governo della Repubblica è smantellare lo Stato, sbeffeggiando chi serve il pubblico interesse?

Il prefetto Franco Gabrielli, da quattro mesi capo della Protezione Civile, non soffre di ego ipertrofico come Guido Bertolaso, che si riteneva secondo per popolarità soltanto al pontefice di santa romana chiesa. Ma quanto a supponente rudezza qualcosa ha preso dal suo predecessore. Ne ha dato un saggio attaccando una delle rare misure ragionevoli contenute in quell'incredibile guazzabuglio legislativo che va sotto il nome di decreto Milleproroghe: il ritorno della Protezione Civile sotto il controllo del ministero dell'Economia e della Corte dei Conti.

Saggio desiderio del ministro Giulio Tremonti, ma non del sottosegretario Gianni Letta, fin dalla scorsa estate, dopo l'esplosione dello scandalo della Cricca, favorito da 600 ordinanze dirette della presidenza del Consiglio. Una sorta di corpus giuridico parallelo che ha trasformato l'emergenza in prassi, edificando un sistema di amicizie, vassallaggi, clientele, favori, appalti truccati e appartamenti regalati, con un immenso spreco di risorse finite in corruzione invece che in salvaguardia del territorio.

Per Gabrielli, che da prefetto dell'Aquila si era segnalato soprattutto per il sequestro di alcune carriole con cui gli aquilani volevano cominciare a rimuovere le macerie dal centro cittadino, le norme che dovrebbero riportare un minimo di controllo sulla spesa di un fiume di denaro pubblico "affonderanno come il Titanic la Protezione Civile migliore del mondo", allungando a suo dire i tempi degli interventi per la gestione delle emergenze. Anche le ordinanze firmate dal presidente del Consiglio dovranno essere emanate di concerto con il ministro dell'Economia e poi sottoposte al controllo preventivo di legittimità della Corte dei Conti. Ma i tempi dati alla magistratura contabile sono strettissimi: sette giorni. E nel frattempo i provvedimenti potranno essere dichiarati "temporaneamente efficaci", con motivazione della stessa Protezione Civile. Qual è allora il problema? E perché mai di fronte a una catastrofe il ministro dell'Economia o la Corte dei Conti dovrebbero frapporre ostacoli da "burocrati", come Gabrielli preconizza?

Certo, la totale autonomia finanziaria di fatto era più comoda. Ma visto ciò che ha prodotto in un decennio, meglio avrebbe fatto il sanguigno prefetto Gabrielli a marcare la distanza rispetto alla precedente stagione e a chiedere semmai un intervento più significativo per definire i suoi campi d'azione. Per esempio abolendo i singolari compiti che fin dal 2001 la Protezione Civile conserva nella gestione dei cosiddetti Grandi Eventi, sconfinato terreno di sprechi, corruzione e degrado etico dell'intero paese, come i fatti hanno dimostrato.

Invece, in questo bizantino teatro di paradossi chi dovrebbe occuparsi della sicurezza dei cittadini, di calamità naturali e di emergenze continuerà a gestire pubblici appalti per l'organizzazione delle celebrazioni di Padre Pio o delle corse di ciclismo, dell'Expo di Milano o delle futuribili Olimpiadi del 2020 cui Roma aspira. Nella speranza che frane, alluvioni e terremoti ci risparmino.

L’Italia precipita in una rovinosa "democrazia del conflitto". Come è evidente, si fronteggiano due forze. Da una parte c’è lo Stato, con le sue ragioni e le sue istituzioni. Il simbolo dello Stato, oggi più che mai, è Giorgio Napolitano. Dall’altra parte c’è l’Anti-Stato, con le sue distorsioni e le sue convulsioni. Il paradigma dell’Anti-Stato, ormai, è Silvio Berlusconi. Dall’esito di questa contesa dipenderà l’assetto futuro del nostro sistema politico e costituzionale. La giornata di ieri fotografa con drammatica evidenza questa contrapposizione irriducibile tra due modi diversi di vivere la cosa pubblica e di interpretare il proprio ruolo nella "polis". Il capo dello Stato, in un’intervista al settimanale tedesco Welt am Sonntag, tenta di ricucire il tessuto lacerato delle istituzioni.

Si fa interprete dell’esigenza di responsabilità che si richiede alla politica e del bisogno di normalità che chiede il Paese. Si fa ancora una volta custode della Costituzione. Non per conservarla staticamente, ma per farla agire dinamicamente nella naturale dialettica tra i poteri. Questo vuol dire Napolitano, quando parla dei processi del premier osservando che si svolgeranno «secondo giustizia»: il nostro sistema giurisdizionale, incardinato coerentemente nel meccanismo della garanzia costituzionale, gli permetterà di difendersi davanti ai tribunali, di far valere le sue ragioni di fronte ai suoi giudici naturali.

Si tratta solo di riconoscere la legittimità dell’ordinamento giuridico e la validità dei suoi codici.

Si tratta solo di accettare l’irrinunciabilità di un principio che sta alla base della convivenza civile: la legge è uguale per tutti, tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. In altre parole, si tratta solo di riconoscere lo Stato di diritto, di difenderlo come una missione, e non di subirlo come una maledizione.

