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Singolare lettura psicologica della sconfitta della linea "razionale" di Varoufakis nel conflitto con Schäuble. Meglio Tsipras. Il manifesto, 5 agosto 2015

Durante la sua breve guida del mini­stero greco dell’Economia, Yan­nis Varou­fa­kis ha subor­di­nato il suo agire a due idee: una buona e una cattiva. L’idea buona era che la vita austera, sobria e digni­tosa, nulla ha a che fare con le poli­ti­che di auste­rità. L’idea cat­tiva (che ha avuto fau­tori illu­stri a par­tire da Pla­tone) era che la ragione poli­tica coin­cide con il ragio­nare cor­ret­ta­mente («orthos logos»). Il pen­siero che valuta e cal­cola tutto in modo rigo­ro­sa­mente logico, dà risul­tati eccel­lenti nel campo delle scienze natu­rali, ma nel campo del governo della Polis, delle fac­cende umane che ne sono la mate­ria viva, deve fare i conti con la psi­co­lo­gia. I fat­tori psi­co­lo­gici poli­ti­ca­mente più influenti sono le pas­sioni e la paura. Le pas­sioni sono le forze che tra­sfor­mano la vita in pro­fon­dità, la spinta pro­pul­siva di ogni cam­bia­mento reale. La paura è il sen­ti­mento domi­nante, quando le dif­fi­coltà che incon­tra un cam­bia­mento neces­sa­rio, sfo­ciano in una situa­zione di insta­bi­lità dura­tura, o troppo repen­tina, ren­dendo il futuro imprevedibile.

La sini­stra ha pro­mosso tra­sfor­ma­zioni sociali pro­fonde (nel solco dell’evento rivo­lu­zio­na­rio o di un grande pro­getto di riforma) solo quando ha saputo farsi inter­prete di una grande pas­sione, di un movi­mento di eman­ci­pa­zione delle masse pro­dotto dal desi­de­rio, dall’apertura senza riserve e esi­ta­zioni all’inconsueto. Tut­ta­via, le pas­sioni sono dif­fi­cili da gestire: dete­stano il cal­colo e sono mode­rate solo dal senso di respon­sa­bi­lità, dall’intima neces­sità di pro­teg­gere le cose desi­de­rate. Sle­gate dalla respon­sa­bi­lità, si ridu­cono a forze pura­mente desta­bi­liz­zanti, favo­rendo la rea­zione delle forze con­ser­va­tive. La destra ha sem­pre tenuto conto della paura, incen­ti­van­dola. Ciò le asse­gna un indub­bio van­tag­gio tat­tico: la paura (spe­cie se mesco­lata con la rab­bia e l’odio) si può mani­po­lare facil­mente. Con­vo­gliata in vie di sca­rica super­fi­ciali, crea iner­zia psi­chica che pro­duce un senso di sta­bi­lità rassicurante.

Varou­fa­kis non è riu­scito a man­te­nere lo scon­tro con Shau­ble su un piano auten­ti­ca­mente poli­tico, di con­fronto tra pas­sione respon­sa­bile e paura. Il suo attac­ca­mento all’astrazione logica l’ha messo in una posi­zione sim­me­trica a quella dei suoi avver­sari. La debo­lezza della poli­tica nei con­fronti dei cir­cuiti finan­ziari, sta favo­rendo un potere «iper­po­li­tico», potere puro, al di là di ogni dia­let­tica tra padrone e servo, fon­dato sull’eccezione dalla regola e dalla vita. Que­sto potere, che coniuga l’azzardo con l’arbitrio, è l’espressione gene­ra­liz­zata del prin­ci­pio: «Testa vinco io, croce perdi tu». Orien­tato a pro­durre pro­fitti, tanto insen­sati tanto espo­nen­ziali, non è capace, per costi­tu­zione, di risol­vere nes­suno dei pro­blemi umani.
Si può subire la pre­po­tenza del più forte senza essere per sem­pre scon­fitti. La scon­fitta di Varou­fa­kis è nell’aver fon­dato un pro­getto poli­tico sul pri­mato impro­prio della logica sulle pas­sioni, le incer­tezze e le paure che attra­ver­sano l’Europa. La sua cri­tica a Tsi­pras deriva dalla fede a una logica strin­gente, vis­suta come verità, che è figlia di orgo­glio intel­let­tuale. Dimen­tica che in poli­tica una teo­ria, anche la più intel­li­gente, è vera se pro­duce una tra­sfor­ma­zione reale.

Tsi­pras è restato nel campo poli­tico, difen­dendo la pas­sione euro­pea del suo popolo (l’amore per la pace e la demo­cra­zia) e rispet­tando le sue ango­sce. Può per­dersi in una serie di com­pro­messi inter­mi­na­bile, ma non ha altra strada per resi­stere all’eccesso di arbi­trio che avanza nel nostro mondo. Que­sto arbi­trio, che riduce la vita in quan­tità mani­po­la­bili, nel con­fronto pura­mente logico non teme rivali.
Una posizione largamente condivisibile nel dibattito sulla sinistra, ma con molte questioni da discutere, a patire dal significato del "lavoro, del nome preciso del "sistema", del significato di "sinistra " nel XXI secolo. Ci ripromettiamo di farlo.

Comune.info, 2 settembre 2015

Ci sono due modi di fare politica a sinistra: facendo cambiare le cose con l’obiettivo di fare avanzare un progetto alternativo o cercando di correggere solo gli aspetti più odiosi, accettando il sistema com’è. Nel 900 il partito comunista faceva la politica del primo tipo, giusto o sbagliato che fosse il progetto. Poi è caduto il muro di Berlino e facendosi più realista del re ha deciso di imboccare la strada del pragmatismo fino a diventare il più strenuo sostenitore del liberismo. La fine fatta dal Pd è sotto gli occhi di tutti.

A sinistra molti criticano il Pd solo per avere perso totalmente l’anima sociale, ma ne condividono l’impostazione di fondo: il sistema è questo, non solo non si può cambiare, ma va bene così: bisogna solo porgli qualche regola affinché non si incagli nelle sue contraddizioni e bisogna rafforzare i paracaduti sociali per soccorrere le vittime che inevitabilmente produce. Non a caso la nuova parola d’ordine è diventata “sinistra di governo”, che meglio di ogni altra espressione ne racchiude il concetto.

In controtendenza, io penso che oggi più che mai la sinistra ha bisogno di un progetto alternativo perché questo sistema ci è nemico nell’impostazione di fondo.Cercare di correggere gli aspetti più odiosi è una regola di sopravvivenza, ma farlo senza intervenire sul senso di marcia è come preoccuparsi della tappezzeria in un treno che va verso il baratro. Tradizionalmente il tema forte della sinistra è la distribuzione, le correnti più moderate accontentandosi di spostare quote crescenti di reddito a vantaggio dei salari e della collettività; le correnti più radicali pretendendo di destinare tutto a salari e collettività non riconoscendo diritto di cittadinanza al profitto. Da cui i sistemi socialisti, ormai tramontati per varie cause che nessuno ha ancora studiato in tutti gli aspetti. Ma questa impostazione, per così dire distributivista, ha portato la sinistra a condividere la stessa matrice capitalista di adulazione della ricchezza.

Per entrambi, la ricchezza è un valore. Il capitalismo vuole produrne sempre di più per garantire alle imprese merci crescenti finalizzate al profitto; la sinistra vuole produrne sempre di più per creare nuove opportunità di lavoro e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Del resto c’è un detto classico nella sinistra: “Non si può distribuire la miseria: prima si produce la ricchezza, poi la si distribuisce”. Ed è così che anche a sinistra c’è una forte febbre produttivista: laddove più si riesce ad estrarre, più si riesce ad asfaltare e cementificare, più si riesce a manipolare la natura, più si riesce ad accrescere la tecnologia, in una parola più si riesce ad innalzare il Pil, meglio si sta. Una concezione un po’ antiquata che configura il benessere solo con la quantità di cose che siamo capaci di buttare nel carrello della spesa, dimenticando che prima di tutto abbiamo bisogno di una buona aria e che oltre alle esigenze del corpo abbiamo anche quelle psichiche, affettive, spirituali, sociali.

La questione della qualità della vita e la questione ambientale, hanno l’aria di essere temi ancora estranei alla sinistra. Ma se nell’ottocento potevano essere ignorati perché altre erano le priorità ed altro era il contesto ambientale, oggi la distruzione della casa comune rappresenta il tema che condiziona ogni altro aspetto sanitario, sociale, economico. Il concetto che più di ogni altro siamo costretti a rimettere in discussione è quello di crescita e benché sappiamo che varie attività consentono spazi di crescita senza maggior consumo di risorse e senza maggior produzione di rifiuti, il problema è il paradigma.

Sappiamo che trattando in maniera più intelligente i rifiuti, ricorrendo di più all’agricoltura biologica, potenziando i servizi alla persona, si può creare Pil e occupazione sostenibile, ma per fare pace con la natura dovremmo annientare, o giù di lì, l’industria dell’automobile, dovremmo cambiare totalmente il sistema distributivo per ridurre al minimo gli imballaggi, dovremmo smetterla di creare nuovi bisogni. In definitiva dovremmo chiudere per sempre con un sistema che ha fatto dell’aumento delle vendite il suo cuore pulsante. E se razionalmente sentiamo che questa è la strada da battere, dall’altra siamo bloccati per la disoccupazione che ne può derivare. Preoccupazione più che legittima in un sistema che ci offre l’acquisto come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato come unica via per accedere al denaro utile agli acquisti. Per questo il lavoro è diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo tutti diventati partigiani della crescita.

L’unico modo per uscirne è smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze. La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno possibile.Cambiando prospettiva ci renderemo conto che il mercato non è l’unico modo per soddisfare i nostri bisogni, né il lavoro salariato l’unico modo per produrre ciò che ci serve. I due grandi canali, se non alternativi, sicuramente complementari, sono il fai da te e l’economia comunitaria che hanno il vantaggio della gratuità e della piena inclusione lavorativa senza bisogno della crescita dei consumi.

La costruzione di una società che finalmente sappia mettere la persona al centro della sua attenzione e sappia porsi come obiettivo, non già l’offerta di lavoro, ma la garanzia a tutti, donne e uomini, giovani e vecchi, abili e inabili, di una vita sicura dalla culla alla tomba, nella piena soddisfazione di tutte le dimensioni umane e nel rispetto dei limiti del pianeta, dovrebbe essere il vero progetto politico della sinistra perché tiene insieme tutti i valori che la contraddistinguono: equità, rispetto, sostenibilità, solidarietà, autonomia.

Un progetto che, certo, ci costringe a ripensare tutto, dal senso e la funzione del lavoro ai tempi di vita, dal modo di produrre ciò che ci serve all’uso e il governo del denaro, dal ruolo del mercato al ruolo dell’economia collettiva, dal modo di concepire la tecnologia al modo di partecipare all’economia collettiva. Ma è ciò di cui abbiamo bisogno in un momento che il sistema di mercato sta mettendo in evidenza tutto il suo fallimento umano, sociale, ambientale, financo economico.

Con un progetto di società, non solo potremmo riaccendere la passione per la politica nei milioni di cittadini che oggi vivono ai margini perché stanchi e delusi, ma potremmo tornare al ruolo di forza con un’agenda da perseguire, non più costretta a giocare perennemente in difesa. Finalmente smetteremmo di correre dietro alle falle che crea il sistema e metteremmo a punto il nostro piano strategico di trasformazione della società, con proposte per tutti i livelli: da quello personale a quello comunale, da quello regionale a quello nazionale, da quello europeo a quello mondiale. Perché un’altra certezza è che la costruzione di un’altra società esige non solo una nuova visione dell’economia e della società, ma anche una nuova concezione del modo di fare politica.


Per cambiare il mondo bisogna porsi anche esistenzialmente dalla parte di quelli che patiscono di più per colpa del mondo comeè oggi. A proposito del libro di Raul Zibechi "All'alba di mondi 'Altri'" , con un sintetico ricordo del colonialismo italiano.

Comune.info, 2 settembre 2015

Nota introduttiva ad “Alba di Mondi Altri. I nuovi movimenti dal basso in América Latina”, l’ultimo libro di Raul Zibechi edito in Italia da Museodei by Hermatena, 200 pagine, 15 euro

È un destino inevitabile, naturale, quello di riprodurre nei mondi nuovi società di dominanti e dominati anche dopo aver combattuto e sconfitto sistemi fondati su quella relazione di dominio? No, non lo è. C’è un modo per evitare di assumere quel veleno coloniale? Sì, deve esserci ma non sappiamo come e dove cercarlo. Sappiamo però che tutto il pensiero critico che ha ispirato le grandi rivolte del passato è stato segnato dall’eurocentrismo. L’ultimo libro di Raúl Zibechi, “Alba di mondialtri”, suggerisce ai movimenti di cercare altrove, tenendo un riferimento importante nel cammino immaginato da Fanon e percorso dagli zapatisti del Chiapas. Nella nota che introduce l’edizione italiana del libro, presentato in questi giorni: la critica all’avanguardia e alla militanza politica “dalla parte del popolo”, l’urgenza di ripensare i concetti di geografia e territorio, le radici coloniali italiane e il traffico di armi e di braccia dei giorni nostri, la disumanizzazione delle vittime, il tramonto di un’egemonia culturale e il riconoscimento di mondi altri

Non avevamo mai creduto davvero alla presenza di idee politiche corrette tra los de abajo. Nella lotta per migliorarne la condizione, avevamo sempre cercato di imporre loro le nostre. Il rigore di un’affermazione tanto cruda quanto leale, non certo inedita nella (auto)critica di Raúl Zibechi alla storia della militanza politica “dalla parte del popolo”, si arricchisce di nuovi significati. Li porta alla luce l’esperienza recente che più lo ha segnato: la Escuelita zapatista de la libertad. In questo libro la racconta nei dettagli, in modo impareggiabile.

Da molti anni Zibechi esprime avversione per le pratiche che rinverdiscono la punta dell’iceberg di quel tratto peculiare – e sostanziale – della militanza. La voglia di imporre idee ritenute giuste per il bene di altri (o di tutti) è la proteina nobile di un avanguardismo muscolare che, mascherato o meno, dilagava nelle grandi organizzazioni sociali e nelle formazioni politiche di sinistra del Novecento. L’avversione di Zibechi si fa più intensa quando la critica investe l’avanguardia nel pensiero teorico astratto. Un pensiero più o meno raffinato ma sempre sterile, perché separato dalla vita di ogni giorno e dai principi etici su cui si è scelto di fondarla. Un pensiero che spesso esprime disprezzo per le persone comuni, rinuncia a misurarsi con le spinte contraddittorie della realtà, e mira a rapide e univoche risposte snobbando la precisione e la fantasia delle domande.

Come cambiare il mondo dalla “zona del non-essere”

Sono proprio gli interrogativi, invece, a sostenere di solito l’urgenza, il senso profondo e l’invenzione di una diversa modalità della vita. Queste pagine ne forniscono limpidi esempi: a che serve la rivoluzione se il popolo che vince si limita poi a riprodurre l’ordine coloniale, una società di dominanti e dominati? Delle essenziali questioni poste in questo libro, resta probabilmente questa la più significativa. Almeno per chi – come Zibechi – dopo aver trascorso buona parte della vita a studiare, raccontare e condividere i tentativi di cambiare il mondo, non considera un’utopia giovanile, un esercizio accademico o un lavoro da professionisti l’opportunità di farne uno nuovo. Il tema della soggettività resta decisivo. Eludendolo, chi è oppresso non potrà che occupare il posto dell’oppressore, riproducendo il profilo del sistema che combatte. Lo racconta la storia, che non dice invece quali soggetti possa esprimere, di per sé, la decolonizzazione.

Dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso,Zibechi consuma le scarpe percorrendo in lungo e in largo l’América. Attraverso autopistas e impervi caminos insegue le tracce della resistenza al dominio del capitale e delle merci sulle persone. Le ha trovate ovunque: nelle periferie di Asunción e lungo le steppe della Patagonia, sugli altopiani andini e tra le nebbie delle selve tropicali. A volte è tornato per mettere in discussione quel che gli era sembrato di capire. Come in Chiapas, quando – alunno semplice della Escuelita – a vent’anni dal primo viaggio a La Realidad (vent’anni di innamoramento e costante attenzione), pensava d’aver capito abbastanza dello zapatismo. E invece no.

Nella comunità 8 Marzo del Caracol di Morelia gli è parso d’improvviso evidente quel che ignorava: “Diciamo che non avevo compreso la parte elementare”, spiega stupito ed entusiasta. Quel che lo muove è la ricerca appassionata, quasi febbrile, di sempre: scovare e interpretare i mutamenti profondi della realtà. Questo libro nasce da quella ricerca e aiuta a configurarne un passaggio rilevante. Non è un’affermazione incidentale quella in cui Zibechi scrive: “Negli ultimi anni, lavoro per dare una risposta a una domanda che considero centrale: come cambiare il mondo dalla “zona del non-essere”, cioè dal luogo di coloro a cui viene negata la condizione umana?”. È un’opzione che comporta una rottura rilevante, forse perfino dolorosa, quella rinuncia a un punto di vista di classe generale, a una visione planetaria, ancor prima che universale.

Perché scegliere la prospettiva della “zona del non-essere”, ispirata ai testi di Frantz Fanon e alla rilettura che ne fa Ramon Grosfóguel? Perché sono i “dannati della terra” dei giorni nostri, quelli che vivono nel “mas abajo”, secondo il linguaggio zapatista, a essere genuinamente interessati a cambiare il mondo, risponde Raúl (il corsivo è mio e qui indica un’inquietudine sull’uso di quell’avverbio). È la primazia dell’etica, più che il gusto per la provocazione, a condurre Zibechi all’inevitabile conseguenza della rottura indicata: il pensiero critico che l’ha formato in Uruguay e nell’esilio in Spagna si è generato e sviluppato solo nel Nord, negli ambienti della “zona dell’essere”. Non può dunque essere trapiantato (più o meno meccanicamente) alla “zona del non essere”. Nel farlo, si perpetuerebbe il “fatto coloniale” in nome della rivoluzione.

Viene da chiedersi: rifarsi (criticamente) a Marx (o a Bakunin) significa dunque adottare una lettura del mondo sempre intrisa di eurocentrismo e colonialità? La teoria della rivoluzione che conosciamo, dal Capitale ai testi odierni, è viziata dall’origine e ne mostra gli evidenti limiti. Serve altro, risponde Zibechi. Bisogna percorrere altri sentieri. Fanon ha aperto la via e, decenni dopo, gli zapatisti sono quelli andati più lontano nel cammino di una creazione di un mondo nuovo dalla parte degli oppressi. L’attualità del pensiero di Fanon, aggiunge, affonda le radici proprio nell’impegno a pensare e mettere in pratica la resistenza e la rivoluzione a partire dal luogo fisico e spirituale degli oppressi. Dal luogo in cui gran parte dell’umanità vive in condizioni di indicibile oppressione, aggravata dalla ri-colonizzazione dei territori e delle menti che comporta il modello neoliberista. Ci parrebbe assai curioso, naturalmente, che a indicare quei “luoghi fisici” fossero un mappamondo o le astratte coordinate di un meridiano. Non è facile sostenere che un cameriere peruviano indigeno emigrato in Argentina viva un’oppressione più “indicibile” di quella di una ragazza nigeriana costretta a prostituirsi sulle strade del litorale domiziano. Non può essere quella la geografia che dice dove si è los de abajo e dove si è, o si è diventati, los de arriba.

L'italico colonialismo
E a proposito di storia e geografia, s’impone la domanda madre per l’edizione italiana di questo libro: alla luce della dimensione “minore” dell’italico colonialismo, ha senso anche qui la necessità di de-colonizzare? Le poche righe che seguono azzardano una traccia per rispondere. Intanto, è noto che il colonialismo storico vive e prospera nella (neo)colonialità del potere, della mente, dell’immaginario, ecc. Non mancano testi in lingua italiana che hanno trattato con dovizia e acutezza di questo e dell’influenza e del lascito di Fanon sulla ribellione e l’antirazzismo contemporanei. Ben altra musica suona ancora, salvo eroiche eccezioni, il racconto storico di quella dimensione “minore”. Non è questa la sede per far giustizia della narrazione tossica sull’esuberanza sessuale dei “nostri” soldati, sul mito degli “italiani brava gente” e sulla immane censura calata sui libri di storia. Lasciamo la parola all’eccellente Point Lenana, di Wu Ming1 e Roberto Santachiara (Einaudi, 2013)

Dal 10 al 19 febbraio, durante la battaglia dell’Amba Aradam, l’artiglieria italiana spara 1367 proiettili caricati ad arsine. Al termine l’aviazione insegue, mitraglia e bombarda col vescicante le colonne di nemici in ritirata. Lo stesso Badoglio riferirà l’utilizzo, in questa circostanza, di sessanta tonnellate di iprite. Raccontando di questo giorno, il generale Colombini scriverà: «Vidi scene raccapriccianti: la pelle degli etiopici si scioglieva, si rompeva, si sfogliava e veniva via lasciando la piaga aperta. Così era per i guerrieri dell’esercito nemico come per le donne e i bambini (fortunatamente pochi) che vivevano in quei luoghi».

Rossa è la carne viva esposta dall’azione dell’iprite. Come diceva quel divertente stornello? «Se l’abissino è nero, gli cambierem colore».

Dai resoconti e ricordi edulcorati della strage deriverà il termine scherzoso «ambaradàn», che gli italiani useranno per dire baraonda, trambusto, grande confusione.

L’impiego dei gas non è la sola atrocità. Fra il 1935 e il 1936, l’aviazione italiana bombarda ospedali e ambulanze. Impazzano i rastrellamenti, le fucilazioni di massa, gli stupri, decine di migliaia le capanne incendiate. Dalla campagna d’Etiopia, con la proclamazione dell’impero di Vittorio Emanuele III, alla conquista della Tripolitania e della Cirenaica (Libia) il passo (indietro) è breve. L’avventura comincia nel 1911, con l’invio di 1732 marinai contro l’Impero Ottomano. Non porta la firma di Mussolini ma del quarto governo Giolitti, quello eletto col voto dei socialisti. Il “progressismo” del tempo nazionalizzerà le assicurazioni e introdurrà il “suffragio universale”. Da cui sono escluse le donne, ça va sans dire.

Cento anni più tardi, nel 2011, l’Italia smetterà di vendere armi a Gheddafi, linciato in strada – dopo la pioggia di bombe Nato – in una sequenza indimenticabile. In quanto a orrore, fa impallidire anche quelle, più sofisticate, girate dai registi dell’Isis. Tra il 2005 e il 2012, comunque, l’Italia ha fornito, prima al colonnello e poi ai suoi carnefici, armi per 375,5 milioni di euro, seconda solo alla Francia di Sarkozy, il leader più assatanato nella caccia grossa a Gheddafi. Quelle armi sono poi state saccheggiate, più volte, da varie fazioni avverse al regime di Tripoli e dai gruppi jihadisti, Sono dunque state determinanti a far diventare il territorio (che per convenzione chiamiamo ancora) libico quel che è oggi. Dove ha volato la Nato non c’è più un paese, come in Somalia dopo i Caschi Blu, come in Afghanistan, in Iraq…

Dalle coste libiche parte oltre l’80 per cento delle persone che affrontano il mare nostrum per affogare nelle sue profondità o essere accolte come fossero un’epidemia nel paese dei mercanti, quello dalle colonie “dal volto umano”. Sono persone in fuga dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dal Sudan, dalla Nigeria, dal Mali, dall’Iraq, dalla Siria. I media ci avvertono: attenzione, tra loro, negandosi al riconoscimento identitario, si annidano furbi e spregevoli truffatori. Si fingono perseguitati ma non lo sono affatto. Sono semplici migranti, colpevoli d’un reato imperdonabile: cercare una vita migliore nella terra in cui non sono nati. Per fortuna il dio del mare è giusto e li punisce.

Ogni tanto le istituzioni politiche europee, i media e l’opinione pubblica fingono di commuoversi. È accaduto il 19 aprile, con la maggior strage mediterranea della storia contemporanea: 7-800 persone annegate in un solo “incidente”. Gli incidenti si ripetono da oltre 15 anni. Hanno ucciso venti-trentamila persone, forse di più. I numeri ingannano: non raccontano i volti, l’agitazione delle mani, il respiro che annaspa ma soprattutto le storie, le speranze e le sofferenze di chi affoga nel Mediterraneo. Forse, a comprendere la portata e le ragioni della tragedia che viviamo, può aiutare più la storia. Una storia esemplare, a leggerla in una prospettiva coloniale: l’Europa è abituata a buttare la gente in mare. Lo ha fatto per quattro secoli durante il commercio di vite africane che riempiva i forzieri delle nazioni che oggi danno lezioni sui diritti umani e la democrazia al resto del mondo. Si buttavano a mare gli schiavi per sfuggire ai pattugliamenti, oppure quando venivano considerati invendibili. Un negro ogni dieci, si calcola, finiva agli squali. Merce difettosa, con i denti cariati o i seni flaccidi.

È solo negando la condizione umana, quello che secondo Zibechi avviene nella “zona del non essere”, che si può lasciar affogare le persone. Per questo i migranti, nella migliore delle ipotesi, devono essere numeri. Come i palestinesi intrappolati a Gaza nel diluvio delle bombe israeliane. Come gli ebrei, gli zingari, i polacchi e i russi chiusi a Birkenau, come i ribelli etiopi che Mussolini ordinò di stroncare con “qualsiasi mezzo”. Renzi, Salvini e gli amici di Casa Pound oggi darebbero, dispiaciuti, lo stesso ordine ma il discorso sui fini e i mezzi sarebbe lungo… Negare la condizione umana, dicevamo, perché ammettendo l’umanità delle vittime sarebbe inevitabile mettere in discussione anche quella dei carnefici e di chi consente i massacri o vi si mostra indifferente. Per questo i razzisti europei dovrebbero temere più d’ogni altra cosa la ri-umanizzazione dei migranti nei media. Dovrebbero temerla, per la verità, i razzisti di tutto il mondo, da quelli austrialiani a quelli sudafricani. Sì, avete letto bene: sudafricani.

C’è tuttavia una specificità occidentale, declinata con chiarezza nella storia coloniale e nelle diverse forme di colonialità contemporanea. Deriva dall’incapacità di “pensare con il mondo”, come avrebbe detto Édouard Glissant, compagno di liceo di Fanon in Martinica. Deriva dalla credenza secolare secondo cui il “nostro” mondo – la letteratura, la filosofia, la medicina, le forme religiose e di governo, ilmodus vivendi – sarebbe superiore a quello degli altri. Anzi gli altri – gli indigeni, i turchi, gli arabi, i pigmei, i cinesi, i mongoli, i contadini – sarebbero in fervente attesa del nostro progresso-sviluppo. Dopo cento anni, quella egemonia culturale sembra finalmente finita. Non esercita più incontrastata nemmeno qui il suo invincibile potere, un potere non divino ma molto coloniale e molto “naturalizzato”. Che quel mondo non fosse il solo possibile lo hanno cominciato a gridare tutte le più significative società in movimento apparse all’alba del nuovo millennio. Di più,in felice risonanza con certe comunità indigene mascherate delle montagne del sud-est messicano, quella gente dice che esistono molti altri mondi. Tutti diversi e tutti capaci di affermare straordinarie dignità. Quel che sembra impossibile, dicono, arriva. Si tratta solo di aspettarlo un po’.

[I sottotitoli sono nostri - n.d.r.]

