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Una parola «adoperata per indicare dottrine e attività diametralmente opposte» (Gaetano Salvemini

) esaminata in fruttuoso dialogo tra una visione liberale ( Norberto Bobbio) e una visione marxista (Pietro Ingrao). la Repubblica, 29 ottobre 2014

TUTTI i concetti generali della politica - libertà, uguaglianza, giustizia, nazione, stato, per esempio - sono usati in significati diversi, con la conseguenza di confusioni inconsapevoli e di inganni consapevoli. Gaetano Salvemini, lo storico antifascista che Bobbio include nel pantheon dei suoi “maestri nell’impegno”, ha scritto:

«La parola democrazia è adoperata per indicare dottrine e attività diametralmente opposte a una delle istituzioni essenziali di un regime democratico, vale a dire l’autogoverno. Così noi sentiamo [parlare] di una cosiddetta “democrazia cristiana” che, secondo la Catholic Enciclopedia, ha lo scopo di “confortare ed elevare le classi inferiori escludendo espressamente ogni apparenza o implicazione di significato politico”; questa democrazia esisteva già al tempo di Costantino, quando il clero “dette inizio all’attività pratica della democrazia cristiana”, istituendo ospizi per orfani, anziani, infermi e viandanti.

«I fascisti, i nazisti e i comunisti hanno spesso dato l’etichetta di democrazia, anzi della “reale”, “vera”, “piena”, “sostanziale”, “più onesta” democrazia ai regimi politici d’Italia, della Germania e della Russia attuali [siamo nel 1940], perché questi regimi professano anch’essi di confortare ed elevare le classi inferiori, dopo averle private di quegli stessi diritti politici senza i quali non è possibile concepire il “governo dei popoli”».

Invito al colloquio è il titolo del primo saggio di Politica e cultura ( Einaudi), un’espressione che riassume l’intera attività politico-intellettuale di Bobbio. Ma, il colloquio, affinché non si svolga in acque torbide, deve sapere qual è l’oggetto e che cosa, per non intorbidirle, ne deve stare fuori. Per questo, una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Tutto qui.

Oltre che minima, questa definizione è anche solo formale: si riferisce al “chi” e al “come”, ma non al “che cosa”. Riguarda soltanto - come si usa dire per analogia -' le “regole del gioco”.

In uno scambio epistolare con Pietro Ingrao sul tema della democrazia e delle riforme costituzionali che ebbe luogo tra il novembre 1985 e il gennaio 1986 (P. Ingrao, Crisi e riforma del Parlamento, Ediesse), troviamo una dimostrazione di ciò a cui serve il “concetto minimo”. Serve, da una parte, a includere, e dall’altra, a escludere e, così facendo, a chiarire. I punti del contrasto riguardano quello che allora era il progetto d’Ingrao, descritto in un libro dal titolo significativo: Masse e potere (Editori Riuniti, 1977) che allora ebbe grande successo e che ora - mi pare - è dimenticato: la democrazia di massa o di base, unitaria e capace di egemonia. Ma gli argomenti chiamati in causa possono riguardare, in generale, tutte quelle che Bobbio avrebbe considerato degenerazioni della democrazia, alla stregua della sua definizione minima, come ad esempio, la “democrazia dell’applauso” di cui egli parla nel 1984, a proposito della conquista del Partito socialista da parte del suo segretario di allora), o la democrazia dell’investitura plebiscitaria e populista dei tempi più recenti.

Si prenda la “massa”. Bobbio chiede «che cosa si possa intendere mai per democrazia di massa di diverso da quel che s’intende per democrazia fondata sul suffragio universale»; che cosa si dica di più e di meglio «rispetto a quel che s’intende quando si parla di un sistema politico in cui tutti i cittadini maggiorenni hanno il diritto di voto »? Se non s’intende nulla di diverso, la democrazia di massa è perfettamente compatibile, anzi è la definizione formale della democrazia nella quale i cittadini possono riunirsi e associarsi per svolgere attività politica.

Ma non è tutto. Introdurre le masse al posto dei cittadini non lascia capire esattamente di che cosa si stia parlando e nella zona grigia dell’incertezza entrano atteggiamenti emotivi che difficilmente diremmo democratici. Ingrao usa espressioni come «irruzione delle masse nello Stato», «un fiume tumultuoso che rompe gli argini e spazza e travolge ciò che trova nel suo corso», all’azione diretta della folla. Massa può alludere a un corpo collettivo amorfo e indifferenziato, mentre il soggetto principe di un regime democratico è il singolo individuo. «In democrazia non ci possono essere masse: ci sono o individui, oppure associazioni volontarie di individui, come i sindacati e i partiti». In ogni caso, in democrazia gli individui pensano e vogliono a partire dalla propria autonomia morale. Sanno affrancarsi dalla “psicologia della massa” sulla quale si appoggiano e si sono appoggiati tutti i demagoghi d’ogni tempo e luogo.

E l’unità? Che senso ha l’appello all’unità che il Partito comunista di quegli anni insistentemente faceva proprio: compromesso storico, alternativa democratica, oggi Pd o, addirittura, Partito della Nazione? La democrazia è un regime d’insieme e «non può essere chiamato democratico [si può aggiungere: nazionale] in una delle sue parti se non costo di creare una notevole confusione. Se una di queste parti viene chiamata “democratica” [o nazionale] è segno che la si considera una parte che tende a identificarsi col tutto». L’unità sconfina nella unicità. La democrazia richiede “distinzioni”, cioè pluralismo. «Senza pluralismo non è possibile alcuna forma di governo democratico e nessun governo democratico può permettersi di ridurre, limitare, comprimere il pluralismo senza trasformarsi nel suo contrario». La sintesi è espressa da Bobbio in termini assai forti, perfino scandalosi: «La discordia è il sale della democrazia, o più precisamente della dottrina liberale che sta alla base della democrazia moderna (per distinguerla dalla democrazia degli antichi). Resta sempre a fondamento del pensiero liberale e democratico moderno il famoso detto di Kant: “L’uomo vuole la concordia, ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: essa vuole la discordia”».

E l’egemonia? Qui Bobbio confessa che si tratta d’un concetto che gli è “meno familiare”, ma ciò non gli impedisce di porre una domanda analoga a quella posta a proposito della “massa”: «Mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse in che cosa consista l’egemonia in un sistema democratico se non nella capacità di ottenere il maggior numero di voti […] Se qualcuno mi sa dire che cosa significhi in democrazia, entro il sistema di certe regole del gioco, conquistare l’egemonia, oltre al conquistare il consenso degli elettori, lo prego di farsi avanti».

Insomma: egemonia, massa, unità non appartengono al sistema concettuale del pensiero liberal-democratico e appartengono invece alla tradizione del pensiero marxista. Tutto si tiene in una concezione della democrazia che contraddice l’universo politico che, in fin dei conti, era anche quello di Ingrao del Partito comunista.

La forza elementare delle argomentazioni di Bobbio porta, alla fine, a una certa convergenza. Dice Ingrao e certo Bobbio avrebbe concordato (cito dalla lettera che conclude lo scambio): «”Democrazia minima”: dici tu. Ma anche quel livello minimo (eguaglianza formale nella libertà di voto) può realizzarsi senza chiamare in causa tutta una serie di condizioni, che riguardano libertà di voto, modalità di voto, contenuti del voto, conseguenze del voto, attuazione del voto? L’atto è quello. Ma il quadro - sociale, politico, statuale - entro cui esso si svolge è decisivo, perché esso possa essere non dico esaustivo (?), ma significante. Per “minima” che sia la democrazia, quel voto ha bisogno di un prima e di un poi che gli diano verità. Altrimenti la forma dell’uguaglianza rivela il suo limite, la sua debolezza di contenuto».
Questo dice Ingrao. Ma, chi potrebbe dissentire? Chiunque s’ispiri a una concezione liberale della democrazia — Bobbio in primis — non potrebbe non essere d’accordo.
Non è questa la sede per distribuire le ragioni e torti, anche se a me pare, sommessamente, che sia stato Bobbio a condurre Ingrao sulla sua strada, e non viceversa. In ogni caso, la definizione minima del primo si è dimostrata feconda di dialogo con il secondo.

Il cittadino italiano mediamente informato può farsi un'idea di quale sia lo stato dei partiti e della vita politica in Calabria grazie >>>

Il cittadino italiano mediamente informato può farsi un'idea di quale sia lo stato dei partiti e della vita politica in Calabria grazie alle notizie apparse di recente su quasi tutta la stampa nazionale. In questa regione si è resa necessaria una sentenza del TAR per costringere i partiti ad andare alle urne. Loro intenzione era traccheggiare sino al compimento della legislatura, nonostante il governo regionale fosse in crisi da mesi, dopo la condanna in primo grado a 6 anni di carcere, nel marzo di quest'anno, del suo presidente. La fertile fantasia affaristica di questo ceto, che si applica con tanta fervida cura alle sorti delle popolazioni, ha addirittura partorito una revisione della legge elettorale palesemente incostituzionale (una soglia del 15% per i partiti non coalizzati) allo scopo di creare la paralisi istituzionale e continuare a fare nomine, a percepire circa 10 mila euro al mese tra indennità di carica e “spese di esercizio”.

Com'è noto, la Calabria è la regione più povera d'Italia. I dati Istat di luglio danno la disoccupazione ufficiale al 25%, quella giovanile è quasi il doppio, ma è difficilmente calcolabile, mentre ricade nella soglia della povertà relativa, insieme alla Sicilia, il 6,4% delle famiglie. Questa sventurata regione ha in compenso la più vasta criminalità organizzata del mondo, una multinazionale del crimine e, in gara con la Sicilia, il ceto politico più inetto e corrotto della Penisola. Ma la realtà sociale e quella politica si tengono insieme e si condizionano vicendevolmente. In molte realtà periferiche, anche in zone delle città maggiori, il voto, soprattutto quello amministrativo, non è più libero. Migliaia di cittadini votano per candidati da cui ricevono piccole somme, promesse aleatorie di posti di lavoro, raccomandazioni, ecc. D'altra parte, il ruolo legale dei rappresentanti politici appare così ininfluente sulle condizioni della loro vita, che essi sono propensi a valorizzare il loro voto anche al livello più misero.
Ma questa scadente domanda politica di tanta parte dei cittadini premia poi le figure peggiori degli uomini di partito, quelle che continuano una lunga e nefasta tradizione clientelare, spesso non esente da collusioni con i gruppi criminali. E' un circolo vizioso che induce passività e rassegnazione. Ho sempre considerato sorprendente il fatto che in Calabria – dove centinaia di miliardi di lire e poi milioni di euro dell'UE sono rimasti inutilizzati – mai sia stata organizzata una manifestazione di protesta dei cittadini, dei partiti o dei sindacati contro l'inettitudine dei vari governi regionali. Una passiva rassegnazione che impedisce l'emersione e l'affermazione di tante forze civilmente avanzate, soprattutto di giovani, che ambirebbero di essere governati da uomini e donne attenti ai drammatici bisogni collettivi .

Oggi, alla vigilia delle elezioni che si svolgeranno a novembre, c'è una possibilità di svolta, che potrebbe lanciare un messaggio a tutto il Paese. Il sindaco di Lamezia, Gianni Speranza, che ha governato bene, subendo attacchi ripetuti dalla 'ndrngheta' locale, osteggiato in mille modi dal PD, ha denunciato sul Manifesto del 10/9 l'esistenza del “partito trasversale” che inchioda la Calabria nella regnatela dei suoi piccoli e sordidi traffici. Di questo partito trasversale - non è una novità - è parte costituiva il PD regionale. Nonostante la presenza in esso di cittadini onesti e giovani intraprendenti, il PD non è che un insieme di gruppi notabilari. Solo una forza esterna, libera dalle storiche e sotterranee connivenze, può liberare la Calabria da un ceto politico che letteralmente la opprime e mette ai margini della vita nazionale.

Senso della responsabilità vorrebbe che tutte le forze democratiche minori mettessero da parte settarismi e piccoli orgogli di partito e cercassero una intesa unitaria contro l'avversario comune. Un avversario che oggi è il vero problema dell'Italia intera. Se si è in grado di offrire una reale speranza di svolta, i cittadini calabresi potrebbero premiare quella che appare indubbiamente una difficile sfida. Ma occorre anche che chi fa opinione in Italia faccia sentire il suo autorevole peso.

«Quando si restringono i diritti di lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile a un insieme di procedure. Non sono i diritti a essere insaziabili, ma la pretesa dell'economia di stabilire i diritti compatibili».

La Repubblica, 20 ottobre 2014

Nel 1872, a Vienna, comparve un piccolo classico del liberalismo giuridico, La lotta per il diritto di Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato quasi come un anticorpo negli anni del fascismo. Oggi è più giusto parlare di lotta per i diritti, che si dirama dalla difesa dei diritti sociali fino alle proteste dei giovani di Hong Kong, e che può essere sintetizzata con le parole di Hannah Arendt, «il diritto di avere diritti», ricordate su questo giornale con diverso spirito da Alain Touraine e Giancarlo Bosetti (e che ho adoperato come titolo di un mio libro due anni fa).

Ma, per evitare che quella citazione divenga poco più che uno slogan, bisogna ricordarla nella sua interezza: «Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all'umanità, dovrebbe essere garantito dall'umanità stessa». Così la fondazione dei diritti si fa assai impegnativa, esige una vera «politica dell'umanità», l'opposto di quella «politica del disgusto» di cui ci ha parlato Martha Nussbaum a proposito delle discriminazioni degli omosessuali, ma che ritroviamo in troppi casi di rifiuto dell'altro.

Quella del riconoscimento dei diritti è un'antica promessa. La ritroviamo all'origine della civiltà giuridica quando nel 1215, nella Magna Carta, Giovanni Senza Terra dice: «Non metteremo la mano su di te». È l'habeas corpus, il riconoscimento della libertà personale inviolabile, con la rinuncia del sovrano a esercitare un potere arbitrario sul corpo delle persone. Da quel lontano inizio si avvia un faticoso cammino, fitto di negazioni e contraddizioni, che approderà a quella che Norberto Bobbio ha chiamato «l'età dei diritti», alle dichiarazioni dei diritti che alla fine del Settecento si avranno sulle due sponde del "lago Atlantico", negli Stati Uniti e in Francia. È davvero una nuova stagione, che sarà scandita dal succedersi di diverse "generazioni" di diritti: civili, politici, sociali, legati all'innovazione scientifica e tecnologica. Saranno le costituzioni del Novecento ad attribuire ai diritti una rilevanza sempre maggiore. Ed è opportuno ricordare che le più significative innovazioni costituzionali del secondo dopoguerra si colgono nelle costituzioni dei "vinti", l'italiana del 1948 e la tedesca del 1949, che non si aprono con i riferimenti alla libertà e all'eguaglianza. Nella prima il riferimento iniziale è il lavoro, nella seconda la dignità. Si incontrano così le condizioni materiali del vivere e la sottrazione dell'umano a qualsiasi potere esterno.

Cambia così la natura stesso dello Stato, caratterizzato proprio dall'innovazione rappresentata dal ruolo centrale assunto dai diritti fondamentali. E si fa più stretto il legame tra democrazia e diritti. Con una domanda sempre più stringente: che cosa accade quando i diritti vengono ridotti, addirittura cancellati? Molte sono state in questi anni le risposte. Proprio la centralità dei diritti fondamentali nel sistema costituzionale ha fatto parlare di diritti "insaziabili", che si impadroniscono di spazi propri della politica e che, considerati come elemento fondativo dello Stato, espropriano la stessa sovranità popolare. Più nettamente, nel tempo che stiamo vivendo, i diritti sono indicati come un lusso incompatibile con la crisi economica, con la diminuzione delle risorse finanziarie.

Ma, nel momento in cui la promessa dei diritti non viene adempiuta, o è rimossa, da che cosa stiamo prendendo congedo? Quando si restringono i diritti riguardanti lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile ad un insieme di procedure. Non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell'economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con essa. Quando si ritiene che i diritti sono un lusso, in realtà si dice che sono lussi la politica e la democrazia. Non si ripete forse che i mercati "decidono", annettendo alla sfera dell'economico le prerogative proprie della politica e dell'organizzazione democratica della società?

La riflessione sui diritti ci porta nel cuore di una discussione culturale che va al di là delle contingenze e rivela come i riferimenti alla crisi economica abbiano soltanto reso più evidente una trasformazione e un conflitto assai più profondi, che riguardano il modo stesso in cui si deve guardare alla fondazione delle nostre società. A Touraine sembra che le spinte provenienti dal sociale abbiano esaurito la loro capacità trasformativa e propone non soltanto di rimettere i diritti fondamentali al centro dell'attenzione, ma di operare uno spostamento radicale verso movimenti «etico-democratici», i soli in grado di porre in discussione il potere nella sua totalità e di «difendere l'essere umano nella sua realtà più individuale e singolare».

I diritti fondamentali «ultima utopia», come ha scritto Samuel Moyn, o pericoloso espediente retorico, che trascura la loro inattuazione anche quando sono formalmente proclamati e se ne serve per imporre con un tratto "imperialistico" la cultura occidentale, oggi il neoliberismo? Si può andare oltre queste contrapposizioni o dobbiamo piuttosto considerare la dismisura assunta dalla dimensione dei diritti che, secondo Dominique Schnapper, mette a rischio i fondamenti stessi della democrazia, vissuta troppo spesso come "ultrademocrazia", e a riflettere sulla forza delle cose che ha interrotto quella che Giuliano Amato ha definito "la marcia trionfale dei diritti"?

Tutti questi interrogativi confermano la necessità di analisi approfondite, che dovrebbero però tener conto di come il mondo si sia dilatato, spingendo lo sguardo verso culture e politiche che proprio ai diritti fondamentali hanno affidato un profondo rinnovamento sociale e istituzionale. È nel "sud del mondo" che ritroviamo novità significative, nella legislazione e nelle sentenze delle corti supreme di Brasile, Sudafrica, India. Basterebbe questa constatazione per mostrare quanto siano infondate o datate le tesi che chiudono la vicenda dei diritti fondamentali solo in una pretesa egemonica dell'Occidente. Al tempo stesso, però, l'attenzione per le costituzioni "degli altri" deve spingerci ad avere uno sguardo nuovo anche sul modo in cui i diritti fondamentali si stanno configurando nelle loro terre d'origine, a cominciare dai nessi ineliminabili e inediti tra diritti individuali e sociali, tra iniziativa dei singoli e azione pubblica.

I diritti non invadono la democrazia, ma impongono di riflettere su come debba essere esercitata la discrezionalità politica: proprio in tempi di risorse scarse, i criteri per la loro distribuzione debbono essere fondati sull'obbligo di renderne possibile l'attuazione. E, se è giusto rimettere al centro i diritti individuali per reagire alla spersonalizzazione della società, è altrettanto vero che questi diritti possono dispiegarsi solo in un contesto socialmente propizio e politicamente costruito. Qui trovano posto le riflessioni su un tempo in cui il problema concreto non è la dismisura dei diritti, ma la loro negazione quotidiana determinata dalle diseguaglianze, dalla povertà, dalle discriminazioni, dal rifiuto dell'altro che, negando la dignità stessa della persona, contraddicono quella "politica dell'umanità" alla quale è legata la vicenda dei diritti.

Seguendo questi itinerari, ci avvediamo di quanto sia improprio ragionare contrapponendo diritti e politica. Senza una robusta e consapevole politica, fondata anche sull'iniziativa delle persone, i diritti corrono continuamente il rischio di perdersi. Ma quale destino possiamo assegnare ad una politica svuotata di diritti e perduta per i principi?
«Nella colonna sociale che non mar­cia più in avanti, si guarda al vicino con invi­dia. E se non si rie­sce più a vedere in chi sta avanti il sog­getto al quale togliere per dare a chi sta sof­frendo, viene natu­rale guar­dare chi sta accanto. Dalla lotta di classe si scade nell’invidia».

Il manifesto, 18 ottobre 2014

C’è un mondo del non lavoro che com­prende oggi otto milioni di per­sone. Ex-occupati che hanno perso il lavoro, gio­vani che lo cer­cano per la prima volta e non lo tro­vano, donne che, per ristret­tezze fami­liari, lo cer­cano anche se non più giovanissime.

Lo com­pon­gono altret­tante per­sone che non sanno a chi rivol­gersi e, quindi, non lo cer­cano “inten­sa­mente” e, per­ciò, non rien­trano tra i disoc­cu­pati, ma tra gli “sco­rag­giati”, cate­go­ria di per­sone prima psi­co­lo­gica ed adesso, final­mente, anche sta­ti­stica. Lo com­pon­gono anche tanti cas­sin­te­grati, sta­ti­sti­ca­mente occu­pati e psi­co­lo­gi­ca­mente esclusi, ed i “lavo­ra­tori in mobi­lità”, che popo­lano quel pur­ga­to­rio tra un lavoro per­duto ed uno che dif­fi­cil­mente tro­ve­ranno.

Otto milioni di per­sone sono un bel “bacino elet­to­rale”. Ma essi non sono soli. Nella società ita­liana, più che in altri paesi, esi­ste un tes­suto, una rete fami­liare ed ami­cale, che offre un tetto fino ai 35–40 anni, che tra­vasa la bassa pen­sione o lo scarso red­dito, che atte­nua ed ammor­tizza, quando può e come può, il disa­gio sociale che ne sca­tu­ri­sce (a quando una bella mani­fe­sta­zione delle mamme di Piazza del Popolo Precario?).

Con­si­de­rando anche loro, quindi, il bacino elet­to­rale si allarga oltre i 15 milioni. Un “mer­cato elet­to­rale poten­ziale” di que­ste dimen­sioni fa gola a molti ed è ter­reno di con­qui­sta. Una volta si pen­sava che que­sto fosse un bacino elet­to­rale “natu­ral­mente” orien­tato a sini­stra e le lotte “per il lavoro e per il sud”, pro­mosse dalla Cgil di Di Vit­to­rio e pro­trat­tesi fino agli anni set­tanta, costi­tui­vano il nesso sociale tra disoc­cu­pa­zione, lavoro e sini­stra. Ma erano vera­mente altri tempi. Negli ultimi decenni gio­vani e disoc­cu­pati hanno votato più Forza Ita­lia che sini­stra ed adesso, col declino di Ber­lu­sconi, que­sto “mondo del non lavoro allar­gato” di cui stiamo par­lando è elet­to­ral­mente “con­ten­di­bile” da tutti.

Que­sto lo aveva capito per primo Grillo, diven­tando la mag­giore forza tra i disoc­cu­pati, e subito dopo lo ha capito Renzi che, par­lando invece che di “piano del lavoro” di jobs act, usando inglese, tweet ed hash­tag e mar­tel­lando sulla fidu­cia nel futuro, cerca di fare di que­sto mondo la sua base di massa. In que­sto tra­gitto comu­ni­ca­tivo, sin­da­cati, sini­stra e lavo­ra­tori a tempo inde­ter­mi­nato ven­gono addi­tati come respon­sa­bili, difen­sori di pri­vi­legi acqui­siti, capri espia­tori. Da qui a dire che se i gio­vani non tro­vano lavoro è per colpa dell’art.18, il passo è stato breve e scam­biare qual­che diritto in meno, con la spe­ranza di qual­che posto di lavoro in più una con­se­guenza logica e natu­rale.

Sap­piamo bene che nes­suna ana­lisi eco­no­mica seria può aval­lare que­ste affer­ma­zioni ed è evi­dente che esse sono stru­men­tali: hanno il solo scopo di per­se­guire e pro­se­guire lo sfon­da­mento poli­tico al cen­tro ed a destra, com­ple­tare la muta­zione gene­tica del Pd e costruire un neo-centrismo che superi il bipo­la­ri­smo incor­po­ran­dolo al suo interno. Il vero patto del Naza­reno si sta pian piano disve­lando come un’intesa stra­te­gica volta a ridi­se­gnare il pano­rama poli­tico con un Par­tito Cen­trale che per essere tale deve andare oltre la tra­di­zio­nale divi­sione tra cen­tro destra e cen­tro sinistra.

A me sem­bra che, in que­sto campo, Renzi abbia una pre­cisa stra­te­gia che non è solo comu­ni­ca­tiva, ma poli­tica. Renzi ha una sua idea di redi­stri­bu­zione ed una sua filo­so­fia poli­tica: la glo­ba­liz­za­zione e le poli­ti­che mone­ta­rie domi­nanti lasciano pochi mar­gini per riforme eco­no­mi­che in grado di ridurre le disu­gua­glianze; la redi­stri­bu­zione, per­ciò, non può essere quella teo­riz­zata dalla sini­stra, tra lavoro e capi­tale, dai ceti ric­chi a quelli poveri; essa non può che essere “interna” al mondo del lavoro ed agli strati medio — bassi della società; quindi, niente vec­chi arnesi dell’armamentario di sini­stra come tas­sa­zione dei grandi patri­moni o pro­gres­si­vità, ma idee “nuove”.

Redi­stri­bu­zione dei diritti. Togliere diritti ad alcuni, pro­met­tere lavoro ad altri. Che quello che si toglie sia certo e quello che si pro­mette incerto, conta poco per­ché ci si rivolge a due sog­getti ai quali non si toglie niente: agli impren­di­tori, ita­liani e soprat­tutto stra­nieri, invi­tati ad inve­stire, ai gio­vani, invi­tati a spe­rare. Ci saranno que­sti effetti? Molto pro­ba­bil­mente no, ma l’importante è dimo­strare che Renzi ci crede e man­te­nere que­sto feeling fino alle pros­sime ele­zioni, quando que­sti voti saranno neces­sari per pren­dere in mano il paese per cinque-anni-cinque e ridi­men­sio­nare ogni oppo­si­zione interna ed esterna.

