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L'allontanamento dal "Manifesto". Il conflitto fra generazioni. Le nuove disuguaglianze. Colloquio con la "ragazza del Novecento".

La Repubblica, 7 giugno 2013

BRISSAGO - "No, non ci capiamo più. Li ho ascoltati per tanti anni, un lungo miagolio sulle mie spalle. Venivano dalla madre a raccontare le delusioni esistenziali. Gli amori, le speranze, le difficoltà. Ma ora davvero non ci capiamo più". Lo sguardo è severo e insieme sorridente, l'incarnato candido come le camelie che fioriscono nel giardino qui intorno. Da qualche mese Rossana Rossanda vive a Brissago, un angolo del Canton Ticino dove si fermerà fino alla fine di agosto. "Sì, è un bel posto. Dall'ospedale di Parigi vedevo solo la periferia, qui c'è il lago per fortuna increspato dal vento. Per chi non la conosce, la Svizzera può essere incantevole. Ma pare che chi ci vive la trovi insopportabile".

Azzurro ovunque, le vele bianche, anche i monti innevati, una bellezza quasi sfacciata e intollerabile allo sguardo ferito di chi abita nella grande casa di vetro affacciata sul lago Maggiore. "La prego", si rivolge con famigliarità all'infermiere, "può dare un po' d'aria alle rose?". La stanza è luminosa, sul comodino la bottiglia di colonia e la biografia di Furet, un po' più in là l'ultimo libro di Asor Rosa, I racconti dell'errore. "È un bellissimo libro sulla vecchiaia e sulla morte. Ma noi vogliamo parlare d'altro, vero? I necrologi lasciamoli da parte".

Per i più vecchi, nella famiglia del Manifesto, è stata l'eterna sorella maggiore, la quercia sotto cui ripararsi nella tregenda. Per i "giovani" - così li chiama, anche se giovani non sono più da tempo - è la madre temuta e ingombrante. "Sì, una madre castratrice. Mi hanno sempre visto così, anche se io non mi sono mai sentita tale. Ho sempre cercato di capire, di dar loro spazio, ma forse è una legge generazionale. I figli per crescere hanno bisogno di uccidere i padri e le madri. E ora è toccato anche a me".

Nel settembre scorso ha lasciato il giornale da lei fondato con un articolo molto polemico: è mancata una riflessione su chi siamo, su cos'è diventato il quotidiano, sul rapporto con le origini e con il presente. Su cos'è oggi la sinistra. Insieme a Rossanda, se ne sono andati anche Valentino Parlato e diverse altre firme. "Non siamo noi ad essercene andati. È il Manifesto ad averci cacciato. L'abbiamo perso. Non voleva più saperne di noi, e noi ci siamo ritirati. Anche stupidamente, perché dovevamo essere noi a far tacere i più giovani. C'è stata una grandissima cesura, tra la nostra generazione e quella successiva. Mossi da una sorta di risentimento, non fanno che dirci: soltanto un mucchio di macerie, ecco quello che ci avete lasciato. Voi, con le vostre certezze e le vostre idee granitiche. È la frase più stupida che abbia mai sentito".

Macerie, certezze, noi e loro. Nessun errore, nessun ripensamento? "Il mio errore è stato non tenere unito il gruppo. E anche non capire che, se per la nostra generazione è stata dura, per quelli nati negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso lo è ancor di più. Ma non dovevamo farci portare via il giornale. Come in un refrain, ci ripetono: è cambiato tutto, niente è più uguale a prima. Ma cosa vogliono dire? Cos'è questo tutto che è cambiato?".

Il mondo le appare più ingiusto che mai, tra privilegio e povertà, sfruttatori e sfruttati, management superpagato e lavoratori affamati. "Non c'è mai stata tanta ineguaglianza nella storia. Però si passa sopra tutto questo, non importa. È stato assorbito anche dai giovani il bisogno di abolire il conflitto, come se lo scontro sociale fosse una roba del secolo scorso. Anche il Manifesto ci ha rinunciato da tempo, mescolando confusamente beni comuni ed ecologismo. Sì, certo, di queste cose non me ne importa niente anche per miei limiti. Ma sento il bisogno di chiedere un ritorno al conflitto di classe. E non penso a un estremista assetato di sangue, ma alle analisi di Luciano Gallino, che io ricordo all'epoca di Adriano Olivetti".

Le fa orrore una società pacificata, "l'assurda intesa benedetta da Napolitano tra Berlusconi e quel po' di sinistra che resta". E non ha grande fiducia nei movimenti, generosi e vitali ma impotenti. "Prevale ovunque l'antipartito, che mi sembra profondamente sbagliato. I partiti hanno avuto molti difetti, ma ciascuno da solo non combina niente. L'alternativa rischia di essere Grillo, il quale è riuscito a condensare i peggiori vizi dei partiti - l'autorità del Capo - senza esercitarne la funzione più nobile, ossia tenere insieme le persone, impegnarle in un progetto comune. Poi lo stile: quello che ha fatto con Rodotà è al di sotto di ogni decenza".

No, ora non le interessa più tornare al Manifesto, confondersi "in quel chiacchiericcio insensato". Preferisce scrivere "su un sito di economisti intelligenti come Sbilanciamoci". Ma non è una rottura personale, solo politica. Lo ripete più volte, come se ci volesse credere. "Almeno per me è così. Non mi pesa aver litigato con qualcuno, umanamente faccio la pace subito. Io non faccio pace con le idee, che è cosa molto diversa. Ma i giovani ragionano in altro modo. E forse io voglio più bene a loro di quanto loro ne vogliano a me".

Ora che è finita, quella storia può essere raccontata, cominciando dall'inizio. Là dove chiude Una ragazza del secolo scorso, con la nascita del Manifesto e il tentativo di far da ponte tra il Sessantotto e la vecchia sinistra. "Non funzionò e vorrei tentare di capire cosa è successo. Il libro l'ho già in testa, si tratta di scriverlo. Più che l'attuale divisione da Norma Rangeri, mi pulsano gli antichi contrasti con Pintor, Magri e Natoli". Bisogna capire tante altre cose, anche perché il paese s'è ridotto in questo stato. "Lucio è stato quello che dal fallimento politico ha tratto le conclusioni più pesanti, scegliendo di morire. La perdita della moglie amata ha coinciso con una perdita di senso più generale. E ha preferito andarsene". Perché volle accompagnarlo nell'ultimo viaggio? "Era il minimo che potessi fare. Nel nostro gruppo, ero la persona che l'aveva più ferito. All'epoca del Pdup, gli portai via il giornale, sottraendogli la carta più forte nella discussione con Berlinguer. Naturalmente lo rifarei da capo, ma è sicuro che gli feci male. E avendogli voluto molto bene, mi è parso il minimo stargli vicino nel momento della fine. Stava male da anni, non era una malinconia passeggera. Abbiamo fatto di tutto per dissuaderlo, ma non ci siamo riusciti. Allora gli ho chiesto: "Lucio, vuoi che ti accompagni?". Speravo mi dicesse no. Invece lui mi ha detto sì. E io l'ho fatto".

Aveva immaginato una morte serena, "come accadeva nell'antichità". E invece no, non è andata così. "Un'esperienza terribile. Però è una scelta che rispetto, e capisco. Vivere per vivere non ha molto senso. Se non ci fosse Karol (ndr il marito malato che l'aspetta a Parigi) non avrei alcun interesse a vivere". Accompagnare qualcuno verso la morte - disse una volta in un dialogo con Manuela Fraire - vuol dire addomesticare il pensiero della propria fine. "Il dolore ti fa capire molte cose, ossia il dolore stesso. Noi rifuggiamo dall'esperienza negativa, dall'annullamento, mentre il dolore ti sbatte sul muso questa roba, e allora lo capisci. Non credo invece che tu possa uscirne migliorato, perché è un'esperienza pesante, che può schiacciarti. Così come non penso che il lutto si possa elaborare, ma rimane parte di te, incancellabile".

Tutte le persone perdute se le trascina dietro, anche qui, davanti allo strano lago che assomiglia al mare. Il lago nero della sua gioventù partigiana, quello dove i tedeschi buttarono i corpi martoriati. "Oggi vivo nel presente, ma non è più il mio, essendone venuti a mancare gli elementi costitutivi. Un presente che si restringe nel tempo e nella frequentabilità. Prima potevo dire domani vado a Berlino o salgo in montagna. Ora non lo posso dire più". Prevede l'obiezione, gli occhi s'accendono d'ironia. "No, non mi piace invecchiare. Sono entrata nel novantesimo anno, ma non ne faccio motivo di vanto. Norberto Bobbio ci scrisse sopra uno splendido libro, De Senectute. Ma io non appartengo a questa categoria. Sono rimasta esterrefatta quando mi sono trovata un ictus addosso, e vorrei liberarmene. Cosa che non avverrà. Noi del corpo non sappiamo nulla. Le mie amiche femministe dicono che le donne siano più vicine all'organismo, ma non è vero. Ora provo cosa vuol dire avere mezzo corpo, ed è terribile. Il corpo o è integro, o non è. Non si è un po' paralizzati, un po' malati. Lo si è completamente".

Ma la mente è lucida e affilata come prima dell'imboscata. "Un'aggravante. Non ti puoi distrarre da quel che sei. Non mi sono accorta di niente, quando mi è venuto l'ictus. Non ho provato dolore, non sono caduta. Guardavo la tv, nella mia casa di Parigi. E all'improvviso sono diventata una medusa, una creatura gelatinosa e impotente. Ha presente un grosso medusone?". Ti guarda e scoppia a ridere, come se l'improbabile mostro marino appena evocato potesse portarsi via le paure. "Davvero, è così. Allora bisogna avere un carattere energico, e dirsi: io vado avanti. Ma non ho questo temperamento eroico".

Doriana, l'amica che non l'ha mai lasciata, le porta il tablet per leggere. Rossanda è divertita e perplessa, "chissà se mi ci abituo". Eterna sorella maggiore, quella che ne sa sempre di più, e s'addolora se gli altri non la seguono, forse è lei oggi a desiderare una sorella più grande. "No, sono prepotente. E non potrei sopportarla". Le "ragazze del secolo scorso" sono fatte un po' così. "Sì, certo appartengo al Novecento. Anche al giornale mi hanno guardato come una donna di un tempo lontano. Ma è stato un grande secolo, cosa che l'attuale non ha l'aria di essere. Abbiamo vissuto una storia terribile, ma una grande storia. Ora siamo nelle storielle".

Che la pretesa di modificare la forma dello Stato italiano, in senso presidenzialista, sia un tentativo improvvido e sbagliato dei partiti per uscire dalle proprie interne difficoltà, è stato già sottolineato >>>
Che la pretesa di modificare la forma dello Stato italiano, in senso presidenzialista, sia un tentativo improvvido e sbagliato dei partiti per uscire dalle proprie interne difficoltà, è stato già sottolineato da autorevoli costituzionalisti: da Rodotà a Zagrebelsky a Gaetano Azzariti( sul Manifesto del 4/6). Oltre che da alcuni giornalisti della stampa democratica. E la sferza critica vale sopratutto nei confronti del PD, erede di una tradizione che per decenni ha fatto della difesa della Costituzione una intransigente bandiera e la propria bussola politica. Ma come si è arrivati a questo punto? Perché i partiti e soprattutto un partito di centro-sinistra, crede di trovare una soluzione alla propria incapacità di governo nella torsione autoritaria della forma statuale, restringendo lo spazio istituzionale del potere di comando? Credo che occorra una rapida riconsiderazione storica per afferrare le radici profonde di un simile percorso fallimentare.
Ed è sufficiente volgere lo sguardo al nostro passato prossimo, per scorgere la grande corrente di pensiero, la potente mitologia che ha cambiato la natura dei partiti politici e svuotato dall'interno quelli, comunisti e socialdemocratici, che rappresentavano gli interessi operai e popolari. Una travolgente idea-forza ha infatti spazzato lo spirito del tempo per tutto il trentennio neoliberista, mettendo in un angolo secoli di cultura politica, tradizioni di pensiero, ragioni ideali, elaborazioni multiformi. La buona novella evangelica era che il mercato, costituendo il più efficiente allocatore delle risorse, fosse anche il più virtuoso e imparziale regolatore dei rapporti sociali. La politica è stata la grande accusata, in quanto portatrice di interessi particolari, frantumati, affaristici, clientelari.
Per decenni abbiamo vissuto sotto il dominio incontrastato di questo indiscutibile aristotelismo del tempo presente: occorreva che la politica si limitasse a elaborare le regole della competizione, che operasse a favore della competizione, lasciando libere le forze sociali di esprimere la propria capacità d'iniziativa, le loro energie imprenditoriali. In breve tempo ciò che era individuale, privato, economico è venuto a incarnare il progresso, il motore dello sviluppo, il territorio senza confini della libertà. E parallelamente tutto ciò che era politico, pubblico, collettivo odorava odiosamente di parassitismo, inerzia, soffocamento delle libertà individuali.
Tutte le condizioni storiche degli ultimi 30 anni, nei i paesi di antica industrializzazione, hanno fortunosamente favorito il successo di questo nuovo senso comune universale : dalla crisi fiscale del welfare state al crollo dell' URSS, che mostrava, come in un esperimento , l'impossibilità della politica, degli apparati statuali, di surrogare la geniale spontaneità della mano invisibile. E in Italia, a onor del vero, le ragioni di discredito della politica erano forse più accentuate e visibili che altrove. Ricordiamo la lunga stagione, negli anni '80, della critica alla partitocrazia? Il blocco del sistema politico italiano, il potere di ricatto di un partito, il PSI di Craxi, l'occupazione da parte delle forze di governo di tutti gli spazi delle istituzioni e della società – secondo la denuncia di Enrico Berlinguer, riemersa di recente – hanno creato le condizioni ideali per una svalutazione radicale della politica come rappresentanza delle forze sociali dentro lo Stato, come forma di governo di un paese moderno.
Ai partiti, quali centri di potere parassitario, inconcludenti , veniva contrapposta l'impresa capitalistica, un agente dotato di una propria intrinseca eticità, in quanto generatore di ricchezza, ottenuta tramite sfide competitive e capacità di innovazione. E' questo il grande mare mitologico in cui è sguazzato per decenni il populismo berlusconiano.
Ma qual' è stato l'esito di tale ondata di emarginazione e discredito della politica? Domanda che richiederebbe un ampio saggio di ricostruzione storica. Si può tuttavia almeno ricordare un aspetto decisivo per caratterizzare la situazione attuale. L' affidare alla libera competizione delle forze in campo tutto lo spazio da esse richiesto ha avuto un risultato di indiscutibile evidenza: il soccombere del più debole, l'emarginazione delle forze di lavoro a livello mondiale. L'astrattezza da manuale di economia della libera competizione che premia i migliori ha avuto una smentita già in ambito economico. Si è visto che le imprese, anche quelle che puntano sull'innovazione di prodotto, le più avanzate e moderne, competono sul costo e sulle prestazioni intensive della forza-lavoro.
Basti per tutti l'esempio della Foxconn a Shenzhen, dove le grandi multinazionali tecnologiche, dalla Apple a Nokia, l'avanguardia lucente del capitalismo mondiale, fanno profitti sfruttando sino all'esaurimento la manodopera semischiavile cinese. Senza andare lontano, in Italia come in tanta parte dell'Occidente i prezzi relativamente contenuti dei generi alimentari si reggono sul lavoro servile degli immigrati. Mentre il dilagare del lavoro precario ha cambiato i connotati della civiltà industriale.
La consegna al libero mercato del potere di comando nella vita sociale ha progressivamente svuotato le basi popolari dei vecchi partiti comunisti e socialisti. Essi si sono trovati così a mediare tra diverse forze sociali e tra queste e lo stato, cercando di cambiar pelle, di trovare nuove configurazioni per giustificare la propria esistenza. Perché, va detto con fermezza, l'esaltazione del mercato come regolatore dominante della vita sociale, fomentata dai partiti, toglie ad essi non solo rilevanza, ma svuota le ragioni storiche della loro esistenza. Qual'è il fine di queste istituzioni, se esse non sono in grado di redistribuire la ricchezza che l'asimmetria di potere, la divisione tra capitale e lavoro, produce incessantemente in forme squilibrate ? Perciò anche il PDS, DS, PD si è trasformato progressivamente in un “partito pigliatutto”, per utilizzare l'efficace formula del politologo tedesco Otto Kirchheimer.
Una formazione che cerca di pescare consensi in tutti i ceti sociali, avendo tirato via l'ancora che la legava al mondo popolare. Una direzione di marcia sempre più obbligata, dal momento che tale partito, tutti i partiti, rimangono confinati negli spazi nazionali, mentre il libero mercato - che nel frattempo, con scelte suicide, si è lasciato scatenare - quello delle merci e quello della finanza, si muove nel mare globale. Partiti e stati impotenti e mercati sovrani. La storia capovolta dei nostri anni.
Se guardiamo a questo quadro generale, sia pure sommariamente abbozzato, noi riusciamo a comprendere le ragioni non superficiali delle attuali difficoltà del PD. Intanto il disancoraggio dalla classe operaia e dai ceti popolari, comporta una perdita gigantesca di conoscenza, il deperimento di quel sapere sociale che serve a illuminare e a indirizzare l'azione politica. Il ricorso ai sondaggi è un misero surrogato pubblicitario. Mentre è assente qualunque analisi delle tendenze profonde del capitalismo contemporaneo e dunque delle prospettive del lavoro, pur sempre il cuore della società. I partiti italiani dei primi tre decenni del dopoguerra, non solo il PCI, ma anche la DC, erano degli intellettuali collettivi, per dirla con Gramsci. Oggi questa figura viene incarnata dall'impresa multinazionale, che studia strategie di penetrazione del mercato, elabora prodotti e bisogni, anticipa tendenze culturali su scala mondiale. Mentre i partiti hanno abbandonato il compito di analizzare la società e navigano a vista in una spessa cortina di nebbia.
Perciò i loro dibattiti interni sono così dominati dalle opinioni, da un pluralismo di lega superficiale, oltre che da ragioni di lotta personale. Il PD che ha rinunciato a rappresentare la classe operaia, i ceti popolari, ampi strati di ceto medio e quella diffusa intellettualità italiana storicamente schierata a sinistra, ha rinunciato anche alla propria coesione interna, alla propria omogeneità e coerenza di corpo politico. Perciò sbanda, è un aggregato volatile, esposto a tutte le brezze. Ma restando nel presente limbo manca di riempire quello spazio politico che le è storicamente proprio: quello della sinistra popolare, capace di stare sul territorio, di rappresentare interessi e conflitti relativamente omogenei, oltre che di promulgare leggi di governo. Una latitanza, questa si, che paralizza e rende zoppo l'intero sistema democratico. Che cosa c'entra la Costituzione?

Questo articolo è stato pubblicato da il manifesto del 30 maggio 2013 col titolo "Lavorare meno, lavorare tutti" e aveva dei refusi. Abbiamo chiesto all'autore il testo corretto e lo ha cortesemente inviato col titolo originario. Ne pubblichiamo questa versione, con una postilla

La disoccupazione giovanile che colpisce l’Italia ed altri paesi europei in una forma estremamente acuta è vissuta come una calamità naturale, un’emergenza, come se si trattasse di un incidente di percorso, di un evento imprevedibile nella storia del capitalismo nei paesi industrializzati. Il fatto che la disoccupazione in generale, e quella giovanile in particolare, siano un dato strutturale nei paesi a capitalismo maturo non è nemmeno preso in considerazione nell’odierno dibattito politico.

Keynes pensava che, nel breve periodo, si potesse contrastare la disoccupazione con un incremento della spesa pubblica in deficit, ma nel lungo periodo dovevamo inevitabilmente fare i conti con la disoccupazione tecnologica: «Nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell’arco della nostra vita, potremmo essere in grado di compiere tutte le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell’energia umana che eravamo abituati ad impegnarvi. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con un ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera» (Prospettive economiche per i nostri nipoti,1930)

In sostanza, Keynes aveva molto chiaro il fatto che l’inarrestabile progresso tecnologico avrebbe comportato una disoccupazione crescente, all’interno delle società a capitalismo maturo, ed avrebbe richiesto provvedimenti strutturali per farvi fronte. L’unica terapia efficacia in grado di contrastare la crescente disoccupazione era , secondo il grande economista di Cambridge, la netta riduzione dell’orario di lavoro: «Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi» (ibidem).

Anche il movimento operaio europeo si è battuto in passato per la riduzione dell’orario di lavoro. Nel 1848 le Trade Unions ottennero in Inghilterra le “10 ore di lavoro” come tetto massimo, in un tempo in cui gli operai lavoravano anche 14-15 ore al giorno. Tra le due guerre mondiali, in quasi tutti i paesi europei il movimento dei lavoratori ottenne le famose “8 ore di lavoro” , come limite massimo della durata del lavoro giornaliero. Bisogna aspettare la seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso perché la discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro riprendesse quota. Con scarsi risultati. Solo in Francia, durante il governo Jospin nel 1998 fu varata una legge per la riduzione da 40 a 35 ore del lavoro settimanale. Suscitò grandi polemiche e una guerra mediatica della Confindustria francese, con il risultato di un rientro di fatto, o tramite gli straordinari, alle 40 ore settimanali. In Germania c’è stato un accordo per le 36 ore settimanali, o la settimana breve, in qualche grande industria automobilistica, che è rimasto come un fatto separato dal resto dell’apparato produttivo. In breve, dopo quasi un secolo, l’orario di lavoro è rimasto pressoché invariato nei paesi industrializzati, malgrado gli enormi aumenti di produttività che, come aveva previsto Keynes, hanno ridotto drasticamente l’energia umana impiegata per unità di prodotto. Gli straordinari aumenti di produttività per addetto sono andati in gran parte ai profitti ed alle rendite, dato che la quota dei salari sul Pil è scesa drasticamente in tutti i paesi occidentali negli ultimi venti anni. Per mantenere elevata la domanda, e quindi la crescita economica, si è ricorsi ad un iperbolico processo di indebitamento- di famiglie, imprese e Stati- che ci ha portato al collasso che stiamo vivendo dal 2008.