Con­cordo con pres­so­ché tutti i punti del deca­logo for­mu­lato da Norma Ran­geri su que­ste colonne (28 luglio) per l’apertura della discus­sione. Tut­ta­via, fra gli obiet­tivi e la loro pre­su­mi­bile rea­liz­za­zione s’interpone da parte mia un cumulo di dubbi e di per­ples­sità (come sem­pre più spesso, ahimè, mi capita), che sem­bre­rebbe, forse, oscu­rare gli obiet­tivi di cui sopra (non sarebbe, nono­stante tutto, nelle mie inten­zioni). Ma vediamo.

1) La crisi della sini­stra non è solo ita­liana: è euro­pea, anzi glo­bale. E’ sotto gli occhi di tutti: strano che se ne parli così poco in que­sti ter­mini. Som­ma­ria­mente (certo, troppo som­ma­ria­mente) io l’attribuisco a due fat­tori (in que­sto senso soprat­tutto europei).

Il primo: la scon­fitta che il lavoro e, in senso più spe­ci­fico e sostan­ziale, la classe ope­raia hanno subito nel corso degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso: in Inghil­terra; in Ger­ma­nia; in Ita­lia (in forme diverse, certo, ma orien­tate tutte nella mede­sima dire­zione). Ora, non c’è sini­stra (in senso clas­sico) senza rap­pre­sen­tanza del lavoro: per­ché la visione pro­gres­si­sta e rifor­ma­trice della “vera sini­stra” è sem­pre nata da lì (c’è biso­gno di esempi sto­rici). Se ne può fare a meno?

La scon­fitta del pro­le­ta­riato (anche in que­sto senso clas­sico) e della classe ope­raia ha pro­vo­cato nella società post-industriale e post-fordista l’emergere di due feno­meni, con­tem­po­ra­nei e al tempo stesso con­tra­stanti fra loro: una sorta di bor­ghe­siz­za­zione spu­ria e dispersa e una sorta di pro­le­ta­riz­za­zione spu­ria e dispersa di parti diverse della società. Manca il col­lante, poli­tico e sociale, che le tenga insieme. A mio giu­di­zio, anche la grande for­tuna attuale del verbo francescano-cattolico deriva da que­sto: sic­come non c’è forza ter­rena che ci rie­sca, la parola della Chiesa, che non ha biso­gno di veri­fi­che pra­ti­che allo scopo di gover­nare (dispe­rata mis­sione dei poveri poli­tici umani), appare comun­que, anche ai laici, una rispo­sta con­for­tante e consolatoria.

Come pos­sono di nuovo stare insieme le due cose? Dove deve met­tere le sue radici la “nuova sini­stra”? Come si rap­pre­senta un lavoro pro­fon­da­mente diverso dal pas­sato, — nel quale, natu­ral­mente, con­ti­nua a occu­pare un ruolo impor­tan­tis­simo la classe ope­raia, ma non più in posi­zione ege­mo­nica, — e lo si ri-organizza per rove­sciare l’ondata tra­vol­gente, mon­diale, del capi­ta­li­smo finan­zia­rio? Se non si risponde a que­ste domande, inter­viene l’atrofia dei muscoli e del cervello.

In fondo, l’emergere di una nuova feno­me­no­lo­gia poli­tica (non solo, ma soprat­tutto) nei paesi più deboli dell’orizzonte euro­peo occi­den­tale, — Spa­gna, Gre­cia, Ita­lia, — Pode­mos, Syriza, per­sino Grillo e il gril­li­smo, rap­pre­senta una rispo­sta a que­ste domande. Non ne con­di­vi­diamo uno per uno tutti gli orien­ta­menti e ne scru­tiamo spesso con qual­che pre­oc­cu­pa­zione gli obiet­tivi, ma non pos­siamo non rico­no­scere che in una società mobile e disar­ti­co­lata le loro sono rispo­ste più à la page delle nostre.

Il secondo: l’Europa vive ormai sotto l’incubo (anche arta­ta­mente gon­fiato, ammet­tia­molo) di uno scar­di­na­mento pro­vo­cato da un’ondata migra­to­ria di cui indub­bia­mente non esi­stono pre­ce­denti. La rea­zione è quella di una chiu­sura a ric­cio: da parte dei ceti bor­ghesi, o pseu­do­bor­ghesi, allo scopo di difen­dere i pro­pri pri­vi­legi; e da parte dei nuovi ceti pro­le­tari e sot­to­pro­le­tari allo scopo di difen­dere una loro pos­si­bile, ancor­ché impro­ba­bile, ascesa verso l’alto. In ogni caso, è fuori discus­sione che il feno­meno ali­menti qual­siasi tipo di rea­zione “popu­li­sta” (io pre­fe­ri­rei dire “mas­si­sta”, ma devo farmi inten­dere dai let­tori). Se il punto pre­ce­dente si sal­dasse con que­sto, il qua­dro potrebbe diven­tare deva­stante. Non a caso Beppe Grillo, che se ne intende, ha for­mu­lato pro­po­ste estre­ma­mente restrit­tive rispetto al feno­meno dell’immigrazione. E’ un dato di fatto, tut­ta­via, che la sini­stra, sia quella “sto­rica” sia quella “nuova”, su que­sto punto non ha saputo for­mu­lare altro che gene­ri­che pro­po­ste d’ingenuo soli­da­ri­smo, quando in Europa non s’è alli­neata tout court con le posi­zioni dei governi e dei ceti con­ser­va­tori. Il soli­da­ri­smo uma­ni­ta­rio è il nostro credo. Ma se non ha un pro­gramma, e forze e mezzi per rea­liz­zarlo, rischia di diven­tare straor­di­na­ria­mente autolesionistico.

Senza biso­gno di ricor­rere, come taluno auspica, a una nuova Poi­tiers, è vero per tutti che l’Europa a sini­stra si salva sia dall’interno sia dall’esterno. E’ una scom­messa bestiale, me ne rendo conto. Ma solo chi la vince, vince l’intera par­tita.

2) Quello che in Europa rap­pre­senta un deca­lage sto­rico impres­sio­nante, — ci sono governi mode­rati o con­ser­va­tori o di estrema destra in tutti i paesi, esclusa la Fran­cia, dove il socia­li­sta Hol­lande si appre­sta a lasciare il pre­mie­rato niente di meno che a un lea­der con­ser­va­tore, anzi rea­zio­na­rio, di primo pelo come Sar­kozy; in Ger­ma­nia i social­de­mo­cra­tici si limi­tano a navi­gare nella scia di Angela Mer­kel; in Inghil­terra i labu­ri­sti sono stati scon­fitti recen­te­mente per la seconda volta da Came­ron, in attesa che la stella di Cor­byn si levi in cielo dall’orizzonte, — diviene in Ita­lia, come sem­pre più spesso capita, un alle­gro (o meglio: squal­lido) spet­ta­colo della “com­me­dia dell’arte”. Non c’è un prov­ve­di­mento del governo Renzi che sia mini­ma­mente con­di­vi­si­bile. Il Jobs act. Il pro­gramma deva­stante e anti­am­bien­ta­li­sta delle Grandi Opere. La cosid­detta “Pes­sima Scuola”. Tutto è diven­tato com­mer­ciale, usu­frui­bile, sfrut­ta­bile: se non lo è, lo deve diven­tare a viva forza. La vicenda delle nomine dei diret­tori dei grandi musei ita­liani è uno schiaffo alla dignità nazio­nale e un’offesa ai fun­zio­nari che hanno il com­pito isti­tu­zio­nale di difen­dere il patri­mo­nio arti­stico e i beni culturali.

Il caso Azzol­lini è uno schizzo di fango sulla toga già non del tutto imma­co­lata del Pd: l’ammonimento sus­se­guente e con­se­guente del Pre­si­dente del Con­si­glio, — «non siamo i pas­sa­carte dei Pm», — suona ine­qui­vo­ca­bil­mente come un’apertura di cre­dito nei con­fronti dei poli­tici cor­rotti e cor­rut­ti­bili («State tran­quilli, qual­siasi cosa fac­ciate, ci siamo noi pronti ad aiu­tarvi e proteggervi»).

Ma quel che più conta è l’obiettivo cui mira la riforma costi­tu­zio­nale già in atto: ne rias­sumo le con­clu­sioni. Se il pro­getto del ducetto di Rignano sull’Arno dovesse andare in porto, un par­tito del 35% (il 20%, più o meno degli aventi diritto al voto), avrebbe nelle pro­prie mani, a par­tire dalle pros­sime ele­zioni, non solo il Par­la­mento, la Pre­si­denza del Con­si­glio e il Governo, ma anche la Pre­si­denza della Repub­blica e la Corte Costi­tu­zio­nale.

Quando si parla con orgo­glio del Par­tito della Nazione, si dimen­tica che que­sta ano­mala carat­te­riz­za­zione è stata usata in pas­sato solo dai nazio­na­li­sti di primo Nove­cento, poi con­fluiti trion­fal­mente nel fasci­smo della prima ora, e poi, per l’appunto, con moti­va­zione ancor più evi­dente, nel Par­tito Nazio­nale Fasci­sta. Non è un caso che la forza inne­ga­bile, e temi­bile, di Mat­teo Renzi con­si­sta nell’avere a dispo­si­zione una pos­sente arma di riserva. Se le cose doves­sero andar­gli male, o solo un po’ peg­gio, l’alleanza con la destra ber­lu­sco­niana sarebbe sem­pre a por­tata di mano. Altro che inter­ru­zione o declino del Patto del Naza­reno! Il Patto del Naza­reno è stato calato gene­ti­ca­mente nelle fibre costi­tu­tive del Governo Renzi, può essere rein­te­grato in ogni momento, anzi, più esat­ta­mente, non è mai venuto meno.

Cioè: siamo in Ita­lia di fronte al rischio di un vero e pro­prio cam­bia­mento di regime.

La con­clu­sione di que­sto punto è che in Ita­lia, — un paese da tutti i versi nel degrado più com­pleto, (cor­ru­zione poli­tica, cri­mine orga­niz­zato, per­dita gene­ra­liz­zata di fidu­cia nella poli­tica) — la bat­ta­glia della sini­stra per le sue tra­di­zio­nali parole d’ordine, (libertà, giu­sti­zia, egua­glianza) — deve essere ispi­rata anche for­te­mente ai biso­gni e alle pro­spet­tive di una difesa e di un rein­te­gro degli assetti isti­tu­zio­nali e costi­tu­zio­nali, della pre­senza e della dignità dello Stato e della ricerca di quell’obiettivo, che, forse un po’ troppo gene­ri­ca­mente, ma anche molto effi­ca­ce­mente, si defi­ni­sce “bene comune”.

E’ quel che accade oggi? Le con­nes­sioni tra le varie parti di que­sto dif­fi­cile e sca­lare discorso, — poli­tica, eco­no­mia, assetti sociali, rap­porto istituzioni-lotta di classe, — ci sono evi­denti e per­ce­pi­bili, più o meno nello stesso modo, da Son­drio a Capo Pachino? Direi di no, per ora.

3) La sini­stra, — un po’ tutta: quella del centro-sinistra-destra, che ci governa, e quella della “sini­stra al tempo stesso clas­sica e nuova”, in Ita­lia non ha (e/o non vuole avere) memo­ria. Non ha intro­iet­tato e tanto meno meta­bo­liz­zato la Bolo­gnina di Occhetto, la bica­me­rale di D’Alema, la teo­riz­zata e con­cla­mata auto­suf­fi­cienza dei Ds di Wal­ter Vel­troni, la pugna­lata nella schiena inferta al Governo Prodi da Rifon­da­zione Comu­ni­sta, il vigo­roso tra­monto della stella rin­no­va­trice di Anto­nio Bas­so­lino, per­sino il recente, smi­su­rato soste­gno isti­tu­zio­nale e costi­tu­zio­nale del Pre­si­dente Napo­li­tano all’esperimento Renzi.

Tanto meno ha intro­iet­tato e meta­bo­liz­zato i ten­ta­tivi di vol­tar pagina, che pure in que­sta nostra sini­stra ci sono stati. Più o meno dieci anni fa (2004–2005), in una con­giun­tura enor­me­mente più favo­re­vole di quella odierna, un gruppo di com­pa­gni diede vita a una cosa che si chia­mava “Camera di con­sul­ta­zione della sini­stra” e pro­pu­gnava, per l’appunto, l’unità della sini­stra radi­cale (Rifon­da­zione comu­ni­sta, Comu­ni­sti ita­liani, Verdi, parti impor­tanti della sini­stra Ds, gruppi auto­nomi, ecc ecc.). L’esperienza ebbe una larga e ricca gesta­zione, fu soste­nuta da un dibat­tito inte­res­san­tis­simo su il mani­fe­sto, ospite soli­dale e par­te­cipe, sfo­ciò in una grande Assem­blea nazio­nale alla Fiera di Roma. Il giorno in cui (12 aprile 2005) il lavoro avrebbe dovuto con­clu­dersi con un voto su di un docu­mento pro­gram­ma­tico, e di lì pas­sare ai fatti, Fau­sto Ber­ti­notti, segre­ta­rio di Rifon­da­zione comu­ni­sta, ne sabotò dura­mente il pro­se­gui­mento. Si avvi­ci­na­vano le ele­zioni. Il suo pro­gramma era un altro. La vit­to­ria elet­to­rale e, con­se­guen­te­mente, la par­te­ci­pa­zione a un governo for­te­mente spo­stato a sini­stra? No, la Pre­si­denza della Camera dei depu­tati. Oltre al fal­li­mento del pre­detto ten­ta­tivo, ne deri­va­rono diverse altre con­se­guenze nega­tive, fra cui, al limite, anche la scis­sione di Rifon­da­zione comu­ni­sta: una prova lam­pante di cosa signi­fi­chi lavo­rare, ala­cre­mente e astu­ta­mente, non per l’unità della sini­stra ma per la sua disunione.

Risen­ti­mento? Ran­core? Sì, certo. Ma anche qual­cosa di più. Abbiamo alle spalle un numero straor­di­na­rio di scon­fitte, gio­cate sia sul piano sto­rico e poli­tico sia su quello per­so­nale. Un ele­mento di rifles­sione sto­rica e poli­tica riguarda ad esem­pio l’impressionante declino della classe poli­tica comu­ni­sta post-berlingueriana.

Uno sto­rico serio dovrebbe affron­tare la que­stione e spie­garci come que­sto sia potuto acca­dere, e in que­sta misura. Un ele­mento di rifles­sione per­so­nale e antro­po­lo­gica riguarda invece la ina­spet­tata insor­genza e poi, deci­sa­mente, la pre­va­lenza, nei rap­pre­sen­tanti più in vista di tale ceto poli­tico; di que­gli ele­menti di un’etica degra­data e per­so­na­li­stica, che ci asse­diano da tutte le parti e che, a parole, ma a dir la verità sem­pre meno spesso, viene con­dan­nata nella società che ci circonda.

Con­clu­sione: se non si intro­ietta e rie­la­bora tutto que­sto, meglio non ricominciare.

4) Veniamo ora, scon­so­la­ta­mente, dalla disil­lusa e pres­so­ché dispe­rata rie­vo­ca­zione del pas­sato, ai buoni pro­po­siti del futuro. Ci vor­rebbe, — con­di­tio sine qua non: tener conto, certo, e farne il fon­da­mento, dei punti elen­cati ai n. 1, 2 e 3, — un nuovo Par­tito: un par­tito for­te­mente demo­cra­tico (una testa, un voto, e fin dall’inizio); for­te­mente rifor­mi­sta (non è più il tempo di un pro­te­stan­te­simo gene­rico e paro­laio, biso­gna indi­care con esat­tezza cal­vi­ni­sta le cose da fare, la gerar­chia con cui farle, per chi e come farle); e for­te­mente euro­pei­sta (per un’Europa fede­rata poli­ti­ca­mente, all’interno della quale valga il cri­te­rio politico-istituzionale della rap­pre­sen­tanza e non la forza di con­tra­sto e di ricatto della potenza eco­no­mica capi­ta­li­stica e delle tec­no­cra­zie ad essa asservite).

Un par­tito, dico, non una rete. So per espe­rienza (l’esperienza che manca alla mag­gior parte dei miei pos­si­bili inter­lo­cu­tori) che da una rete, — una qual­siasi rete, di asso­cia­zioni, di comi­tati, di gruppi, — non si decolla mai verso l’alto, ci si allarga solo, se va molto bene, orizzontalmente.

Un par­tito, aggiungo, pro­mosso e fatto soprat­tutto da gio­vani: tren­ta­cin­que, qua­ran­tenni. L’esperienza, anche in que­sto caso, dimo­stra che, per sor­gere o risor­gere, biso­gna sca­vare un fos­sato ben visi­bile rispetto al pas­sato (Pode­mos, Syriza). Il per­so­nale poli­tico e intel­let­tuale della “nuova sini­stra” è più vetu­sto di quello di centro-sinistra-destra (sto par­lando di me in primo luogo, ovvia­mente). I gio­vani non ci sono? Se non ci sono, vuol dire che l’Italia di oggi non li pro­duce, e se è così, è un bel guaio. Ma forse, anche in que­sto caso, abbiamo fatto di tutto, e stiamo ancora facendo di tutto, per­ché l’Italia non li pro­duca. Se si pro­po­nesse una leva, con l’obiettivo dichia­rato ed espli­cito di cedere alle nuove gene­ra­zioni il bastone del comando, forse qual­cosa di nuovo potrebbe sal­tar fuori. Meglio i pos­si­bili, dif­fi­cil­mente pre­ve­di­bili errori dei gio­vani che quelli, asso­lu­ta­mente pre­ve­di­bili, anzi già oggi del tutto scon­tati, dei nostri vetu­sti dirigenti.

Poi ci vuole una Per­sona, un’identità ben pre­cisa sia maschile che fem­mi­nile. E oggi, in tempo di media­ti­che mat­tane, ancora di più. L’esperienza recente lo dimo­stra: senza Igle­sias, senza Tsi­pras, per­sino senza Grillo, il com­bi­nato dispo­sto di pro­te­sta, irri­ta­zione, ricerca del nuovo, tanto più in assenza di un auten­tico, mate­riale, evi­dente, punto di rife­ri­mento sociale, non qua­glia. Dov’è que­sta Per­sona? Non sarà che a restar chiusi ancora una volta, per un’elementare rea­zione di auto­di­fesa, nella pic­cola legione mace­done fatta di qua­dri vetu­sti e d’intellettuali sta­gio­nati, la per­sona non rie­sce a venir fuori, resta ancora una volta e per sem­pre il dete­stato ed esor­ciz­zato Pover’Uomo di fal­la­diana memoria?

Per­ché que­ste e tutte le altre prove e con­tro­prove siano fatte ci vuole dun­que una vera (sot­to­li­neo: vera) fase costi­tuente, nel corso della quale si veri­fi­chi seria­mente, non solo e non soprat­tutto, se siamo d’accordo fra noi, ma se ci sono altri che sono d’accordo con noi: dispo­sti noi di con­se­guenza a cam­biare, se gli altri, i “nuovi” del “par­tito nuovo”, ci per­sua­de­ranno che le loro ragioni sono migliori delle nostre (che poi è esat­ta­mente quello che ci si dovrebbe augu­rare che avvenga). Que­ste ragioni devono venire soprat­tutto dall’esterno: non pos­siamo pre­ten­dere oggi di farle tutte bell’e con­fe­zio­nate dal nostro stanco e mille volte scon­fitto cervello.

5) Infine. Abbiamo sotto gli occhi la recen­tis­sima lezione, al tempo stesso esal­tante e dram­ma­tica, della Gre­cia. Nello spa­zio di un colpo di ful­mine siamo pas­sati dall’ammirazione scon­fi­nata per il pro­cesso di libe­ra­zione corag­gio­sa­mente ini­ziato e por­tato avanti da Syriza alla con­tem­pla­zione pro­ble­ma­tica del pro­cesso di com­pro­messo con le potenze domi­nanti all’interno della Ue pre­di­spo­sto e accet­tato dal Governo Tsi­pras per sal­vare il sal­va­bile e con­ti­nuare al tempo stesso il pro­cesso.

Non avrebbe alcun senso fon­dare qual­siasi cosa, e in modo par­ti­co­lare una nuova orga­niz­za­zione poli­tica, senza scio­gliere il nodo che tale evo­lu­zione ci costringe a esa­mi­nare e valu­tare, e di con­se­guenza con­ti­nuare a por­tarlo e rumi­narlo den­tro, invece di lasciarlo fuori, come una delle tante ere­dità mefi­ti­che del nostro sem­pre con­trad­dit­to­rio pas­sato. Insomma: biso­gna dire con chi si sta.

Io sto con Ale­xis Tsipras.
«Il nodo delle rela­zioni non è una que­stione paral­lela, ma cen­trale. Sia nella valo­riz­za­zione di poteri alter­na­tivi sia nel creare coe­sione, per reg­gere lo scon­tro vio­lento. Per­ché sono l’oggetto dei pro­cessi di rior­ga­niz­za­zione in corso ad opera di un capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta che nella vita entra senza rite­gno, e la rimo­della a pro­prio piacimento».

Il manifesto, 26 agosto 2015

Quali erano i pen­sieri, le idee, i sogni di Paola, brac­ciante morta di fatica – cioè di lavoro secondo la lin­gua del sud – tra le vigne di Trani? E cosa pen­sano, desi­de­rano, sognano i dipen­denti Ikea che fanno scio­peri ine­diti in tutta Ita­lia, con la soli­da­rietà dei clienti? Cosa c’è nella loro mente? C’è l’idea di un mondo dove ci sia più giu­sti­zia? Col­ti­vano con­crete spe­ranze di poter cam­biare le loro con­di­zioni di vita? Su chi fanno affi­da­mento? Natu­ral­mente oltre i sindacati?

Rischio volu­ta­mente la reto­rica, nell’accostare l’arcaico capo­ra­lato e la moderna pre­ca­rietà mul­ti­forme, espe­rienze con­tem­po­ra­nee di cui gli esempi si potreb­bero mol­ti­pli­care, tutti accu­mu­nati da un sala­rio ora­rio inde­cente, o sem­pre più basso. La reto­rica spa­ri­sce se rove­scio la domanda: la sini­stra ha in mente Angela, i suoi com­pa­gni di lavoro, o i dipen­denti dell’Ikea? Pensa, la sini­stra, imma­gina, pro­getta come affron­tare, risol­vere i pro­blemi della vita di que­ste per­sone? Il modo per pro­teg­gerle dalla fero­cia del capi­ta­li­smo neo-liberista? Strade per­cor­ri­bili, anche audaci, con­flit­tuali, peri­gliose, e per­ché no, rivol­tose, ma che per­met­tano di intra­ve­dere modi diversi di vivere?

La rispo­sta è bru­tale: no, da molto tempo que­sto non avviene. E que­sto è il nodo cru­ciale del dibat­tito aperto da Norma Ran­geri e dal mani­fe­sto: l’incontro man­cato. Tra ciò che è nella mente di chi si trova in con­di­zioni di vita sem­pre più dura, — chi non rie­sce a pagarsi un affitto, chi affronta una riforma della scuola che solo per finta assume chi è pre­ca­rio, pre­cari della cono­scenza che man­ten­gono con il loro lavoro semi­gra­tuito uni­ver­sità, cen­tri di ricerca e sistemi di infor­ma­zione – se ci sono, desi­deri e spe­ranze, dif­fi­cil­mente si chia­mano “sini­stra”. E dall’altra parte i pro­getti di chi dovrebbe aprire lo spa­zio di ela­bo­ra­zione e di pra­ti­che poli­ti­che che a quelle menti pos­sano par­lare, dare respiro e speranza.

Non inte­ressa, qui, fare l’analisi delle respon­sa­bi­lità. Fer­marsi ancora una volta a fare l’inventario delle colpe, oggi sarebbe quasi cri­mi­nale. Non c’è vita, nella recri­mi­na­zione e nel ran­core. E lo dico da fem­mi­ni­sta quale sono, sem­pre più sgo­menta nel con­sta­tare l’impossibilità, per tanti, troppi – uomini – di rico­no­scere il peso, l’influenza, l’acutezza della cri­tica fem­mi­ni­sta alla loro poli­tica, e che inca­paci come sono di acco­glierla espli­ci­ta­mente pro­ce­dono come se nulla fosse suc­cesso. Certa che que­sto muro di silen­zio sia parte del pro­blema, della dif­fi­coltà di met­tere a fuoco visioni ampie, inclu­sive, e nello stesso tempo con­vinta che anche il fem­mi­ni­smo sia impli­cato, nel vuoto che ci affligge.

Non c’è solo l’effetto-distrazione nell’essersi fis­sate troppo sull’obiettivo pari­ta­rio, così facil­mente fatto pro­prio dalla logica neo-liberista. È come se avere aperto la strada, almeno in Occi­dente, alla libertà fem­mi­nile, avesse spinto a chiu­dere gli occhi su quanto avviene. Come se per esem­pio il feroce aumento della dise­gua­glianza eco­no­mica non riguar­dasse le donne. Che ne sono le prime vit­time, sotto mol­te­plici aspetti, dallo sfrut­ta­mento del lavoro di cura alla diretta messa al lavoro del corpo fem­mi­nile, della ripro­du­zione. Anche da parte di altre donne.

Si parla spesso di un ritorno all’Ottocento. È un’argomentazione effi­cace, aiuta a pren­dere coscienza della pesan­tezza delle con­di­zioni di vita, o a recu­pe­rare forme di auto-organizzazione come il mutua­li­smo, rico­struen­done il mito e l’epica. Ma in un’immaginaria replica con­tem­po­ra­nea del “Quarto Stato” di Pelizza da Vol­pedo, non ci sarebbe una donna con un bimbo in brac­cio, die­tro e di lato a un uomo, a uomini che com­bat­tono in prima fila. Dove sareb­bero le donne? E gli stessi uomini? E i bam­bini? E que­sti, di chi sareb­bero figli?

Non sono det­ta­gli fuor­vianti. Come non capire che que­sto qua­dro mutato e mutante è parte essen­ziale di ciò che va pen­sato, anche nel met­tere a fuoco nuovo forme orga­niz­za­tive? Che il nodo delle rela­zioni non è una que­stione paral­lela, ma cen­trale? Sia nella valo­riz­za­zione di poteri alter­na­tivi sia nel creare coe­sione, per reg­gere lo scon­tro vio­lento. Per­ché sono l’oggetto dei pro­cessi di rior­ga­niz­za­zione in corso ad opera di un capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta che nella vita entra senza rite­gno, e la rimo­della a pro­prio piacimento.

Esat­ta­mente come agi­sce per la ride­fi­ni­zione– distru­zione di demo­cra­zia. Nel qua­dro delle isti­tu­zioni, euro­pee e non solo. Fanno parte di un unico dise­gno di comando che va combattuto.

Di que­sto si dovrebbe par­lare, se si parla di vita a sini­stra. Se si vuole entrare nella brec­cia che Ale­xis Tsi­pras con grande luci­dità poli­tica con­ti­nua a tenere aperta. Mi auguro, nel fitto calen­da­rio di impe­gni tra movi­menti e orga­niz­za­zioni fino a novem­bre, che il gesto del dirsi “siamo qui, par­tiamo”, sia rapido, veloce, quasi non­cu­rante. Come chi sa che non c’è nulla da esal­tare, in effetti. Che orga­niz­zarsi non è occu­parsi di sé. L’urgenza è met­tersi in grado di aprire spazi e pen­sieri, libe­rare l’immaginazione. Un lavoro di lunga lena.

Prosegue il dibattito su "La sinistra vive?"Un ragionevole elenco delle undici novità, rispetto alla sinistra novecentesca, di cui è indispensabile tenere conto se ci si propone per lavorare alla costruzione di una sinistra per il secondo millennio.