Redi­stri­bu­zione dei red­diti. Rien­tra in que­sta tipo­lo­gia, innan­zi­tutto la scelta degli 80 euro che sul piano macroe­co­no­mico non ha pagato per­ché non ha rilan­ciato la domanda, ma su quello elet­to­rale sì. Che poi essa venga coperta con minori ser­vizi e mag­giori tasse locali conta poco. I “bene­fi­ciari” sono iden­ti­fi­ca­bili e sono stati in buona parte grati. I “sacri­fi­cati” sono molti di più, ma sono spar­pa­gliati. Tra loro ci sono anche i bene­fi­ciari, ma essi non hanno potuto cogliere la rela­zione tra soldi che entra­vano e soldi che usci­vano ed anzi sono stati indotti a pen­sare che quelli che entra­vano sono merito di Renzi, quelli che usci­vano, dopo, a rate e per tasse dai nomi mute­voli, sono colpa degli ammi­ni­stra­tori locali, spre­coni ed inef­fi­cienti. Colpa della poli­tica. Quindi bene ha fatto il nostro ad eli­mi­nare gli eletti al senato ed alle province.

In que­sta stessa tipo­lo­gia di redi­stri­bu­zione “interna”, di una sorta di par­tita di giro, rien­tra l’idea di col­pire i red­diti alti, ma fer­man­dosi ai red­diti da lavoro o da pen­sione e non spin­gen­dosi certo a quelli da pro­fitto o da ren­dita. Que­sta idea è stata affac­ciata e poi riti­rata, è scritta nel libro sacro di Gut­geld (pen­sato con Renzi), potrà essere ripro­po­sta, ma intanto ha lasciato il segno: Renzi vuole col­pire in alto (natu­ral­mente non tanto in alto da col­pire grandi red­diti e grandi patri­moni), ma incon­tra resistenze.

Può rien­trare qui anche l’idea, più recente, di anti­ci­pare l’utilizzo del Tfr. Qui siamo in una nuova cate­go­ria di redi­stri­bu­zione: quella tra pre­sente e futuro. Al primo no degli indu­striali, que­sta idea, è stata ridi­men­sio­nata, ma poco importa: Renzi ha comun­que segnato un altro punto a suo favore dimo­strando che pur di fare aumen­tare la domanda se ne inventa una al giorno, per­lo­meno è in buona fede, ci crede, quindi, fac­cia­molo lavo­rare. Fer­mia­moci qui.

Pos­siamo anche dire che Renzi ha inven­tato “le par­tite di giro sociali”: dare ad alcuni togliendo ad altri che appar­ten­gono allo stesso mondo, senza toc­care “gli altri” veri cioè grandi red­diti, grandi ren­dite, grandi ric­chezze. Pos­siamo anche dire che Renzi ha pen­sato ad una redi­stri­bu­zione interna alla stessa per­sona tra l’oggi e il domani e che ha arric­chito la madre lin­gua toscana con il napo­le­tano “facimm’ammuina”, ma resta un fatto incon­fu­ta­bile: ha risuc­chiato voti a destra e al cen­tro e que­sto era scon­tato, ma anche a sini­stra e que­sto non lo era affatto.

L’operazione è risul­tata finora vin­cente per­ché al disa­gio sociale di cui abbiamo par­lato si offrono due mes­saggi effi­caci: ce la sto met­tendo tutta e ci credo, stiamo pagando gli abusi di ieri, quindi, i “pri­vi­le­giati” deb­bono pagare. Ma chi sono i pri­vi­le­giati? In una società in crisi, indi­vi­dua­liz­zata e fran­tu­mata, ter­ri­bil­mente impo­ve­rita sul piano cul­tu­rale, diven­tano quelli più vicini a noi. Chi ha un lavoro è pri­vi­le­giato per chi non lo ha, chi lo ha fisso è pri­vi­le­giato per chi è pre­ca­rio, chi gua­da­gna due­mila euro lo è per chi ne gua­da­gna mille. E gli altri? I ric­chi veri?
Quelli sono lon­tani e non si vedono. Nella colonna sociale che non mar­cia più in avanti, si guarda al vicino con invi­dia. E se non si rie­sce più a vedere in chi sta molto più avanti il sog­getto al quale togliere qual­cosa per darlo a chi sta sof­frendo, viene natu­rale guar­dare a chi ci sta accanto. E così dalla lotta di classe si scade nell’invidiaden­tro la classe.

Dobbiamo a un valente demografo, Massimo Livi Bacci, una circostanziata analisi della questione giovanile in Italia alla vigilia della Grande Recessione (Avanti giovani alla riscossa, Il Mulino, 2008). Lo studioso mostrava come la fascia di popolazione tra i 15 e 30 anni viveva una condizione di emarginazione sociale che la distingueva tra i Paesi dell'Europa a 15. I giovani italiani, ad esempio, dipendevano per il 50% dal reddito della famiglie, contro il 30% della media europea. Gli adulti in Italia guadagnavano in media 2,8 volte il reddito dei giovani, contro 2,5 volte in Francia, 1,9 volte in Germania. Ma in generale i nostri ragazzi risultavano più indietro nel completamento degli studi, nel trovare occupazione, metter su casa, formare una propria famiglia. In sintesi, il grado di autonomia, la capacità di emancipazione e di libertà individuale della gioventù italiana apparivano inferiori a quella di gran parte dei coetanei europei per quasi tutti gli indici presi in esame. E quell'analisi non scendeva alla più basse fasce d'età. A metà anni '90 i bambini italiani sotto la linea mediana ufficiale della povertà rappresentavano il 21,3% del totale, terzi dopo USA (26,3%) e Russia(21,3) (The Dynamics of Child poverty in industrialised Countries, Cambridge 2001). Un piazzamento davvero onerevole.

Ricordo questi dati – cui sono seguite e continuano a seguire altre importanti ricerche come il Rapporto dell'Istituto G.Toniolo, La condizione giovanile in Italia, il Mulino 2013 – per sventare in anticipo una manipolazione consueta della realtà: quella di rappresentare un grave problema strutturale come esito transitorio della “crisi”degli ultimi anni. E' evidente invece che la condizione di emarginazione della nostra gioventù precede la crisi, è l'esito aggravato di un corso politico che dura da decenni, alla cui base c'è la sempre più dispiegata disoccupazione e la precarizzazione del lavoro. Alla falange dei giovani che negli ultimi decenni accedevano alle prime occupazioni si è parato dinanzi una crescente mancanza di sbocchi e la strada stretta di una legislazione sempre più svantaggiosa ed emarginante. Sicchè non stupisce se la disoccupazione giovanile tocca oggi il picco del 44%, mentre il numero di giovani tra i 15 e i 24 anni che non lavorano, non studiano, non seguono corsi formazione (Neet) hanno raggiunto il primato europeo del 22,25%. Con la crisi la divaricazione generazionale è solo aumentata: gli over 65 sono diventati più ricchi, quelli sotto i 40 ancora più poveri.

Forse però questi dati non dicono ancora la grande novità storica: la classe dirigente anziana che detiene il potere da anni sta muovendo una vera e propria lotta di classe contro la gioventù del nostro Paese. Padri e nonni ricchi contro figli e nipoti poveri. Essa surroga sempre più il welfare con la famiglia, i diritti universali con il familismo. Ovviamente quando la famiglia non si trova in condizioni di povertà. Lo fa con gli strumenti del governo, attraverso il ceto politico, e direttamente nelle istituzioni pubbliche e nei luoghi di lavoro privati. Pochi dati da aggiungere a quelli più noti, inflitti dalla “legislazione di guerra” messa in atto dall'ultimo governo Berlusconi-Tremonti (allungamento dell'età pensionabile, tagli lineari alla scuola e all'Università) e poi proseguita dal dicastero Monti, dal governo Letta e ora estesa con furia novatrice dall'esecutivo di Renzi.

Negli ultimi 10 anni le tasse universitarie sono cresciute del 63%, mentre in Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Germania ci si laurea gratis. In compenso le borse di studio sono crollate al 7,5 % degli studenti, a fronte di uno studente su tre della Francia. Anche i posti di dottorato, già scarsi, sono diminuiti del 19%. Nel frattempo si rende sempre più estesa la pratica del numero chiuso per gli accessi alle facoltà universitarie, si sbarra la strada all'istruzione con una giungla di norme e di vessazioni di ogni genere, allo scopo di ricostituire una Università di élite, gettando negli occhi di un'opinione pubblica ignara il fumo del merito e dell'eccellenza. Ma ciò che sfugge a ogni statistica è il dilagare del lavoro non pagato: nelle fabbriche si diffondono gli “stages gratuiti”, nelle scuole i supplenti giovani spesso non ricevono gli stipendi o li ricevono con enormi ritardi, ma stanno al gioco con il fine di “fare punteggio”. Nell'Università non si conta più il lavoro volontario degli aspiranti ricercatori che sperano in un assegno di ricerca o in un concorso a venire. Negli studi degli avvocati e in tante altre attività professionali i giovani lavorano per anni senza reddito, per “imparare il mestiere”. E la pratica dei master a pagamento, che promettono carriera e posti di lavoro, rasenta in tanti casi la truffa. Nelle società dominate dal “libero mercato” chi è già incluso e organizzato tende a chiudere le porte a chi arriva.

Dovrebbe dunque essere chiara l'enormità economica, politica, umana della questione giovanile in Italia, articolazione generazionale della disuguaglianza strutturale creata dalle pratiche neoliberistiche in tutto il mondo. Almeno due generazioni stanno letteralmente andando perdute, consumeranno la loro gioventù tra lavori intermittenti, disoccupazione, attese, frustrazioni, scarso reddito, impossibilità di progettare alcunché. Il declino dell'Italia si identifica esattamente con la condizione dei suoi giovani. Il nostro Paese sta rinunciando, per balorda miopia, grettezza, illimitata mediocrità delle sue classi dirigenti, all'energia vitale, alla creatività, capacità di lavoro e di progetto della sua scarsa riserva demografica. Scarsa, perché i giovani sono una minoranza: poco più di 10 milioni tra i 20 e i 34 anni al censimento del 2011, a fronte di quasi 49 milioni e mezzo del totale. Tutto questo mentre ci assorda la retorica sulla necessità della competizione, della valorizzazione del “capitale umano”, sulla crescita, e le altre fuffe che la miserabile cultura capitalistica dei nostri anni riesce a elaborare.

Ora, io credo che la questione giovanile costituisca una straordinaria occasione politica per la sinistra. Alle retoriche del governo e sue adiacenze si può contrapporre un vero e proprio programma per la gioventù, quale parte di un progetto per l'intero paese. La prospettazione di una serie di obiettivi che possano mobilitare il consenso e anche l'entusiasmo giovanile, oggi sommerso sotto una montagna di delusioni e rancore. Non si tratta solo di rivendicare il reddito minimo di base, che comporta rilevanti impegni di spesa, ma anche di puntare a iniziative legislative “minori”, che possano ricreare un clima di fiducia tra la politica – che è cosa diversa dalla propaganda elettorale – e le nuove generazioni.

Perché, ad esempio, non consentire ai nostri ragazzi, entro una determinata fascia di età, sconti importanti per l'ingresso ai teatri, ai musei, per l'acquisto di libri, per la mobilità, locale e nazionale? Perché non creare un fondo di garanzia che consenta l'apertura di mutui da parte delle banche alle giovani coppie che vogliono metter su casa e non possono contare su un reddito continuativo e sicuro? Perché non aprire un campagna per la costituzione di nuove case per gli studenti (utilizzando caserme o altri stabili dismessi), la diffusione sul territorio di asili nido che aiuterebbero tanto le giovani coppie a cercare e mantenere un lavoro? Sono solo esempi di quel che si può proporre, di quel che si può fare per attivare la fantasia dei diretti interessati, che devono uscire dalla loro rassegnata segregazione e frantumazione e porsi come soggetto consapevole di una ripresa della lotta di classe in quanto generazione e aggregato sociale.
Ma per intestarsi questa battaglia la sinistra radicale e popolare, deve riprendere il passo che ha perduto in questi ultimi tempi: deve “andare” dai giovani, davanti alle fabbriche, alle scuole, alle università, ovunque si trovino. Deve andare adesso, non alla vigilia delle elezioni, per fare eleggere qualche pur bravo candidato. Deve riacquistare il gusto di organizzare persone e lotte, oltre alla conduzione di campagne elettorali. E' questo il terreno su cui movimenti e figure politiche, oggi variamente collocate, possono trovare il punto sperimentale di aggregazione che tutti attendiamo. E' una strada drammaticamente obbligata. Renzi e i suoi non sposteranno di un centimetro il piano inclinato in cui l'Italia va precipitando. Preparano solo gli strumenti politici per controllare la disgregazione sociale che sta dilagando nel paese.

«Perché gli attuali ragazzi e ragazze del Pd rifiutano perfino che i diritti di un dipendente siano affidati alla terzietà di un giudice? Se non difende il rapporto di lavoro un partito come il Pd, il quale si richiama alle riforme ogni mezz'ora, a che serve?

Sbilanciamoci.info, 7 ottobre 2014

Neppure un'incorreggibile gufa come me avrebbe immaginato che Matteo Renzi avrebbe cercato di portare velocemente il Pd verso una mutazione genetica, anche se covava da tempo, forse da quando Achille Occhetto, in qualità di segretario, aveva chiesto il beneficio di inventario nel richiamarsi non alla presa del palazzo d'inverno del 1917, ma alla rivoluzione francese del 1789. La Costituente sì, la Convenzione no. Viva l'abate Sieyès, abbasso Robespierre. Ma sulla Dichiarazione dei diritti erano stati d'accordo tutti, ed è quella che i socialisti Giacomo Brodolini e Gino Giugni hanno portato dentro la fabbrica con lo Statuto dei lavoratori.

Già era stato stupefacente per me che di tutta la direzione del Pd soltanto D'Alema e Bersani hanno dichiarato di non essere d'accordo con l'abolizione dell'articolo 18 e il contratto unico, cosiddetto a tutele crescenti, che costringerebbe ogni nuovo occupato a tre anni di precariato prima di essere regolarmente assunto (e va a vedere se la creatività degli imprenditori italiani non troverà qualche marchingegno per far apparire "nuovo e primo” ogni tipo di contratto), in modo da far transitare tutta la manodopera da un apprendistato a un altro.

Perché gli attuali ragazzi e ragazze del Pd rifiutano perfino che i diritti di un dipendente siano affidati alla terzietà di un giudice, nel caso della risoluzione di un punto delicato come un conflitto di lavoro, piuttosto che a un arbitrato consegnato alla parte sociale dominante? Se non difende il rapporto di lavoro un partito come il Pd, il quale si richiama alle riforme ogni mezz'ora, a che serve?

La verità è che forse il Jobs Act va letto, suggeriva maliziosamente ieri Melania Mazzucco, come l'acronimo di "jump our business", avanti subito con i nostri affari, ora che l'intralcio di un diritto dei dipendenti è stato gentilmente tolto di mezzo da quel che restava del Pci. Forse Renzi coglierà l'occasione per dichiarare, come già Veltroni, "Non sono stato comunista mai". Eppure lo zoccolo duro del Pci, la base confluita nelle sue successive trasformazioni, è stata sempre costituita da gente che lavorava sotto padrone. Passata al Pd come i suoi dirigenti, aveva ragionevolmente creduto che colui che spediva a Palazzo Chigi l'avrebbe difesa. Quando ha cominciato a dubitarne, il partito si è andato liquefacendo. Oggi lo vediamo, il famoso 40 per cento degli elettori per l'Europa sono un milione in meno di coloro che votarono Veltroni nel 2008, per non parlare di Berlinguer.

Il numero sempre più imponente degli astenuti modifica evidentemente le proporzioni fra una forza e l'altra, ma resta che i voti effettivamente avuti dai singoli partiti siano pochi, molti meno di quella che era la consuetudine italiana. Renzi farebbe bene a guardare in faccia il partito di cui è segretario e disprezzare un po' meno i suoi iscritti, che sono stati e restano la parte più attiva dell'elettorato d'Italia.
Democrack. Come nello scontro sulla «riforma» del Senato, anche sul lavoro la minoranza inghiotte il rospo.

Il manifesto, 12 ottobre 2014

Insomma, è pro­prio il caso di dirlo: molto rumore per nulla.

Dopo lo scon­tro sulla «riforma» del Senato, ora di nuovo, sul lavoro, la mino­ranza Pd inghiotte il rospo. La sini­stra interna (3 ecce­zioni su 26 con­fer­mano la regola) si è pie­gata al ricatto della fidu­cia. Come se un ricatto costi­tuisse un alibi, come se la debo­lezza fosse una ragione. Ma se lo scorso ago­sto si trattò forse di un impre­vi­sto, adesso siamo a un copione spe­ri­men­tato, del resto con­forme alla sor­tita di Ber­sani di qual­che giorno fa. L’avviso sulla lealtà alla «ditta» – peral­tro riba­dito anche da ultimo – non fu dun­que una voce dal sen fug­gita, ma il pre­vi­dente annun­cio di quanto era già intuito, assunto, metabolizzato.

È stata una scelta grave in un pas­sag­gio stra­te­gico. Renzi ha aperto la guerra interna nel Pd su mate­rie cru­ciali. La modi­fica della Camera Alta stra­volge l’architettura costi­tu­zio­nale e mina alle fon­da­menta la rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica, alte­rando la natura dello Stato. L’attacco ai diritti essen­ziali del lavoro subor­di­nato col­pi­sce il car­dine della Repub­blica anti­fa­sci­sta, oltre che la ragion d’essere di una sini­stra che possa legit­ti­ma­mente dirsi tale. Non si tratta di scelte improv­vi­sate, e non è casuale che su que­sti ter­reni il «capo del governo» abbia deciso di gio­carsi la par­tita. Sfon­dando sulla divi­sione dei poteri e sui diritti del lavoro, mor­ti­fi­cando il dis­senso e sfot­tendo le orga­niz­za­zioni sin­da­cali, Renzi intende mostrarsi in grado di gui­dare il «cam­bia­mento»: di svuo­tare la Costi­tu­zione del ’48 e di varare una nuova forma di governo fun­zio­nale alla sovra­nità del capi­tale privato.

Solo chi avesse perso qual­siasi capa­cità di giu­di­zio potrebbe sot­to­va­lu­tare la gra­vità di quanto accade. Nel giro di pochi mesi viene pren­dendo vita un regime auto­ri­ta­rio nel quale il capo della fazione pre­va­lente potrà con­trol­lare tutti gli snodi della deci­sione poli­tica. E si viene regre­dendo verso un’oligarchia neo­feu­dale in cui il lavoro è senza garan­zie, pre­ca­riz­zato nella radice del rap­porto con­trat­tuale, quindi ricat­ta­bile in ogni momento e desti­nato a salari sem­pre più bassi. Nem­meno manca, per i palati più esi­genti, il gra­zioso sar­ca­smo delle «tutele crescenti».

In tale sce­na­rio non incombe sui par­la­men­tari demo­cra­tici alcun vin­colo poli­tico o morale di lealtà verso il par­tito e il gruppo, né, tanto meno, verso l’esecutivo.

Non solo per­ché – anche gra­zie alla com­pro­vata obbe­dienza dei dis­si­denti – il Pd è diven­tato un par­tito per­so­nale, coman­dato col ricatto, il dileg­gio, l’insulto. Non solo per­ché ogni vin­colo viene meno quando sono tra­volti prin­cipi fon­da­men­tali della Carta e per­ché, chie­dendo la fidu­cia su una delega in bianco («inde­fi­nita e sfug­gente nei cri­teri», nota la Cgil), il governo ha vio­lato la Costi­tu­zione (e di ciò il pre­si­dente della Repub­blica dovrebbe tener conto, invece di lasciarsi andare a impro­pri apprez­za­menti del Jobs Act). Cia­scun par­la­men­tare del Pd ha il diritto e il dovere di deci­dere in piena auto­no­mia anche per­ché il governo pro­cede rove­sciando di sana pianta il pro­gramma in base al quale i par­la­men­tari demo­cra­tici sono stati eletti. Un tale governo non va pre­ser­vato. Va con­tra­stato e fatto cadere al più pre­sto, impe­gnan­dosi affin­ché il paese imboc­chi la strada della riscossa democratica.

Dire, com’è stato detto, che negare la fidu­cia sarebbe stato «irre­spon­sa­bile» per­ché la scelta sarebbe tra Renzi e la Troika è sol­tanto un modo per nascon­dere la realtà. Non solo que­sto governo si attiene in toto ai det­tami di Washing­ton, Bru­xel­les e Fran­co­forte (o qual­cuno si mera­vi­glia per la sod­di­sfa­zione di Dra­ghi e della Mer­kel?). Lo fa, per di più, impe­dendo alla gente di capire e di sot­trarsi alla morsa del nuovo regime che sof­foca il paese. Se una poli­tica di destra è fatta da un par­tito che si dichiara, almeno in parte, di sini­stra, che senso hanno ancora que­ste vetu­ste parole, e come si può pen­sare di poter cam­biare rotta?

Ma allora per­ché, ancora una volta, que­sto cedi­mento, che, come ognuno vede, demo­li­sce la cre­di­bi­lità della sini­stra demo­cra­tica? Per­ché que­sta obbe­dienza che rischia di ridurre il dis­senso interno a una farsa; che induce a par­lare di tra­di­mento del man­dato par­la­men­tare (que­sto ha detto in sostanza il sena­tore Tocci inter­ve­nendo in aula); che rende la mino­ranza com­plice del nuovo padrone del Pd, al quale non solo è offerta una pre­ziosa san­zione di onni­po­tenza (delle sue sprez­zanti rispo­ste alle timide richie­ste di modi­fica della delega resterà memo­ria), ma è anche con­cessa gra­tis l’opportunità di esi­bire, quando serve, una patente con­traf­fatta di sini­stra? Si può ter­gi­ver­sare e pre­di­care cau­tela, pur di sot­trarsi al giu­di­zio. Si può tacere, augu­ran­dosi di limi­tare il danno o di pro­pi­ziare svi­luppi posi­tivi. Ci si illude. Da sé le cose non cam­bie­ranno certo in meglio. Noi stiamo piut­to­sto con il segre­ta­rio gene­rale della Fiom che arri­schia un giu­di­zio duris­simo (votare la fidu­cia serve a «difen­dere le pol­trone») e ne trae le dovute con­clu­sioni («di un par­la­mento così non sap­piamo che farci»).

Non­di­meno, siamo tra i testardi che pen­sano che in poli­tica non si è mai all’ultima spiag­gia e che nes­sun fran­gente, per quanto grave, è irre­pa­ra­bile e defi­ni­tivo. Anche in que­sto caso, nono­stante tutto, sta­remo a vedere come andrà avanti que­sta sto­ria e come si con­clu­derà. Sen­tiamo che alcuni dis­si­denti saranno il piazza con la Cgil il 25 otto­bre. E che un espo­nente della mino­ranza del Pd, l’onorevole D’Attorre, annun­cia bat­ta­glia sul Jobs Act alla Camera, defi­nendo «inac­cet­ta­bile» che anche in quella sede il governo ponga la fidu­cia. Ne pren­diamo atto. Osser­vando che, se le parole hanno ancora un valore, que­ste equi­val­gono a pro­met­tere che, in tale non impro­ba­bile eve­nienza, la sini­stra del Pd arri­verà final­mente a quella rot­tura che non ha sin qui nem­meno ven­ti­lato. Vedremo.

Intanto resta che viviamo giorni cupi, gra­vidi di peri­coli, forieri di nuove vio­lenze e di più gravi ingiu­sti­zie. Giorni che get­tano nuove inquie­tanti ombre sul futuro di que­sta Repubblica.

Qualcosa di liberale (e non neoliberista) rispunta ancora, di tanto in tanto, dalle rotative del Corrierone. «Prima o poi doveva succedere: la democrazia parlamentare non sopravvive a periodi lunghi di paralisi».

Il Corriere della Sera, 10 ottobre 2014

Da molti punti di vista, quello di Renzi è un governo extra-parlamentare; forse il primo di una nuova era. Non solo perché il premier non siede in nessuna delle due Camere: c’era già il precedente di Ciampi, anche se gestito con altro stile. Ma per motivi più di merito.

Si moltiplicano infatti i luoghi di decisione politica esterna che il Parlamento non può rimettere in discussione: il Patto del Nazareno, un discorso nella Direzione del Pd, un incontro estivo con Draghi. La stessa ratifica parlamentare si fa al contempo obbligata (con la fiducia) e vaga (con la delega), trasferendo sempre più il potere legislativo all’esecutivo: come è avvenuto sulla riforma dell’articolo 18, di cui nei testi votati non c’è niente, e tutto resta affidato alla tradizione orale e agli impegni verbali.

Il parlamentare è ormai un’anima morta, legata al leader da un ferreo vincolo di mandato; il che, come in ogni servitù, lo induce alla rancorosa vendetta ogni volta che può agire in segreto, ad esempio col triste spettacolo della mancata elezione dei giudici della Consulta. In alternativa, se non è d’accordo, può solo disertare dal suo mandato (assentandosi o dimettendosi).

La stessa definizione di presidente del Consiglio non si addice più a Renzi, il quale pur essendo primus non è certamente più inter pares tra i suoi ministri, come testimoniato dalla performance di Giuliano Poletti sulla riforma del mercato del lavoro. Pur senza nostalgie per il regime parlamentare uscente, davvero impossibili, bisogna riconoscere che qui siamo oltre. È come se avessimo sostituito a vent’anni di mancate riforme istituzionali la biografia e la personalità di un leader di quarant’anni: una riforma costituzionale incarnata, in personam invece che ad personam.