Invece è proprio questo che Berlusconi ha fatto e continua a fare. Il capo del governo, nel suo ormai rituale messaggio domenicale ai promotori della libertà, fa l’esatto opposto di quello che ha fatto e continua a fare Napolitano. Allarga lo strappo istituzionale, esaspera lo scontro tra i poteri, rilancia le «riforme della giustizia» a una sola dimensione: non quella dei cittadini, che chiedono un sistema giurisdizionale più equo, più rapido e più efficiente, ma quella del premier, che esige una magistratura umiliata, delegittimata e subordinata alla politica. Spaccare il Csm, separare le carriere, stravolgere i criteri delle selezioni dei giudici della Consulta, reintrodurre l’immunità parlamentare come mezzo per assicurarsi l’impunità politica, rilanciare la legge – bavaglio per negare ai pm l’uso di un prezioso strumento investigativo come le intercettazioni e per negare all’opinione pubblica il diritto di essere informata su ciò che accade negli scantinati del potere. Tutto questo non è nobile «garantismo liberale», ma truce avventurismo politico. Non è alto «riformismo costituzionale», ma bassa macelleria ordinamentale. «Atti insensati», quelli della Procura milanese? Piuttosto sono «atti sediziosi» quelli del premier. Ed è penoso, per non dire scandaloso, che su alcuni di questi atti trovi una sponda anche nel centrosinistra, che non sa più distinguere tra le leggi varate nell’interesse di una persona e quelle varate nell’interesse della collettività.

Con queste premesse, lo Stato di diritto non si difende né si migliora: va invece abbattuto e destrutturato. Questa è oggi la posta in gioco. Questa è la portata della guerra tra il Presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio. Una guerra asimmetrica tra un capo del governo che l’ha dichiarata e la combatte ogni giorno, e un capo dello Stato che non l’ha mai voluta e ora tenta di disinnescarla. Ma in questa guerra, di qui al 6 aprile, il Cavaliere trascinerà ogni cosa. Trascinerà il governo, trasfigurato in una trincea dove l’unico motto di generali e luogotenenti è «credere, obbedire, combattere».

Trascinerà il Parlamento, trasformato nel «tribunale del popolo» che dovrà opporsi a qualunque costo al tribunale di Milano. Trascinerà il Paese, che non ha bisogno di «rivoluzioni» populiste né di pulsioni autoritarie, ma urgente necessità di una strategia per tornare a crescere, produrre ricchezza e occupazione, a offrire opportunità alle donne e futuro ai giovani. Questa è e sarà la guerra delle prossime settimane. Proprio per questo, in un momento così difficile, dobbiamo essere grati a Napolitano. Senza il suo Presidente, l’Italia sarebbe un’altra Repubblica.

«Monocratica», non più democratica.

Attrarre pubblici, costruirsi le strutture, diffondere un'immagine appropriata - sono qualità decisive per ogni città che voglia affermare (nel mondo globale) una propria identità culturale riconoscibile e competitiva. Tutto questo richiede tempo e fatica, ma si distrugge in pochi attimi con lo spoil system.

Prendiamo Roma. La città di Argan e Petroselli, tra effimero e «progetto Fori», capace di sedurre il ministro della cultura di Mitterrand, Jack Lang; e - dieci anni dopo - la città del Colosseo che si illuminava contro la pena di morte e delle notti bianche di Veltroni... È diventata la città buia di Alemanno, che dopo due anni persi inseguendo la Formula 1 all'Eur (o la demolizione di Torbellamonaca), scopre più di duecento campi nomadi ignoti al Campidoglio. Senza la fantasia tolkieniana di Umberto Croppi, come non vedere che l'estate romana si è trasformata in un ristorante di scarsa qualità e alti prezzi, allestimenti tutti uguali e programmi in saldo estivo; che l'ambiziosa Festa del Cinema, senza più nessuna ambizione di competere con Venezia, ha perso comitato scientifico, le punte più radicali del team di programmatori, una metà del suo budget, e si prepara a ribattezzarsi Festa del Cinema e della Fiction (per rendere più visibile il ruolo della Regione Lazio)!

Questo destino da Beckett di dopolavoro è del resto già toccato alla Casa del Cinema di Villa Borghese. L'Auditorium - Parco della Musica non è più presieduto da una personalità della cultura ma da un imprenditore, con le prevedibili conseguenze che possiamo immaginare. Il contributo del Comune all'Azienda Autonoma Palaexpò (che comprende anche le Scuderie del Quirinale) scende da 8 a 2 milioni di euro, rimettendosi per il proprio futuro al portafoglio privato di Emanuele Emmanuele. Il Macro (come del resto il Maxxi) rischia, sempre per i tagli, la chiusura a pochi mesi dall'inaugurazione del nuovo ingresso. L'Opera si affida all'uso improprio del nome di Riccardo Muti per coprire un più che ordinario tran tran, il Teatro di Roma non ha trovato di più di Gabriele Lavia. Villa Borghese è visibilmente abbandonata ai vandali, non si chiudono nemmeno più i cancelli del Giardino del Lago la notte... I «teatri di cintura» e la Casa del Teatro non hanno altro futuro che quello che vorrà Zetema, il manager (monopolista e scelto dal potere politico) al posto dell'autonomia della cultura. Dove è restato l'intellettuale, lo si è scelto «uso a obbedir tacendo» (alla Casa del Cinema e della Fiction Caterina D'Amico, che non ha nemmeno chiesto a Mauro Masi perché Rai Cinema - di cui era amministratore delegato - doveva acquistare i diritti di trasmissione del film di Dragomira Bonev, quasi al prezzo del Caimano...).