Il manifesto, 26 agosto 2015

Per sce­gliere come agire con­viene par­tire dalla cono­scenza dei dati di fatto. Eccone alcuni, a mio avviso rilevanti:

a) Sta tor­nando, anche nel cuore di società ric­che, la schia­vitù; secondo una stima della Cgil in tale con­di­zione si tro­vano (ma le stime sono rife­rite a ciò che è visi­bile, non al som­merso) già 400.000 esseri umani, in larga parte extra­co­mu­ni­tari; il “pro­fitto” se ne giova enormemente.

b) Stret­ta­mente con­nesso è il potere incon­tra­stato dei grandi e meno grandi cen­tri mafiosi equa­mente dif­fusi nel pia­neta. (Con la vit­to­ria della “libertà” a Mosca, anche Mosca è diven­tato un epi­cen­tro mafioso). Le ban­che rici­clano indi­stur­bate il “denaro sporco”, di cui droga, pro­sti­tu­zione, capo­ra­lato, ecc. sono l’alimento. Così l’intreccio tra capi­tale finan­zia­rio e mala­vita si è com­piuto. Nella totale pas­si­vità e com­pli­cità dei poteri politici.

c) Il cosid­detto feno­meno migra­to­rio ha carat­tere strut­tu­rale ed epo­cale. Ogni tro­vata mirante a inter­rom­perlo (respin­gi­menti, inter­venti nei luo­ghi di par­tenza) è risi­bile. E’ come voler svuo­tare il mare col mestolo. L’Occidente – fab­bri­canti di armi sem­pre pronti a com­muo­versi, inter­venti impe­riali in Irak, Siria, Libia ecc. — ha creato i disa­stri, una cui con­se­guenza è tale migra­zione di popoli.

d) La muta­zione della Cina in paese iper­ca­pi­ta­li­stico a carat­tere nazio­nal­so­cia­li­sta ha chiuso il ciclo nove­cen­te­sco del “socialismo”.

e) La fine del movi­mento comu­ni­sta ha com­por­tato anche il declino delle socialdemocrazie.

f) Il mec­ca­ni­smo elet­to­rale plu­ri­par­ti­tico (carat­te­ri­stica e vanto dell’Occidente) è defunto. Ciò gra­zie a dina­mi­che liber­ti­cide irre­ver­si­bili: delega dei poteri deci­sio­nali a strut­ture tec­ni­che non elet­tive, e per di più mas­sic­cia intro­du­zione di sistemi elet­to­rali di tipo mag­gio­ri­ta­rio. Il de pro­fun­dis è stato il for­male misco­no­sci­mento della volontà espressa dal refe­ren­dum greco di luglio da parte dello stesso governo che lo aveva indetto. Ciò, per ordine e ricatto di una entità priva di qua­lun­que legit­ti­ma­zione elet­to­rale quale l’Eurogruppo.

g) Il sog­getto sociale tra­di­zio­nale dei par­titi di sini­stra è, nume­ri­ca­mente, in via di estin­zione. Mi rife­ri­sco all’operaio di fab­brica, o meglio a quella parte che veniva un tempo defi­nita “ope­rai coscienti”. Sono suben­trati per un verso la nuova schia­vitù, per l’altro un gigan­te­sco ceto medio con­dan­nato ad un cre­scente impo­ve­ri­mento, in alcuni paesi appe­san­tito dalle rigi­dità della moneta unica.

h) Una for­ma­zione poli­tica di sini­stra dovrebbe dun­que deci­dere se: (1) sce­gliere di rap­pre­sen­tare i nuovi dise­re­dati, ovvero (2) pun­tare, con qua­lun­que alleato, ad andare al governo a qua­lun­que costo per fare una qua­lun­que poli­tica. Da tempo, la ex-sinistra (in Ita­lia, Fran­cia, Ger­ma­nia, ora anche Gre­cia) ha scelto tale seconda opzione.

i) La sola bat­ta­glia pos­si­bile in que­sta situa­zione è di carat­tere cul­tu­rale, il più pos­si­bile di massa. Descri­vere scien­ti­fi­ca­mente il “capi­tale” del XXI secolo e sma­sche­rare la cosid­detta “demo­cra­zia occi­den­tale”; dif­fon­dere la con­sa­pe­vo­lezza della sua vera natura. I luo­ghi di inter­vento non sono molti. La grande stampa fun­ziona sulla base di una costante cen­sura del pen­siero cri­tico nei con­fronti dell’Occidente. Ma c’è un grande ter­reno di lotta cul­tu­rale, che è la scuola. E’ lì che si può indi­riz­zare una lotta tenace in favore del pen­siero critico.

j) Verrà sol­le­vata la que­stione: ma qual è la classe sociale di cui la sini­stra dovrebbe rap­pre­sen­tare gli inte­ressi? Lo sfrut­ta­mento non è affatto scom­parso, ma è ormai soprat­tutto sfrut­ta­mento del lavoro intel­let­tuale che costi­tui­sce la parte essen­ziale del ciclo pro­dut­tivo. E per­sino ai qua­dri medio/alti — per ora ben pagati – andrebbe fatto capire che anch’essi sono degli sfrut­tati e che chi li sfrutta è mera­mente parassitario.

k) Nell’epoca del domi­nio mon­diale del capi­tale finan­zia­rio, “il nemico” è quasi invisibile.

Le ragioni dell'urgenza di uscire dalla "crisi della sinistra e della necessaria centralità della questione del lavoro. Ma è sufficiente oggi ragionare dall'interno della logica del capitalismo e della sua concezione del lavoro?

Il manifesto, 21 agosto 2015

La sini­stra è in una crisi sto­rica e, direi, mon­diale. Su que­sto tema è in corso sul mani­fe­sto (che si defi­ni­sce ancora “quo­ti­diano comu­ni­sta”) un’utile ricerca, «C’è vita a sini­stra ?», avviata in luglio e che dovrebbe por­tarci almeno all’abbozzo di una con­clu­sione sulla base degli inter­venti pub­bli­cati e in arrivo.

Sap­piamo bene che da una crisi, spe­cie se grande e pesante, non se ne esce restando come prima e i rischi di andare al peg­gio sono forti. Già con Renzi pre­vale la poli­tica di destra: la pro­spet­tiva è che o resi­ste accre­scendo il suo potere per­so­nale o sarà sca­val­cato da un’avanzata delle forze dichia­ra­ta­mente di destra. Le crisi sono una cosa seria.

Non si ricorda mai abba­stanza che dopo la rivo­lu­zione russa del 1917 e le grandi lotte ope­raie in tutta Europa, ci fu una rispo­sta rea­zio­na­ria con il fasci­smo e il nazi­smo che acqui­sta­rono forza con la crisi del l929 e matu­ra­rono le con­di­zioni per la Seconda Guerra Mondiale.

Nel secondo dopo­guerra ci fu un grande svi­luppo eco­no­mico anche in Ita­lia ( il famoso mira­colo ita­liano) accom­pa­gnato da un’avanzata della sini­stra. Ma durò poco. Già con gli anni ’80 comin­cia a matu­rare l’attuale gra­vis­sima crisi nella quale siamo oggi: dell’economia della poli­tica, e, direi anche della cultura.

Per ten­tare una ripresa della sini­stra, ci vuole una buona ana­lisi dell’attuale crisi; senza una seria dia­gnosi non si cura una malat­tia. E biso­gna anche chie­dersi per­ché con la forte disoc­cu­pa­zione, soprat­tutto gio­va­nile, non ci siano lotte e pro­te­ste, i sin­da­cati sono inde­bo­liti e anche la buona ini­zia­tiva di Lan­dini fa fatica a decol­lare. Senza con­tare che oggi, il ruolo ammor­tiz­za­tore delle fami­glie si sta esaurendo.

L’attuale pesan­tis­sima crisi ha cause strut­tu­rali da ricer­care, come sosten­gono impor­tanti eco­no­mi­sti, nella glo­ba­liz­za­zione e nel pro­gresso tec­nico. La glo­ba­liz­za­zione, con la rapida cre­scita della comu­ni­ca­zione com­porta l’ingresso sul mer­cato di indu­strie di paesi a bassi salari come la Cina che con la recente sva­lu­ta­zione riduce i prezzi del suo pro­dotto, attira gli inve­sti­menti dei paesi indu­stria­liz­zati (da leg­gere un altro edi­to­riale di Romano Prodi sul Mes­sag­gero del 15 ago­sto). Il pro­gresso tec­nico – e non da oggi - riduce l’importanza del lavoro vivo e pro­duce disoc­cu­pa­zione.

Due effetti assai forti che col­pi­scono soprat­tutto il lavoro vivo e, quindi, anche la sog­get­ti­vità stessa dei lavo­ra­tori, e che met­tono in evi­denza come il pro­gresso tec­nico che in regime socia­li­sta (o non capi­ta­li­sta) miglio­re­rebbe le con­di­zioni di tutti, in regime capi­ta­li­stico pro­voca disoc­cu­pa­zione, mar­gi­na­liz­za­zione e mise­ria da una parte e con­cen­tra­zione del potere e della ric­chezza in un ristretto e potente gruppo di capi­ta­li­sti finan­ziari dall’altra.

Que­sta del pro­gresso tec­no­lo­gico nemico strut­tu­rale del lavoro vivo è sto­ria antica e non pos­siamo dimen­ti­care che l’avvio dell’industrializzazione capi­ta­li­stica in Inghil­terra diede vita al movi­mento lud­di­sta che con­te­stava l’introduzione delle mac­chine. Allora il lud­di­smo fu tra­volto dallo svi­luppo e dalla cre­scita della pro­dut­ti­vità. Ma fu bat­tuto anche dalle lotte ope­raie per il miglio­ra­mento delle con­di­zioni di lavoro e, soprat­tutto, dalle pro­gres­sive ridu­zioni dell’orario (va ricor­data la con­qui­sta delle dieci ore e poi delle attuali otto ore mai più ridotte da quasi un secolo).

Oggi di fronte alla attuale gra­vis­sima crisi e alla disoc­cu­pa­zione in cre­scita, biso­gna rimet­tere al primo posto ( ma per alcuni è un con­tro­senso) la ridu­zione dell’orario, anche se il lavoro nei paesi che entrano oggi sul mer­cato glo­bale è sot­to­pa­gato, con orari otto­cen­te­schi e con­tra­sta con que­sta riven­di­ca­zione. Si tratta ora di rove­sciare l’uso che il capi­ta­li­smo fa del pro­gresso tec­nico ma ricor­dare anche che le pro­gres­sive ridu­zioni dell’orario hanno con­tri­buito alla cre­scita dei con­sumi e dello stesso mer­cato. Oggi una ridu­zione dell’orario di lavoro penso che gio­ve­rebbe anche ai capi­ta­li­sti che con la finanza si arric­chi­scono, ma rischiano di affogarvi.

La ridu­zione del tempo impe­gnato nel lavoro dipen­dente accre­sce­rebbe il cosid­detto “tempo libero”, che oltre a miglio­rare le con­di­zioni di vita darebbe spa­zio a nuovi con­sumi, a nuove spese diven­tando così anche un fat­tore di cre­scita del mer­cato e della società. Anche i capi­ta­li­sti dovreb­bero aver capito che se il popolo sta meglio i loro affari miglio­re­ranno. Ma i capi­ta­li­sti temono da sem­pre che la cre­scita della libertà del mondo del lavoro riduca, quasi auto­ma­ti­ca­mente il pro­prio potere poli­tico ed economico.

Ma vogliamo aspet­tare che siano i capi­ta­li­sti a pro­porre la ridu­zione dell’orario di lavoro? Oggi, anche per­ché la disoc­cu­pa­zione cre­sce e nel mondo del lavoro cre­sce non solo la domanda di sala­rio, ma anche quella di libertà e di cul­tura, la ridu­zione dell’orario di lavoro, e la gestione del “tempo libero”, que­sto immenso spa­zio da con­qui­stare e orga­niz­zare, dovrebbe diven­tare l’obiettivo sto­rico della classe ope­raia, dei suoi sin­da­cati e delle forze che dicono di volerla rappresentare.

Già ad agosto, sulla pagina sportiva di

Repubblica, si poteva leggere: «Austerity? In serie A è già finita». E proseguiva...(continua la lettura)

Già ad agosto, sulla pagina sportiva di Repubblica, si poteva leggere: «Austerity? In serie A è già finita». E proseguiva, «Big mai così spendaccione». Dunque lo sport più popolare del mondo torna ai fasti dei grandi acquisti di campioni, dei colpi clamorosi a suon di milioni di euro.Torna? Come se quei fasti li avesse per qualche momento abbandonati. Il calcio – sport meraviglioso, ça va sans dire – oltre a far sognare, dar senso alla vita, istupidire da una settimana all'altra centinaia di milioni di persone, è uno straordinario veicolo ideologico. Della società dello spettacolo costituisce forse il mezzo più popolare e potente per fare accettare, come naturali, le disuguaglianze che lacerano la società del nostro tempo. Un ragazzo di 22 due anni è acquistato al prezzo di 40 milioni di euro? Guadagna in un solo giorno, da contratto, quanto un operaio non riuscirà mai a racimolare in una intera vita di fatica? Ma quel ragazzo è «una forza della natura», è «il terrore delle difese», «segna goal incredibili». Una giustificazione di merito, una gerarchia di valore, una speciale aristocrazia dello spirito vengono frettolosamente messi in piedi per giustificare l'accaparramento di immense fortune da parte di un singolo individuo.

Mai qualcosa di simile poteva accadere nelle società del passato. Solo nelle favole. Non a caso, per secoli, si sono sono raccontate storie di favolosi ritrovamenti, di Isole del tesoro, sparse per i mari del mondo. Oggi un talento fisico particolare, regalato a un individuo dal puro caso, calato dal cielo come la Grazia dei protestanti, può determinarne un incremento stellare della ricchezza personale nel giro di poco tempo. Naturalmente la giustificazione economica viene subito in soccorso a dar senso all'enormità. Il campione contribuisce ai grandi incassi della società, è giusto che una parte rilevante dei profitti vada a lui. E poi i prezzi dei calciatori li determina il libero mercato. Se una società decide di acquistare ad alto prezzo un campione lo fa secondo i propri calcoli di impresa. Avrà il suo tornaconto. Dov'è lo scandalo? Nessuna meraviglia, occorre d'altronde che appaia vantaggiosa la compravendita di uomini, che è l'essenza nascosta della società capitalistica.
Tale razionalità mercantile ha tuttavia lo scopo di fare accettare ai tifosi, in un ambito un tempo ispirato a regole puramente agonistiche, quelle che dominano la società intera. Se c'è sul mercato un valente campione, occorre comprarlo, come si compra un vitello in fiera, magari nel corso dello stesso campionato, non importa se l'anno precedente, quello stesso campione ci ha inflitto uno sconfitta umiliante.I colori e le bandiere, l'identità storica della squadra? E che c'entra? Quel che è importante è vincere. E i campioni, gli individui eroi, i leader sono importanti per vincere, esattamente come accade per i partiti politici. Non importa con quale programma e per far cosa: la vittoria elettorale è il fine che assorbe interamente il loro agire politico .
Quel che conta, nel calcio come in politica, è il primo posto, la coppa, i soldi, il potere. Ma alla fine del percorso si vede bene in quale bolla di valori neoliberistici galleggia il mondo artefatto di questo sport. Si esalta sempre di più il merito del singolo, a cui si assegnano virtù salvifiche, mentre si deprime l'idea di una squadra come collettivo cooperante e proprio per questo esteticamente e moralmente da ammirare. E se la vittoria è l'unico fine e il mezzo sono i singoli campioni, quel che decide tutto alla fine è il mercato, l'acquisto dei singoli. Dunque il “merito” della squadra si riduce al potere d'acquisto, ai capitali investiti, ai soldi. Il merito che vale nel campionato è in realtà funzione del potere finanziario delle singole società, è deciso da una solida gerarchia economica.
Gratta, gratta, sotto lo smalto lucente del valore trovi sempre l' opaco luccicore del denaro. Ma le partite, il campionato, il calcio mercato, grazie alla TV, costituiscono forse la più sfolgorante costellazione della società dello spettacolo. Essi formano il cielo stellato dei divi, supereroi che possono godere di ingaggi milionari, che vivono al di sopra della mischia indistinta dei mortali, ammirati da folle adoranti che ne urlano il nome. I loro stipendi, introiti pubblicitari, premi-partita, ecc. l'intero sopramondo di privilegi in cui vivono immersi appare naturale, accettato come si accetta la supremazia della divinità.
Nulla meglio del calcio mostra oggi come il divismo sia diventato la spettacolarizzazione delle disuguaglianze ad uso del popolo. E' diventato un elemento della cultura popolare. Di che stupirsi se ai grandi a manager di azienda vengono elargiti stipendi centinaia, talora migliaia di volte più elevati del salario degli operai ? Sono i capi, i comandanti, i grandi dirigenti che fanno la fortuna dell'impresa. Lì è il merito. E gli operai, quelli che con la propria quotidiana fatica trasformano le materie prime in beni vendibili, che generano la ricchezza generale, realizzano servizi essenziali al funzionamento della macchina sociale? Quanti talenti sconosciuti, quante donne e uomini portatori di merito – di eccellenza, come dicono i cantori del conformismo corrente - operano all'oscuro, nella massa indistinta delle maestranza di fabbriche ed uffici? Ma costoro svolgono un'opera anonima e collettiva, sempre uguale e ripetitiva, non sono individui, autori di scelte e gesti, di azioni quotidiane sempre nuove, che possono essere vendute sui media, e perciò non possono entrare a far parte della società dello spettacolo.

Senza dire che il merito è, per definizione, di pochi, sia perché non si può premiare tutti, col rischio di cadere nell'egalitarismo, sia perché occorre creare degli idoli, piccoli o grandi che siano, cui la massa deve aspirare per poter sopportare meglio il proprio anonimato, la propria mediocrità quotidiana. Il calcio, infatti, costituisce un universo divistico paradigmatico, ma non è certo il solo.

I media hanno trasferito un fenomeno che in origine, nel XX secolo, era nato con il cinema, all'intera società. Provate, entrando in una qualunque edicola, a guardarvi intorno mentre comprate i vostri giornali. E' come trovarsi in un santuario di paese costellato di immagini votive, il luogo di culto di arcaiche superstizioni. Dalle copertine dei rotocalchi, dei magazine, dei quotidiani, dei libri, dei video, ecc,centinaia di volti e di corpi vi sorridono e vi guardano desiderosi di essere comprati. E' cosi anche all'interno dei quotidiani, che cercano di competere con la TV e vi offrono foto giganti di manager e finanzieri, scrittori, attori, uomini politici, capi di stato.

I nuovi dei del nostro tempo sono tutti lì, come del resto nei palinsesti televisivi, divinità di un politeismo merceologico, necessari a incrementare l'industria editoriale, ma anche a diffondere un messaggio fondamentale: la società, con i suoi obblighi e costrizioni, esiste solo per i sommersi, coloro il cui destino è segnato dall'anonima ripetizione del lavoro e della precarietà. Gli altri sono gli individui. Per gli altri c'è il protagonismo della vita. O almeno è questo che deve apparire, perché il fine ideologico fondamentale del divismo è persuadere che la disuguaglianza è naturale, è frutto del merito di chi ci sa fare. Vuol far vincere l'idea che ci si salva e ci si rende visibili, non tutti insieme, con la lotta politica, ma soltanto da soli, ognuno per sé.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto

«Costituzione. Per venire fuori dal pantano della riforma, il governo prepara una "mediazione" che peggiora ancora il nuovo bicameralismo. E imbroglia sulle bocciature dei professori. ».

Il manifesto, 19 agosto 2015 (m.p.r.)

Sena­tori eletti dal popolo o scelti da (e tra) il per­so­nale poli­tico di seconda fascia - come sono i con­si­glieri regio­nali rispetto ai par­la­men­tari? A set­tem­bre la com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali del senato ripren­derà a lavo­rare sul dise­gno di legge di revi­sione costi­tu­zio­nale Renzi-Boschi e dovrà imboc­care una delle due strade. Quin­dici mesi fa la stessa com­mis­sione, all’epoca del primo pas­sag­gio in par­la­mento della riforma, aveva scelto l’elezione diretta, appro­vando un ordine del giorno del leghi­sta Cal­de­roli. Ma il governo non era d’accordo. E così il lavoro del senato è andato avanti igno­rando quell’ordine del giorno e met­tendo le basi per la riforma com’è oggi, con i sena­tori scelti all’interno dei con­si­gli regio­nali. Un pre­ce­dente utile da ricor­dare a chi oggi, quando si chiede l’elezione diretta, risponde che non si può ripar­tire sem­pre da capo.

Allora i leghi­sti stril­la­rono che non si poteva igno­rare l’ordine del giorno per l’elezione diretta, chia­ma­rono in causa la giunta per il rego­la­mento del senato. E lo stesso fece il sena­tore Mauro quando, imme­dia­ta­mente dopo quel voto, fu sosti­tuito nella com­mis­sione da un altro sena­tore del suo gruppo, ma favo­re­vole alla riforma. Iden­tica sorte toccò a due sena­tori della mino­ranza Pd, che però non si oppo­sero alla rimo­zione. In ogni caso la giunta non decise, lo strappo fu sanato con il silen­zio. E siamo a oggi, quando davanti alla com­mis­sione di palazzo Madama c’è il testo nel frat­tempo modi­fi­cato dalla camera, ma non nel punto della com­po­si­zione del senato — se non in una parola che può ser­vire come cavallo di Troia per ammet­tere modi­fi­che sostan­ziali. Il punto è ancora quello: futuri sena­tori eletti dal popolo oppure no?

L’orientamento dei sena­tori attuali non è cam­biato, e resta favo­re­vole all’elezione diretta. Lo dimo­stra la conta degli emen­da­menti. Sono sei i gruppi che hanno pre­sen­tato pro­po­ste per il ritorno al senato elet­tivo, e poi ci sono i 28 della mino­ranza Pd: in totale 170 sena­tori, una comoda mag­gio­ranza asso­luta. Ma sono numeri che dicono poco, per­ché è da esclu­dere che i rap­pre­sen­tanti del gruppo delle auto­no­mie saranno con­se­guenti con i loro emen­da­menti, è assai dif­fi­cile che il gruppo dei dis­si­denti Pd resti com­patto ed è impro­ba­bile che Forza Ita­lia non trovi il modo di rinun­ciare alle sue posi­zioni per aiu­tare Renzi. La strada che la com­mis­sione si avvia a imboc­care allora non è né quella dell’elezione popo­lare diretta né quella dell’elezione di secondo grado, ma una terza via di con­fusa media­zione. L’elezione «semi diretta». O secondo la ver­sione di uno dei regi­sti del com­pro­messo, il sena­tore ed ex mini­stro delle riforme Qua­glia­riello, «con­ta­mi­nare il nuovo senato con il voto popolare».

«Con­ta­mi­nare», non far eleg­gere diret­ta­mente i sena­tori, per­ché Renzi e Boschi (insieme) non inten­dono cedere fino a ripor­tare in mano ai cit­ta­dini la pos­si­bi­lità di sce­gliere i sena­tori. Grande spon­sor della deci­sione è la Con­fe­renza delle regioni (pre­si­dente Ser­gio Chiam­pa­rino) che ha sosti­tuito l’associazione dei comuni nel ruolo di guar­dia del corpo della riforma (all’inizio Renzi aveva pen­sato a un senato com­po­sto inte­ra­mente da sin­daci, ora ne restano 21). In più il pre­si­dente del Con­si­glio ha biso­gno di un argo­mento sem­plice con il quale con­durre la cam­pa­gna per il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo che si terrà alla fine del pros­simo anno (al più pre­sto) e che certo non potrà ruo­tare attorno a que­stioni com­pli­cate come il bilan­cia­mento dei poteri o la pro­ce­dura di for­ma­zione delle leggi. «Sena­tori non più eletti sì o no?» Slo­gan che può ulte­rior­mente sem­pli­fi­carsi in «Sena­tori senza sti­pen­dio sì o no?», come ha fatto inten­dere di voler chie­dere agli ita­liani Renzi. Intanto, pre­vi­dente, ha già scelto lo slo­gan della pros­sima festa nazio­nale dell’Unità: «C’è chi dice sì».

Ha scritto a Repub­blica Gior­gio Napo­li­tano, padre nobile della costi­tu­zione Renzi-Boschi, che non si può tor­nare (restare) all’elezione diretta dei sena­tori per­ché a quel punto sarebbe «inso­ste­ni­bile» sot­trarre al senato il potere di dare la fidu­cia al governo e si rica­drebbe nel bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio. Un argo­mento iden­tico ha usato uno dei cava­lieri del ren­zi­smo, il capo­gruppo dei depu­tati Ettore Rosato: «Tor­nare all’elezione diretta com­por­te­rebbe, come ci dicono pra­ti­ca­mente tutti i costi­tu­zio­na­li­sti inter­pre­tati, la neces­sità di rein­tro­durre il voto di fidu­cia anche al senato». L’affermazione è inte­res­sante, per­ché il cir­colo stretto ren­ziano non cita mai a suo favore i costi­tu­zio­na­li­sti, anzi usa disprez­zarli chia­man­doli «pro­fes­so­roni». Infatti è falsa. Il dibat­tito costi­tu­zio­nale è evi­den­te­mente assai varie­gato, ma di 32 esperti ascol­tati dalla prima com­mis­sione del senato tra la fine di luglio e l’inizio di ago­sto (non tutti, ma quasi, costi­tu­zio­na­li­sti), la tesi così come espo­sta da Rosato è stata soste­nuta solo da tre pro­fes­sori (Fal­con, Luciani e Tondi della Mura). E ciò nono­stante anche loro, come «pra­ti­ca­mente tutti», hanno evi­den­ziato la stra­nezza del nuovo senato imma­gi­nato da Renzi e Boschi, che si pro­pone come «rap­pre­sen­ta­tivo delle isti­tu­zioni ter­ri­to­riali» (arti­colo 2) ma è dise­gnato in modo da far «pre­va­lere il cir­cuito poli­tico par­ti­tico» (con que­ste parole Cer­rone). Un senato di non eletti che ha tra i suoi poteri quello di par­te­ci­pare alla pro­ce­dura di revi­sione costi­tu­zio­nale è, per citare alcuni dei giu­dizi nega­tivi ascol­tati in com­mis­sione, «incoe­rente», «ibrido», «anfibio».

Mas­simo Luciani, pro­fes­sore della Sapienza non ostile al dise­gno di Renzi, ha spie­gato che meglio sarebbe un’elezione diretta dei sena­tori da parte dei cit­ta­dini in con­co­mi­tanza con l’elezione dei con­si­glieri regio­nali -i sena­tori a quel punto potreb­bero essere con­si­glieri regio­nali a tutti gli effetti ma anche no. Carlo Fusaro, pro­fes­sore a Firenze tra i più con­vinti soste­ni­tori della riforma, giu­dica «bal­zana» l’idea di dele­gare alla legge di attua­zione il cri­te­rio con il quale «semi-affidare» la scelta dei senatori-consiglieri al voto popo­lare, «con­ta­mi­nare» direbbe Qua­glia­riello. Eppure è pre­ci­sa­mente que­sta l’intenzione del governo, che non vuole toc­care il prin­ci­pio dell’elezione di secondo grado per non ria­prire il capi­tolo della com­po­si­zione del senato nel pros­simo, ine­vi­ta­bile, ritorno del dise­gno di legge alla camera.