E’ ormai evidente che nessun paese possa, da solo, trovare una terapia efficace per contrastare la disoccupazione strutturale. Ma, nell’area della Unione Europea, se ci fosse la volontà politica, si potrebbe concertare una riduzione significativa dell’orario di lavoro, almeno nei settori meno esposti alla concorrenza internazionale (ad esempio, l’edilizia, il pubblico impiego,ecc.). Ma, si potrebbe anche pensare ad una defiscalizzazione proporzionale alla riduzione dell’orario di lavoro nelle imprese che decidessero di percorrere questa strada. Anziché dare contributi ed incentivi alle imprese per assumere giovani- inutili in un momento in cui le imprese hanno le scorte di magazzino piene e la domanda è stagnante o calante- l’incentivo governativo dovrebbe premiare chi ridistribuisce l’orario di lavoro, con un beneficio per l’occupazione e per le imprese: i lavoratori meno stressati producono meglio.

Per esempio, con un diminuzione di quattro ore di lavoro settimanale, a parità di salario, si potrebbe solo in Italia creare oltre un milione di posti di lavoro, tra pubblico e privato. Ed invece, neanche se ne parla. Anzi, le imprese insistono per la defiscalizzazione degli straordinari, i precari ed i lavoratori sottopagati sono costretti a fare anche un secondo o terzo lavoro in nero, il governo Monti ha tentato di allungare le ore di lavoro nella scuola, l’età per andare in pensione è stata spinta verso l’alto, con la conseguenza di una disoccupazione che cresce a dismisura e di 2,2 milioni di giovani che non studiano né lavorano.

Gli economisti neokeynesiani – da Stiglitz a Krugman - insistono per una ripresa della spesa pubblica per contrastare la recessione e le politiche di austerity, ignorando il fatto che Keynes vedeva il deficit spending come una misura congiunturale, di breve periodo, per contrastare la disoccupazione e fare ripartire la domanda aggregata,in una fase storica in cui il debito pubblico era ancora una frazione del Pil.

La riduzione dell’orario di lavoro è non solo una necessità per contrastare la disoccupazione crescente, ma anche una scelta di civiltà: a che cosa è servito lo strepitoso progresso tecnologico, la telematica, la robotica, la meccanizzazione di tante operazioni una volta svolte dalla mente e dalle braccia degli esseri umani ? Che senso ha una società che dopo aver moltiplicato per cinque volte la sua ricchezza materiale, dopo la seconda guerra mondiale, non riesce a distribuire decentemente il lavoro e la ricchezza prodotta, costringendo alcuni a morire di lavoro ed altri a suicidarsi per la mancanza di lavoro ?

PostillaIl titolo che il manifesto ha dato a questo articolo (ne pubblichiamo la stesura che mi ha cortesemente inviato Tonino Perna, che ringrazio) è un vecchio slogan: “Lavorare meno, lavorare tutti”. Questo slogan mi sembra che non riassuma perfettamente il testo, sebbene ne colga l’essenziale se riferito a ciò che è possibile affrontare positivamente oggi. Se ci si allontana dall’ottica keynesiana-neokenesiana e si prova a immaginare un sistema economico-sociale diverso dal capitalismo, le cose potrebbero vedersi diversamente e quello slogan potrebbe non avere più senso. Oggi, e finchè siamo nel sistema capitalistico, il lavoro è utile all’uomo è perchè gli procura un reddito e gli assicura una posizione sociale, ma il suo fine ultimo è produrre plusvalore in misura crescente a chi può sfruttare la forza lavoro altrui. I miei maestri Claudio Napoleoni e Franco Rodano mi hanno insegnato che, a partire da Marx, si puà avere una diversa idea del lavoro, pienamente confacente alla persona umana e a un’idea di umanità diversa da quelle proprie alle culture del capitalismo. Non è forse “lavoro” anche l’attività psicofisica svolta da quanti impèiegano il loro “tempo libero” alla comprensione del mondo e alla sua trasformazione? Quelle attività che vanno dalla creazione artistica e all’investigazione sul mondo e sugli uomini, a comprendere e governare meglio le trasformazioni del pianeta (e dell’Universo) nel quale abitiamo. , dalla politica alla solidarietà. E’ utopia tirar fuori la testa dlle consolidate ideologie del capitalismo e pensare che tutte le forme dell’impiego dell’energia psicofisica dell’uomo, del lavoro, ove ritenute socialmente utili, abbiano un riconoscimento sociale e quindi il diritto a un reddito. Probabilmente si, ma la storia ci insegna che senza utopie il mondo siferma gli uomini diventano (o ridiventano) bestie. Sull'argomento vedi anche, benché non aggiornato, Il lavoro su eddyburg.

waltertocci.blogger.it, 29 maggio 2013

Sono trent’anni che parliamo di riforme istituzionali. È cambiato il mondo ma l’agenda è rimasta sempre la stessa. L’elenco delle cose da fare si è sfilacciato e rimpicciolito, ma campeggia in tutti i programmi di governo. Certo, non c’è più l’entusiasmo iniziale delle tante Bicamerali. In compenso si è tramutato in ossessione.

Psicoanalisi: la colpa del fallimento della politica trasferita dai partiti alle istituzioni

Il dato saliente del trentennio è il fallimento dei partiti, dei vecchi e dei nuovi, della Prima e della Seconda Repubblica. La classe politica, però, ha oscurato questa causa della crisi di governabilità e l’ha attribuita alle istituzioni. È riuscita con una sorta di transfert psicanalitico a spostare il proprio trauma sulla forma dello Stato. Ha rimosso la propria responsabilità per attribuirla alle regole. In nessun altro paese europeo si è manifestata una simile ossessione, per il semplice motivo che i partiti, pur in difficoltà per ragioni generali, non hanno mai perduto la legittimazione.

Questo è il motto del politico, a tutti i livelli, dal governo nazionale all’ultimo dei municipi. Di questo alibi è riuscito a convincere i giornalisti e i politologi – grandi esperti di semplificazioni – e tramite loro l’intera opinione pubblica. Quando la politica è in crisi non perde affatto la capacità di convincimento del popolo, bensì si ritrova ad applicarla alle divagazioni invece che ai problemi reali.

L’equivoco ha alimentato l’accanimento a cambiare le regole, e quando è stato raggiunto lo scopo l'esito si è rivelato negativo. Si fatica a trovare un caso di successo: tutte le regole modificate sono state anche peggiorate.

La divagazione non è stata innocua. Mentre ci occupavamo dell'ingegneria istituzionale, avanzava un pauroso degrado dell'amministrazione statale. La burocrazia, l'inefficienza e l'incompetenza hanno raggiunto livelli inimmaginabili solo trent'anni fa. Le decisioni ormai si prendono solo tramite norme e incentivi, perché non esistono più gli strumenti efficaci per attuare vere politiche pubbliche, come ha denunciato autorevolmente Sabino Cassese.

Il malessere dei cittadini nasce proprio dalla fatica del rapporto quotidiano con la macchina statale, sempre più incomprensibile e bizzosa. Qualcuno si illude ancora che il cittadino allo sportello sentirà giovamento dalla riforma del bicameralismo. La vera priorità sarebbe una profonda riforma dell'amministrazione, che invece è addirittura scomparsa dall'agenda di governo e affidata a un modesto ministro.

Così, l'esaurimento della Seconda Repubblica ci consegna una forma istituzionale sfilacciata e una classe politica disprezzata se non rifiutata dalla metà del popolo. Alla lunga la rimozione della causa politica della crisi non ha funzionato; l'alibi è stato scoperto, e i cittadini hanno attribuito tutte le responsabilità alla Casta.

Eppure, torna all'esame del Parlamento la vecchia agenda di riforme istituzionali. E stavolta si vuole fare sul serio, cambiando prima di tutto l'articolo 138 che è la chiave di sicurezza dell'intera Costituzione. Mi pare incredibile che una decisione di tale rilevanza storico-giuridica sia presa qui frettolosamente, senza neppure conoscere il testo. Chiedo almeno un rinvio perché si possa esprimere la Direzione del partito, già convocata per la prossima settimana, o ancora meglio l'Assemblea nazionale. E su un argomento tanto importante - per la procedura e ancor di più per i contenuti – sarebbe davvero utile ascoltare il popolo delle primarie con una consultazione ben organizzata.

La mitologia politica

La vecchia agenda resiste perché appartiene alla mitologia politica, cioè a quelle fantasie che durano nel tempo proprio perché evitano di fare i conti con la realtà. Due miti sembrano i più resistenti alla smentita dei fatti.

Il primo è il futurismo legislativo: bisogna fare in fretta, il mondo cambia ed esige velocità nelle decisioni. Sembra una cosa di buon senso, ma nella realtà le leggi più brutte sono anche quelle approvate in fretta: il Porcellum in poche settimane, le norme ad personam di gran carriera, le leggi Fornero sotto lo sguardo ansioso dei mercati (mentre ora tutti vorrebbero correggerle), e così via molte altre.

Approvare una legge è diventata forma di rappresentazione mediatica che prescinde dall'utilità dell'amministrazione: quasi tutte le norme assunte per motivi propagandistici sulla sicurezza, sul fisco e sulle promesse per la crescita si sono rivelate inutili o dannose non appena spente le luci dei riflettori della scena televisiva.

C'è una pericolosa tendenza alla riduzione dei concetti e delle parole. La riforma è ridotta a una congerie di norme, senza alcuna attenzione per i processi organizzativi e sociali della fase attuativa. La decisione è ridotta alla mera approvazione di una legge, senza la profondità culturale e concettuale di una vera innovazione politica.

Il decisionismo si è ridotto a iper-normativismo. Gli snellimenti delle procedure che promettevano un'amministrazione più efficiente in realtà hanno aperto gli argini all'alluvione normativo-burocratica che soffoca la vita quotidiana dei cittadini. Tutti i campi dell'amministrazione – la scuola, i tributi, la giustizia – sono travolti da continui cambiamenti delle regole. Si approva una legge, e prima di attuarla già viene modificata; si accumulano micronorme disorganiche e improvvisate che spargono confusione e contenziosi nell'ordinamento.

La vera riforma dovrebbe, al contrario, rallentare la procedura legislativa: poche leggi l'anno, magari in forma di Codici unitari che regolano organicamente interi campi della vita pubblica, delegando funzioni gestionali al governo e aumentando i poteri di controllo e di indirizzo del Parlamento. Si dovrebbe introdurre l'innovazione della policy analysis rinunciando a legiferare su un argomento prima di aver verificato i risultati della legge precedente.
Ci sono oggi tanti sedicenti liberali; ma fu un liberale vero come Einaudi a fare l'elogio della lentezza parlamentare: meno leggi si fanno – diceva - meglio è per il paese.

Il secondo mito che resiste ai fatti è l'uomo solo al comando. Eppure i guasti della Seconda Repubblica derivano proprio dall'esasperata personalizzazione politica. Sembrava ormai acquisita tra noi questa consapevolezza, e invece vedo crescere una nuova infatuazione. Si confonde la malattia con la terapia. Ho già detto che introdurre il presidenzialismo in Costituzione è come curare l'alcolista con il cognac, se vi piace il modello francese. Oppure curarlo con il bourbon, se vi piace il modello americano. Noi non abbiamo i contrappesi civili degli americani né quelli statuali dei francesi. L'uomo solo al comando si è sempre presentato come una patologia nella nostra storia nazionale, soprattutto oggi nella crisi della politica. Solo in Italia sono potuti diventare protagonisti le due figure opposte e simili del tecnico e del comico, questa addirittura in doppia versione. Tecnocrazia e populismo sono malattie endemiche in Europa. Le cancellerie europee si preoccupano non per noi ma per loro, perché sanno che l'Italia anticipa le innovazioni maligne e hanno paura del contagio del nostro virus.

No, non si tratta della svolta autoritaria paventata da un certo refrain di sinistra. Ma il presidenzialismo non è neppure il semplice emendamento di un articolo, poiché implica la riscrittura di parti intere della Carta. È un'altra Costituzione. Non sappiamo se alla fine avremo ancora la più bella Costituzione del mondo.

Non sappiamo più pensare col linguaggio della Costituzione

Non voglio dire che sia un tabù il cambiamento della Carta. Anzi, ci vorrebbe una policy analysis delle modifiche apportate nell'ultimo decennio. Quasi tutte si sono rivelate se non sbagliate almeno controverse: il Titolo Quinto, approvato in fretta prima delle elezioni del 2001, che oggi tutti vorrebbero modificare; lo ius sanguinis, che abbiamo introdotto per consentire a un figlio di emigranti di votare alle elezioni politiche, molto diverso dallo ius soli che oggi invochiamo per dare lo stesso diritto ai figli degli immigrati che ancora non possono chiamarsi italiani; l'obbligo di pareggio di bilancio, approvato sotto il ricatto dei mercati e dell'establishment europeo, che oggi vorremmo derogare senza sapere come liberarci dalle nostre stesse macchinazioni.

D'altro canto basta leggere il testo costituzionale per notare la discontinuità. La bella lingua italiana, con le parole semplici e intense dei padri costituenti, viene improvvisamente interrotta da un lessico nevrotico e tecnicistico, scandito dai rinvii a commi e articoli, come nello stile di un regolamento di condominio. Sono queste le parti aggiunte dalla nostra generazione. Dovremmo prenderne atto con un certa umiltà, con quel senso del limite di cui parla Papa Francesco. Non tutte le generazioni hanno la vocazione a scrivere le Costituzioni. Che la nostra sia inadeguata al compito è ormai evidente. Lasciamo alle generazioni future il ripensamento dell'eredità costituzionale.

Tanto meno questa ambizione può essere affidata al governo PD-PDL, che si dovrebbe occupare di altre priorità, su tutte quella di creare lavoro per i giovani. Qui si misurerà la sua efficacia, e anche il risultato politico del PD. Al governo Letta servirebbe molto pragmatismo. Non ha bisogno di cercare la santificazione con la revisione costituzionale. E allo stesso tempo non può pretendere di condizionare con la lealtà di maggioranza la discussione sulla Costituzione. Sarebbe la prima volta nella storia repubblicana.

Questo rischio è intrinseco alla mozione sull'articolo 138 che si spinge a “impegnare il governo” nella proposta di revisione costituzionale. E ancora più preoccupante è la correlazione che il testo stabilisce tra la riforma elettorale e il nuovo assetto istituzionale. Il Porcellum, dopo essere stato riconosciuto incostituzionale dalla Cassazione, rischia di essere costituzionalizzato dalla mozione parlamentare, poiché qui c'è scritto che non si potrà approvare una nuova legge elettorale prima di aver concluso il lungo processo di riforme istituzionali. È un assurdo giuridico: la legge elettorale è ordinaria e segue procedure più semplici di quella costituzionale. Ma ancor di più si tratta di un autolesionismo politico per noi del PD, dal momento che cederemmo di nuovo a Berlusconi il pallino della partita. Quando avrà esigenza di staccare la spina, non dovrà far altro che portarci a votare senza alcuna modifica al Porcellum. Già una volta, la scorsa estate, ci siamo fatti gabbare accettando di discutere la legge elettorale insieme al pacchetto istituzionale. Sappiamo come è andata a finire. Siamo rimasti col cerino in mano.

Temo che in casa nostra i professionisti della sconfitta siano ancora nella plancia di comando. Per tutte queste ragioni, non ritengo possibile votare la mozione che apre la strada al cambiamento dell'articolo 138 della Costituzione.

Stato, proprietà: argini tra i quali scorre il fiume della libertà oppure incudine e martello per i diritti della persona umana? L'articolo 32 della Costituzione ci garantisce da un lato (“La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”), ma dall'altro?

LaRepubblica, 26 maggio 2013

Al cittadino appartiene la proprietà, al sovrano l’impero». Così scriveva il relatore del Codice Napoleone del 1804, uno dei più significativi documenti giuridici della modernità. Due assoluti, dunque, ciascuno dei quali limita l’altro. Si apre così una vicenda che, secondo la tradizione liberale, vede l’assolutismo della proprietà come un limite a quello della sovranità; mentre nella tradizione sociale l’assolutismo proprietario è contestato proprio grazie agli strumenti offerti da una sovranità assoluta.

La riflessione storica offre uno sfondo più largo all’analisi e alla ricostruzione dei rapporti tra proprietà e sovranità, dai quali non si può prescindere, tanto che proprio uno storico, Frederic Maitland, ebbe a scrivere che “l’intero diritto costituzionale sembra a volte nient’altro che un’appendice del diritto di proprietà. Sarebbe disastroso, oltre che stupido, se consigliassi di leggere la storia costituzionale senza studiare il diritto della proprietà terriera”. Considerazioni come questa, tuttavia, non devono indurre a concludere che l’unico rapporto da indagare sia quello tra sovranità e proprietà terriera, trascurando il fatto che, appunto nella modernità, gli elementi costitutivi dello Stato vengono individuati nella sovranità, nel popolo e nel territorio, inteso quest’ultimo come lo spazio dove si esercita la sovranità statale, indipendentemente dai regimi proprietari che il territorio può assumere. La misura della sovranità e della proprietà incide profondamente nella dimensione dei diritti. La prevalenza accordata alla proprietà, infatti, può determinare l’estensione dei diritti politici, com’è accaduto quando lo stesso diritto di voto è stato subordinato a un livello di reddito: la cittadinanza si fa censitaria. Ma quella prevalenza si manifesta come determinante anche nella materia dei diritti civili, dal momento che la disciplina delle relazioni personali e sociali è stata lungamente caratterizzata dalla logica patrimonialistica, dunque dal rapporto istituito con la proprietà. Il riferimento alla cittadinanza è importante, perché l’uscita dal territorio nazionale ha significato, e in troppi casi significa ancora, perdita di una serie di diritti. Proprio la liberazione dal vincolo spaziale, allora, può determinare la pienezza della cittadinanza, intesa come quel fascio di diritti che la persona porta con sé indipendentemente dal luogo in cui si trova.

Si può ben dire che la lotta per i diritti si è svolta, e continua a svolgersi, su due fronti, per sottrarsi alle limitazioni imposte da sovranità e proprietà. Peraltro, nella fase più recente il rapporto con sovranità e proprietà si è profondamente trasformato. La garanzia dei diritti affidata alla sovranità nazionale (il giudice a Berlino) si indebolisce in un mondo globale dove la sovranità svanisce e il garante diventa introvabile. E la proprietà si è insediata nelle nostre società con una rinnovata prepotenza che vuol farne la misura di tutte le cose, in sintonia con un mercato inteso come unica legge “naturale”. Al tempo stesso, però, la logica dei beni comuni torna a indicarci forme diverse di sovranità e l’“opposto della proprietà”.

Ma la scoperta del corpo, il principio del consenso come fondamento dell’autodeterminazione della persona ci parlano di un’altra sovranità, quella che si manifesta nel libero governo del sé, della propria vita. Nel complesso passaggio dal soggetto astratto alla persona costituzionalizzata, riconosciuta nella concretezza del vivere, che caratterizza la fase presente, si realizza un vero e proprio trasferimento di sovranità, testimoniato nella sua forma più radicale proprio dalle parole dell’articolo 32 della Costituzione: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Il sovrano non può penetrare in uno spazio proprio della persona. Il patto sociale viene così “rinegoziato”, la cessione di sovranità allo Stato viene circoscritta, la condizione di “suddito” viene revocata in dubbio quando si giunge al nucleo dell’esistenza.

Intervistato da camillo Lopapa sulla "convenzione" bipartisan e sulla truffa della "pacificazione risponde comme il faut. «La Convenzione umilia il Parlamento così si blinda solo una oligarchia».

La Repubblica, 18 maggio 2013
L’ora della mobilitazione, per reagire «a questa condizione crepuscolare della democrazia ». Per difendere la Costituzione ancora una volta «a rischio» dall’attacco che le viene mosso da una «oligarchia politica» che ricorre adesso a una Convenzione «estranea alla Costituzione». Parla di tentativo di «normalizzare» il Paese, il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky, altro che di «pacificazione». E di parlamentari che «senza titoli» si son messi in testa di cambiare volto alla Carta.

Il 2 giugno, lei e il professor Rodotà in piazza a Bologna in difesa della Costituzione: «Non è cosa vostra». Perchè questo rinnovato atto di fedeltà alla Carta proprio mentre la maggioranza studia come modificarla? È una provocazione controcorrente?
«Si sta giocando una partita politica e la posta è elevatissima. È in atto un tentativo di spoliticizzazione, una sorta di mascheramento ».

Un mascheramento, professore Zagrebelsky?
«Le maschere sono i tecnici, i saggi, gli esperti. Certo, dell’efficienza un sistema politico non può fare a meno, pena il suicidio. Ma, l’efficienza non esiste in sé e per sé».

Si è insediato un governo di larghe intese che si propone tra l’altro di modificare la macchina dello Stato. Non la convince?
«A me pare piuttosto evidente che sia in atto un disegno di razionalizzazione d’un potere oligarchico. In Italia non si è forse radicato un sistema di giri di potere, sempre gli stessi che si riproducono per connivenze e clientele? Parlando di oligarchie, non si pensi solo alla politica, ma al complesso d’interessi nazionali e internazionali, che nella politica trovano la loro garanzia di perpetuità».

Appunto, quale occasione migliore per cambiare quegli assetti, per riformare?
«Sono decenni che se ne parla. Ma ora sembra che sia giunta l’ora. Quel complesso d’interessi è sovraccarico e non riesce più a trovare un equilibrio. Rischia l’implosione e s’inceppa. La rielezione del Presidente della Repubblica — impensabile in un sistema di governo anche solo minimamente dinamico — è rivelatrice. L’applauso grato e commosso d’una maggioranza impotente è il segno dell’impasse. Per il futuro, ci vogliono riforme. Ma dal punto di vista democratico, sono in realtà controriforme».

