Una posizione largamente condivisibile nel dibattito sulla sinistra, ma con molte questioni da discutere, a patire dal significato del "lavoro, del nome preciso del "sistema", del significato di "sinistra " nel XXI secolo. Ci ripromettiamo di farlo.
Comune.info, 2 settembre 2015
Ci sono due modi di fare politica a sinistra: facendo cambiare le cose con l’obiettivo di fare avanzare un progetto alternativo o cercando di correggere solo gli aspetti più odiosi, accettando il sistema com’è. Nel 900 il partito comunista faceva la politica del primo tipo, giusto o sbagliato che fosse il progetto. Poi è caduto il muro di Berlino e facendosi più realista del re ha deciso di imboccare la strada del pragmatismo fino a diventare il più strenuo sostenitore del liberismo. La fine fatta dal Pd è sotto gli occhi di tutti.
A sinistra molti criticano il Pd solo per avere perso totalmente l’anima sociale, ma ne condividono l’impostazione di fondo: il sistema è questo, non solo non si può cambiare, ma va bene così: bisogna solo porgli qualche regola affinché non si incagli nelle sue contraddizioni e bisogna rafforzare i paracaduti sociali per soccorrere le vittime che inevitabilmente produce. Non a caso la nuova parola d’ordine è diventata “sinistra di governo”, che meglio di ogni altra espressione ne racchiude il concetto.
In controtendenza, io penso che oggi più che mai la sinistra ha bisogno di un progetto alternativo perché questo sistema ci è nemico nell’impostazione di fondo.Cercare di correggere gli aspetti più odiosi è una regola di sopravvivenza, ma farlo senza intervenire sul senso di marcia è come preoccuparsi della tappezzeria in un treno che va verso il baratro. Tradizionalmente il tema forte della sinistra è la distribuzione, le correnti più moderate accontentandosi di spostare quote crescenti di reddito a vantaggio dei salari e della collettività; le correnti più radicali pretendendo di destinare tutto a salari e collettività non riconoscendo diritto di cittadinanza al profitto. Da cui i sistemi socialisti, ormai tramontati per varie cause che nessuno ha ancora studiato in tutti gli aspetti. Ma questa impostazione, per così dire distributivista, ha portato la sinistra a condividere la stessa matrice capitalista di adulazione della ricchezza.
Per entrambi, la ricchezza è un valore. Il capitalismo vuole produrne sempre di più per garantire alle imprese merci crescenti finalizzate al profitto; la sinistra vuole produrne sempre di più per creare nuove opportunità di lavoro e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Del resto c’è un detto classico nella sinistra: “Non si può distribuire la miseria: prima si produce la ricchezza, poi la si distribuisce”. Ed è così che anche a sinistra c’è una forte febbre produttivista: laddove più si riesce ad estrarre, più si riesce ad asfaltare e cementificare, più si riesce a manipolare la natura, più si riesce ad accrescere la tecnologia, in una parola più si riesce ad innalzare il Pil, meglio si sta. Una concezione un po’ antiquata che configura il benessere solo con la quantità di cose che siamo capaci di buttare nel carrello della spesa, dimenticando che prima di tutto abbiamo bisogno di una buona aria e che oltre alle esigenze del corpo abbiamo anche quelle psichiche, affettive, spirituali, sociali.
La questione della qualità della vita e la questione ambientale, hanno l’aria di essere temi ancora estranei alla sinistra. Ma se nell’ottocento potevano essere ignorati perché altre erano le priorità ed altro era il contesto ambientale, oggi la distruzione della casa comune rappresenta il tema che condiziona ogni altro aspetto sanitario, sociale, economico. Il concetto che più di ogni altro siamo costretti a rimettere in discussione è quello di crescita e benché sappiamo che varie attività consentono spazi di crescita senza maggior consumo di risorse e senza maggior produzione di rifiuti, il problema è il paradigma.
Sappiamo che trattando in maniera più intelligente i rifiuti, ricorrendo di più all’agricoltura biologica, potenziando i servizi alla persona, si può creare Pil e occupazione sostenibile, ma per fare pace con la natura dovremmo annientare, o giù di lì, l’industria dell’automobile, dovremmo cambiare totalmente il sistema distributivo per ridurre al minimo gli imballaggi, dovremmo smetterla di creare nuovi bisogni. In definitiva dovremmo chiudere per sempre con un sistema che ha fatto dell’aumento delle vendite il suo cuore pulsante. E se razionalmente sentiamo che questa è la strada da battere, dall’altra siamo bloccati per la disoccupazione che ne può derivare. Preoccupazione più che legittima in un sistema che ci offre l’acquisto come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato come unica via per accedere al denaro utile agli acquisti. Per questo il lavoro è diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo tutti diventati partigiani della crescita.
L’unico modo per uscirne è smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze. La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno possibile.Cambiando prospettiva ci renderemo conto che il mercato non è l’unico modo per soddisfare i nostri bisogni, né il lavoro salariato l’unico modo per produrre ciò che ci serve. I due grandi canali, se non alternativi, sicuramente complementari, sono il fai da te e l’economia comunitaria che hanno il vantaggio della gratuità e della piena inclusione lavorativa senza bisogno della crescita dei consumi.
La costruzione di una società che finalmente sappia mettere la persona al centro della sua attenzione e sappia porsi come obiettivo, non già l’offerta di lavoro, ma la garanzia a tutti, donne e uomini, giovani e vecchi, abili e inabili, di una vita sicura dalla culla alla tomba, nella piena soddisfazione di tutte le dimensioni umane e nel rispetto dei limiti del pianeta, dovrebbe essere il vero progetto politico della sinistra perché tiene insieme tutti i valori che la contraddistinguono: equità, rispetto, sostenibilità, solidarietà, autonomia.
Un progetto che, certo, ci costringe a ripensare tutto, dal senso e la funzione del lavoro ai tempi di vita, dal modo di produrre ciò che ci serve all’uso e il governo del denaro, dal ruolo del mercato al ruolo dell’economia collettiva, dal modo di concepire la tecnologia al modo di partecipare all’economia collettiva. Ma è ciò di cui abbiamo bisogno in un momento che il sistema di mercato sta mettendo in evidenza tutto il suo fallimento umano, sociale, ambientale, financo economico.
Con un progetto di società, non solo potremmo riaccendere la passione per la politica nei milioni di cittadini che oggi vivono ai margini perché stanchi e delusi, ma potremmo tornare al ruolo di forza con un’agenda da perseguire, non più costretta a giocare perennemente in difesa. Finalmente smetteremmo di correre dietro alle falle che crea il sistema e metteremmo a punto il nostro piano strategico di trasformazione della società, con proposte per tutti i livelli: da quello personale a quello comunale, da quello regionale a quello nazionale, da quello europeo a quello mondiale. Perché un’altra certezza è che la costruzione di un’altra società esige non solo una nuova visione dell’economia e della società, ma anche una nuova concezione del modo di fare politica.
Per cambiare il mondo bisogna porsi anche esistenzialmente dalla parte di quelli che patiscono di più per colpa del mondo comeè oggi. A proposito del libro di Raul Zibechi "All'alba di mondi 'Altri'" , con un sintetico ricordo del colonialismo italiano.