La solu­zione pre­fe­rita nei ragio­na­menti ago­stani della mag­gio­ranza è quella del vec­chio «listino», cioè un elenco di con­si­glieri regio­nali «spe­ciali» che una volta eletti (e se eletti) avreb­bero diritto a essere nomi­nati in secondo grado tra i sena­tori. Il che avrebbe un van­tag­gio per i par­titi: poter sce­gliere i nomi del listino, e dun­que i pos­si­bili sena­tori, anche affi­dan­doli for­mal­mente alla sele­zione popo­lare. Del resto sul punto sono in pochi a poter van­tare asso­luta coe­renza. Anche il sena­tore Gotor che oggi è tra i più in vista nel fronte dei 28 Pd favo­re­voli all’elezione diretta, un anno fa nel corso del primo pas­sag­gio sostenne que­sta solu­zione, defi­nen­dola «un secondo grado raf­for­zato e qua­li­fi­cato». Ma allora l’Italicum, la nuova legge elet­to­rale, era solo una minaccia.

Nel corso delle ultime settimane sono apparsi in Italia due libri che portano nei propri titoli la parola “margine”. Si tratta di Al margine, di Francesco Magris (Bompiani) e di Margini d’Italia, di David Forgacs ( Laterza). Naturalmente si tratta di una combinazione. Ma anche le combinazioni, se guardate bene, possono riserbare delle sorprese.

Al margine” (ma forse si potrebbe leggere anche “sul margine”, ovvero, latinamente, “ de margine”) è un agile libretto, in cui l’autore investiga aspetti diversi di una parola – e delle realtà che di volta in volta le corrisponde – ricchissima di valenze di ogni genere, sia positive sia negative. Ma Magris, se non erro, segue di preferenza il percorso positivo. Ossia va sfogliando, di capitolo in capitolo, come sia possibile (e sia avvenuto, e possa avvenire) che, trovandosi o addirittura mettendosi ai margini, si scoprano potenzialità e forze nascoste che, restando cocciutamente ancorati al centro, non si sarebbero mai neanche sospettate.

In virtù di una cultura poliedrica Magris può, nella sua elaborazione, fornire dati e riprove da letterati e artisti di ogni tempo e paese (il libro si apre nel nome del «grande poeta gradese» Biagio Marin, ma va avanti con quelli di Saba, Hawthorne, Pirandello, Carver, Kafka, Robert Walser, Bukowski), oppure discutere le impostazioni economiche della scuola marginalista e concludere con una riflessione su pregi e limiti della democrazia occidentale. Non si andrebbe troppo lontani dal vero, segnalando la straordinaria rilevanza che, nell’ottica di Magris, occupa il punto di vista della sua città di origine, Trieste; la «frontiera» per eccellenza (ovvero il «margine estremo», anche nel senso letterale del termine) nell’immaginario italiano degli ultimi due secoli, forse proprio oggi drammaticamente rilanciata dalla sua contiguità con il potenziale inferno balcanico.

Margini d’Italia è un ponderoso volume di storia italiana contemporanea. L’autore, David Forgacs, è uno di quegli storici inglesi e americani (o, talvolta, le due cose insieme), cui si devono assaggi così rilevanti – da un’ottica opportunamente spostata rispetto alla nostra – del nostro modo d’essere e della nostra identità. Il sottotitolo spiega forse meglio contenuti e obiettivi dell’opera. Recita: L’esclusione sociale dall’Unità a oggi .
Per Forgacs, dunque, il «margine » è il luogo (ideale, politico, culturale, antropologico) su cui le classi italiane dominanti, sia pure variamente motivate, hanno collocato (dal punto di vista ideologico, ma anche pratico e fattuale, spesso pesantemente fattuale) i subalterni, i diversi, gli alieni, i «marginalizzati», appunto.

Forgacs ne descrive cinque fondamentali esempi: le Periferie urbane; le Colonie (Forgacs ha fatto un lungo soggiorno in Abissinia per documentarsi); il Sud; i Manicomi; i Campi nomadi. Se si esclude l’ultimo capitolo, forse più marginale rispetto agli altri, si tratta di un lavoro di solidissimo impianto, ed esiti inequivocabili, che apre orizzonti sul modo di «essere italiani» meno scontati di quanto si potrebbe pensare.

Per uno come me, vedersi messo sotto gli occhi un quadro così preciso di ciò che ha significato per Roma e la (un tempo) leggendaria «campagna romana» la realizzazione, a varie tappe e per il corso di più di un secolo, dei mostruosi quartieri popolari a Sud e a Est della città (poi anche, inesorabilmente, a Nord e a Ovest), ha consentito di ripercorrere con evidenza assoluta le tappe di una storia individuale e collettiva, le cui ultime battute sono sotto gli occhi di tutti (io non ho dubbi che anche i processi corruttivi nascano, come nel nostro caso, da una lunga, lunghissima storia).

Dunque, i due libri, nonostante le loro incancellabili diversità, ci mettono di fronte alle prospettive inedite che «guardare ai margini» (l’espressione è di Forgacs) consente di acquisire e che, restando cocciutamente al centro, non riusciremmo mai neanche a intuire da lontano. La bibliografia su «margine» e «marginalità» è sterminata, e i due autori ce ne danno più di un esempio. Difficile aggiungere qualcosa. E tuttavia: la dinamica che questa suggestiva alternanza fra centro e periferia, fra periferia e centro, suggerisce, è in molte situazioni un criterio ermeneutico pressoché permanente. Ossia: in molti casi, invece di «leggerla », una volta che sia stata interpretata e sistemata nei libri, essa è un dato del nostro vissuto, un’esperienza senza la quale non potremmo capire non solo quanto ci è accaduto intorno ma neanche ciò che è accaduto dentro di noi. Faccio un solo esempio, ma rilevante: l’Italia. L’Italia vive da qualche anno un processo di marginalizzazione crescente. Cioè: sta scivolando al margine (e finora su quel margine non ha trovato la carica diversamente positiva che, ad esempio, nelle prospettive di Magris si potrebbe costruire anche «al margine»).

Se ho qualcosa da rimproverare ai due autori è di non aver inserito nelle loro potenziali tabelle di valutazione (forse qualche accenno solo nel capitolo Margine, povertà e dissenso del libro di Magris) il più gigantesco processo di marginalizzazione che abbia riguardato l’Italia nel corso degli ultimi cinquant’anni, e cioè quello sperimentato e vissuto dalla sua classe operaia, processo perseguito con implacabile perseveranza e in taluni casi una dose molto elevata di ferocia: dall’innegabile centralità degli anni Sessanta – fatta di forza e presenza politica e sociale – alla condizione appartata e spesso subalterna, in continua discussione e ridiscussione, di oggi.

È un esempio di cosa significhi stare dentro il flusso delle scelte e degli eventi, e spesso rendersene poco conto, o niente. La mia opinione è che la crescente marginalizzazione della classe operaia – che, in altri termini, giustifica e incrementa la crescente marginalizzazione del lavoro in quanto tale, nei suoi vari aspetti, sia economici sia culturali – determini e spieghi la crescente marginalizzazione dell’Italia rispetto al resto del mondo. Ma è ovvio che di questo si dovrebbe discutere.


Mi piacerebbe davvero discuterne, se avessi la forza di farlo. Soprattutto su due questioni: l'una teorica, l'altra pratica. (1) Se non ci si rinchiude in una logica capitalistica è giusto ridurre il concetto di "lavoro" a quello di "lavoro operaio"?. A me sembra di no. Se avessi ragione occorrerebbe poi domandarsi: (2) Se la crescente marginalizzazione della classe operaia fosse inarrestabile, non esistono altri "margini" suscettibili (ove acquistino coscienza di sé) di svolgere nel XXI secolo il ruolo svolto nei secoli precedenti dalla classe operaia? (e.s.)

«Parla Marco Revelli, intellettuale de L’Altra Europa con Tsipras: l’Europa o cambia o muore. E da novembre una nuova “casa” della sinistra in Italia». un'intervista di Luigi Pandolfi.

Linkiesta, giornale online, 15 agosto 2015
Intervista a Marco Revelli, docente di Scienza della politica all’Università del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro”, promotore, insieme ad altri intellettuali, alle scorse elezioni europee della lista L’Altra Europa con Tsipras, di cui oggi è tra gli esponenti di maggiore spicco, parliamo di ciò che si muove alla sinistra del PD e delle prospettive di una nuova sinistra in Italia.

Professor Revelli, in molti Paesi europei, soprattutto della periferia, la crisi sta producendo significative trasformazioni in ambito politico, oltre che in campo economico e sociale. A sinistra, in particolare, si affermano nuove soggettività politiche che, con diverse sfumature, mettono in discussione l’attuale governance comunitaria e gli assetti di potere che vi corrispondono. E in Italia?«È vero. Mentre in altri Paesi mediterranei, in particolare in Grecia ma anche in Spagna, la crisi ha prodotto una palingenesi a sinistra con l’emergere di "sinistre nuove" a vocazione maggioritaria e radicalmente innovative, in Italia il processo è stato finora asfittico e bloccato. È una sorta di rovesciamento storico: la sinistra italiana che ha costituito a lungo, dagli anni ’60 in poi, una sorta di caso di scuola per molti Paesi, appare invece oggi come il vagone di coda, il grande atteso che non arriva mai. Qui gli effetti politici della crisi si sono scaricati piuttosto nella genesi di una serie di populismi che occupano in forma preponderante il quadro politico: non solo il populismo nazional-xenofobodi destra della Lega di Matteo Salvini, ma anche quello trasversale e "guardiano" di Grillo e Casaleggio e, specificità italiana, il populismo "di governo" di Matteo Renzi. In particolare questi ultimi due hanno contribuito in modo preponderante a togliere terreno a un possibile processo di costruzione di una credibile alternativa di massa e maggioritaria a sinistra, il primo sottraendole l’elettorato più ostile alle tradizionali oligarchie politiche e più sensibile alla radicalità della protesta, il secondo bloccando, almeno temporaneamente, il processo dissolutivo del Partito democratico avviatosi dopo le elezioni politiche del 2013, con l’immagine di una sua radicale mutazione. Il risultato è la sostanziale assenza di una credibile proposta di sinistra nel pieno della crisi italiana, e quando dico credibile intendo capace di innovazione - nel linguaggio e nello stile, nel modello organizzativo, e nelle idee - e di forza».

Viste le esperienze del passato, sarà sufficiente mettere insieme ciò che rimane della sinistra politica italiana, con l’aggiunta dei fuoriusciti del Pd, per realizzare l’impresa della costruzione di un nuovo soggetto capace di coniugare radicalità e ambizione di governo?
«Sufficiente sicuramente no. Necessario, certo; ma non sufficiente. La sinistra politica italiana ha dato negli ultimi anni prove di sé troppo sconfortanti per potersi presentare oggi come credibile forza di alternativa. La frammentazione dei suoi soggetti organizzati e dei suoi gruppi dirigenti ha prodotto un moto di rigetto nell’elettorato di sinistra difficile da superare. L’impotenza e l’incapacità di resistere a una lunga serie di aggressioni alle condizioni di vita materiali e ai diritti del proprio insediamento sociale - le sconfitte, diciamolo pure, talune subite senza neppure riuscire a combattere - ne hanno minato la credibilità. La pigrizia nell’innovazione del linguaggio e nell’analisi delle vere e proprie mutazioni genetiche sul piano sociale e politico hanno fatto il resto. Esiste, certo, un buon numero di militanti dalle qualità umane e politiche indubitabili, e di quadri e dirigenti dalle competenze preziose, ma senza un contesto organizzativo e una cultura politica tali da segnare una netta discontinuità con le esperienza del passato non credo che potranno incidere sui grandi processi in corso. Per questo resto convinto che il processo di unificazione di quanto di organizzato esiste alla sinistra del Pd sia oggi, come ho detto, una condizione necessaria - tanto necessaria da richiedere tutto lo sforzo e la pazienza possibili - ma non sufficiente per fare ciò che la crisi ci richiede di fare.
«Necessaria perché la frammentazione rimane il principale fattore che distrugge la credibilità e genera discredito. Un’ennesima riproposizione di più liste autoproclamantisi di sinistra a una qualsiasi nuova elezione sarebbe di per sé letale. Ma non sufficiente perché senza un segnale chiaro di "nuovo inizio", senza un’innovazione radicale nel linguaggio, nel modo di stare tra la gente facendola sentire "la propria gente", con cui si condivide sofferenza e destino, senza, diciamolo, un ricambio generazionale, quello che chiamiamo il "processo costituente" fallirebbe in partenza. Non farebbe che riproporre l’immagine di una "sinistra senza popolo" circondata da "populismi senza sinistra"».

Quanto conta la questione della leadership in questo progetto?
«Non sottovaluto il ruolo della leadership. Soprattutto della leadership collettiva: quello che un tempo si chiamava "la formazione del gruppo dirigente". Ma anche di quella individuale: l’esistenza di figure-simbolo che nella propria biografia e persino nella propria immagine comunicano messaggi sintetici sulla natura della forza che rappresentano e a cui danno voce, è diventata un fattore strutturale in una sfera politica fagocitata da quella mediatica. Alexis Tsipras in Grecia, Pablo Iglesias in Spagna ci dicono qualcosa in questo senso. Penso però che la questione della leadership segua quella del processo, dello stile, dei valori e della cultura politica qualificanti per un soggetto politico, anziché precederla. Se si partisse dalla leadeship individuale anziché dal corpo collettivo si cadrebbe nell’errore che si intende combattere. Se ci sono le condizioni per la costituzione del soggetto politico non sarà difficile trovare le figure che lo rappresentan»o.

L’esito della trattativa tra Atene ed i suoi “creditori”, ha dimostrato che non basta la “ragionevolezza” per imporre un cambio di paradigma in Europa. Più precisamente, cosa lascia in eredità questa vicenda? Quale la lezione per la sinistra?
«La notte tra il 13 e il 14 luglio resterà a lungo uno spartiacque politico nella vicenda europea. Allora si è dimostrato in modo brutale che l’Unione Europea - questa Unione Europea - è purtroppo incompatibile con la democrazia e con l’esistenza di una sinistra degna di questo nome. Questo è il grande merito del governo greco e della linea seguita da Alexis Tsipras: aver mostrato l’Europa così come è. L’Europa reale, a dominanza tedesca, chiusa nel dogma neo-liberista eretto a Nomos così come l’“ordoliberismus" germanico l’intende, gabbia di ferro che fa dei rapporti di forza economici la chiave del’ordine politico. Più che di una "questione greca" la lunga trattativa con Atene ha rivelato l’esistenza di una enorme "questione europea" e, dentro a questa, di una gigantesca "questione tedesca"».

Perché vede una “questione europea”?
«Perché l’Europa così come si è rivelata non può sopravvivere alle proprie contraddizioni. Senza immaginare un meccanismo di governo e di compensazione dei differenziali di produttività tra i diversi Paesi e le diverse macro aree, la moneta unica finisce per funzionare come un dispositivo distruttivo delle società periferiche e della coesione politica inter statale. Senza un ridimensionamento del potere tedesco nelle e sulle istituzioni europee una qualunque logica confederativa non può reggere, e l’Europa tornerà a essere la torre di Babele che fu, spazio genetico di rapporti di dominio-subordinazione o campo di battaglia per conflittualità distruttive.
«Vorrei dire di più: senza una dura lotta per mutare i cattivi sentimenti che si sono diffusi in Germania, non solo in una parte molto ampia di ceto politico ma anche a livello popolare – il senso di superiorità e di perfezione teutonica, l’uso del meccanismo perverso della colpa e della grazia con cui dispensare punizioni e meriti, l’ottusità direttamente proporzionale alla disciplina nella visione della complessità del contesto e la pulsione a ridurre tale complessità con l’uso della forza, militare o finanziaria: tutto ciò che ha portato i tedeschi più volte a distruggere se stessi e l’Europa con loro -, senza questo, dicevo, è difficile immaginare un futuro comune. Ma per fare tutto ciò è necessaria una soggettività politica organizzata nello spazio europeo, con una cultura e un raggio d’azione trans-nazionale, determinata, colta, intelligente, dotata di senso della storia e di valori adeguati, capace di radicamento popolare e di linguaggio nuovo».

In questi giorni, si discute molto della “riformabilità” o meno dell’Europa. Qual è la sua opinione al riguardo?
«Mi ripeto. L’Europa rivelatasi nei giorni decisivi della “crisi greca” – l’Europa dell’Eurogruppo, di Juncker, di Schäuble, di Martin Schulz, dei cristiani sociali bavaresi ma anche dei socialdemocratici berlinesi e dei gelidi guardiani delle regole danesi o finlandesi, con il supporto dei fascisti ungheresi (contro cui nessuno si è mai sognato di muovere un dito, fosse solo per ammonire) -, non appare riformabile. Ma quell’Europa non può durare. È destinata a crollare da sé, sotto il peso delle proprie stesse contraddizioni. Per questo dico che c’è una questione e una crisi europea, più che una questione e una crisi greca. L’Europa – l’abbiamo scritto nel nostro documento de L’Altra Europa – o cambia o muore».

«Per questo è così importante l’insegnamento del governo greco e di Alexis Tsipras: perché si propone di salvare l’Europa da se stessa. Di permetterle di sopravvivere, cambiandola radicalmente. È velleitario? Utopistico? Può darsi. Può darsi che non ci sia più nulla da fare e che l’egoismo intrecciato alla stupidità dei ceti dirigenti e dominanti europei porti al disfacimento. Soprattutto se la Grecia continuerà a rimanere sola, come lo è stata in questo passaggio. Se invece il contagio avverrà, almeno sull’asse mediterraneo, allora credo che si potrebbe giocare una bella partita».

Torniamo in Italia e alla costruzione del nuovo soggetto della sinistra. Qual è la road map dei prossimi mesi?
«Qualcosa è successo, nelle ultime settimane prima delle ferie. La consapevolezza da parte praticamente di tutte le componenti della frammentata sinistra italiana che senza un processo costituente nessuno si salva ha prodotto almeno un embrione di road map.
«Già all’inizio di settembre sarà annunciata una serie di appuntamenti, sia a livello territoriale che a livello centrale, con un punto di arrivo: una tre giorni nella prima settimana di novembre, in cui definire in pubblico il profilo di una nuova soggettività unitaria – quella che noi chiamiamo la “casa comune della sinistra e dei democratici” e che ognuno potrà battezzare come crede ma che dice la medesima cosa: che non ci sarà più una sinistra dispersa. In mezzo, nel bimestre settembre-ottobre, l’invito è a organizzare il più ampio numero possibile di assemblee e di incontri “di territorio”, alcuni dei quali sono già stati annunciati nell’assemblea congiunta dei parlamentari che si riconoscono in questa esigenza di unitarietà (si è parlato di 200 incontri), altri si aggiungeranno con lo scopo di rendere la discussione la più partecipata possibile e di evitare che il processo costituente sia un mero assemblaggio “dall’alto”.
«Gruppi di lavoro sono già previsti, per “istruire” sia le problematiche politiche che gli aspetti cosiddetti “tecnici”, come quello della “piattaforma telematica”… Contemporaneamente sarà necessario stare nei conflitti sociali e politici che il governo Renzi non manca di offrire: la lotta contro la scuola renziana, che si riproporrà all’apertura, quella contro i tagli sconsiderati alla sanità, le lotte del lavoro, la difesa della democrazia contro l’autoritarismo della riforma costituzionale. E naturalmente il fronte referendario, a cui dare la massima energia».

Quindi una strategia unitaria non è affatto impossibile se si mette al centro il lavoro e se si fanno ruotare attorno ad esso gli altri strumenti configurando, così, un lavoro di cittadinanza, un diritto -dovere, che connette esercizio della cittadinanza attiva e reddito di cittadinanza». Il manifesto, 14 agosto 2015 (m.p.r.)

Il decalogo del manifesto suggerendo alcuni nodi che impediscono il decollo di una nuova sinistra ci chiama ad intervenire dove ci sono carenze di analisi da colmare o punti di vista diversi da avvicinare. Al punto 6 tre domande da brivido: Chi sono oggi i lavoratori? Cosa è il lavoro? Come e quanto viene riconosciuto? Il solo fatto di porle significa riconoscere che la crisi investe le ragioni fondative del nostro essere. Ed infatti è cambiato tutto.

È cambiato il lavoro in sé, è cambiata la sua composizione interna. Si è ridotto il lavoro prevalentemente agro-industriale, concentrato in aggregati fisicamente riconoscibili. Si è dilatato enormemente quello nei servizi più disparati, alle persone, alle comunità, alle imprese, in piccola parte concentrato, in gran parte sparpagliato. Sono diminuiti i lavori manuali e pesanti e si sono moltiplicati lavori "leggeri", alcuni intellettuali e professionalizzati, molti altri fortemente banalizzati. È cambiata la distribuzione geografica del lavoro. Attività prima tipiche del mondo industrializzato si sono spostate nei paesi emergenti e si è prodotto uno straordinario rimescolamento per cui nei paesi arretrati emergenti, accanto a forme arretrate di agricoltura e di industria pesante, si sviluppano forme produttive tecnologicamente tra le più avanzate al mondo. Questo mentre nei paesi avanzati si ripresentano forme di schiavismo. Nei primi si avanza conquistando faticosamente nuovi diritti, nei secondi si arretra faticando a difendere quelli esistenti.
Sono venuti meno anche aspetti formali e contenutistici che prima definivano ed identificavano la prestazione lavorativa: lavoro materiale e lavoro immateriale, lavoro per dovere e lavoro per piacere, lavoro autonomo e lavoro dipendente, tempo di lavoro e tempo di vita, lavoro per il mercato per creare valori di scambio e lavoro per creare valori d’uso, oggi, si toccano, si contagiano, si mescolano confondendo identità, soggettività, appartenenze. In molti casi identità diverse si confondono e miscelano in una stessa persona. Ma c’è un cambiamento ancora più rilevante che riguarda il rapporto tra lavoro e non lavoro: se prima il non lavoro costituiva l’anticamera del lavoro, oggi, le società più avanzate alle quali apparteniamo, si qualificano sempre di più come jobless society, società senza lavoro o con lavoro decrescente e le stesse analisi teoriche prevedono una stagnazione secolare.
Non è un caso che i diversamente disoccupati, attivamente in cerca di lavoro e scoraggiati, toccano i dieci milioni in Italia e che la disoccupazione è a livelli record in tutta Europa. Questo introduce nello scenario descritto ulteriori cambiamenti e fa nascere altre domande: è possibile ipotizzare da sinistra una ripresa economica che ambisca ad una piena e buona occupazione? E, mentre si lotta per questo, quale risposta dare a chi sta fuori dal lavoro? Si può ricorrere a strumenti, temporanei o strutturali, come la redistribuzione del lavoro o il reddito di cittadinanza? Nella mutazione in corso, si è rotto anche quel matrimonio che sembrava indissolubile tra lavoro e reddito: non c’era lavoro senza reddito, non c’era reddito senza lavoro. Oggi da un lato lavorare non è più condizione sufficiente per avere un reddito (proliferano tante forme di lavoro gratuito sulle quali il manifesto si è soffermato) e dall’altro si diffonde la convinzione che il reddito è un diritto a prescindere dal lavoro, un diritto di cittadinanza.
Tra queste due posizioni estremizzate, lavoro senza reddito e reddito senza lavoro, si collocano a sinistra posizioni ed orientamenti diversi che attraversano partiti, sindacato, economisti di sinistra. Insomma questo è uno dei nodi che ostacolano il decollo di una nuova sinistra. L’idea di un reddito di cittadinanza si è concretizzata in una convergenza parlamentare tra parti del Pd, Sel e M5S, ma esistono differenze non di poco conto con le posizioni del movimento sindacale presenti nel Piano del Lavoro della Cgil e ribadite da Laura Pennacchi anche nel suo ultimo libro Il soggetto dell’economia. In questo testo si afferma che il neoliberismo va verso la disoccupazione di massa e si vede nelle proposte di reddito di cittadinanza un rischio di abdicazione e rinuncia, di accontentarsi di un risarcimento di un lavoro che non c’è o addirittura di introdurre un Welfare per la non piena occupazione.
Siamo in presenza, perciò, a sinistra, di posizioni diverse che riflettono evidentemente diverse visioni dello sviluppo e del futuro e scale di priorità differenti. Si possono far incontrare queste posizioni per delineare un disegno organico, una strategia credibile della sinistra? Penso che sia possibile se da ciascuna posizione si estrae il meglio senza forzarla per confermare la propria. Ad esempio le proposte di reddito di cittadinanza collegano la percezione del reddito alla disponibilità ad accettare offerte di lavoro che dovrebbero essere proposte dagli uffici del lavoro. Non sono, quindi proposte puramente assistenziali. E così la proposta di dare priorità e centralità a Piani del lavoro non esclude forme di sostegno economico alle situazioni più disagiate senza lavoro né scarta riduzioni di orari di lavoro che possono intervenire in seguito a contratti di solidarietà, aziendali o territoriali.
Quindi una strategia unitaria non è affatto impossibile se si mette al centro il lavoro e se si fanno ruotare attorno ad esso gli altri strumenti configurando, così, un lavoro di cittadinanza, un diritto -dovere, che connette esercizio della cittadinanza attiva e reddito di cittadinanza. Speriamo che il dibattito aperto dal manifesto spinga i diversi protagonisti ad intervenire ed a ricercare insieme quella sintesi unitaria che è sempre più urgente. Anche perché, nel frattempo, il governo spreca una diecina di miliardi per agevolazioni a pioggia sul lavoro che producono una bolla mediatica che dura due mesi e poi si sgonfia con la stessa velocità con cui era nata. Aggiungendo al danno la beffa: una piccola parte dei giovani crede alla promessa, esce dal mondo degli scoraggiati e si affaccia al mercato del lavoro, ma il lavoro non lo trova e finisce per ingrossare le file di disoccupati che, come è noto, si calcolano sulle forze di lavoro. Così invece di creare nuova occupazione si creano nuove disillusioni e la strada per una nuova sinistra diventa sempre più in salita.

«La mutazione antropologica. Bisognerebbe raccogliere i cocci dello sviluppo e con quelle macerie iniziare a costruire nuove architetture come si faceva con le cattedrali gotiche».

Il manifesto, 13 agosto 2015

Che ci sia (o meglio, che ci potrebbe essere) “vita a sini­stra” è quasi “natu­rale” con­si­de­rato come va il mondo, ovvero verso una rotta di col­li­sione ine­vi­ta­bile con l’ambiente, la povertà dif­fusa, l’esodo ine­vi­ta­bile di masse enormi di popo­la­zione dai ter­ri­tori deva­stati da guerre, care­stie, sic­cità. Ma rima­nendo alle disgra­ziate sorti ita­li­che, se poco poco si ascol­tano i rap­pre­sen­tanti delle gio­vani gene­ra­zioni, si ha la sen­sa­zione che nes­suno creda più a una qual­che pos­si­bi­lità col­let­tiva di riscatto, di alternativa.