Perché controriforme?
«Guardiamo le cose che si intende e le cose che non s’intende fare. Il presidenzialismo, quale che ne sia il modello, è un modo di concentrare in alto la politica e di ridurre dei cittadini a “micro-investitori” del loro voto, a favore d’un gestore d’affari nel cerchio stretto delle oligarchie. In breve: è il protettorato d’un sistema di potere chiuso. Altro che più potere al popolo! Anzi, il popolo deve non sapere o sapere il meno possibile: si è ripresa infatti la discussione sul “riequilibrio dei poteri” a danno dell’indipendenza della magistratura, e sui limiti al giornalismo d’inchiesta (vedi la questione delle intercettazioni). E poi, quel che non si intende fare: vedi il silenzio calato sul conflitto di interessi esull’inasprimento delle misure contro l’illegalità. Le oligarchie, del resto, sono regimi dei privilegi. Hanno bisogno di compiacenze e illegalità».

È così sicuro che una riforma in chiave semi presidenziale non ci metta in linea con le moderne democrazie? In fondo, anche il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica negli ultimi anni siè rivelato ancor più risolutivo per uscire da pericolose crisi. Perché non codificarlo nella Costituzione?
«Inviterei a maneggiare l’argomento con cautela. Una cosa è l’espansione dell’azione presidenziale a tutela delle istituzioni parlamentari previste dalla Costituzione. Altro è l’azione che prelude a una nuova normalità. Questa seconda cosa contraddirebbe l’obbligo di fedeltà alla Costituzione. Il Capo dello Stato ne è “garante” quando agisce per preservarla dalle trasformazioni “materiali”, non certo quando le promuove. Ma il presidente Napolitano ha più volte precisato di muoversi nella prima direzione e di quello gli va dato atto. Chi oggi sostiene che siamo ormai in un regime presidenziale fa torto al presidente della Repubblica».

Lei parla di consolidamento oligarchico. E la pacificazione di cui si fa un gran parlare?
«Chi di noi non è per la pace e per la pacificazione? Ma la pace è esigente, molto esigente. Non può esistere senza condizioni. La pace è la conseguenza della verità e della giustizia. Altrimenti, pacificare significa solo “normalizzare”».

La Convenzione non basta per la pacificazione?
«Perché dovrebbe essere affiancata da “esperti”, cioè da persone al fuori dei contrasti politici? Gli esperti sono a loro volta portatori di visioni politiche e saranno messi lì dai partiti in quanto corrispondano ai loro progetti.Saranno “maschere”. Mi auguro che in pochi accettino di assumere questo ruolo».

Insomma, non pone alcuna fiducia nella Convenzione?
«Mah. La Costituzione, all’art. 138, prevede un procedimento lineare per mutare la Carta. Si vuole, invece, una procedura, per così dire, blindata, dapprima la Convenzione, poi il voto bloccato delle Camere: o sì, o no, senza emendamenti. Mi chiedo come possano i parlamentari accettare una simile umiliazione. Una procedura complicata ma anche totalmente estranea alla Costituzione. Per questo, si prevede — solo dopo — una ratifica con legge costituzionale, che è essa stessa la confessione che si agisce contro laCostituzione».

Ma i parlamentari avranno il potere di riformare, almeno nelle commissioni competenti, o no?
«I nostri politici “costituenti” hanno un mandato? Chi li ha autorizzati? Sono stati eletti per questo? Basta la retorica delle riforme per legittimarli? Il 2 giugno ci troveremo per dire non solo che i contenuti della controriforma non ci piacciono, ma anche che il metodo è sospetto. Sono in gioco nodi cruciali della nostra vita, non fredde operazioni di ingegneria costituzionale, come si vuol far credere. Lavoro, uguaglianza, giustizia sociale, diritti di tutti, cultura, salute, legalità, trasparenza: cose possibili in democrazia, quando la si espande. Difficili o impossibili, quando la si restringe ».

«L'Ue che conosciamo è solo un'isola di benessere per élite. Per uscire dalle sabbie mobili del Vecchio Continente è necessaria una "campagna costituente" che sappia trasformare le istituzioni in forze alternative che non siano semplici assemblaggi di poteri».

Il manifesto, 17 maggio 2013

Étienne Balibar ha perfettamente ragione («Una crisi esplosiva di sistema», il manifesto del 4 maggio): dobbiamo «porre da subito il problema di una rifondazione dell'Unione, in vista della costruzione di un'altra Europa». Dovremmo essergli grati per aver messo in corsivo sia «da subito» sia «rifondazione». Si deve agire ora, e quest'azione non può dare per scontata né l'esistenza delle forze politiche da mobilitare, né le coalizioni sociali capaci di sostenere una simile mobilitazione, né le energie intellettuali da attivare, né i canali e le strutture istituzionali da assumere come riferimento.
Serve, su ciascuno di questi livelli, una campagna costituente, che sappia trasformare forze e istituzioni esistenti, crearne di nuove, incanalare lotte e «indignazione» sociali verso l'obiettivo di «costruire un'altra Europa», producendo al tempo stesso nuovi linguaggi politici e immaginari culturali. Una campagna costituente, dicevo: non una campagna per un'«assemblea costituente», per la quale mancano attualmente tutte le condizioni. Penso a un progetto di durata decennale, in grado di reinventare radicalmente lo spazio europeo, la sua posizione in un mondo tumultuosamente in trasformazione, le sue istituzioni e la sua cittadinanza sulla base di una nuova coniugazione di libertà e uguaglianza. È necessario aggiungere che una simile reinvenzione non può che essere allo stesso tempo una reinvenzione della sinistra in Europa? Se la sinistra ha un futuro in questa parte del mondo, sono convinto che questo futuro non possa che essere costruito su scala continentale.
Dovremmo essere consapevoli della dimensione globale delle sfide di fronte a cui ci troviamo oggi in Europa. È evidente che la messa in discussione di consolidate gerarchie spaziali e l'affermazione di nuove geografie dello sviluppo e dell'accumulazione capitalistica figurano in primo piano tra le tendenze che sottendono l'attuale crisi economica globale. Nuovi regionalismi e nuovi modelli di multilateralismo stanno prendendo forma in molte parti del pianeta, una sorta di «deriva dei continenti» (per riprendere l'immagine geologica impiegata da Russell Banks nel famoso romanzo omonimo del 1985) sta ridisegnando il mondo. All'interno di questi processi, l'Europa è sempre più «provincializzata», anche se non necessariamente nel senso suggerito da Dipesh Chakrabarty nel suo importante libro del 2000.

Limiti dell'appartenenza

Di per sé, non è un male. Tutt'altro. Ma per cogliere e interpretare politicamente le opportunità connesse a questa provincializzazione dell'Europa abbiamo bisogno di una scala continentale di azione politica e di governo. Abbiamo bisogno di un'Europa politica. Al di fuori di quest'ultima, la prospettiva è quella di un'Europa ridotta a qualche isola di benessere e ricchezza in un mare di povertà e privazione: cosa che abbiamo già iniziato a sperimentare nel Sud del nostro continente. Inoltre solo su scala continentale è possibile immaginare la costruzione di un rapporto di forza favorevole con il capitale finanziario, il cui dominio all'interno del capitalismo contemporaneo è alla radice della crisi di ogni mediazione politica (ovvero della democrazia) oggi così evidente in Europa.

Non è questo il luogo per analizzare a fondo le implicazioni dello sguardo «geopolitico» sulla questione europea (il che significherebbe in particolare discutere su basi completamente nuove il problema delle relazioni tra Europa e Stati Uniti). Ma è importante tenere a mente la pertinenza degli argomenti qui appena evocati per qualsiasi indagine critica sull'attuale situazione europea. Nel seguito di questo breve intervento, in ogni caso, voglio concentrarmi su qualcos'altro. Parlare di una campagna costituente significa prendere in considerazione la necessità di una rottura allo scopo di aprire la via a un'«altra Europa».

Penso sia importante essere consapevoli, in questo senso di quanto profonda sia la rottura che è già stata prodotta all'interno della stessa struttura delle istituzioni europee nel contesto della crisi globale. Faccio parte di coloro che a partire dalla metà degli anni Novanta hanno cercato di lavorare «dentro e contro» la cittadinanza europea in formazione, soprattutto per quel che riguarda i movimenti e le lotte dei migranti. Non si tratta certamente di liquidare in modo sbrigativo quell'esperienza, che è stata anche accompagnata da importanti dibattiti teorici, nel tentativo di sfidare i limiti e i confini della concezione tradizionale della cittadinanza. Al tempo stesso, non si può evitare di fare un bilancio delle radicali trasformazioni che negli ultimi anni hanno investito la cittadinanza europea. Sia dal punto di vista dell'«appartenenza» che dell'architettura istituzionale - per richiamare i due punti di vista prevalenti negli studi sull'argomento - ci troviamo di fronte a una profonda crisi della cittadinanza europea.

Per dirla brutalmente, questo concetto è stato spogliato di qualsiasi significato «positivo» e «progressivo» agli occhi di una vasta maggioranza della popolazione europea, e in particolare in Paesi come la Grecia, la Spagna, l'Italia essa ha finito per essere ampiamente identificata con la continuità delle politiche di austerity e con il loro carattere «punitivo». Allo stesso tempo, come molti giuristi hanno notato, l'intero progetto di «integrazione attraverso il diritto», tratto distintivo dell'integrazione europea nel suo complesso, si è trovato di fronte ai propri limiti e alle proprie contraddizioni degli ultimi anni. L'equilibrio tra un sovra-nazionalismo giuridico e i processi politici di negoziazione, alla base di quel progetto, è stato destabilizzato: la processualità giuridica è stata sempre più nettamente caratterizzata da una dinamica autonoma, collegandosi in modi inediti con gli apparati burocratici europei e con una molteplicità di gruppi d'interesse.

Ne è emersa la cristallizzazione di un nuovo «assemblaggio» di potere capace di dettare standard e norme che restringono sempre di più il campo d'azione di qualsivoglia politica («europea» non meno che «nazionale»). Con il Fiscal Compact e con il Meccanismo Europeo di Stabilità, la camicia di forza della stabilità monetaria, i programmi di disciplina fiscale e la continuità dell'austerity si sono ulteriormente rafforzati, consolidando la posizione (e l'indipendenza) della Banca Centrale Europea al centro di questo «assemblaggio» di potere.

È difficile immaginare un'altra Europa politica senza porre l'accento sulla necessità di strappare questa camicia di forza e di spezzare questo «assemblaggio» di potere. «Default democratico» (Giandomenico Majone), «crisi di legittimità» (Fritz Scharpf), ulteriore rafforzamento della natura «elitaria» e «post-democratica» dell'Ue (Wofgang Streeck) sono alcune delle formule che circolano nei dibattiti sulla crisi europea nel tentativo di cogliere le implicazioni della rottura a cui si è fatto cenno - della soluzione di continuità che si è prodotta all'interno del processo di integrazione.

Lavoro vivo

Se nel concetto moderno di democrazia, per riprendere i termini proposti in un celebre saggio di Étienne Balibar, è iscritta una dialettica tra la dimensione «insurrezionale» e la dimensione «costituzionale» della politica, si deve riconoscere che oggi in Europa (sia a livello nazionale sia a livello di Ue) questa dialettica sembra essere interrotta. Quel che ne consegue è una divisione che attraversa gli stessi concetti di politica e democrazia. I loro momenti conflittuali e «insurrezionali» continuano a riprodursi all'interno delle lotte e dei movimenti sociali, ma essi non trovano nessun tipo di feedback all'interno delle istanze governative e «costituzionali». Quello che rimane a livello nazionale della «democrazia conflittuale» (citando nuovamente una formula di Balibar) su cui si è fondato lo sviluppo dello Stato sociale democratico è al momento in fase di smantellamento o comunque sotto attacco, mentre a livello europeo non c'è nessun tentativo di compensare questa «perdita» con l'edificazione di nuovi sistemi di welfare su scala continentale. Anche quanti avevano creduto che il Trattato di Maastricht avrebbe posto le basi per uno «scambio» di questo genere sono oggi costretti a ricredersi.

Inutile dire che questo tema dovrebbe essere prioritario nella «campagna costituente» che si tratta di avviare. E non è possibile immaginare una ricostruzione dei sistemi di welfare a livello europeo secondo il modello del welfare state «storico», quale lo abbiamo conosciuto in Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Troppe cose sono cambiate, e radicalmente, nella struttura del capitalismo e nella composizione di ciò che, con un concetto marxiano, possiamo chiamare il «lavoro vivo» contemporaneo. Basti pensare ai dibattiti sulla precarietà, sulle nuove caratteristiche delle migrazioni o, per limitarci a un unico ulteriore esempio, sulle trasformazioni della struttura famigliare e dei rapporti tra i generi. Attorno a queste e altre questioni, si sono sviluppati con straordinaria continuità movimenti e lotte sociali in tutto il continente: nessuna campagna per un'«altra Europa» è immaginabile senza un'intensificazione e un sempre maggiore coordinamento di queste lotte e di questi movimenti.

Lo scoglio della sinistra

«Non essere stata in grado di definire e di promuovere una solidarietà europea è la ragione del fallimento della sinistra in Europa», scrive Bo Strath commentando l'articolo di Balibar (cfr. www.opendemocracy.net/). Non potrei essere più d'accordo. Vorrei tuttavia aggiungere che questo «fallimento» è a sua volta legato alla miopia della sinistra di fronte alle profonde trasformazioni subite dal lavoro, nonché alle rivendicazioni emergenti da una composizione sociale anch'essa profondamente innovata. L'Europa può avere un senso solo se la si costruisce come uno spazio all'interno del quale queste rivendicazioni possano essere articolate in un progetto politico capace di essere al contempo radicale ed efficace. Solo se diviene uno spazio in cui la lotta contro la povertà, lo sfruttamento e la discriminazione ha più possibilità di successo, in cui è più facile distruggere la paura inoculata e disseminata dalla crisi all'interno del tessuto sociale. Lottare contro il «ritorno dei nazionalismi» e l'ascesa di nuove forme di fascismo in Europa significa prima di tutto lottare per sradicare questa paura.

Quando parlo di una «campagna costituente» non penso a un'unica campagna organizzata centralmente. Ciò di cui abbiamo bisogno è in primo luogo forgiare uno «spirito costituente» attraverso una molteplicità d'iniziative, articolate su diversi livelli e capaci di investire diversi luoghi e forum (dalla mobilitazione di piazza al Parlamento europeo). Ecco perché, ottimisticamente forse, scrivevo di un progetto di durata decennale. Mi rendo perfettamente conto che le prospettive per un progetto del genere, in questo preciso momento, non appaiono particolarmente incoraggianti. Esso dipende, per citare ancora l'articolo di Balibar da cui ho preso le mosse, da «molte condizioni, tutte difficili e il cui adempimento è improbabile».
È un monito essenziale rispetto alla difficoltà del compito che ci spetta: ma nulla dice (e Balibar lo sottolinea) contro la realistica necessità di farsene collettivamente carico. In fin dei conti potremmo concludere ricordando, con un po' di necessaria ironia, le parole di Max Weber, uno che di «realismo politico» se ne intendeva: «è senz'altro vero che non si raggiungerebbe il possibile se nel mondo non si tentasse sempre di nuovo l'impossibile».

SCAFFALE
Da OpenDemocracy ai movimenti

Il testo di Etienne Balibar è stato pubblicato inizialmente sul quotidiano francese «Liberation». Il giorno dopo, d'accordo con l'autore, è stato pubblicato sul «manifesto» (4 maggio). Successivamente è uscito anche su quotidiani tedeschi, greci, spagnoli, mentre il sito «OpenDemocracy» ha aperto una sessione dedicati ai temi sviluppati dal filosofo francese (l'articolo di Sandro Mezzadra ha aperto questa nuova «sezione» del sito dedicata all'Europa). In quell'articolo Balibar illustrava lo stato dell'Unione europea dopo la stagione del governo dei tecnici (qualificata dal filosofo francese come una «rivoluzione dall'alto»). Balibar invita a prendere nuovamente le fila di un ordine del discorso «europeista» (ma sarebbe più corretto chiamarlo come un «cosmopolitismo radicale») che sfugga alla gabbia d'acciaio dell'austerità costruita dalla troika per mettere in salvo un neoliberismo in crisi di legittimità.

Un'analisi corretta e una proposta politica ragionevole e condivisibile ma una domanda aperta: che cosa darà unità e coerenza, ideale e territoriale, all'insieme degli attori coinvolti e delle azioni proposte?

Il manifesto, 26 aprile 2013

Anche se le modalità hanno lasciato tutti basiti, i passaggi che hanno portato alla formazione del nuovo governo, quale che ne sia poi l'esito (finiranno comunque tutti in bocca a Berlusconi, Napolitano compreso), erano in qualche modo scontati. Il Pd non avrebbe mai potuto imboccare una strada diversa dopo più di un anno di sostegno senza se e senza ma a Monti, cioè al definitivo trasferimento del governo del paese dal Parlamento (già sostanzialmente esautorato dal porcellum) alla Bce e, per suo tramite, alla finanza, ben rappresentata da Monti e Draghi. Sono due uomini di Goldman Sachs, che ragionano alla maniera di Goldman Sachs: non è necessariamente un legame diretto, ma un dato di cultura e di modus operandi che in Europa sono chiari a tutti, ma che in Italia attirano invece l'accusa di schematismo o complottismo.

Quanto al Movimento Cinque Stelle, gli esiti disastrosi della linea di condotta adottata, che gli è già costato parecchio in Friuli, non possono essere imputati solo a inesperienza o a eccessiva rigidità: si è visto peraltro Grillo e i suoi adepti ammorbidirsi assai nel corso dei giorni. Il fatto è che il Movimento Cinque Stelle non ha un progetto. Il suo programma è solo un insieme di obiettivi, in larga parte condivisibili, anche perché riprendono temi su cui comitati, movimenti, iniziative civiche e associazioni lavorano da anni. Ma un programma che nulla o quasi dice su come arrivarci, su come imporli.

Democrazia diretta o referendaria - di cui la consultazione via web è una sottospecie - e democrazia partecipata non sono la stessa cosa. La prima, nonostante i proclami in contrario, si fonda su una delega pressoché totale ai rappresentanti - in questo caso ai parlamentari - cui viene affidato il compito di tradurre in leggi e provvedimenti quello che la constituency - nei cinque stelle la consultazione via web - decide. Senza molte mediazioni, perché queste non possono essere sottoposte ogni volta alle valutazioni di un gruppo di riferimento; neanche se, come si è visto, è assai ristretto. La democrazia partecipata esige invece un contributo costruttivo da parte di tutti i soggetti coinvolti; confronti e riposizionamenti continui; la valorizzazione dell'esperienza e dei saperi di ciascuno; e anche degli affetti, perché l'incontro fisico, la conoscenza reciproca, l'incrocio degli sguardi, a tutti i livelli, ne sono una componente essenziale. Anche in questo caso la delega, sempre a termine e revocabile, è inevitabile, perché i gruppi di riferimento, per essere tali, non possono superare una certa dimensione. Ma è una delega solida, perché la democrazia partecipata non è, o non è principalmente, assembleare.

Certo, nel passaggio tra partecipazione attiva e rappresentanza elettorale - due forme di democrazia che non possono che convivere; nessuna può escludere l'altra in via di principio - il mandato vincolante della prima si stempera nel «senza vincoli di mandato» della seconda. Ma il rappresentante che ha alle spalle un processo di democrazia partecipata avrà sempre a disposizione, se vuole, uno o più gruppi di riferimento con cui consultarsi, e a cui chiedere anche un supporto tecnico di cui nessun "eletto dal popolo" può fare a meno. E se è stato scelto con cognizione di causa - cosa che, come si è visto, il web non consente - ne farà buon uso.

Dunque, il passaggio dal vecchio al nuovo governo (e dal vecchio al "nuovo" Presidente della Repubblica), anche se non ha fatto che portare alla luce un vuoto di pensiero e azione, di capacità e responsabilità evidente da tempo, ha lasciato dietro di sé un campo di macerie: soprattutto, ma non solo, nel Pd e nel centro-sinistra. Di fronte al quale una serie variegata di organizzazioni si stanno affrettando a gettare le reti per raccoglierne i relitti, proclamando il loro impegno alla costituzione di un "nuovo soggetto politico"; magari senza nemmeno chiedersi - è il caso dei gruppi dirigenti di Sel e del Prc, per non parlare di Verdi, Pdci e altri - che cosa li abbia indotti a trasformare un progetto appena abbozzato, ma unitario, innovativo e democratico come Cambiaresipuò, nell'aborto di Rivoluzione civile; o l'ecologia e la libertà in un progetto di fusione con il Pd.

Voltafaccia del genere non portano lontano. Un soggetto politico - se così vogliamo chiamarlo - veramente nuovo potrà sorgere solo rivolgendosi in forme innovative e partecipate ai milioni e milioni di cittadine e cittadini, di lavoratrici e lavoratori travolti dalla piega che hanno preso gli avvenimenti; e solo apprestando, con fatica e per tentativi ed errori, una "casa comune" per chi si oppone allo stato di cose presente: cioè tante sedi dove costruire in forma partecipata - nel senso indicato prima - un programma radicalmente alternativo alle politiche e ai vincoli imposti a tutti i popoli dell'Europa dall'alta finanza e, per suo conto, dalla Bce e dai governi nazionali. Un programma fatto non solo di slogan e obiettivi, ma di proposte e adesioni a iniziative di lotta e a buone pratiche consolidate. Una casa che non può e non deve essere proprietà, od oggetto di appropriazione, di alcuno, perché la sua forza sta proprio nell'essere aperta a tutti quelli che ne condividono la ragion d'essere. Queste sedi - lo ribadiva mercoledì scorso Piero Bevilacqua sul manifesto - sono innanzitutto ambiti territoriali, in un rapporto al tempo stesso conflittuale a partecipativo con le istituzioni dei governi locali: conflitto per rivendicare partecipazione; e partecipazione per promuovere, a un livello più alto, nuovi conflitti.