Comune.info, 2 settembre 2015
Nota introduttiva ad “Alba di Mondi Altri. I nuovi movimenti dal basso in América Latina”, l’ultimo libro di Raul Zibechi edito in Italia da Museodei by Hermatena, 200 pagine, 15 euro
È un destino inevitabile, naturale, quello di riprodurre nei mondi nuovi società di dominanti e dominati anche dopo aver combattuto e sconfitto sistemi fondati su quella relazione di dominio? No, non lo è. C’è un modo per evitare di assumere quel veleno coloniale? Sì, deve esserci ma non sappiamo come e dove cercarlo. Sappiamo però che tutto il pensiero critico che ha ispirato le grandi rivolte del passato è stato segnato dall’eurocentrismo. L’ultimo libro di Raúl Zibechi, “Alba di mondialtri”, suggerisce ai movimenti di cercare altrove, tenendo un riferimento importante nel cammino immaginato da Fanon e percorso dagli zapatisti del Chiapas. Nella nota che introduce l’edizione italiana del libro, presentato in questi giorni: la critica all’avanguardia e alla militanza politica “dalla parte del popolo”, l’urgenza di ripensare i concetti di geografia e territorio, le radici coloniali italiane e il traffico di armi e di braccia dei giorni nostri, la disumanizzazione delle vittime, il tramonto di un’egemonia culturale e il riconoscimento di mondi altri
Non avevamo mai creduto davvero alla presenza di idee politiche corrette tra los de abajo. Nella lotta per migliorarne la condizione, avevamo sempre cercato di imporre loro le nostre. Il rigore di un’affermazione tanto cruda quanto leale, non certo inedita nella (auto)critica di Raúl Zibechi alla storia della militanza politica “dalla parte del popolo”, si arricchisce di nuovi significati. Li porta alla luce l’esperienza recente che più lo ha segnato: la Escuelita zapatista de la libertad. In questo libro la racconta nei dettagli, in modo impareggiabile.
Da molti anni Zibechi esprime avversione per le pratiche che rinverdiscono la punta dell’iceberg di quel tratto peculiare – e sostanziale – della militanza. La voglia di imporre idee ritenute giuste per il bene di altri (o di tutti) è la proteina nobile di un avanguardismo muscolare che, mascherato o meno, dilagava nelle grandi organizzazioni sociali e nelle formazioni politiche di sinistra del Novecento. L’avversione di Zibechi si fa più intensa quando la critica investe l’avanguardia nel pensiero teorico astratto. Un pensiero più o meno raffinato ma sempre sterile, perché separato dalla vita di ogni giorno e dai principi etici su cui si è scelto di fondarla. Un pensiero che spesso esprime disprezzo per le persone comuni, rinuncia a misurarsi con le spinte contraddittorie della realtà, e mira a rapide e univoche risposte snobbando la precisione e la fantasia delle domande.
Come cambiare il mondo dalla “zona del non-essere”
Nella comunità 8 Marzo del Caracol di Morelia gli è parso d’improvviso evidente quel che ignorava: “Diciamo che non avevo compreso la parte elementare”, spiega stupito ed entusiasta. Quel che lo muove è la ricerca appassionata, quasi febbrile, di sempre: scovare e interpretare i mutamenti profondi della realtà. Questo libro nasce da quella ricerca e aiuta a configurarne un passaggio rilevante. Non è un’affermazione incidentale quella in cui Zibechi scrive: “Negli ultimi anni, lavoro per dare una risposta a una domanda che considero centrale: come cambiare il mondo dalla “zona del non-essere”, cioè dal luogo di coloro a cui viene negata la condizione umana?”. È un’opzione che comporta una rottura rilevante, forse perfino dolorosa, quella rinuncia a un punto di vista di classe generale, a una visione planetaria, ancor prima che universale.
Perché scegliere la prospettiva della “zona del non-essere”, ispirata ai testi di Frantz Fanon e alla rilettura che ne fa Ramon Grosfóguel? Perché sono i “dannati della terra” dei giorni nostri, quelli che vivono nel “mas abajo”, secondo il linguaggio zapatista, a essere genuinamente interessati a cambiare il mondo, risponde Raúl (il corsivo è mio e qui indica un’inquietudine sull’uso di quell’avverbio). È la primazia dell’etica, più che il gusto per la provocazione, a condurre Zibechi all’inevitabile conseguenza della rottura indicata: il pensiero critico che l’ha formato in Uruguay e nell’esilio in Spagna si è generato e sviluppato solo nel Nord, negli ambienti della “zona dell’essere”. Non può dunque essere trapiantato (più o meno meccanicamente) alla “zona del non essere”. Nel farlo, si perpetuerebbe il “fatto coloniale” in nome della rivoluzione.
Viene da chiedersi: rifarsi (criticamente) a Marx (o a Bakunin) significa dunque adottare una lettura del mondo sempre intrisa di eurocentrismo e colonialità? La teoria della rivoluzione che conosciamo, dal Capitale ai testi odierni, è viziata dall’origine e ne mostra gli evidenti limiti. Serve altro, risponde Zibechi. Bisogna percorrere altri sentieri. Fanon ha aperto la via e, decenni dopo, gli zapatisti sono quelli andati più lontano nel cammino di una creazione di un mondo nuovo dalla parte degli oppressi. L’attualità del pensiero di Fanon, aggiunge, affonda le radici proprio nell’impegno a pensare e mettere in pratica la resistenza e la rivoluzione a partire dal luogo fisico e spirituale degli oppressi. Dal luogo in cui gran parte dell’umanità vive in condizioni di indicibile oppressione, aggravata dalla ri-colonizzazione dei territori e delle menti che comporta il modello neoliberista. Ci parrebbe assai curioso, naturalmente, che a indicare quei “luoghi fisici” fossero un mappamondo o le astratte coordinate di un meridiano. Non è facile sostenere che un cameriere peruviano indigeno emigrato in Argentina viva un’oppressione più “indicibile” di quella di una ragazza nigeriana costretta a prostituirsi sulle strade del litorale domiziano. Non può essere quella la geografia che dice dove si è los de abajo e dove si è, o si è diventati, los de arriba.
Dal 10 al 19 febbraio, durante la battaglia dell’Amba Aradam, l’artiglieria italiana spara 1367 proiettili caricati ad arsine. Al termine l’aviazione insegue, mitraglia e bombarda col vescicante le colonne di nemici in ritirata. Lo stesso Badoglio riferirà l’utilizzo, in questa circostanza, di sessanta tonnellate di iprite. Raccontando di questo giorno, il generale Colombini scriverà: «Vidi scene raccapriccianti: la pelle degli etiopici si scioglieva, si rompeva, si sfogliava e veniva via lasciando la piaga aperta. Così era per i guerrieri dell’esercito nemico come per le donne e i bambini (fortunatamente pochi) che vivevano in quei luoghi».
Dai resoconti e ricordi edulcorati della strage deriverà il termine scherzoso «ambaradàn», che gli italiani useranno per dire baraonda, trambusto, grande confusione.