Cir­co­lano per­fino mito­lo­gie antro­po­lo­gi­che sulla dan­na­zione della spe­cie umana, come a dire: l’uomo è fatto così, le guerre sono ine­vi­ta­bili, la povertà di molti è neces­sa­ria al fun­zio­na­mento dell’economia. Basta osser­vare, per con­vin­cersi della dif­fu­sione di que­sto virus, l’atteggiamento di tante (troppe) per­sone qua­lun­que nei riguardi degli esodi di massa dai paesi che si affac­ciano sull’altra sponda del Medi­ter­ra­neo: non pos­siamo acco­glierli tutti — si dice nel migliore dei casi -, fini­remmo col diven­tare come loro, ci rubano il lavoro (che non c’è). E poi ancora, a me sgo­menta il fatto che il Papa venga oscu­rato; i suoi mes­saggi com­pa­iono come tra­fi­letti nei media nazio­nale; quelli inter­na­zio­nali nep­pure lo citano: non era mai suc­cesso in pas­sato. C’è di che ras­se­gnarsi a una estin­zione di massa per asfis­sia cul­tu­rale, per impo­tenza poli­tica, per dispe­ra­zione. “Spe­riamo che io me la cavo” sem­bra essere il motto delle nuove gene­ra­zioni. Non può certo stu­pire il suc­cesso di Renzi: è pur sem­pre meglio cre­dere alla befana che ras­se­gnarsi alla cruda realtà che costei non esista.

E a vedere i tele­gior­nali il qua­dro si incu­pi­sce ancora di più: beghe con­do­mi­niali, litigi per­so­nali, lea­de­ri­smo occu­pano l’intero spa­zio poli­tico, quello dal quale dovrebbe nascere il pro­getto di futuro. Ha ragione Bevi­lac­qua a dire (il mani­fe­sto dell’8 ago­sto) che la sini­stra è oggi una testa senza gambe. Le gambe, quando ci sono, cam­mi­nano da sole senza testa, e la testa ancora non si accorge di non avere le gambe, o forse più cini­ca­mente pensa di non averne più biso­gno come in quei romanzi di fan­ta­scienza dove si parla di imma­gi­na­rie menti senza l’ingombro del corpo che par­to­ri­scono pen­sieri e comandi. Que­sto il punto cru­ciale all’ordine del giorno della politica.

Così come ha ragione Michele Pro­spero (il mani­fe­sto del 4 ago­sto) a dire che la mino­ranza Pd, piac­cia o no, è molto utile al gioco del par­tito della nazione for­nendo la sua mal­de­stra stam­pella all’esercito dei vin­centi. Chi mai, tra i gio­vani (e anche tra i non gio­vani) può cre­dere ad essa? Se vogliamo con­ti­nuare con i ten­ta­tivi di sui­ci­dio, fac­ciamo pure un nuovo par­tito, inven­tia­moci un nuovo lea­der per avere l’illusione di esi­stere ancora. Tutto ciò che resta dell’attuale sini­stra non è più cre­di­bile agli occhi di nes­suno, quando essa non viene addi­rit­tura rite­nuta la respon­sa­bile degli attuali guai nostrani per averci illuso – e ingan­nato — che esi­steva un altro mondo diverso da questo.

Per espe­rienza per­so­nale posso citare la que­stione dram­ma­tica dell’università. Tra i vec­chi docenti impe­gnati, molti hanno fatto domanda di pen­sio­na­mento anti­ci­pato, altri, pur restando, vivono in soli­tu­dine senza impe­gno a curare i pro­pri (legit­timi) inte­ressi di ricerca. Un’intera classe diri­gente ha dato for­fait: chi può scappa, chi rimane tace dif­fi­dando dell’impegno poli­tico, men­tre l’ideologia libe­ri­sta meri­to­cra­tica si dif­fonde alla velo­cità della luce attra­verso il disbrigo quo­ti­diano di schede da riem­pire e valu­ta­zioni da fare per dimo­strare di essere i “migliori” e acce­dere alle gra­dua­to­rie nazio­nali e inter­na­zio­nali. Se vuoi avere suc­cesso parla pure in ita­liano (ancora è con­sen­tito) ma scrivi in inglese e su rivi­ste che sono accre­di­tate da impro­po­ni­bili agen­zie di valu­ta­zione pagate a peso d’oro dalle isti­tu­zioni. Un intero sistema for­ma­tivo essen­ziale per lo svi­luppo del paese è stato sman­tel­lato nel giro di pochi anni e ancor di più minac­cia di esserlo prossimamente.

Ser­vi­rebbe, come è suc­cesso a L’Aquila, un popolo delle car­riole che cominci a rac­co­gliere i cocci dello svi­luppo e con quelle mace­rie ini­ziare a costruire nuove archi­tet­ture come si faceva con le cat­te­drali goti­che, quando ancora la figura dell’Architetto non era nata. C’erano però i Mastri che con la loro sapienza gui­da­vano i lavori, inven­tando di volta in volta e col­let­ti­va­mente le forme e le solu­zioni tec­ni­che quando com­pa­ri­vano pro­blemi. Biso­gne­rebbe che poi le car­riole, con il loro cor­redo di rovine, con­fluis­sero verso una stessa dire­zione anzi­ché andar­sene a spasso ognuna per suo conto.

In un altro mondo, quello che noi vor­remmo, a quello sco­no­sciuto migrante che ha attra­ver­sato a piedi il tun­nel sotto La Manica sfi­dando cavi ad alta ten­sione e treni ad alta velo­cità, avremmo attri­buito una meda­glia d’oro: è lui il vero mara­to­neta delle Olim­piadi gre­che. La rispo­sta di Fran­cia e Inghil­terra è stata: ma dov’è la falla nei nostri sistemi di sicurezza?

«L’indeterminatezza della parola sinistra che consente al renzismo di rivendicarla deve spingerci a declinarla in modo nuovo: non siamo "più a sinistra", siamo "diversi"». Il manifesto, 13 agosto 2015, con postilla

Ai molti aspetti para­dos­sali che con­trad­di­stin­guono la sfera poli­tica in Ita­lia, pos­siamo aggiun­gere un altro para­dosso che riguarda diret­ta­mente l’oggetto su cui Norma Ran­geri ci ha invi­tato a discu­tere. Quanto più la «sini­stra» diventa inco­no­sci­bile nelle «cose» tanto più estende i suoi con­fini nelle «parole».

A «sini­stra del Pd» si stanno aprendo vastis­simi spazi per la «sini­stra». Con for­mu­la­zioni appena un po’ dif­fe­renti, frasi di tal genere ven­gono costan­te­mente ripe­tute anche sulle colonne di que­sto gior­nale. Lo si dice ormai da tanto tempo, ma lo stato di cose pre­sente ci prova in maniera dif­fi­cil­mente con­tro­ver­ti­bile quanto grande sia la dif­fe­renza tra affer­ma­zioni desi­de­ranti e realtà effet­tuale. Comun­que non è senza inte­resse chie­dersi quale sia il modo con cui è pos­si­bile inten­dere il ter­mine «sinistra».

Pro­ba­bil­mente la mag­gio­ranza di coloro che si sen­tono impe­gnati nella costru­zione della cosid­detta «casa comune» ritiene che la «sini­stra» in fieri, quella che dovrà occu­pare gli spazi lasciati liberi dal Pd, sia la sola legit­ti­mata all’uso di quel ter­mine. Ci sono però anche coloro che pen­sano ad un sog­getto poli­tico «a sini­stra» del Pd. C’è poi il Pd che ha risco­perto il valore nella comu­ni­ca­zione (nella pro­pa­ganda cioè) di una parola dalla quale, pro­prio nel suo momento fon­dante, aveva invece teso a sot­to­li­neare la distanza. Ricor­diamo bene Vel­troni, fon­da­tore e primo segre­ta­rio, defi­nire la nuova ragione del par­tito con espres­sione di radi­cale chia­rezza. A chi gli faceva notare che ormai egli non pro­nun­ciava più «la pala­bra izquierda», rispon­deva : «Es que somos refor­mi­stas, no de izquier­das» («El País», 1/03/2008). Ora Vel­troni ha risco­perto la «parola», così come il suo crea­tivo epi­gono Renzi.

Natu­ral­mente, trat­tan­dosi di pura comunicazione/propaganda, la «parola» deve flut­tuare nell’aria, non avere alcun peso ed alcuna radice nelle «cose». Sini­stra è «cam­bia­mento», sini­stra è «fare», come diceva com­pul­si­va­mente Ber­lu­sconi, al mas­simo sini­stra è un fle­bile richiamo ai sem­pi­terni valori. Tal­mente sem­pi­terni che, pre­scin­dendo da qual­si­vo­glia dimen­sione storico-analitica dei con­creti rap­porti eco­no­mici e sociali, pos­sono andar bene per tutti.

Pro­prio per que­sto lo «sdo­ga­na­mento» (così ha tito­lato «la Repub­blica») veltron-renziano del ter­mine «sini­stra» è sem­pli­ce­mente fun­zione del mer­cato elet­to­rale. Fun­zione effi­cace peral­tro per­ché a) richiama una tra­di­zione di lungo periodo i cui effetti di tra­sci­na­mento non sono certo esau­riti; b) spo­sta il con­fronto con qual­siasi altro sog­getto che voglia defi­nirsi di sini­stra su un piano esclu­si­va­mente assiale.

La col­lo­ca­zione sulla dimen­sione assiale, essendo le deno­mi­na­zioni poli­ti­che stru­menti di bat­ta­glia, non è la con­se­guenza di una tec­nica natu­rale, ma degli esiti di lotte poli­ti­che e cul­tu­rali. Per que­sto tali col­lo­ca­zioni si ride­fi­ni­scono con­ti­nua­mente e vanno valu­tate come sin­tomi di pro­cessi in corso, del tutto esterni rispetto a qual­siasi cri­te­rio di ogget­ti­vità. È evi­dente, quindi, il van­tag­gio del Pd che, restando sul piano assiale, può com­pe­tere con un forza che si col­loca ine­vi­ta­bil­mente «più a sini­stra». E il «più a sini­stra» è il luogo di tutte le forme di «estre­mi­smo», è il luogo del «più uno».

L’espressione «quelli del più uno» veniva usata dal sin­da­cato (Fiom) e dal Pci di Piom­bino, la città-fabbrica dove è avve­nuta la mia prima for­ma­zione poli­tica. La città fab­brica dove, per un periodo non breve, la realtà della dire­zione ope­raia ha coin­ciso con le ipo­tesi for­mu­late negli scritti dei nostri clas­sici. Veniva usata nei con­fronti dei «grup­pu­scoli», che dopo ogni lotta e dopo il suc­ces­sivo accordo, e nei primi anni Set­tanta gli accordi erano sem­pre favo­re­voli ai «pro­dut­tori», ai side­rur­gici, si pre­sen­ta­vano ai can­celli della grande fab­brica insi­stendo sull’insufficienza di que­gli accordi, sulla scarsa radi­ca­lità delle lotte. Quelli del «più uno», appunto.

In un asse dove è col­lo­cata una forza di esta­blish­ment che si defi­ni­sce come «sini­stra» e così viene defi­nita dalla stra­grande mag­gio­ranza dei media, la con­tem­po­ra­nea pre­senza di una forza «più a sini­stra», indi­pen­den­te­mente dalle prassi poli­ti­che reali, fini­sce ine­vi­ta­bil­mente per ripre­sen­tare quella stessa dinamica.

Cer­ta­mente è la parola «sini­stra» ad avere assunto, ed ormai da lungo tempo, una tale inde­ter­mi­na­tezza seman­tica da per­met­tere qual­si­vo­glia scor­re­ria pro­pa­gan­di­stica. Un breve inter­vento non è la sede per discu­tere della con­ti­nuità o meno del suo uso nel pro­cesso in corso. D’altra parte quello che appare logi­ca­mente giu­sto assai spesso non lo è nei pro­cessi di realtà. Ciò che, però, dob­biamo del tutto evi­tare è qual­siasi rife­ri­mento ad un posi­zio­na­mento «più a sini­stra» del Pd.

Karl Polany ha affer­mato: «Il socia­li­smo è essen­zial­mente la ten­denza ine­rente ad una civiltà indu­striale a supe­rare il mer­cato auto­re­go­lato subor­di­nan­dolo con­sa­pe­vol­mente ad una società demo­cra­tica» (“La grande tra­sfor­ma­zione. Le ori­gini eco­no­mi­che e poli­ti­che della nostra epoca”, 1944). Se que­sta con­clu­sione della lunga ana­lisi di Polany, diventa il minimo comun deno­mi­na­tore di tutte le forze impe­gnate nella costru­zione della «casa comune», ecco che la col­lo­ca­zione assiale cessa di avere senso. Non si tratta di essere «più a sini­stra», bensì di fare un salto qua­li­ta­tivo, di essere «diversi».

In fondo il pro­blema della «diver­sità» è tutto qui. Il prius della diver­sità, anche quella di Ber­lin­guer, non stava nell’etica, nell’antropologia, stava in una con­ce­zione della poli­tica e degli obbiet­tivi della poli­tica.

Affer­mare una teo­ria e una prassi che ten­dono a subor­di­nare il «mer­cato auto­re­go­lato» alla società «demo­cra­tica» è com­pito che con­di­ziona tutti gli ambiti della poli­tica, tutta la sfera dei diritti ed anche la sfera dei valori. Il rife­ri­mento ai «valori», infatti, ha senso solo all’interno di una pre­cisa con­cre­tezza ana­li­tica. Frutto, cioè, di una con­si­de­ra­zione dei «valori» come dimen­sione non sepa­rata dalla con­ce­zione del rap­porto tra demo­cra­zia e forme del capi­tale indi­cato da Polany.

Tutto ciò è di sinistra?

postilla

Nomina sunt consequentia rerum. "Sinistra" è parola che esprime contenuti otto-novecenteschi. Forse varrebbe la pena di iniziare la riflessione su quale fosse la realtà (sociale, economica, ideologica) che in quei secoli (in quelle fasi del capitalismo) allora la parola "sinistra" esprimeva, e quale quella che vogliamo che sia espressa oggi da un nuovo soggetto politico che rappresenti oggi la "diversità".

«In Europa abbiamo perso il valore della fraternità, valore generato dal cristianesimo e conquistato anche a livello politico nella modernità. Siamo tutti fratelli perché tutti esseri umani e come tali portatori di diritti che, nella loro stessa definizione, sono quelli “dell’uomo”. Noi invece siamo giunti a considerarli tali solo per i “cittadini”».

La Repubblica, 13 agosto 2015

«Quando do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista». Queste parole di Hélder Câmara oggi suonano al contempo attualissime e superate: almeno in Italia, ormai sono pochissimi quelli che chiamano “santo” chi sfama i poveri — al massimo è un buonista — mentre, con il trionfo del pensiero unico neo-liberista, l’epiteto “comunista” è usato solo da alcuni ambienti della destra americana nei confronti di papa Francesco.

Eppure, con il fenomeno dell’immigrazione siamo di fronte a un paradosso simile: chi ha responsabilità di governo e chi dall’opposizione confida di averne a breve continua a parlare di “emergenza” per un fenomeno che ormai risale ad almeno una ventina d’anni — o abbiamo già dimenticato le navi stracolme di albanesi che approdavano in Puglia? — e a latitare in azioni politiche a medio e lungo termine, confidando che il tessuto sociale e le reti della solidarietà umana suppliscano alle loro carenze. La chiesa e molti cristiani — realtà ben più ampia sia della Cei che del Vaticano — sono da sempre in prima linea in questa carità attiva sul territorio e cercano di porsi di fronte all’umanità ferita senza chiedere passaporti né badare a identità etniche o culturali. Eppure quando si occupano dei poveri di cittadinanza italiana passano inosservati, come se la loro azione fosse dovuta e scontata, mentre quando si chinano su fratelli e sorelle in umanità di altri popoli e paesi, vengono sprezzantemente invitati a farsi carico dei disoccupati di “casa nostra”.

Purtroppo in Europa abbiamo perso il valore della fraternità, valore generato dal cristianesimo e conquistato anche a livello politico nella modernità. Siamo tutti fratelli perché tutti esseri umani e come tali portatori di diritti che, nella loro stessa definizione, sono quelli “dell’uomo”. Noi invece siamo giunti a considerarli tali solo per i “cittadini”, escludendone gli “stranieri” come se non ne fossero degni. Sì, quando la fraternità viene meno, cresce la paura dello straniero, dello sconosciuto, del diverso: una paura che va presa sul serio ma che non va alimentata per farne uno strumento di propaganda politica. Va invece razionalizzata, contenuta e placata con un’autentica governance dell’immigrazione, con un volontà fattiva di collaborazione con i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, con una politica che sappia interagire con i Paesi da cui hanno origine i flussi più intensi di emigrazione. Certo, non possiamo accogliere tutti, ma la solidarietà umana ci spinge a superare i limiti delle nostre comodità e ad accogliere l’altro per quello che siamo capaci, senza innalzare muri.

Questa “emergenza” non è tale: è un fenomeno che durerà a lungo ed è contenibile nei suoi effetti solo con uno sforzo di solidarietà. La sua portata, del resto, è tale che mette in crisi ogni tentativo di respingerlo con la forza. L’Europa sembra in piena confusione, non più sicura dei suoi valori umanistici, delle sue lotte secolari per il riconoscimento dei diritti di ogni essere umano, in qualsiasi situazione si trovi. Ritrovare questi principi decisivi non è questione solo cristiana, è innanzitutto umana e, proprio per questo, cristiana: l’accoglienza è una responsabilità umana perché l’altro è uguale a me in dignità e diritti.

Su queste tematiche a volte la chiesa suscita ostilità quando parla e agisce con la parresia dei profeti e di Gesù di Nazareth. Il Vangelo per molti sarà utopia irrealizzabile, ma non pone condizioni o limiti al comandamento di servire affamati, assetati, stranieri, carcerati, ignudi, ammalati… Parla invece di “farsi prossimo”, di andare incontro a chi è nel bisogno, fino al paradosso di “amare i nemici”. Queste esigenze radicali poste da Gesù possono dar fastidio a molti, ma chi professa di essere suo discepolo non può fare a meno di sentirle come appelli ineludibili rivolti proprio a se stesso. Il cristiano si saprà sempre inadeguato nel mettere in pratica queste parole, sovente dovrà riconoscere che il proprio comportamento quotidiano le contraddice, ma non potrà mai accettare che carità fraterna, solidarietà, accoglienza siano variabili da sottomettere alle necessità della realpolitik.

Così un cristiano, di fronte al dramma di milioni di esseri umani vittime della guerra, della fame, della violenza, della cecità anonima della finanza e del mercato, della “politica” di potere, proverà vergogna per non riuscire a far nulla nemmeno per quelle poche migliaia di disgraziati che giungono fino al suo Paese, ma non potrà tacere e non gridare “vergogna” a chi chiude gli occhi di fronte al proprio fratello in umanità che soffre e muore, tanto più se chi si astiene dall’agire ha responsabilità, onori e oneri di governo.

Sì, come ha detto papa Francesco, «respingere gli immigrati è un atto di guerra!». Questo non è un proclama politico: piaccia o meno, è un grido di umanità.

Priore della comunità monastica di Bose

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Quando la fraternità viene meno cresce la paura dello straniero, dello sconosciuto, del diverso Va razionalizzata

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L’accoglienza è una responsabilità umana perché l’altro è uguale a me in dignità e diritti

«Non si può giudicare la composizione della nuova camera alta tirandola fuori dal contesto in cui sarà inserita, a maggior ragione dopo la nuova legge elettorale. Napolitano continua a sottovalutare la concentrazione di potere su palazzo Chigi». Il manifesto, 12 agosto 2015 (m.p.r.)

Napolitano risponde sulla riforma costituzionale a Scalfari (La Repubblica, 9 agosto) dichiarando essenziale che non vi siano «due istituzioni rappresentative della generalità dei cittadini, sottraendo al senato solo (e a quel punto insostenibilmente!) il potere di dare la fiducia al governo». In breve, il senato di seconda scelta è cardine indispensabile della riforma. Non siamo e non saremo d’accordo, per molteplici motivi.

Il primo. È antica saggezza che bisogna saper vedere la foresta al di là dei singoli alberi che la compongono. È invece quel che accade qui, se si valuta il senato non elettivo come elemento a sé stante. Nella riforma costituzionale, va visto insieme al governo in parlamento, all’incidenza sugli organi di garanzia, agli strumenti di democrazia diretta, alla compressione delle autonomie territoriali. A questo si aggiungono altre riforme, tra cui anzitutto la legge elettorale, ed anche la riforma della Pubblica amministrazione. Le innovazioni sono univocamente orientate a concentrare il potere su palazzo Chigi, senza costruire un efficace sistema di checks and balances. Non bastano a tal fine le limature della camera sull’originario testo del senato.
Il secondo. In tale contesto, è cruciale l’insostenibile leggerezza dei partiti, ormai sostanzialmente privi di radicamento territoriale e di una militanza che vada al di là di campagne e comitati elettorali. La sinergia con l’Italicum (legge 52/2015) apre la porta a fenomeni estremi di personalizzazione, e traduce la concentrazione del potere su palazzo Chigi in una concentrazione sul leader del partito reso artificiosamente maggioritario dal sistema elettorale taroccato. È già successo, con Renzi, e domani succederebbe ancora, con altri. La legge sui partiti è di là da venire, e quel che si sa non fa sperare bene. A quanto pare il tema centrale è come ridurre all’obbedienza il dissenso interno.
Il terzo. Un ceto politico regionale e locale senza qualità tradurrebbe nella più alta sede di rappresentanza i cacicchi di territorio, o i loro sodali, amici, clienti, parenti che già popolano le istituzioni. Questo potrebbe solo rafforzare i peggiori tratti della politica regionale e locale, senza dare forza alle istituzioni nazionali. Negli anni Novanta fu fatta una grande scommessa su regioni ed enti locali per rivitalizzare il paese. È fallita, e oggi quelle istituzioni sono in larga misura il ventre molle del sistema Italia. Basta leggere le cronache giudiziarie e le relazioni della Corte dei conti. Il bisogno di oggi è l’esatto contrario di quel che si voleva ieri. E non basta certo a pareggiare il conto il risparmio - in larga misura apparente - delle indennità ai senatori.
Il quarto. Almeno funzionasse. Ma si potrà mai legiferare meglio attraverso un procedimento che sembra il labirinto del Minotauro? Come si può pensare che il senato eserciti funzioni di controllo e vigilanza essendo popolato da chi ha interesse a trattare con l’esecutivo per i fondi da destinare al territorio, base primaria del proprio potere oggi e domani? E perché affidare al voto di sindaci e consiglieri regionali le questioni bioetiche, sulla morte e sulla vita, e persino sulla revisione della Costituzione, incluse le libertà di tutti? Ne hanno parlato in campagna elettorale? Hanno chiesto un mandato ai propri cittadini, insieme a quello per la sistemazione delle fognature o per la viabilità e i trasporti?
Il quinto. La forza di una Costituzione è data dalla ampia condivisione dei valori che essa esprime. Sappiamo tutti che la riforma passa solo con i numeri dati da una legge elettorale incostituzionale, e forse con l’appoggio decisivo dei voltagabbana. Sappiamo tutti che viene non da un’investitura popolare come qualcuno ama far credere, ma da uno scambio di vertice per molti inaccettabile. Vediamo la pochezza degli argomenti a favore, e la sordità alle critiche. Vediamo ogni giorno che la si vuole far passare con la minaccia di crisi e nuove elezioni. La vediamo poggiare sulla paura di perdere le poltrone oggi occupate, o per domani agognate, nei palazzi del potere. E questa dovrebbe essere la «nostra» Costituzione? Mai.
Domande, censure, dubbi da tempo avanzati e tuttora senza risposta. Non basta citare qualche supposto precedente. La riforma del 2001 del titolo V (centrosinistra, ora legge costistuzionale 3/2001) e quella del 2005 sulla Parte II (centrodestra, respinta dal voto popolare il 25 giugno 2006), approvate a colpi di maggioranza e schiacciando il dissenso, furono entrambe pessime. Quanto alle Bicamerali, operavano quando i partiti non erano ancora evanescenti ectoplasmi. E non offrono più un raffronto utile. È dunque essenziale che il senato sia eletto direttamente, pur nell’ambito di un bicameralismo differenziato. Napolitano cita Gramsci affermando che bisogna respingere la «paura dei pericoli». È giusto. Ma altra cosa è il ragionato, consapevole, convinto, profondo dissenso.
Intervista alla costituzionalista Lorenza Carlassare: si sta neutralizzando il popolo, cioè la fonte che legittima il potere. Qui tutto mira a indebolire la forza degli altri poteri in favore dell’esecutivo.».

Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2015 (m.p.r.)

Il timore è quello di ripetersi. Eppure sembra che le numerose, accorate, obiezioni dei (tantissimi) costituzionalisti sulla riforma del Senato, non siano state ascoltate nemmeno in parte. Lorenza Carlassare, professore emerito di Diritto costituzionale a Padova, comincia così: “La composizione del Senato non è solo incerta. È disastrosa: un piccolo gruppo di persone si autonomina. Oltre al caos provocato da senatori part - tim e che provengono dai consigli regionali, c’è un’anomalia anti democratica. Un meccanismo che non ha nulla a che vedere con quanto accade in qualunque altra democrazia”.
Indietro non si torna, dicono. Perfino il presidente Mattarella, pur mantenendo quella posizione di “sereno distacco” che il suo ruolo esige, ha trovato il modo di dire che nel nostro sistema non è ammissibile un uomo solo al comando. Non si riferiva a nessuno, però l’ha voluto sottolineare. E invece io credo sia proprio questo l’obiettivo cui tendono tutte le riforme: si sta neutralizzando il popolo, cioè la fonte che legittima il potere. Con la democrazia, poi, va a farsi benedire anche il costituzionalismo, che prevede poteri che reciprocamente si controllano e si bilanciano. Qui tutto mira a indebolire la forza degli altri poteri in favore dell’esecutivo.
Il governo che governa. Il governo che domina: il Senato, così com’è costruito, sarebbe controllato dalla maggioranza di governo. La Camera naturalmente lo è, grazie a quel meccanismo iper-maggioritario, contenuto nell’Italicum, con il premio che va alla lista e non alla coalizione.
Non votiamo più per niente: per i consigli provinciali, per il Senato... Senza dire del sistema elettorale della Camera.
Si vuol togliere voce ai cittadini. L’ho detto tante volte, ma ripeterlo non fa male, vista l’ostinazione di questa maggioranza. Che poi, a ben guardare, è una maggioranza trovata di volta in volta, una maggioranza numerica, casuale. Non una maggioranza politica. Nelle due Camere, gli allegri transfughi sono in aumento: deputati e senatori che si fanno trovare sull’attenti quando il potere chiama. Naturalmente per avere in cambio ricompense di varia natura.
Parlamento che poi è ancheminato dalla sentenza chedichiara incostituzionale ilPorcellum .Ecco: abbiamo non solo unamaggioranza casuale, ma unamaggioranza che si è formataattraverso un meccanismodichiarato illegittimo.Dunque, la maggioranzaesiste in base a un’illegittimità.È inutile che continuinoa dire che “hanno i numeri”.Se non esisteva quelpremio previsto dal Porcellum,la maggioranza nonc’era proprio. È assolutamenteparadossale che pretendanodi restare al governoe pure di scassinare l’architetturacostituzionale!
Secondo lei perché il governoinsiste tanto? Si puòfare una prova di forza politicasulla Costituzione?
Il presidente del Consigliosa benissimo che se va alleelezioni perde. E poi certamenteno, non si può fare unaprova di forza sulla leggefondamentale. Il procedimentodi revisione costituzionaleè costruito sulladoppia deliberazione e sumaggioranze più ampie.Perché? La finalità è nonconsentire che ogni maggioranzacambi a propriopiacimento la Costituzione,lo scopo è dare alla Carta unastabilità nel tempo. Ilmeccanismo è pensato perottenere un consenso piùampio possibile, in modoche si proceda con ponderazione.Che è completamentemancata, perché i tempidella discussione sono staticontingentati a suon di sedutenotturne. Ma in materiacostituzionale non sipossono forzare i tempi: ètutto contro l’articolo 138.
La necessità di tornarci sopraè evidente, moltissimisono d’accordo soprattuttoriguardo al nodo dell’elettivitàdei senatori. Aparte Renzi: ma è tecnicamentepossibile apportarevariazioni al testo?
È assolutamente necessarioche il discorso si riapra. E siarrivi a qualcosa di conformealla Costituzione, anchenei procedimenti. Il sensode ll ’articolo 138 è proprioche una maggioranza – a nchelegittima, e questa nonlo è – non possa arrivare dasola a modificare la Carta.
Ma è possibile che la Cortedichiari illegittimo anchel’Italicum?
Assolutamente sì. Ha glistessi difetti del Porcellum.È una prova di forza pericolosain tutti i sensi: non possiamocontinuare ad avereun Parlamento eletto in basea leggi illegittime. Non dimentichiamoche nella sentenzanumero 1 del 2014 laCorte è stata chiara: in tuttii suoi richiami si fa riferimentoal principio di continuitàdello Stato per un breveperiodo. La Corte costituzionaledice che il Parlamentopuò continuare a lavorarefino a nuove elezioni,ma di certo non pensava – eribadisco: è chiarissimo inpiù punti della sentenza – auna legislatura intera.