Le aggregazioni promosse per rimettere insieme i cocci del centro-sinistra, o i meet-up del Movimento Cinque Stelle (una realtà immensamente più ridotta del suo elettorato), così come il lavoro di ciascuno di noi, dovranno trovare su questo terreno, che è quello dei movimenti che hanno saputo costruire la propria continuità nel tempo (il pensiero corre sempre alla Valle di Susa) la verifica del loro operato. La sede di questa verifica è il tassello che manca per ora ai programmi che assommano solo obiettivi, ancorché condivisibili. Si deve lavorare perché intorno ai temi che sono al centro delle tensioni sociali a livello territoriale - una o tante aziende che chiudono; i giovani che non trovano lavoro; le famiglie gettate sul lastrico dai licenziamenti; i servizi sociali che scompaiono; il territorio ceduto alla speculazione, alle autostrade o ai Tav; la cultura che si dilegua insieme ai relativi beni, ecc. - si creino delle aggregazioni sociali fondate sulla partecipazione più ampia, senza pregiudiziali di sorta, ma orientate al conflitto con i poteri costituiti; aggregazioni che siano al tempo stesso una sede di autoformazione politica e culturale e uno strumento di elaborazione programmatica. Il coinvolgimento totale o parziale delle amministrazioni locali in questi progetti è il primo passo verso il loro consolidamento.

Le scadenze per mettersi alla prova non mancano. Più ancora delle prossime elezioni amministrative, che interessano comunque un numero significativo di città grandi e medie, giugno è il mese dei bilanci preventivi dei comuni (quelli del 2013, non del 2014: la truffa comincia proprio dal fatto che i bilanci si presentano, quando si presentano, a cose fatte). Sia alle amministrazioni che si erano impegnate a costruirli in forma partecipata - e che poi se ne sono scordate - che a quelle che non l'hanno mai promesso, va imposto con la mobilitazione che i loro bilanci siano redatti per lo meno in una forma leggibile, che permetta di riconoscere le fonti delle entrate e le destinazioni delle spese per ciascuna posta. E' una partita che interessa molti, perché nei bilanci comunali si nascondono non solo clientelismo e corruzione, ma soprattutto scempi ambientali, abdicazione dai propri compiti istituzionali, deleghe a gruppi di potere privati, diversioni di spese dai servizi essenziali a favore di Grandi opere e Grandi eventi inutili, banche che strangolano la finanza locale, ecc.

Poi va aperta la partita sui servizi pubblici locali. La loro svendita - grazie ai fondi della Cassa Depositi e Prestiti - dopo quella dei diritti di edificazione, è la via principale per salvare i bilanci comunali devastati dai tagli dei trasferimenti statali. Ma i servizi pubblici locali, riportati sotto il controllo di una democrazia partecipata, possono essere invece la strada maestra per promuovere sia una domanda di servizi ecologicamente sostenibili con cui costruire una forma nuova di cittadinanza, sia una domanda di materiali, impianti e attrezzature per permettere la riconversione produttiva delle imprese senza più mercato né avvenire; ma anche la sede dove mettere a punto progetti, interventi e produzioni per creare occupazione utile: forniture alimentari a km0 per la ristorazione collettiva e promozione di Gruppi di acquisto solidale per una nuova leva di agricoltori; potenziamento del trasporto pubblico e di quello condiviso; efficienza energetica; urbanistica partecipata; salvaguardia idrogeologica; riqualificazione delle scuole e dell'istruzione.

Tutte cose che impongono una revisione radicale dei vincoli di bilancio imposti dal patto di stabilità. Si tratta allora di promuovere in ogni territorio, in ogni città, in ogni quartiere, delle conferenze per mettere a punto progetti e iniziative che nessun governo centrale o regionale sarà mai in grado di definire; ma che è il modo migliore per dare concretezza alla proposta di Luciano Gallino di creare occupazione attraverso un vasto programma di opere pubbliche e di interventi locali.

Un programma ambizioso; ma soprattutto una "casa comune" per chi non intende accettare le scelte dell'establishment. E però, come impedire che della casa comune cerchi di appropriarsi qualcuno con le proprie truppe e le proprie bandiere per portarla ancora una volta a fondo?

Intervista di Carlo Lania alla presidente di Giustizia e Libertà: « E' difficile festeggiare oggi dopo il teatrino osceno di questi giorni e con la consapevolezza che si prepara un governo con chi è avvezzo a irridere la Resistenza.

il manifesto, 25 aprile 2013

Va giù duro: «Hanno tradito il 25 aprile. Il teatrino osceno a cui abbiamo assistito in questi giorni è il risultato di una serie di sconfitte di cui tutti siamo responsabili, e più di tutti il Pd». Giornalista, scrittrice, ex parlamentare e oggi presidente di Libertà e Giustizia, Sandra Bonsanti si dice «sopraffatta» dall'amarezza per come è avvenuta l'elezione del presidente della Repubblica e per come si sta arrivando alla formazione del nuovo governo.

Perché parla di tradimento?
Perché il 25 aprile ha sempre rappresentato per tutti un momento di grande speranza perché uscire da una dittatura, riavere la libertà è stato un momento grandioso della nostra storia. Oggi però ci sentiamo oppressi da questa situazione ed è molto difficile festeggiare.
Vede messi in pericolo i valori della Resistenza?
Fare un governo, prendere decisioni insieme a persone che hanno a dir poco irriso la Liberazione significa legittimare anche loro.
Quindi un eventuale governo di larghe intese sarebbe un'espressione del tradimento? Messa così... Capisco che non è un discorso politico e non mi sento di fare un ragionamento freddo, ma nemmeno di pensare che l'emergenza è alta per cui dobbiamo ingoiare qualunque cosa. All'emergenza si fa fronte con la determinazione e soprattutto con dei principi. Perché se all'emergenza sociale si vuole porre rimedio senza garantire il diritto di uguaglianza di ogni cittadino, allora non si risolve nessuna emergenza. E questo cos'è se non un altro tradimento? Si ha la sensazione che questo paese, ormai senza futuro, stia perdendo anche la sua anima, la sua storia.
Il discorso diventa politico però se la sua è un'accusa alla sinistra di non fare il proprio mestiere.
Io accuso la sinistra ma accuso tutti noi. Non voglio salvare nessuno. Accuso la sinistra, il Pd, la società civile di non aver fatto abbastanza, perché se abbiamo perso qualche motivo ci sarà. Sicuramente il Pd ha fatto la sua parte, venendo meno nel momento più importante. Ha scoperchiato la pentola e dentro c'erano tutti i problemi irrisolti da anni e anni, di casta e di anche di indifferenza verso la voce di quelle persone, dei giornali, dell'opposizione, verso tutto ciò che era alla sua sinistra e ciò che si muoveva nel paese. Non ci hanno dato ascolto.
Il risultato è che l'antipolitica ha portato in parlamento persone che dicono che il fascismo non è stato tutto male e che invocano la marcia su Roma.
Condivido le cose dette da Barbara Spinelli: non cerchiamo di essere più severi del dovuto con il M5S. Accusarli oggi è facilissimo, perché effettivamente non sono all'altezza della situazione. Dopo di che: abbiamo mai chiesto ai parlamentari del Pdl o anche a quelli del Pd di essere preparati? No, quindi forse c'è un errore anche da parte nostra. I grillini sono una novità, ma c'è tanta roba lì dentro. Se pensa che il 38% dei loro elettori a Torino proviene dal Pd....
Anche perché poi sono le stesse persone che hanno proposto Stefano Rodotà al Quirinale.
Tanto di cappello per tutti i nomi che hanno proposto, magari li avessero fatti gli altri. E come si è visto è stata una grande sconfitta non avere insistito su Rodotà.
Lei dice: c'è stata troppa fretta nel rieleggere Napolitano.
Sì c'è stata molta fretta. Anche se è vero che siamo in una situazione particolare, con la paura dello spread, dei mercati. Siamo un popolo bloccato da queste paure che non si sa quanto siano giustificate.
Napolitano ha fatto male ad accettare?
Non mi permetto di criticare. Sono abbastanza vecchia da rispettare le istituzioni, dopo di che avrei preferito Rodotà. Così si è stabilito un precedente pericoloso in un momento in cui tutti si affrettano, a colpi di banalità e luoghi comuni, a dare addosso alla Costituzione.
A proposito di Costituzione: quanto accaduto non è un anticipo di presidenzialismo? Stiamo andando in quella direzione?
Penso che ci stiamo andando e anche in maniera sciocca. Siccome il teatrino che abbiamo visto è veramente osceno, qualcuno avrà pensato: perché il capo dello Stato non possono eleggerlo direttamente i cittadini. È vero che magari avrebbero eletto Grillo al Quirinale. Penso che dobbiamo ancora ragionare molto prima di mettere in discussione e dare colpi irreversibili all'assetto della Costituzione, che è stata studiata articolo per articolo e mattone per mattone. Adesso invece rischiamo che chiunque vada lì, magari Quagliarello e Violante, ci rifà tutta la Costituzione. E noi stiamo tranquilli? Spero che qualcuno si fermi a ragionare e spero che se ci sarà necessità di opporsi si troverà ancora una parte d'Italia disposta a farlo.
Che farà domani (oggi, ndr), parteciperà a qualche manifestazione?
Non lo so, ci sono tante possibilità. Uno può anche andare a rileggersi una lapide. La più bella a cui penso in questo momento è all'angolo di una bella strada che finisce sul Lungarno a Firenze, una lapide messa dai partigiani per ricordare un capitano inglese morto in un'azione di sfondamento verso la città ancora occupata dai tedeschi. Ecco, c'è un tragitto di lapidi che ogni tanto vado a rivedere. È una cosa bella non è triste. È un omaggio che mi sento di fare.

Intervista di Cesare Martinetti al presidente della Biennale Democrazia dedicata in questa edizione alla "utopia realizzabile".

La Stampa online, 28 marzo 2013. Con piccola postilla sull'utopia

Le guerre nel mondo, i conflitti senza soluzioni, la finanza senza regole, le disuguaglianze che crescono, tra Paese e Paese, tra cittadini e cittadini. «Pare che tutto ci stia sfuggendo di mano - dice Gustavo Zagrebelsky -, sembra che non ci sia più nessuno in grado di formulare un’idea che abbraccia e sia riconoscibile da tutti». La terza edizione di Biennale Democrazia cade in un momento drammatico per l’Italia. Sarà l’occasione per riflettere sulle norme di base della nostra società. Ne parliamo con il presidente emerito della Corte Costituzionale, inventore (con Pietro Marcenaro) e anima della Biennale.


Professor Zagrebelsky, la parola democrazia associata a quella di utopia, di questi tempi, sembra avere un connotato ironico: la democrazia non è più una prospettiva reale?
«L’idea di fondo di Biennale è pensare all’avvenire in modo da ristrutturare una prospettiva comune. Questo deve fare la cultura politica. La parola utopia c’entra perché significa la proiezione in un futuro di aspirazioni e tentativi di trovare soluzioni alla difficoltà del presente».

Ma l’utopia realizzabile è ancora un’utopia?
«Ci sono utopie utopiche, idee consolatorie che permettono di rifugiarsi nell’immaginazione. Si tratta di un esercizio intellettuale sterile. Ma ogni progettazione del futuro deve avere un aspetto utopico. “Per mirare giusto nel bersaglio devi mirare più in alto”, diceva Machiavelli. Lo ricorderà Carlo Ossola parlando dell’utopia in letteratura. I condizionamenti renderanno il risultato finale inferiore al progetto. Ma il progetto bisogna averlo».

Alla Biennale ascolteremo dei progetti realizzabili?
«Stiamo cercando di far emergere qualcosa di nuovo che già c’è, che cova sotto la cenere, che può costituire energia feconda. Sulla base della premessa, diventata un luogo comune, che per sopravvivere bisogna cambiare. Parleremo di economia, mondializzazione della finanza, economia, produzioni, consumi, modi di produzione che non sperperano risorse ambientali. Nuovi strumenti di partecipazione».

A questo proposito il tema di democrazia e Internet è diventato decisivo con il successo della lista di Grillo. Lei crede nella democrazia diretta per via elettronica?
«La questione è questa: la tecnologia informatica applicata ai processi decisionali pubblici, l’idea della sovranità immediata e individuale del singolo, distruggerà la politica a favore di qualcosa che per ora non si sa che cosa sia? Oppure: questi strumenti possono essere usati per rinvigorire la democrazia, renderla più responsabile, più consapevole, in processi di sintesi comune? Il dibattito alla Biennale darà delle risposte».

Intanto le prime votazioni alle Camere e la prospettiva dei voti di fiducia hanno già posto la questione della trasparenza del voto dei singoli parlamentari grillini minacciati di espulsione se usciranno dalla linea del «partito».
«Questo mi ricorda molto la fase giacobina della rivoluzione francese, quando si era imposto agli elettori di votare in pubblico. È il massimo della libertà democratica o il massimo del controllo dell’esercizio della libertà?».

Ed è esplosa la questione del vincolo di mandato, se cioè i parlamentari siano liberi di votare secondo coscienza o se debbano essere vincolati alla linea del partito espressa in campagna elettorale.
«Nelle costituzioni liberali non c’è vincolo di mandato. Nella nostra questo è previsto dalll’articolo 67, legato all’idea che la democrazia, come diceva Hans Kelsen, è un regime mediatorio, cioè un regime in cui le ragioni plurime si devono incontrare fra di loro e trovare punti mediani. La libertà dei rappresentanti, senza vincolo di mandato, esprime questa esigenza che in parlamento - il luogo dove ci si parla - sia possibile perseguire il raggiungimento di quel punto mediano e che l’aula non sia il terreno di battaglia di eserciti schierati per ottenere o tutto o niente. I rappresentanti devono disporre di quel margine di adattabilità alle circostanze rimesso alla loro responsabilità. Ecco, in sintesi direi questo: libertà del mandato, uguale responsabilità; vincolo di mandato, uguale irresponsabilità, ignoranza totale delle qualità personali dei rappresentanti, mortificazione delle personalità».

È una norma che appartiene a tutte le costituzioni liberali?
«Certo, viene dalla rivoluzione francese, prima del giacobinismo. Non c’era in quella sovietica, né in quella della Comune di Parigi, che però non appartengono alla nostra tradizione costituzionale democratica».

La crisi della democrazia è però innegabile, questioni come rappresentanza, partecipazione, efficacia delle decisioni sono d’attualità anche nei sistemi più giovani.
«Ma almeno per ora tutti si dichiarano democratici. Non c’è ancora nessuno che si sia alzato per dire: basta con la democrazia, c’è un modello migliore. Semmai si dice: questa democrazia, la nostra, non ci piace, non funziona. Ma ciò significa che resiste l’idea di fondo che c’è una democrazia alla quale dobbiamo mirare. Per il momento democrazia resta una parola universale».

Però è giustificato dire che questa nostra democrazia è in crisi e non funziona?
«C’è una legge universale della politica secondo cui i regimi politici con il passare del tempo (qualcuno ha detto nel giro di una cinquantina di anni) tendono a chiudersi su se stessi, a diventare oligarchie, gruppi chiusi di potere, degenerazione della democrazia, dove la distanza tra elettori ed eletti appare incolmabile».

È esattamente quello che percepiamo oggi in Italia, le elezioni ne sono state la dimostrazione. Professor Zagrebelsky, ce la farà la nostra democrazia?
«Se riesce a riaprirsi, a combattere i gruppi chiusi, i “giri” nascosti del potere, e riesce a far sentire i cittadini partecipi della cosa pubblica e non espropriati. Quando si parla di rinnovamento della democrazia si intende proprio questo. I gesti simbolici come la riduzione del numero dei parlamentari, il taglio delle spese che favoriscono i parassitismi politici. Se si riuscirà a fare ciò anche utilizzando virtuosamente i nuovi strumenti della comunicazione politica potremo dare una risposta positiva alla domanda che fu di Norberto Bobbio in uno dei suoi ultimi saggi: la democrazia ha un futuro?».

E se questo non succederà? «Peggio per noi e per i nostri figli».

Postilla
A proposito di utopia vogliamo ricordare una frase di Claudio Napoleoni, che riprendiamo da una commemorazione che Carla Ravaioli ne fece alla Camera dei deputati. «Utopia, era la critica spesso rivolta a Napoleoni, anche da parte di suoi grandi estimatori. Lui ne era pochissimo impressionato, e affermava convinto: “Posti a un livello minore, i problemi non hanno risposta”. Proprio così per il problema della democrazia oggi.

Persino Hegel, teorizzatore dello stato etico, ha vigorosamente sostenuto che «l'uomo che muore di fame>> ha non solo il diritto, « ma il diritto assoluto di violare la proprietà di un altro»>>

per assicurarsi la sopravvivenza. Lo ricorda Domenico Losurdo in Hegel e la libertà dei moderni. Ecco un principio fondativo della modernità, quella categoria che designa un'epoca della spiritualità occidentale, oggi diventato un lemma sdrucito del linguaggio pubblicitario. Di fronte alla persona che giace nel più estremo bisogno, perfino la proprietà privata, il più solido architrave della società borghese, deve cedere il passo. Dopo la conquista dell'habeas corpus, uno dei diritti fondamentali della prima età moderna, volto a tutelare l'individuo dall'arbitrio del potere assoluto, ecco un principio eversore dell'ordine dominante: il diritto della persona umana a non soccombere a quella totale assenza di diritti generata dal bisogno estremo.

Oggi, com' è noto, il soccorso a quel bisogno, viene non solo praticato da gran parte degli stati europei, ma fa parte, grazie alla Carta dei diritti , della legislazione dell'Unione. Il reddito minimo, di cittadinanza, o comunque denominato, è una conquista della civiltà giuridica dello stato di diritto. E perciò stupisce non solo la sua assenza dall'ordinamento e dalla pratica statuale in Italia, ma anche la vaghezza, la ritrosia, la timidezza con cui il tema viene trattato dalle forze politiche e sindacali. Forse occorrerebbe collocare questo principio sullo sfondo storico che oggi lo mostra non solo necessario, ma lo proietta nel nuovo ordine possibile delle società avvenire. E' necessario rammentare che nelle odierne società industriali il reddito della grande maggioranza degli individui è dipendente dal loro lavoro salariato. Se questo viene meno, diventa precario, discontinuo, le condizioni della vita materiale precipitano e la dignità della persona, resa fragile ed esposta a forze incontrollabili, subisce uno scacco drammatico.

Oggi tanto più grave quanto più elevati sono i bisogni generali e quanto più vanno deperendo le conquiste novecentesche del welfare. Ora, quali sono le possibilità che, nell'attuale modello di accumulazione capitalistica, si crei sempre nuova e stabile occupazione? Al momento appare perfino ridicolo, con una disoccupazione che in Europa investe circa 50 milioni di persone, argomentare sulle possibilità future del sistema capitalistico di assicurare lavoro stabile alla grande maggioranza dalla popolazione. Un lunghissimo inverno attende la vita di decine di milioni di cittadini, che nei prossimi anni non troveranno di che vivere. E già tale drammatico quadro consiglierebbe a governanti avveduti e prudenti di metter mano al più presto a forme di redistribuzione del reddito in forma stabile e sistematica.

Eppure occorre inserire la richiesta del reddito di cittadinanza in una prospettiva più ampia di quanto oggi non sia visibile in un intervento che può apparire solo un soccorso congiunturale. Bisogna ricordarsi da dove ha origine la presente crisi. E' necessario cogliere un aspetto fondamentale dello sviluppo capitalistico degli ultimi 30 anni. E' qui che occorre scorgere la poderosa inversione strategica di cui è figlio il nostro tempo. Il capitalismo ha subito un evidente deragliamento, che lo ha posto fuori dal suo lungo percorso storico. Ciò che noi chiamavamo “sviluppo” - termine sopravvissuto nell'inerzia linguistica di chi non si è accorto di quanto è accaduto - era una crescita economica che si redistribuiva largamente grazie alla pressione operaia e sindacale, governata dal potere pubblico entro entro i confini nazionali. L'emarginazione del sindacato, la scomparsa del nemico con il crollo del comunismo, lo svuotamento dei partiti di massa, la libertà quasi eslege concessa al danaro, l'apertura di un mercato del lavoro illimitato su scala mondiale hanno dato al capitale poteri forse mai posseduti in tutta la sua storia.

Tali rapporti di forza così unilateralmente vantaggiosi li abbiamo visti all'opera negli ultimi decenni, nel paese-guida del capitalismo, gli USA. Qui abbiamo assistito a un “ritorno indietro” nella condizione delle masse lavoratrici che illumina tutto il senso dell' inversione strategica. La giornata lavorativa si è allungata di quasi due mesi all'anno rispetto ai lavoratori europei – dopo quasi due secoli di progressiva riduzione - i salari sono rimasti congelati, sono nati i “lavoratori poveri”, è dilagato l'indebitamento delle famiglie. E oggi, dopo 5 anni di turbolenza endemica, il capitalismo continua la sua strada invertita grazie alla libertà mondiale di cui gode, sia nella speculazione finanziaria che nella disponibilità di forza lavoro. L'imprenditoria capitalistica non aveva mai avuto a disposizione tante braccia libere, un “esercito di riserva” disposto a lavorare a qualsiasi condizione.
Diciamolo con chiarezza: il capitale e il ceto politico che oggi lo rappresenta, in Europa e nel mondo, hanno un interesse strategico – e la possibilità politica di praticarlo – a mantenere una disoccupazione e una precarietà del lavoro sotto controllo, ma mediamente diffuse e costanti. Sono decisive per conservare la posizione storica di vantaggio conseguita, che consente loro di controllare una variabile importante, i salari, e continuare il processo di accumulazione nelle acque agitate della competizione mondiale. Che cosa invocano, se non tale vantaggio, le litanie quotidiane di politici ed economisti sulla necessità di riformare il mercato del lavoro? Ma tale immensa asimmetria tra capitale e lavoro, che si avvolge su se stessa e si autoperpetua, sta spingendo all'indietro il processo di civilizzazione industriale del '900.