Prima o poi doveva succedere: la democrazia parlamentare non può sopravvivere a periodi troppo lunghi di paralisi. A Bersani e D’Alema che protestano per l’andazzo odierno andrebbe risposto che ne sono in buona parte responsabili. Però non è detto che la nuova costituzione materiale che si sta delineando sia l’unica forma di post-democrazia possibile.

Non è vero che funziona così ovunque. Perfino in un regime presidenziale come quello statunitense i parlamentari hanno un incomparabile potere di condizionare le scelte dell’esecutivo. Perfino a Westminster le ribellioni in Aula sono all’ordine del giorno. Perfino in Germania la Merkel ha dovuto spesso ricorrere ai voti dell’opposizione per resistere alle defezioni interne della sua maggioranza. Istituti come la sfiducia costruttiva, sistemi elettorali basati sul collegio uninominale, o anche un presidenzialismo dotato di check and balances, consentono di avere insieme governi autorevoli e Parlamenti liberi.

Sarebbe il caso di pensarci per tempo. Perché democrazia è certamente decisione, ma è anche e soprattutto potere di controllare il potere. Ogni giorno, e non solo una volta ogni cinque anni.

«Deriva italiana. Il governo Renzi è la troika interiorizzata. Va sfidato sul suo terreno. L’Altra Europa con Tsipras ha messo le basi facendo il primo passo. Oggi, nelle nuove dimensioni, è a sua volta insufficiente a reggere la sfida.Ma è su quella strada che occorra incamminarci, assumendo intanto come prima tappa la piazza del 25 ottobre». Il manifesto, 9 ottobre 2014

L’accelerazione impressa da Matteo Renzi nel suo “semestre europeo” lascia sul terreno cumuli di macerie (a cominciare da quelle del suo partito). E apre almeno tre grandi questioni, clamorosamente evidenti in questi giorni solo a volerle vedere: una questione istituzionale, annunciatasi fin dalla battaglia d’estate sul (e contro il) Senato. Una “nuova” questione sociale: nuova perché si poteva pensare che già col governo Monti si fosse arrivati a mordere sull’osso del mondo del lavoro, e invece ora si affondano i colpi ben sotto la cintura. Infine una grave questione democratica, resa drammatica dall’intrecciarsi delle prime due, e dal ruolo che la crisi gioca nel dettarne modi e tempi di sviluppo.

Renzi – nonostante le retoriche che ne accompagnano e potremmo dire ne costituiscono l’azione – non rappresenta una possibile soluzione della crisi economica e sociale italiana. Non ha né la forza (nei rapporti inter-europei) né le idee per aprire anche solo uno spiraglio. Ma condensa in sé – nella propria stessa persona, nel proprio linguaggio e nei propri comportamenti quotidiani, oltre che nelle misure che impone – il modo con cui la crisi lavora. E’, si potrebbe dire, il lavoro della crisi tradotto in politica: ne converte in pratica di governo tutto il potenziale destabilizzante. Ne accompagna e ne garantisce lo sfondamento dei residui livelli di resistenza e di ostacolo al libero dispiegarsi del potere del denaro da parte di ciò che resta dei corpi sociali e delle loro consolidate tutele. Ne conduce a compimento la liquidazione dei patti che avevano costituito il tessuto connettivo della “vecchia” società industriale, e delle culture che ne avevano accompagnato sviluppo e conflitto.

In questo senso Renzi non è l’alternativa all’intervento “d’ufficio” della Troika, un male minore rispetto a quello toccato alla “povera Grecia” che ha dovuto subire i tre Commissari-guardiani. Renzi è la Troika, interiorizzata. E’ la forma con cui l’Europa dell’Austerità e del Rigore governa il nostro Paese. Nell’unico modo possibile nelle condizioni date: con una formidabile pressione dall’esterno, e con un’altrettanto forte carica di populismo all’interno. Se li si leggono con un po’ d’attenzione si vedrà che i punti del suo programma, imposti con stile gladiatorio e passo di corsa a un mondo politico attonito, ricalcano fedelmente il famigerato Memorandum che ha prodotto la morte sociale della Grecia: privatizzazioni con la motivazione di far cassa, in realtà per metter sul mercato tutto ciò che può costituire un buon affare; abbattimento delle garanzie e del potere contrattuale del lavoro in nome dei “diritti dell’impresa”; ridimensionamento del pubblico impiego in termini di spesa e di occupazione; rimozione degli ostacoli alla rapidità decisionale da parte delle forme tradizionali della rappresentanza politica e sociale.

Se collocati in questo quadro si spiegano, allora, quelli che altrimenti sembrerebbero solo una sequela di strappi, forzature, ostentazioni di arroganza, maleducazione, guasconeria e improvvisazione (che pure non manca). E’ evidente infatti che un simile progetto non può essere messo in atto con mezzi “ordinari”. Richiede un’eccezionalità emergenziale, sia per quanto riguarda lo sfondamento dell’assetto costituzionale: e a questo è servito l’auto da fé in diretta di uno dei simboli della democrazia rappresentativa, la “camera alta”. Sia per quanto attiene al livello simbolico: ed è quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi con l’umiliazione ostentata del movimento sindacale e del mondo del lavoro. Perché se maramaldeggiare con i brandelli residui dell’articolo 18 e con ciò che resta dello Statuto dei lavoratori non porterà un solo posto di lavoro, come è chiaro pressoché a tutti, è pur vero che la celebrazione del sacrificio spettacolare, in piena piazza mediatica, secondo i vecchi riti dell’ordalia, continua ad avere un effetto simbolico straordinario. Tanto più se la vittima sacrificale – l’homo sacer direbbe Agamben -, è uno dei protagonisti centrali del nostro passato prossimo come, appunto, il lavoro nella forma politico-sociale del movimento dei lavoratori.

Imporne la degradazione pubblica. Liquidarlo in otto minuti d’introduzione e un’oretta di udienza. Abbattere anche le residue garanzie perché, come ho sentito dire autorevolmente, occorre liberare gli imprenditori dall’ ”arbitrio di un giudice” (sic!), significa nell’immaginario collettivo rovesciare il mondo. Riscrivere l’articolo uno della Costituzione affermando che “L’Italia è un’oligarchia plebiscitaria fondata sull’impresa” e, al secondo comma, che “la sovranità appartiene ai mercati, i quali l’esercitano in modi e forme discrezionali, senza limiti di legge”. Ha ragione Susanna Camusso nell’affermare che l’unica cosa che interessa al premier è presentarsi all’Europa degli affari con lo scalpo dei lavoratori in mano. Con un’aggiunta: che Renzi quello scalpo lo vuole usare anche nei confronti dei suoi, e di un elettorato frantumato, impoverito, rancoroso per le umiliazioni subìte spesso senza trovare adeguata difesa da parte dei propri rappresentanti politici e sindacali, da catturare con l’immagine forte di una vittoria sacrificale.

Per questo dico – e sono consapevole del peso delle parole – che siamo in presenza di una “emergenza democratica”. Non solo perché il “renzismo” ha già cambiato il DNA del suo partito d’origine, trasformandolo in un ectoplasma risucchiato in alto, tra le mura di Palazzo Chigi, e avviandosi verso quello che a ragione è stato definito il “partito unico del Premier”. Non solo perché, parallelamente, ha ridotto un Parlamento amputato a ufficio di segreteria del Governo, chiamato a firmarne le carte (come si è visto ieri), mentre col patto del Nazareno ha definitivamente omologato l’antropologia politica, rendendo pressoché indistinguibili quelle che un tempo erano state “due Italie” eticamente e culturalmente diverse e ampliando così, d’incanto, il serbatoio di voti a cui attingere. Ma soprattutto perché con Renzi si conclude una vera e propria mutazione genetica del nostro sistema politico e istituzionale, con la verticalizzazione brutale di tutti i processi, concentrati nella figura apicale del Premier; la riconduzione del potere Legislativo non solo “sotto”, ma “dentro” il potere Esecutivo, come sua appendice secondaria; la tendenziale liquidazione dei corpi intermedi – la “società di mezzo”, come la chiama De Rita, comprendente le variegate forme di aggregazione e di rappresentanza sociale -, che potrebbero fare da ostacolo al rapporto diretto del Capo col “suo” Popolo, fascinato (“sciamanizzato”) retoricamente secondo la classica immagine del Demagogo. Con la pessima tecnica di convertire la disperazione in speranza mediante espedienti verbali e l’evocazione del “miracolo”. Una forma di plebiscitarismo dell’illusione, che lascia tutti i problemi irrisolti, ma che premia enormemente in termini di potere personale.

Ora se questo è vero, o anche solo in parte condiviso, quello che s’impone, d’urgenza, è non solo un’opposizione convinta e intransigente sui singoli provvedimenti (che è condizione necessaria, anche se non sufficiente) ma, al di là di ciò, la costruzione di una proposta ampia – politica, sociale, culturale, morale – in grado di contrastare questo processo all’altezza della sfida che lancia. Un fronte articolato, imperniato sui diritti e sul lavoro, capace di radunare tutto ciò che ancora nello spazio rarefatto della politica “resiste” ma soprattutto in grado di mobilitare forze nuove, oggi disperse, con linguaggi, idee, forme organizzative innovative e aperte. Di fare e conquistare opinione e impegno.

Lo dico con molto rispetto per posizioni che so vicine a questo sentire, come quella espressa sul manifesto da Airaudo e Marcon: se ci limitassimo ad assemblare semplici pezzi di classe politica - ciò che resta della sinistra politica “che non si arrende”, i “refrattari” dell’arena parlamentare o delle sue immediate vicinanze -, se pensassimo che il “renzismo” si arresta mobilitando per linee interne la cosiddetta “minoranza” del Pd (alla cui patetica prova abbiamo assistito ieri) saldata a ciò che rimane del tradizionale e ormai cancellato “centro-sinistra” proponendone una nuova piccola casa, temo che non andremmo molti avanti. E anzi, forniremmo a Matteo Renzi un bersaglio perfetto contro cui sparare a palle incatenate, nominandosi campione del nuovo contro tutto ciò che sa di “residuo”.

Serve al contrario, a mio avviso, sfidarlo sul terreno alto dell’alternativa a tutto campo, italiana ma in un quadro a dimensione europea (perché è pur sempre lì che si gioca la partita che conta), dello stile politico e dell’egemonia culturale. Un processo inclusivo di tutti, senza esami del DNA, aperto, innovativo, in grado di riportare dentro quella ampia sinistra diffusa che sta fuori dalla sempre più ristretta sinistra politica. La “chimica” della lista L’altra Europa con Tsipras ha, in qualche modo, anticipato questo approccio (anche nel suo respiro europeo) e costituito un primo passo. Oggi, nelle nuove dimensioni, è a sua volta insufficiente a reggere la sfida: il suo milione e centomila elettori può esserne un nucleo iniziale, non l’intero corpo. Ma credo che sia su quella strada che occorra incamminarci, assumendo intanto come prima tappa la piazza del 25 ottobre. Altre ne verranno.

Un'analisi acuta su un tema sul quale la discussione proseguirà anche su eddyburg. «E' facile capire per­ché oggi, soprat­tutto tra le nuove gene­ra­zioni, destra e sini­stra sono parole vuote, o se volete con­te­ni­tori usa e getta».

Il manifesto, 6 ottobre 2014, con postilla

L’editoriale di Norma Ran­geri (il mani­fe­sto del 5 otto­bre) merita una rifles­sione a par­tire dalle “parole” che defi­ni­scono il campo poli­tico: la destra e la sini­stra nel nuovo secolo. Ran­geri parte dalla con­sta­ta­zione di una sini­stra da troppi anni ter­ri­bil­mente divisa, liti­giosa, auto­di­strut­tiva, e auspica la nascita di una «sini­stra dei diritti». Soprat­tutto, mette il dito sul «furto di parole» che con­tano come «libertà» e «cam­bia­mento», rubate da Ber­lu­sconi, la prima, da Renzi la seconda. Ne aggiun­ge­rei un’altra rubata dal Pd di Renzi, com­plice l’ex-Cavaliere: la sinistra.

Ripar­ti­rei da qui: dal senso delle parole che nel campo della poli­tica, come lo defi­niva Bour­dieu, con­tano come pie­tre, almeno quanto in un cam­pio­nato di cal­cio con­tano i gol. Per que­sto vale lo sforzo di pro­vare a sto­ri­ciz­zare la meta­mor­fosi del lin­guag­gio e delle cate­go­rie poli­ti­che dell’ultimo trentennio.

C’era una volta una netta distin­zione tra i mili­tanti e gli elet­tori della destra e della sini­stra. I primi si pote­vano iden­ti­fi­care facil­mente con i con­ser­va­tori, i secondi con i pro­gres­si­sti. Essere con­ser­va­tori signi­fi­cava difen­dere lo sta­tus quo, l’ordine sociale e gerar­chico esi­stente, cre­dere in deter­mi­nati valori quali religione-patria-famiglia, e quindi bat­tersi per la con­ser­va­zione delle forme sociali, eco­no­mi­che e poli­ti­che ere­di­tate, a par­tire dalla sacra­lità della pro­prietà pri­vata. Essere pro­gres­si­sti signi­fi­cava volere il cam­bia­mento dell’ordine sociale, met­tere in discus­sione i pri­vi­legi, le forme alie­nanti della reli­gione, le super­sti­zioni e le forme arcai­che delle cul­ture locali, pro­muo­vere il pro­gresso e la moder­niz­za­zione della società, della cul­tura, delle istituzioni.

Una visione positivistica

Cambiamento-Progresso-Modernizzazione: que­ste sono state per più di un secolo le parole chiave delle forze poli­ti­che della Sini­stra. Costi­tui­vano i pila­stri di una visione posi­ti­vi­stica della sto­ria umana, che aveva iscritto nel suo codice gene­tico un lieto fine: la libe­ra­zione dello sfrut­ta­mento dell’uomo sull’uomo. L’umanità, gra­zie al pro­gresso tec­no­lo­gico, si sarebbe libe­rata dalla schia­vitù del lavoro legata al biso­gno, così come era avve­nuto per il lavoro dei servi e degli schiavi nelle società pre­mo­derne. Que­sto sce­na­rio, in cui si com­bi­na­vano e mar­cia­vano insieme le con­qui­ste di nuovi diritti per i lavo­ra­tori e per le fasce più deboli della società (wel­fare State), la cre­scita eco­no­mica ed il pro­gresso tec­no­lo­gico si è spez­zato, prima sul piano cul­tu­rale e poi poli­tico, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Si è veri­fi­cata una “cata­strofe”, nell’accezione di René Thom, vale a dire una bifor­ca­zione tra forze che si intrec­cia­vano lungo una linea ascen­dente e che adesso pro­ce­dono per linee divergenti.

Un primo ele­mento forte di rot­tura, all’interno della sini­stra euro­pea, è nato con la que­stione delle cen­trali nucleari: per la sini­stra “sto­rica” rap­pre­sen­ta­vano una rispo­sta pro­gres­si­sta al fab­bi­so­gno di ener­gia per lo svi­luppo eco­no­mico; per la sini­stra “alter­na­tiva” – movi­menti paci­fi­sti, ambien­ta­li­sti, ecc. – le cen­trali nucleari erano solo il biso­gno dro­gato di un modello di svi­luppo ener­gi­voro e peri­co­loso che andava radi­cal­mente cam­biato. Quasi con­tem­po­ra­nea­mente nasceva, nell’area della sini­stra “alter­na­tiva”, una oppo­si­zione all’espansione dell’agricoltura indu­striale (fino alla con­te­sta­zione dei primi espe­ri­menti di Ogm), agli iper­mer­cati e alla cemen­ti­fi­ca­zione indi­scri­mi­nata, per finire con la con­te­sta­zione di alcune Grandi Opere che si anda­vano pro­get­tando. Nasceva un’idea di “locale” come oppo­si­zione ai pro­cessi di glo­ba­liz­za­zione capi­ta­li­stica, di tra­di­zioni e iden­tità da recu­pe­rare (una volta appan­nag­gio della destra sto­rica), di una alter­na­tiva alla stessa cate­go­ria dello “svi­luppo”, come fine dell’agire sociale. In breve: l’equazione progresso/tecnologia/modernizzazione/progresso dell’umanità, era saltata.

Nel corso degli anni ’90 e del primo decen­nio del nuovo secolo que­sta spac­ca­tura all’interno della sini­stra poli­tica è diven­tata sem­pre più pro­fonda, men­tre sul campo avverso nasceva una nuova destra neo­li­be­ri­sta che si appro­priava delle parole “cam­bia­mento”, “pro­gresso”, e per­sino “rivo­lu­zione” (nei con­fronti dello Stato buro­cra­tico e dei lacci e lac­ciuoli pro­dotti dai diritti dei lavo­ra­tori). Scioc­cata dalla ver­go­gnosa e rovi­nosa caduta dei paesi “socia­li­sti”, la sini­stra sto­rica ten­tava di inse­guire i pro­cessi di moder­niz­za­zione capi­ta­li­stica diven­tando più rea­li­sta del re. Le leggi di mer­cato e la cre­scita eco­no­mica, senza se e senza ma, erano diven­tate le nuove stelle polari, il ter­reno su cui sfi­dare la nuova destra.

Que­sti veloci cam­bia­menti nel lin­guag­gio come nelle cate­go­rie poli­ti­che, qui sin­te­ti­ca­mente rias­sunti, hanno por­tato alla for­ma­zione di un Pen­siero Unico da cui è dif­fi­cile uscirne. Allo stesso tempo, il modo di pro­du­zione capi­ta­li­stico si è pro­fon­da­mente tra­sfor­mato, sia attra­verso una tor­sione finan­zia­ria (il Finan­z­ca­pi­ta­li­smo, secondo la felice defi­ni­zione di Luciano Gal­lino), sia attra­verso l’adozione di tec­no­lo­gie sem­pre più inva­sive e distrut­tive rispetto all’ecosistema.

Se tutto que­sto è vero, allora è facile capire per­ché oggi, soprat­tutto tra le nuove gene­ra­zioni, destra e sini­stra sono parole vuote, o se volete con­te­ni­tori usa e getta. Par­lare di “nuovo sog­getto poli­tico della sini­stra” è un’espressione che parla solo agli addetti ai lavori o alla gene­ra­zione che ha vis­suto le lotte degli anni ’60 e ’70. Intanto, que­sta osses­sione del “nuovo”, come valore in sé, fa parte della stessa ideo­lo­gia del sistema in cui viviamo e in cui ogni giorno la pub­bli­cità ci mostra un nuovo pro­dotto. Così come “cam­bia­mento”, la parola più usata da Renzi (e una volta dalle forze della sini­stra) è una parola priva di senso. Il mondo cam­bia comun­que per­ché la vita è dive­nire di per sé. Biso­gne­rebbe eli­mi­narla dal voca­bo­la­rio poli­tico o spe­ci­fi­care quale cam­bia­mento si vuole produrre.

Ridotti a individui

Piut­to­sto ci sarebbe da doman­darsi come è pos­si­bile che un sistema economico-politico fal­li­men­tare, che crea povertà cre­scenti nell’era dell’abbondanza delle merci e delle tec­no­lo­gie, che crea insi­cu­rezza eco­no­mica e sociale nella mag­gio­ranza della popo­la­zione, non venga rove­sciato. Come pos­siamo ricreare un legame sociale e cul­tu­rale tra milioni di per­sone, ridotte a indi­vi­dui, che lot­tano o resi­stono solo rispetto a una spe­ci­fica situa­zione (con­di­zioni di pre­ca­rietà, licen­zia­menti, ecc.), ma sono inca­paci di met­tersi insieme, di essere soli­dali con chi vive nelle stesse condizioni.

Un esem­pio tra i tanti: la chiu­sura della Fiat di Ter­mini Ime­rese, con cin­que­mila fami­glie sul lastrico, non ha susci­tato la soli­da­rietà della società sici­liana, a par­tire dai circa otto­mila pre­cari (Lsu, Lpu) che ogni tanto scen­dono in piazza per i fatti loro. Le parole della That­cher , alla fine del secolo scorso, suo­nano come una fune­sta pro­fe­zia: «La società non esi­ste, esi­stono solo gli individui».

Gram­sci scri­veva dal car­cere che il Mez­zo­giorno appare come una «grande disgre­ga­zione sociale», oggi è tutta l’Italia a tro­varsi in que­sta con­di­zione. Per que­sto penso che non esi­sta una via di uscita solo pen­sando al “sog­getto poli­tico”, che poi dovrà con­fron­tarsi con un mer­cato elet­to­rale dove impera ormai un duo­po­lio, in Ita­lia come negli Usa, dove il con­trollo dei mass media è deter­mi­nante. Abbiamo invece urgente biso­gno di una grande tes­si­tura sociale e cul­tu­rale e di parole in grado di costruire la visione del futuro desi­de­ra­bile e cre­di­bile. A que­sto impe­gno siamo chia­mati in tanti, anche chi si è allon­ta­nato dalla politica.

postilla
Proprio sabato prossimo, l'11 ottobre, se ne discuterà a Firenze, alla Libera univerità Ipazia, al Giardino dei ciliegi, via dell'Agnolo 8. Qui il link alla locandina

«Abbiamo cer­cato di dare voce a quella sini­stra che non vuole chiu­dersi nell’autocompiacimento dello scon­fit­ti­smo, o nel ruolo ras­si­cu­rante di quelli desti­nati all’opposizione a vita. Ma adesso come con­ti­nuare il cammino?».

Il manifesto, 5ottobre 2014, con postilla

Quando ci è stato chie­sto di essere pre­senti ad una ini­zia­tiva uni­ta­ria della sini­stra, a una mani­fe­sta­zione dove Sel ha chia­mato a par­te­ci­pare donne e uomini di una sini­stra plu­rale, abbiamo accet­tato molto volen­tieri. Per­ché è la stessa sini­stra che ogni giorno si incon­tra e discute sulle pagine del mani­fe­sto, il gior­nale che da oltre quarant’anni si batte per rin­no­vare la sini­stra italiana.

E’ stata l’occasione per riven­di­care il nostro ruolo, il nostro essere stati l’unico gior­nale impe­gnato a soste­nere in modo aperto, senza auto­cen­sure, una cam­pa­gna elet­to­rale euro­pea a favore della Lista Tsi­pras. Un’impresa più dif­fi­cile del solito, sulla quale in pochi erano dispo­sti a scom­met­tere per­ché prima del voto la lista era asso­lu­ta­mente sco­no­sciuta. Anche a sini­stra. E pro­prio per que­sto è stata un’occasione da non per­dere per chi non voleva ras­se­gnarsi a votare per Renzi, né per Grillo e nem­meno ripie­gare nell’astensionismo.

Non sem­pre le moti­va­zioni che hanno fatto nascere la Lista Tsi­pras sono state rispet­tate. Ci sono stati per­so­na­li­smi esa­ge­rati, dosi ecces­sive di auto­re­fe­ren­zia­lità, insop­por­ta­bili elen­chi di buoni e cat­tivi. Ma, nono­stante tutto, alla fine ha pre­valso l’idea di rom­pere vec­chi stec­cati, l’unica idea capace di mol­ti­pli­care la par­te­ci­pa­zione, spe­cial­mente delle gio­vani gene­ra­zioni. Que­sta idea si è tra­dotta in forza che ha poi assunto il peso del quo­rum elettorale.

Abbiamo cer­cato di dare voce a quella sini­stra che non vuole chiu­dersi nell’autocompiacimento dello scon­fit­ti­smo, o nel ruolo ras­si­cu­rante di quelli desti­nati all’opposizione a vita. Ma adesso come con­ti­nuare il cammino?

Vista la spro­por­zione delle forze in campo sarebbe vel­lei­ta­rio dire che vogliamo diven­tare mag­gio­ranza - in Gre­cia Tsi­pras ha avuto suc­cesso in un paese in mace­rie - tut­ta­via vogliamo che si costrui­sca a sini­stra del Pd una forza - o un insieme di forze - che pos­sano farsi sen­tire con auto­re­vo­lezza sui temi legati al governo del Paese. Se è chiaro quale può essere l’obiettivo (rag­giun­gi­bile attra­verso una lunga mar­cia che coin­volga però asso­cia­zioni, par­titi, liste, movi­menti), dob­biamo comun­que chie­derci per­ché fac­ciamo fatica a farci ascol­tare, per­ché non riu­sciamo a rap­pre­sen­tare una sini­stra larga e popo­lare, una sini­stra del lavoro, dei diritti, del vero cam­bia­mento (non quello sven­to­lato da Renzi) verso una società più demo­cra­tica e meno liberista.

Una prima rispo­sta, che ha radici anti­che, è que­sta: non sap­piamo stare insieme, non sap­piamo unire le forze. Que­sta inca­pa­cità è tutta ideo­lo­gica: l’idea pre­vale sul rap­porto tra le per­sone, per affer­marsi l’idea è dispo­sta a cam­mi­nare sulle mace­rie, poli­ti­che e personali.

Noi a sini­stra abbiamo biso­gno di sin­ce­rità e fran­chezza. Se siamo ancora una esi­gua mino­ranza, più come rap­pre­sen­tanza poli­tica che nella società ita­liana, non è per colpa di Ber­lu­sconi. E come non era lui in pas­sato il pro­blema, oggi non lo è Renzi.