Lo spoil system di Roma può persino apparire un modello di rispetto del principio di continuità istituzionale rispetto a quanto sta accadendo a Napoli. In odio a Bassolino se ne abbattono non i simulacri ma le cose buone che aveva fatto. Qualcuna era già caduta da sola, come il Museo Aperto lungo i Decumani; o si era deteriorata come il Maggio dei Monumenti. Ha un tremendo valore simbolico che - dopo quindici anni - questo Capodanno si sia interrotta la tradizione di aprire l'anno nuovo con un'installazione di un grande artista contemporaneo - Paladino, Kounellis... - in Piazza Plebiscito. Eduardo Cicelyn, direttore del Madre, un museo d'arte contemporanea che l'Europa ci invidia per il luogo in cui sorge, Palazzo Donnaregina, per la qualità architettonica con cui è stato allestito da Alvaro Siza, e per il valore delle sue collezioni e delle sue mostre, è sottoposto da più di un anno alla macchina del fango. Il Napoli Teatro Festival dopo tre anni chiuderà i battenti, col programma 2011 già stampato e con fondi europei che dovranno essere restituiti, perché si sono voluti licenziare tutti i suoi dipendenti (compreso il direttore artistico Renato Quaglia) e dimissionarne d'autorità il consiglio d'amministrazione. I pretesti sono degni della favola dell'agnello e del lupo: al Teatro Stabile di Napoli, il Mercadante, c'è una flessione delle presenze in sala, e senza ricondurla alla campagna denigratoria contro il suo direttore artistico Andrea De Rosa, se ne nomina un altro, che ha il pregio di essere particolarmente gradito a Gianni Letta (noncuranti di dover pagare per almeno un anno una doppia direzione artistica).

Che questo accada è perfettamente conforme alla politica per la cultura del Governo Berlusconi. Tagli al Fus; tagli persino al tax shelter per il cinema; trasformazione della Rai, azienda pubblica, nella copia conforme della Fininvest, con Mauro Masi a fare da cane da guardia; tagli al bilancio del ministero dei Beni culturali; crolli a Pompei; desertificazione delle sopraintendenze; Colosseo affidato a Della Valle; spada di Damocle sospesa sull'editoria; un ministro che diserta Cannes, Venezia e Scala di Milano; soppressione della Direzione generale per il paesaggio e l'architettura contemporanea ... La legge Gelmini, la soppressione del Cnr, i panini con la Divina Commedia di Tremonti, il furore anti '68 (comodo capro espiatorio), il «piano casa», la tragica menzogna dell'Aquila «ricostruita» sono in perfetta sintonia con un quadro che ha un chiaro significato: il lavoro intellettuale non ha più futuro in Italia, se non accetta di diventare una variante dell'industria della pubblicità. Anziché i «cattivi maestri» delle università, si consigliano Daniela Santanchè, Fabrizio Corona e Lele Mora. Quello che sorprende è l'incapacità politica delle opposizioni, a partire dal Pd, di farne la questione centrale, quella che meglio può disegnare partendo dal negativo il futuro possibile dell'Italia dopo Berlusconi.

Dice il presidente del Consiglio che un golpe morale è in atto contro di lui, e che a cospirare sono le procure, i giornali, le donne che domenica hanno manifestato contro un premier giudicato indegno della carica che ricopre.

Dice ancora, anticipando quella che sarà la sua strategia difensiva: «Io sono un uomo separato e sono libero di fare quel che voglio a casa mia. Vogliono farmi dimettere e basta». Sventola la bandiera della libertà, grida al lupo indicando il Tribunale di Milano che ieri l´ha rinviato a giudizio con rito immediato per concussione e prostituzione minorile, ma in questo suo sventolare c´è qualcosa che non va. Pur occupando il potere, non cessa di presentarsi come uomo privato, nella cui vita nessuno può interferire. S´identifica addirittura col piccolo mugnaio di Federico II, che ai soprusi del despota replicò: «C´è pur sempre un giudice a Berlino». Al tempo stesso, nella qualità di uomo pubblico, accampa diritti a un´impunità che nessun cittadino o mugnaio possiede.

Difficile sottrarsi al dubbio che si mimetizzi nella folla, diventandone il megafono, per meglio centralizzare un comando che non tollera contropoteri. Nella Fattoria degli Italiani cui anela, tutti sono eguali ma ce n´è uno, lui, più uguale degli altri. Tutti devono rispondere dei propri atti davanti alla legge ma non lui né la sua cerchia, che vive nella crepuscolare terra di nessuno dove pubblico e privato si confondono. Quando vuol nascondersi si rifugia nel privato, reclamandone l´inviolabilità. Quando passa al contrattacco cinge la corona e decreta: il mio corpo coincide con il re e non si tocca. Non si tocca neppure quello della mia corte, che condivide i miei privilegi finché mi resta fedele. Tutto sta a muoversi di continuo da una casella all´altra. Giolitti diceva di Mussolini: «Il fascismo è come una trottola, se si ferma cade».