E' dunque su questo perverso interesse che occorre intervenire, rendendo gli individui potenzialmente indipendenti, per la loro possibilità di vita, dal “ricatto” del lavoro. E' questo il punto archimedico su cui far leva. Occorre separare sempre più marcatamente il reddito per vivere dalla prestazione lavorativa. Ciò peraltro non costituisce semplicemente una “concessione” utile alla coesione sociale e al sostegno alla domanda interna. Nelle nostre società viene svolta una massa gigantesca di lavoro non pagato, che accresce incessantemente la valorizzazione del capitale. La fatica quotidiana delle donne che rendono la forza-lavoro dei mariti e dei figli, oltre che la propria, pronta per la prestazione in fabbrica o in ufficio, chi la paga? Chi paga il lavoro in casa, a qualsiasi ora, del giorno e della notte, mentre si sta collegati in rete o al telefono?Per milioni di individui la giornata lavorativa è ormai senza limiti. Mentre il capitalismo si appropria quotidianamente dei saperi, idee, creatività, del general intellect, per dirla con Marx, che la massa degli individui produce incessantemente con la propria operosità molecolare.

Per questo, come dice Rodotà « Il reddito minimo si configura come punto di partenza>> mentre <<L'approdo è il reddito di base incondizionato per tutti, o reddito universale>> (Il diritto ad avere diritti). E' una prospettiva non remota, diversa da quella preconizzata da Keynes nel 1930, nel noto saggio – tanto evocato quanto poco letto – sulle Possibilità economiche per i nostri nipoti, che prevedeva l'accorciamento a 15 ore settimanali dell'orario lavorativo. E perciò si affrettava a rassicurare i moralisti di allora: « tre ore al giorno (di lavoro) sono abbastanza per soddisfare il vecchio Adamo che è nella maggior parte di noi.>> Forse oggi appare più percorribile la strada – preconizzata nel 1999 da Ulrich Beck, di « una società delle attività plurali>>.
Un reddito di cittadinanza, infatti, potrebbe consentire di alternare lavoro salariato con prestazioni familiari, attività di impegno civile con l'impiego in altri servigi di volontariato. Il lavoro che esce finalmente dal regno della servitù quotidiana e si libera dalle prestazioni unilaterali che schiacciano la persona umana. Troppo ricco è diventato il capitalismo perché possa ulteriormente impedire, a chi produce la ricchezza, di essere padrone della propria vita.
articolo spedito anche a il manifesto

Tra le Alpi e la linea del Po, con la proposta di costituire una "macroregione", si combatte una battaglia di rilevanza nazionale che va ben oltre gli schieramenti politici attuali: la proposta della costituzione di un emirato separatista. Intervista di Maurizio Giannattasio all'ex presidente della Regione Lombardia.

Corriere della Sera, 17 febbraio 2013 (f.b.)

Piero Bassetti, lei è stato il primo presidente della Regione Lombardia. Cosa pensa del «patto» di Sirmione tra Maroni, Cota, Zaia e Tondo per la creazione di una macroregione del Nord? «Dobbiamo renderci conto che se Roberto Maroni dovesse diventare presidente della Lombardia e quindi dovesse vincere la sua proposta di macroregione, ci troveremmo di fronte a una svolta della storia nazionale».

Perché?«Perché contiene tutti i germi di una vera e propria secessione. È evidente che quando si propone la separatezza politica e finanziaria si propone un tipo di autonomia sottratta al termine centrale della solidarietà rappresentata dalle risorse. Vuol dire che siamo molto più vicini a un fenomeno di secessione piuttosto che di regionalizzazione».

La Lega torna alle sue antiche parole d'ordine?«È arrivato il momento di rendersi conto che la battaglia elettorale in Lombardia tra Umberto Ambrosoli e Roberto Maroni è una linea del Piave, è un fatto storico nazionale. La Lombardia non è l'Ohio d'America. È qualcosa di molto più profondo e importante. Anche il centrosinistra dovrebbe comprendere che qui non è importante vincere come fazione politica, ma bloccare un processo evolutivo che non è nuovo nella storia del Paese, perché questa è stata l'ipotesi che ha portato alla costituzione della Repubblica di Salò».

È l'esatto contrario di ciò che dicono i politici: la battaglia in Lombardia è fondamentale per il Senato e la governabilità del Paese. Lei dice che la vera partita politica invece si gioca in Regione.«Non c'è dubbio che è molto più importante quello che succederà a Milano piuttosto che qualche deputato in più al Senato. Anche per un altro motivo».

Quale?«In Lombardia chi si contrappone a un'ipotesi secessionista non è una coalizione politica riferita a uno schieramento nazionale. Ambrosoli non è il centrosinistra e neanche il Pd. La natura del patto civico che lo sostiene è proprio quella di trarre la sua spinta dalla società civile che non significa antipolitica ma solo un modo diverso di fare politica. E la società lombarda ha capito ben prima dei partiti il rischio che si corre in Regione e che la questione settentrionale non può essere risolta nell'ambito degli equilibri romani».

Sintetizzando. Da una parte lei vede il rischio secessionista nella proposta della macroregione. Dall'altra conferma che esiste una questione settentrionale che non può essere risolta a livello centrale. Come se ne esce? «L'Europa ha già scelto di impostare il suo futuro sviluppo sulla rete delle grandi aree urbane che da sempre la innervano, e che proprio alla glocal city a sud delle Alpi sta affidando il compito di fare da cerniera tra Europa del Nord e Mediterraneo. Ambrosoli lo ha capito bene e per questo ci siamo battuti perché fosse lui il candidato. Adesso lo stanno comprendendo anche altre forze politiche».

A chi si riferisce?«L'ha capito Ilaria Borletti Buitoni che insiste sul voto disgiunto per Ambrosoli. Ma anche rappresentanti del Movimento 5 Stelle che si preparano a dare il loro voto ad Ambrosoli».

Nota: ho provato ad aggiungere qualche riflessione in più a questa giustamente allarmata nota di Bassetti (f.b.)

Una testimonianza di manniana "laica intelligenza del divino" in un'accorata analisi del gesto di Papa Ratzinger.

La Repubblica, 13 febbraio 2013

Il gesto di Benedetto XVI ha la potenza e la debolezza di un atto solitario, non del tutto consequenziale, comunque extra- ordinario. Alcuni l’hanno chiamato rivoluzionario, ma le rivoluzioni rovesciano ordini esistenti, politici o ecclesiastici, e neanche loro hanno la virtù della stabilità: sempre secernono controrivoluzioni, Termidori, perfino restaurazioni. Tuttavia hanno un’immediata vocazione a divenire l’anno-zero di una Storia in mutazione: nascono nuove istituzioni, nuovi sovrani, che della rivoluzione sono figli anche quando la disconoscono.

Convocare il Concilio Vaticano II fu una rivoluzione, non meno contrastata di altre. Non così le dimissioni del Papa. Ogni parola della sua dichiarazione ha un peso particolarissimo: è piombo e insieme calamita, preme e magnetizza, è forte della propria debolezza. Non perché dia inizio a mutazioni subito visibili dell’istituzione Chiesa: la svolta c’è ma è tettonica, avviene sotto la crosta terrestre, chi l’imprime non necessariamente l’ha voluta e la vuole. È quello che la rende così strana, sconcertante. Lunedì abbiamo visto il Pontefice ritrarsi come il protagonista dell’Habemus Papam di Nanni Moretti. Ma attorno a lui non s’accampavano che volti imperturbati, senza increspature. Angelo Scola, sapendosi possibile successore, si concedeva a fedeli e giornalisti e già sopiva, troncava. Antiche abitudini erano lì, pronte a cancellare le rughe: «È per il bene della Chiesa... State tranquilli... Dio ci guida...». Pareva un assai ordinario democristiano. Anche questo non escludiamo: che la svolta tettonica venga presto minimizzata, sommersa. Quante volte diremo, negli anni futuri: quel che accade vanifica il graffio che fu la Grande Rinuncia. Polverizza la laicizzazione della Chiesa che il graffio in qualche modo e magari involontariamente presagiva. È inevitabile che le acque si richiudano, sopra il folle volo che ha sigillato la navigazione papale: il folle volo di quel «le mie forze non sono più adatte», vires meas ingravescente aetate non aptas.
È fatale che la faglia sia ricucita, proprio perché intravista sotto forma di inaudito scoppio di verità. Forse ciascuno di noi si dirà, come Montale negli Ossi di Seppia: ho visto anch’io, andando in un’aria di vetro, «compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco». Ma siccome non dura, il vuoto, presentiremo anche il seguito: «Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto / Alberi case colli per l’inganno consueto. /Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto / Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto».

L’inganno consueto è l’ipocrisia dei «sepolcri imbiancati» da scribi e farisei, nel Vangelo di Matteo. Come potrebbe essere diversamente, se teniamo a mente la storia e le opere di questo Papa? È facile parlare di svolte, ma quella vera, che toglie al Vaticano il potere temporale e gli restituisce l’enorme suo peso spirituale, ancora non è avvenuta. Non avvenne dopo la rivoluzione francese della laicità, cui la Chiesa rispose con l’assolutismo, e infine con il dogma dell’infallibilità. Non a caso il cardinale Martini denunciava un ritardo di 200 anni. Il potere temporale sopravvive mutando forme, come Proteo. Oggi la forma è quella dei valori non negoziabili, o supremi. E delle leggi naturali, di cui la Chiesa si erige a custode: come se esistesse un quid che trasforma la legge – il nòmos sempre rinegoziato – in physis immodificabile dall’uomo (la nascita, la morte, il matrimonio infine fra uomo e donna: un sacramento, per i cattolici, solo a partire dal 1439). Oppure il potere temporale s’afferma nella battaglia sulle radici cristiane d’Occidente e d’Europa, con effetti tragici sui cristiani in Medio Oriente.

Non è stata proficua questa lotta in favore della legge di natura o delle radici cristiane, per il trono petrino. La Chiesa precipita in Europa (nel solo ultimo anno: mille preti in meno, unitamente a un clero sempre più anziano). E perduta la Spagna non le rimane che l’Italia, ultimo bastione dove la laicità, chiamata laicismo per degradarla a dottrina, a credo, non ha da entrare. Per questo è difficile vedere nella rinuncia papale una laicizzazione della Chiesa di Roma. Resta l’inaudito delle dimissioni, e di quelle parole che uscivano lente, come da un respirare ingombrato da commozione o stanchezza.

Resta l’immagine di una solitudine che desta ammirazione ma inquieta, anche. Un ultimo volo della nave di Ulisse, forse: di chi nel suo legno, solo, si getta per l’alto mare aperto. Un presentimento di pericoli non detti. Una serietà al tempo stesso molto spericolata, molto romantica, molto tedesca. Un Papa italiano non oserebbe questo: il nostro non è un Paese romantico. Non sarà una rivoluzione, ma nulla sarà più come prima: una mossa simile, per la prima volta del tutto libera, non forzata da nemici esterni o interni, desacralizza per forza di cose il papato.

Se ci si può normalmente ritirare e non essere più Papa, vuol dire che non c’è più identificazione totale e perenne, tra la persona e la funzione. Sommamente conservatore, Benedetto XVI inaspettatamente innova, quasi avesse intuito le insidie stesse del sacro. La desacralizzazione toglie il coperchio sul santo, sul vero. L’ammissione di estrema umanità, di fallibilità, è immersione-immedesimazione nella kènosis che svuota. Il sacro copre, non disvela. Distrugge l’idolo, e le vaste cupole, e le così sfarzose, troppo imponenti mitre dei vescovi. Quel che l’atto papale lascia in eredità è il mistero di Nicodemo e del vento così come glielo racconta Gesù nella clandestinità d’un incontro notturno: non sappiamo da dove venga né dove vada, ma può darsi che ti faccia rinascere dall’alto. Non appropriato (forse inelegante) è stato a mio parere il commento del cardinale di Cracovia Stanislaw Dziwisz. Citando Giovanni Paolo II, di cui fu segretario personale, ha stabilito, lunedì: «Dalla croce non si scende». Chi, e con quale autorità può dire una cosa del genere? Ammettere di «non farcela », fisicamente o esistenzialmente, non è meno eroico del martirio-testimonianza di Giovanni Paolo II. È un umanissimo grido d’impotenza, uno scendere i gradini del potere che sortisce l’effetto contrario: innalza. Enzo Bianchi dice che è un dono: «Una volta cessato l’esercizio del ministero, un altro può continuarlo e la persona che lo ha esercitato in precedenza scompare, diminuisce, si ritira».

È quanto fece Giovanni Battista. Forse chissà, questo Papa si è sentito, nel maturare la scelta di diminuirsi, più che mai vicino al Battista. L’invito a non scendere dalla croce non lo si rivolge neanche a Dio, se è vero che perfino Lui, prima del consummatum est, grida, si torce, e ha sete, e recita il salmo disperato di chi si sente abbandonato dal Padre che prometteva onnipotenza. Proprio Ratzinger, che sembrava impersonare il potere papale più arcigno, confessa di essersi trovato nella condizione più umana che si possa immaginare: quella della solitudine della coscienza, sola di fronte al Padre eterno, senza alcuna autorità terrena che potesse dirgli cosa doveva fare, e dove andava il vento.

« Gli uomini e le idee che costruirono una delle architravi della Costituzioni: il lavoro come «diritto che dà senso e coagulo alla trama di tutti i rapporti economico-sociali, su cui avrebbe dovuto reggersi l’intera architettura costituzionale»

.L’Unità, 10 febbraio 2013, con postilla

«Il 13 febbraio ricorre il 100° anniversario della nascita di Giuseppe Dossetti, figura cruciale del cattolicesimo democratico Pochi sanno che l’art. 1 della Costituzione nacque da un colloquio in un bar di Roma con Togliatti»
Martedì prossimo alla Camera dei deputati sarà ricordato Giuseppe Dossetti nel centenario della nascita, alla presenza del presidente della Repubblica. Dossetti, partigiano e presidente del Cln di Reggio Emilia, è stato impegnato in politica (prima alla Consulta, poi all’Assemblea costituente, poi in Parlamento e nella Dc di cui fu vicesegretario) per un periodo di soli sette anni, a cui hanno fatto seguito 44 anni di impegno come uomo di Chiesa, prete e monaco.

Anche nella vita della Chiesa è inevitabilmente ricordato per il suo straordinario apporto riformatore, come consigliere del cardinal Lercaro e di monsignor Bettazzi, e poi come moderatore e perito al Concilio Vaticano II. Il cardinal Martini lo definì «profeta del nostro tempo», sottolineando la sua straordinaria capacità di associare profezia religiosa e profezia politica. Ma in questa sede vogliamo ricordare il Dossetti costituente per un aspetto meno conosciuto e studiato. Di lui infatti si ricorda il decisivo apporto nella definizione della struttura personalistica della Carta, negli articoli 2 e 3, e poi i due articoli di cui è stato relatore il 7 e l’11. È stato meno approfondito il suo apporto alla definizione dei contenuti economico-sociali della Costituzione, in particolare sul tema del lavoro. Così come poco si dice del suo rapporto stretto con Palmiro Togliatti, che lui stesso evocherà nel discorso all’Archiginnasio di Bologna nel 1986, come decisivo per la definizione di alcune «architravi» costituzionali.

Un sacerdote di Bologna, mons. Giovanni Nicolini, ricorda ancora quando gli capitò di accompagnare in auto Dossetti e La Pira e ascoltare le memorie di questi due grandi protagonisti dell’Assemblea costituente. Dossetti parlò di quando, all’inizio dei lavori, incontrò riservatamente Togliatti in un bar vicino a piazza del Popolo, al fine di sciogliere alcuni nodi preliminari e, in particolare, di decidere il principio ispiratore di tutta la Carta, quello che già in quel colloquio, avrebbe dovuto essere l’articolo 1. I due non si conoscevano bene ma nella conversazione si superò presto l’impaccio iniziale. Fu Dossetti a rompere gli indugi e a indicare il tema del lavoro, destando ovviamente consenso ma anche qualche comprensibile sospetto da parte di Togliatti: «Lei lo fa per compiacermi». «No, non mi interessa compiacerla, sono proprio convinto che il tema del lavoro debba rappresentare il cuore della nostra Carta e un punto di incontro fra posizioni culturali che per altri aspetti non sono facilmente conciliabili. La strada per arrivare al comune obiettivo è probabilmente diversa fra noi due. Per lei il tema del lavoro è importante per ragioni politiche e sociali comprensibili, per me è importante come presupposto costitutivo della centralità della persona: senza il lavoro non c’è dignità e senza dignità l’individuo non diventa persona».

Nasce probabilmente in quella occasione e in quel contesto non solo l’intesa per definire il contenuto dell’articolo 1 (il cui testo sarà formalmente presentato poi da Fanfani), ma un rapporto personale che segnerà tutta la vita dell’Assemblea costituente, a partire appunto dal dibattito nella prima sotto-commissione sul tema del lavoro. Ne ha parlato puntualmente il costituzionalista Mario Dogliani, nel seminario del 15-16 ottobre 2011 tenuto a Montesole sul tema «Il lavoro nel pensiero di Giuseppe Dossetti», a cui parteciparono anche i professori Ugo De Siervo e Salvatore Natoli. Il pensiero di Dossetti sul lavoro è anticipato nell’articolo apparso sulla vittoria laburista nelle elezioni del 1945 in Gran Bretagna «Triplice vittoria», riportato in questa pagina. [di seguito]

La discussione nella prima sotto-commissione prende spunto proprio da una proposta formulata da Mo-o e Dossetti: «Ogni cittadino ha diritto al lavoro e il dovere di svolgere un’attività o esplicare una funzione idonea allo sviluppo economico o culturale o morale o spirituale della società umana, conformemente alle proprie possibili tà e alla propria scelta». La discussione ovviamente si sviluppa a lungo e i testi si modificano. Quando si affronta il problema del salario, la prima formulazione che viene posta in discussione è congiunta di Togliatti e Dossetti: «La remunerazione del lavoro intellettuale e manuale deve soddisfare le esigenze di un’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia». Questa è una formula che poi è rimasta ed è confluita nell’articolo 36.

È ancora Dossetti a dichiarare: «Il lavoro è il fondamento di un diritto che però non è concepito come un diritto nei confronti del datore di lavoro, ma come un diritto che si dirige verso l’intera società, che ha il suo fondamento non nella naturalità dell’individuo, ma nel fatto che lavora... Il diritto ad avere i mezzi per un’esistenza libera e dignitosa non deriva dal semplice fatto di essere uomini, ma dall’adempimento di un lavoro... Questa non è un’utopia perché non possiamo rinunciare al sogno, sogno inteso come sogno politico, di avviare la struttura sociale verso una rigenerazione del lavoro.... in modo che il suo frutto sia adeguato alla dignità e alla libertà dell’uomo. Tali principi programmatici non avranno la possibilità di operare un miracolo... ma serviranno almeno ad una progressiva elevazione delle condizioni di lavoro nel prossimo avvenire».
 E La Pira precisa: «Gli articoli formulati dalla sotto-commissione sono sempre partiti... dalla premessa che es-si debbono concorrere a far cambiare la struttura economica e sociale del Paese». Dopo una lunga discussione si arriverà finalmente all’approvazione di una nuova formulazione leggermente diversa, sempre a firma Dossetti-Togliatti: «La remunerazione del lavoro intellettuale o tecnico manuale deve soddisfare le esigenza di esistenza libe-ra e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia».

Si potrebbe continuare ancora a leggere i verbali di quel lungo dibattito che affronterà varie altre questioni, in particolare quelle relative al diritto di sciopero, alla finalizzazione della libertà economica e ad altri aspetti, e sempre registreremo gli interventi di Togliatti-Dossetti, Togliatti-La Pira, Moro-Basso-Dossetti-Togliatti, i veri protagonisti di una discussione che anche allora ruotava attorno alla centralità di un diritto soggettivo che è presupposto di altri diritti, un diritto che dà senso e coagulo alla trama di tutti i rapporti economico-sociali, su cui avrebbe dovuto reggersi l’intera architettura costituzionale.

Non è mia intenzione trascinare Dossetti nel dibattito politico, e ancor meno in quello elettorale di oggi, ma non possiamo non rilevare la straordinaria attualità di un pensiero che può aiutare ancora a dare un senso e una prospettiva al processo di profondo cambiamento nel quale ci troviamo inevitabilmente inseriti.

Perché non possiamo non dirci laburisti
di Giuseppe Dossetti

(31 luglio 1947)

Trascorse le primissime ore di sorpresa, di fervore, di entusiasmo, l’esito delle elezioni inglesi appare sempre meglio come la vittoria di un mondo nuovo in via di faticosa emersione. Vittoria innanzi tutto del lavoro più che, come alcuni hanno detto, vittoria del socialismo; vittoria cioè di una effettiva, concreta e universale realtà umana, meglio che di una particolare dottrina e prassi politica concernente l’affermazione sociale di quella realtà.

Certo il Partito laburista ha contrastato e vinto i conservatori opponendo alla loro caparbia cristallizzazione di interessi e di metodi, un vasto programma di trasformazioni sociali; ma si tratta di tali socializzazioni che, per i principi teorici cui si richiamano (e che non hanno a che vedere con le dottrine classiche del socialismo, né di quello utopico, né di quello marxista), per il campo di applicazione (le industrie chiave e i grandi gruppi finanziari) e soprattutto per il metodo di realizzazione (proprietà sociale e non statale) non consentono, se non per approssimazione giornalistica o propagandistica, di parlare di socialismo, almeno come da decenni lo si intende nell’Europa continentale, e come da mesi lo si intende nella ripresa italiana.