Per­ché il pro­blema siamo noi, sem­pre divisi, sem­pre con­vinti di avere la verità in tasca e guai a chi ce la tocca. Ecco, se vogliamo diven­tare più grandi, più forti, ognuno di noi deve cedere un pezzo della pro­pria sovra­nità. Senza que­sta con­sa­pe­vo­lezza non solo non si fa una sini­stra nuova, ma non si tiene insieme nep­pure un condominio.

Sap­piamo che dob­biamo con­fron­tarci con un appa­rato poli­tico e un peso note­vole, quale quello rap­pre­sen­tato dal Pd di Renzi. Ma il suo suc­cesso potrebbe non reg­gere sui tempi lun­ghi. Anzi, i dati del tes­se­ra­mento del Pd sono drammatici.

Più in gene­rale, stiamo attra­ver­sando una fase molto dif­fi­cile dal punto di vista eco­no­mico. Ma adesso, come ieri, sap­piamo almeno con chi abbiamo a che fare. E come vent’anni fa il ber­lu­sco­ni­smo strappò alla sini­stra la parola “libertà”, oggi Renzi ha seque­strato la parola “cambiamento”.

Ogni giorno vediamo l’uso spre­giu­di­cato che ne fa. Cam­bia la Costi­tu­zione, cam­bia la giu­sti­zia, cam­bia il lavoro. E chi trova al suo fianco? Ber­lu­sconi. E chi canta ogni giorno la sere­nata al pre­si­dente del con­si­glio? Chi è il più acca­nito fan del pre­mier? Il Gior­nale di Arcore che vede nel segre­ta­rio del Pd il gio­vane cava­liere che mas­sa­cra le oppo­si­zioni interne e i sindacati.

Renzi e Ber­lu­sconi fanno fatica a stare in due par­titi diversi, pro­vano a inven­tarsi qual­che motivo di con­tra­sto, ma pro­prio non ci rie­scono. Riforme isti­tu­zio­nali, giu­sti­zia, lavoro: sono d’accordo su tutto. Guar­date le scene di amo­rosi sensi quando si incon­trano in Par­la­mento depu­tati e sena­tori del Pd e di Forza Ita­lia: baci, abbracci, pac­che sulle spalle. Guar­date le ele­zioni delle pro­vin­cie: sono spa­riti i cit­ta­dini e sono com­parsi i listoni con Fi e Pd uniti da un’attrazione fatale.

Dovremmo lasciare che la natura fac­cia il suo corso, dovremmo lasciarli liberi di unirsi in un unico par­tito. Ma non sarà così. E a noi spetta comun­que il com­pito di costruire una sini­stra più forte, più radi­cata nel ter­ri­to­rio, più social­mente utile. Siamo con­vinti che pos­siamo darci que­sto obiet­tivo? Pos­siamo, Pode­mos, come dicono in Spa­gna, ma ad alcune con­di­zioni. Smet­terla di essere solo con­tro il nemico di turno, e met­terci al lavoro per qualcosa.

Come con Ber­lu­sconi, anche con Renzi la comu­ni­ca­zione, la tele­vi­sione, l’informazione è l’arma deci­siva. Oggi è per­sino peg­gio per­ché il con­for­mi­smo, il soste­gno, l’adesione, l’applausometro verso l’alleanza tra Renzi e Ber­lu­sconi è impres­sio­nante. Almeno ai tempi di Ber­lu­sconi c’era qual­che pro­gramma tv, qual­che tg che cri­ti­cava il padrone del vapore.

Oggi tutti i tele­gior­nali can­tano la stessa can­zone. Se nei gior­nali a qual­che diret­tore o a qual­che fon­da­tore, scappa di scri­vere che Renzi è inaf­fi­da­bile, si strilla ai poteri forti. Come se Mar­chionne, la finanza inter­na­zio­nale, le ban­che, Con­fin­du­stria, il pre­si­dente della repub­blica, l’industria di stato (e per­fino la mas­so­ne­ria) fos­sero delle mam­mo­lette, come se non fos­sero schie­rati come un sol uomo con il governo Renzi-Alfano, o se pre­fe­rite Poletti-Sacconi.

In que­sta bat­ta­glia per una sini­stra rin­no­vata, plu­rale, ricca di espe­rienze diverse, chiara in alcuni obiet­tivi comuni (non biso­gna essere d’accordo su tutto), noi del mani­fe­sto ci siamo. E ci saremo.

Il nostro gior­nale ha avuto momenti duris­simi nella sua lunga sto­ria. Ma siamo andati oltre le divi­sioni e siamo riu­sciti a supe­rare le difficoltà. Oggi il manifesto è vivo e vegeto e spera di festeggiare la fine dell’anno con l’impresa più grande di tutte: ricomprarci la testata

Siamo con­vinti che le let­trici e i let­tori ci aiu­te­ranno nell’impresa, come hanno sem­pre fatto per­ché sanno che il mani­fe­sto è un bene col­let­tivo: di quelli che lo fanno e di quelli che lo leg­gono, di quelli che ieri erano in piazza. Per­ché è un sog­getto di que­sta sini­stra, una sini­stra con radici pro­fonde, un po’ ere­ti­che, una sini­stra che non separa diritti sociali e diritti indi­vi­duali, libertà e soli­da­rietà, una sini­stra fie­ra­mente dalla parte del torto soprat­tutto quando la ragione dei più, della mag­gio­ranza, si rico­no­sce la tri­nità Renzi-Marchionne-Berlusconi.

postilla

Una riflessione sensata; domande penetranti, sulle quali bisogna riflettere e, se possibile, decidere. Rangeri scrive: dobbiamo «smet­terla di essere solo con­tro il nemico di turno, e met­terci al lavoro per qualcosa». Dobbiamo insomma metterci al lavoro
per qualcosa, raccontare come noi, la nuova sinistra, vogliamo contribuire a un altro cambiamento, alternativo a quello minacciato dai nostri avversari. E allora aggiungo una domanda ulteriore: perché chi si batte per una nuova sinistra non è riuscito a valorizzare e sviluppare quel cambiamento alternativo, radicale ma non utopistico, che è proposto nei documenti fondativi della lista Altra Europa con Tsipras, e anticipata e ripresa in tanti scritti sul manifesto e su altri giornali, da promotori e protagonisti della lista come Guido Viale, Luciano Gallino, Barbara Spinelli?

Intervista di Daniela Preziosi,a un dirigente politico della sinistra che sta meditando ancora sulle sue scelte.

Il manifesto, 3 ottobre 2014. con postilla

L'appello. Nichi Vendola chiama il Pd e la sinistra diffusa: Renzi svolta a destra, lavoriamo tutti insieme. «Il premier a un giro di boa, la nouvelle vague renziana è più a destra di Sacconi. Chiedo a chi fa la battaglia sull’art.18: questa volta andate fino in fondo. Sel non starà in prima fila ma accanto agli altri. La lista Tsipras? Una semina»

Quello di Renzi è «un governo con­ser­va­tore che spara un colpo alla nuca di ciò che resta della civiltà del lavoro». Nichi Ven­dola pesca a piene mani dal suo cane­stro di parole per­ché, spiega, «siamo arri­vati a un punto di svolta», «il dibat­tito sull’art. 18 è una linea di demar­ca­zione che riguarda iden­tità, orgo­glio e senso stesso della parola sini­stra. Quando la sini­stra diventa aso­ciale è meglio chia­marla destra». Lan­cerà que­sta pro­po­sta alla mani­fe­sta­zione di domani a Roma. In mat­ti­nata la for­ma­liz­zerà alla dire­zione del par­tito: «Met­tiamo Sel a dispo­si­zione, come uno stru­mento, un lie­vito, un ter­reno di incon­tro per una parte del Pd, i movi­menti, le asso­cia­zioni della sini­stra dif­fusa e del sindacato»,per com­bat­tere insieme l’agenda eco­no­mica del governo Renzi. Con il mani­fe­sto Ven­dola è ancora più espli­cito: è «l’inizio di un per­corso con un futuro più lungo» e la richie­sta «a tutti di fare una bat­ta­glia vera, di por­tarla fino in fondo».

Ven­dola, pre­para un nuovo big bang a sinistra?
La mia pro­po­sta è lavo­rare per una coa­li­zione dei diritti e del lavoro, che abbia la capa­cità di ren­dere sem­pre più stretto il legame fra i diritti sociali e i diritti civili.

È un invito alla sini­stra Pd a uscire dal par­tito? Tutti, o quasi, hanno già detto che saranno fedeli ’alla ditta’, per dirla con Bersani.
Ber­sani sta facendo la sua lotta poli­tica nel suo par­tito. Da altre parti si legge anche altro. Non intendo inter­fe­rire nelle que­stioni interne al Pd, ma mi rivolgo a tutti quelli che sanno che siamo a un giro di boa della sto­ria e della cul­tura di que­sto paese. Pro­pongo di costruire qual­cosa di nuovo, non di assem­bleare le schegge scon­fitte della sinistra.

Allora è un invito a Pippo Civati, che sarà sul palco con lei?Tutti coloro che dal Pd muo­vono una cri­tica radi­cale al ren­zi­smo e alla deriva a destra di que­sto governo sono inter­lo­cu­tori pre­ziosi. Pro­pongo loro di lavo­rare insieme, anche da diverse posta­zioni. Non li voglio iscri­vere a Sel, metto a dispo­si­zione Sel per costruire qualcos’altro. Sel non vuole stare in prima fila, ma accanto a tutti coloro che si sen­tono impe­gnati in un pro­cesso indi­spen­sa­bile al paese, non al ceto politico.

Con­cre­ta­mente que­sta ’coa­li­zione’ cosa farà?
Intanto il 4 otto­bre fac­ciamo un’iniziativa insieme, con per­sone diverse, pro­prio per­ché nella sini­stra ci sono tante cose, tante idee, tante testi­mo­nianze. Hanno il difetto di essere spar­pa­gliate, fram­men­tate, a volte in sonno da troppo tempo. Si tratta di riag­gre­garle in un pro­getto che non abbia nes­suna tor­sione mino­ri­ta­ria e testi­mo­niale, lon­tano dalla trap­pola per cui o c’è il gover­ni­smo o c’è il mino­ri­ta­ri­smo. Rimet­tiamo in campo le forze che par­lino il lin­guag­gio di una sini­stra moderna, che non si sente custode di nes­suna orto­dos­sia ma che sia pro­ta­go­ni­sta di un cambiamento.

’Cam­biare’ è un verbo ren­ziano, ormai.
Dob­biamo libe­rare que­sta e altre parole dalla reto­rica misti­fi­cante del ren­zi­smo. Mando una let­tera a Renzi: “Caro Mat­teo, c’era un tempo in cui quando si diceva ’riforma’ si par­lava di qual­cosa che miglio­rava le vite: pensa al diritto di fami­glia, alla riforma sani­ta­ria, a quella psi­chia­trica. Oggi quando si evoca la parola riforma si parla sem­pre e solo di qual­cosa che ti spo­glia di un diritto”.

Renzi pro­mette che il jobs act darà diritti e tutele a chi non li ha.
Renzi dice tutto e il con­tra­rio di tutto, è un calei­do­sco­pio di slo­gan. Sta con Hol­lande ma anche con Came­ron. Dice a Mer­kel ’non trat­tarci come sco­la­retti’ ma poi come uno sco­la­retto dice ’rispet­te­remo il 3 per cento’.

Par­lava delle «schegge scon­fitte della sini­stra». Si rife­ri­sce alla Lista Tsi­pras? Vi sen­tite ancora impe­gnati in quel percorso?
Credo che quell’esperienza sia stata posi­tiva dal punto di vista della mobi­li­ta­zione e delle ener­gie, soprat­tutto quelle gio­va­nili. È stato un segnale di cam­bia­mento. Ha cor­ri­spo­sto a un sen­ti­mento e a un biso­gno che c’era in una parte dell’elettorato. Pur­troppo la sua seconda vicenda, quella dopo il voto, non mi pare che brilli. Nean­che dal punto di vista di come marca la scena del par­la­mento euro­peo. Ma con­ti­nuo a con­si­de­rare quell’esperienza un’importante semina per la sinistra.

Alla riu­nione della dire­zione del Pd D’Alema ha quasi riven­di­cato il refe­ren­dum per allar­gare dell’art.18. Era il 2003, gli allora Ds — come lui — fecero cam­pa­gna con­tro. Che impres­sione le fa?
Io ho par­te­ci­pato a quella cam­pa­gna per esten­dere le tutele a tutti. E ancora oggi penso che nono­stante non si sia supe­rato il quo­rum, il dato dei voti — que­gli 11 milioni per il sì — resta la più grande con­sul­ta­zione di massa, impa­ra­go­na­bile a un son­dag­gio pilo­tato o a un’attività di mar­ke­ting e pro­pa­ganda. Fu un responso straor­di­na­rio, l’espressione di un dif­fuso sen­ti­mento di giu­sti­zia sociale. Forse la odierna deva­stante scena di intere gene­ra­zioni di pre­cari con­sente anche a D’Alema un utile ripen­sa­mento. Quando poi sento gli espo­nenti della nou­velle vague Pd par­lare di art.18 come di un pri­vi­le­gio, rab­bri­vi­di­sco. Licen­zia­mento senza giu­sta causa, quello che Renzi chiama «libertà degli impren­di­tori», vuol dire licen­ziare uno per­ché ha il can­cro, o è gay, una donna per­ché è incinta. Il pri­vi­le­gio sem­mai è l’esercizio arbi­tra­rio di un potere. La nou­velle vague Pd cul­tu­ral­mente sta più a destra di Sac­coni, il peg­gior mini­stro berlusconiano.

Sac­coni lamenta che sull’art.18 il jobs act ora è troppo timido.
I diver­sa­mente ber­lu­sco­niani bat­tono un colpo per ricor­dare che sono un fon­da­mento di que­sta mag­gio­ranza. E lo sono dav­vero. Anche il cro­no­pro­gramma dei mille giorni è scan­dito dalla destra: all’inizio c’è un colpo al cuore dei diritti sociali, in coda forse forse arri­verà una par­venza di diritti civili.

Al senato Sel ha pre­sen­tato oltre 300 emen­da­menti sulla legge delega. Farete ostru­zio­ni­smo?
Lo deci­de­ranno i nostri sena­tori. Io mi auguro di sì.

Fra qual­che mese lascerà la pre­si­denza della Puglia. C’è chi parla di un passo indie­tro, c’è chi dice che ha in testa di tra­sfe­rirsi in Canada, patria del suo Eddy. Cosa farà davvero?
Farò il lea­der di Sel fin­ché i miei com­pa­gni e le mie com­pa­gne me lo faranno fare. Ma non lo intendo come un inca­rico a vita. Quanto al Canada, è nel mio cuore, ma viverci è in con­trad­di­zione con la mia antro­po­lo­gia: sono una crea­tura medi­ter­ra­nea e ho biso­gno del caldo e del mare.

Renzi vuole spia­nare la sini­stra interna al Pd, e quasi quasi ce l’ha fatta. Spia­nerà anche voi?

Il ragazzo si sta impe­gnando molto, ma vedremo. Attra­verso la reto­rica della rot­ta­ma­zione e le altre ope­ra­zioni di tipo pub­bli­ci­ta­rio è riu­scito a sosti­tuire alla dia­let­tica destra-sinistra quella vecchio-nuovo, veloce-lento. Sono cate­go­rie da let­te­ra­tura mari­net­tiana, tutte den­tro un mec­ca­ni­smo di comu­ni­ca­zione veloce, super­fi­ciale e fero­ce­mente gio­va­ni­li­sta. Ma il gio­va­ni­li­smo non è una cul­tura di sini­stra. E ’Gio­vi­nezza’ non è nel nostro reper­to­rio musicale.

postilla
Plagiando Eugenio Montale abbiamo dedicato tre versi ai compagni che restano nel PMR. Li ripetiamo, mutatis mutandis, a Nichi Vendola:
«non so come stremato tu resisti
in questa palude di finanzcapitaliamo

ch'è il partito di cui sei alleato»

«Adesso la sini­stra che non era allora in par­la­mento, assieme a un po’ di depu­tati del Pd rin­sa­viti, a diverse asso­cia­zioni, alla Fiom e ai costi­tu­zio­na­li­sti che non cre­dono troppo nella pro­po­sta di refe­ren­dum abro­ga­tivo già in campo (per­ché limi­tata negli effetti e a rischio boc­cia­tura della Con­sulta) ten­tano la strada della legge costi­tu­zio­nale di ini­zia­tiva par­la­men­tare. Per boni­fi­care l’articolo 81».

Il manifesto, 24 settembre 2014

Che la parola «riforma» ormai non signi­fi­chi più niente, o comun­que niente di buono, lo prova la sto­ria dell’articolo 81 della Costi­tu­zione. «Rifor­mato» in appena sei mesi tra la fine dell’ultimo governo Ber­lu­sconi e la breve sta­gione di Monti. All’apogeo delle lar­ghe intese, il vin­colo del pareg­gio di bilan­cio fu inse­rito nella Carta con 14 voti con­trari su 650, acco­gliendo pro­po­ste con­ver­genti di Ber­lu­sconi e Ber­sani. Nean­che i più ottusi rigo­ri­sti euro­pei chie­de­vano di met­tere il vin­colo diret­ta­mente in Costi­tu­zione; l’Italia minac­ciata di troika volle strafare.

Così oggi Renzi, quando si atteg­gia ad avver­sa­rio dell’austerità, dimen­tica di dire che il nostro paese ha l’austerità scol­pita nella legge fon­da­men­tale. E che il governo la riven­dica, altri­menti avrebbe aggiunto l’articolo 81 alla lista dei qua­ranta e più arti­coli della Carta che sta impo­nendo alle camere di riscri­vere. Adesso la sini­stra che non era allora in par­la­mento, assieme a un po’ di depu­tati del Pd rin­sa­viti, a diverse asso­cia­zioni, alla Fiom e ai costi­tu­zio­na­li­sti che non cre­dono troppo nella pro­po­sta di refe­ren­dum abro­ga­tivo già in campo (per­ché limi­tata negli effetti e a rischio boc­cia­tura della Con­sulta) ten­tano la strada della legge costi­tu­zio­nale di ini­zia­tiva par­la­men­tare. Per boni­fi­care l’articolo 81, ripor­tan­dolo dal pre­cetto ragio­ne­ri­stico di quasi 20 righe che è diven­tato all’originario e sem­plice prin­ci­pio di coper­tura delle spese. Se quella era una «riforma», dob­biamo dun­que affi­darci a una «con­tro­ri­forma» che in realtà ha il segno pro­gres­si­sta del rifor­mi­smo vero e recu­pera i «diritti fon­da­men­tali delle per­sone» al cen­tro della finanza pub­blica. In que­sto modo una legge di bilan­cio che tagliasse i ser­vizi pub­blici essen­ziali e inve­stisse in armi da guerra, per esem­pio, sarebbe cen­su­ra­bile dalla Con­sulta con più cer­tezza di quanto, a parere di diversi costi­tu­zio­na­li­sti, non lo sia già oggi. Anni­chi­lita dalle scon­fitte, la sini­stra trova ancora una volta nella Costi­tu­zione «for­male» e nella bat­ta­glia per la sua piena appli­ca­zione l’ultimo ter­reno di resi­stenza. Magari il primo dal quale ten­tare una mossa.

Una lucida analisi dei poteri che, dissimulati nelle istituzioni dell'UE, stanno distruggendo la democrazia in Europa, e delle menzogne mediante le quali conquista il consenso delle maggioranze.

La Repubblica, 23 settembre 2014

«Quel che sta accadendo è una rivoluzione silenziosa - una rivoluzione silenziosa in termini di un più forte governo dell’economia realizzato a piccoli passi. Gli Stati membri hanno accettato - e spero lo abbiano capito nel modo giusto - di attribuire importanti poteri alle istituzioni europee riguardo alla sorveglianza, e un controllo molto più stretto delle finanze pubbliche». Così si esprimeva il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, in un discorso all’Istituto Europeo di Firenze nel giugno 2010.

Non parlava a caso. Sin dal 2010 la Ce e il Consiglio Europeo hanno avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni Ue, che per la sua ampiezza e grado di dettaglio rappresenta una espropriazione inaudita - non prevista nemmeno dai trattati Ue - della sovranità degli Stati stessi. Non si tratta solo di generiche questioni economiche. Il piano del 2010 stabilisce indicatori da cui dipende l’intervento della Ce sulla politica economica degli Stati membri; indicatori elaborati secondo criteri sottratti a ogni discussione da funzionari della CE. Se gli indicatori segnalano che una variabile esce dai limiti imposti dal piano, le sanzioni sono automatiche. Il piano è stato seguito sino ad oggi da nuovi interventi riguardanti la strettissima sorveglianza del bilancio pubblico, al punto che il ministero delle Finanze degli Stati membri potrebbe essere eliminato: del bilancio se ne occupa la Ce. Il culmine della capacità di sequestro della sovranità economica e politica dei nostri Paesi da parte della Ue è stato toccato nel 2012 con l’imposizione del trattato detto fiscal compact , che prevede l’inserimento nella legislazione del pareggio di bilancio, «preferibilmente in via costituzionale». I nostri parlamentari, non si sa se più incompetenti o più allineati sulle posizioni di Bruxelles, hanno scelto la strada del maggior danno - la modifica dell’art. 81 della Costituzione.

Questi sequestri di potere a carico dei singoli Stati non sono motivati, come sostengono le istituzioni europee, dalla necessità di combattere la crisi finanziaria. I supertecnici della Ce (sono più di 25mila), ma anche di Fmi e Bce, mostrano di essere dilettanti allo sbaraglio. L’aumento del debito pubblico degli Stati dell’eurozona, salito dal 66% del 2007 all’86% del 2011, viene imputato dalle istituzioni europee a quello che essi definiscono il peso eccessivo della spesa sociale nonché al costo eccessivo del lavoro. Oltre a documenti, decreti, direttive, ad ogni occasione essi fanno raccomandazioni affinché sia tagliata detta spesa. Pochi giorni fa Christine Lagarde, direttrice del Fmi, insisteva sulla necessità di tagliare le pensioni italiane, visto che rappresentano la maggior spesa dello Stato. Dando mostra di ignorare, la dotta direttrice, che i 200 miliardi della ordinaria spesa pensionistica sono soldi che passano direttamente dai lavoratori in attività ai lavoratori in quiescenza. Il trasferimento all’Inps da parte dello Stato di circa 90 miliardi l’anno non ha niente a che fare con la spesa pensionistica, bensì con interventi assistenziali che in altri Paesi sono a carico della fiscalità generale.

Dinanzi ai diktat di Bruxelles, il governo italiano in genere batte i tacchi e obbedisce, a parte qualche alzar di voce di Renzi. Le prescrizioni contenute nella lettera del 2011 con cui Olli Rhen, allora commissario all’economia della Ce, esigeva riforme dello Stato sociale sono state eseguite. La “riforma” del lavoro di cui si discute in questi giorni potrebbe essere stata scritta a Bruxelles. Nessuno di questi interventi ha avuto o avrà effetti positivi per combattere la crisi; in realtà l’hanno aggravata. Combattere la crisi non è nemmeno il loro scopo. Lo scopo perseguito dalle istituzioni Ue è quello di assoggettare gli Stati membri alla “disciplina” dei mercati. Oltre che, più in dettaglio, convogliare verso banche e compagnie di assicurazione il flusso dei versamenti pensionistici; privatizzare il più possibile la Sanità; ridurre i lavoratori a servi obbedienti dinanzi alla prospettiva di perdere il posto, o di non averlo. Il vero nemico delle istituzioni Ue è lo stato sociale e l’idea di democrazia su cui si regge; è questo che esse sono volte a distruggere.

Si può quindi affermare che la Ue sarebbe ormai diventata una dittatura di finanza e grandi imprese, grazie anche all’aiuto di governi collusi o incompetenti? Certo, il termine ha lo svantaggio di essere già stato usato dalle destre tedesche, le quali temono — nientemeno — che la Ue faccia pagare alla Germania le spese pazze fatte dagli altri Paesi. Peraltro abbondano i termini attorno all’idea di dittatura: si parla di “fine della democrazia” nella Ue; di “democrazia autoritaria” o “dittatoriale” o di “rivoluzione neoliberale” condotta per attribuire alle classi dominanti il massimo potere economico.
Il termine potrà apparire troppo forte, ma si dia un’occhiata ai fatti. I poteri degli Stati membri di cui le istituzioni europee si sono appropriati sono superiori, per dire, a quelli dei quali gode in Usa il governo federale nei confronti degli Stati federati.

Le persone che decidono quali poteri lasciarci o toglierci, sono sì e no alcune dozzine: sei o sette commissari della Ce su trenta; i componenti del Consiglio Europeo (due dozzine di capi di Stato e di governo); i membri del direttivo della Bce; i capi del Fmi, e pochi altri. Tutti, intendiamoci, immersi in trattative con esponenti del mondo politico, finanziario e industriale, in merito alle quali disposizioni della direzione Ce impongono che i cittadini europei non ne sappiano nulla sino a che non si è presa una decisione. Non esiste alcun organo elettivo - nemmeno il Parlamento Europeo — che possa interferire con quanto tale gruppo decide.