Non è questo, d´altronde, il motivo per cui volle scendere in politica, fra il ´92 e il ´94, come si scende in uno scantinato per sfuggire il giudizio della pòlis? Non è, la sua, un´ininterrotta battaglia contro l´obbligatorietà dell´azione penale, sancita dalla Costituzione nell´articolo 112? Le parole che Fedele Confalonieri disse nel 2000 a («La verità è che se non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l´accusa di mafia») lui non le ha mai smentite. Il presidente di Mediaset aggiunse anni dopo su La Stampa: «Trattare non gli piace. Gli riesce difficile prendere atto che la democrazia pone dei freni. Le leggi ad personam le fa per proteggersi. Se non fai la legge ad personam vai dentro». Confalonieri non parla solo del capo ma della sua cerchia («Noi saremmo in galera»). Ambedue sono unti dalle urne.

È da questi scantinati che sgorgano le parole fatali escogitate anche oggi per confondere le menti: la democrazia concepita come libertà di ciascuno (Premier compreso) di fare quel che desidera; l´accusa di moralismo rivolta a chi respinge tali idee; l´allergia a ogni freno che fermi l´arbitrio del capo. Questa commedia degli errori (il privato è pubblico, il pubblico è privato, sono io a decidere cos´è morale, democratico, lecito) ha la forza dell´inafferrabilità perché continuamente gioca con le funzioni, le definizioni, piegandole a proprio piacimento. Non c´è parola detta nello spazio pubblico che non venga subito trasformata in flatus vocis, in nominalistica emissione di suono che si sperde fra altri suoni sino a divenire inaudibile scheggia di un dibattito dove ogni fumo pesa tranne la non fumosa verità dei fatti, e dei reati.

È quel che accade da anni, ogni volta che vengon poste questioni concrete che riguardano la separazione fra Stato-Chiesa, o la domanda di giustizia uguale per tutti, o l´etica richiesta a chi esercita funzioni pubbliche e non è quindi la copia esatta del comune cittadino, avendo secondo la Costituzione speciali doveri di «disciplina e onore» (art. 54). È qui che s´alza la nebbia: trasformando il concreto in astratto, sottomettendo ogni questione alle preferenze di chi, detenendo il potere politico e quello dell´informazione, decide dove finisce l´arbitrio, dove inizia la legge. A questo serve lo storpiamento di vocaboli come morale, laicità, giustizia. Serve a uccidere la laicità, soprannominata laicista. A soffocare la giustizia, detta giustizialismo se applicata con rigore. La morale è il freno più infame, e per svalutarla riceve il timbro di moralismo. Se potesse, Berlusconi si scaglierebbe contro il Decalogo, chiamandolo decalogismo. Già è accaduto. Hitler già se la prese con «il Dio del Sinai e i suoi insopportabili Non devi». Non c´è tabù che non sia esecrato dai poteri assoluti.

A questo deturpamento delle parole si dà il nome di liberalismo, con disinvoltura. Un liberalismo talmente sfrondato che neppure il tronco sopravvive: ridotto al diritto di fare quel che piace, senza ingerenze; impoverito da un laisser faire che già tanti mali ha fatto all´economia di mercato. Un liberalismo che s´inventa una storia breve, invece della lunga che ha sotto i piedi, e nulla sa del pensiero repubblicano da cui discende, secondo il quale sovrano, anche in democrazia, non è il popolo con le sue effimere passioni ma la legge che dura.

A queste condizioni la pòlis è ordinata: che sia abitata da cittadini partecipi perché bene informati, che non faccia degenerare la libertà in sopraffazione dei forti sui deboli. Che tutti si assoggettino alla legge e riconoscano l´utilità pubblica delle virtù private. Per pensatori liberali come Locke, Tocqueville, John Stuart Mill, non c´è libertà, se l´autorità suprema non è la legge. La nostra Costituzione dice la stessa cosa. Il popolo è sovrano, nell´articolo 1, ma nell´articolo 54 «tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi».

Quando Berlusconi decreta che la sua condizione di indagato è decisa solo dalle urne dice qualcosa di affatto indigesto per i liberali, perché la sovranità popolare senza separazione dei poteri e sottomissione alla legge di ciascuno (popolo, governi, chiese) è la volontà della maggioranza, e di poteri che pretendendo rappresentare un tutto diventano paralleli, rivali dello Stato. Tocqueville li riteneva letali, in democrazia: «Esiste una sorta di libertà corrotta, il cui uso è comune agli animali e all´uomo, e che consiste nel fare tutto quel che piace. Questa libertà è nemica di ogni autorità: sopporta con impazienza ogni regola. Con essa, diventiamo inferiori a noi stessi, nemici della verità e della pace». Sono anni che discutiamo di questo in Italia: se la legge abbia ancora un significato, se la morale pubblica sia una bussola o una contingenza. È ora di deciderlo e chiudere la discussione.