Proviamo a metterci nei panni dei profughi e a ragionare con rigore e immaginazione; potremo finalmente comprendere quale potrebbe essere un futuro positivo per l'Europa. L'autore ci riesce. Il manifesto, 7 agosto 2015


Immaginate di essere uno dei profughi accatastati a Calais, all’ingresso dell’Eurotunnel, e che ogni notte cercate di attraversarlo infilandovi sotto il rimorchio di un camion, per venirne ogni volta respinti. Oppure un migrante imboscato ai confini di Melilla in attesa di trovare il modo di scavalcare la rete che vi impedisce di entrare in Spagna. O un profugo siriano o afghano in marcia attraverso le strade secondarie della Serbia con quel che resta della sua famiglia che non sa ancora che ai confini con l’Ungheria troverà una rete a impedirgli di varcare il confine. O un eritreo imbarcato a forza, dopo mesi di attesa e violenze, nella stiva di una carretta del mare, che sa già che forse affonderà con quella, ma non ha altra scelta. O una donna aggrappata con i suoi figli agli scogli di Ventimiglia.

E’ un esercizio dell’immaginazione difficile e i risultati sono comunque parziali. Ma bisogna cercare lo stesso di farlo, perché “mettersi nei panni degli altri” serve sia a dare basi concrete a solidarietà e convivenza, sia a capire un po’ meglio dove va il mondo. Per lo stesso motivo è utile provare a immaginare che cosa passa nella testa (vuota) di uno come Dijsselblöm o in quella (troppo piena) di uno come Schäuble per cercare di “comprendere” meglio dove va l’Europa. Non che, in entrambi i casi, questo esercizio sia di per sé sufficiente; ma è anche vero che nelle cose di cui parliamo o scriviamo è troppo spesso assente questo risvolto, questo lavorìo dell’immaginazione.

La prima cosa che sapreste, mettendovi nei panni di quei profughi o di quei migranti (una differenza che da tempo esiste solo nella mente e nei discorsi abietti di uno come Salvini), è che nessuno vi vuole: non il paese da cui siete stati cacciati da guerre e miseria; non quello in cui vorreste arrivare, che vi respinge con crescente furore; non quello in cui siete temporaneamente in transito, che cerca solo di sbarazzarsi di voi. Per tutti loro, semplicemente, non dovreste esistere.

E’ una condizione che ormai riguarda, in Europa, decine di migliaia di persone, escluse dalla condizione di esseri umani. Qualcosa di più dell’apartheid. Sono sottouomini; persone per cui “non c’è posto” nel mondo; da eliminare. Il “come” non si è ancora deciso; o non si ha ancora il “coraggio” di deciderlo (quelli come Dijsselblöm o Schäuble per ora fingono, o forse sono convinti, di occuparsi d’altro). Ma nel Mediterraneo lo si lascia fare ai naufragi (la missione Triton, “sorvegliare le coste”, è stata concepita per questo): se ne lasciano affondare un po’ nella speranza (vana) che gli altri desistano: per doverne “salvare” di meno.

Ma non è una soluzione, come non lo è bombardare i barconi, portare la guerra in Libia o costruire altri muri e reticolati. Perché nessuno di loro può tornare – per ora; e per molti anni – da dove è scappato. Perché ai confini dell’Europa premono ormai almeno sei milioni di profughi (e domani saranno dieci e più: un intero popolo).

Sono il prodotto di guerre, occupazioni, devastazioni e contese per accaparrarsi risorse che l’Europa in parte ha promosso; in parte ha tollerato; e in parte se ne è resa complice, accodandosi a guerre volute o attizzate dagli Stati Uniti. Senza rendersi conto, però, che ormai la guerra, o uno stato di belligeranza continua prodotta dalla disgregazione di Stati che si voleva continuare a dominare, la circonda ormai da tutte le parti: a Est come lungo i confini del Mediterraneo. Se la Comunità, poi Unione, Europea era nata per porre fine alle guerre al proprio interno, le politiche adottate, insieme o separatamente, dai singoli Stati membri hanno ormai portato la guerra – o uno situazione che da un momento all’altro può sfociare o risfociare in guerra – ai suoi confini.

Una situazione così non può durare a lungo senza esplodere e l’ondata dei profughi, che non è destinata a finire, e che non si riesce a fermare, non ne è che la prima pesante avvisaglia. Anche se quelli come Dijsselblöm e Schäuble pensano che il futuro dell’Europa si decide solo saldando debiti che loro hanno creato.

Ma l’Europa non è solo quello di cui si occupano i suoi governanti; la lotta per scaricarsi a vicenda il “peso” di poche (finora) decine di migliaia di profughi divide tra loro gli Stati membri ben più della paura di subire domani il castigo inflitto oggi alla Grecia: che invece, finora, ha solo compattato i rispettivi Governi. Certo, il modo in cui la Grecia viene “aiutata” dall’Europa toglie non poco appeal a quel “aiutiamoli a casa loro” con cui, da Salvini alla Merkel, si crede, o si fa credere, di potersi sbarazzare del problema dei profughi.

Invece, mai come ora la situazione dell’Europa mette all’ordine del giorno il problema della pace. L’Europa sopravviverà, cambiando pelle anche sulle questioni di ordine interno, se saprà impegnarsi a cercare una soluzione a tutte quelle guerre; o ad aiutare gli interessati a trovarla.

Ma chi sono gli “interessati”? Prendiamo il caso della Siria: tutto è cominciato con una guerra di bande per impadronirsi di una rivolta popolare contro il regime dispotico di Assad: l’ultima delle “primavere arabe”. Ne è nato l’Isis, a lungo alimentato da quelli che ora sostengono di combatterlo, o fingono di farlo. E ha ridisegnato tutto il quadro del Medio Oriente, dalla Turchia alla Libia, passando, per ora, per Iraq e Yemen, fino a coinvolgere la Nigeria e altri paesi subsahariani.

Ma si potrà mai arrivare a una pace in Siria affidandola alle potenze che oggi se ne disputano il destino? Non c’è un’entità diversa dalle organizzazioni fantoccio come il Consiglio nazionale siriano o la Coalizione nazionale siriana - completamente controllati dai Governi che li hanno creati e li finanziano - a cui possano fare riferimento tutti coloro che, dentro e fuori il paese, vorrebbero la fine del massacro a cui sono esposti?

Quell’entità in realtà c’è; o, meglio, potrebbe esserci: sono i profughi siriani che hanno raggiunto l’Europa, o che cercheranno di raggiungerla domani, se solo nei loro confronti venisse adottata una politica di vera accoglienza; se gli si offrisse, in tutti i paesi dell’Europa, un posto e una condizione che ne legittimasse la presenza; che permettesse loro di organizzarsi e di far sentire la loro voce; di valorizzare i legami che mantengono o possono riallacciare con le famiglie e le comunità dei luoghi da cui sono fuggiti; di darsi una rappresentanza e sedere al tavolo delle trattative. E così per tutti quei contingenti in fuga da paesi in condizioni analoghe: Kurdistan, Iraq, Eritrea, Somalia, Sudan, Afghanistan, Nigeria e chissà quanti altri.

Certo, nell’immediato, non sarebbe una mossa risolutiva. Ma, “mettendosi nei loro panni”, sarebbe sicuramente una base per ricostruire una prospettiva di pace e un programma di rinascita delle loro comunità nazionali e delle loro terre, per restituire a tutti i loro connazionali l’idea di un’alternativa allo stato di cose presente. Una prospettiva che uscirebbe rafforzata garantendo dignità e diritti alle centinaia di migliaia di loro connazionali sfruttati come schiavi nei paesi europei.

L’Europa di domani, se ancora ci sarà come attore sullo scacchiere geopolitico globale, è questa: una comunità che abbraccia, idealmente e concretamente, tutti coloro che hanno cercato, che cercano e che cercheranno ancora nell’approdo alle sue coste o ai suoi confini una alternativa allo stato di caos dei paesi da cui sono fuggiti. Nessuno è “più Europa” di loro, che l’hanno cercata e inseguita con tanto impegno, mettendo a rischio la propria vita, la propria integrità fisica, il proprio futuro. Nessuno è più portatore di pace di coloro che fuggono le guerre anche a costo della propria vita. Nessuno minaccia l’integralismo su cui è stata costruita l’identità dello Stato islamico e dei suoi emuli, quanto le donne di questo popolo di fuggiaschi, se messe in condizioni di liberarsi dal gioco patriarcale sotto il quale le risospingono le discriminazioni a cui sono sottoposte nei nostri paesi.

E’ questa l’alternativa senza la quale l’intero edificio del pax europea, premessa e promessa dell’Europa disegnata a Ventotene, rischia di essere travolto. Ed è anche l’unica vera alternativa alla imminente frantumazione dell’Unione Europea perseguita dai Dijsselblöm e Schäuble.

«Resta valido l'obiettivo dell'integrazione ma la stanchezza sembra prevalere. Ricordiamo le parole di Péguy: la speranza è la più grande virtù».

Corriere della Sera, 6 agosto 2015 (m.p.r.)

Alcuni mesi fa ho chiesto a un mio amico, funzionario dell’Unione Europea e da tempo impegnato nella commissione Difesa, se esiste un esercito europeo. Sì, mi ha risposto. Ma mezzo minuto dopo ha aggiunto: No. Probabilmente avrà pensato al lambiccato groviglio di suddivisioni di compiti e funzioni - in ogni settore - tra i vari Stati, alle alternanze di gerarchie, ai bilancini di competenze, ai paralizzanti codicilli miranti a impossibili equilibri perfetti tra le singole componenti. Tutto ciò, per quel che riguarda l’organizzazione militare, gli sembrava troppo diverso da quello che deve essere un esercito, formato, nel caso sciagurato di una guerra, per agire in quest’ultima con rapidità, efficacia e determinazione. Alcune buone prove date in occasione di interventi delle forze armate, a cominciare da quelle italiane, non bastano per poter parlare di un esercito europeo, come si parla invece di esercito inglese, francese o americano. È vero che le nuove modalità dei conflitti mettono in difficoltà pure gli eserciti veri e propri, come dimostra la guerra nell’Afghanistan, che sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale.

Come non c’è un vero esercito europeo, è lecito chiedersi se esista una vera compagine politica europea o se l’Unione Europea assomigli troppo all’Onu e alla sua impotenza a risolvere problemi e contese. Forse essa assomiglia ancora di più al Sacro Romano Impero nei suoi ultimi decenni, coacervo politico-giuridico di autorità sovrapposte e contraddittorie, di poteri che si sommavano e si elidevano a vicenda, ciò che rendeva il venerando e grandioso impero, teoricamente senza confini, un assemblaggio paralizzato e paralizzante, che Goethe si chiedeva come potesse tenersi insieme e cui infatti Napoleone pose fine con un soffio, come si spegne una candela.
Un’Europa politicamente unita può esistere solo se esiste - se e quando esisterà - un vero Stato europeo, federale e decentrato ma con un reale unico governo eletto da tutti i cittadini europei, come il presidente degli Stati Uniti è eletto da tutti i cittadini americani, e le cui leggi fondamentali valgano per tutti. Uno Stato in cui gli attuali Stati nazionali diventino quelle che sono oggi, in ogni singolo attuale Stato, le Regioni, con i loro Consigli e i loro organi di governo per i problemi specifici che le riguardano.
Spero in questo Stato, perché credo sia la nostra unica salvezza possibile, visto che oggi i problemi, politici ed economici, sono europei. Solo uno Stato europeo potrebbe tutelare le identità nazionali, culturali e linguistiche numericamente o economicamente più deboli, che invece sono facilmente in balìa dei gruppi numericamente ed economicamente più forti. Nell’Unione Europea non dovrebbe ad esempio essere possibile che l’una o l’altra delle sue componenti innalzi muri di centinaia di chilometri ai confini con un’altra regione, così come oggi in Italia non è possibile che la Regione Campania innalzi muraglie cinesi alle frontiere con la Regione Lazio.
Purtroppo l’Unione Europea sembra fare assai poco in questo senso; un timido passo in avanti e subito mezzo passo indietro, un frequente rinvio dei problemi pressanti per evitare il fallimento della loro soluzione e dunque per rimandare non la soluzione, bensì il suo fallimento. Ad esempio l’atteggiamento dinanzi al gravissimo - sempre più impellente e sempre più difficilmente solubile - problema dell’immigrazione è un tipico esempio di questa inconsistenza dell’Unione Europea, che cerca di scaricare il problema sull’Italia, come se il governo italiano cercasse di scaricarlo sulla Sicilia, visto che i barconi dei disperati arrivano in Sicilia e non a Bologna o a Firenze. Una delle poche istituzioni europee che funzionano con decisione e con una visione globale e organicamente europea è la Banca Centrale, guidata da Mario Draghi. Se l’Unione Europea agisse in quel modo in ogni campo, non ci troveremmo nell’attuale penoso stallo.
Forse l’errore è stato quello di allargare l’Unione Europea prima di crearla realmente, rendendola così un pachiderma titubante. Forse sarebbe stato meglio se l’idea d’Europa formulata dai padri fondatori e messa inizialmente in moto dai Sei fosse prima divenuta uno Stato vero e proprio, con una sua struttura e una sua effettività precisa. Questo Stato, una volta costituito, avrebbe potuto e dovuto accogliere successivamente gli altri Paesi che ne condividessero i fondamenti. Non perché l’uno o l’altro Paese sia più o meno degno di altri, ma perché ogni realtà funzionante, in ogni campo, si basa su una costruzione precisa e non su confuse assemblee pulsionali o su patteggiamenti diplomatici. Quando nel 1933 Giulio Einaudi fonda la sua casa editrice, non va in Piazza Castello a invitare tutti i passanti a farne parte, quelli che vorrebbero pubblicare romanzi gialli e quelli che vorrebbero trattati teologici, ma la fonda su un progetto preciso, successivamente aperto a chi lo condivide. Ogni istituzione operante esclude l’unanimità, che paralizza ogni decisione e non è democrazia bensì il suo contrario. Sono le dittature a imporre e a fingere un’unanimità di consensi.
Le grandi formazioni statali cui dobbiamo la civiltà europea sono nate da guerre; l’Impero romano è una lontana fondamentale premessa di un’Europa unita, ma è nato senza che le legioni romane chiedessero il permesso di entrare in Gallia o in altre terre. Ovviamente noi vogliamo l’unità europea, ma non vogliamo a nessun costo costruirla con la guerra. Talora questo sogno e questo dovere, questa speranza in una reale unione europea, sembrano la quadratura del circolo.
È una ragione in più per lavorare per essa. La tentazione di una triste e rassegnata impotenza è forte. Forse mai come oggi la delusione e la stanchezza della politica sono state così vaste e deprimenti e sembrano riecheggiare quella settima lettera di Platone amaramente deluso dal potere politico, pubblicata non a caso di recente da Paolo Butti de Lima nella versione di una grande traduttrice dei classici, Maria Grazia Ciani (Marsilio). Non resta che sperare contra spem, contro il dilagante e giustificato pessimismo. La speranza, scrive Péguy, è la più grande delle virtù, proprio perché è così difficile vedere come vanno le cose e, ciononostante, sperare che domani possano andare meglio.

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Del fitto decalogo che Norma Rangeri ha proposto alla discussione pubblica privilegerei solo pochi temi, ma tutti curvati ai bisogni fondativi di quell' organismo politico cui la sinistra aspira da tempo.

E tuttavia partendo da una considerazione generale.Non pochi si stupiscono, che proprio in Italia, malgrado i ripetuti tentativi, non riesca a prender forma una forza politica di sinistra simile a Syriza o a Podemos. Si stupiscono che ciò accada proprio nel Paese che ha visto nascere e prosperare il maggiore partito comunista dell 'Occidente. E invece proprio in questa storia, in questo passato di successo, si trova almeno una ragione delle presenti e sinora sovrastanti difficoltà. Più grandi e sontuosi sono i monumenti, più ingombranti le macerie che il loro crollo dissemina. Da noi, a sinistra, non c'è uno spazio vuoto in cui edificare. Ci sono i resti del PCI, gruppi dirigenti che sopravvivono alla sua storia dentro il PD e che da riformatori moderati conservano legami di consenso con settori popolari e di ceto medio della società italiana. Gruppi che oggi stemperano il neoliberismo riverniciato e senza prospettive del governo Renzi. Poi ci sono i tronconi sopravvissuti alle scissioni multiple: SEl, Rifondazione comunista, quel che resta de L'altra Europa con Tsipras e altre formazioni più o meno pulviscolari. Infine la galassia dei movimenti e delle associazioni con i loro leader.

Se dovessi condensare la situazione presente in una immagine, ricorrerei alla metafora che gli illuministi meridionali del XVIII secolo utilizzarono per rappresentare Napoli nel territorio del Regno: una grande testa su un corpo fragile. La sinistra politica italiana è tutta testa e quasi priva di corpo. E' una costellazione di dirigenti e di gruppi intellettuali senza popolo. Si tratta di un grande patrimonio che nessun Paese d'Europa, forse neppure la Francia, oggi può vantare, ma che rischia di esaurire la propria azione in un'opera di impotente testimonianza. E' evidente, dunque, che se tutti sono dirigenti essi portano oggi una responsabilità enorme. Ad essi spetta fare le mosse, prendere le iniziative che possono aggregare le forze, trovare il cammino dell'unità, capace di rovesciare l'attuale dispersione in un aggregato largo e potente.

Ora sono almeno due i problemi fondamentali che questi gruppi dirigenti ormai consapevoli della situazione drammatica cui siamo giunti, in Italia e nel mondo, debbono affrontare. Uno riguarda la necessità di dare gambe robuste alla grande testa, in maniera di consentire non solo al corpo di camminare, ma alla testa stessa di pensare in maniera adeguata alle sfide presenti. C'è un unico modo di munire la testa di gambe, che è quello di andarsele a cercare. Esiste in Italia una questione più grave della condizione giovanile? Disoccupazione al 44%, precariato, lavoro in nero, gratuito, aumento delle tasse universitarie, sbarramento degli accessi, decurtazione delle borse di studio, ecc.Ma non basta gridare contro le precarietà.Occorre andare dove essa si genera, parlare con i lavoratori , farsi raccontare i loro problemi, ascoltare le loro idee. La proposta del reddito minimo o di cittadinanza, che io chiamerei il reddito di dignità, è arrivata nelle commissioni del Parlamento. Ma i dirigenti sono mai andati nelle scuole, nelle Università, nei luoghi pubblici a spiegare le ragioni della proposta? Eppure non solo è indispensabile mobilitare i soggetti sociali interessati per vincere questa battaglia, è anche necessario conquistare alla militanza forze giovani, in grado di dare nuove energie alla lotta politica. Almeno un paio di generazioni sono state annichilite dal modello capitalistico che domina da trent'anni. Le lasciamo nel loro limbo, oppure offriamo loro almeno una prospettiva politica?

Questo bagno sociale dei dirigenti si rende necessario per un'altra ragione. Essi debbono sapere che non basta dire “cose di sinistra” per ottenere consenso. Anche i dirigenti di sinistra oggi sono percepiti dalla grande maggioranza degli italiani come membri del numeroso esercito del ceto politico, con gli stessi privilegi, ma con l'aggravante di essere deboli e minoritari. Non importa la loro storia, il loro personale disinteresse.E' così.Occorre dunque che essi compiano tutte le operazioni necessarie per liberarsi di questa ingombrante divisa che li fa somigliare a tutti gli altri.

L'altro grande problema da affrontare riguarda la costruzione e il mantenimento dell'unità della dirigenza in presenza di una così marcata difformità, di posizioni,vedute, storie personali, ecc In questo nodo si concentra la nostra più grande sfida, decisiva per uscire dall'impotenza a cui sembriamo condannati. Occorre non soltanto organizzare un gruppo dirigente trasparente e controllabile dalla base, capace di ascoltare le voci che vengono dal basso, ma trovare soprattutto il modo di far coesistere il dissenso interno con le scelte della maggioranza. Discussione, decisione, ma anche condivisione del progetto unitario anche da parte di chi dissente. Un tempo tale risultato si otteneva – ad esempio nel vecchio PCI, che ereditava in parte il modello leninista – con la disciplina del cosiddetto centralismo democratico, grazie al collante semireligioso dell'ideologia, ma anche, diciamo la verità, in virtù di quell'amalgama di autoritarismo burocratico e passività conformistica dei militanti che caratterizzava in genere i partiti di massa.

Oggi questo non è più possibile. Ogni testa pensa da sé. E' la ricchezza culturale e la tragedia politica del pluralismo. E non c'è altra strada per domare tale disordinata potenza della modernità che la sapienza politica delle regole. Occorrono regole chiare e ben pensate fin da subito, per far coesistere le diversità e rendere fisiologici, puro dinamismo di crescita, i conflitti interni. Circolarità delle cariche, criteri elettorali interni e di accesso alla rappresentanza, regole di disciplinamento dei rapporti con le istituzioni o con le società private, uso delle risorse, ecc. E soprattuto stabilire le basi minime di un'etica del dissenso. I dirigenti, proprio perché spesso lontani dai comuni cittadini, neppure immaginano quali ferite provochino nell'animo di militanti ed elettori i loro gesti di disaccordo sbandierati ai quattro venti. Ciò che il popolo della sinistra non tollera è la divisione delle forze politiche che pretendono di difenderlo dai grandi poteri capitalistici.Se si è divisi si è deboli e si va incontro alla sconfitta. Certo, il pudore del silenzio, in caso di dissenso, non si può imporre per decreto. Ma occorrerebbe far di tutto per farlo diventare un valore, supremo e distintivo, dell'essere di sinistra.

Cambiare il mondo non è facile. «La sfida più grande: come fare procedere le cose dopo la fine della prima fase di entusiasmo, come fare il prossimo passo senza soccombere alla catastrofe della tentazione “totalitaria”. In breve, come superare Mandela senza diventare Mugabe».

Prima le persone online, 31 agosto 2015

Il filosofo italiano Giorgio Agamben ha detto in un’intervista che “il pensiero è il coraggio della disperazione” - un’intuizione pertinente in modo particolare al nostro momento storico, quando di solito anche la diagnosi più pessimista tende a finire con un cenno ottimista a qualche versione della proverbiale luce alla fine del tunnel.

