La lista dei crimini è lunga: villaggi incendiati, stragi, rappresaglie, esecuzioni indiscriminate di partigiani, deportazione di migliaia di civili nei campi di concentramento, sevizie e torture. I responsabili sono quegli - così il titolo del libro di Costantino Di Sante - di stanza nei Balcani durante il secondo conflitto mondiale. Criminali di guerra che la nostra diplomazia ha voluto per decenni occultare, alimentando così quel mito del "bravo italiano" rivelatosi sempre più malinconicamente infondato. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951) è il sottotitolo di questo nuovo j’accuse contro generali, ufficiali, semplici soldati, poliziotti, carabinieri, funzionari civili, ritenuti colpevoli di delitti non dissimili da quelli nazisti - e contro i governanti che ne hanno lungamente assicurato l’impunità - sorretto da una nutrita documentazione proveniente dagli archivi del ministero degli Esteri e dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Lo pubblica, con una prefazione di Filippo Focardi, una piccola casa editrice, Ombre Corte (pagg. 270, euro 18,00). L’autore del volume, Di Sante, è ricercatore presso l’Istituto di Liberazione marchigiano, studioso dei campi di concentramento nell’Italia littoria.
Le operazioni militari di Mussolini contro la Jugoslavia ebbero inizio il 6 aprile del 1941. Come già dimostrato dalla ricerca storica più documentata (da Enzo Collotti a Davide Rodogno), la politica di aggressione fascista nei Balcani fu caratterizzata da efferatezze, "non episodi isolati, ma componenti essenziali della strategia di dominio" inaugurata dal dittatore. Nessuno degli italiani denunciati per crimini di guerra fu consegnato ai paesi che ne avevano fatto richiesta, né fu mai processato in Italia. Gli oltre 750 italiani incriminati dalla Jugoslavia, come i 180 accusati dalla Grecia o i 140 segnalati dall’Albania poterono godere di totale impunità. E questo grazie «all’azione di salvataggio organizzata dal ministero degli Affari Esteri, d’intesa con il ministero della Guerra (poi della Difesa) e con la Presidenza del Consiglio» (così Lutz Klinkhammer).
Fin dall’autunno del 1944, avendo saputo che in Jugoslavia era al lavoro una commissione d’inchiesta sulle violenze degli italiani, cominciò a Roma un lavoro di "controdocumentazione", teso a dimostrare le sevizie commesse dal nemico sui nostri connazionali (e a discolpare la legittima reazione dell’esercito tricolore). La "controinchiesta" confluì in una sorta di memoriale difensivo (settembre 1945) a cura dello Stato Maggiore dell’Esercito, che Di Sante per la prima volta rende pubblico.
L’aspetto più rilevante è che, pur giustificando l’operato degli italiani pesantemente vessati dal "barbaro partigiano titino", le testimonianze dei nostri soldati in sostanza confermano i delitti denunciati dagli jugoslavi. In particolare, viene riconosciuta la crudeltà dell’occupazione in Dalmazia. «Parecchi villaggi incendiati», «molti civili passati per le armi o internati», «interrogatori eseguiti con durezza e mezzi illeciti», «la popolazione ritenuta ostile bastonata o vessata con l’olio di ricino» dalle squadre d’azione di Giuseppe Alacevic (segretario del fascio di Sebenico). Di alcuni vengono evocati anche «atti ripugnanti» e «malvagità» contro le donne arrestate. Ancora più gravi, poi, risultano le responsabilità del "Tribunale straordinario arbitrario" (istituito dal Governatore della Dalmazia), talvolta sbrigativo nel comminare le condanne a morte. Devastanti anche le nostre rappresaglie (otto civili per ogni militare ucciso), spesso concluse con incendi di villaggi o esecuzioni sommarie. Nella documentazione jugoslava molto risalto veniva dato anche all’internamento di migliaia di civili nel campo di Arbe, capace di ospitare fino a 10.500 persone e il cui tasso di mortalità era stimato intorno al 19 per cento: qualche generale italiano amava descriverlo come "luogo di villeggiatura".
Il "contromemoriale" italiano puntò naturalmente sulla necessità di difendersi dalla "barbarie" e dal "banditismo" dei partigiani jugoslavi, approntando anche una vasta ed efficace documentazione fotografica. Quel che seguirà nel lungo dopoguerra sarà il ripetuto tentativo da parte del nostro governo di sottrarre i militari incriminati dal giudizio internazionale: prima con la istituzione nel maggio del 1946 di una commissione d’inchiesta che, assicurando lo svolgimento di una severa giustizia in Italia, di fatto negò l’estradizione; poi con un sapiente lavoro di tessitura diplomatica, sintetizzato dal cosiddetto "memoriale Zoppi", un documento del gennaio 1948 che - citato anche da Di Sante - solo di recente è stato declassificato (riprodotto in questa pagina con l’autografo di Giulio Andreotti: ne parliamo qui accanto nell’intervista a Walter Vitali). In sostanza, rispetto alla richiesta jugoslava di processare i responsabili, prevalse una linea di temporeggiamento. Con risultati soddisfacenti: dopo la rottura tra Tito e Stalin, nel giugno del 1948, la Jugoslavia avrebbe perso l’appoggio dell’unica potenza che sino a quel momento l’aveva sostenuta nelle sue recriminazioni.
La vicenda si chiuse definitivamente nel 1951, con l’archiviazione di tutti i procedimenti a carico dei presunti criminali. Non senza alcuni episodi paradossali. Nel dicembre del 1947 è nominato segretario generale del ministro della Difesa proprio uno dei generali che figurava nella lista degli accusati (approvata dalla commissione interalleata). Un anno dopo, alla presenza del presidente Luigi Einaudi, vengono decorate alcune divisioni: «per meriti acquisiti ai tempi dell’occupazione fascista del Montenegro e della Croazia». Per il generale Mario Roatta, "l’esponente più importante della politica militaristica di Mussolini" (così la stampa antifascista), assoluzione piena: esito esemplare d’una vicenda ancora irrisolta.