Il bersaglio di chi si ribella a simili vincoli è la morale (per i poteri ecclesiastici è la laicità), descritta come sovversiva, giacobina. Ma anche qui l´equivoco è palese: nello stesso momento in cui si atteggiano a anticonformisti minoritari, i ribelli si riscoprono giacobini tutori di valori morali non negoziabili, e con tutta la forza della maggioranza negano al singolo la libertà di morire naturalmente, non attaccato alle macchine. Tanto più grave il silenzio della Chiesa sull´etica pubblica. In fondo questa dovrebbe essere l´occasione di far vedere che il suo spazio nella pòlis non è paragonabile a quello di cricche e cose nostre. Se vuol rinascere, la Chiesa non può non rompere con Berlusconi, a meno di non divenire anch´essa potere sfrenato e parallelo. L´appello di Bagnasco a «più trasparenza» è tardivo e inadeguato.

Ezio Mauro ha giustamente difeso la breve vita del partito d´azione, soprattutto torinese. È vero, c´era un forte afflato morale nell´azionismo: forse si spense per questo, lasciandoci tuttavia in eredità il pensare onesto di Norberto Bobbio, Vittorio Foa. Senza gli azionisti non avremmo la Costituzione che abbiamo, la sua benefica laicità, la sua versatilità. Chi li bolla come moralisti teme come la peste che rinasca un´alleanza fra sinistra e liberali, in difesa dell´etica pubblica. Il mondo cui aspira l´antimoralista è la Fattoria degli Animali, dove non la legge comanda ma un unico capo, circondato da cerchie di bravi che a nessuno rispondono se non a lui.

Di Puritani, in Italia, Paese cattolico iper-accomodante, con una Chiesa pronta, oggi più che mai, a compromessi di basso profilo, non ce ne sono mai stati molti. C’è soprattutto il melodramma, “I Puritani”, libretto patriottico dell’esule bolognese conte Carlo Pepoli e musica, sublime, di Vincenzo Bellini, specie quando canta la Maria (Callas). I Puritani erano calvinisti e pure riformatori tutti d’un pezzo, alla Oliver Cromwell per intenderci, che guidò contro il re, uno Stuart, l’esercito “parlamentare”, processando e decapitando il sovrano anti-Parlamento.

Ho la vaga impressione che Giuliano Ferrara non conduca questa sua urlante campagna contro i Puritani e i Moralisti in nome della privacy sul “puttanaio” (a Milano, una volta, avrebbero liquidato il protagonista con un “t’el disi mi, a l’è ‘n purcùn”, ora invece molti solidarizzano). Bensì in nome dell’ossequio dovuto a questo re di denari che “si distende” certe sere, a Palazzo Grazioli o ad Arcore, compiacendosi del reclutamento di “nipotine” (una mania), di play-girls dichiarate. Per lui la donna è questo. Il fatto è che si deve dar ragione sempre e comunque all’“anziano dongiovanni”, con panzotta, gamba corta e una capigliatura a moquette, al tragicomico re di denari che la stampa estera più seria chiama da anni (vedi l’Economist) “the jester”, il buffone, che Ferrara stesso, in un attimo di lucidità, definì “inetto a governare”, che però da Palazzo Chigi, ha invaso quasi tutta la tv e altra ne vuole invadere. Egli tiene a libro-paga un esercito, come non succedeva neppure ai tempi della “fabbrica del consenso” a Mussolini che, almeno, il Parlamento l’aveva chiuso e non parlava in nome della libertà, e le sue amanti (una, Margherita Sarfatti, era davvero colta e intelligente) non si sognava di metterle “in politica”.

Ora vuol controllare anche i tak-show, anche l’ironia, selezionare chi fa l’ “opinionista”, e mettere ovunque gente sua, a libro-paga. Fate caso a quelli che vanno in tv a gridare, insultare, interrompere, dileggiare: sono stipendiati dei giornali non di destra ma “della famiglia”, gente che fa affari con la “sua” pubblicità, o parlamentari ex Fininvest, e così via. Tutti, oggettivamente, a libro-paga. Con eccezioni così rare (Piero Ostellino) da risultare patetiche e da metter voglia di dirgli: “Cosa fai lì? Ma vieni via.” Ci sono sempre stati, giustamente, giornalisti conservatori. Contro il primo centrosinistra, contro il Concilio Vaticano II, c’erano Enrico Mattei, Domenico Bartoli, Panfilo Gentile, Augusto Guerriero, lo stesso Indro Montanelli, ma a nessuno sarebbe venuto in mente di pensare che fossero a libro-paga di qualcuno. E allora capisci tutto. Anche l’odierna campagna urlante contro Puritani e Moralisti.

Non si è ancora spenta l'eco della Giornata della Memoria che già incalza la ricorrenza del giorno del Ricordo, senza che si sia riflettuto a sufficienza sulla confusione che si è rischiato di creare (e che almeno per una parte politica si è voluta creare deliberatamente) fra le due circostanze, allo scopo di sdrammatizzare il crimine dello sterminio degli ebrei ad opera di nazismo e fascismo e di enfatizzare viceversa il dramma delle foibe istriane come simbolo italiano dei crimini del comunismo. Tuttavia non è a questo nodo irrisolto che oggi intendiamo rivolgere la nostra attenzione, anche se esso si presta singolarmente a rappresentare in modo emblematico l'ambiguità o meglio ancora l'agnosticismo storico e storiografico della cultura politica che oggi predomina nel nostro paese.