Pare evidente che la Ue abbia smesso di essere una democrazia, per assomigliare sempre più a una dittatura di fatto, la cui attuazione - come vari giuristi hanno messo in luce - viola perfino i dispositivi già scarsamente democratici dei trattati istitutivi. La dittatura Ue potrebbe essere tollerabile se avesse conseguito successi economici. Italiani e tedeschi hanno applaudito i loro dittatori per anni perché procuravano lavoro e prestazioni da stato sociale. Ma le politiche economiche imposte dal 2010 in poi hanno provocato solo disastri. Quali sciagure debbono ancora accadere, quali insulti l’ideale democratico deve ancora subire, prima che si alzi qualche voce - meglio se sono tante - per dire che di questa Ue dittatoriale ne abbiamo abbastanza, e che se uscirne oggi può costare troppo caro è necessario rivedere i trattati, prima di assicurarci decenni di recessione e di servitù politica ed economica?

Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2104.

Chissà come saranno fischiate le orecchie ai vari Bersani, D’Alema, Civati, Fassina, Chiti, Bindi, Cuperlo, Cofferati e ai tanti altri che nel Pd non intendono piegarsi all’editto di Matteo Renzi sull’abolizione dell’articolo 18. E chissà come si comporterà adesso la minoranza formata dai 110 deputati e senatori democratici decisa a dare battaglia nelle aule parlamentari sul Jobs Act, ma anche sulla legge di Stabilità, quando ieri sera si è vista arrivare tra capo e collo il super editto di Giorgio Napolitano. Perché se il Colle intima lo stop ai “corporativismi e conservatorismi” che impediscono l’avvio di “politiche nuove e coraggiose per la crescita e l’occupazione” c’è poco da fare. O si piega la testa e ci si ritira in buon ordine o si prosegue la battaglia in un clima di caccia alle streghe.

Perché nella lunga storia repubblicana mai era accaduto che il confronto democratico nella stessa maggioranza e nello stesso partito subisse una pressione così prepotente e su materie sensibili come i diritti e il lavoro a opera del suo stesso e premier in combutta con il Quirinale. Appena la sinistra pd e la Cgil hanno provato a dire che sui licenziamenti senza garanzie non erano d’accordo, cosa del tutto naturale, è partita la katiuscia. Con tanto di videomessaggio alla nazione, Renzi si è scagliato contro la «vecchia guardia che vuole lo scontro ideologico», mentre con metodi da prefetto di disciplina la Serracchiani ha ricordato ai reietti «di essere stati eletti con e grazie al Pd» quando peraltro segretario non era Renzi, ma Bersani. Poiché non era bastato a fermare la fronda, ecco che scende in campo il capo dello Stato, che da tempo ha smesso i panni del super partes per schierarsi con il patto del Nazareno. Gli è andata bene quando ha spinto per la riduzione del Senato a ente inutile. Meno quando ha preteso l’elezione dell’indagato Bruno e di Violante alla Consulta. Adesso entra a gamba tesa nel dibattito interno del Pd e sulle decisioni del Parlamento. Metodi non da democrazia costituzionale, ma da libero Stato di bananas.

«La pro­po­sta di ini­zia­tiva legi­sla­tiva popo­lare rap­pre­senta dun­que l’indicazione di una nuova rotta. Un per­corso arti­co­lato che potrà essere imboc­cato solo se si saprà costruire un con­senso dif­fuso, uni­ca­mente se verrà accom­pa­gnato da un’ampia, con­vinta e attiva par­te­ci­pa­zione. Nulla garan­ti­sce infatti il suc­cesso».

Il Manifesto, 23 settembre 2014 (m.p.r.)

Ora vediamo chi vuole cam­biare dav­vero. L’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare che vuole assi­cu­rare il rispetto dei diritti fon­da­men­tali anche nelle fasi di crisi eco­no­mica rap­pre­senta una pro­po­sta di vera rot­tura con il pas­sato. Non si limita a cri­ti­care l’introduzione del prin­ci­pio del pareg­gio di bilan­cio nella nostra Costi­tu­zione, si spinge a indi­care una strada alter­na­tiva. La riforma costi­tu­zio­nale appro­vata nel 2012 quasi all’unanimità dal nostro par­la­mento è pre­sto assurta a sim­bolo dell’incapacità della poli­tica di gover­nare i pro­cessi eco­no­mici e finanziari.

S’è trat­tato di una rispo­sta pura­mente ideo­lo­gica (il neo­li­be­ri­smo come unica razio­na­lità pos­si­bile) ad una crisi di sistema che ha con­ti­nuato ad avvi­tarsi su se stessa. Ora, con la pro­po­sta di modi­fica di tre arti­coli della Costi­tu­zione, si vuole cam­biare radi­cal­mente il punto di vista per ten­tare di uscire dalla reces­sione, che non è solo eco­no­mica, ma è soprat­tutto cul­tu­rale. Non è una pro­spet­tiva vel­lei­ta­ria quella che si pro­spetta. Si radica, invece, nel solco del costi­tu­zio­na­li­smo moderno, risco­pren­done le vir­tua­lità eman­ci­pa­to­rie. È alla sto­ria poli­tica e sociale che biso­gna rico­min­ciare a guar­dare, da tempo offu­scata dall’autoreferenzialità della poli­tica inca­pace di con­tra­stare la logica distrut­tiva del mer­cato spe­cu­la­tivo. Occorre tor­nare ai diritti.

Persi nei fumi dell’ideologia, tra­sci­nati dal vento impe­tuoso del tempo, troppo a lungo abbiamo scor­dato che alla base del vivere civile, a fon­da­mento del patto sociale, si pone il rispetto dei diritti fon­da­men­tali, non l’equilibrio finan­zia­rio. Se c’è una lezione da trarre dalla sto­ria poli­tica del costi­tu­zio­na­li­smo moderno è che la garan­zia dei diritti deve essere assi­cu­rata, altri­menti la società civile «non ha una costi­tu­zione» (così espli­ci­ta­mente nella dichia­ra­zione del 1789), e si torna allo stato di natura dove pre­vale la legge del più forte (eco­no­mi­ca­mente, oltre che mili­tar­mente). Solo l’hobbesiana pro­tec­tio può legit­ti­mare la richie­sta di oboe­dien­tia, solo il rispetto dei diritti può giu­sti­fi­care i doveri sociali. Nelle costi­tu­zioni del secondo dopo­guerra que­sto dato fon­da­tivo delle società moderne ha por­tato ad affer­mare il prin­ci­pio di «indi­spo­ni­bi­lità» dei diritti fon­da­men­tali ed il pri­mato della per­sona. Prio­rità da far valere anche sull’economia, soprat­tutto sull’economia, la quale non può essere rap­pre­sen­tata come espres­sione di un «ordine natu­rale», ma è anch’essa frutto di un «ordine giu­ri­dico». Dun­que, mani­fe­sta­zione di scelte di poli­tica eco­no­mica che con­for­mano un par­ti­co­lare assetto d’interessi, a disca­pito di altri. Opzioni — que­sto è il punto — che non sono com­ple­ta­mente libere.

E’ il nostro sistema costi­tu­zio­nale ad avere indi­vi­duando i prin­ci­pali limiti pro­prio nella «libertà, sicu­rezza e dignità umana», nell’esigenza di assi­cu­rare una «esi­stenza libera e digni­tosa», nei «doveri inde­ro­ga­bili di soli­da­rietà poli­tica, eco­no­mica e sociale». In que­sto senso può cer­ta­mente affer­marsi che in uno stato costi­tu­zio­nale «sull’economia pre­val­gono i diritti». Ed è entro que­sto con­te­sto costi­tu­zio­nale che si alter­nano i diversi cicli eco­no­mici, quelli più favo­re­voli e quelli meno.

È evi­dente, infatti, che l’espansione dei diritti richiede ingenti risorse eco­no­mi­che, per­tanto da tempo si rico­no­sce che i «diritti che costano» (pra­ti­ca­mente tutti i diritti hanno un costo) sono finan­zia­ria­mente con­di­zio­nati. Ciò non toglie però che anche in una fase di crisi eco­no­mica — soprat­tutto in fasi in cui le risorse sono limi­tate — diventa vitale assi­cu­rare una tutela pri­vi­le­giata ai diritti fon­da­men­tali, i quali devono pre­va­lere sulle garan­zie pre­state ad ogni altro inte­resse. Ed è que­sto il senso pro­fondo che si pone a fon­da­mento dell’iniziativa popo­lare. Essa rap­pre­senta una rot­tura di con­ti­nuità con il più recente pas­sato che ha invece inver­tito le prio­rità tra diritti e eco­no­mia, ponendo i primi al ser­vi­zio della seconda. Nel 2012 que­sta pre­tesa ha assunto le vesti della revi­sione costi­tu­zio­nale con l’inserimento di un prin­ci­pio «sov­ver­sivo» (in senso stret­ta­mente eti­mo­lo­gico) del sistema di garan­zia dei diritti costi­tu­zio­nal­mente defi­niti. Un prin­ci­pio che si è dimo­strato fal­li­men­tare per le stesse ragioni dello svi­luppo eco­no­mico, oltre che per la garan­zia dei diritti.

Non si tratta ora sem­pli­ce­mente di tor­nare indie­tro, bensì di svi­lup­pare nel segno del cam­bia­mento i diversi prin­cipi del costi­tu­zio­na­li­smo moderno. Ciò che si pro­pone è un altro approc­cio alla revi­sione costi­tu­zio­nale; diverso rispetto da quello sin qui pra­ti­cato da un ceto poli­tico intento a sman­tel­lare pro­gres­si­va­mente le con­qui­ste di civiltà che la lotta per i diritti ha sto­ri­ca­mente affer­mato e la nostra Costi­tu­zione ha giu­ri­di­ca­mente impo­sto. Con que­sta ini­zia­tiva si vuol dimo­strare che dalla Costi­tu­zione (dai suoi prin­cipi fon­da­men­tali) si può ripar­tire per tra­sfor­mare la società e la poli­tica ita­liana; che essa non è un osta­colo bensì il fat­tore di cam­bia­mento più vitale.

Non ser­vono molte parole per affer­mare un prin­ci­pio di cam­bia­mento radi­cale. Anche in que­sto può pla­sti­ca­mente rin­ve­nirsi una diver­sità di stile — che è anche di sostanza — con il revi­sio­ni­smo costi­tu­zio­nale che è alle nostre spalle. Si guardi a tutte le «grandi riforme» che, dalla Com­mis­sione bica­me­rale del 1993 ad oggi, hanno cer­cato di met­tere le mani sulla Costi­tu­zione: un pro­flu­vio di parole senza la soli­dità di un prin­ci­pio. Si esa­mini l’attuale pro­po­sta in discus­sione di modi­fica pre­sen­tata dall’attuale governo rela­tiva al senato e al Titolo V: un insieme di dispo­si­zioni informi, spesso tra loro in con­trad­di­zione. Si leg­gano i nuovi arti­coli scritti dai neo-revisori costi­tu­zio­nali (dal ridon­dante art. 111 all’ingestibile art. 117): lun­ghi elen­chi di incerto valore e dif­fi­cile appli­ca­zione. E, infine, si con­fronti nel merito la for­mu­la­zione ragio­nie­ri­stica e con­ta­bile del prin­ci­pio di «pareg­gio di bilan­cio» con quella pro­po­sta dall’iniziativa popo­lare: l’innovazione si sostan­zia nell’eliminazione di tutte le con­tro­verse regole di equi­li­brio finan­zia­rio, sosti­tuite dal lim­pido prin­ci­pio costi­tu­zio­nale del rispetto dei diritti fon­da­men­tali delle per­sone che deve con­for­mare la legge di attua­zione alla quale si rin­via per la defi­ni­zione dei vin­coli eco­no­mici (com­presi quelli di bilan­cio). Rea­li­sti­ca­mente non si esclude dun­que che quest’ultimi deb­bano ope­rare, si afferma «sem­pli­ce­mente» che que­sti devono ope­rare nel rispetto del prin­ci­pio di tutela dei diritti.

Un ritorno non solo al diritto, ma anche alla lun­gi­mi­ranza dei prin­cipi, che val­gono per il lungo periodo e non pos­sono venir schiac­ciati sulla con­tin­genza (eco­no­mica, poli­tica o cul­tu­rale). È sem­pre stata que­sta la forza delle costi­tu­zioni che aspi­rano «all’eternità», che non si limi­tano a legit­ti­mare la poli­tica, ma – con ben altra ambi­zione – pre­ten­dono di defi­nire il qua­dro e i limiti entro cui si dovrà poi svi­lup­pare la dina­mica poli­tica e il con­flitto sociale («l’essenza e il valore della democrazia»).

È del tutto evi­dente – almeno per chi prende sul serio i diritti – che le costi­tu­zioni neces­si­tano di essere attuate. Non basta cioè l’affermazione del prin­ci­pio (di pre­va­lenza dei diritti fon­da­men­tali delle per­sone, nel nostro caso) per­ché esso possa rite­nersi rea­liz­zato. La lunga lotta per l’attuazione costi­tu­zio­nale – che può assu­mere forme diverse e non tutte pre­ven­ti­va­mente deter­mi­na­bili – rap­pre­senta il cuore di quel che potremmo chia­mare il diritto costi­tu­zio­nale vivente. Non è pos­si­bile qui ricor­dare le mol­te­plici forme che ha assunto la con­ti­nua ten­sione tra costi­tu­zione e sua rea­liz­za­zione. Ciò che deve però almeno essere chia­rito è che anche la lotta per la rea­liz­za­zione dei prin­cipi è assog­get­tata al diritto. Tant’è che sarà un giu­dice (la Corte costi­tu­zio­nale) e non la poli­tica (il governo ovvero il par­la­mento) ad avere l’ultima parola.

Non tutto, dun­que, potrà venire risolto nep­pure con l’auspicata appro­va­zione di una legge costi­tu­zio­nale come quella pro­po­sta. Imme­dia­ta­mente dopo si dovrà pen­sare a come dare attua­zione al prin­ci­pio costi­tu­zio­nale nella legge gene­rale di con­ta­bi­lità e finanza pub­blica, cui si rin­via per la defi­ni­zione nor­ma­tiva dei vin­coli di bilan­cio; si ren­derà neces­sa­rio vigi­lare sulle pub­bli­che ammi­ni­stra­zioni che dovranno garan­tire la soste­ni­bi­lità del debito «nel rispetto dei diritti fon­da­men­tali delle per­sone»; si dovrà pre­ten­dere l’attribuzione di risorse pub­bli­che per gli enti ter­ri­to­riali, i quali dovranno assi­cu­rare la tutela dei diritti sociali e civili «comun­que suf­fi­cienti a garan­tire in cia­scuna parte del ter­ri­to­rio nazio­nale i livelli essen­ziali delle pre­sta­zioni». La riforma costi­tu­zio­nale non potrà di per sé far venir meno la nor­ma­tiva euro­pea di rigore finan­zia­rio e gli obbli­ghi che il nostro paese con­ti­nua a sot­to­scri­vere. Anche guar­dando all’Europa dun­que sarà neces­sa­rio ope­rare con stru­menti giu­ri­dici ade­guati che favo­ri­scano la par­te­ci­pa­zione dei cit­ta­dini e il supe­ra­mento delle poli­ti­che neo­li­be­ri­ste dei governi (una Ini­zia­tiva dei Cit­ta­dini Euro­pei – ICE – potrebbe essere seria­mente presa in considerazione).

La pro­po­sta di ini­zia­tiva legi­sla­tiva popo­lare rap­pre­senta dun­que l’indicazione di una nuova rotta. Un per­corso arti­co­lato che potrà essere imboc­cato solo se si saprà costruire un con­senso dif­fuso, uni­ca­mente se verrà accom­pa­gnato da un’ampia, con­vinta e attiva par­te­ci­pa­zione. Nulla garan­ti­sce infatti il suc­cesso. La rac­colta delle firme neces­sa­rie per incar­di­nare la discus­sione presso le camere, l’incerto seguito par­la­men­tare, le inat­tuali mag­gio­ranze richie­ste per l’approvazione della legge costi­tu­zio­nale sono tutti osta­coli che si frap­pon­gono alla volontà di un cam­bia­mento radi­cale dello stato di cose pre­senti. È però anche una grande occa­sione per risol­le­vare il capo e ten­tare d’uscire dai sot­to­suoli ove le forze disperse della sini­stra si sono rin­ta­nate. Un’oppor<CW-11>tunità per ripren­dere il filo di un discorso inter­rotto. Certo, può sem­pre dirsi che «avremo biso­gno di ben altro», di una stra­te­gia com­ples­siva, di sog­getti sociali con­so­li­dati, di orga­niz­za­zioni ade­guate, di lea­der rap­pre­sen­ta­tivi e auto­re­voli, di una società civile con­sa­pe­vole, di una cul­tura alter­na­tiva ege­mone, di una soli­da­rietà e un rico­no­sci­mento col­let­tivo. È vero, avremmo biso­gno di tutto que­sto. E in assenza di tali pre­sup­po­sti tutto è più com­pli­cato. Ma anche per que­sto è urgente ricor­dare che la garan­zia dei diritti fon­da­men­tali delle per­sone e la fis­sa­zione di limiti ai poteri dell’economia e della finanza rap­pre­sen­tano valori indi­spo­ni­bili entro uno stato di demo­cra­zia costi­tu­zio­nale. È neces­sa­rio ini­ziare a costruire un’altra idea di società civile, in cui il mer­cato si ponga al ser­vi­zio dei diritti. La pro­po­sta di legge costi­tu­zio­nale di ini­zia­tiva popo­lare è solo un primo movi­mento di una ancora ine­splo­rata stra­te­gia com­ples­siva; un pic­colo passo che però può aprire ad un radi­cale cam­bia­mento di rotta. Credo ci si possa pro­vare.
A chi esita, a chi ci chiede se in que­ste con­di­zioni dif­fi­cili valga la pena ancora impe­gnarsi, non pos­siamo che ripe­tere: «Que­sto tu chiedi. Non aspet­tarti nes­suna rispo­sta oltre la tua».

«Da Abu Ghraib ai reporter sgozzati. Cosa resta di un principio che infonde leggi e costituzioni. Il problema dei nostri tempi: tanto più un concetto è generale e astratto, tanto meno è determinato in particolare e in concreto. A seconda dei punti di vista culturali, ideologici, morali gli si possono assegnare contenuti diversi».

La Repubblica, 12 settembre 2014

Lo spirito del nostro tempo è orientato alla dignità, come un tempo lo fu alla libertà, all’uguaglianza davanti alla legge, alla giustizia sociale. Tutti s’ispirano, o dicono d’ispirarsi, alla dignità degli esseri umani, soprattutto dopo lo scempio che ne hanno fatto i regimi totalitari del secolo scorso. Tutto bene, allora? Finalmente un concetto e una concezione dell’essere umano – un’antropologia – in cui si esprime un valore sul quale tutti non possiamo che concordare? Un pilastro sul quale un mondo nuovo può essere costruito? Cerchiamo di darci una risposta, lasciando da parte le buone intenzioni, le illusioni.

La legge fondamentale tedesca inizia proclamando la dignità umana «intoccabile». La nostra Costituzione la nomina a diversi propositi. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del dicembre 1948 si apre con la “considerazione” che «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Sulla scia di questa convinzione, non c’è Costituzione successiva che non renda omaggio anch’essa alla dignità umana. E non c’è trattazione di temi etici e giuridici in cui la dignità non assuma il significato onnicomprensivo della “dimensione dell’umano”, della sua ricchezza, della sua libertà morale e fisica, dell’inviolabilità del corpo e della mente, dell’autodeterminazione, dell’uguaglianza, della socialità, della “relazionalità”, fino al vertice kantiano dell’essere umano sempre come fine e mai (soltanto) come mezzo. L’appello alla dignità sembra, dunque, l’argomento finale, decisivo, in tutte le questioni controverse in cui è in questione l’immagine che l’essere umano ha di se stesso, cioè la sua autocomprensione.

Ma il fatto che d’un concetto si possa fare un uso tanto largo e, soprattutto, incontestato è un segno di forza o di debolezza del concetto stesso? Purtroppo, di debolezza: tanto più il concetto è generale e astratto, tanto meno è determinato in particolare e in concreto. A seconda dei punti di vista culturali, ideologici, morali gli si possono assegnare contenuti diversi. Questo vale per la libertà: libertà di e da che cosa? Per l’uguaglianza: rispetto a che e in che cosa? Per la giustizia: con riguardo ai bisogni o ai meriti? Per la dignità è lo stesso: degno di che cosa? Di questo genere di principi, tanto più se ne celebra la generale validità, tanto più li si svuota. I criteri assoluti (di libertà, di uguaglianza, di giustizia) sono tutti privi di contenuto. Si prenda la libertà (ma lo stesso esercizio si potrebbe fare per la giustizia o l’uguaglianza). Già Montesquieu, realista e nemico dei voli pindarici, aveva osservato ( Lo spirito delle leggi , libro XI, cap. II): «Non c’è parola che abbia ricevuto tanti significati e che abbia colpito l’immaginazione in modi tanto diversi, quanto la libertà. Gli uni l’hanno presa come facilità di liberarsi di coloro ai quali avessero attribuito poteri tirannici; altri, come facoltà di eleggere coloro ai quali dovessero obbedire; altri, come diritto di portare le armi e di esercitare la violenza; alcuni, come privilegio di non essere governati che da uomini della propria nazione o dalle proprie leggi; una certa popolazione come l’abitudine di portare lunghe barbe» (allusione ironica ai Moscoviti, che non perdonarono la decisione di Pietro il Grande, presa nel 1698, di farli rasare). Se avessimo voglia di leggere il Mein Kampf di Hitler, troveremmo che per lui la libertà, anzi la “sete di libertà” aveva a che fare con l’intolleranza fanatica, il militarismo, la purezza della razza, il giovanilismo, la liberazione dal peso della cultura, la fedeltà, l’abnegazione, la fede apodittica, il disprezzo del pacifismo e dello spirito ugualitario, l’espansionismo, la sopraffazione del più debole da parte del più forte. In una parola: l’uomo libero come “super- uomo”, “belva bionda”, “signore della terra”. Che cosa ha a che vedere questo modo d’intendere la libertà con, ad esempio, il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti », o con «la verità vi farà liberi » (Gv 8,32)? Nulla.

Non serve a superare le ambiguità e i dilemmi e a contenere i dissidi insistere quindi sull’elevatezza della dignità come principio della convivenza, innalzarlo a “trascendentale umano”, a “concezione antropologica”. Sottolineo questo punto, perché troppo facilmente ci facciamo accecare dalle belle parole, le quali spesso, tanto più sono belle, tanto più facilmente contengono concetti molto “disponibili”. Quello che ci deve mettere in allarme è la reversibilità dei valori, nel loro uso pratico.

A questo proposito, lo sguardo sulle pratiche del nostro mondo nuovo ci lascia interdetti, anzi inorriditi. Così accade davanti alle sconvolgenti immagini dei due reporter di guerra, James Foley e Steven Sotloff legati, inginocchiati, tenuti diritti dal boia ricoperto dalla tunica nera da cui appaiono solo occhi senza volto e mano armata del coltello, pronta allo sgozzamento. Sul terreno propriamente militare, l’assassinio di questi due uomini non ha evidentemente alcun significato. Ne ha uno grande e tremendo sul terreno psicologico. La guerra psicologica, un tempo, si faceva con altri mezzi: volantini, trasmissioni radio, disfattismo… Oggi si fa col coltello che taglia le gole messo in rete.

La guerra psicologica si avvale della violazione della dignità come arma, e tanto più cresce nelle nostre coscienze il valore dell’essere umano, tanto più la crudeltà si presenta nuda, priva di giustificazioni rispetto a presunte colpe della vittima e tanto più la vittima è scelta a caso, ignara e inerme, quanto più l’orrore è grande ed efficace. Ora siamo ai reporter, di cui si ha un bel dire ch’erano lì per ragioni non di collaborazione col nemico e che erano, in questo senso, “innocenti”. L’innocenza non interessa affatto ai carnefici. La vittima è un anonimo esemplare; non è una persona cui si accolli qualche sua colpa. Lo sgozzamento non è l’esecuzione d’una sentenza di condanna. Anzi, si potrebbe aggiungere che tanto più grande è l’innocenza, quanto maggiore è l’efficacia. Arriveremo a donne e, chissà, a bambini mostrati col coltello al collo?

Queste vittime sono tutte «sotto un dominio pieno e incontrollato », per usare le parole di Aldo Moro dal carcere delle Br, il 29 marzo 1978. Ma Moro apparteneva al fronte nemico. Qui ciò che conta è l’orrore come tale, l’orrore che, come lo sguardo di Medusa, paralizza i destinatari del messaggio. L’assassino si presenta come super-eroe, capace dell’ultra-umano, cioè di farsi beffe dell’ultima frontiera dell’umano, di un suo anche minimo contenuto di valore. Nell’umiliazione della vittima resa impotente, l’aguzzino trova l’esaltazione del suo ego: tra le montagne dell’Iraq, come nel carcere di Abu Ghraib e in tante altre situazioni d’illimitata sopraffazione. Solo che qui c’è l’esibizione dell’inumanità avente, come fine, la ripugnanza, lo sconvolgimento, la paralisi morale. Adriana Cavarero, qualche anno fa, ha analizzato con profondità questa mutazione genetica del terrorismo in “orrorismo” ( Orrorismo, ovvero della violenza, Feltrinelli, 2007). Le considerazioni di questo libro sono, per una parte, constatazioni, per un’altra, spaventose profezie.