L’impiego dei gas non è la sola atrocità. Fra il 1935 e il 1936, l’aviazione italiana bombarda ospedali e ambulanze. Impazzano i rastrellamenti, le fucilazioni di massa, gli stupri, decine di migliaia le capanne incendiate. Dalla campagna d’Etiopia, con la proclamazione dell’impero di Vittorio Emanuele III, alla conquista della Tripolitania e della Cirenaica (Libia) il passo (indietro) è breve. L’avventura comincia nel 1911, con l’invio di 1732 marinai contro l’Impero Ottomano. Non porta la firma di Mussolini ma del quarto governo Giolitti, quello eletto col voto dei socialisti. Il “progressismo” del tempo nazionalizzerà le assicurazioni e introdurrà il “suffragio universale”. Da cui sono escluse le donne, ça va sans dire.
Cento anni più tardi, nel 2011, l’Italia smetterà di vendere armi a Gheddafi, linciato in strada – dopo la pioggia di bombe Nato – in una sequenza indimenticabile. In quanto a orrore, fa impallidire anche quelle, più sofisticate, girate dai registi dell’Isis. Tra il 2005 e il 2012, comunque, l’Italia ha fornito, prima al colonnello e poi ai suoi carnefici, armi per 375,5 milioni di euro, seconda solo alla Francia di Sarkozy, il leader più assatanato nella caccia grossa a Gheddafi. Quelle armi sono poi state saccheggiate, più volte, da varie fazioni avverse al regime di Tripoli e dai gruppi jihadisti, Sono dunque state determinanti a far diventare il territorio (che per convenzione chiamiamo ancora) libico quel che è oggi. Dove ha volato la Nato non c’è più un paese, come in Somalia dopo i Caschi Blu, come in Afghanistan, in Iraq…
Dalle coste libiche parte oltre l’80 per cento delle persone che affrontano il mare nostrum per affogare nelle sue profondità o essere accolte come fossero un’epidemia nel paese dei mercanti, quello dalle colonie “dal volto umano”. Sono persone in fuga dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia, dal Sudan, dalla Nigeria, dal Mali, dall’Iraq, dalla Siria. I media ci avvertono: attenzione, tra loro, negandosi al riconoscimento identitario, si annidano furbi e spregevoli truffatori. Si fingono perseguitati ma non lo sono affatto. Sono semplici migranti, colpevoli d’un reato imperdonabile: cercare una vita migliore nella terra in cui non sono nati. Per fortuna il dio del mare è giusto e li punisce.
Ogni tanto le istituzioni politiche europee, i media e l’opinione pubblica fingono di commuoversi. È accaduto il 19 aprile, con la maggior strage mediterranea della storia contemporanea: 7-800 persone annegate in un solo “incidente”. Gli incidenti si ripetono da oltre 15 anni. Hanno ucciso venti-trentamila persone, forse di più. I numeri ingannano: non raccontano i volti, l’agitazione delle mani, il respiro che annaspa ma soprattutto le storie, le speranze e le sofferenze di chi affoga nel Mediterraneo. Forse, a comprendere la portata e le ragioni della tragedia che viviamo, può aiutare più la storia. Una storia esemplare, a leggerla in una prospettiva coloniale: l’Europa è abituata a buttare la gente in mare. Lo ha fatto per quattro secoli durante il commercio di vite africane che riempiva i forzieri delle nazioni che oggi danno lezioni sui diritti umani e la democrazia al resto del mondo. Si buttavano a mare gli schiavi per sfuggire ai pattugliamenti, oppure quando venivano considerati invendibili. Un negro ogni dieci, si calcola, finiva agli squali. Merce difettosa, con i denti cariati o i seni flaccidi.
È solo negando la condizione umana, quello che secondo Zibechi avviene nella “zona del non essere”, che si può lasciar affogare le persone. Per questo i migranti, nella migliore delle ipotesi, devono essere numeri. Come i palestinesi intrappolati a Gaza nel diluvio delle bombe israeliane. Come gli ebrei, gli zingari, i polacchi e i russi chiusi a Birkenau, come i ribelli etiopi che Mussolini ordinò di stroncare con “qualsiasi mezzo”. Renzi, Salvini e gli amici di Casa Pound oggi darebbero, dispiaciuti, lo stesso ordine ma il discorso sui fini e i mezzi sarebbe lungo… Negare la condizione umana, dicevamo, perché ammettendo l’umanità delle vittime sarebbe inevitabile mettere in discussione anche quella dei carnefici e di chi consente i massacri o vi si mostra indifferente. Per questo i razzisti europei dovrebbero temere più d’ogni altra cosa la ri-umanizzazione dei migranti nei media. Dovrebbero temerla, per la verità, i razzisti di tutto il mondo, da quelli austrialiani a quelli sudafricani. Sì, avete letto bene: sudafricani.
C’è tuttavia una specificità occidentale, declinata con chiarezza nella storia coloniale e nelle diverse forme di colonialità contemporanea. Deriva dall’incapacità di “pensare con il mondo”, come avrebbe detto Édouard Glissant, compagno di liceo di Fanon in Martinica. Deriva dalla credenza secolare secondo cui il “nostro” mondo – la letteratura, la filosofia, la medicina, le forme religiose e di governo, ilmodus vivendi – sarebbe superiore a quello degli altri. Anzi gli altri – gli indigeni, i turchi, gli arabi, i pigmei, i cinesi, i mongoli, i contadini – sarebbero in fervente attesa del nostro progresso-sviluppo. Dopo cento anni, quella egemonia culturale sembra finalmente finita. Non esercita più incontrastata nemmeno qui il suo invincibile potere, un potere non divino ma molto coloniale e molto “naturalizzato”. Che quel mondo non fosse il solo possibile lo hanno cominciato a gridare tutte le più significative società in movimento apparse all’alba del nuovo millennio. Di più,in felice risonanza con certe comunità indigene mascherate delle montagne del sud-est messicano, quella gente dice che esistono molti altri mondi. Tutti diversi e tutti capaci di affermare straordinarie dignità. Quel che sembra impossibile, dicono, arriva. Si tratta solo di aspettarlo un po’.
Concordo con pressoché tutti i punti del decalogo formulato da Norma Rangeri su queste colonne (28 luglio) per l’apertura della discussione. Tuttavia, fra gli obiettivi e la loro presumibile realizzazione s’interpone da parte mia un cumulo di dubbi e di perplessità (come sempre più spesso, ahimè, mi capita), che sembrerebbe, forse, oscurare gli obiettivi di cui sopra (non sarebbe, nonostante tutto, nelle mie intenzioni). Ma vediamo.
1) La crisi della sinistra non è solo italiana: è europea, anzi globale. E’ sotto gli occhi di tutti: strano che se ne parli così poco in questi termini. Sommariamente (certo, troppo sommariamente) io l’attribuisco a due fattori (in questo senso soprattutto europei).
Il primo: la sconfitta che il lavoro e, in senso più specifico e sostanziale, la classe operaia hanno subito nel corso degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso: in Inghilterra; in Germania; in Italia (in forme diverse, certo, ma orientate tutte nella medesima direzione). Ora, non c’è sinistra (in senso classico) senza rappresentanza del lavoro: perché la visione progressista e riformatrice della “vera sinistra” è sempre nata da lì (c’è bisogno di esempi storici). Se ne può fare a meno?