Torniamo al giorno del Ricordo. Non riprenderemo cose che abbiamo ripetutamente ricordato proprio su questo giornale per contribuire a evitare e a controbattere le strumentalizzazioni e le menzogne degli irriducibili di una memoria a senso unico che sarebbe ipocrisia non definire filofascista. Siamo come sempre convinti che non si debba approfittare della data del 10 febbraio per rinfocolare il dolore e il risentimento dei familiari delle vittime né tantomeno per speculare sulla sorte delle centinaia di migliaia di persone che a seguito degli assetti postbellici sono state costrette a rifarsi una esistenza fuori dai territori d'origine. Non è una storia unicamente italiana, è una storia comune a molta parte della società europea sconvolta dal secondo conflitto mondiale ma con una specificità italiana che si richiama al passato fascista. Opportunamente il presidente della Repubblica invita a non strumentalizzare il ricordo, anzi a superare ogni tentazione strumentalizzatrice. Nessuno come noi è consapevole che questa è l'unica condizione perché si verifichi l'auspicio del presidente che le circostanze all'origine del ricordo del 10 febbraio entrino durevolmente nella memoria non solo ufficiale ma in quella collettiva di Italia, Slovenia e Croazia. Ma perché questo accada e non sia soltanto un superficiale gesto diplomatico bisogna che sull'oggetto del ricordo non rimangano ambiguità o mezze verità: si ricordino senza mezzi termini gli antecedenti delle stragi del 1943-'45. Bisogna che la storia della dominazione italiana della Venezia Giulia, sulla quale studiosi italiani e sloveni negli ultimi decenni hanno fornito contributi illuminati, diventi conoscenza di dominio pubblico, sottratta alle ipoteche di una vecchia storiografia nazionalista e alla propaganda di nuovi irriducibili nostalgici. Mascherati da democratici: come definire, se non maschera, l'atteggiamento di ieri del presidente della Camera Gianfranco Fini che in modo a dir poco negazionista ha annunciato a Trieste che bisogna revocare le onorificenze a Tito e ad altri dirigenti della lotta partigiana jugoslava contro l'occupazione nazifascista che riempì i Balcani di stragi rimaste assolutamente impunite?

Tra breve uscirà un importante studio sul «fascismo di confine» cui auspichiamo larga diffusione perché la riflessione storica di lungo periodo e di larga impostazione possa contribuire a uscire dal provincialismo e dalle strettoie dei patriottismi di confine. Ma vogliamo ricordare anche che sui resti del campo di concentramento di Arbe manca tuttora un segnale, un cippo o altro, che menzioni le responsabilità del fascismo e per esso dello stato italiano.

Come non consentire con le considerazioni del presidente della Repubblica sulla comunanza di interessi e sulle prospettive di pace che dovrebbero indurre i popoli e gli stati sulle due sponde dell'Adriatico a collaborare e a trovare motivi per compiere un cammino comune. Purtroppo esiste ancora una questione balcanica e i bombardamenti della Nato non hanno contribuito a scioglierne i nodi, forse ne hanno complicato l'intreccio. La distruzione della Jugoslavia ha scatenato le ambizioni di influenza delle potenze; gli stati minori che ne sono derivati vivono di indipendenza apparente, le nazionalità in nome delle quali si sono inventati interventi umanitari si rispettano solo perché si trovano sotto libertà vigilata dalla presenza di contingenti militari internazionali. Dare loro una prospettiva positiva sarebbe urgente e necessario, ma l'Unione europea sinora non ha dato segnali forti di preoccuparsene.

Sull’argomento vedi anche in eddyburg gli articoli di Corrado Staiano, Claudia Cernigol, Simonetta Fiori, Enzo Collotti, Giacomo Scotti, Paolo Rumiz.

Cari elettori berlusconiani, vi sarà giunta voce, immagino, che gli italiani sono divenuti un enigma per le democrazie alleate. Il mistero non è più Berlusconi, che da anni detiene un potere non normale: controllando tv, intimidendo giornali e magistrati. Dopo tante elezioni, siamo noi, singoli cittadini, a essere il vero rebus.

Quel che ripetutamente ci chiedono è: «Perché continuate a volerlo? Perché insistete anche ora, che viene sospettato di corruzione di minorenni e concussione?». Nessun capo di governo potrebbe durare più di qualche giorno, fuori Italia: la stampa, la televisione, i suoi pari lo allontanerebbero, costringendolo a presentarsi ai giudici. Di questo le democrazie non si capacitano: se non ora, quando vi libererete?

A queste domande ciascuno deve saper rispondere: chi lo vota e chi non l´ha mai votato, giudicando non solo ineguale la battaglia fra schieramenti (per disparità di mezzi d´influenza) ma profondamente atipica. Tutti siamo contaminati, dal modo in cui quest´uomo entrò in politica e dalla natura del suo potere, che costantemente mescola il suo privato col nostro pubblico. Tutti viviamo in una sorta di show, dominato dal sesso e dai processi al premier.