Ben più propriamente invece dobbiamo parlare di un programma di concreta e realistica inserzione, al vertice della gerarchia sociale e politica, del lavoro, inteso come la prima e fondamentale esplicazione della personalità umana, come il genuino e non fallace metro delle capacità, dei meriti, dei diritti di ognuno: programma che non è logicamente né praticamente connesso con la teoria socialista e che può essere condiviso, come di fatto lo è, da altri partiti non socialisti.
In secondo luogo la «vittoria della solidarietà», più e meglio che come qualcuno si limita a dire vittoria della pace. Gli elettori inglesi rifiutando con così grande maggioranza a Churchill, vincitore della guerra, il compito di organizzare il dopo-guerra, non hanno semplicemente voluto esprimere la loro volontà di pace e il proposito di allontanare gli uomini, gli interessi, gli atteggiamenti che hanno portato alla guerra e potrebbero perpetuarla in potenza o in atto, ma ben più essi hanno voluto mostrare la loro preferenza per quelle forze e quegli uomini che, appunto per la loro qualità e il loro spirito di lavoratori e di edificatori, hanno dato prova di avere una volontà positiva e attiva per l’edificazione di una nuova struttura sociale e internazionale in cui, nei rapporti tra singoli, tra classi e tra nazioni, non solo siano psicologicamente superate, ma persino oggettivamente rimosse, le possibilità concrete di egoismi, di privilegi, di sopraffazioni e in cui siano poste garanzie effettive di solidarietà e di uguaglianza.

Infine, «vittoria della democrazia»: non solo per l’aspetto dai giornali e dai commentatori più rilevato, cioè per il fatto che, con l’avvento del laburismo al potere, la democrazia inglese entra finalmente nella linea della sua coerenza plenaria e la democrazia quasi esclusivamente formale (cioè di forme costituzionali e parlamentari di fatto accessibili solo a una minoranza di privilegiati) quale sinora è stata, si avvia a essere democrazia sostanziale, cioè vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo a quello politico, ma anche a quello economico e sociale; ma vittoria della democrazia in un senso ancor più profondo e definitivo che molti non considerano e forse alcuni vogliono ignorare, cioè per il fatto che per la prima volta nella storia dell’Europa contemporanea si è potuto effettuare, nonostante le difficoltà dell’ambiente (la «Vecchia Inghilterra» conservatrice per eccellenza) e le difficoltà del momento (l’indomani della più grandiosa storia militare), una trasformazione così grave, decisa e inaspettata, che tutti consentono nel qualificarla «rivoluzione» e che tuttavia questa rivoluzione è avvenuta proprio per le vie della legalità e attraverso i metodi della democrazia tipica e gli istituti del sistema parlamentare.

Questo fatto è quello che riassume e corona, è quello che consacra nel presente e garantisce per l’avvenire la definitività delle altre vittorie. Ma è soprattutto quello che veramente conclude la storia dell’Europa moderna e apre non un nuovo capitolo, ma un nuovo volume, ponendo fine all’età del liberalismo europeo e preannunziando insieme la fine del grande antagonista storico della concezione liberale; cioè il socialismo cosiddetto scientifico. Non sembri un’affermazione paradossale: essa è veramente il frutto di una meditazione storica.

La vittoria del Partito laburista, che non è partito di classe, ma partito interclassista (in quanto accoglie il filatore di Manchester, Mac Farlane, il proletario del Galles e il maresciallo Alexander), del Partito laburista che non ha vinto solo con i voti dei distretti operai, ma anche con quelli dei centri rurali più legati alle concezioni tradizionali della Vecchia Inghilterra, del Partito laburista che ha vinto con una elezione popolate e veramente libera, tale vittoria, diciamo, ha non solo concluso il periodo delle dittature o delle aristocrazie conservatrici, ma ha smentito per la prima volta con la prova dei fatti le dottrine e le prassi (già da tempo confutare in teoria) che solo nel ricorso alla forza, nella dittatura di una classe sulle altre e nella metodologia dell’attivismo sopraffattore vedono una possibilità di ascesa per i lavoratori e di instaurazione di una vera democrazia.

Da oggi i lavoratori di tutto il mondo finalmente sanno di potere con fiducia rispondere ad un grido che li invita all’unità, ma non nel nome di un mito di classe e di lotta, ma nel nome di una volontà di solidarietà con tutti e di libertà e giustizia per tutti. Volontà che, come ha riconosciuto Clemente Attlee, è veramente cristiana.

Reggio Emilia, 31 luglio 1945




Postilla

Questi articoli cispiegano molte cose utili oggi per l'oggi e il domani. In primo luogo, e perl'oggi, come possano collaborare forze politiche diverse ove siano veramentetali (ossia abbiano ciascuna la sua ideologia e il suo progetto) e sappianoindividuare i principi comuni e i modi per realizzarli nel concreto, comepremesse comuni a partire dalle quali muoversi per andareavanti. Per il domani riaprono la riflessione su una questionecentrale: che cosa è il lavoro per l'uomo, e che cosa deve divenire per lasocietà, al di là dell'orizzonte del capitalismo. La ricerca è aperta. (Sueddyburg vedi qui un abbozzo di "visita guidata")

«il manifesto, 10 febbraio 2013
.
Kar Polanyi , nel noto saggio «La grande trasformazione» spiegava l'avvento del mercato autoregolato come il frutto di una trasformazione in merce di tre fattori: il lavoro, la terra e la moneta. Nessuno dei tre, diceva Polanyi, è stato prodotto dall'uomo: «il lavoro è soltanto un altro nome per un'attività umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta(...) la terra è soltanto un altro nome per la natura che non è prodotta dall'uomo, la moneta infine è soltanto un simbolo del potere d'acquisto». Per questo Polanyi parla di merci-fittizie, vale a dire di una finzione che ha reso merce ciò che non lo è, con conseguenze disastrose per la società e per gli ecosistemi.
Se fosse vissuto fino ai nostri giorni, credo che Polanyi avrebbe aggiunto «la politica» come merce-fittizia, in quanto il processo di mercificazione l'ha pienamente raggiunta ed inglobata. In Italia, questo fenomeno è più chiaro che in altri paesi, in quanto il processo di disgregazione/disfacimento dei partiti è in stato più avanzato. D'altronde, pochi lo sanno, ma noi siano stati un paese «laboratorio politico» per secoli, da cui sono pervenuti grandi contributi teorici, da Macchiavelli a Gramsci, ancora studiati in tante Università straniere.

Ma, è soprattutto, nel XX° secolo che l'Italia è emersa come avanguardia/laboratorio politico, nel bene e nel male. In Italia è stato «inventato» il fascismo, una forma moderna di dittatura che coniuga il nazionalismo con istanze sociali e che è stato ripreso dal nazifascismo di Hitler (che in una nota lettera riconosceva a Mussolini di averlo ispirato), e da alcune varianti: da Peron in Argentina, da Franco in Spagna e Salazar in Portogallo. Negli anni '90 è arrivato il Berlusconismo, una forma politica nuova che nasce in concomitanza dello strapotere assunto dai mass media, in particolare la Tv. Anche questa forma politica è stata imitata da diversi paesi, dal Perù all'Indonesia, dove attraverso il controllo dei principali media leader politici sono arrivati al governo.
Infine, negli ultimi anni è nato il Grillismo, un movimento politico che usa per la prima volta internet/la rete in maniera «sostanziale» per dare a tutti l'impressione di contare e di partecipare direttamente alle scelte politiche, con una spiccata componente moralizzatrice ed una forte domanda di «democrazia diretta». Questo fenomeno sembra rispondere meglio di qualunque altro alla crisi verticale dei partiti, ma risponde ancora meglio - come ha ben messo in luce Giuliano Santoro nel suo saggio Un Grillo qualunque - alla evoluzione della società dello spettacolo, di cui parlava Guy Debord già negli anni '70. Il Grillismo, detto anche Movimento 5 Stelle, che molti davano per effimero, si sta rivelando molto più radicato e convincente nell'era del «mercato elettorale», anche grazie all'innovazione efficacemente introdotta da Grillo: allo strumento postmoderno dei social network ha associato uno strumento antico come i comizi in piazza. Trovata geniale, come quella operata dalla Fiat quando lanciò la nuova 500, un mix di passato «nella forma» e futuro «nella tecnologia», o quella dei biscotti del Mulino Bianco che ti danno un'idea di naturalezza del prodotto insieme all'efficienza di una fabbrica moderna.
Questo è il dato assolutamente inedito della politica in tutti i paesi a capitalismo maturo, ovvero dove il processo di mercificazione ha inglobato tutto l'esistente, dalle relazioni sociali, agli affetti, al nostro rapporto con la Natura.
Non c'è più la «Politica», intesa come lotta tra diverse visioni del mondo, tra diversi valori e ideologie, ma c'è il mercato elettorale, che è un segmento all'interno del più vasto ed onnicomprensivo «mercato mondiale». Nel «mercato elettorale» conta la novità dell'offerta- non a caso tutti si proclamano a favore del «Nuovo» - la forza del brand che si identifica con il capo, la capacità di suscitare emozioni nei consumatori/elettori attraverso slogan efficaci.
Le strategie messe in campo dalle forze/imprese politiche sono identiche a quelle che si usano per il lancio di un nuovo prodotto o per fidelizzare i consumatori rispetto ad un prodotto già presente sul mercato. I sondaggi, che in maniera ossessiva stanno accompagnando questa campagna elettorale, dimostrano come le preferenze degli elettori/consumatori seguano il trend dell'esposizione mediatica del leader di turno, la sua capacità di suscitare immagini accattivanti, di conquistare la simpatia degli utenti. Non importa se per esempio il Cavaliere le spara grosse - come i quattro milioni di posti di lavoro - oppure Grillo prometta un salario di cittadinanza con i risparmi dei costi della rappresentanza politica, e fa l'esempio della Sicilia dove i dodici consiglieri regionali M5S hanno rinunciato a circa 10.000 euro dei loro emolumenti per alimentare un fondo di microcredito (cosa c'entra con il «salario di cittadinanza» per milioni di disoccupati/inoccupati ?!). Anche un nuovo profumo viene pubblicizzato facendoti immaginare che puoi conquistare una donna/uomo bellissima/o, oppure una nuova auto che ti fa attraversare il polo nord.

Non è dunque un caso se nel nostro paese, che continua ad essere un'avanguardia/laboratorio politico, i comici fanno politica (e non solo Grillo), ed i politici fanno i comici (e non solo il Cavaliere). Certo, non tutti hanno gli stessi talenti. Il povero Fini, con i suoi ragionamenti articolati in buon italiano, è completamente fuori mercato, sembra un politico di un altro secolo. Il Professor Monti, invece, è diventato patetico da quando tenta di fare il simpatico, va in Tv in trasmissioni da avanspettacolo, tentando di uscire dal ruolo di statista, grigio e rigoroso, che gli era stato dato. Anche lui ha fondato un «partito personale», come hanno fatto negli ultimi venti anni nell'ordine: Berlusconi, Di Pietro, Casini, Fini, Vendola, e per ultimo Oscar Giannino. Su questo piano l'ultimo partito, insieme alla Lega Nord, che rimane sul campo politico è il Pd, ed ha sicuramente ragione Bersani a dire che i «partiti personali» sono il cancro della democrazia. Solo che scambia gli effetti con la causa che, come abbiamo ricordato, è legata al processo di mercificazione globale che ha ridotto anche la politica a merce, e l'elezioni politiche ad un mercato come gli altri.

Certo, non possiamo pensare che si possa tornare al secolo scorso, prima degli anni '90, quando la gente votava «per la croce», per «falce e martello» o per la «fiamma tricolore», e non solo per la faccia e la simpatia riscossa dal leader di turno. Forse, bisognerebbe dare più valore e forza alle autonomie comunali, uno dei pochi luoghi che ha resistito a questa deriva mercatistica della politica, uno dei pochi luoghi dove ancora contano passioni e programmi, capacità di coinvolgimento e mobilitazione sociale, e non solo l'invenzione di un nuovo brand. Sicuramente, al di là dell'abolizione del Porcellum, la peggiore legge elettorale d'Europa, c'è da ripensare a come la Politica possa ritornare sulla scena e le elezioni possano avere più senso che vendere una nuova auto, computer o tablet.

L'idea che il sapere serva solo a produrre e consumare, a furia di essere spacciata dalla destra e dai ragionieri di regime, introdotta nell'università in Italia dalla riforma Berlinguer, è filtrata un po' ovunque.

Il manifesto, 8 febbraio 2013 (f.b.)

Perché si va a scuola? Per trovare un lavoro da grandi. Sì, certo, ma se poi da grandi il lavoro non c'è perché siamo in piena crisi del mercato del lavoro, andare a scuola, allora, cosa serve? Risposta: a niente. O meglio: a tenere buoni alunni e studenti. Possibile? Sembra proprio così. Dunque, andiamo con ordine: negli ultimi venticinque anni si è fatta strada in Italia l'idea che la funzione principale dell'università e dell'intero sistema formativo sia fornire forza-lavoro al mondo del lavoro e dell'economia. Un'idea forte, che ha messo al centro dei processi educativi il concetto di formazione (a breve termine), mettendo nell'ombra quello di educazione (a lungo termine). È un'idea derivata dall'unione fondamentalmente economica dell'Europa. Che ha trovato diversi adepti anche tra pedagogisti e politici, non solo legati al centrodestra ma anche al centrosinistra. Potremmo chiamarla un'idea di politica scolastica di matrice neoliberista.

Anche il linguaggio dell'amministrazione scolastica è cambiato: si è parlato di scuola-azienda, con tutto ciò che questo comporta in termini didattici e pedagogici. Si sono ripetute parole d'ordine come meritocrazia, sorvolando sulla funzione sociale e di uguaglianza delle opportunità di un sistema scolastico statale. Si è provato in ogni modo a proporre test sulla qualità delle scuole e della formazione utili più a ricerche di mercato che a e nuove strategie educative; ricordiamoci sempre che l'Ocse che misura i nostri ragazzi è un organismo economico, non filosofico o pedagogico. La domanda che pongo è questa: che fine fa la visione di un'università e di una scuola che hanno come stella polare quello di creare forza-lavoro nel tempo della crisi del mercato del lavoro? Dove magari, come accade in Italia, il cui tessuto economico è fatto in gran parte di piccole aziende semiartigianali, il laureato specializzato è meno attraente di un lavoratore non specializzato, magari d'origine straniera e a basso costo? Non sono domande nuove: negli Stati Uniti e in Inghilterra, quel sistema scolastico anglosassone che noi oggi cerchiamo di replicare fuori tempo massimo in Italia, è già sotto accusa e si sta correndo ai ripari. Intanto il risultato delle cattive politiche scolastiche messe in atto dagli ultimi governi italiani ha portato ai primi cattivi frutti. Uno: la scuola primaria italiana che era prima per qualità in Europa nel 2008, dopo la controriforma Gelmini è precipitata in classifica. Due: oltre 50.000 immatricolazioni universitarie in meno negli ultimi dieci anni; che è assurdo attribuire solo al calo demografico.

Occorre riflettere, specie nel centrosinistra italiano, sulla visione di scuola e università che vogliamo. Magari rivalutando quella pedagogia popolare italiana del Novecento non togata, che va da Gianni Rodari a don Milani a Loris Malaguzzi, che parlavano più di educazione - permanente, civile, della persona - che di formazione temporanea. E che mettevano la scuola al centro della vita sociale e democratica di un Paese, come suo cuore pulsante, piuttosto che subordinarla acriticamente a un mercato o a ideologie.

Ancora un commento al libro di Carlo Galli, “Sinistra”, a proposito del quale si discuterà ancora a lungo

. Micromega, 1/2013

Che cosa sta succedendo nella bolognese “repubblica delle lettere” de il Mulino? Ossia in uno dei pochi luoghi nazionali in cui si coltivavano da almeno un cinquantennio analisi e ibridazioni culturali come esercizio di progettazione politica. Ce lo si chiede visto che alcuni tra i più autorevoli politologi della terza generazione di questa comunità, con annessa casa editrice, negli ultimi tempi scelgono di pubblicare altrove: lo ha fatto Piero Ignazi per Laterza, lo fa ora Carlo Galli con Mondadori. Forse i sospettosi potrebbero trovare una chiave interpretativa nel fatto che Galli è candidato alle prossime elezioni nel listino di Bersani mentre Michele Salvati, sull’ultimo numero della rivista bandiera del gruppo editoriale di cui è direttore, ha fatto coming out a favore di Mario Monti («… concludo con una tesi di cui sono convinto, e che qui esprimo a titolo personale: che la prosecuzione dopo le elezioni di un governo Monti potrebbe fare ancora bene al nostro Paese… non è ancora venuto il momento di sostituire Bersani a Monti» [3]).

Sia come sia, eccoci con la recentissima opera sull’ormai araba fenice della bella politica – la Sinistra – cui Galli dedica 160 pagine; per due terzi centrate sul “come eravamo” e per il restante terzo dedicato al “come potremmo essere”: un saggio molto filosofico che evolve a pamphlet appassionato, sempre in un linguaggio sostenuto (dove abbondano estese catene di antinomie: pour un tel inventaire/ il faudrait être un Prevert, borbotterebbe Georges Brassens).

Il senso complessivo del ragionamento può essere sintetizzato in due tesi:
A. Il Novecento ha conosciuto quattro rivoluzioni (Comunismo, Fascismo, Keynesianesimo dello Stato Sociale e Neoliberismo), nell’ultima delle quali si è verificata un’apparente spoliticizzazione mercatistica che ha marginalizzato la Sinistra politica;
B. La fuoriuscita dall’ormai evidente crisi NeoLib può avvenire soltanto grazie a una “quinta rivoluzione” (un New, New Deal) che metta radici in un rinnovato blocco sociale facendo perno nella rivalorizzazione del lavoro.

Per quanto riguarda la prima tesi, apparentemente innegabile, si può semmai puntualizzare che – in effetti – non si è trattato di marginalizzazione, quanto di sottomissione all’egemonia dell’economico del personale dei partiti formalmente collocati sul fronte sinistro, interpretabile in vari modi: interiorizzazione pavlovizzante del mito de “il senso della storia”, da cui il riflesso condizionato di stare sempre dalla parte dei (presunti) vincitori? Opportunismo carrieristico da Terza Via? Omologazione in un ceto politico indistinto, intimamente solidale nella difesa dei propri privilegi? Vedete un po’ voi. A parere dello scrivente la spiegazione più attendibile la si ricava da una chiosa a margine del secondo item: per quale motivo il lavoro, da grande protagonista della dialettica sociopolitica otto/novecentesca, è diventato un soggetto desaparecido.

Di conseguenza, le organizzazioni partitiche che traevano i propri successi dal radicamento in questa parte sociale hanno ritenuto più conveniente rivolgersi altrove. Veniamo così al punto: Galli sostiene che «non aver posto l’accento sul lavoro con sufficiente convinzione, aver accettato la subalternità del lavoro e le disuguaglianze sociali, è stata una delle maggiori cause di debolezza della sinistra» (pag. 135). Tesi ovviamente condivisibile. Con un però. Messo in risalto – guarda caso – dall’intellettuale italiano che ai suoi tempi fu sovreccitato portabandiera dell’operaismo, Toni Negri. Quello che nel 1977 scriveva «sono gli operai del Sud che emigrano piuttosto che accettare la miseria pianificata del sottosviluppo, sono gli operai della fabbrica verde del Nord che impongono, premendo sulle metropoli, l’estensione dell’occupazione e dei servizi e ne sconvolgono le capacità di controllo amministrativo – queste sono le forze che vengono a costituire l’operaio-massa, stravolgendo sconfitte parziali in una vittoria strategica di massa» [4]. Ora il medesimo teorico estetizzante dell’antagonismo, in collaborazione con l’alter ego Michael Hardt (ma esisterà davvero? A volte penso si tratti di un personaggio di fantasia, come l’Ida Omboni coautrice di Paolo Poli…), promuove una tesi diametralmente opposta: «per potere parlare di nuova sinistra, oggi dobbiamo innanzitutto esprimerci nei termini di un programma postsocialista e postliberale, basato su una rottura materiale e concettuale – una frattura ontologica – rispetto alle tradizioni ideologiche del movimento operaio, delle sue organizzazioni e dei suoi modelli di gestione della produzione» [5].

Insomma, il “potere costituente” su cui edificare la rivoluzione postliberista dove sta, nella moltitudine o nel lavoro organizzato/rappresentato? Sempre a parere dello scrivente, frammenti di verità galleggiano tanto nella tesi di Galli come in quella di Negri, a patto di uscire dai filosofemi (hegheliani o spinoziani) e ragionare in termini di crudi rapporti di forza e poste in gioco.

Al lavoro in quanto tale le donne e gli uomini concreti possono chiedere moltissimo; tanto dal punto di vista psicologico (senso e significati, identità/dignità) come economico (emancipazione e risarcimenti materiali). Tuttavia la conquista di una soggettività dotata della potenza che si fa cambiamento discende soltanto da precise condizioni posizionali, già verificatesi in una fase storica ma che attualmente non sono più presenti: essere al centro dei processi di riproduzione della ricchezza; appunto, come al tempo del capitalismo industrialista (fordista). In altre parole, quando le lotte del lavoro imponevano alla controparte datoriale mediazioni al rialzo; che si traducevano in conquiste collettive, generali.

Ahimé, la stagione di finanziarizzazione capitalistica e il nuovo modo di produrre transnazionale, alla ricerca dei residui eserciti di riserva del lavoro da irreggimentare in forme servili, ha disarmato il lavoro attraverso l’innovazione tecnologica e organizzativa; al tempo stesso sottomettendo la politica, ormai trasformata in caporalato del consenso in quanto subalterna ai poteri plutocratici e mediatici.

Sicché possiamo dare ragione a Galli quando propugna una «ripoliticizzazione delle istituzioni: la politica deve essere capace di nuova autonomia, cioè di nuovo orientamento e governo» (pag. 156). Per cui diventa essenziale l’aggregazione (in un nuovo “blocco storico”?) di componenti sociali attualmente oscillanti tra due stati d’animo politicamente inerti: l’indignazione e il fatalismo.