Nelle immagini che abbiamo davanti agli occhi è espresso quello che potremmo chiamare il paradosso della dignità: più alto è il valore violato, più alta è la capacità aggressiva della violazione. Paradossalmente, se la vita non valesse nulla, non ci sarebbe ragione di violarla. Non ci si scandalizzerebbe delle immagini che abbiamo negli occhi se la dignità non rappresentasse per noi uno dei sommi va- lori ai quali non siamo disposti a rinunciare. Forse, gli assassini non penserebbero che la scena che quelle immagini trasmettono possa avere un qualche significato nella guerra psicologica ch’essi intraprendono. La dignità dà forza al suo opposto. Il delitto vi trova il suo alimento. E il nutrimento è dato proprio dal valore che attribuiamo alla vittima.

Siamo di fronte alla fragilità del bene, alla fragilità della dignità come bene sommo dell’essere umano. Un libro famoso che tratta della virtù porta, per l’appunto, come titolo La fragilità del bene ( il Mulino, 1996). L’autrice, Martha Nussbaum, discute di fortuna, di vulnerabilità, d’incertezza dell’esistenza. La virtù, come il fragile germoglio della vite, è esposta a ogni genere d’intemperie e d’imprevisti. Ma, qui siamo di fronte a qualcosa in più, alla ricattabilità: il bene è ricattabile proprio perché è bene e c’è chi gli si sente obbligato. Se non te ne importasse nulla, potresti passare davanti all’ignominia senza muovere un ciglio. I virtuosi sono più fragili dei cattivi, perché il bene è ricattabile dai suoi nemici, mentre il male non lo è.

L’orrore, se non cadiamo nell’indifferenza dell’assuefazione, induce a ripagare con la stessa moneta, cioè con altro orrore. Ciò dimostra quale fragile barriera sia il valore della dignità che ci protegge dalla barbarie. C’è una via che non sia né l’indifferenza, né la ritorsione? C’è la possibilità che non ci si abbandoni, a propria volta, alla violenza indiscriminata e dimostrativa che accomuna nella stessa sorte innocenti e colpevoli, cioè alla guerra che travolge gli uni con gli altri? Sì, c’è, ed è la responsabilità che si fa valere nelle sedi della giustizia. Dignità, responsabilità e giustizia si tendono la mano.

«Diario di bordo di un sindacalista rientrato nel luogo di lavoro: la Biblioteca Ariostea di Ferrara. Tra mini voucher ai pensionati e cooperative di servizi, la lotta di classe alla rovescia entra anche tra incunaboli e volumi dell’epica rinascimentale».

Il manifesto, 11 settembre 2014, con postilla

Palazzo Para­diso è la sede cen­trale del polo biblio­te­ca­rio di Fer­rara, il mio posto di lavoro ori­gi­na­rio, dove sono rien­trato dopo molti anni di distacco sin­da­cale, gra­zie al governo Renzi. È un palazzo bello e impo­nente, sito in pieno cen­tro sto­rico, fatto costruire nel 1391 da Alberto V d’Este e che deve pro­ba­bil­mente il pro­prio nome a un ciclo di affre­schi ispi­rato ad esso.

In que­sti anni di lon­ta­nanza da que­sto luogo, i miei ricordi forse non me lo raf­fi­gu­ra­vano in que­sto modo, ma cer­ta­mente mi riman­da­vano a un mondo un po’ a parte, un po’ ovat­tato, pre­ser­vato dal gorgo della post­mo­der­nità, pre­si­diato da stu­diosi e ricer­ca­tori inte­res­sati alle vicende dell’Orlando Furioso e dell’epopea uma­ni­stica — rina­sci­men­tale. In que­sta sug­ge­stione ovvia­mente c’entrava il fatto che la biblio­teca Ario­stea svolge sì fun­zione di pre­stito libra­rio «clas­sico», ma è forte di un patri­mo­nio di circa 100.000 volumi anti­chi, tra cui molti incu­na­boli e rari.

Sono stato asse­gnato, in que­sti giorni in via tem­po­ra­nea, al ser­vi­zio di prestiti-rientri dei libri, nel cosid­detto front-office con il pub­blico. Siamo poco meno di una decina su due turni di lavoro, a rico­prire tale ruolo, appena suf­fi­cienti a rispon­dere a un’affluenza di per­sone, soprat­tutto stu­denti uni­ver­si­tari, che mi dicono essere deci­sa­mente cre­sciuta in que­sti anni.

Accanto a noi, addetti a dare infor­ma­zioni al pub­blico, e al piano di sopra, con com­piti pre­va­len­te­mente di guar­dia­nia dei locali museali, ci sono i volon­tari dell’Auser, affi­liata allo Spi-Cgil. Sono un certo numero, si alter­nano in circa una ven­tina su tre turni. Dopo un po’ rea­lizzo che sono volon­tari un po’ spe­ciali: pen­sio­nati che inte­grano il loro red­dito, che non ci vuole molto a capire non è quello delle pen­sioni d’oro o d’argento, con un rim­borso che può arri­vare a circa 200 euro men­sili, sem­pre che sia sup­por­tato da cor­ri­spon­denti scon­trini che giu­sti­fi­chino le spese soste­nute. Una spe­cie di vou­cher che, per esem­pio, come mi spiega Rosa che lavora di fianco a me, con­sente di andare dal par­ruc­chiere visto che per svol­gere il lavoro di acco­glienza è giu­sta­
mente rico­no­sciuto che biso­gna pre­sen­tarsi bene.

Poi, al mat­tino, appena prima dell’apertura al pub­blico, pas­sano le donne delle puli­zie, rigo­ro­sa­mente dipen­denti di una coo­pe­ra­tiva, che, come mi fa pre­sente una di loro, gira per 4–5 «can­tieri» — così li chiama — al giorno. Avanti e indie­tro tutto il giorno tra casa e luo­ghi di lavoro diversi: per for­tuna che Fer­rara è un faz­zo­letto e in un quarto d’ora di bici­cletta vai da un capo all’altro della città.

In que­sto puzzle del lavoro, non vedo un’altra tipo­lo­gia clas­sica, quella dei lavo­ra­tori delle coo­pe­ra­tive sociali che affian­cano i lavo­ra­tori pub­blici, facendo lo stesso lavoro ma pagati meno. Però — tran­quilli — anch’essi, in pas­sato, hanno popo­lato que­sto luogo, in una fase di rela­tivo incre­mento del lavoro, per poi spa­rire quando le esi­genze di ulte­riore rispar­mio hanno ripreso il soprav­vento. In com­penso, non ci sono ancora i grup­petti di disoc­cu­pati e extra­co­mu­ni­tari che però sta­zio­nano nei mesi inver­nali, quando fa più freddo, nei locali d’ingresso della biblio­teca, creando qual­che pro­blema di con­vi­venza — solo rara­mente di «ordine pub­blico» — con gli abi­tuali fre­quen­ta­tori di que­sto luogo civico.

Non c’è che dire: un bello spac­cato di un lavoro che è stato fram­men­tato, che ne ha rotto i legami sociali e di soli­da­rietà, che lo priva di senso gene­rale e lo svalorizza.Certo, si coglie ancora una rela­zione di inte­resse e rico­no­sci­mento reci­proco all’interno di que­sta pic­cola e diver­si­fi­cata comu­nità , ma a me appare più il lascito in via d’estinzione di una cul­tura frutto di un glo­rioso pas­sato — quella civile e soli­dale che ha accom­pa­gnato il «modello emi­liano», anch’esso ormai esau­rito — piut­to­sto che un’acquisizione pro­iet­tata nel futuro.

Del resto, se l’imperativo è il taglio della spesa pub­blica, che sarebbe di per sé impro­dut­tiva, anche il lavoro ad essa col­le­gato non può che sog­gia­cere ad esso. Non importa se poi tutto ciò pro­duce impo­ve­ri­mento, disu­gua­glianza e distru­zione della coe­sione sociale. Se rimane, alla fine, la soli­tu­dine com­pe­ti­tiva dell’individuo di fronte al mer­cato e la con­trap­po­si­zione tra penul­timi e ultimi. Sem­mai, quello che impres­siona è, come dice in que­sti giorni il pre­mier Renzi, biso­gna pro­se­guire su que­sta strada e, anzi, raf­for­zarla. Per­ché, sem­pre secondo il suo lucido pen­siero, c’è ancora «molto grasso da tagliare».

Forse anche a lui, sem­pre che ce l’abbia mai avuto, non farebbe male rientrare in un posto di lavoro subor­di­nato. Potrebbe vedere un mondo un po’ rove­sciato, ma pro­ba­bil­mente più veri­tiero delle slide con cui ci inonda da un po’ di mesi in qua.

postilla

Corrado Oddi è stato tra i più attivi ed efficaci organizzatori del referendum per l'acqua pubblica. Ha svolto quel suo rilevante impegno sociale in quanto dirigente della CGIL, e quindi potendo godere del "privilegio" del distacco sindacale. Non c'è bisogno di essere maliziosi per comprendere il nesso tra l'obbligato ritorno di Corrado al lavoro d'ufficio e il suo ruolo di promotore di importanti lotte sociali di civiltà. E' amaro constatare che simili eventi si manifestano a causa delle decisioni di un governo che molti continuano a definire "di centro sinistra" , se non addirittura "di sinistra"

C'è qualcuno, in Italia, che vuole recuperare il ritardo della cultura nostrana rispetto a quella degli altri paesi del Primo e del Terzo mondo, nella ricerca sul lascito del grande intellettuale comunista. Si comincia dalle parole chiave. "ege­mo­nico/subal­terno", "ideo­lo­gia/ege­mo­nia", "società civile". Auguri di buon lavoro. Un articolo di Paolo Ercolani e un'intervista a Gianni Francioni.

Il manifesto, 9 settembre 2014

Le parole chiave della scuola estiva dedicata a Gramsci
di Paolo Ercolani
Pochi altri autori, al pari di Anto­nio Gram­sci, sono oggi in grado di susci­tare un inte­resse che varca i con­fini nazio­nali e, al tempo stesso, di for­nire validi stru­menti di com­pren­sione per un’epoca, quella della glo­ba­liz­za­zione, che sem­pre più sta sacri­fi­cando intere masse popo­lari sull’altare della teo­lo­gia eco­no­mica. Una teo­lo­gia che, alla stre­gua di tutte le dei­fi­ca­zioni, si serve di sacer­doti illu­sori e dis­si­mu­la­tivi come la dema­go­gia e il popu­li­smo, ben capaci di uni­for­mare menti e corpi sotto l’insegna ruti­lante di un pen­siero unico che mal tol­lera le cri­ti­che.
Ben con­sa­pe­vole che «se i gover­nati ne pos­sono sapere quanto i gover­nanti, le illu­sioni sono rese impos­si­bili», il teo­rico sardo ha saputo coniu­gare il nerbo della pro­pria spe­cu­la­zione (e atti­vità poli­tica) con un mes­sag­gio «peda­go­gico» ben pre­ciso: quello per cui «vera filo­so­fia può essere solo quell’attività politico-intellettuale-morale che met­tendo in campo, in qual­siasi con­te­sto sto­ri­ca­mente deter­mi­nato, il più ampio vet­tore pos­si­bile di uni­ver­sa­liz­za­zione, ha come scopo del suo agire la pro­du­zione della sog­get­ti­vità capace d’iniziativa sto­rica», per usare le parole illu­mi­nanti di Roberto Finelli.
Con que­sti pre­sup­po­sti ha preso ieri il via la prima scuola inter­na­zio­nale di studi gram­sciani (Ghi­larza Sum­mer School, Gss), ad opera della Fon­da­zione isti­tuto Gram­sci, della Casa museo di Anto­nio Gram­sci e dell’«International Gram­sci Society», e su ini­zia­tiva di un corpo docenti di tutto rispetto: James But­ti­gieg (Uni­ver­sity of Notre Dame, Indiana/Usa), Giu­seppe Cospito (Uni­ver­sità di Pavia), Gianni Fran­cioni (Uni­ver­sità di Pavia), Fabio Fro­sini (Uni­ver­sità di Urbino), Mar­cus E. Green (Otter­bein Uni­ver­sity, Usa), Guido Liguori (Uni­ver­sità della Cala­bria), Gian­carlo Schirru (Uni­ver­sità di Cas­sino), Gio­vanni Seme­raro (Uni­ver­si­dade Fede­ral Flu­mi­nense, Rio de Janeiro), Peter D. Tho­mas (Bru­nuel Uni­ver­sity, Lon­dra), Giu­seppe Vacca (Fon­da­zione isti­tuto Gram­sci, Roma).
Resa pos­si­bile da un finan­zia­mento della Fon­da­zione Banco di Sar­de­gna, la Gss si con­clu­derà il 12 set­tem­bre, carat­te­riz­zan­dosi come pas­sag­gio di un pro­getto che aspira a diven­tare per­ma­nente, riu­nendo ogni anno i mag­giori spe­cia­li­sti inter­na­zio­nali (in fun­zione di docenti) e quin­dici allievi sele­zio­nati con un pub­blico bando in tutto il mondo. I quin­dici stu­denti sono com­po­sti da 12 donne e 3 uomini com­presi fra i 23 e i 41 anni. Sette ita­liani, cin­que bra­si­liani, un argen­tino, un inglese e un mes­si­cano, da ieri appro­fon­di­ranno la cono­scenza di un grande inter­prete ita­liano del Nove­cento come Anto­nio Gram­sci.
«La nostra ambi­zione – spiega Fabio Fro­sini, fra i mem­bri del comi­tato docente – è quella di diven­tare il punto di rife­ri­mento mon­diale per gli studi gram­sciani; non sola­mente luogo d’incontro e di col­la­bo­ra­zione dei più impor­tanti stu­diosi di Gram­sci, ma anche lo spa­zio in cui la tra­di­zione storico-filologica ita­liana potrà fecon­da­mente dia­lo­gare con l’approccio teo­rico e ana­li­tico domi­nante nel mondo anglo­fono».
Le atti­vità della Gss si con­cen­tre­ranno ogni anno su una cate­go­ria del pen­siero di Gram­sci, scelta tra le più rile­vanti e influenti. Al ter­mine di ogni edi­zione della scuola verrà pro­dotto un volume mono­gra­fico che rac­co­glierà i risul­tati più impor­tanti del lavoro svolto. Tema di quest’anno è ege­mo­nico/subal­terno, men­tre nel 2015 si affron­te­ranno i lemmi ideo­lo­gia/ege­mo­nia e nel 2016 società civile.


Antonio Gramsci, lo straniero made in Italyintervista a Gianni Francioni

Anto­nio Gram­sci, con una forza spe­cu­la­tiva e coe­renza esi­sten­ziale dif­fi­cil­mente egua­glia­bili, è stato colui che ha mostrato al mondo come l’individuo che agi­sce pos­se­dendo una teo­ria che sup­porti tale azione (nesso inscin­di­bile e reci­proco di teo­ria e pra­xis), smette per ciò stesso di essere un ingra­nag­gio di ideo­lo­gie, dogmi e super­sti­zioni che vor­reb­bero degra­darlo da fine a mezzo per scopi che non sono i suoi. Qui ritro­viamo anche il suo mes­sag­gio peda­go­gico. Ne par­liamo con Gianni Fran­cioni, sto­rico della filo­so­fia a Pavia e tra i fon­da­tori della Ghi­larza Sum­mer School, la prima scuola inter­na­zio­nale di studi gramsciani.
Quale ritiene sia il metodo oppor­tuno con cui cogliere l’insegnamento essen­ziale del teo­rico sardo, in un con­te­sto così auto­re­vole e ambizioso?
Come per tutti i «clas­sici», anche Anto­nio Gram­sci può e deve essere letto in ogni epoca e da ogni angolo visuale con la mas­sima libertà. Ciò che la Ghi­larza Sum­mer School (Gss) si pre­figge, è di dare un con­tri­buto affin­ché tutto ciò sia rea­liz­za­bile nelle migliori con­di­zioni. Di più: la Gss aspira a diven­tare il punto di rife­ri­mento degli «studi gram­sciani» nel mondo. Si è discusso molto, qual­che anno fa, su come si dovesse «stu­diare» Gram­sci, oscil­lando tra un approc­cio totus poli­ti­cus e uno, quasi per con­trac­colpo, «depo­li­ti­ciz­zato». Ma è un’alternativa sba­gliata: trat­tare Gram­sci come un clas­sico non signi­fica con­fi­narne il lascito in uno spa­zio boni­fi­cato, paci­fi­cato. Al con­tra­rio, nella Gss rite­niamo che stu­diare i testi di Gram­sci e la loro col­lo­ca­zione nel tempo che fu loro, con gli stru­menti della cri­tica filo­lo­gica e della sto­ria del pen­siero, sia una pre­con­di­zione affin­ché la loro poli­ti­cità possa emer­gere con net­tezza, e il let­tore possa oggi avere tutti gli stru­menti per apprez­zarne il signi­fi­cato. Un’operazione demo­cra­tica, anti-retorica e, se vuole, anti-autoritaria.
In que­sti tempi di anni­ver­sari si stanno cele­brando le figure sto­ri­che del comu­ni­smo ita­liano, a par­tire da Togliatti e Ber­lin­guer. Ma la figura di Gram­sci, tra i fon­da­tori del Pci, non è meno impor­tante, tanto che a livello inter­na­zio­nale si mol­ti­pli­cano gli studi sul suo pen­siero e la sua azione politica.
Cer­ta­mente, anche se su que­sto punto pro­ba­bil­mente occorre distin­guere Gram­sci in quanto co-fondatore del PCd’I nel 1921, suo ri-fondatore nel 1923–26 e infine in quanto autore dei Qua­derni del car­cere. Quest’ultimo Gram­sci, come rico­nobbe Pal­miro Togliatti nel 1964, non appar­tiene sola­mente al Pci ma anche alla cul­tura ita­liana (e oggi pos­siamo senz’altro aggiun­gere euro­pea e mon­diale). È neces­sa­rio anche aggiun­gere che gra­zie a Gram­sci pos­siamo oggi rileg­gere le vicende del comu­ni­smo mon­diale dell’età di Sta­lin sfug­gendo alle clas­si­che alter­na­tive tra mar­xi­smo orien­tale o occi­den­tale, tra Sta­lin e Troc­kij, tra dit­ta­tura e demo­cra­zia. Il pro­getto dei Qua­derni fa emer­gere in modo asso­lu­ta­mente impar­ziale gran­dezza e limiti di quella sta­gione. Un fatto, mi pare, straor­di­na­rio, soprat­tutto se con­si­de­riamo la dif­fi­coltà che un com­pito del genere pre­senta agli sto­rici odierni.
Alcune inter­pre­ta­zioni recenti, a dire il vero sol­tanto ita­liane, hanno pro­po­sto un Gram­sci in forte con­tra­sto con Togliatti e con l’ortodossia comu­ni­sta in genere. Fino a par­lare di un approdo del pen­sa­tore sardo alla teo­ria libe­rale, con tanto di un Qua­derno ine­dito, sapien­te­mente nasco­sto dalla diri­genza comu­ni­sta, in cui egli avrebbe mani­fe­stato tutto il pro­prio dis­senso. Lei cosa ne pensa?
Sul pre­teso mistero del qua­derno scom­parso mi sono pro­nun­ciato pub­bli­ca­mente in un arti­colo pub­bli­cato dal quo­ti­diano l’Unità il 2 feb­braio 2012. Lì chia­rivo che il salto di nume­ra­zione dei qua­derni da parte di Tatiana accade per un suo errore mate­riale nel momento in cui, dopo la morte di Gram­sci, intra­prende la cata­lo­ga­zione del suo lascito. Pre­fe­ri­sco non tor­nare sui det­ta­gli di quella spie­ga­zione. Del resto, si può dispu­tare solo se tra i dispu­tanti – come ben sape­vano Ari­sto­tele e dopo di lui gli sco­la­stici – esi­stono comuni pre­sup­po­sti meto­do­lo­gici. In ogni caso, la com­mis­sione per lo stu­dio dei qua­derni gram­sciani, nomi­nata dalla Fon­da­zione Isti­tuto Gram­sci e della quale ho fatto parte insieme a Franco Lo Piparo, Luciano Can­fora, Giu­seppe Cospito, Fabio Fro­sini e Giu­seppe Vacca, è giunta ad accer­tare cir­co­stanze mate­riali che avva­lo­rano la mia tesi: Tatiana com­mette nume­rosi errori nell’etichettatura, torna indie­tro, rinu­me­rando vari qua­derni e finendo per aumen­tare la con­fu­sione. Al di là di que­ste con­sta­ta­zioni, non vedo come si possa soste­nere scien­ti­fi­ca­mente qual­che altra posizione.
Il tema por­tante di que­sto primo anno acca­de­mico riguarda due lemmi cen­trali nel pen­siero di Gram­sci: egemonia/subalternità. Quanto mai attuali in que­sta epoca di ritorno del popu­li­smo e della dema­go­gia. Come li affronterete?
È fon­da­men­tale con­si­de­rare il popu­li­smo e la dema­go­gia «gram­scia­na­mente», cioè come feno­meni impor­tanti, addi­rit­tura cen­trali nella poli­tica del XX e del XXI secolo (per come finora lo cono­sciamo). Come feno­meni, oso aggiun­gere, che richie­dono tutta la nostra ener­gia men­tale per affer­rarne la novità, il signi­fi­cato di novità (come Gram­sci fece negli anni Trenta dello scorso secolo). Detto ciò, non credo che nes­suno di noi imma­gini facili scor­cia­toie che con­du­cano dal testo dei Qua­derni a que­sto nostro mondo «grande e terribile».
In ambito inter­na­zio­nale (area anglo-indiana e anglo-americana) si è andata costruendo un’immagine del pen­sa­tore sardo che fini­sce col resti­tuir­celo for­te­mente cam­biato rispetto a come lo abbiamo cono­sciuto e stu­diato. Come vi col­lo­cate, voi della Scuola, rispetto a que­sto «Gram­sci glo­bale» che sem­bra emer­gere dagli studi stranieri?
Cre­diamo che gli studi gram­sciani deb­bano essere posti su di una base scien­ti­fica: di ciò vi è urgente biso­gno, anche per aiu­tare il «Gram­sci glo­bale» che oggi ritorna in Ita­lia dalle tra­du­zioni inglesi a cam­mi­nare su gambe più solide, e nutrirsi cioè di rife­ri­menti sto­rici meno super­fi­ciali ed estem­po­ra­nei. Ma cre­diamo anche che ciò possa acca­dere se i due ver­santi – sto­rico e teo­rico – sono por­tati a dia­lo­gare e a con­trarre obbli­ghi reci­proci. L’obiettivo che ci pre­fig­giamo è esat­ta­mente questo.
Su quali lemmi vi impe­gne­rete nei pros­simi anni e quali sono, in genere, gli argo­menti e le que­stioni su cui rite­nete che occorra con­cen­trare gli studi rispetto a un pen­sa­tore così cen­trale e con­tro­verso della sto­ria poli­tica e filo­so­fica internazionale?
Gram­sci è senza alcun dub­bio un pen­sa­tore cen­trale nel dibat­tito filo­so­fico e poli­tico inter­na­zio­nale, anche se l’Accademia ita­liana, sem­pre più chiusa nel suo orti­cello con­chiuso, sem­bra non riu­scire ad accor­ger­sene. Abbiamo pre­vi­sto di dedi­care il pros­simo anno alla que­stione dell’ideologia e il suc­ces­sivo alla società civile. Sono argo­menti di cui si dibatte, spesso con scarsa cogni­zione di causa. For­mando i gio­vani ricer­ca­tori di tutto il mondo, la nostra «offi­cina» intende get­tare i semi di una discus­sione e soprat­tutto di ricer­che future che squar­cino il velo delle frasi fatte, e inau­gu­rino, a par­tire dalle nuove forze, una sta­gione anch’essa nuova, all’insegna della sobrietà e dell’antiretorica
Un ottimo esempio di sponsorship corretta. Ma si può prescindere dalla personalità dello sponsor? Se altrove fosse un malfattore? E, guardando più a fondo nel passato: chi era di Gaio Cilnio Mecenate e quale fu il suo ruolo?

Il Fatto quotidiano, 6 settembre 2014

Il più virtuoso esempio di sponsorizzazione del patrimonio culturale italiano

Ieri Eni ha comprato una pagina dei quotidiani nazionali per presentare il progetto di restauro della Basilica di Collemaggio a L’Aquila, duramente colpita dal terremoto del 2009. Eni è lo sponsor tecnico del progetto, nel quale sta investendo 14 milioni di euro. «Recuperare la Basilica – si leggeva – significa dare un segno di speranza alla comunità aquilana: è per questo che l’Eni ha deciso di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo mettendo a disposizione i suoi tecnici … e costituendo una ‘squadra’ di eccellenza per la progettazione». Al progetto stanno collaborando strettamente la Soprintendenza architettonica dell’Aquila (guidata dalla preparatissima Alessandra Vittorini), e tre università (quella dell’Aquila, la Sapienza di Roma e il Politecnico di Milano), oltre alla amministrazione comunale.

L’impeccabile stile istituzionale (e per nulla ‘aziendalistico’) della pagina rispecchia l’altissima qualità del progetto, e il suo spirito civico. E il contratto di sponsorizzazione non riserva cattive sorprese: siamo molto lontani da quello per il restauro del Colosseo, in cui lo Stato si è genuflesso di fronte aDiego Della Valle. Non per caso Eni – che è la più grande impresa italiana– non è un privato: per il 30% è ancora pubblica, e una golden share ne affida il controllo al governo italiano.