La cosa peggiore a mio parere è quando inveiamo contro le sue passioni senili. Come se a far problema fosse l´età; come se bastasse che a Arcore ci fosse un trentenne, perché le cose cambiassero. È la trappola in cui spesso cadono gli oppositori. Vale la pena leggere quel che ha scritto lo scrittore Boris Izaguirre, a proposito del consenso tuttora vantato dal premier. Le sue debolezze sono in realtà forze nascoste: «La corruzione, quando si espone, crea meraviglia. La capacità di scansare ogni controllo e di schivare la giustizia affascina». Affascina anche l´epifania finale dell´anziano concupiscente. Nella «rivoluzione del gusto» che questi impersona, l´epifania è «l´unica opzione per l´uomo maturo moderno, e ineluttabilmente attrae un elettorato che condivide sogni di eterna gioventù» (El Paìs, 7-2-11). Il nostro, lo sappiamo, è un paese di vecchi: l´offensiva che accoppia età e reati del premier è qualcosa che turba sia voi sia me. Fa cadere ambedue in una rete che imprigiona, che impedisce di far politica normalmente, di reinventare quel che sono, in democrazia, destra e sinistra.

La rete in cui cadiamo è un film che non minaccia davvero il leader: è il suo film, noi e voi siamo comparse di una sua sceneggiatura, impastata di sesso, cattiveria, abuso di potere. Sono anni che abitiamo un mondo-fantasma lontano dalla realtà, imperniato sulla vita privata del capo. È lecito quel che fa? Osceno? I benpensanti sono convinti che di questo si occuperanno i magistrati, che politici e stampa debbano invece cercare una tregua. Ma tregua con chi? Si può patteggiare con un burattinaio che ci tramuta in pupazzi o spettatori di pupazzi? Se non si fa luce sulle notti di Arcore, è inevitabile che i film sulle papi-girl sfocino nel ridanciano. Ogni cittadino, berlusconiano o no, già ci scherza sopra, probabilmente, come gli spettatori ridono increduli negli ultimi giorni dell´uomo descritti da Kierkegaard, quando irrompe il buffone e dice che il teatro brucia. Nel momento in cui inizia la risata lo show sommerge il reale. Anche voi elettori Pdl lo intuite: le novità che attendete da anni rischiano di esaurirsi in un teatro in fiamme, con noi imbambolati a fissare il buffone.

C´è da domandarsi se non sia precisamente questa, la forza del Cavaliere: distruttiva, ma pur sempre forza. Come Napoleone quando parlava dei propri soldati, egli sembra dire: «I miei piani, li faccio coi sogni degli italiani addormentati». Imbullonati nello spettacolo senza vederne le insidie, ammaliati da veline e spazi azzurri che usurpano lo spazio della Cosa Pubblica, continueremo a esser pedine di un suo gioco. Sarà lui a decidere quando termina lo show di cui è protagonista. Lui occupa entrambi gli spazi, il fantasmatico e il reale, secondo le convenienze. È la sua doppia natura a confondere le menti: il suo essere Jekyll e Hyde. Chiamato a presentarsi in tribunale si rifugerà nell´inviolabile privato, esibendo la sguaiataggine di Hyde. Quando lo show tracimerà, ridiverrà l´impeccabile Dr Jekyll e dirà tutto stupito: «Propongo un patto di crescita economica, e l´armistizio sul resto». A Galli della Loggia, che è storico dell´Italia, vorrei chiedere: con questa doppia personalità urge far tregue?

È il motivo per cui nessun politico dovrebbe, oggi, invitare gli italiani a sognare un paese diverso. L´Italia ha già troppo sognato. Nel caldo delle illusioni ha disimparato lo sguardo freddo, snebbiato. Non di sogni c´è bisogno, ma di risvegli. L´altra Italia da raccontare fuori casa non è quella «che va a letto presto», come dice la Marcegaglia. È quella che veglia, che osa di nuovo sapere, informarsi (Umberto Eco ha ben risposto, nella manifestazione di Libertà e Giustizia: «Io vado a letto tardi, signora, ma è perché leggo Kant»). Come i prestiti subprime, l´Italia è chiusa in una bolla, fabbricata da chi si pretende garante della sua stabilità. Ma le bolle scoppiano e voi lo sapete, elettori Pdl: quel giorno i pescecani si salveranno, e il vostro grande sballo finirà.

Finché resta la bolla, è evidente che il premier conserverà influenza. Vi invito a leggere un articolo scritto nel 2002 sul Paìs da Javier Marìas (è riprodotto nel blog mirumir.blogspot.com). Lo scrittore enumera gli ingredienti della seduzione berlusconiana: la sua disinvoltura sempre «sottolineata in rosso», il «sorriso falso perché costante», il passato di cantante come allenamento per staccarsi dai domestici e mischiarsi ai potenti, la mentalità di vecchio portinaio franchista ossequioso coi potenti e sdegnoso coi domestici, il risentimento dietro una bontà caricaturale, il terrore d´essere escluso dalle cerchie dei grandi, l´assenza d´ogni «vergogna narrativa». Egli seduce i declassati identificandosi con loro, e tanto più li sprezza. La sua morale: sei un perdente, se non infrangi come me leggi, diritti, costituzione.