La sconfitta del proletariato (anche in questo senso classico) e della classe operaia ha provocato nella società post-industriale e post-fordista l’emergere di due fenomeni, contemporanei e al tempo stesso contrastanti fra loro: una sorta di borghesizzazione spuria e dispersa e una sorta di proletarizzazione spuria e dispersa di parti diverse della società. Manca il collante, politico e sociale, che le tenga insieme. A mio giudizio, anche la grande fortuna attuale del verbo francescano-cattolico deriva da questo: siccome non c’è forza terrena che ci riesca, la parola della Chiesa, che non ha bisogno di verifiche pratiche allo scopo di governare (disperata missione dei poveri politici umani), appare comunque, anche ai laici, una risposta confortante e consolatoria.
Come possono di nuovo stare insieme le due cose? Dove deve mettere le sue radici la “nuova sinistra”? Come si rappresenta un lavoro profondamente diverso dal passato, — nel quale, naturalmente, continua a occupare un ruolo importantissimo la classe operaia, ma non più in posizione egemonica, — e lo si ri-organizza per rovesciare l’ondata travolgente, mondiale, del capitalismo finanziario? Se non si risponde a queste domande, interviene l’atrofia dei muscoli e del cervello.
In fondo, l’emergere di una nuova fenomenologia politica (non solo, ma soprattutto) nei paesi più deboli dell’orizzonte europeo occidentale, — Spagna, Grecia, Italia, — Podemos, Syriza, persino Grillo e il grillismo, rappresenta una risposta a queste domande. Non ne condividiamo uno per uno tutti gli orientamenti e ne scrutiamo spesso con qualche preoccupazione gli obiettivi, ma non possiamo non riconoscere che in una società mobile e disarticolata le loro sono risposte più à la page delle nostre.
Il secondo: l’Europa vive ormai sotto l’incubo (anche artatamente gonfiato, ammettiamolo) di uno scardinamento provocato da un’ondata migratoria di cui indubbiamente non esistono precedenti. La reazione è quella di una chiusura a riccio: da parte dei ceti borghesi, o pseudoborghesi, allo scopo di difendere i propri privilegi; e da parte dei nuovi ceti proletari e sottoproletari allo scopo di difendere una loro possibile, ancorché improbabile, ascesa verso l’alto. In ogni caso, è fuori discussione che il fenomeno alimenti qualsiasi tipo di reazione “populista” (io preferirei dire “massista”, ma devo farmi intendere dai lettori). Se il punto precedente si saldasse con questo, il quadro potrebbe diventare devastante. Non a caso Beppe Grillo, che se ne intende, ha formulato proposte estremamente restrittive rispetto al fenomeno dell’immigrazione. E’ un dato di fatto, tuttavia, che la sinistra, sia quella “storica” sia quella “nuova”, su questo punto non ha saputo formulare altro che generiche proposte d’ingenuo solidarismo, quando in Europa non s’è allineata tout court con le posizioni dei governi e dei ceti conservatori. Il solidarismo umanitario è il nostro credo. Ma se non ha un programma, e forze e mezzi per realizzarlo, rischia di diventare straordinariamente autolesionistico.
Senza bisogno di ricorrere, come taluno auspica, a una nuova Poitiers, è vero per tutti che l’Europa a sinistra si salva sia dall’interno sia dall’esterno. E’ una scommessa bestiale, me ne rendo conto. Ma solo chi la vince, vince l’intera partita.
2) Quello che in Europa rappresenta un decalage storico impressionante, — ci sono governi moderati o conservatori o di estrema destra in tutti i paesi, esclusa la Francia, dove il socialista Hollande si appresta a lasciare il premierato niente di meno che a un leader conservatore, anzi reazionario, di primo pelo come Sarkozy; in Germania i socialdemocratici si limitano a navigare nella scia di Angela Merkel; in Inghilterra i laburisti sono stati sconfitti recentemente per la seconda volta da Cameron, in attesa che la stella di Corbyn si levi in cielo dall’orizzonte, — diviene in Italia, come sempre più spesso capita, un allegro (o meglio: squallido) spettacolo della “commedia dell’arte”. Non c’è un provvedimento del governo Renzi che sia minimamente condivisibile. Il Jobs act. Il programma devastante e antiambientalista delle Grandi Opere. La cosiddetta “Pessima Scuola”. Tutto è diventato commerciale, usufruibile, sfruttabile: se non lo è, lo deve diventare a viva forza. La vicenda delle nomine dei direttori dei grandi musei italiani è uno schiaffo alla dignità nazionale e un’offesa ai funzionari che hanno il compito istituzionale di difendere il patrimonio artistico e i beni culturali.
Il caso Azzollini è uno schizzo di fango sulla toga già non del tutto immacolata del Pd: l’ammonimento susseguente e conseguente del Presidente del Consiglio, — «non siamo i passacarte dei Pm», — suona inequivocabilmente come un’apertura di credito nei confronti dei politici corrotti e corruttibili («State tranquilli, qualsiasi cosa facciate, ci siamo noi pronti ad aiutarvi e proteggervi»).
Ma quel che più conta è l’obiettivo cui mira la riforma costituzionale già in atto: ne riassumo le conclusioni. Se il progetto del ducetto di Rignano sull’Arno dovesse andare in porto, un partito del 35% (il 20%, più o meno degli aventi diritto al voto), avrebbe nelle proprie mani, a partire dalle prossime elezioni, non solo il Parlamento, la Presidenza del Consiglio e il Governo, ma anche la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale.
Quando si parla con orgoglio del Partito della Nazione, si dimentica che questa anomala caratterizzazione è stata usata in passato solo dai nazionalisti di primo Novecento, poi confluiti trionfalmente nel fascismo della prima ora, e poi, per l’appunto, con motivazione ancor più evidente, nel Partito Nazionale Fascista. Non è un caso che la forza innegabile, e temibile, di Matteo Renzi consista nell’avere a disposizione una possente arma di riserva. Se le cose dovessero andargli male, o solo un po’ peggio, l’alleanza con la destra berlusconiana sarebbe sempre a portata di mano. Altro che interruzione o declino del Patto del Nazareno! Il Patto del Nazareno è stato calato geneticamente nelle fibre costitutive del Governo Renzi, può essere reintegrato in ogni momento, anzi, più esattamente, non è mai venuto meno.
Cioè: siamo in Italia di fronte al rischio di un vero e proprio cambiamento di regime.
La conclusione di questo punto è che in Italia, — un paese da tutti i versi nel degrado più completo, (corruzione politica, crimine organizzato, perdita generalizzata di fiducia nella politica) — la battaglia della sinistra per le sue tradizionali parole d’ordine, (libertà, giustizia, eguaglianza) — deve essere ispirata anche fortemente ai bisogni e alle prospettive di una difesa e di un reintegro degli assetti istituzionali e costituzionali, della presenza e della dignità dello Stato e della ricerca di quell’obiettivo, che, forse un po’ troppo genericamente, ma anche molto efficacemente, si definisce “bene comune”.