Probabilmente per questo le contropartite assicurate dallo sponsee (cioè dal Comune) sono accettabili: «Nel complesso monumentale e nell’area circostante verranno definiti dei luoghi dove, oltre alla presenza del marchio Eni, potranno essere comunicati i lavori di restauro e il loro stato di avanzamento», «a conclusione dei lavori, una targa perenne riportante il ruolo di Eni alla realizzazione del progetto sarà posizionata all’ingresso della Basilica in forme compatibili con il carattere storico-artistico, l’aspetto e il decoro dell’immobile», e ci sarà la «possibilità di organizzare eventi, nel rispetto della sacralità dei luoghi e nei tempi e modi preventivamente concordati tra le Parti, all’interno del complesso monumentale della Basilica». Semmai la richiesta di dedicare a Enrico Mattei il parco antistante alla Basilica appare, francamente, un po’ eccessiva.

Il "ma": che fa l'ENI nel mondo?

Tutto bene, dunque? Da un punto di vista interno direi di sì: si tratta probabilmente del più virtuoso esempio di sponsorizzazione del patrimonio culturale italiano. Ma c’è un ‘ma’: un ‘ma’ più generale e profondo. Eni è un’azienda controversa, sul piano etico. Nel maggio del 2013, in occasione dell’assemblea generale degli azionisti Eni, Amnesty International ha presentato un report molto severo. A proposito dell’industria del petrolio nel delta del Niger, Amnesty «ha documentato una serie di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani direttamente collegate alle modalità operative delle industrie petrolifere», tra le quali Eni. D’altra parte, «il devastante impatto dell’inquinamento derivante dall’industria del petrolio è stato rilevato dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente». In particolare, «riguardo al gas flaring, sebbene Eni rinnovi annualmente i suoi impegni di ridurre l’utilizzo di tale pratica, l’azienda non ha mai pubblicato dati comparabili ed esaustivi riferiti alla Nigeria, né informazioni relative alle valutazioni dell’impatto che tali torce hanno avuto e avranno sulla salute delle persone che vivono nelle comunità vicine alle torce».

In più, Amnesty ha ricordato che «Eni ha concordato con le autorità statunitensi di pagare una somma di 365 milioni di dollari come forma di patteggiamento per il caso di corruzione relativo all’impianto di gas liquefatto di Bonny Island, nel Delta del Niger ». E che «a febbraio le autorità giudiziarie di Milano hanno comunicato ufficialmente che lo stesso AD Scaroni [oggi sostituito da Emma Marcegaglia] è sotto inchiesta per una ipotetica tangente di 197 milioni di dollari versata fra il 2009 e il 2010 per un corposo affare dal valore di oltre 11 miliardi di dollari. Anche su un possibile caso di corruzione in Kazakistan relativo all’aggiudicazione dei contratti dell’impianto di Karachaganak e del progetto di Kashagan vede attivi gli inquirenti kazaki e italiani».

Ora, il contratto dice che Eni ha sponsorizzato il restauro di Collemaggio per «un significativo ritorno di immagine volto a rafforzarne il valore e la reputazione aziendale». La domanda è: è giusto che ciò che accade nel delta del Niger venga coperto da ciò che avviene all’Aquila? È giusto che un monumento pubblico ed edificio sacro di valore simbolico straordinario sia associato perennemente al nome controverso dell’Eni? La sua carta etica proibisce al Louvre di accettare donazioni da imprese per il cui operato esista «un dubbio di legalità»: noi intendiamo porci il problema?

La parola "mecenatismo": chi era Mecenate?

Il sostantivo ‘mecenatismo‘ viene dal cognome di Gaio Cilnio Mecenate, uno degli uomini chiave della legittimazione culturale del potere di Augusto. Il ricco e colto Mecenate seppe mettere uomini della levatura universale di Orazio e Virgilio al servizio della costruzione di un impero. Augusto usò in modo straordinariamente intelligente la retorica del bene comune e della pubblica magnificenza per innestare senza traumi una sostanziale monarchia sul ceppo della repubblica. Grazie a una fitta rete di facoltosissimi privati egli restaurò i templi antichi, trasformò in spazi pubblici sontuose residenze private, lasciò di marmo la Roma che aveva trovato di mattoni: ma tutto questo ebbe un prezzo, e quel prezzo fu la libertà dei cittadini. Forse non lo sappiamo, ma quando invochiamo il mecenatismo non invochiamo una favola a lieto fine, ma una storia complessa, con i suoi rischi e i suoi lati oscuri. La storia dell’arte è in grande parte la storia dell’autorappresentazione delle classe dominanti, e per un lungo tratto i suoi monumenti hanno legittimato un potere non meno controverso di quello dell’Eni.

Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati. Siamo proprio sicuri di voler tornare indietro?

I sottotitoli sono di eddyburg

Bene un nuovo New Deal per l’Altra Europa
ma non quello di Junker
di Alfonso Gianni

Ho letto con attenzione l’articolo di Barbara Spinelli pubblicato sul Manifesto. Barbara conclude con una frase che meriterebbe qualche ulteriore chiarimento: “Resta la promessa di un comune piano d’investimenti nell’economia reale, pari a 300 miliardi di euro su 3 anni: una sorta di New Deal che Juncker ha esposto al Parlamento europeo, favorito in questo dai governi di Italia e Francia (è quanto va chiedendo l’Iniziativa cittadina che porta lo stesso nome: New Deal for Europe). Con che mezzi lo si voglia attuare non è chiaro - mentre l’Iniziativa cittadina chiede una duplice tassa comunitaria sulle transazioni finanziarie e sull’emissione di anidride carbonica – ma appoggiarlo sarebbe già un primo passo.”

A quanto so – ma le mie informazioni possono essere incomplete e superate il piano Juncker appare alquanto generico; ad esempio viene citata la tradizionale voce infrastrutture. Ma cosa significa in concreto? La specificazione su quali infrastrutture stiamo parlando è decisivo per capire se si tratti di cosa buona o cattiva. Inoltre Barbara fa presente la questione del reperimento delle risorse. Juncker ha parlato di Banca per gli investimenti europei (BEI) e di bilancio europeo, che come sappiamo è molto striminzito (tanto è vero che noi proponiamo almeno di quintuplicarlo), oltre che di un mix tra investimenti pubblici e privati (questi ultimi dove e come?), mentre l’Ice cui abbiamo aderito parla esplicitamente di Tobin tax e di carbon tax. Ovvero in questo caso il finanziamento di un simile piano sarebbe a carico della speculazione finanziaria e di chi peggiora l’ambiente. Non si tratta di differenze da poco. Ma allora perché “appoggiare” , seppure come primo passo, il piano Juncker e non invece criticarlo fin da subito nel merito, sviluppando la giusta idea di un New Deal basato su nuovi investimenti, con forme di finanziamento aggiuntive (perché provenienti da nuovo tassazioni che colpiscono il capitale) e su un’idea diversa di sviluppo sociale e quindi di settori da incrementare? O no?

D’accordo
ma l’importante è cominciare
diBarbara Spinelli

Caro Alfonso, ti ringrazio innanzitutto per aver letto con attenzione l'articolo sul Manifesto. Capisco che la formulazione sul Piano Juncker di investimenti comunitari possa esserti sembrata ambigua, ma lo spazio che mi è stato dato dal giornale imponeva una sintesi. L'articolo era il sunto del discorso iniziale che ho pronunciato davanti ai ministri e sottosegretari per gli affari europei dell'Unione: a quella platea ho detto che un loro unanime appoggio allo stanziamento di una somma importante per lo sviluppo sarebbe un primo passo in direzione del cambio di politica che auspichiamo (l'appoggio in effetti stenta a venire: per il momento Italia e Francia spingono in questa direzione, ma timidamente e confusamente).

Al tempo stesso, ho tuttavia espresso con molta chiarezza il mio (e nostro, immagino) punto di vista in proposito: i soldi che Juncker e alcuni governi dicono di voler mobilitare non sono sufficienti, se interverrà solo la Banca europea degli investimenti, e considerato il fatto che le risorse comuni dell'Unione sono state addirittura decurtate dai ministri. E ho fatto mio il piano dell'Iniziativa cittadina New Deal 4 Europe, secondo il quale devono esser messe a disposizione ulteriori risorse della Banca di investimenti, questo sì, ma soprattutto vanno introdotte due tasse a mio avviso generatrici non solo della crescita in sé, ma di uno sviluppo diverso, ecologico e non più basato sulla finanziarizzazione dell'economia (tassa sulle transazioni finanziarie e carbon tax). Per fortuna l'accenno alle due tasse è rimasto nel testo del Manifesto.

postilla

Il commento di Alfonso Gianni e la replica (meglio, la precisazione, poiché tra i due interventi non ci sono differenze di posizione) costituiscono l’occasione per riprendere un tema a mio parere centrale nella proposta politica della lista “L’altra Europa con Tsipras”. E’ un tema che mi sembra di particolare interesse nel dibatito sul come proseguire, in Italia, quell’esperienza. Mi sembra infatti che proprio grazie a intellettuali italiani si sia dato un contributo importante all’argomento(penso a persone direttamente impegnate nella costruzione di quella lista come Guido Viale e Luciano Gallino, ma anche a numerosi altri che l’hanno sostenuta (da Giorgio Nebbia a Piero Bevilacqua, Da Giorgio Airaudo a Giovanna Ricoveri, per non citare che i primi nomi che mi vengono in mente).

Il dialogo Gianni-Spinelli puà essere insomma l'occasione buona per sviluppare e chiarire che cosa significa per noi qui e oggi questa espressione. Che è oggi, ed era già ai tempi di Roosevelt (e a quelli di Di Vittorio) tutt’altro che un piano di beneficenza internazionale, più o meno “pelosa”,come il “piano Marshall” ma era una iniziativa di una politica nuova che voleva guidare l’economia invece di esserne ancella. Il New Deal può essere quindi l’avvio di un superamento del modo di produzione capitalistico. Alla radice dell’esperienza del New deal di Roosvelt c’è una verità che contrasta con il pensiero corrente, e costituisce la ragione di fondo per la quale tutte le proposte che andavano in questa direzione sono cadute nel vuoto. Proporre lo Stato come il soggetto che determina le scelte della produzione, e introdurre i bisogni collettivi come l’argomento e l’obiettivo del consumo significa infatti indurre una trasformazione radicale (alla radice) del sistema economico-sociale nel quale viviamo: il capitalismo.

Molte cose già scritte dai promotori della Lista Tsipras possono aiutare a comprendere che cosa si può e deve fare a partire da oggi non solo per rilanciare l'occupazione e soddisfare bisogni sociali (di civiltà) che il mercato neanche vede (e quando vede sfrutta), ma per intervenire sul sistema economico-sociale, sul versante della spesa pubblica ma anche su quello delle entrate Esiste già un elenco dei bisogni sociali (e di civiltà)che richiedono l’impiego diforze di lavoro, fisico e intellettuale, capace di soddisfarli. Ed esistono già proposte praticabili per individuare le risorse finanziarie per remunerare una siffatta forza lavoro. Vogliamo lavorare in questa direzione? Questo sito, per quel poco che conta, è aperto a chi voglia proseguire il lavoro in questa direzione.


L'intervento che pubblichiamo è stato inviato alla mailing list dei militanti della lista "l'altra Europa con Tsipras", nella quale è in corso un fervido dibattito sulla prosecuzione, in Italia e in Europa, dell'azione politica iniziata in occasione delle elezioni per il Parlamento europeo. Il titolo, i sottotitoli e i corsivi sono nostri. Altri interventi, oltre a quello di Paolo Cacciari, sono leggibili in calce all'eddytoriale n. 146.

Ho perso un po' di giorni a leggere i vari scambi (sono stato via otto giorni e sono arrivate a metà agosto 139 mail, numeri da record direi). La prima sensazione è stata di profondo spaesamento: sembra che stiamo in questa mailing list avendo fatto cose diverse, avendo lavorato a progetti diversi, insomma per caso, come se non avessimo fatto insieme un'impresa straordinaria (che non è avere preso le firme, il 4,03, ma avere messo le basi per un progetto nuovo). O come se avessimo fatto imprese diverse, o altrimenti che ci incontrassimo per la prima volta. Le lettura del contributo di Salzano e dell'intervista di Zagrebelsky mi hanno un pò chiarito le idee, e provo a dire la mia, ripartendo brevemente da quello che penso e conosco che abbiamo fatto (io conservo le mail, me le archivio, sono andato un pò a rileggerle).

Un po' di storia

Sul finire del 2013 ( quando in Italia c'era una commissione di saggi per la riforma della Costituzione e il governo Letta) viene pensata la proposta di cui io darei questa sintesi.

Quali sono gli elementi che la caratterizzano? In un quadro rivoluzionato ( questa Europa, l'attacco alle Costituzioni e al welfare state pianificato come quadro generale, la debolezza dei partiti italiani e la potenza di Renzi e di Grillo) è necessario cambiare punto di vista, uscire dal pantano italiano e riformulare una proposta ripartendo da un punto di vista generale, dal quadro dei poteri europei e dal dominio della finanza (direi con l'accetta una proposta per dare una risposta a quanto denunciato da Luciano Gallino nel suo libro La lotta di classe dopo la lotta di classe).

Una dimensione europea fondativa quindi, il cui legame con Tsipras e quello che rappresenta è essenziale. Non solo un altro punto di vista quindi, ma bensì un vero e proprio cambio di campo di gioco, reso necessario dalla marginalità in cui dopo la fiammata del 2011 eravamo ridotti, come democratici e sinistra. Marginalità dovuta forse da non avere saputo dare risposta al cambio di quadro dei poteri reali, che ormai sono extranazionali.

Quale è il punto unitario attrattivo? Una risposta democratica radicale alla crisi e all'attacco alla democrazia, alla lotta dell'alto verso il basso.
Il punto di forza è la proposta programmatica, non la mera collocazione ( non basta stare nel mezzo tra Grillo e Renzi per prendere i voti). Una proposta caratterizzata da essere non solo lanciata ma sostenuta dalla gran parte dell'intellettualità italiana avvertita, con un programma generale di medio-lungo periodo, che parlava ad un fronte ampio (da chi aveva votato Pd a chi si era astenuto, i tanti pubblici diversi del nostro elettorato). Il tutto, con la rottura anche formale rispetto ai partiti, ha permesso di recuperare all'impegno anche per la rappresentanza molte parti della cittadinanza attiva (come scrive Salzano) che generalmente saltano le scadenze elettorali. Ed ha aperto un dibattito serio nelle forze politiche che hanno ceduto una cosa fondamentale in questo passaggio, la gestione esclusiva della rappresentanza.
A questa grande forza di elaborazione intellettuale io lego gran parte del consenso elettorale e della qualità programmatica ( lo dico perchè penso che i comitati siano stati importanti ma non sufficienti e penso che le ultime vicende stiano scatenando un anti-intellettualità che per noi può essere mortale).
Così definito il progetto è tutt'altro da esperienze precedenti, elettorali e non elettorali, non è la rete dei movimenti modello social forum, non è la rete dei comitati di lotta, parte dall'Europa e non dal municipio, non è l'unità dei vari pezzi-soggetti della sinistra.
Sulla proposta abbiamo dimostrato una straordinaria capacità organizzativa, rileggendo le mail abbiamo fatto cose con tempi e ritmi folli senza un euro. Su questo torno dopo.
Per me è evidente che non è mai stata una proposta per una mera lista elettorale, ma l'avvio di una proposta generale ambiziosa che fin dalla sua elaborazione superava la scadenza elettorale, andando a ridifinire un nuovo spazio politico e sociale. Una proposta molto definita ma che abbiamo vissuto ed elaborato molto diversamente. Di largo dominio e discussione l'aspetto del"comunismo di guerra" di cui scrive Marco Revelli, molto meno - a mio parere - il profilo innovatore e costituente della proposta.
Una proposta che si è realizzata avendo la convizione di avere nelle mani nient'altro che la forza della proposta e la sensibilità politica di Tsipras. E anche lo stile politico della sua costruzione è stato nuovo, dopo il lancio " a freddo e non concordato", per fare sì che tra gennaio e febbraio tantissime storie e realtà partecipassero alla sfida c'è stata grande attenzione a non chiudere nessuna porta a nessuna storia ( bastava l'adesione al progetto), a non fare analisi del sangue e ad ogni relazione e grande, grandissima pazienza. Insomma abbiamo fatto politica, non esiste solo il bianco e nero, ma esiste anche il processo che sposta le posizioni ( così è stato per SEL- quando leggo di un progetto debole verso SEL sorrido, su SEL siamo stati molto aggressivi e con conseguenze anche dolorose). Lo stile del nostro confronto in questi ultimi periodi in mailing list è tutt'altro da questo, troppo spesso riemergono, anche inconsciamente, i fantasmi della nostra storia ( richiami di ordine, accuse di tradimento, storie di provenienza).
Leggere i documenti

Vi invito ad andare a rileggere i documenti fondamentali della nostra storia

  1. http://listatsipras.eu/chi-siamo/l-appello.html l'appello iniziale
  2. i dieci punti programmatici di Tsipras
  3. le dieci differenze tra noi e gli altri http://listatsipras.eu/chi-siamo/i-dieci-punti.html ( che personalmente considero la cosa più bella che è stata prodotta, primaria redattrice Spinelli, con la definizione più appropriata per noi " Siamo la forza politica alternativa"- che non è un partito ma è già in campo come scrive Raffaella Bolini)
  4. l'elaborazione programmatica http://listatsipras.eu/chi-siamo/programmanew.html
Sono tutti attualissimi, c'è la necessità di aggiornarli a Renzi (che è un vero esponente dell'alto Europeo) e delle guerra, ma sono fondativi di un processo che è al primo passo. Rileggendoli sono tutti da attuare subito. Lo dico con orgoglio, io penso di essere partecipe di un percorso che può veramente cambiare campo di gioco.
Per questo ritorno allo spasaemento di cui scrivevo inziale, le proposte avanzate e il tipo di dibattito ci riportano a proposte nobili - sottolineo nobili- che potevano essere fatte l'anno scorso - nel 2013 - in agosto. Penso che sia molto nobile lavorare alla realtà di comitati territoriali contro gli scempi ecologici, estrattivi e urbanistici, penso che sia altrettanto nobile pensare ad uno spazio di incontro dei movimenti, ma penso che quello che abbiamo messo in campo, altrettanto nobile, sia un'altra cosa.

Su questo punto, volendosi bene, dobbiamo confrontarci, quello che viene avanzato - parlando di forme - da tante persone che stimo (cito Roberta Radich a nome di tutti viste le mail odierne) mi sembra un'altra cosa rispetto al progetto che abbiamo lanciato, non ha come priorità l'Europa e i suoi poteri, ma la rete territoriale che potrebbe definire un soggetto ecologista territoriale.

L'Europa, elemento costituente

L'elemento costituente per me del nostro progetto è la lotta per l'Altra Europa, legato alla lotta del sud Europa e alla proposta innovativa di Tsipras. Se perdiamo questo si riparte dal 2013, si può fare ma è un'altra storia. Ed è per questo che dissento da Salzano e dalla citazione forse troppo letterale di Rodotà, parlare di l'Altra Italia (Lombardia, Toscana, Firenze etc...) è un passo indietro, la nostra dimensione è quella Europea.
Il 19 luglio è stato costruito da un comitato larghissimo in base a questa continuità di percorso, da qui alla fine del 2014 per me è prioritario attuare le proposte programmatiche che abbiamo presentato alle elezioni e fare iniziative e campagne coerenti e sviluppare un'elaborazione sul tema della soggettività politica. Su questo vorrei essere molto chiaro: io sono per un soggetto politico NUOVO, nelle forme e nelle pratiche, ma ora noi, come ben dice Salzano, non siamo un soggetto politico e non c'è ancora una traccia e una elaborazione ( per questo confronto mi sembra pertinente il documento Orsucci Radich che, per onestà, non condivido nella sua impostazione). E, in tempi non biblici, dobbiamo decidere se e come lanciare una fase costituente, che, per un soggetto democratico, comporta una campagna di adesione, regole e selezione della dirigenza e della rappresentanza ( fare elezioni senza corpo sociale non esiste).
La costituzione dei gruppi di lavoro permanenti è per me una scelta forte su cui proseguire, da lì devono nascere le prese di posizione (anche sulle estrazioni e su Tempa Rossa - condivido il merito non il metodo che sembra troppo legato a nostre vicende interne) e il rilancio delle nostre proposte programmatiche.

Su Renzi e Draghi, sull'intervento della Troika che stanno preparando in queste ore, abbiamo i punti più forti di alternativa del programma e parliamo di altro. In questo dobbiamo essere e fare la Forza Politica, prendere parola e azione (di cui scrive sempre Raffaella).
La priorità del 30 [data della prossima assemblea nazionale - n.d.r.]è per me definire un'agenda forte da qui alla fine dell'anno ( io la sintetizzerei in 4 priorità: costituzione comitati referendari in vista del referendum costituzionale, dimensione sociale che prepari sia la manifestazione Fiom, da qui arrivare alla nostra manifestazione di fine anno a chiusura del semestre Renzi, costruire almeno una grande occasione di confronto intellettuale sulla fase politica e Renzi nel quadro europeo con connesso aggiornamento del documento-nostra carta d'indentità).
Farlo e farlo bene può permetterci di dire senza spocchia che siamo il progetto nazionale alternativo che sfiderà Renzi al referendum costituzionale, alla politiche, sulle politiche generali in un quadro europeo. Un progetto che non è ancora soggetto politico e che lo può diventare solo se mantiene una missione chiara e un progetto alto e non viva di sole elezioni. Con questa ambizione e prospettiva, con molto buon senso-consapevolezza delle difficoltà e conoscenza della situazione regionale, si può affrontare brillantemente anche il passaggio delle regionali nel 2014.

Sono convinto che noi esistiamo se stiamo nella lotta per l'Altra Europa, non per altro. Per me quindi il chiarimento di missione-oggetto sociale che sembra smarrito di cui scrive Alfonso Gianni è dirimente, fatto quello l'organizzazione (che tanto sembra preoccupare) è conseguente e facile, ritorno a dire che abbiamo avuto capacità organizzative straordinarie. Su questo sono laico, penso che potrebbe funzionare in coordinamento operativo (che starà al massimo in piedi 3 mesi) di chi segue le varie attività che definiremo e da un gruppo di coordinamento di ogni singolo gruppo di lavoro permanente. Il passaggio dirimente sulle nostra forma e sulle grandi scelte (avvio fase costuituente?) per me dovrà essere la prossima assemblea ( il 19 luglio si era detto che sarebbe stato il punto-tema della prossima assemblea che chiude il 2014 e prepara il 2015) e non vedo elementi perchè non lo sia.
Io sono quindi per continuare sull'impostazione da cui siamo partiti nello scorso inverno e che ci ha portato al 19 luglio, trovando tutte le forme organizzative adatte. Lo dico per convinzione e orgoglio - riuso volutamente questo termine - di quello che abbiamo fatto.
Volevo scrivere poco e con poca passione ma non ci sono riuscito.
NOTA: non ho volutamente parlato del gruppo parlamentare, con i parlamentari stiamo diventando ossessivi (si parla e si scrive solo di loro), faranno benissimo il loro lavoro, aiutiamoli ma non soffochiamoli e giudichiamo ogni 24 ore, facciamoli lavorare nelle modalità di cui scrive Salzano
Troppo lunga questa risposta all'eddytoriale 162 (vedi qui a sinistra) per lasciarla nei "commenti" a pie' di pagina. Troppo utile per relegarla nella corrispondenza privata La inseriamo nella cartella degli "interventi". Si apre così un dibattito che speriamo proseguirà.

Eddy, chiaro e lucido come sempre. Provo ad aggiungere qualche altra considerazione, per tentare di capire come sarebbe meglio procedere.

L’altra Europa è nata con una positiva forzatura “approfittando” di una scadenza elettorale. L’obiettivo minimo è stato raggiunto. Ma è bene riconoscere – come fai tu - che l’esperienza contiene delle ambiguità originarie e prospettive divergenti. Per alcuni (i partiti) la Lista è stata usata come uno strumento specificamente limitato al suo scopo: portare dei loro rappresentanti al Parlamento europeo, e, con ciò, ribadire la loro esistenza. Altri, al contrario, speravano che fosse l’inizio di un processo fusionale che finalmente invertisse la tendenza alle separazioni dei partiti della sinistra. Altri ancora hanno sperato nell’avvio dal basso di una “coalizione sociale” (parole di Rodotà), prima ancora che elettorale, sul modello di Podemos.

Tu dici, giustamente, che serviranno tempo ed esperienze concrete per sciogliere le contraddizioni e capire in quale direzione sceglierà di andare l’esperienza dell’“Altra Europa-Italia” (non abbandonerei la dimensione europea nemmeno nel nome). Ma per riuscirci è necessario esplicitare le opzioni, pronunciarsi ed affrontare i nodi teorici e pratici che ci stanno di fronte. Mi pare infatti evidente che dietro alle varie opzioni possibili vi siano delle “visioni” di fondo che andrebbero messe a tema ed affrontate con la serietà e l’approfondimento necessari. Ad esempio: il rapporto tra politica e movimenti sociali (che poi è il riflesso del rapporto tra democrazia e società civile). Io penso che la “forma partito” tradizionale, sovraordinata e professionalizzata sia da abbandonare in radice. Da ciò derivano opzioni organizzative radicalmente diverse (reti orizzontali, non gerarchiche, capaci di iniziativa autonoma). L’idea della “confederazione delle autonomie sociali” del primo movimento operaio, ma anche di certo cattolicesimo (Capitini) e certo pensiero anarchico(Carlo Levi, Danilo Dolci), ripresa negli studi di Pino Ferraris, può essere messa alla nostra attenzione, o dobbiamo rimanere per sempre prigionieri della nostalgia del “più grande partito comunista d’Europa”?