Dicono che vi piace l´antipolitica. Credo piuttosto che vi aspettiate troppo, dalla politica. Avete sognato un re-taumaturgo onnipotente e permissivo al tempo stesso, non un democratico. È inutile proseguire l´omertoso patto che vi lega a lui nell´illegalità: i risultati attesi non verranno. Questo è infatti Berlusconi: un potere fortissimo, ma impotente. Non è il fascismo, ma i primordi del fascismo - quando era pura «dottrina dell´azione» - ripetuti come un disco rotto. Le masse cullate nell´illusione: tali sono i primordi. Poi la dottrina divenne politica, guerra, e fu rovina. Ma fu un agire. Non così Berlusconi. Da anni l´immagine è fissa sui preamboli fascisti del mago che seduce le folle umiliando l´uomo, come il Cavalier Cipolla che ipnotizza le vittime nel racconto Mario e il Mago di Thomas Mann.

L´era Berlusconi è costellata di questi torbidi patti: patti con la mafia per proteggere impresa e famiglia; patti con giudici corrotti; patti con ragazze alla ricerca di soldi e visibilità. Si può indovinare quel che hanno pensato i loro genitori: «Meglio vergini offerte al drago, che precarie in un call-center». Erano pagate per le prestazioni, e poi perché tacessero. Per questo possono divenire, da ricattate, ricattatrici del papi-padrino.

Ma la storia italiana è anche storia di decenza, di morti caduti difendendo lo Stato, contro le mafie. Anche voi ammirate questa storia: avete ammirato i tre ultimi capi di Stato, e prima Pertini. Senza di voi tuttavia il Quirinale può poco e l´Europa ancor meno. Ambedue ci risparmiano per ora il baratro, e forse l´Europa solo economico-monetaria è un po´ la nostra sciagura: i pericoli, ci toccherà intuirli dietro tanti veli. Ma li intuiremo. Se l´Egitto ha avuto la rivoluzione della Dignità, perché l´Italia non può avere una rivolta della decenza? La decenza ricomincia sempre con la riscoperta di leggi superiori a chi governa, del diritto eguale per tutti, della libera parola.

Elisabetta Bolondi:

Caro Augias, leggo che addirittura Sergio Romano è caduto nella trappola del cosiddetto senso comune, a proposito dell'attentato di via Rasella. Accompagno ogni anno per conto del Comune di Roma e con l'Irsifar (Istituto romano per l'antifascismo e la Resistenza) classi di scuola media alle Fosse Ardeatine; i ragazzi vengono preparati da un incontro tenuto da esperti, poi si va con il pullman a visitare le tombe dei martiri. In genere i ragazzi non sanno quasi nulla, o al massimo a casa hanno sentito dire che se i colpevoli dell'attentato si fossero presentati, la strage sarebbe stata evitata. Non è così, la vulgata costruita nei mesi successivi alla strage ha del tutto falsato la realtà. Dopo la visita i ragazzi escono dal monumento ai caduti colpiti, commossi, consapevoli. Potenza della memoria e del senso della storia, da non trascurare mai più, pena la perdita della nostra identità.

Corrado Augias:

Per gli immemori e per coloro che non hanno voluto sapere, vale la pena di ripetere lo schema orario dei fatti. L'attacco contro una colonna di soldati germanici di ritorno da un addestramento, avvenne in via Rasella alle ore 15.45 di giovedì 23 marzo 1944. Buona parte del pomeriggio passò per concordare, anche in contatto con Berlino, il tipo di rappresaglia. Alla fine si stabilì che dieci cittadini italiani fossero uccisi per ogni soldato tedesco morto: 33 questi, 330 gli italiani. Il massacro in una cava di pozzolana sulla via Ardeatina ebbe inizio alle ore 15.30 del successivo venerdì, ora in cui un pastore che stazionava nei pressi testimoniò d'aver udito i primi colpi. Un macabro particolare conferma che la notizia fino a quel momento era stata tenuta segreta. Nella loro furia i carnefici avevano finito per superare la già tragica lista di 330 todeskandidaten (candidati alla morte) . Gli assassinati alla fine furono 335, cinque in più del previsto. I conti erano sbagliati e si ordinò di uccidere anche quei cinque perché, testualmente, si ordinò: "Questi hanno visto tutto, uccidete anche loro". Nulla doveva infatti trapelare alla popolazione fino al comunicato ufficiale. Dopo quattro ore di spari e di grida, i carnefici erano così esausti che si dovette distribuire del cognac perché terminassero le esecuzioni, le quali ebbero fine alle ore 20 di venerdì 24. Verso le 23 di quel venerdì ci fu un comunicato che l'agenzia Stefani (diretta da Luigi Barzini) distribuì a giornali e sale stampa e che venne pubblicato solo sui quotidiani di sabato 25. Dato il coprifuoco, i giornali, stampati al mattino, arrivavano in edicola verso mezzogiorno. Nessuno sa se gli esecutori dell'attacco, sapendo, si sarebbero presentati. Il fatto è che seppero, come tutti, solo a cose fatte. Si vorrebbe non doverlo più ripetere.



La lettera di Paolo Grassi e la risposta di Corrado Augias su Repubblica, che abbiamo ripreso in eddyburg completandoli con un nostro ricordo personale, hanno provocato un ulteriore utilissimo supplemento di informazioni su un episodio cruciale della nostra storia. Cruciale perché testimonia sia la durezza degli eventi, impastati di eroismo e di ferocia, da cui è sgorgata limpida la nostra Costituzione, sia l’ampiezza e la profondità del perverso lavoro che è stato compiuto per cancellare, con menzogne divenute pensiero corrente, il bene comune fondamentale costituito dalla memoria storica. (e.)

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