Il vero coraggio non sta nell’immaginare un’alternativa, ma nell’accettare le conseguenze del fatto che un’alternativa chiaramente discernibile non c’è: il sogno di un’alternativa indica codardia teorica, funziona come un feticcio, che ci evita di pensare fino in fondo l’impasse delle nostre situazioni di difficoltà. In breve, il vero coraggio consiste nell’ammettere che la luce alla fine del tunnel è molto probabilmente il faro di un altro treno che ci si avvicina dalla direzione opposta. Del bisogno di un tale coraggio non c’è migliore esempio della Grecia, oggi.
La doppia inversione
della crisi greca
La doppia inversione a U imboccata dalla crisi greca nel luglio 2015 non può che apparire come un passo, non solo dalla tragedia alla farsa, ma, come ha notato Stathis Kouvelakis sulla rivista Jacobin, da una tragedia piena di ribaltamenti comici direttamente a un teatro dell’assurdo - c’è forse un altro modo di caratterizzare questo straordinario ribaltamento di un estremo nel suo opposto, che potrebbe abbacinare perfino il più speculativo tra i filosofi hegeliani? Stanca dei negoziati senza fine con i dirigenti UE, in cui si susseguiva un’umiliazione dopo l’altra, Syriza ha indetto un referendum per domenica 5 luglio, chiedendo al popolo greco di sostenere o rifiutare la proposta UE di nuove misure di austerità. Sebbene lo stesso governo avesse affermato chiaramente che sosteneva il No, il risultato è stata una sorpresa: una schiacciante maggioranza di più del 61 % ha votato No al ricatto europeo.
Hanno cominciato a circolare voci secondo cui il risultato - di vittoria per il governo - sarebbe stata una cattiva sorpresa per lo stesso Alexis Tsipras, che segretamente sperava che il governo perdesse, così che una sconfitta gli avrebbe permesso di salvare la faccia nell’arrendersi alle richieste UE (“rispettiamo la voce degli elettori”). Comunque sia, letteralmente il mattino dopo, Tsipras ha annunciato che la Grecia era pronta a riprendere i negoziati, e, giorni dopo, la Grecia ha accettato una proposta UE che era sostanzialmente la stessa che gli elettori avevano respinto (anche più dura in alcuni dettagli) - in breve, ha agito come se il governo avesse perso, e non vinto, al referendum.
Come ha scritto Kouvelakis:
«Com’è possibile che un devastante No alle politiche di austerità del memorandum sia interpretato come un semaforo verde per un nuovo memorandum? […] il senso dell’assurdo non deriva solo da questo inaspettato ribaltamento. Risalta soprattutto il fatto che tutto ciò si svolge davanti ai nostri occhi come niente fosse accaduto, come se il referendum fosse stato qualcosa come un’allucinazione collettiva che si interrompe improvvisamente, lasciandoci liberi di continuare quello che stavamo facendo prima. Ma dato che non siamo diventati tutti dei mangiatori di loto, facciamo almeno un breve riassunto di quel che è accaduto in questi ultimi giorni. […] Fin da lunedì mattina, prima ancora che i festeggiamenti per la vittoria terminassero di spegnersi nelle piazze del paese, è cominciato il teatro dell’assurdo. […]
«Il pubblico, ancora annebbiato dalla gioia di domenica, assisteva mentre i rappresentanti del 62 % di sottomettevano al 38 % all’indomani di una sonante vittoria per la democrazia e la sovranità popolare. […] Ma il referendum si è tenuto. Non è stata un’allucinazione da cui ora ciascuno è riemerso. Al contrario, l’allucinazione è il tentativo di degradarlo a un temporaneo ‘sfiatare il vapore per abbassare la tensione’, prima di riprendere la discesa verso un terzo memorandum».
E le cose hanno continuato a procedere in questa direzione. La sera del 10 luglio il parlamento greco ha conferito ad Alexis Tsipras l’autorità di negoziare un nuovo salvataggio per 250 voti contro 32, ma 15 parlamentari della maggioranza non hanno sostenuto il piano, il che significa che ha ottenuto più sostegno dai partiti dell’opposizione che dal proprio. Giorni dopo, la segreteria politica di Syriza, dominata dalla sinistra del partito, ha stabilito che le ultime proposte UE sono “assurde” ed “eccedono i limiti di sopportazione della società greca” - estremismo di sinistra?
Ma lo stesso FMI (in questo caso una voce di capitalismo minimamente razionale) ha detto esattamente la stessa cosa: uno studio del FMI, pubblicato il giorno prima, mostra che la Grecia ha bisogno di un alleggerimento del debito molto maggiore di quanto i governi europei abbiano voluto prendere in considerazione finora - i paesi europei dovrebbero concedere alla Grecia una moratoria di 30 anni prima di cominciare a pagare tutti i suoi debiti europei, inclusi nuovi prestiti, e di una sostanziale estensione temporale del periodo di pagamento…
Non meraviglia che lo stesso Tsipras abbia espresso pubblicamente i suoi dubbi riguardo al piano di salvataggio: «Non crediamo nelle misure che ci sono state imposte», ha detto in un’intervista alla TV, mettendo in chiaro che le sostiene per pura disperazione, per evitare un collasso totale economico e finanziario. Gli eurocrati usano queste confessioni con una perfidia da togliere il fiato: ora che il governo greco ha accettato le loro dure condizioni, mettono in dubbio la sincerità e la serietà del suo impegno. Come può Tsipras lottare davvero per attuare un programma in cui non crede?
Come può il governo greco essere realmente impegnato in un accordo che si oppone all’esito del referendum?
Comunque, prese di posizione come quella del FMI mostrano che il vero problema risiede altrove: crede davvero l’UE nel proprio piano di salvataggio? Crede davvero che le misure brutalmente imposte metteranno in moto la crescita economica e quindi permetteranno il pagamento dei debiti? O, invece, la motivazione ultima della brutale pressione estorsiva sulla Grecia non è puramente economica (dato che, in termini economici, è palesemente irrazionale), ma politico-ideologica — ovvero, come ha detto Paul Krugman sul New York Times, «la sostanziale resa non è sufficiente per la Germania, che vuole un cambiamento di regime e l’umiliazione totale — c’è una fazione importante che vuole solo buttar fuori la Grecia, e per la quale sarebbe più o meno benvenuto uno stato fallito, a far da monito per gli altri».
Si deve sempre tener presente quale tipo di orrore Syriza rappresenti per l’establishment europeo - un conservatore polacco, membro del parlamento europeo, si è perfino appellato direttamente all’esercito greco, invocando un colpo di stato per salvare il paese.
Perché questo orrore? Ai greci viene ora chiesto di pagare un alto prezzo, ma non per una realistica prospettiva di crescita. Il prezzo che viene chiesto loro di pagare è finalizzato a continuare la fantasticheria “estendi e fingi” [extend and pretend]. Viene chiesto loro di incrementare ulteriormente la loro attuale sofferenza al fine di sostenere il sogno di qualcun altro - degli eurocrati. Gilles Deleuze disse, decadi fa: «si vous etez pris dans le reve de l’autre, vous etez foutus» (“Se siete catturati nel sogno di un altro, siete fottuti”), e questa è la situazione in cui si trova ora la Grecia. Ai greci non viene chiesto di ingoiare molte pillole amare per un piano realistico di ripresa economica, viene chiesto loro di soffrire affinché altri possano continuare indisturbati a sognare il proprio sogno.
Chi ha bisogno ora di risvegliarsi non è la Grecia, ma l’Europa. Chiunque non sia perso in questo sogno sa cosa ci attende se il piano di salvataggio verrà messo in atto: altri 90 miliardi circa saranno gettati nel cestino greco, incrementando il debito greco a circa 400 miliardi di euro (e la maggior parte di quei miliardi tornerà velocemente in Europa Occidentale - il vero salvataggio è il salvataggio delle banche tedesche e francesi, non della Grecia), e ci possiamo aspettare che la stessa crisi esploda di nuovo tra un paio d’anni.
Ma è davvero fallimentare il risultato?
Ma è davvero fallimentare un tale risultato? A un livello immediato, se si confronta il piano con le sue conseguenze effettive, evidentemente sì. A un livello più profondo, però, non si può evitare il sospetto che il vero obiettivo non sia quello di dare una possibilità alla Grecia, ma di trasformarla in un semi-stato economicamente colonizzato, mantenuto in condizioni permanenti di povertà e dipendenza come avvertimento per gli altri. Ma a un livello ancora più profondo, troviamo di nuovo un fallimento - non della Grecia, ma dell’Europa stessa, dell’anima emancipatrice dell’eredità europea.
Il No al referendum è stato indubbiamente un grande atto etico-politico: contro una ben coordinata propaganda nemica che ha diffuso paure e bugie, senza una chiara prospettiva di quello che sarebbe accaduto dopo, contro tutte le probabilità “realistiche”, il popolo greco ha eroicamente rifiutato la pressione brutale dell’UE. Il No greco è stato un autentico gesto di libertà e di autonomia, ma certo la grande questione è cosa accade il giorno dopo, quando dobbiamo ritornare dalla negazione estatica agli sporchi affari quotidiani — e qui un’altra unità è emersa, l’unità delle forze “pragmatiche” (Syriza e i grandi partiti di opposizione) contro la sinistra di Syriza e Alba Dorata. Ma questo implica che la lunga lotta di Syriza è stata vana e che il No al referendum è stato solo un gesto sentimentale vuoto, destinato a rendere più dura la capitolazione?
Ciò che è realmente catastrofico, della crisi greca, è che nel momento in cui la scelta si è presentata come la scelta tra la “Grexit” e la capitolazione nei confronti di Bruxelles, la battaglia era ormai persa. Entrambi i termini di questa scelta si collocano all’interno della visione eurocratica predominante (ricordiamoci che anche i più duri sostenitori tedeschi della linea anti-greca, come Wolfgang Schäuble, preferiscono la Grexit!).
Il governo di Syriza non stava lottando solo per ottenere un maggiore alleggerimento del debito e una maggiore quantità di denaro fresco all’interno delle stesse sostanziali coordinate, ma per il risveglio dell’Europa dal suo sonno dogmatico. In questo consiste l’autentica grandezza di Syriza: finché l’icona dell’agitazione popolare erano le proteste di piazza Syntagma (“Costituzione”), Syriza si è impegnata nello sforzo erculeo di attuare lo spostamento da sintagma a paradigma: nel lungo e paziente lavoro di tradurre l’energia della ribellione in misure concrete che avrebbero cambiato la vita quotidiana delle persone. Dobbiamo essere molto precisi su questo: il No del referendum greco non era un No alla “austerità” nel senso di sacrifici necessari e duro lavoro, ma un No al sogno UE di continuare semplicemente con il business as usual.
L’ex-ministro delle finanze del paese, Yanis Varoufakis, ha messo ripetutamente in chiaro questo punto: non un altro prestito, ma un traino sostanziale, necessario per dare all’economia greca una possibilità di riprendersi. Il primo passo in questa direzione dovrebbe essere un aumento della trasparenza democratica dei nostri meccanismi di potere. I nostri apparati di stato democraticamente eletti sono sempre più duplicati [di fatto sostituiti] da una spessa rete di “accordi” e di organismi “esperti” non eletti che detengono il reale potere economico (e militare). Ecco il racconto da parte di Varoufakis di un momento straordinario nelle sue trattative con il negoziatore UE Jeroen Dijsselbloem:
«C’è stato un momento in cui il Presidente dell’Eurogruppo ha deciso di agire contro di noi e di fatto chiuderci fuori, e ha fatto sapere che la Grecia era essenzialmente sul punto di uscire dall’Eurozona. […] Esiste una prassi per cui i comunicati devono essere unanimi, e il Presidente non può semplicemente indire una riunione dell’Eurozona escludendo uno stato membro. E lui ha detto: ‘Oh, sono certo che posso farlo’. Quindi io ho richiesto un parere legale. Questo ha creato una certa agitazione.
«Per circa 5-10 minuti la riunione si è interrotta, impiegati e funzionari parlavano l’uno con l’altro e ai loro telefoni; infine un funzionario, un esperto legale, si è rivolto a me è mi ha detto le seguenti parole: "Beh, l’Eurogruppo non esiste per legge, non c’è un trattato che ha istituito questo gruppo". Quindi la situazione è quella di un gruppo inesistente che ha il più grande potere nel determinare le vite degli europei. Non deve render conto a nessuno, dato che non esiste per legge; non si tengono verbali; e [quel che viene detto] è confidenziale. Quindi mai nessun cittadino può arrivare a sapere quel che viene detto all’interno… Ci sono decisioni quasi di vita e di morte, e nessun membro deve render conto a nessuno».
L'Unione europea:
Una tirannide come quella della Cina
Suona familiare? Sì, a chiunque conosca come funziona oggi il potere cinese, da quando Deng Xiaoping ha messo in atto un sistema duale unico: l’apparato dello Stato e il sistema legale sono duplicati [di fatto sostituiti] da istituzioni del Partito che sono letteralmente illegali - ovvero, come ha detto sinteticamente He Weifang, un professore di legge di Pechino: «Come organizzazione, il Partito si trova all’esterno e sopra la legge. Dovrebbe avere un’identità legale, in altre parole: una personalità giuridica che sia possibile citare in giudizio, ma non è nemmeno registrato come organizzazione. Il Partito esiste completamente al di fuori del sistema legale»(Richard McGregor, The Party, London: Allen Lane 2010, p. 22). È come se, nelle parole di McGregor, la violenza fondatrice dello Stato rimanga presente, incarnata in un’organizzazione che ha uno status legale non definito:

«Sembrerebbe difficile nascondere un’organizzazione così grande come il Partito Comunista Cinese, ma questo coltiva con gran cura il suo ruolo dietro le quinte. Il personale di controllo dei dipartimenti del grande partito e i media mantengono volutamente un basso profilo pubblico. I comitati del partito (noti come ‘piccoli gruppi guida’) che indirizzano e dettano le politiche ai ministeri, che a loro volta hanno il compito di eseguirle, lavorano non visti, dietro le quinte. Nei media controllati dallo Stato si fa raramente riferimento alla composizione di tutti questi comitati e in molti casi perfino alla loro esistenza, men che meno alla discussione su come arrivano alle decisioni».

Non ci si meraviglia che a Varoufakis sia capitata la stessa cosa che a quel dissidente cinese, il quale, qualche anno fa, portò in tribunale il Partito Comunista Cinese, accusandolo di essere colpevole del massacro di Tienanmen. Dopo qualche mese, egli ottenne una risposta dal ministero della giustizia: non potevano dar corso al procedimento della sua accusa dato che non esiste alcuna organizzazione denominata “Partito Comunista Cinese” ufficialmente registrata in Cina.
Ed è cruciale notare come come la facciata di questa non-trasparenza del potere sia quella di un falso umanitarismo: dopo la sconfitta greca arriva, evidentemente, il tempo delle preoccupazioni umanitarie. Jean-Claude Juncker ha immediatamente affermato in un’intervista che era molto felice dell’accordo di salvataggio perché avrebbe immediatamente alleviato la sofferenza del popolo greco, che gli stava molto a cuore. Scenario classico: dopo il giro di vite, la preoccupazione umanitaria e l’aiuto…fino a posporre i pagamenti del debito.
Cosa si dovrebbe fare in una situazione così disperata? Si deve in particolare resistere alla tentazione di una Grexit come grande gesto eroico, di rifiuto di ulteriori umiliazioni e di uscita — verso dove? Verso quale nuovo ordine positivo staremmo entrando? L’opzione Grexit appare come il “reale-impossibile”, ovvero come qualcosa che porterebbe a un’immediata disintegrazione sociale. Krugman scrive: «Tsipras evidentemente si è fatto convincere, tempo fa, che un’uscita dall’euro fosse completamente impossibile. Sembra che Syriza non avesse nemmeno fatto una pianificazione di contingenza per una valuta parallela (spero di scoprire che non è vero). Questo l’ha messa in una posizione negoziale senza speranza».
Il punto sollevato da Krugman è che la Grexit è anche un “impossibile-reale”, che può avvenire con conseguenze impredicibili e che, proprio per questo, può essere rischiata. “Tutte queste ‘teste sagge’ che dicono che la Grexit è impossibile, che porterebbe a un’implosione completa, non sanno di che parlano. Quando dico questo, non intendo dire che abbiano necessariamente torto — io credo che ce l’abbiano, ma chiunque abbia delle certezze su questo inganna se stesso. Quello che invece voglio dire è che nessuno ha alcuna esperienza di ciò che stiamo considerando”.
Mentre in linea di principio questo è vero, ci sono tuttavia troppe indicazioni che un’uscita improvvisa della Grecia oggi porterebbe a una totale catastrofe economica e sociale. Gli strateghi economici di Syriza sono consapevoli che un tale gesto provocherebbe un’immediata ulteriore caduta dello standard di vita di un ulteriore 30 % (almeno), portando la miseria a un nuovo insopportabile livello, con il rischio di rivolta popolare e perfino di dittatura militare.
La prospettiva di tali atti eroici è quindi una tentazione a cui resistere.
Lo sgretolamento dell'Europa
Ci sono poi dei richiami affinché Syriza ritorni alle sue proprie radici: Syriza non dovrebbe diventare solo un altro partito parlamentare al governo, il vero cambiamento può solo venire dalla base, dal popolo stesso, dalla sua auto-organizzazione, non dagli apparati dello Stato…un altro caso di atteggiamento vuoto, dato che elude il problema cruciale di come gestire la pressione internazionale a proposito del debito, ovvero, più in generale, di come esercitare il potere e guidare uno Stato. L’auto-organizzazione di base non può rimpiazzare lo Stato, e la questione è come riorganizzare l’apparato dello Stato per farlo funzionare diversamente.
Ciononostante, non basta dire che Syriza ha lottato eroicamente, mettendo alla prova il possibile — la lotta continua, è appena cominciata. Invece di indugiare sulle “contraddizioni” della politica di Syriza (dopo il trionfante No, si accetta proprio il programma respinto dal popolo), e di restare intrappolati nelle mutue recriminazioni su chi è il colpevole (è stata la maggioranza di Syriza a commettere un opportunistico “tradimento”, o è stata la sinistra irresponsabile nel preferire la Grexit), ci si dovrebbe invece concentrare su ciò che il nemico sta facendo: le “contraddizioni” di Syriza sono un’immagine speculare delle “contraddizioni” dell’establishment UE, che stanno gradualmente sgretolando le fondamenta stesse dell’Europa unita.
Con l’aspetto delle “contraddizioni” di Syriza, l’establishment UE si sta meramente vedendo restituire il proprio stesso messaggio nella sua vera forma. E questo è ciò che Syriza dovrebbe fare ora. Con spietato pragmatismo e freddo calcolo, dovrebbe sfruttare ogni minima crepa nell’armatura dell’avversario. Dovrebbe usare tutti coloro che resistono alla politica UE predominante, dai conservatori britannici all’Ukip nel Regno Unito. Dovrebbe flirtare senza vergogna con la Russia e con la Cina, giocando con l’idea di concedere un’isola alla Russia come base militare nel Mediterraneo, solo per provocare la strizza [scare the shit out] degli strateghi NATO. Per parafrasare Dostoevskij, ora che Dio-UE ha fallito, ogni cosa è permessa.
Quando sentiamo i lamenti a proposito del fatto che l’amministrazione UE ignora brutalmente la grave condizione del popolo greco nella sua ossessione di umiliare e soggiogare i greci, che nemmeno i paesi sud-europei come l’Italia e la Spagna hanno mostrato alcuna solidarietà con la Grecia, la nostra reazione dovrebbe essere la seguente: qual è la sorpresa in tutto ciò? Cosa si aspettavano, i critici? L’amministrazione UE sta semplicemente facendo ciò che ha sempre fatto. E c’è poi riprovazione per il fatto che la Grecia cerchi l’aiuto di Russia e Cina — come se non fosse la stessa Europa a spingere la Grecia in quella direzione con la sua pressione umiliante.
C’è poi chi sostiene che fenomeni come Syriza dimostrano come la tradizionale dicotomia destra/sinistra sia superata. Syriza in Grecia è considerata estrema sinistra e Marine le Pen in Francia estrema destra, ma questi due partiti hanno effettivamente molto in comune: entrambi lottano per la sovranità, contro le multinazionali. È perciò del tutto logico che nella stessa Grecia, Syriza si trovi un coalizione con un piccolo partito di destra pro-sovranità. Il 22 aprile 2015, François Hollande ha detto in TV che Marine le Pen oggi ricorda George Marchais (un leader comunista francese) negli anni ’70 — la stessa patriottica difesa della gente comune francese sfruttata dal capitale internazionale — non c’è meraviglia che Marine le Pen sostenga Syriza… una bizzarra posizione, questa, che non dice molto più del vecchio adagio liberale che anche il fascismo è un tipo di socialismo. Nel momento in cui prendiamo in considerazione l’argomento dei lavoratori migranti, questo parallelo va completamente in frantumi.
La contraddizione di fondo
di chi vuole rovesciare
un regime autoritario
Il problema vero è molto più fondamentale. La storia ricorrente della sinistra contemporanea è quella di un leader di partito eletto con entusiasmo universale e con la promessa di un “mondo nuovo” (Mandela, Lula) - poi, però, presto o tardi, di solito dopo un paio d’anni, tutti inciampano sul dilemma cruciale: osar interferire con il meccanismo capitalista, oppure “giocarsela” secondo le regole [play the game]? Se si va a disturbare il meccanismo, si ottiene una pronta “punizione” sotto forma di perturbazioni del mercato, caos economico, eccetera.
L’eroismo di Syriza è stato che, dopo aver vinto la battaglia politica democratica, ha rischiato un passo ulteriore nell’andare a perturbare il fluido corso del Capitale. La lezione della crisi greca è che il Capitale, sebbene si tratti in ultima analisi di una finzione simbolica, è il nostro Reale. Ciò vale a dire che le proteste e le rivolte di oggi sono sostenute dalla combinazione e sovrapposizione di diversi livelli, e questa combinazione rende conto della loro forza: lottano per la (“normale”, parlamentare) democrazia contro regimi autoritari; contro il razzismo e il sessismo, specialmente l’odio diretto contro migranti e rifugiati; per il welfare state contro il neoliberismo; contro la corruzione in politica e nell’economia (aziende che inquinano l’ambiente, eccetera); per le nuove forme di democrazia che oltrepassano i rituali multipartitici (partecipazione, eccetera); e, infine, mettono in questione il sistema capitalista globale in quanto tale, e provano a mantenere viva l’idea di una società non-capitalista. Due trappole devono qui essere evitate: sia il falso radicalismo (“quel che realmente conta è l’abolizione del capitalismo liberal-parlamentare, tutte le altre lotte sono secondarie”), sia il falso gradualismo (“ora lottiamo contro la dittatura militare e per la semplice democrazia, mettete da parte i vostri ideali socialisti, quelli verranno dopo - forse….”).
Quando ci dobbiamo occupare di una lotta specifica, la questione chiave è: il nostro impegno o disimpegno in essa come andrà a influenzare le altre lotte? La regola generale è che, quando una rivolta inizia contro un regime semi-democratico oppressivo, come è stato per il Medio Oriente nel 2011, è facile mobilitare grandi folle con slogan generici che non si possono caratterizzare altrimenti che come accattivanti per la folla [crowd pleasers] - per la democrazia, contro la corruzione, eccetera. Ma poi gradualmente ci si avvicina a scelte difficili: quando la nostra rivolta ha successo nel suo obiettivo diretto, arriviamo a realizzare che ciò che realmente ci opprimeva (la mancanza di libertà, le umiliazioni, la corruzione sociale, la mancanza di una prospettiva di vita decente) prende un nuovo aspetto. In Egitto, i protagonisti delle proteste sono riusciti a liberarsi dall’oppressivo regime di Mubarak, ma la corruzione è rimasta, e la prospettiva di una vita decente si è allontanata anche di più.
Dopo il rovesciamento di un regime autoritario, possono svanire le ultime vestigia della protezione patriarcale per i poveri, e la nuova libertà ottenuta viene de facto ridotta alla libertà di scegliersi ciascuno la propria forma di miseria: la maggioranza non solo rimane in povertà, ma — oltre il danno la beffa - si sente rispondere che, dato che ora sono liberi, sono responsabili della propria povertà. In tale situazione, dobbiamo ammettere che c’era fin dall’inizio un problema nell’obiettivo della lotta, che questo obiettivo non era abbastanza specifico - vale a dire che la democrazia politica standard può anche servire proprio come forma di non-libertà: la libertà politica può facilmente fornire la struttura legale per la schiavitù economica, con i non-privilegiati che “liberamente” vendono se stessi come schiavi. In breve, dobbiamo ammettere che ciò che inizialmente abbiamo considerato come un fallimento nella completa realizzazione di un nobile principio è in realtà un fallimento intrinseco al principio stesso - imparare questo passaggio dalla distorsione di una nozione, la sua realizzazione incompleta, alla distorsione immanente a detta nozione è il grandepasso della pedagogia politica.
L’ideologia dominante mobilita il suo intero arsenale per impedirci di arrivare a questa radicale conclusione.
Cominciano col dirci che la libertà democratica porta con sé la propria responsabilità, che si ottiene a un prezzo, che non siamo ancora maturi se ci aspettiamo troppo dalla democrazia. In questo modo, scaricano su di noi la colpa del nostro fallimento: in una società libera, così ci viene detto, tutti siamo capitalisti che investono sulle proprie vite, che decidono di metter più risorse nell’istruzione piuttosto che nel divertimento se vogliamo aver successo, eccetera.
A un livello politico più diretto, la politica estera USA ha elaborato una strategia dettagliata su come esercitare il controllo dei danni nel re-incanalare una sollevazione popolare all’interno di accettabili vincoli parlamentari-capitalisti - come fu fatto con successo in Sud Africa dopo la caduta del regime dell’apartheid, nelle Filippine dopo la caduta di Marcos, in Indonesia dopo la caduta di Suharto, eccetera.
Nella precisa congiuntura attuale, una politica radicale di emancipazione si trova di fronte alla sfida più grande: come fare procedere le cose dopo la fine della prima fase di entusiasmo, come fare il prossimo passo senza soccombere alla catastrofe della tentazione “totalitaria” - in breve, come superare Mandela senza diventare Mugabe.
Il coraggio della disperazione è a questo punto cruciale.
Pubblicato su Prima le persone da Ugo Sturlese. I sottotitoli sono di eddyburg.

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Come pagare le tasse (diceva Padoa-Schioppa) ha un’intrinseca bellezza (perché sono i liberi che si assegnano quell’obbligo per vivere autonomamente), così lo è il servizio civile alla comunità, un impegno di cittadini liberi verso se stessi».

La Repubblica, 2 agosto 2015.

Sulla pagina Facebook della Lega Nord si legge questo post: «La Lega sta preparando una proposta di legge per reintrodurre il servizio civile e militare obbligatorio per i maggiorenni. Rispetto per il prossimo, spirito di sacrificio, generosità. Voi sareste d’accordo?». Sembra un anacronismo: sia la proposta di legge che l’appello ai sentimenti repubblicani. L’annuncio ha ricevuto una valanga di critiche, soprattutto dai giovani deputati del Pd. Nella sua Amaca, Michele Serra ha commentato così queste due notizie: mentre «sbertucciano » Salvini, forse i giovani deputati del Pd non sanno che la leva obbligatoria è stata «per molti decenni, uno dei punti fermi della cultura socialista e comunista». E prima ancora, vi è da aggiungere, di quella democratica.

L’obbligo del servizio militare non era campato per aria, visto che dall’Ottocento una delle più importanti giustificazioni dell’estensione del suffragio elettorale fu il servizio alla nazione, con il lavoro e con l’arruolamento. Certo, questa visione della libertà politica da “meritarsi” è stata, per nostra fortuna, superata dalla concezione del diritto politico come un diritto umano fondamentale, attaccato, se così si può dire, alla persona del cittadino; un diritto che non deve essere meritato.

E però, la leva obbligatoria in democrazia ha un fondamento molto diverso e anche più realistico: quello della sicurezza delle istituzioni. L’esercito di una democrazia non è di offesa (la nostra Costituzione chiarisce molto bene che la Repubblica aborre la guerra) bensì solo ed esclusivamente di difesa. Ma la ragione per la quale “un esercito di popolo” è preferito dalle democrazie non sta tanto o soltanto nella sicurezza rispetto al nemico esterno ma anche e prima di tutto rispetto ai nemici interni. Come ricorda opportunamente Serra, «un esercito di popolo» è stato tradizionalmente giudicato molto più sicuro di «un esercito di professionisti » ai fini della difesa dell’ordine politico democratico.

Questa ragione realistica è stata superata dall’appartenenza dei nostri Paesi all’Europa, che ci ha abituati a pensare non più in termini di eserciti e di difesa da nemici (e quindi di una pace armata), ma in termini di cooperazione fra diversi e quindi di una pace vera, non armata (lasciando però alla Nato e agli Stati Uniti l’onere della nostra difesa). Ma in aggiunta a questa ragione realistica ve n’è un’altra, etica, che Serra coglie molto bene: «Per una società narcisista e liquida come la nostra ripensare a un periodo (obbligatorio e uguale per tutti) nel quale si mettono da parte le proprie esigenze e ci si dedica agli altri sarebbe rivoluzionario. Le istanze pacifiste e militariste, non solo rispettabili ma anche decisive nella cultura della sinistra libertaria, sarebbero ampiamente garantite dalla scelta tra leva civile e leva militare». È così scandaloso avanzare questa proposta?

In questi giorni si è fatto largo uso dell’argomento “non lasciamo la battaglia per meno tasse alla destra”. Molto più pertinente sarebbe applicare lo stesso schema argomentativo alla cultura del servizio civile e della solidarietà di cittadinanza. Il fatto è che queste due prerogative stanno su opposte sponde poiché una propone che sia etico ritirarsi dall’impegno verso la società e concentrarsi sui propri interessi, mentre l’altra suggerisce che sia etico dare più impegno.

Dietro la proposta di Salvini vi è, certamente, una nemmeno troppo velata propaganda nazionalista, una lettura del patriottismo come sentimento di sacrificio verso una patria identitaria che esclude e discrimina chi non vi è parte, una visione ben poco attraente. Tuttavia, deve fare riflettere il fatto che la proposta di ripensare a una riforma del modo di concepire il servizio dei cittadini verso se stessi — ovvero degli uni agli altri — venga da destra e sia castigata dalla sinistra. La quale ha abbracciato una cultura dei diritti invididuali, attenta alla libertà della scelta individuale, e tuttavia non è sensibile a questa cruciale implicazione: una cultura dei diritti dell’individuo non esclude un’etica della cittadinanza che sappia parlare la lingua del servizio.

Non c’è alcun bisogno di rispolverare la dottrina dello stato etico per dare sostegno a questa idea come fa la destra. È cruciale invece rifarsi alla più convincente idea democratica di reciprocità tra liberi e uguali, poiché dare servizio alla nostra comunità di cittadini è una scuola di sentimenti pubblici che ci abitua a pensare in termini di autonomia vissuta, non solo proclamata dai diritti e scritta nei codici. Come pagare le tasse (diceva Padoa-Schioppa) ha un’intrinseca bellezza (perché sono i liberi che si assegnano quell’obbligo per vivere autonomamente), così lo è il servizio civile alla comunità, un impegno di cittadini liberi verso se stessi.

Recensione preziosa, libro da leggere: perché nel pieno della crisi del finanzcapitalismo non emerge la prospettiva del superamento di quel devastante “modello di sviluppo”? Una nuova idea del lavoro come questione essenziale da affrontare.

Il manifesto, 30 luglio2015

Nel suo ultimo libro Il soggetto dell’economia, pubblicato da Ediesse, l’autrice Laura Pennacchi sventaglia le motivazioni per cui il neoliberismo, fallimentare già da tempo, ha resistito e troneggia in Europa come unica forma di governo possibile.