E’ quel che accade oggi? Le connessioni tra le varie parti di questo difficile e scalare discorso, — politica, economia, assetti sociali, rapporto istituzioni-lotta di classe, — ci sono evidenti e percepibili, più o meno nello stesso modo, da Sondrio a Capo Pachino? Direi di no, per ora.
3) La sinistra, — un po’ tutta: quella del centro-sinistra-destra, che ci governa, e quella della “sinistra al tempo stesso classica e nuova”, in Italia non ha (e/o non vuole avere) memoria. Non ha introiettato e tanto meno metabolizzato la Bolognina di Occhetto, la bicamerale di D’Alema, la teorizzata e conclamata autosufficienza dei Ds di Walter Veltroni, la pugnalata nella schiena inferta al Governo Prodi da Rifondazione Comunista, il vigoroso tramonto della stella rinnovatrice di Antonio Bassolino, persino il recente, smisurato sostegno istituzionale e costituzionale del Presidente Napolitano all’esperimento Renzi.
Tanto meno ha introiettato e metabolizzato i tentativi di voltar pagina, che pure in questa nostra sinistra ci sono stati. Più o meno dieci anni fa (2004–2005), in una congiuntura enormemente più favorevole di quella odierna, un gruppo di compagni diede vita a una cosa che si chiamava “Camera di consultazione della sinistra” e propugnava, per l’appunto, l’unità della sinistra radicale (Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi, parti importanti della sinistra Ds, gruppi autonomi, ecc ecc.). L’esperienza ebbe una larga e ricca gestazione, fu sostenuta da un dibattito interessantissimo su il manifesto, ospite solidale e partecipe, sfociò in una grande Assemblea nazionale alla Fiera di Roma. Il giorno in cui (12 aprile 2005) il lavoro avrebbe dovuto concludersi con un voto su di un documento programmatico, e di lì passare ai fatti, Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista, ne sabotò duramente il proseguimento. Si avvicinavano le elezioni. Il suo programma era un altro. La vittoria elettorale e, conseguentemente, la partecipazione a un governo fortemente spostato a sinistra? No, la Presidenza della Camera dei deputati. Oltre al fallimento del predetto tentativo, ne derivarono diverse altre conseguenze negative, fra cui, al limite, anche la scissione di Rifondazione comunista: una prova lampante di cosa significhi lavorare, alacremente e astutamente, non per l’unità della sinistra ma per la sua disunione.
Risentimento? Rancore? Sì, certo. Ma anche qualcosa di più. Abbiamo alle spalle un numero straordinario di sconfitte, giocate sia sul piano storico e politico sia su quello personale. Un elemento di riflessione storica e politica riguarda ad esempio l’impressionante declino della classe politica comunista post-berlingueriana.
Uno storico serio dovrebbe affrontare la questione e spiegarci come questo sia potuto accadere, e in questa misura. Un elemento di riflessione personale e antropologica riguarda invece la inaspettata insorgenza e poi, decisamente, la prevalenza, nei rappresentanti più in vista di tale ceto politico; di quegli elementi di un’etica degradata e personalistica, che ci assediano da tutte le parti e che, a parole, ma a dir la verità sempre meno spesso, viene condannata nella società che ci circonda.
Conclusione: se non si introietta e rielabora tutto questo, meglio non ricominciare.
4) Veniamo ora, sconsolatamente, dalla disillusa e pressoché disperata rievocazione del passato, ai buoni propositi del futuro. Ci vorrebbe, — conditio sine qua non: tener conto, certo, e farne il fondamento, dei punti elencati ai n. 1, 2 e 3, — un nuovo Partito: un partito fortemente democratico (una testa, un voto, e fin dall’inizio); fortemente riformista (non è più il tempo di un protestantesimo generico e parolaio, bisogna indicare con esattezza calvinista le cose da fare, la gerarchia con cui farle, per chi e come farle); e fortemente europeista (per un’Europa federata politicamente, all’interno della quale valga il criterio politico-istituzionale della rappresentanza e non la forza di contrasto e di ricatto della potenza economica capitalistica e delle tecnocrazie ad essa asservite).
Un partito, dico, non una rete. So per esperienza (l’esperienza che manca alla maggior parte dei miei possibili interlocutori) che da una rete, — una qualsiasi rete, di associazioni, di comitati, di gruppi, — non si decolla mai verso l’alto, ci si allarga solo, se va molto bene, orizzontalmente.
Un partito, aggiungo, promosso e fatto soprattutto da giovani: trentacinque, quarantenni. L’esperienza, anche in questo caso, dimostra che, per sorgere o risorgere, bisogna scavare un fossato ben visibile rispetto al passato (Podemos, Syriza). Il personale politico e intellettuale della “nuova sinistra” è più vetusto di quello di centro-sinistra-destra (sto parlando di me in primo luogo, ovviamente). I giovani non ci sono? Se non ci sono, vuol dire che l’Italia di oggi non li produce, e se è così, è un bel guaio. Ma forse, anche in questo caso, abbiamo fatto di tutto, e stiamo ancora facendo di tutto, perché l’Italia non li produca. Se si proponesse una leva, con l’obiettivo dichiarato ed esplicito di cedere alle nuove generazioni il bastone del comando, forse qualcosa di nuovo potrebbe saltar fuori. Meglio i possibili, difficilmente prevedibili errori dei giovani che quelli, assolutamente prevedibili, anzi già oggi del tutto scontati, dei nostri vetusti dirigenti.
Poi ci vuole una Persona, un’identità ben precisa sia maschile che femminile. E oggi, in tempo di mediatiche mattane, ancora di più. L’esperienza recente lo dimostra: senza Iglesias, senza Tsipras, persino senza Grillo, il combinato disposto di protesta, irritazione, ricerca del nuovo, tanto più in assenza di un autentico, materiale, evidente, punto di riferimento sociale, non quaglia. Dov’è questa Persona? Non sarà che a restar chiusi ancora una volta, per un’elementare reazione di autodifesa, nella piccola legione macedone fatta di quadri vetusti e d’intellettuali stagionati, la persona non riesce a venir fuori, resta ancora una volta e per sempre il detestato ed esorcizzato Pover’Uomo di falladiana memoria?
Perché queste e tutte le altre prove e controprove siano fatte ci vuole dunque una vera (sottolineo: vera) fase costituente, nel corso della quale si verifichi seriamente, non solo e non soprattutto, se siamo d’accordo fra noi, ma se ci sono altri che sono d’accordo con noi: disposti noi di conseguenza a cambiare, se gli altri, i “nuovi” del “partito nuovo”, ci persuaderanno che le loro ragioni sono migliori delle nostre (che poi è esattamente quello che ci si dovrebbe augurare che avvenga). Queste ragioni devono venire soprattutto dall’esterno: non possiamo pretendere oggi di farle tutte bell’e confezionate dal nostro stanco e mille volte sconfitto cervello.
5) Infine. Abbiamo sotto gli occhi la recentissima lezione, al tempo stesso esaltante e drammatica, della Grecia. Nello spazio di un colpo di fulmine siamo passati dall’ammirazione sconfinata per il processo di liberazione coraggiosamente iniziato e portato avanti da Syriza alla contemplazione problematica del processo di compromesso con le potenze dominanti all’interno della Ue predisposto e accettato dal Governo Tsipras per salvare il salvabile e continuare al tempo stesso il processo.