Ma tutto questo ben difficilmente potrà realizzarsi permanendo all’interno di uno specifico ordine (tardo capitalistico) – quale quello vigente – che presuppone priorità d’agenda, stili di vita e consumo, forme verticistiche del comando; un plesso inestricabile di poteri micro e macro, innanzitutto sotto forma di pensiero pensabile, che si è trasformato in “dente d’arresto” per ogni effettivo cambiamento in senso democratico.

Negri e Hardt auspicano una “nuova scienza della società”. Più modestamente l’autore di queste note pensa a una rinnovata fisiologia dell’antagonismo sociale, che riproponga la corretta circolazione tra movimenti e istituzioni. E qui compare una parola a cui lo stesso Galli ricorre sovente: conflitto, il grande motore della trasformazione sociale. Anch’esso desaparecido. «Destra e Sinistra permangono perché la politica moderna e contemporanea non è dogmatica o monolitica, ma indeterminata e conflittuale… intorno ai presupposti e alle finalità stesse dell’agire politico. Che sono, in sintesi, il primato dei doveri (la Destra) oppure dei diritti (la Sinistra)» [6]. Alla faccia della presunta obsolescenza dei due termini fatali.

Ma per esserci conflitto – non protestarismi rituali – occorre individuare il “punto archimedico” in cui l’insorgenza sociale tocca nervi sensibili e diviene significativa leva di cambiamento. Come al tempo industrialista; quando – ad esempio – lo sciopero non era ancora un’arma spuntata.

Note

[1] S. Žižek, Dalla tragedia alla farsa, Ponte alle Grazie, Milano 2010 pag. 187
[2] in G. Galletta, Il mondo non è una pesca, Socialmente, Granarolo dell’Emilia 2010 pag. 63
[3] M. Salvati, Mario Monti e un governo per l’Italia, il Mulino 6/2012
[4] A. Negri, La forma stato, Feltrinelli, Milano 1977 pag. 20
[5] M. Hardt e A. Negri, Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004 pag. 256
[6] C. Galli, “L’attualità di Destra e Sinistra”, la Repubblica 18 novembre 2010

«». La Repubblica, 3 dicembre 2013

SI PUÒ avere una agenda politica che ricacci sullo sfondo, o ignori del tutto, i diritti fondamentali? Dare una risposta a questa domanda richiede memoria del passato e considerazione dei programmi per il futuro.Ma bilanci e previsioni, in questo momento, mostrano un’Italia che ha perduto il filo dei diritti e, qui come altrove, è caduta prigioniera di una profonda regressione culturale e politica. Le conferme di una valutazione così pessimistica possono essere cercate nel disastro della cosiddetta Seconda Repubblica e nelle ambiguità dell’Agenda per eccellenza, quella che porta il nome di Mario Monti. Solo uno sguardo realistico può consentire una riflessione che prepari una nuova stagione dei diritti.

Vent’anni di Seconda Repubblica assomigliano a un vero deserto dei diritti (eccezion fatta per la legge sulla privacy, peraltro pesantemente maltrattata negli ultimi anni, e alla recentissima legge sui diritti dei figli nati fuori del matrimonio). Abbiamo assistito ad una serie di attentati alle libertà, testimoniati da leggi sciagurate come quelle sulla procreazione assistita, sull’immigrazione, sul proibizionismo in materia di droghe, e dal rifiuto di innovazioni modeste in materia di diritto di famiglia, di contrasto all’omofobia. La tutela dei diritti si è spostata fuori del campo della politica, ha trovato i suoi protagonisti nelle corti italiane e internazionali, che hanno smantellato le parti più odiose di quelle leggi grazie al riferimento alla Costituzione, che ha così confermato la sua vitalità, e a norme europee di cui troppo spesso si sottovaluta l’importanza.

La considerazione dei diritti permette di andare più a fondo nella valutazione comparata tra Seconda e Prima Repubblica, oggi rappresentata come luogo di totale inefficienza. Alcuni dati. Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale, sul referendum, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla carcerazione preventiva. In un solo anno si realizza così una profonda innovazione istituzionale, sociale, culturale. E negli anni successivi verranno le leggi sul diritto del difensore di assistere all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale, sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui diritti delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro; sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni; sulla riforma del diritto di famiglia e la fissazione a 18 anni della maggiore età; sulla disciplina dei suoli; sulla chiusura dei manicomi, l’interruzione della gravidanza, l’istituzione del servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti attraversa tutti gli anni ’70, e ci consegna un’Italia più civile.

Non fu un miracolo, e tutto questo avvenne in un tempo in cui il percorso parlamentare delle leggi era ancor più accidentato di oggi. Ma la politica era forte e consapevole, attenta alla società e alla cultura, e dunque capace di non levare steccati, di sfuggire ai fondamentalismi. Esattamente l’opposto di quel che è avvenuto nell’ultimo ventennio, dove un bipolarismo sciagurato ha trasformato l’avversario in nemico, ha negato il negoziato come sale della democrazia, si è arresa ai fondamentalismi. È stata così costruita un’Italia profondamente incivile, razzista, omofoba, preda dell’illegalità, ostile all’altro, a qualsiasi altro. Questo è il lascito della Seconda Repubblica, sulle cui ragioni non si è riflettuto abbastanza.

Le proposte per il futuro, l’eterna chiacchiera su una “legislatura costituente” consentono di sperare che quel tempo sia finito? Divenuta riferimento obbligato, l’Agenda Monti può offrire un punto di partenza della discussione. Nelle sue venticinque pagine, i diritti compaiono quasi sempre in maniera indiretta, nel bozzolo di una pervasiva dimensione economica, sì che gli stessi diritti fondamentali finiscono con l’apparire come una semplice variabile dipendente dell’economia. Si dirà che in tempi difficili questa è una via obbligata, che solo il risanamento dei conti pubblici può fornire le risorse necessarie per l’attuazione dei diritti, e che comunque sono significative le parole dedicate all’istruzione e alla cultura, all’ambiente, alla corruzione, a un reddito di sostentamento minimo. Ma, prima di valutare le questioni specifiche, è il contesto a dover essere considerato.

In un documento che insiste assai sull’Europa, era lecito attendersi che la giusta attenzione per la necessità di procedere verso una vera Unione politica fosse accompagnata dalla sottolineatura esplicita che non si vuole costruire soltanto una più efficiente Europa dei mercati ma, insieme una più forte Europa dei diritti. Al Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, si era detto che solo l’esplicito riconoscimento dei diritti avrebbe potuto dare all’Unione la piena legittimazione democratica, e per questo si imboccò la strada che avrebbe portato alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Questa ha oggi lo stesso valore giuridico dei trattati, sì che diviene una indebita amputazione del quadro istituzionale europeo la riduzione degli obblighi provenienti da Bruxelles a quelli soltanto che riguardano l’economia. Solo nei diritti i cittadini possono cogliere il “valore aggiunto” dell’Europa.

Inquieta, poi, l’accenno alle riforme della nostra Costituzione che sembra dare per scontato che la via da seguire possa esser quella che ha già portato alla manipolazione dell’articolo 41, acrobaticamente salvata dalla Corte costituzionale, e alla “dissoluzione in ambito privatistico” del diritto del lavoro grazie all’articolo 8 della manovra dell’agosto 2011. Ricordo quest’ultimo articolo perché si è proposto di abrogarlo con un referendum, unico modo per ritornare alla legalità costituzionale e non bieco disegno del terribile Vendola. Un’agenda che riguardi il lavoro, oggi, ha due necessari punti di riferimento: la legge sulla rappresentanza sindacale, essenziale strumento di democrazia; e il reddito minimo universale, considerato però nella dimensione dei diritti di cittadinanza. E i diritti sociali, la salute in primo luogo, non sono lussi, ma vincoli alla distribuzione delle risorse.

Colpisce il silenzio sui diritti civili. Si insiste sulla famiglia, ma non v’è parola sul divorzio breve e sulle unioni di fatto. Non si fa alcun accenno alle questioni della procreazione e del fine vita: una manifestazione di sobrietà, che annuncia un legislatore rispettoso dell’autodeterminazione delle persone, o piuttosto un’astuzia per non misurarsi con le cosiddette questioni “eticamente sensibili”, per le quali il ressemblement montiano rischia la subalternità alle linee della gerarchia vaticana, ribadite con sospetta durezza proprio in questi giorni? Si sfugge la questione dei beni comuni, per i quali si cade in un rivelatore lapsus istituzionale: si dice che, per i servizi pubblici locali, si rispetteranno “i paletti posti dalla sentenza della Corte costituzionale”, trascurando il fatto che quei paletti li hanno piantati ventisette milioni di italiani con il voto referendario del 2011.

Queste prime osservazioni non ci dicono soltanto che una agenda politica ambiziosa ha bisogno di orizzonti più larghi, di maggior respiro. Mostrano come un vero cambio di passo non possa venire da una politica ad una dimensione, quella dell’economia. Serve un ritorno alla politica “costituzionale”, quella che ha fondato le vere stagioni riformatrici.

Una riflessione difficile ma necessaria se è vero che le radici della crisi affondano in terreni profondi. A proposito di un “manifesto" di Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca, e della discussione che ha suscitato.

L’Unità online, 22 dicembre 2012

La crisi della democrazia ha la sua radice più profonda in una vera e propria «emergenza antropologica». È dunque dal paradigma antropologico che bisogna prendere le mosse, per ripensare compiti e finalità della politica. Cercare soluzioni alla crisi attuale, che non è soltanto crisi economica e sociale ma crisi di senso, significa cercare di costruire una «nuova alleanza» fra credenti e non credenti, in vista di un «umanesimo condiviso». È una consapevolezza che nutre l’azione della Chiesa italiana, intenta a ridisegnare la propria presenza pubblica nella vita nazionale, ma anche il percorso del partito democratico, la cui identità prova a definirsi nella confluenza di cultura d’ispirazione religiosa e cultura laica, e che giustifica la ricerca comune di una nuova laicità all’altezza delle sfide del nostro tempo.

Questa è la cornice, assai impegnativa, tracciata dalla lettera aperta apparsa poco più di un anno fa su Avvenire e sull’Unità, a firma di quattro studiosi di provenienza marxista: Barcellona, Sorbi, Tronti, Vacca, per i quali si è già trovata l’etichetta di marxisti ratzingeriani. A distanza di un anno, la lettera è divenuta un libro, che raccoglie solo parte (significativa) delle reazioni vivaci suscitate dal documento. Il segno complessivo è di interesse e partecipazione, anche se non mancano obiezioni e esigenze di approfondimento: Emma Fattorini, ad esempio, lamenta la scarsa attenzione dedicata alla questione femminile; Pasquale Serra chiede se non si corra il rischio di far coincidere il religioso con la funzione politica della Chiesa; Luca e Paolo Tanduo avanzano invece dubbi sulla capacità del Pd di ospitare un dialogo su temi bioetici e valori non negoziabili, mentre Claudio Sardo sottolinea la distanza alla quale deve tuttavia mantenersi la mediazione politica rispetto ai valori.

I quattro autori, d’altra parte, non hanno scelto il terreno più facile su cui incontrare le posizioni della Chiesa cattolica. Benché la questione antropologica investa anche il piano dei diritti sociali declinanti e dei modelli economici dominanti, non è su questo versante che viene condotto il confronto. I temi su cui la lettera chiama a riflettere sono infatti (proposti con le stesse parole di Benedetto XVI) da un lato la critica del relativismo, cifra dominante del nostro tempo, dall’altro la difesa dei valori non negoziabili, bussola che il papa chiede di adottare per tutte le questioni che attengono alla difesa della vita, dal concepimento fino alla morte naturale.

È giusta questa strada? Forse sì, se si tratta di correggere la «deriva» individualistico-radicale e la «torsione nichilistica» dei processi di secolarizzazione: non è un caso che si avverta così tanto, in queste pagine, la presenza di Augusto Del Noce, che tempo fa indicò nel relativismo soggettivista e nichilista l’approdo autodistruttivo (per lui inevitabile) del progressismo di sinistra. Forse no, però, se questa correzione viene proposta solo come un argine, come una reazione e non come una costruzione comune, affidata alla responsabilità degli uomini.

A proposito di responsabilità, il libro offre già in premessa un terreno di verifica: “una vita che nasce – vi leggiamo – rappresenta un valore in sé fin dal suo concepimento per la responsabilità che conferisce a ciascun individuo adulto di accoglierla, tutelarla, educarla e seguirla con amore e con cura fino alla sua fine”. Riprenda o no posizioni del magistero della Chiesa, l’affermazione richiede un impegno concettuale non piccolo: stanno infatti insieme, l’uno a fianco all’altro, l’essere «in sé» e l’essere «per-altro» (cioè per la responsabilità) del valore: perché non sia una contraddizione, ci vuole una filosofia a dimostrarlo. E ci vogliono indicatori di direzione: il valore vale perché investito dalla responsabilità che si accende per esso, o la responsabilità consegue soltanto al valore? Mentre quest’ultima affermazione suonerebbe dogmatica, e avrebbe bisogno di tutto un sistema di pensiero a sostegno, la seconda farebbe invece maggiore affidamento all’azione umana, e darebbe molto più spazio e fiducia all’idea, proposta dagli autori (e di grande spessore), di una «società educante».

Certo, una simile società non potrebbe non avere in vista la verità, e dovrebbe quindi accogliere la critica del relativismo, ben distinto dal pluralismo, condivisa dagli autori e in tutti gli interventi raccolti nel libro. Ma la verità, a sua volta, va forse concepita come un abito, o un ethos, piuttosto che come una proposizione o un dogma (immediatamente traducibile in obbligo giuridico): si può dare torto a Kelsen, che giudicava indissolubile il nesso fra democrazia e relativismo, perché la democrazia può avere rapporto con la verità. Ma quale verità? Anche in questo caso due son le strade, una guarda avanti e l’altra indietro: si tratta di un’arcigna verità che precede e fonda, o di una verità che accompagna e segue, che sta tra le mani degli uomini e che è perciò ancora da fondare, ancora a venire?


«Non si abbia paura delle parole: ideologia significa soltanto discorso sulle idee. Qualunque costituzione, in questo senso, è ideologica, è un discorso sulle idee costruttive della società. Anche la costituzione che, per assurdo, si limitasse a sancire la "decostituzionalizzazione" della vita sociale, cioè la totale libertà degli individui e quindi la supremazia dei loro interessi individuali su qualunque idea di bene comune, sarebbe espressione d'una precisa ideologia politica».

La Repubblica, 22 dicembre 2012

IL DISCORSO di Roberto Benigni sulla Costituzione è stato per molti una rivelazione: rivelazione, innanzitutto, di principi fino a lunedì scorso, probabilmente, ignoti ai più; ma, soprattutto, rivelazione di ciò che sta nel nucleo dell'idea stessa di Costituzione. In un colpo solo, è come se fosse crollata una crosta fatta di tante banalità, interessate sciocchezze, luoghi comuni, che impedivano di vedere l'essenziale. Non si è mancato di leggere, anche a commento di quel discorso, affermazioni che brillano per la loro vuotaggine: che la Costituzione è un ferrovecchio della storia, superata dai tempi, figlia della guerra fredda e delle forze politiche di allora. Benigni, non so da chi, è stato definito "un comico", "un guitto". Il suo discorso è stato la riflessione d'un uomo di cultura profonda e di meticolosa preparazione, il quale padroneggia in misura somma una gamma di strumenti espressivi che spaziano dall'ironia leggera, alla tenerezza, all'emozione, all'indignazione, alla passione civile. La Costituzione, collocata in questo crogiuolo d'idee e sentimenti, ha incominciato o ricominciato a risuonare vivente, nelle coscienze di molti. È stato come svelare un patrimonio di risorse morali ignoto, ma esistente. Innanzitutto, è risultata la natura della Costituzione come progetto di vita sociale. La Costituzione non è un "regolamento" che dica: questo si può e questo non si può, e che tratti i cittadini come individui passivi, meri "osservanti".

La Costituzione non è un codice di condotta, del tipo d'un codice penale, che mira a reprimere comportamenti difformi dalla norma. È invece la proposta d'un tipo di convivenza, secondo i principi ispiratori che essa proclama. Il rispetto della Costituzione non si riduce quindi alla semplice non-violazione, ma richiede attuazione delle sue norme, da assumersi come programmi d'azione politica conforme. L'Italia, o la Repubblica, "riconosce", "garantisce", "rimuove", "promuove", "favorisce", "tutela": tutte formule che indicano obiettivi per l'avvenire, per raggiungere i quali occorre mobilitazione di forze. La Costituzione guarda avanti e richiede partecipazione attiva alla costruzione del tipo di società ch'essa propone. Vuole suscitare energie, non spegnerle. Vuole coscienze vive, non morte. Queste energie si riassumono in una parola: politica, cioè costruzione della pòlis.

A differenza d'ogni altra legge, la cui efficacia è garantita da giudici e apparati repressivi, la Costituzione è, per così dire, inerme: la sua efficacia non dipende da sanzioni, ma dal sostegno diffuso da cui è circondata. La Costituzione è una proposta, non un'imposizione. Anche gli organi cosiddetti "di garanzia costituzionale" - il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale - nulla potrebbero se la Costituzione non fosse già di per sé efficace. La loro è una garanzia secondaria che non potrebbe, da sola, supplire all'assenza della garanzia primaria, che sta presso i cittadini che la sostengono col loro consenso. Così si comprende quanto sia importante la diffusione di una cultura costituzionale. L'efficacia del codice civile o del codice penale non presuppone affatto che si sia tutti "civilisti" o "penalisti". L'efficacia della Costituzione, invece, comporta che in molti, in qualche misura, si sia "costituzionalisti". Non è un'affermazione paradossale. Significa solo che, senza conoscenza non ci può essere adesione, e che, senza adesione, la Costituzione si trasforma in un pezzo di carta senza valore che chiunque può piegare o stracciare a suo piacimento.
Così, comprendiamo che la prima insidia da cui la Costituzione deve guardarsi è l'ignoranza. Una costituzione ignorata equivale a una Costituzione abrogata. La lezione di Benigni ha rappresentato una sorpresa, un magnifico squarcio su una realtà ignota ai più. È lecito il sospetto che sia ignota non solo a gran parte dei cittadini, ma anche a molti di coloro che, ricoprendo cariche pubbliche, spensieratamente le giurano fedeltà, probabilmente senza avere la minima idea di quello che fanno. La Costituzione, è stato detto, è in Italia "la grande sconosciuta". Ma c'è una differenza tra l'ignoranza dei governanti e quella dei governati: i primi, ignoranti, credono di poter fare quello che vogliono ai secondi; i secondi, ignoranti, si lasciano fare dai primi quello che questi vogliono. Così, l'ignoranza in questo campo può diventare instrumentum regni nelle mani dei potenti contro gli impotenti.

A questo punto, già si sente l'obiezione: la Costituzione come ideologia, paternalismo, imbonimento, lavaggio del cervello. La Costituzione come "catechismo": laico, ma pur sempre catechismo. La Costituzione presuppone adesione, ma come conciliare la necessaria adesione con l'altrettanto importante libertà? Questione antica. Non si abbia paura delle parole: ideologia significa soltanto discorso sulle idee. Qualunque costituzione, in questo senso, è ideologica, è un discorso sulle idee costruttive della società. Anche la costituzione che, per assurdo, si limitasse a sancire la "decostituzionalizzazione" della vita sociale, cioè la totale libertà degli individui e quindi la supremazia dei loro interessi individuali su qualunque idea di bene comune, sarebbe espressione d'una precisa ideologia politica. L'idea d'una costituzione non ideologica è solo un'illusione, anzi un inganno. Chi s'oppone alla diffusione della cultura della costituzione in nome d'una vita costituzionale non ideologica, dice semplicemente che non gli piace questa costituzione e che ne vorrebbe una diversa. Se, invece, assumiamo "ideologia" come sinonimo di coartazione delle coscienze, è chiaro che la Costituzione non deve diventare ideologia. La Costituzione della libertà e della democrazia deve rivolgersi alla libertà e alla democrazia. Deve essere una pro-posta che non può essere im-posta. Essa deve entrare nel grande agone delle libere idee che formano la cultura d'un popolo. La Costituzione deve diventare cultura costituzionale.

La grande eco che il discorso di Benigni ha avuto nell'opinione pubblica è stata quasi un test. Essa dimostra l'esistenza latente, nel nostro Paese, di quella che in Germania si chiama WillezurVerfassung, volontà di costituzione: anzi, di questa Costituzione. È bastato accennare ai principi informatori della nostra Carta costituzionale perché s'accendesse immediatamente l'immagine d'una società molto diversa da quella in cui viviamo; perché si comprendesse la necessità che la politica riprenda il suo posto per realizzarla; perché si mostrasse che i problemi che abbiamo di fronte, se non trovano nella Costituzione la soluzione, almeno trovano la direzione per affrontarli nel senso d'una società giusta, nella quale vorremmo vivere e per la quale anche sacrifici e rinunce valgono la pena. In due parole: fiducia e speranza. Ma senza illusioni che ciò possa avvenire senza conflitti, senza intaccare interessi e posizioni privilegiate: la "volontà di costituzione" si traduce necessariamente in "lotta per la Costituzione" per la semplice ragione che non si tratta di fotografare la realtà dei rapporti sociali, ma di modificarli.

La Costituzione vive dunque non sospesa tra le nuvole delle buone intenzioni, ma immersa nei conflitti sociali. La sua vitalità non coincide con la quiete, ma con l'azione. Il pericolo non sono le controversie in suo nome, ma l'assenza di controversie. Una Costituzione come è la nostra, per non morire, deve suscitare passioni e, con le passioni, anche i contrasti. Deve mobilitare. Tra i cittadini c'è desiderio di mobilitazione, cui mancano però i punti di riferimento. I quali dovrebbero essere offerti dalle strutture organizzate della partecipazione politica, innanzitutto i partiti che dicono di riconoscersi nella Costituzione. Ma tra questi spira piuttosto un'aria di smobilitazione, come quando ambiguamente si promettono (o minacciano, piuttosto) "stagioni", "legislature" costituenti, senza che si chiarisca che cosa si vorrebbe costituzionalizzare, al posto della Costituzione che abbiamo. Possibile che non si veda a quale riserva d'energia così si rinuncia, in cambio di flosce e vaghe prospettive?