C’è una domanda cruciale che si aggira negli ambiti di quella che possiamo chiamare – senza per ora migliore specificazione — la sinistra di alternativa in Europa e nel nostro paese. Laura Pennacchi la pone nelle prime pagine del suo ultimo lavoro (Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, Roma 2015, pp. 318, euro 16,00) con queste parole: «perché il neoliberismo – di cui gli eventi del 2007/2008 avevano sancito il fallimento sul piano teorico – si è mostrato così resiliente nel tempo, continuando imperterrito a informare di sé le politiche e le scelte pratiche?».

Rispondere non è facile, eppure bisogna riconoscere che qui sta, non la, ma certamente una delle chiavi – anche perché le porte da aprire non sono poche – che permettono di comprendere le ragioni profonde della crisi della società contemporanea e della sinistra in particolare.

Non c’è dubbio che perderemmo tempo se enumerassimo le dichiarazioni, le dimostrazioni, persino le auto confessioni che forniscono le prove di quel fallimento. Valga una per tutti. Wolfgang Munchau, in una intervista a un giornale italiano di qualche tempo fa, si dimostrava allibito che «un economista del calibro di Mario Monti abbia potuto firmare un trattato (quello sul Fiscal Compact) che, se applicato alla lettera, porterà l’Italia al fallimento: ridurre al 60% il debito in venti anni significa andare incontro a una recessione che sottrarrebbe il 30–40% del Pil nello stesso periodo. Un disastro, e la fine dell’euro».

Altro che «stagnazione secolare», di cui si parla con maggiore insistenza nel dibattito economico! Si potrebbe dire – come ha scritto altrove Fausto Bertinotti – che il re è nudo, ma è ancora stabilmente sul trono e continua a comandare. Almeno qui, in Europa, dove non a caso la crisi economica e sociale è più grave e non se ne vede via d’uscita.

Crepe nella Troika

La vicenda greca costituisce il disvelamento più clamoroso e recente, ma non l’unico, di questa realtà. Che la condizione del paese e del popolo greci siano peggiorate, da ogni punto di vista, ivi compreso quello della quantità del debito, è questione che nessuno discute. Eppure l’accordo imposto a Tsipras ribadisce, in parte anche peggiorandole e indurendole, le stesse ricette. Ciò che non ha funzionato prima, può farlo ora in condizioni peggiori? Evidentemente no, basta una logica elementare ad escluderlo.

Perfino il Fondo monetario internazionale lo ribadisce, aprendo così una crepa nel monolite della Troika (risultato non trascurabile della tenacia con cui il governo greco ha affrontato la lunga trattativa), quando afferma che senza il taglio del debito non c’è salvezza, perché la situazione debitoria della Grecia è destinata a riproporsi e in modo aggravato. Eppure vi è addirittura, e non solo a destra, chi esalta la lungimiranza presunta di Schäuble perché ha posto la Grecia di fronte all’aut aut: o fuori dall’euro (per un po’, ma preferibilmente per sempre) o accetti queste condizioni. Lo stesso documento dei cinque presidenti reso noto a fine giugno, firmato da Djisselblöm, da Draghi, da Juncker, da Tusk, da Schulz e giudicato irritante persino da un uomo come Fabrizio Saccomanni ex ministro ed ex direttore generale di Bankitalia, ribadisce una linea di galleggiamento della Ue che sconta l’abbandono possibile dei paesi in difficoltà, pur di non rimuovere le politiche neoliberiste del rigore.

Come si vede, sempre in questa vicenda, grandi sono le responsabilità della socialdemocrazia europea – anche se per fortuna non vi è un comportamento omogeneo in tutti i paesi — quella tedesca in prima fila. Il paragone con il voto dei crediti di guerra è certamente forzato, come lo sono tutti i parallelismi storici, ma è quello che più si avvicina per gravità all’attuale comportamento socialdemocratico impegnato a sostenere la politica del rigore, a volte scavalcando a destra i suoi propugnatori come ha fatto Gabriel nei confronti della stessa Merkel.

Eppure non si potrebbe rispondere alla domanda di cui sopra, e infatti l’autrice non lo fa, semplicemente sostenendo che il neoliberismo ha trovato solidi alleati da un lato e il ventre ancora troppo molle della sinistra antagonista dall’altro e che ciò sarebbe sufficiente per spiegare la sua buona salute e la sua sopravvivenza ai propri disastri economici e politici.

Il concorso delle discipline

Laura Pennacchi tenta con questo suo più recente lavoro un percorso ambizioso. Considerando troppo angusti i confini della «scienza triste» per spiegare la situazione e tracciare delle nuove terapie, vuole mettere in campo una affascinante multidisciplinarietà per aggredire e destrutturare le basi della dottrina economica dominante. Ecco quindi che la ricerca non si limita al campo delle teorie economiche, ma attraversa anche quelli della filosofia, dell’antropologia, della sociologia. Questo rappresenta una nuova sfida per l’autrice, un elemento di novità rilevante, perlomeno in queste dimensioni, rispetto a precedenti lavori e certamente un fattore di particolare godimento intellettuale per il lettore. Infatti sta qui forse il maggiore valore del libro.

Cercare di riunificare mentalmente e metodologicamente le settorialità e le specializzazioni del sapere è una precondizione indispensabile per stroncare il pensiero unico, per ricostruire una critica dell’economia politica all’altezza dei tempi, per fare rinascere una cultura di sinistra. Ne nasce un percorso di scrittura nel quale l’erudizione e la formidabile ampiezza dei puntuali riferimenti ad altre autrici e autori non sono mai ostentati – come purtroppo spesso capita ad altri — ma funzionali alla costruzione di un discorso.
Non tutti i giudizi che l’autrice dà sulle opere altrui sono perfettamente condivisibili. Alcuni sembrano un po’ troppo tranchant. Per esempio sui lavori di Dardot e Laval che meriterebbero una più accurata disamina e non sono accostabili in tutto e per tutto a certe semplificazioni che circolano abbondantemente sul tema del «comune». Questo percorso, partendo dalla analisi delle principali componenti del neoliberismo, individuate nella finanziarizzazione, nella mercificazione (anche se l’autrice preferisce il termine inglese commodification), nella denormativizzazione, ci conduce fino alla proposta di un nuovo modello di sviluppo fondato su un neoumanesimo che sconfigge la dimensione mutilata e alienata dell’homo oeconomicus.

Su tutti questi tre lati gli argomenti portati sollecitano riflessioni importanti. In particolare, meriterebbe un approfondimento il tema della «denomormativizzazione», su cui del resto i giuristi sono da tempo impegnati. In realtà non siamo solo di fronte ad un abbattimento di regole e norme appartenenti alla seconda metà dello scorso secolo, ma anche — e soprattutto nell’ultima fase — ad una pericolosa «rinormativizzazione» secondo i principi della più pura a-democrazia. Nel caso europeo questo è molto evidente.

La politica insidiosa

Da diverso tempo a questa parte la Ue si è data, attraverso un percorso produttivo di nuove norme e trattati, come il già citato fiscal compact, un robusto e complesso sistema di governance. Questo sistema detta nuove norme agli stati membri, fino a modificare le loro Costituzioni in punti rilevanti. Come nel caso italiano ove la modifica dell’articolo 81 ha introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione. Dire oggi, come purtroppo non è infrequente udire anche in discorsi altolocati quanto vuoti, che all’Europa mancherebbe un governo, è una pura sciocchezza. Come anche dire che l’Europa è governata solo dalle leggi dell’economia e che la politica è fuori dalla porta.

La politica democratica certamente, ma non la politica tout court. Mario Draghi, in un discorso tenuto all’Università di Helsinki, nel novembre del 2014, affermava che: «una diffusa erronea concezione sull’Unione Europea – e la zona euro – è che esse siano unioni economiche senza una sottostante unione politica. Ciò riflette un profondo equivoco di cosa significhi unione economica: essa è per sua natura politica». Egli ci ricorda una verità sostanziale, curvandola però al suo punto di vista: che il capitalismo, anche nella sua versione più dichiaratamente liberista, non esiste – e non è mai esistito aggiungono gli storici dell’economia come Marc Bloch — senza il supporto dello Stato. Il percorso fin qui fatto dall’Europa è stato solo apparentemente puramente economico. È vero che si è cominciato dal carbone e dall’acciaio. Ma, appunto, quella era economia reale, da cui muoveva un certo tipo di governance politica. Ora siamo dentro un’economia dominata dalla finanza e la sua governance politica è imperscrutabile e impermeabile al volere popolare quanto lo sono le sue istituzioni economiche. Ma non per questo non esiste. Un mondo di interessi

Le cose non vanno meglio se si esce dal nostro continente. Grazie all’apporto dei voti socialdemocratici ha fatto altri passi in avanti il famigerato Ttip, l’accordo «commerciale» tra Usa e Ue. Al suo interno è prevista la possibilità che le multinazionali facciano ricorso contro stati o enti locali se questi attuano provvedimenti che possono limitare la vendita dei loro prodotti o essere considerati lesivi della loro libertà commerciale. La questione non verrebbe risolta nei tribunali ma in sede extragiudiziale, tramite una cupola di superesperti chiamati a dirimere il contenzioso.

Si deregolamenta e si annichilisce il ruolo della giustizia e delle sue proprie sedi da un lato; dall’altro si costruisce un’impalcatura totalmente estranea alle logiche democratiche e coerente con la supremazia degli interessi dell’impresa identificati come interesse generale non della nazione ma di un intero continente e sistema mondo.

Per questa ragione la risposta non può che essere politica, ma non politicista. Deve contenere una proposta di nuovo modello di sviluppo e una nuova e coerente idea di democrazia, di società, di persona.

È vero, la terminologia – nuovo modello di sviluppo — qui usata è un po’ d’antan. Le parole sono consumate, come i sassi di Gino Paoli, dal tempo e soprattutto dal pessimo uso fattone. Ma non vi è altro termine più preciso, perlomeno non ancora, per indicare che non solo di distribuzione della ricchezza esistente bisogna occuparsi, anche se con criteri innovativi e trasformativi degli attuali assetti, come nel caso del basic income, ma soprattutto di radicale modificazione degli oggetti, delle finalità e delle modalità della produzione.

Dalla crisi più lunga di sempre non si esce rilanciando vecchi modelli produttivi, ma con una rivoluzione strutturale che indirizzi la produzione verso la soddisfazione dei bisogni basici e maturi delle popolazioni. Con un ruolo fondamentale del pubblico. Se alcuni prevedono una ripresa senza lavoro, la nuova sinistra non può accettare l’idea di una jobless society.

Il tema della ricerca della piena e buona occupazione va quindi ripensato, ma non espunto. La risoggettivizzazione dell’agente economico — per usare le parole di Laura Pennacchi -, la ricostruzione del nuovo soggetto dell’economia non possono avvenire senza una rivalorizzazione del lavoro in tutte le sue antiche e più moderne forme. Il capitalismo ha mostrato nella sua lunga storia di avere diverse facce. È dunque «riformabile», ma all’interno del suoi confini e ai suoi fini riproduttivi. Il suo superamento, la trasformazione, non può avvenire senza soggetti forti, resistenti a

Riferimenti

Sulla questione del lavoro vi sono su eddyburg numerosi scritti. Un primo tentativo di compilare una "visita guidata" sul tema è nel testo "il lavoro su eddyburg", del 2012. In attesa di un aggiornamento e completamento numerosi altri articolo sull'argomento sono raggiungibili nelle cartelle Temi e principi/Lavoro e "Il capitalismo d'oggi"

Costruire un’alternativa e renderla credibile e concreta si può, ma è necessario sapersi confrontare, discutere e alla fine convergere. Per questo è importante evitare la tentazione di piantare ciascuno la propria bandierina come è fondamentale rinunciare a qualche quarto di identità in favore della posta (alta) in gioco nei prossimi mesi». Il manifesto, 27 luglio 2015

Venerdì scorso dopo la sco­perta scien­ti­fica di “un’altra terra” nella Via Lat­tea, molti hanno soste­nuto che un altro mondo è pos­si­bile. Noi siamo più mode­sti e vogliamo sco­prire se un’altra sini­stra è pos­si­bile.Pen­sare a un’altra sini­stra signi­fica per­cor­rere molte strade nel pros­simo futuro, ma prio­ri­ta­ria è una discus­sione libera e schietta. Per­ciò il mani­fe­sto — da domani — mette a dispo­si­zione le pro­prie pagine, che ospi­te­ranno inter­venti, opi­nioni, com­menti delle donne e degli uomini che vogliono ragio­nare e con­fron­tarsi sul pre­sente e sul domani del nostro Paese. Per ini­ziare ecco, secondo me, alcuni spunti neces­sari alla riflessione.
E pro­prio per­ché si tratta di spunti — tanti altri pos­sono essere aggiunti — non è impor­tante l’ordine in cui ven­gono espo­sti. Dunque.

1) La for­ma­zione di un par­tito alla vec­chia maniera? Sarebbe oppor­tuno ten­tare un’evoluzione della spe­cie. La nascita di un nuovo sog­getto poli­tico? Auspi­ca­bile ma sarebbe ancora meglio met­tere insieme diversi “sog­getti” poli­tici, sociali, cul­tu­rali. Nelle forme più ampie pos­si­bile. Più aperte. Le meno set­ta­rie. Le più alter­na­tive. Per­ché c’è vita a sini­stra (del Pd), e si tratta di milioni di per­sone che vor­reb­bero vedere tra­sfor­mate in realtà le loro volontà di cambiamento.

2) Potremmo ragio­nare a lungo sul ruolo avuto dall’ex Pci nell’ultimo tren­ten­nio. Ci aiu­te­rebbe a capire quanto sono pro­fonde le ragioni che hanno osta­co­lato la nascita di una nuova sini­stra (nella quale va inse­rita anche la sto­ria del gruppo del Mani­fe­sto e del Pdup). Ma andremmo troppo lontano.
Con­cen­tria­moci invece sullo spa­zio lasciato dal Pd alla sua sini­stra. Ampio sicu­ra­mente, eppure sem­pre estre­ma­mente fram­men­tato: dai movi­menti per i diritti sociali a quelli per i diritti civili (emersi nel nostro arre­trato paese anche gra­zie allo scavo costante della cul­tura fem­mi­ni­sta, pro­ta­go­ni­sta e madre di un altro modo di pen­sare la politica).
Un ampio fronte che passa anche per alcune forme di aggre­ga­zione poli­tica strut­tu­rate in orga­niz­za­zioni e par­titi. Un fronte dif­fuso e varie­gato, privo però di una spinta uni­ta­ria con­vin­cente. Si pos­sono tro­vare diverse ragioni per spie­gare l’autoreferenzialità, magari anche utile per pun­tare l’attenzione sulle idee diverse di alter­na­tiva. Ma nes­suna iden­tità può bloc­care la neces­sità, e ormai l’urgenza, di tro­vare forme, obiet­tivi, uni­tari. Con l’ambizione di essere un’alternativa poli­tica oggi e di governo domani. E quindi in grado di pre­sen­tarsi con pro­grammi e alleanze sociali lar­ghe e tra­sver­sali. In Ita­lia e in Europa.

3) Oggi all’ordine del giorno non c’è la rivo­lu­zione ma un’idea di rifor­mi­smo di sini­stra in grado di per­sua­dere milioni di per­sone. Kark Marx ai cri­tici del suo soste­gno alla legge delle dieci ore rispon­deva così: «Per la prima volta alla chiara luce del sole, l’economia poli­tica del pro­le­ta­riato ha pre­valso sull’economia poli­tica del Capi­tale». Nes­suna rivo­lu­zione, ideo­lo­gica e auto con­tem­pla­tiva ma cam­bia­menti radi­cali, di base.
Quei cam­bia­menti che un tempo si chia­ma­vano “riforme di strut­tura”, per indi­care un metodo paci­fico e pro­gres­sivo di muta­zioni pro­fonde nell’assetto eco­no­mico e sociale. Fino a poco tempo fa pen­sa­vamo che que­sta idea forte di rifor­mi­smo fosse impos­si­bile da rea­liz­zare. La con­qui­sta del governo di Tsi­pras e la recente affer­ma­zione di Pode­mos, hanno dimo­strato che le nuove idee pos­sono avere grande riscon­tro tra­sver­sal­mente nei diversi strati sociali ridi­se­gnati dall’impoverimento pro­vo­cato dalla crisi, e den­tro le forme della demo­cra­zia. Diretta, refe­ren­da­ria, inter­net­tiana, assem­bleare, e comun­que rappresentativa.
Ma il con­senso arriva solo quando tutto que­sto rie­sce ad essere con­vin­cente per­ché viene rap­pre­sen­tato da per­sone, gruppi, movi­menti che hanno saputo inter­pre­tare con serietà e prag­ma­ti­smo la lotta per il cambiamento.

4) Tutto quello che si muove al di fuori del Pd è con­vin­cente, signi­fi­ca­tivo? Intanto una parte dell’area sociale e cul­tu­rale alter­na­tiva — soprat­tutto quella gio­va­nile — si è rico­no­sciuta nel Movi­mento 5Stelle. Non per­ché (non solo) non esi­steva un’altra pro­po­sta forte, ma per­ché il M5S è andato a fondo con­tro il sistema cor­rotto dei par­titi, pun­tando sull’onestà ammi­ni­stra­tiva, sulla lotta al malaf­fare e ai pri­vi­legi della casta, sulla capa­cità di fare oppo­si­zione sui temi dei diritti civili e dell’ambientalismo. Tut­ta­via anche i 5Stelle, per diven­tare una forza ege­mo­nica, dovranno libe­rarsi da una strut­tura auto­ri­ta­ria costi­tuita da un capo poli­tico e da uno ideo­lo­gico. Da una voca­zione set­ta­ria che può diven­tare peri­co­losa, pro­prio per­ché con­vince milioni di per­sone. Il M5S l’ha già vinta e potrà vin­cere altre impor­tanti par­tite elet­to­rali, tut­ta­via l’ideologia del “chi non è con me è con­tro di me” non ci piace, per­ché dispo­tica e violenta.

5) Una vasta area di ita­liani, milioni di donne, uomini, gio­vani, anziani hanno scelto Sel, l’altra Europa di Tsi­pras, più pic­cole orga­niz­za­zioni che si richia­mano al comu­ni­smo, oppure solo la lotta di piazza, per i diritti civili e sociali o su obiet­tivi spe­ci­fici (i no Tav, i no Triv quelli che Renzi chiama “comi­tati e comi­ta­tini”) e anche il non voto.
C’è la parte di società rap­pre­sen­tata da Lan­dini e quella che si rico­no­sce diret­ta­mente nei fuo­riu­sciti del Pd (Civati e Fas­sina) e nella mino­ranza anti­ren­ziana. La lotta che il movi­mento sin­da­cale ha orga­niz­zato, trai­nato dalla Cgil, con­tro il Jobs Act e con­tro le nuove leggi sulla scuola ha espresso una potente sog­get­ti­vità, gua­da­gnan­dosi l’attacco duro e costante del premier/segretario dell’ex par­tito di rife­ri­mento. Que­ste e altre sono le poten­zia­lità di una “cosa” di nuova sinistra.
Ma qui ripeto una rifles­sione che Vit­to­rio Foa ci pro­po­neva già nel fati­dico 1977: «Come mai le scon­fitte elet­to­rali, sociali e poli­ti­che non scal­fi­scono le nostre sicu­rezze?». Una domanda che faceva rife­ri­mento a un sistema poli­tico ancora fon­dato sui grandi par­titi di massa. Quei par­titi sono scom­parsi, ma l’errore rischia di per­ma­nere per­ché la ten­ta­zione di pian­tare cia­scuno la pro­pria ban­die­rina, la cat­tiva abi­tu­dine di non saper rinun­ciare a parti della pro­pria iden­tità in favore dell’unità, è una sorta di tara gene­tica dif­fi­cile da curare.

6) Natu­ral­mente è vitale per la sini­stra essere in grado di misu­rarsi con i pro­fondi cam­bia­menti inter­ve­nuti negli ultimi anni nel mondo del lavoro, sem­pre più dif­fi­cile da rap­pre­sen­tare per la pro­gres­siva, pro­fonda, ine­dita par­cel­liz­za­zione delle figure pro­fes­sio­nali. Accanto a lavori imma­te­riali che pro­iet­tano lo sguardo nel mondo delle reti dove tempo di vita e tempo di lavoro non sono più distin­gui­bili, con­vi­vono lavori pri­mi­tivi, poveri, di sfrut­ta­mento ottocentesco.
Chi sono oggi i lavo­ra­tori? Cos’è il lavoro? E come e quanto viene rico­no­sciuto? Su que­sto aspetto della vita col­let­tiva sono avve­nuti i cam­bia­menti più forti, che hanno por­tato ad un inde­bo­li­mento della rap­pre­senta tra­di­zio­nale e ad un nuovo sfrut­ta­mento, con lavori sot­to­pa­gati, prov­vi­sori, pre­cari. Per milioni di per­sone c’è povertà e non c’è futuro: una sini­stra vera deve pen­sare non solo a chi ha un posto assi­cu­rato, ma ai più deboli, ai più fra­gili, a quei milioni di donne e di uomini costretti alla soprav­vi­venza da pen­sioni da fame. Una forza nuova di sini­stra dovrebbe avere come prio­rità l’impegno per i gio­vani senza lavoro o pre­cari e i pen­sio­nati meno protetti.

7) L’immigrazione dei nostri tempi è un feno­meno strut­tu­rale che insieme alla crisi eco­no­mica, ai nuovi con­flitti che ali­men­tiamo (nella spi­rale guerra-terrorismo-guerra), all’invecchiamento della popo­la­zione euro­pea sti­mola pro­getti e alter­na­tive visioni del mondo. Met­tendo in discus­sione e a dura prova uno degli aspetti fon­danti dell’economia e della società occi­den­tale: il wel­fare. Sem­pre più povero, sem­pre meno inclusivo.
Ma quale sarà la strut­tura eco­no­mica di base se il capi­ta­li­smo tem­pe­rato dalla social­de­mo­cra­zia non ha tro­vato nem­meno una voce nella lunga, aspra, rive­la­trice lotta del pic­colo David greco con­tro il gigante Golia euro­peo? Sul nostro gior­nale alcuni e diversi intel­let­tuali hanno ini­ziato ad abboz­zare idee e linee di un piano su immigrazione-lavoro-beni cul­tu­rali e ambien­tali che andrebbe svi­lup­pato. Ma la rispo­sta alla tra­ge­dia che coin­volge in par­ti­co­lare i dispe­rati del Sud del mondo non può essere l’egoismo, la ripro­po­si­zione del privilegio.
A quelli che ven­gono in Europa con una spe­ranza di vita e con ener­gie intel­let­tuali da offrire, dob­biamo dare un inse­ri­mento rispet­toso delle cul­ture e delle tra­di­zioni altrui. E dob­biamo essere intran­si­genti con­tro chi spe­cula e cerca con­sensi. Una società non soli­dale non ci interessa.

8) Le riforme sono molto impor­tanti, anche quelle isti­tu­zio­nali ed elet­to­rali. Solo chi è cieco non vede che con le nuove leggi si dà troppo potere ad un solo par­tito e solo al capo di quel par­tito. Non a caso men­tre si met­tono in un angolo i con­trap­pesi isti­tu­zio­nali, si cavalca il web come stru­mento di demo­cra­zia diretta, si inde­bo­li­scono le rap­pre­sen­tanze di base, si orienta la mac­china elet­to­rale verso forme di unzione popo­lare. Si punta — dall’avvento del ber­lu­sco­ni­smo — a raf­for­zare il ruolo dell’uomo solo al comando. (A que­sto pro­po­sito dovrebbe essere con­tra­stata la ten­denza al lea­de­ri­smo esasperato).
Comun­que appli­care la Costi­tu­zione non signi­fica imbal­sa­marla ma pro­porre una riforma del bica­me­ra­li­smo e della legge elet­to­rale per una nuova orga­niz­za­zione dei poteri. Ini­ziando dal modello comu­nale, pos­si­bile labo­ra­to­rio di altre forme par­te­ci­pa­tive (e ambien­ta­li­ste), di espe­rienze sul campo per l’applicazione dell’idea dei beni comuni, lon­tani da vec­chie logi­che sta­ta­li­ste, nono­stante l’interpretazione dei mono­toni libe­ri­sti che dila­gano sul Cor­riere della Sera. Fino alla forma di governo nazio­nale, al rap­porto tra Legi­sla­tivo e Esecutivo.

9) Non si può met­tere tra paren­tesi o dimen­ti­care ciò che nel mondo con­tem­po­ra­neo tutto ingloba e resti­tui­sce: la comu­ni­ca­zione. Cosa diversa dall’informazione, dall’autonomia dei media dai poteri indu­striali e finan­ziari. La comu­ni­ca­zione è oggi mar­ke­ting poli­tico, nar­ra­zione di nuove lea­der­ship come dimo­strano gril­li­smo e M5S. Si tratta di stru­menti che la sini­stra poli­tica sa usare poco ma che per for­tuna i gio­vani dei movi­menti rie­scono a maneg­giare meglio (la maschera di Ano­ny­mous, i flash mob, le moda­lità della piazza).
Tut­ta­via il potere dei media in Ita­lia è ancora e soprat­tutto tele­vi­sivo, fin dai tempi della tv di Ber­na­bei per arri­vare a Ber­lu­sconi. Un par­tito padrone della tv, più o meno magna­nimo e plu­ra­li­sta. E ancora oggi assi­stiamo a una non-riforma, a una non-modernizzazione, ma sem­pli­ce­mente a una con­cen­tra­zione del potere in un’unica figura di deci­sore. Men­tre la stampa risponde a logi­che di gruppi indu­striali nazio­nali sem­pre più deboli e inde­bi­tati, sem­pre più dispo­sti a omag­giare il potere poli­tico, in una com­mi­stione spesso inestricabile.
Com’è pos­si­bile che oggi tutti sia come e peg­gio di sessant’anni fa?

10) La vicenda greca, che ha impe­gnato e ancora impe­gnerà a lungo tutti noi, ha chia­rito che non c’è — e non c’è mai stata — l’Europa pen­sata dai padri fon­da­tori come Altiero Spi­nelli. Oggi c’è un’Europa che viag­gia a diverse velo­cità, divisa tra Nord e Sud, che si regola sulle eco­no­mie dei paesi più forti. L’idea degli Stati Uniti d’Europa ha ancora una sua forza trai­nante? E’ la moneta che decide o è uno stru­mento della poli­tica che la determina?
Quindi la que­stione cen­trale è in una domanda: c’è vita a sini­stra? Sì, c’è, ed è un mondo. Però dopo viene tutto il resto. Chi dovrebbe farne parte? Quali pro­po­ste di governo dovrebbe avere? Che idea di futuro può pro­porre? Come deve orga­niz­zarsi? Ha biso­gno di un lea­der come nella sini­stra greca e spagnola?

Questo è solo l'inizio della riflessione che il manifesto intende ospitare.
E che dovrà essere ampia, aperta, veri­tiera, libera da vec­chi schemi e inges­sa­ture poli­ti­che. Vedremo dove appro­derà. Ma sono certa che potrà dare un senso a quel con­fronto ormai non più rin­via­bile per tutti coloro che hanno cre­duto e cre­dono in una società demo­cra­tica, diversa, attenta e impe­gnata sui diritti sociali e civili di milioni di persone.

Cam­biare si deve. Ma le espe­rienze greca e spa­gnola ci dicono soprat­tutto che si può.
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