«Il nodo delle relazioni non è una questione parallela, ma centrale. Sia nella valorizzazione di poteri alternativi sia nel creare coesione, per reggere lo scontro violento. Perché sono l’oggetto dei processi di riorganizzazione in corso ad opera di un capitalismo neoliberista che nella vita entra senza ritegno, e la rimodella a proprio piacimento».
Il manifesto, 26 agosto 2015
Rischio volutamente la retorica, nell’accostare l’arcaico caporalato e la moderna precarietà multiforme, esperienze contemporanee di cui gli esempi si potrebbero moltiplicare, tutti accumunati da un salario orario indecente, o sempre più basso. La retorica sparisce se rovescio la domanda: la sinistra ha in mente Angela, i suoi compagni di lavoro, o i dipendenti dell’Ikea? Pensa, la sinistra, immagina, progetta come affrontare, risolvere i problemi della vita di queste persone? Il modo per proteggerle dalla ferocia del capitalismo neo-liberista? Strade percorribili, anche audaci, conflittuali, perigliose, e perché no, rivoltose, ma che permettano di intravedere modi diversi di vivere?
La risposta è brutale: no, da molto tempo questo non avviene. E questo è il nodo cruciale del dibattito aperto da Norma Rangeri e dal manifesto: l’incontro mancato. Tra ciò che è nella mente di chi si trova in condizioni di vita sempre più dura, — chi non riesce a pagarsi un affitto, chi affronta una riforma della scuola che solo per finta assume chi è precario, precari della conoscenza che mantengono con il loro lavoro semigratuito università, centri di ricerca e sistemi di informazione – se ci sono, desideri e speranze, difficilmente si chiamano “sinistra”. E dall’altra parte i progetti di chi dovrebbe aprire lo spazio di elaborazione e di pratiche politiche che a quelle menti possano parlare, dare respiro e speranza.
Non interessa, qui, fare l’analisi delle responsabilità. Fermarsi ancora una volta a fare l’inventario delle colpe, oggi sarebbe quasi criminale. Non c’è vita, nella recriminazione e nel rancore. E lo dico da femminista quale sono, sempre più sgomenta nel constatare l’impossibilità, per tanti, troppi – uomini – di riconoscere il peso, l’influenza, l’acutezza della critica femminista alla loro politica, e che incapaci come sono di accoglierla esplicitamente procedono come se nulla fosse successo. Certa che questo muro di silenzio sia parte del problema, della difficoltà di mettere a fuoco visioni ampie, inclusive, e nello stesso tempo convinta che anche il femminismo sia implicato, nel vuoto che ci affligge.
Non c’è solo l’effetto-distrazione nell’essersi fissate troppo sull’obiettivo paritario, così facilmente fatto proprio dalla logica neo-liberista. È come se avere aperto la strada, almeno in Occidente, alla libertà femminile, avesse spinto a chiudere gli occhi su quanto avviene. Come se per esempio il feroce aumento della diseguaglianza economica non riguardasse le donne. Che ne sono le prime vittime, sotto molteplici aspetti, dallo sfruttamento del lavoro di cura alla diretta messa al lavoro del corpo femminile, della riproduzione. Anche da parte di altre donne.
Si parla spesso di un ritorno all’Ottocento. È un’argomentazione efficace, aiuta a prendere coscienza della pesantezza delle condizioni di vita, o a recuperare forme di auto-organizzazione come il mutualismo, ricostruendone il mito e l’epica. Ma in un’immaginaria replica contemporanea del “Quarto Stato” di Pelizza da Volpedo, non ci sarebbe una donna con un bimbo in braccio, dietro e di lato a un uomo, a uomini che combattono in prima fila. Dove sarebbero le donne? E gli stessi uomini? E i bambini? E questi, di chi sarebbero figli?
Non sono dettagli fuorvianti. Come non capire che questo quadro mutato e mutante è parte essenziale di ciò che va pensato, anche nel mettere a fuoco nuovo forme organizzative? Che il nodo delle relazioni non è una questione parallela, ma centrale? Sia nella valorizzazione di poteri alternativi sia nel creare coesione, per reggere lo scontro violento. Perché sono l’oggetto dei processi di riorganizzazione in corso ad opera di un capitalismo neoliberista che nella vita entra senza ritegno, e la rimodella a proprio piacimento.
Esattamente come agisce per la ridefinizione– distruzione di democrazia. Nel quadro delle istituzioni, europee e non solo. Fanno parte di un unico disegno di comando che va combattuto.
Di questo si dovrebbe parlare, se si parla di vita a sinistra. Se si vuole entrare nella breccia che Alexis Tsipras con grande lucidità politica continua a tenere aperta. Mi auguro, nel fitto calendario di impegni tra movimenti e organizzazioni fino a novembre, che il gesto del dirsi “siamo qui, partiamo”, sia rapido, veloce, quasi noncurante. Come chi sa che non c’è nulla da esaltare, in effetti. Che organizzarsi non è occuparsi di sé. L’urgenza è mettersi in grado di aprire spazi e pensieri, liberare l’immaginazione. Un lavoro di lunga lena.
Prosegue il dibattito su "La sinistra vive?"Un ragionevole elenco delle undici novità, rispetto alla sinistra novecentesca, di cui è indispensabile tenere conto se ci si propone per lavorare alla costruzione di una sinistra per il secondo millennio.
Il manifesto, 26 agosto 2015
Per scegliere come agire conviene partire dalla conoscenza dei dati di fatto. Eccone alcuni, a mio avviso rilevanti:
a) Sta tornando, anche nel cuore di società ricche, la schiavitù; secondo una stima della Cgil in tale condizione si trovano (ma le stime sono riferite a ciò che è visibile, non al sommerso) già 400.000 esseri umani, in larga parte extracomunitari; il “profitto” se ne giova enormemente.
b) Strettamente connesso è il potere incontrastato dei grandi e meno grandi centri mafiosi equamente diffusi nel pianeta. (Con la vittoria della “libertà” a Mosca, anche Mosca è diventato un epicentro mafioso). Le banche riciclano indisturbate il “denaro sporco”, di cui droga, prostituzione, caporalato, ecc. sono l’alimento. Così l’intreccio tra capitale finanziario e malavita si è compiuto. Nella totale passività e complicità dei poteri politici.
c) Il cosiddetto fenomeno migratorio ha carattere strutturale ed epocale. Ogni trovata mirante a interromperlo (respingimenti, interventi nei luoghi di partenza) è risibile. E’ come voler svuotare il mare col mestolo. L’Occidente – fabbricanti di armi sempre pronti a commuoversi, interventi imperiali in Irak, Siria, Libia ecc. — ha creato i disastri, una cui conseguenza è tale migrazione di popoli.
d) La mutazione della Cina in paese ipercapitalistico a carattere nazionalsocialista ha chiuso il ciclo novecentesco del “socialismo”.
e) La fine del movimento comunista ha comportato anche il declino delle socialdemocrazie.