«Nell'occidente secolarizzato dalla modernità, i concetti potenzialmente sovversivi sono legati al mondo dell'economia, la attraversano e la collegano con la politica, il diritto e la filosofia, costruendo così un senso comune istituzionale. Due esempi: privatizzazione e sostenibilità. Nel primo il concetto sovverte. Nel secondo, addomesticato, poco a poco si spegne. Quale sorte toccherà ai "beni comuni"»?

Il manifesto, 8 dicembre 2012

Leparole manifestano, a volte, un affascinante potere performativo. Accade ancheai concetti. Talvolta, sono infatti capaci di sovvertire un sensoapparentemente immutabile, stabilito, istituzionalizzato, mutando così iprocessi storici; altre volte rientrano nel cassetto delle occasioni perdute.Nell'occidente secolarizzato dalla modernità, i concetti potenzialmentesovversivi sono legati al mondo dell'economia, la attraversano e la colleganocon la politica, il diritto e la filosofia, costruendo così un senso comuneistituzionale. Due esempi per intenderci, tratti dalla storia recente:privatizzazione e sostenibilità. Nel primo il concetto sovverte. Nel secondo,addomesticato, poco a poco si spegne. Quale sorte toccherà ai «beni comuni»?

Laprivatizzazione domina il senso comune in cui oggi viviamo. Rompe con un interocammino di civiltà in cui la speranza era riposta nello Stato sociale.L'assetto fondato su uno Stato sovrano mediatore fra capitale e lavoro durafino alla metà degli anni Settanta del Novecento. Nel frattempo, gli anticorpia quell'assetto sociale e politico covavano sotto le ceneri. La MontpellerinSociety e la Trilaterale stavano infatti affinanando un ordine del discorso chealimentasse un rigetto allo Stato sociale. Protagonisti di tale reazione ladiffusione e i think thank delle tesi elaborati dagli economisti FriedrichAugust Von Hayek, Ludwig Von Mises, Milton Friedman. L'idea forte è laprivatizzazione. L'esito è ormai noto: lo stato sociale viene cancellato oridimensionato con più facilità del previsto. Il concetto di privatizzazione hamesso in soffitta John Maynard Keynes, cambiando così il mondo.

L'ipocritasostenibilità
Sul fronte opposto, al tramonto del modellokeynesiano, nella seconda parte degli anni Sessanta dello stesso secolo, emergeil pensiero ecologista profondo. Raquel Carson lancia l'allarme. FritzShumacher lo traduce in ricette economiche dotate del prestigio di essersostenute da un allievo prediletto di Lord Keynes. Nasce il concetto economicodi «sostenibilità», splendido nella sua semplicità. Un sistema economico èsostenibile se non consuma più risorse di quante ne sappia rigenerare. Ilpianeta non va consegnato alle generazioni future in condizioni peggiori diquelle in cui ci è stato consegnato dalle generazioni passate. L'idea fonda unapproccio intellettuale volto ad allontanare l'economia dai paradigmimeccanicistici del positivismo scientifico. Si cerca la sufficienza, non lacrescita. La sostenibilità si articola in un contesto di «conversione»ecologica dell'economia.


Neisuoi scritti, Alex Langer ha enfatizzato la natura non solo materiale epolitica ma allo stesso tempo spirituale e personale di questo processo. Larottura con l'ortodossia economica, con lo stesso senso comune fondante lamodernità non potrebbe essere più radicale. Shumacher resterà sempre unpensatore eterodosso, fortemente critico della concezione dominate dello«sviluppo» su cui si fondano le ricette imperialiste, promosse in tutto ilmondo come «globalizzazione dei mercati» dopo la decolonizzazione. Il suolibro, Small is beautiful è tornato a essere un cult nella attuale economiadella transizione, ma la locuzione «sostenibilità», dopo una prima faseradicalmente sovversiva, é progressivamente normalizzata dai dispositiviideologici del capitalismo. «Sviluppo sostenibile», un vero ossimoro diventanozione dominante nei programmi di aggiustamento strutturale della BancaMondiale e del Fondo Monetario. Un'idea truffaldina di green economy serve dafoglia di fico di uno sfruttamento dell'uomo e della natura sempre più intensoe scientifico nell'attuale strutturazione del capitalismo cognitivo. La terrafertile è coperta da pannelli solari. La monocultura della soia e del maisproduce biodiesel per far funzionare i Suv che intasano le metropoli nel Nord enel Sud del Mondo. La green economy abbatte le barriere fra il mercato deicarburanti e quello del cibo. Barack Obama è l'alfiere di questo capolavoro.

Laprovocazione di Hardin
Oggi i beni comuni costituiscono l'oggetto delcontendere fra due visioni del mondo. Da un lato si propongono come rivoluzionegenerativa. Dall'altro essi, a seguito del loro emergere politico, sono oggettodi un vero tentativo di detournement reazionario, per utilizzare, a contrario,la terminologia debordiana. L'operazione, come tutti gli scontri capaci diprodurre ideologia e falsa coscienza, è complessa.


Sul piano delle idee la locuzione commons vienerecuperata al dibattito da Garret Hardin, un biologo-economista che dedica unceleberrimo articolo alla «tragedia dei comuni». Il lavoro costituisce unaspecie di teoria evoluzionistica della proprietà privata, in cui quest'ultimaistituzione è rafforzata nel quadro della più stratta applicazione del modellofondato sull'homo oeconomicus. A partire dai tardi anni Ottanta, ElinorOstrom,una politologa-economista vicina alla scuola del cosiddetto«neo-istituzionalismo» organizza una serie di studi per dimostrare che icommons non sono luoghi di «non diritto», come argomentava Hardin, ma che alcontrario essi hanno sostenuto per secoli istituzioni sociali in equilibriosenza che si verificassero tragedie di sorta. Nel 2009 Ostrom riceve il Nobelper l'economia. Scottata dalla crisi economica, il pensiero economicomainstream cerca di rifarsi una verginità. Vengono premiati lavori eterodossiche cercano di inserire un minimo di realismo nell'astratto mondo dei modelliteorici. Paladini di questa correzione «realista» del pensiero economicodominante sono: North, Stigliz, Kaneman, Krugman. Le resistenze globali (dalChiapas a Cochabamba, a Seattle) hanno reso evidente che la critica di Ostrom aHardin, decisiva nell'analisi delle motivazioni del singolo, assai più soventehomo civicus che homo oeconomicus, non coglie politicamente nel segno perchérisparmia le corporation e al contempo rafforza il modello dominante,correggendone i difetti più eclatanti. Ecco spiegarsi il Nobel assegnatoall'autrice di un contributo teorico di grande spessore che, nel suo impattopolitico, non contribuisce però ad assegnare le responsabilità per l'attualetragedia dei comuni.
Ilcontributo di Ostrom non distingue infatti fra persone fisiche e personegiuridiche gli esiti dei cui comportamenti sono perfettamente previsti daHardin. Così facendo struttura un'ambiguità culturale, politica e semantica cheespone i commons, sussunti nel modello positivistico dell'economia politica, almedesimo rischio che ha depotenziato l'idea di sostenibilità. Tuttavia illavorio scientifico che si è svolto in tutto il mondo intorno alla nozione deicommons ha prodotto ben più della sola consapevolezza della sua alteritàrispetto alle nozioni di pubblico e di privato articolatesi a partire dallamodernità. Dalla caduta del Muro di Berlino, il processo di privatizzazione delpubblico (soprattutto dal punto di vista delle sue motivazioni) é a sua voltaun fattore che determina a livello globale la tragedia dei comuni. Questofenomeno, supportato da un impressionante processo di cattura cognitiva cheproduce l'attuale «realismo economico» (oggi supportato da schiere di filosofi)può essere contrastato soltanto in un quadro «rivoluzionario» disposto acontestare radicalmente il realismo positivista fondato sulla distinzione frafatti e valori. La declinazione «rivoluzionaria» dei beni comuni costituisce latraduzione teorica di prassi di lotta che mirano innanzitutto a salvaguardaretutte le possibili declinazioni di un «sentire comune istituzionalizzato» chesi scontra con un legalismo formale che supporta la privatizzazione e ilsaccheggio dei beni comuni (prassi delle occupazioni, book blocks,contestazione fisica della proprietà pubblica e privata).
Inquesto senso i beni comuni sono prassi costituente che sa invertire la rottarispetto alla strutturazione istituzionale del neoliberismo attraverso unacritica capillare, diffusa e radicale, di ogni sua nuova recinzione fisica ocognitiva. Solo la consapevolezza dei beni comuni nella loro autentica portatadi forza fisica costituente consente di evitare la cattura cognitiva, la solaspiegazione alternativa alla deliberata volontà di saccheggio che spiegal'atteggiamento attuale delle sinistre c.d. riformiste (vedi i lavori delcollettivo Uninomade recentemente raccolti da Sandro Chignola nel volume Ildiritto del comune per i tipi di ombre corte). Non è un caso che il principalepartito responsabile della cattura cognitiva della sinistra italiana provi apresentarsi all'elettorato con il logo dei beni comuni e che, ambientiintellettuali a esso contigui (vedi il recente libro di Laura Pennacchi Lafilosofia dei beni comuni, Donzelli), cerchino di dare legittimazioneaddirittura filosofica a tale detournement.

Nellatrappole del dover essere
Il rapporto fra beni comuni ed economia politicamostra il potente arricchimento teorico che deriva da una rinnovatadeclinazione collettiva dello spazio economico. La semplice idea fondante imovimenti alter-mondialisti per cui «un altro mondo è possibile» mostra nellaprassi «beni-comunista», perfino meglio che nella critica fenomenologica,l'inconsistenza teorica della bipartizione positivistica fatto-valore su cui sicollocano scienza economica dominante e il cosiddetto «nuovo realismo». Propriocome esiste un «comune» che come la talpa erode spazio tanto alla proprietàprivata quanto allo Stato, esiste una terza dimensione accanto a quelledell'«essere» e del «dover essere», che erode il realismo del primo e ildogmatismo del secondo. È la dimensione del «potrebbe essere» che stimola ilsogno e la fantasia collettiva e per questo sol fatto cambia il mondo. Qui sicollocano i beni comuni e non nell'intestazione di una lista elettorale o infilosofie vittime di cattura cognitiva che, a suo supporto, cercano diaddomesticarne il potenziale «rivoluzionario».

EUGENIO Scalfari, col suo scritto di domenica scorsa, mi offre l’occasione di riprendere, sul nostro giornale, alcuni punti del mio articolo “incriminato”, incriminato per avere invitato il Presidente della Repubblica a riconsiderare l’opportunità del conflitto d’attribuzioni sollevato nei confronti di uffici giudiziari di Palermo. Non nego che quello scritto, tanto più per l’autorevolezza di colui da cui proviene, mi ha toccato nel profondo.

Poiché le ragioni sono sì personali, ma anche generali, tali quindi da poter interessare chi abbia seguito la vicenda, ritorno sull’argomento. Con una necessaria, e ovvia, premessa: siamo, come accennato, nel campo dell’opportunità. I giudizi di opportunità sono sempre discutibili, perché dipendono da molte ragioni e uno dà più peso ad alcune e altri ad altre. Se la ragione fosse una sola, saremmo nel campo della necessità che non si discute. Ma l’opportunità è sempre discutibile. Dunque, affrontiamo gli argomenti, in spirito discorsivo. Qui c’è la forza e la ricchezza del nostro giornale.

Dividerò le considerazioni che seguono in una parte generale e una speciale. La parte generale è quella che più mi mette in difficoltà. A proposito “di eterogenesi dei fini” – conseguenze non intenzionali di atti compiuti intenzionalmente – nel mio scritto, non vi sarebbe stata nessuna “eterogenesi”, perché le conseguenze – la strumentalizzazione in vista di un “attacco” al Capo dello Stato – sarebbero state non solo da me previste, ma addirittura volute. L’insinuazione è che io faccia parte d’una operazione orchestrata per “delegittimare” il Capo dello Stato. Mi permetto di dire a Scalfari che ho avvertito come una ferita (e spiegherò perché), tanto più ch’egli aggiunge di sperare che il suo dubbio sia dissipato, temendo che questa speranza “si risolva in una delusione”. Le cose non stanno così. Ho condiviso e condivido molte delle cose dette e fatte dal Capo dello Stato, come egli sa per averne ricevuto testimonianza, con calde parole ch’egli certo ricorderà, in una pubblica occasione svoltasi qualche mese fa a Cuneo. Ma su altre cose ho delle riserve. Che cosa c’è di strano? Una cosa approvi e un’altra disapprovi – sì, sì; no, no, il resto è opera del maligno — e lo dici in piena libertà, come si conviene in un Paese libero. Avrei dovuto tacere o dire il contrario?

Sei un ingenuo, perché avresti dovuto sapere che le tue parole sarebbero state strumentalizzate; anzi, sei un falso ingenuo – in sostanza, un ipocrita – perché lo sapevi benissimo. Qui, vorrei essere il più chiaro possibile: la linea di condotta cui mi sono ispirato non

è dei falsi, ma dei veri ingenui. Il compito di chi si dedica a una professione intellettuale è d’essere, per l’appunto, un vero, consapevole e intransigente ingenuo (con l’unica riserva che dirò). Non è sempre facile. Talora lo è di più tacere, tergiversare, adeguarsi. È una questione d’integrità professionale, almeno così come la vedo. Vogliamo forse che “per opportunità” si sostengano, con parole o con silenzio, cose diverse da quelle che si pensano vere, opportune, giuste? Dove andrebbe a finire la fiducia?

C’è per me un “libro di formazione”. Non sembri una citazione fuori luogo o fuori misura. Scritto nel 1923, in circostanze più drammatiche delle attuali, contiene una lezione indimenticabile. È

Il tradimento dei chierici

di Julien Benda (ripubblicato da Einaudi). Non è una citazione esornativa, “da professore”. È un invito. Tratta degli uomini di pensiero che in quel tempo – e in tutti i tempi – si astennero dal prendere posizione, tacendo o dicendo cose che andavano contro le loro stesse convinzioni, e questo fecero “per opportunità”. La loro colpa non fu di avere detto cose sbagliate, ma di non avere detto le cose ch’essi stessi ritenevano giuste. Facciamo le debite proporzioni, ma riflettiamo sul corto-circuito che si verifica quando nel campo del pensiero si insinua l’idea che ciò che pensiamo, per opportunità, o anche per “responsabilità”, si possa o debba tacere.

Forse che l’attività intellettuale

non deve anch’essa essere responsabile? Certo che sì. Ma responsabile verso chi o che cosa? Verso la sua natura: una natura diversa da quella politica. Forse che l’attività intellettuale non ha anch’essa una propria valenza politica? Certo che sì, ed elevatissima, ma non nel senso di chi opera nella politica, intesa come la sfera dei partiti, della competizione per il potere, della conquista del consenso: da noi, c’è difficoltà ad ammettere che non tutto è politica in questo senso. Esiste invece una funzione diversa, “ingenua”, non legata al potere e al consenso — la cui esistenza è essenziale alla vita libera della

pólis.

Sarebbe una deviazione, se l’attività intellettuale non tenesse fede a questa sua caratteristica, anzi non ne facesse il suo vanto. Solo così, c’è la sua utilità, la sua funzione civile. Chi ragiona diversamente, che idea ha del rapporto politica-cultura? Scrivendo queste cose, mi ritornano in mente gli anni ’50. Chi appartiene alla mia e alla precedente generazione, comprende facilmente

il riferimento. Se ci sarà l’occasione potremo ritornare su quella storia fatta di contrapposte accuse di “defezione”, che nessuno e, di certo meno che mai Eugenio Scalfari, rimpiange.

Sulla parte speciale credo di muovermi con più facilità. Nel mio scritto, ho sostenuto che questo conflitto, per i suoi caratteri, non ha precedenti. Scalfari dice di no, ma poi spiega: vi sono politici e loro fiancheggiatori che, nel caso in cui la Corte dia ragione al Capo dello Stato, “palpitano” per poter accrescere i loro “attacchi eversivi” all’una e all’altro; nell’improbabile caso contrario, se al Capo dello Stato venisse dato torto, sempre gli stessi gli chiederebbero “immediate e infamanti dimissioni”. Non è questa una situazione eccezionale, drammaticamente difficile? Riflettiamoci seriamente e freddamente. La Corte è un giudice e noi pretendiamo ch’essa giudichi secondo diritto, seguendo “l’etica della convinzione” che le è propria. Ma sappiamo bene che, messa di fronte a un “fiat

iustitia, pereat mundus”, nessuna Corte costituzionale indietreggerebbe nell’applicare l’“etica delle conseguenze” che, indubbiamente, interferisce con le ragioni solo giuridiche. Nella specie, il “pereat mundus” è la crisi costituzionale che sia Scalfari sia io paventiamo. Qualunque Corte costituzionale la prenderebbe in considerazione come male supremo da evitare. Per questo dicevo che l’esito del conflitto è scontato. Dire queste cose non è indebita interferenza sulla decisione della Corte, come crede Scalfari, ma è teoria della Costituzione. Leggendo che le Corti hanno il diritto d’essere protette da situazioni siffatte, per poter decidere nella “tranquillità del diritto”, non c’è da essere sconcertato “d’una scorrettezza”, come Scalfari dice d’essere, perché quella espressione viene da lontano, da un dibattito internazionale tra illustri costituzionalisti.

Scalfari, poi, mi fa dire che la Corte non avrebbe i poteri per risolvere il conflitto proposto, perché, dando ragione al Capo dello Stato, introdurrebbe un’innovazione della Costituzione. In verità, non ho detto questo ma che, per quanti danno alla parola “irresponsabilità” un significato più ristretto di “inconoscibilità” o “intoccabilità” – per quelli (e ce ne sono) che pensano così — l’accoglimento del ricorso sarebbe un’innovazione della Costituzione. L’interpretazione che facesse coincidere i significati, sia pure a proposito di una piccola, ma cruciale questione, avrebbe effetti di sistema difficilmente controllabili su tutto l’impianto dei poteri costituzionali, così come si è finora concepito. E, se è vero che, nel caso in questione, la Corte si trova in quel cul de sac di cui dice lo stesso Scalfari, la domanda è se non è sommamente inopportuno che ciò avvenga, e in queste circostanze. Poi, è verissimo, che la Corte dispone di tutti gli strumenti tecnici necessari per decidere come vuole (le sentenze additive e interpretative, però, di per sé non c’entrano: riguardano i giudizi sulle leggi, non i conflitti): dai principi, nel nostro caso il principio d’irresponsabilità presidenziale, si possono trarre regole specifiche per decidere i singoli casi, superando anche (ma qui non è il caso di scendere nei dettagli giuridici) contraddizioni o lacune legislative. Ma la questione non è di strumenti tecnici, ma – ripeto – di prudenza e responsabilità nel chiedere di attivarli.

L’ultima cosa che non ho detto è che il Capo dello Stato avrebbe frapposto “un insormontabile ostacolo alla ricerca della verità”. Ho detto invece che il ricorso, per effetto delle circostanze che non si controllano, è venuto ad assumere il significato d’un tassello in un disegno critico della magistratura, che finisce per indebolirne l’opera. Il che, guardando ciò che succede, mi pare incontestabile.

Sullo sfondo di tutto ciò, c’è una questione che emerge con chiarezza nelle considerazioni “pertinenti anche se non inerenti” che chiudono l’articolo di Scalfari. Esiste nel nostro Paese uno scontro aperto e, apparentemente, senza mediazioni. Da un lato, coloro che sostengono con convinzione che la magistratura (se non tutta, molte sue parti) esorbiti dai suoi poteri perché persegue il fine di sottomettere la democrazia o la politica al processo penale. Dal-l’altro, quelli che pensano che non si tratti affatto di questo, ma semplicemente di ampi settori del mondo politico che, avendo costruito le proprie fortune sull’illegalità, temendo l’azione giudiziaria, vogliono limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. I primi parlano di “guerra” dei magistrati contro la politica, di “giustizialismo”, ora di “populismo giuridico”; i secondi, specularmente, di “guerra” dei politici contro la magistratura, di “assalto” alla giustizia. Se davvero stato di guerra ci fosse (ecco la riserva cui accennavo all’inizio), allora anche le idee dovrebbero schierarsi, perché in guerra non solo tacciono le leggi, ma anche suonano le trombe che chiamano i cervelli all’adunata. Ai primi, però, bisognerebbe dire che i secondi non sono affatto tutti “antipolitici”, come vengono definiti con una parola violenta e disonesta, che non fa che creare ostilità contro “i politici” che la pronunciano; ai secondi, occorrerebbe dire che la critica distruttiva della politica non sappiamo dove ci potrebbe portare: ma non certo verso il regno della giustizia (e della democrazia). Coloro che sognano rivalse contro i magistrati dovrebbero chiedersi da dove nasce il risentimento contro “la politica” ch’essi impersonano e dovrebbero vedere che molti loro propositi non sono che altrettanti boomerang che alimentano le fila di chi sta dall’altra parte. Credono davvero che i diversi “riequilibri”, in questo clima di scontro, siano saggi propositi e non conati controproducenti? Il ricorso del Capo dello Stato ha aperto un “conflitto” giuridico ma, inevitabilmente, ha finito per essere inglobato, come suo episodio, in questo “conflitto” politico (astuzia perversa delle parole!). L’invito a ricercare una limpida soluzione della questione nella sede processuale ordinaria e a riconsiderare quindi l’opportunità di quel conflitto, nasce da qui.

Nell’icona: una figurina che ritrae lo giannizzero Falakaci Basi (XVII Sec.), tratta dalla collezione http://www.hobbymail.it/index.php?main_page=product_info&cPath=97_98&products_id=480.

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