Secondo: qual è la nostra teoria dello stato nel mondo globalizzato attuale? Pensiamo davvero che le istituzioni politiche rette dal modello della democrazia liberale rappresentativa siano praticabili dalla democrazia autentica (autodeterminazione delle popolazioni)? La smania elettorale, “prendere voti” (qualcuno parlava di una forma di “cretinismo”), non nasconde forse una insufficienza di consapevolezza e una “cattura” anche delle forze sane e critiche nei confronti del capitalismo dentro istituzioni ormai svuotate e asservite al sistema-mondo-liberista? Che significa “andare in parlamento” se non si sa prima che la nostra funzione è quella di fare “irruzioni scandalose” nelle istituzioni per destrutturarle, delegittimarle, dissolverle… ?

Terzo. Che cos’è la democrazia per noi? Manuel Castells parla di “democrazia delle persone”. E’ cioè un modo di praticare le relazioni umane e sociali. Questa democrazia radicale, sociale (diceva Bobbio) è inconciliabile con i rapporti di produzione e di consumo capitalistici (non solo quelli finanziarizzati) dominati dalla coercizione, dal ricatto, dalla violenza. Se non affrontiamo queste questioni rischiamo che perfino il capo della Chiesa cattolica riesca ad essere più convincente di noi.

Per dire, solamente, che, secondo me, l’Altra Europa- Italia potrà decollare solo se saprà accendere un vero dibattito pubblico all’altezza della crisi epocale che attraversa la democrazia. E il compito del gruppo di intellettuali e dei siti che citavi dovrebbe essere proprio questo: tenere alto il confronto culturale sul “sistema dei valori” di riferimento necessari per la trasformazione e il cambiamento.

Un magistrale quadro dei gravissimi rischi della democrazia, e delle ragioni di una giusta vita quotidiana di ciascuno di noi. I puntini di un disegno che per noi ormai è chiaro: unendoli appare l'immagine di un nuovo fascismo.

Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2014

Sono trascorse due settimane dall’approvazione in prima lettura, a Palazzo Madama, della riforma del Senato. Ma, prima di commentarla, il professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, si è preso il suo tempo. Ciò che ne pensa è noto. A marzo ha firmato l’appello di Libertà e Giustizia, di cui è presidente, contro la “svolta autoritaria” segnata dal Patto del Nazareno per il combinato disposto della riforma costituzionale e di quella elettorale (il cosiddetto Italicum), beccandosi del “gufo”, del “professorone” e del “solone”. In aprile ha guidato la manifestazione di L&G a Modena “Per un’Italia libera e onesta”. A maggio ha inviato un lungo testo con una serie di proposte alternative – pubblicato dal Fatto Quotidiano – alla ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, che l’aveva invitato a un convegno di costituzionalisti a cui non aveva potuto partecipare: la ministra s’era impegnata a diffonderlo, ma poi non se n’è più saputo nulla. Ai primi di agosto, nel pieno delle votazioni al Senato, ha scritto un editoriale su Repubblica intitolato La Costituzione e il governo stile executive, in cui ha cercato di spiegare il senso di ciò che sta accadendo. Ora accetta di riparlarne con Il Fatto. A partire dal memorandum 2013 di JP Morgan che, come abbiamo scritto l’altro giorno, presenta straordinarie somiglianze con l’agenda Renzi.

Professor Zagrebelsky, che cosa l’ha colpita di più di quel documento profetico?

Prim’ancora del contenuto, del quale un po’ si è discusso, mi impressiona il fatto stesso che quel documento sia stato scritto. E che la sua esistenza non abbia suscitato reazioni. Non fa scandalo che un colosso della finanza mondiale parli di politica, istituzioni e Costituzioni come se queste dovessero rendere conto agli interessi dell’economia: rendere conto, non solo ‘tener conto’.

È un’intimazione neppure tanto velata ai paesi del Sud, anzi della “periferia” dell’Europa, di liberarsi delle loro Costituzioni nate “dopo i fascismi” e dunque inquinate da una dose eccessiva di “socialismo”.

Abbiamo già sentito questa storia, ripetuta anche da noi. I fascismi tentarono per via autoritaria di affermare il primato della politica sull’economia. ‘Tutto nello e per lo Stato’, dopo che lo Stato dell’Ottocento aveva visto i governi al servizio dell’economia capitalista.

Le Costituzioni che si sono dati i popoli che hanno conosciuto il fascismo, le Costituzioni democratiche del dopoguerra, hanno cercato un equilibrio tra autonomia dell’economia e compiti della politica, aggiungendo l’elemento che i totalitarismi avevano disprezzato e deriso: la libertà della cultura, senza la quale economia e politica diventano oppressione e disgregazione. Questo è un punto importante. Una società equilibrata non vive solo di politica ed economia, ma anche di idee, ideali, progetti e speranze comuni. L’economia, da sola, tende all’accumulazione della ricchezza e produce una frattura fra ricchi e poveri. La politica, da sola, tende all’accumulazione del potere e crea una divisione fra potenti e impotenti. Economia e politica alleate moltiplicano gli effetti dell’una e dell’altra. La cultura libera invece può essere fattore aggregante, solidarizzante. L’elemento essenziale per la vita sociale è che ci sia equilibrio fra questi tre elementi. Le Costituzioni del dopoguerra, ma anche le grandi dichiarazioni dei diritti umani (Onu nel 1948, Convenzione europea nel 1950) hanno perseguito questo equilibrio. Il socialismo è un’altra cosa.

Eppure la nostra Costituzione non è mai stata così impopolare non solo presso JP Morgan e i poteri finanziari internazionali, ma anche presso la nostra classe politica, che infatti ne sta stravolgendo un buon terzo.

Non è un fenomeno solo italiano. Quello che accade in Italia è solo un capitolo di una vicenda mondiale. La crisi economico-finanziaria che viviamo ha portato allo scoperto la sudditanza della politica agli interessi finanziari. Una sudditanza che ormai sembra diventata un destino, perché prodotta da un ricatto al quale nessuno, pare, riesce a immaginare alternative: il ricatto del ‘fallimento dello Stato’, un concetto fino a qualche decennio fa addirittura impensabile e oggi considerato come un’ovvietà. Lo Stato si è trasformato in un’azienda commerciale che, in caso di difficoltà, prima del fallimento, può essere ‘commissariato’. I politici che rivendicano a gran voce il proprio ‘primato’ e difendono la ‘sovranità nazionale’, in realtà vogliono fare loro quello che farebbero i commissari ad acta, nominati dalla grande finanza.

Non è poi una grande novità.

La ‘finanziarizzazione’ su scala mondiale dell’economia è una novità. Che la sua dominanza sulla politica sia proclamata e pretesa con tanta chiarezza, anche questo mi pare una novità: il fatto, cioè, che una simile rivelazione avvenga senza scosse, reazioni, inquietudini. Sotto i nostri occhi velati avvengono cambiamenti profondissimi: eppure i segnali non sono mancati.

Per esempio?

Ricordo quando il premier Mario Monti spiegò (e poi corresse la formula) che ‘i governi devono educare i Parlamenti’. E i ‘governi tecnici’, e anche quelli ‘politici’ con la loro densità di banchieri e uomini di finanza nei posti-chiave, che cosa ci dicono? Quando si sente dire ‘tecnico’, bisognerebbe domandare: ‘tecnico’ di che cosa? Di idraulica, di fisica quantistica, di ingegneria elettronica? Non esiste la tecnica in sé, è sempre applicata a qualcosa. Questi governi rappresentano il mondo finanziario, con il compito di farlo funzionare indipendentemente da tutto il resto.

Se è per questo, alla vigilia delle elezioni del febbraio 2013, il presidente della Bce Mario Draghi dichiarò che non era preoccupato dall’eventuale vittoria di forze anti-finanziarie come i 5Stelle o la sinistra radicale perché “l’Italia ha il pilota automatico”.

Un altro elemento di riflessione. Questi nostri anni sono segnati da tanti puntini sparsi qua e là. Se li unissimo, vedremmo con una certa inquietudine delinearsi la figura d’insieme.

Quali puntini?

Alcuni li abbiamo detti. Nell’insieme, direi la paralisi politica che si cela dietro l’attivismo delle riforme: cioè l’arroccamento, il congelamento di un sistema di potere. Le elezioni che non cambiano nulla, e servono eventualmente solo a promuovere avvicendamenti di persone; e, quando persone da avvicendare non se ne vedono, c’è la conferma delle precedenti, come è accaduto con la rielezione del presidente della Repubblica; le ‘larghe intese’, che sono la formula dell’immobilismo; le riforme istituzionali, come quella del Senato, che hanno come finalità l’‘efficientizzazione’ (mi scuso, ma la parola non è mia) del sistema, ma non certo la sua democratizzazione; la limitazione delle occasioni elettorali; il nuovo sistema elettorale, se confermerà la decisione annunciata a favore della ‘elezione dei nominati’ dai vertici dei partiti; il silenzio totale sulla democrazia interna ai partiti. Si vedrà poi che cosa accadrà circa le misure contro la corruzione e la riforma della giustizia.

Unendo questi puntini che figura viene fuori?

È un bell’esercizio per i nostri lettori...

Intanto lo faccia lei per aiutarci.

L’ho già detto: il disegno è la sostituzione della politica con la tecnica dell’economia finanziarizzata. Un cambiamento epocale, che dovrebbe sollecitare un dibattito sui principi fondamentali della democrazia e una presa di posizione da parte di ciascuno, soprattutto di chi sarebbe preposto istituzionalmente a farlo. Invece niente. E badi che non sto evocando congiure o dietrologie. Sto semplicemente osservando vicende che accadono sotto i nostri occhi, magari mascherate dietro argomenti anche seri ed esigenze anche giuste – i costi della politica, la necessità di snellire, semplificare, sveltire – che però ci fanno perdere il senso generale delle cose. Non vedo persone che occupano posti di responsabilità che si pongano la domanda fondamentale: che senso ha ciò che stiamo facendo? E diano una risposta a sua volta sensata.

Io trovo preoccupante anche il fatto che quel documento di JP Morgan, oltre a esistere e a dire ciò che dice, sia diventato paro paro l’agenda di Renzi e dei suoi compagni di avventura, da Napolitano a Berlusconi.

Si tratta ben più di trasformazioni generali che piegano le volontà dei singoli, volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, che di buone o cattive intenzioni. C’è una metamorfosi di sistema, nella quale si collocano tante specifiche vicende, ciascuna dotata anche di ragioni sue proprie.

Iniziamo dal nuovo Senato.

Quando Camera e Senato sono organi pressoché identici, come i nostri padri costituenti non vollero che fossero ma come finirono poi per diventare, è naturale domandarsi che senso abbia averli entrambi. Aggiungiamo un po’ di populismo – i costi della politica – per venire incontro all’antiparlamentarismo che è una caratteristica storica dell’opinione pubblica in Italia, e il gioco è fatto. Gli abolizionisti del Senato – molti di loro almeno – abolirebbero volentieri anche la Camera dei deputati. Tutto il potere al governo: lì ci sono i ‘tecnici’ che sanno quello che fanno. Lasciamo fare a loro. Vogliamo citare Michel Foucault?

Ma sì, citiamolo.

Foucault parlava di ‘governamentalità’. Che non è la governabilità decisionista di craxiana memoria. È molto di più: è appunto una mentalità governatoriale. Il centro della vita politica non deve stare nella rappresentatività delle istituzioni, ma nell’agire degli esecutivi. Una visione molto aderente a ciò che sta accadendo: l’accento posto sul governo spiega l’insofferenza dei nostri politici, ma anche di molti cittadini nei confronti della legge, della legalità. Foucault parlò anche di “governo pastorale”. Il pastore provvede al bene del gregge caso per caso, di emergenza in emergenza: quando c’è un pericolo, quando una pecora scappa, quando il branco si squaglia. Il governo ‘governamentale’ è anche ‘provvedimentale’. Si fa le sue regole di volta in volta, a seconda delle necessità: le necessità sue e degli interessi per conto dei quali opera. Il principio di legalità anche costituzionale è contestato e depresso, non tanto in linea di principio, ma soprattutto nei fatti.

Non vorrei che lei facesse i vari Renzi, Berlusconi & C. troppo colti: questi semplicemente non vogliono controlli indipendenti, né tantomeno un Parlamento forte che gli faccia le pulci.

Può essere. Ma a me pare interessante domandarsi qual è il significato di tutto ciò. Perché è dalla consapevolezza che nascono la azioni e le reazioni dotate di senso. Poi, certo, c’è anche il fattore umano, la qualità delle persone. Quando ero giovane e insegnavo all’Università di Sassari, d’estate andavo a fare il bagno sulla spiaggia di Stintino, detta ‘La Pelosa’ per i suoi gigli selvatici. Ogni tanto ci trovavo Enrico Berlinguer con la sua famiglia. Lo ricordo quasi rattrappito nei suoi costumini lunghi e neri di lana grezza, sotto l’ombrellone, intento a leggere tabulati pieni di cifre: studiava i problemi dell’economia, i cosiddetti dossier. E non aggiungo altro...

Oltre al Senato, stanno pure riformando il Titolo V della Costituzione, quello che regola le autonomie locali.

Nella versione originaria del 1948, il Titolo V funzionava così così. Poi, grazie a decenni d’interventi e di decisioni della Corte costituzionale, si trovarono aggiustamenti. Ma nel 2000, per inseguire la Lega Nord sul terreno del federalismo, si decise di riformarlo. E, quando il centrodestra si defilò in extremis, il centrosinistra allora al governo decise di procedere comunque a maggioranza, con questa motivazione: dimostriamo che la Costituzione è riformabile con le procedure che essa stessa prevede, altrimenti rafforziamo l’idea della destra di un’Assemblea costituente. Col senno di poi, oggi che il Parlamento eletto con una legge elettorale incostituzionale sta cambiando a tappe forzate decine di articoli della Costituzione, viene da dire: magari si facesse un’Assemblea costituente, eletta – come tutte le Costituenti – col sistema proporzionale! Quello che 14 anni fa era una prospettiva allarmante, oggi sarebbe una garanzia di democrazia. Per dire come cambia in pochi anni la percezione delle cose...

Giusto dunque riformare un'altra volta il Titolo V?

La riforma della riforma ha le sue buone ragioni. Innanzitutto, la cattiva prova della riforma di 14 anni fa, che ha alimentato un contenzioso abnorme di fronte alla Corte costituzionale. Oggi si vuole ‘ricentralizzare’, dopo aver voluto, allora, decentralizzare. Schizofrenia impulsiva, francamente poco costituzionale. Colpisce il silenzio generale che avvolge questo radicale cambio di marcia: che fine han fatto tutti i tifosi del federalismo, che nell’ultimo ventennio era diventato una parola magica, una panacea per tutti i mali tanto a sinistra e al centro quanto a destra? Mi pare che neppure la Lega stia protestando contro questo riaccentramento. Ecco, questo è un altro di quei punti che ci aiutano a tracciare il disegno generale che cancella altri spazi di democrazia. Un buon federalismo, che non moltiplichi le poltrone e i centri di spesa, ma che promuova energie dal basso, sarebbe un ottimo sistema di mobilitazione di forze sociali per uscire dalla crisi con più partecipazione, più democrazia. In fondo, la storia ci insegna che è così che si supera il crollo dei grandi sistemi di potere. Quando venne giù l’impero di Alessandro Magno, l’Ellenismo fu tutto un pullulare d’energie diffuse. Quando si sbriciolò il Sacro Romano Impero, la civiltà la trasmisero i comuni e i conventi, ancora una volta con una spinta dal basso. Ora invece si pensa di verticalizzare e accentrare. Sarà buona cosa? E, se sì, per chi?

Poi c’è la legge elettorale, l’Italicum, che riproduce le liste bloccate e il mega-premio di maggioranza del Porcellum incostituzionale, e aggiunge altissime soglie di sbarramento per tener fuori dalla Camera i partiti medio-piccoli. Così, in due mosse, un pugno di capi-partito possono piazzare i loro servitori nel Senato non più elettivo e nella Camera dei nominati.

Il capitolo della legge elettorale è davvero fondamentale. Lì si gioca il grosso della partita. Di tutte le leggi, la legge elettorale è quella che più appartiene ai cittadini e meno ai loro rappresentanti. Mi sorprende la leggerezza, direi addirittura la spudoratezza, con cui i partiti trattano questa materia, come se fosse cosa loro. Invece non lo è. Tutto dipende dai loro calcoli d’interesse. Ma la legge elettorale non appartiene a loro, ma a noi: perché ciò che ciascuno di noi è, come soggetto politico, dipende in gran parte dalla legge elettorale. Il modo in cui se ne discute fa pensare che essi considerino gli elettori materia inerte nelle loro mani.

Altro puntino: la riforma della Giustizia. Che il memorandum JP Morgan equipara alla burocrazia, auspicandone la sudditanza alle esigenze dell’economia.

Anche qui, i problemi sono molti e noti: lunghezza dei processi, tre gradi di giudizio, sacrosante garanzie che si trasformano in pretesti per impedire che si giunga mai alla fine, abuso della prescrizione in materia penale, correntismo della magistratura nel Csm ecc. Vedremo se il governo li risolverà con soluzioni più democratiche e aperte, nel senso di confermare le garanzie d’indipendenza dei giudizi, di promuovere l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, di agevolare l’accesso alla giustizia da parte dei più deboli (i tribunali dovrebbero servire soprattutto a questo). Il punto è ancora questo: vedremo se non si risolverà in una riforma non per la giustizia, ma contro la giustizia e a favore di privilegi oligarchici.

Anche in materia giudiziaria si va verso una verticalizzazione del potere in poche mani: pensiamo alla lettera inviata dal capo dello Stato (e del Csm) a Palazzo dei Marescialli per chiudere il caso Bruti Liberati-Robledo e affermare il potere assoluto dei capi delle Procure sui singoli pm.
Su questo punto c’è un dibattito. A me pare abbia detto cose interessanti e sagge il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, nel suo discorso di insediamento, quando ha affermato con forza il ruolo del procuratore della Repubblica come coordinatore di un ufficio plurale, nel rispetto dell’autonomia funzionale dei singoli magistrati.

Vedo che, anche su questo punto, lei condivide l’appello lanciato dal Fatto Quotidiano contro la svolta autoritaria. Perché non l’ha firmato?

Non per questioni di merito, ma di metodo. Un po’ perché mi ha stancato l’accusa di firmaiolo. Ma soprattutto perché credo più produttivo cercare di seminare dubbi, ragionamenti e osservazioni critiche fra quei tanti parlamentari di tutti gli schieramenti che hanno votato obtorto collo la riforma del Senato. La logica degli appelli e dei manifesti crea una contrapposizione che aiuta il radicalismo ottuso di chi poi dice: facciamo le riforme costi quel che costi, anche per dimostrare che chi non ci sta non conta niente. E così si elimina ogni spazio di discussione e di confronto.

Ma questa contrapposizione è nata ben prima del nostro appello: lei s’è preso del gufo, del solone e del professorone fin da marzo, quando firmò con Rodotà e altri giuristi il manifesto sulla svolta autoritaria.

Lo so bene, ma in Parlamento non ci sono soltanto i ministri e i loro fedelissimi. Quelli che non hanno avuto il coraggio di prendere le distanze hanno subìto il clima di contrapposizione ‘o di qua o di là’ che si è venuto a creare. Ma non ritengono affatto chiusa la partita e dicono: stiamo facendo cose che siamo costretti a fare. Ma l’iter della riforma è appena iniziato, la gran parte è ancora da percorrere e molto può ancora succedere. In questa fase, credo più utili le critiche e le proposte alternative.

Quando lei ha inviato le sue alla Boschi, questa anziché renderle note e discuterle nel merito le ha imboscate in un cassetto.

Può darsi che non meritassero attenzione. In ogni caso, ormai ero già stato iscritto d’ufficio al partito dei gufi che vogliono l’immobilismo e che dovevano essere sbaragliati per evitare la sconfitta del governo.

Lei sembra dimenticare che, su Senato e Italicum , Renzi e Berlusconi hanno siglato un patto d’acciaio e segreto al Nazareno il 18 gennaio, e di lì non si spostano.

Sì, ma è un accordo di vertice. Nel ventre dei partiti ci sono tanti mal di pancia.

In ogni caso il nostro appello serve anche a mobilitare i cittadini in vista del referendum confermativo.

Questa è una storia che si aprirà successivamente, se sarà necessario. Quel che è certo è che, con questi numeri in Parlamento, la riforma non otterrà i due terzi. Dunque il referendum confermativo sarà possibile come diritto dei cittadini previsto dalla Costituzione, non come ‘chiamata a raccolta’ plebiscitaria promossa dalle forze governative. Che sarebbe un abuso, come già avvenne al tempo della riforma del Titolo V su iniziativa, quella volta, del centrosinistra. Il governo e la maggioranza che promuovono il referendum sulle proprie riforme è il mondo alla rovescia.

Visto quel che è accaduto al Senato, mi sa che lei si illude.

Sa, io sono un vecchio gufo che appartiene all’altro secolo, anzi all’altro millennio, al tempo delle Costituzioni democratiche del Meridione, anzi della ‘periferia’ d’Europa... E rimango legato a princìpi fondamentali che rappresentano conquiste del costituzionalismo. Per questo mi auguro che chi svolge la funzione di garante supremo della Costituzione sia fermo nel difenderli.

Spera in un intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano?

Anche in vista di un rasserenamento e di un temperamento delle tensioni, dopo gli allarmi che abbiamo e avete lanciato e dopo gli scontri durissimi avvenuti in Senato, chiedo se non sarebbe auspicabile una presa di posizione formale che dica più o meno così: ‘La Costituzione non è un testo sacro: può essere sottoposta a modifiche, tant’è che essa stessa ne prevede le forme attraverso l’articolo 138. Ma, in quanto garante di questa Costituzione – quella del 1948 – ricordo che esistono dei limiti a ciò che si può fare e che determinano ciò che non si può fare: princìpi fondamentali che non possono essere cancellati o calpestati’.

Quali?

La rappresentanza democratica, la centralità del Parlamento, l’autonomia della funzione politica, la legalità intesa come legge uguale per tutti, l’indipendenza della magistratura e così via: i fondamenti del costituzionalismo. Non ultimo, il rispetto della cultura.

Renzi & C. hanno già annunciato che tireranno diritto, “piaccia o non piaccia”.

Sì. E in effetti l’espressione ‘piaccia o non piaccia’ fa sorridere, se non piangere. La democrazia, a differenza dell’autocrazia, richiede a chi è chiamato a prendere decisioni di ‘andar persuadendo’. Bella espressione: così dice Pericle in un memorabile dialogo con Alcibiade, raccontato da Senofonte. Prima si discute, e solo alla fine della discussione la decisione viene presa in base ai voti. ‘Il piaccia o non piaccia’ posto all’inizio – ripeto – non è democrazia, ma autocrazia.

Sta di fatto che nessuno sembra scandalizzarsi neppure per la promozione di un pregiudicato, interdetto dai pubblici uffici e affidato ai servizi sociali, a padre costituente.

Questo, come il conflitto d’interessi, è uno di quei problemi enormi che nessuno osa più sollevare. Purtroppo sono argomenti che si logorano ripetendoli.

Resta l’anomalia di una riforma costituzionale fatta in fretta e furia alla vigilia di Ferragosto, con forzature regolamentari e tempi contingentati dallo stesso presidente del Senato.

Guardi, questa storia è tutta un’anomalia. Il fatto che l’iniziativa di riformare la Costituzione non parta dal Parlamento, ma dal governo. Il fatto che il governo ponga una sorta di questione di fiducia, anzi, per dir così, di mega-fiducia perché accompagnata dalla minaccia non delle dimissioni per dar luogo a un altro governo, ma addirittura dello scioglimento delle Camere per fare piazza pulita e tornare a votare. Il fatto che una componente del Senato abbia scelto (dovuto scegliere, secondo il proprio punto di vista) la via estrema dell’ostruzionismo e a questo si siano opposte ‘tagliole’ e ‘canguri’. Tutta un’anomalia che è l’esatto contrario di un clima costituente. C’è il fatto, poi, che il ddl contenga una norma che impone alle Camere di votare (spero non anche di approvare!) i disegni di legge del governo entro e non oltre 60 giorni. Ecco, questi sono altri punti da congiungere, tutti elementi della ‘governamentalità’ di cui dicevamo.

Senza contare il presidente della Repubblica, che sollecita continuamente riforme-lampo perché pare che voglia dimettersi al più presto.

Ma sa, nella Costituzione c’è un solo organo a durata variabile: il governo. Tutti gli altri hanno una durata fissa, e quella del capo dello Stato è di sette anni. Ecco un altro punto. Il presidente Napolitano, al momento della rielezione, ha aderito alla supplica di chi si trovava nell’impasse e ogni altro nome plausibile, da Romano Prodi a Stefano Rodotà, era stato ‘bruciato’ (non sappiamo ancora da chi e perché). Tuttavia, egli stesso dichiarò allora che la sua permanenza al Quirinale sarebbe stata ‘a tempo’. La prima volta nella storia repubblicana. Questo fatto, avvicinandosi il momento delle più volte annunciate dimissioni, sta creando il pericolo di un ingorgo istituzionale, di una contrazione anomala dei tempi e di una generale instabilità.

In un quadro, però, di immutabilità del sistema di potere.
Beh, questo è il modo tutto italiano di uscire dalle crisi di sistema. Lo stesso che è alla base dell’attuale governo: il massimo dell’innovazione di facciata per non cambiare nulla nella sostanza, o ossificare quello che già c’era.

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