f) Il meccanismo elettorale pluripartitico (caratteristica e vanto dell’Occidente) è defunto. Ciò grazie a dinamiche liberticide irreversibili: delega dei poteri decisionali a strutture tecniche non elettive, e per di più massiccia introduzione di sistemi elettorali di tipo maggioritario. Il de profundis è stato il formale misconoscimento della volontà espressa dal referendum greco di luglio da parte dello stesso governo che lo aveva indetto. Ciò, per ordine e ricatto di una entità priva di qualunque legittimazione elettorale quale l’Eurogruppo.
g) Il soggetto sociale tradizionale dei partiti di sinistra è, numericamente, in via di estinzione. Mi riferisco all’operaio di fabbrica, o meglio a quella parte che veniva un tempo definita “operai coscienti”. Sono subentrati per un verso la nuova schiavitù, per l’altro un gigantesco ceto medio condannato ad un crescente impoverimento, in alcuni paesi appesantito dalle rigidità della moneta unica.
h) Una formazione politica di sinistra dovrebbe dunque decidere se: (1) scegliere di rappresentare i nuovi diseredati, ovvero (2) puntare, con qualunque alleato, ad andare al governo a qualunque costo per fare una qualunque politica. Da tempo, la ex-sinistra (in Italia, Francia, Germania, ora anche Grecia) ha scelto tale seconda opzione.
i) La sola battaglia possibile in questa situazione è di carattere culturale, il più possibile di massa. Descrivere scientificamente il “capitale” del XXI secolo e smascherare la cosiddetta “democrazia occidentale”; diffondere la consapevolezza della sua vera natura. I luoghi di intervento non sono molti. La grande stampa funziona sulla base di una costante censura del pensiero critico nei confronti dell’Occidente. Ma c’è un grande terreno di lotta culturale, che è la scuola. E’ lì che si può indirizzare una lotta tenace in favore del pensiero critico.
j) Verrà sollevata la questione: ma qual è la classe sociale di cui la sinistra dovrebbe rappresentare gli interessi? Lo sfruttamento non è affatto scomparso, ma è ormai soprattutto sfruttamento del lavoro intellettuale che costituisce la parte essenziale del ciclo produttivo. E persino ai quadri medio/alti — per ora ben pagati – andrebbe fatto capire che anch’essi sono degli sfruttati e che chi li sfrutta è meramente parassitario.
k) Nell’epoca del dominio mondiale del capitale finanziario, “il nemico” è quasi invisibile.
Le ragioni dell'urgenza di uscire dalla "crisi della sinistra e della necessaria centralità della questione del lavoro. Ma è sufficiente oggi ragionare dall'interno della logica del capitalismo e della sua concezione del lavoro?
Il manifesto, 21 agosto 2015
La sinistra è in una crisi storica e, direi, mondiale. Su questo tema è in corso sul manifesto (che si definisce ancora “quotidiano comunista”) un’utile ricerca, «C’è vita a sinistra ?», avviata in luglio e che dovrebbe portarci almeno all’abbozzo di una conclusione sulla base degli interventi pubblicati e in arrivo.
Sappiamo bene che da una crisi, specie se grande e pesante, non se ne esce restando come prima e i rischi di andare al peggio sono forti. Già con Renzi prevale la politica di destra: la prospettiva è che o resiste accrescendo il suo potere personale o sarà scavalcato da un’avanzata delle forze dichiaratamente di destra. Le crisi sono una cosa seria.
Non si ricorda mai abbastanza che dopo la rivoluzione russa del 1917 e le grandi lotte operaie in tutta Europa, ci fu una risposta reazionaria con il fascismo e il nazismo che acquistarono forza con la crisi del l929 e maturarono le condizioni per la Seconda Guerra Mondiale.
Nel secondo dopoguerra ci fu un grande sviluppo economico anche in Italia ( il famoso miracolo italiano) accompagnato da un’avanzata della sinistra. Ma durò poco. Già con gli anni ’80 comincia a maturare l’attuale gravissima crisi nella quale siamo oggi: dell’economia della politica, e, direi anche della cultura.
Per tentare una ripresa della sinistra, ci vuole una buona analisi dell’attuale crisi; senza una seria diagnosi non si cura una malattia. E bisogna anche chiedersi perché con la forte disoccupazione, soprattutto giovanile, non ci siano lotte e proteste, i sindacati sono indeboliti e anche la buona iniziativa di Landini fa fatica a decollare. Senza contare che oggi, il ruolo ammortizzatore delle famiglie si sta esaurendo.
L’attuale pesantissima crisi ha cause strutturali da ricercare, come sostengono importanti economisti, nella globalizzazione e nel progresso tecnico. La globalizzazione, con la rapida crescita della comunicazione comporta l’ingresso sul mercato di industrie di paesi a bassi salari come la Cina che con la recente svalutazione riduce i prezzi del suo prodotto, attira gli investimenti dei paesi industrializzati (da leggere un altro editoriale di Romano Prodi sul Messaggero del 15 agosto). Il progresso tecnico – e non da oggi - riduce l’importanza del lavoro vivo e produce disoccupazione.
Due effetti assai forti che colpiscono soprattutto il lavoro vivo e, quindi, anche la soggettività stessa dei lavoratori, e che mettono in evidenza come il progresso tecnico che in regime socialista (o non capitalista) migliorerebbe le condizioni di tutti, in regime capitalistico provoca disoccupazione, marginalizzazione e miseria da una parte e concentrazione del potere e della ricchezza in un ristretto e potente gruppo di capitalisti finanziari dall’altra.
Questa del progresso tecnologico nemico strutturale del lavoro vivo è storia antica e non possiamo dimenticare che l’avvio dell’industrializzazione capitalistica in Inghilterra diede vita al movimento luddista che contestava l’introduzione delle macchine. Allora il luddismo fu travolto dallo sviluppo e dalla crescita della produttività. Ma fu battuto anche dalle lotte operaie per il miglioramento delle condizioni di lavoro e, soprattutto, dalle progressive riduzioni dell’orario (va ricordata la conquista delle dieci ore e poi delle attuali otto ore mai più ridotte da quasi un secolo).
Oggi di fronte alla attuale gravissima crisi e alla disoccupazione in crescita, bisogna rimettere al primo posto ( ma per alcuni è un controsenso) la riduzione dell’orario, anche se il lavoro nei paesi che entrano oggi sul mercato globale è sottopagato, con orari ottocenteschi e contrasta con questa rivendicazione. Si tratta ora di rovesciare l’uso che il capitalismo fa del progresso tecnico ma ricordare anche che le progressive riduzioni dell’orario hanno contribuito alla crescita dei consumi e dello stesso mercato. Oggi una riduzione dell’orario di lavoro penso che gioverebbe anche ai capitalisti che con la finanza si arricchiscono, ma rischiano di affogarvi.
La riduzione del tempo impegnato nel lavoro dipendente accrescerebbe il cosiddetto “tempo libero”, che oltre a migliorare le condizioni di vita darebbe spazio a nuovi consumi, a nuove spese diventando così anche un fattore di crescita del mercato e della società. Anche i capitalisti dovrebbero aver capito che se il popolo sta meglio i loro affari miglioreranno. Ma i capitalisti temono da sempre che la crescita della libertà del mondo del lavoro riduca, quasi automaticamente il proprio potere politico ed economico.
Ma vogliamo aspettare che siano i capitalisti a proporre la riduzione dell’orario di lavoro? Oggi, anche perché la disoccupazione cresce e nel mondo del lavoro cresce non solo la domanda di salario, ma anche quella di libertà e di cultura, la riduzione dell’orario di lavoro, e la gestione del “tempo libero”, questo immenso spazio da conquistare e organizzare, dovrebbe diventare l’obiettivo storico della classe operaia, dei suoi sindacati e delle forze che dicono di volerla rappresentare.
Già ad agosto, sulla pagina sportiva di
Repubblica, si poteva leggere: «Austerity? In serie A è già finita». E proseguiva...(continua la lettura)
Senza dire che il merito è, per definizione, di pochi, sia perché non si può premiare tutti, col rischio di cadere nell'egalitarismo, sia perché occorre creare degli idoli, piccoli o grandi che siano, cui la massa deve aspirare per poter sopportare meglio il proprio anonimato, la propria mediocrità quotidiana. Il calcio, infatti, costituisce un universo divistico paradigmatico, ma non è certo il solo.
I media hanno trasferito un fenomeno che in origine, nel XX secolo, era nato con il cinema, all'intera società. Provate, entrando in una qualunque edicola, a guardarvi intorno mentre comprate i vostri giornali. E' come trovarsi in un santuario di paese costellato di immagini votive, il luogo di culto di arcaiche superstizioni. Dalle copertine dei rotocalchi, dei magazine, dei quotidiani, dei libri, dei video, ecc,centinaia di volti e di corpi vi sorridono e vi guardano desiderosi di essere comprati. E' cosi anche all'interno dei quotidiani, che cercano di competere con la TV e vi offrono foto giganti di manager e finanzieri, scrittori, attori, uomini politici, capi di stato.
Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto
«Costituzione. Per venire fuori dal pantano della riforma, il governo prepara una "mediazione" che peggiora ancora il nuovo bicameralismo. E imbroglia sulle bocciature dei professori. ».
Il manifesto, 19 agosto 2015 (m.p.r.)
Senatori eletti dal popolo o scelti da (e tra) il personale politico di seconda fascia - come sono i consiglieri regionali rispetto ai parlamentari? A settembre la commissione affari costituzionali del senato riprenderà a lavorare sul disegno di legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi e dovrà imboccare una delle due strade. Quindici mesi fa la stessa commissione, all’epoca del primo passaggio in parlamento della riforma, aveva scelto l’elezione diretta, approvando un ordine del giorno del leghista Calderoli. Ma il governo non era d’accordo. E così il lavoro del senato è andato avanti ignorando quell’ordine del giorno e mettendo le basi per la riforma com’è oggi, con i senatori scelti all’interno dei consigli regionali. Un precedente utile da ricordare a chi oggi, quando si chiede l’elezione diretta, risponde che non si può ripartire sempre da capo.
Allora i leghisti strillarono che non si poteva ignorare l’ordine del giorno per l’elezione diretta, chiamarono in causa la giunta per il regolamento del senato. E lo stesso fece il senatore Mauro quando, immediatamente dopo quel voto, fu sostituito nella commissione da un altro senatore del suo gruppo, ma favorevole alla riforma. Identica sorte toccò a due senatori della minoranza Pd, che però non si opposero alla rimozione. In ogni caso la giunta non decise, lo strappo fu sanato con il silenzio. E siamo a oggi, quando davanti alla commissione di palazzo Madama c’è il testo nel frattempo modificato dalla camera, ma non nel punto della composizione del senato — se non in una parola che può servire come cavallo di Troia per ammettere modifiche sostanziali. Il punto è ancora quello: futuri senatori eletti dal popolo oppure no?
«Contaminare», non far eleggere direttamente i senatori, perché Renzi e Boschi (insieme) non intendono cedere fino a riportare in mano ai cittadini la possibilità di scegliere i senatori. Grande sponsor della decisione è la Conferenza delle regioni (presidente Sergio Chiamparino) che ha sostituito l’associazione dei comuni nel ruolo di guardia del corpo della riforma (all’inizio Renzi aveva pensato a un senato composto interamente da sindaci, ora ne restano 21). In più il presidente del Consiglio ha bisogno di un argomento semplice con il quale condurre la campagna per il referendum confermativo che si terrà alla fine del prossimo anno (al più presto) e che certo non potrà ruotare attorno a questioni complicate come il bilanciamento dei poteri o la procedura di formazione delle leggi. «Senatori non più eletti sì o no?» Slogan che può ulteriormente semplificarsi in «Senatori senza stipendio sì o no?», come ha fatto intendere di voler chiedere agli italiani Renzi. Intanto, previdente, ha già scelto lo slogan della prossima festa nazionale dell’Unità: «C’è chi dice sì».
Ha scritto a Repubblica Giorgio Napolitano, padre nobile della costituzione Renzi-Boschi, che non si può tornare (restare) all’elezione diretta dei senatori perché a quel punto sarebbe «insostenibile» sottrarre al senato il potere di dare la fiducia al governo e si ricadrebbe nel bicameralismo paritario. Un argomento identico ha usato uno dei cavalieri del renzismo, il capogruppo dei deputati Ettore Rosato: «Tornare all’elezione diretta comporterebbe, come ci dicono praticamente tutti i costituzionalisti interpretati, la necessità di reintrodurre il voto di fiducia anche al senato». L’affermazione è interessante, perché il circolo stretto renziano non cita mai a suo favore i costituzionalisti, anzi usa disprezzarli chiamandoli «professoroni». Infatti è falsa. Il dibattito costituzionale è evidentemente assai variegato, ma di 32 esperti ascoltati dalla prima commissione del senato tra la fine di luglio e l’inizio di agosto (non tutti, ma quasi, costituzionalisti), la tesi così come esposta da Rosato è stata sostenuta solo da tre professori (Falcon, Luciani e Tondi della Mura). E ciò nonostante anche loro, come «praticamente tutti», hanno evidenziato la stranezza del nuovo senato immaginato da Renzi e Boschi, che si propone come «rappresentativo delle istituzioni territoriali» (articolo 2) ma è disegnato in modo da far «prevalere il circuito politico partitico» (con queste parole Cerrone). Un senato di non eletti che ha tra i suoi poteri quello di partecipare alla procedura di revisione costituzionale è, per citare alcuni dei giudizi negativi ascoltati in commissione, «incoerente», «ibrido», «anfibio».
Massimo Luciani, professore della Sapienza non ostile al disegno di Renzi, ha spiegato che meglio sarebbe un’elezione diretta dei senatori da parte dei cittadini in concomitanza con l’elezione dei consiglieri regionali -i senatori a quel punto potrebbero essere consiglieri regionali a tutti gli effetti ma anche no. Carlo Fusaro, professore a Firenze tra i più convinti sostenitori della riforma, giudica «balzana» l’idea di delegare alla legge di attuazione il criterio con il quale «semi-affidare» la scelta dei senatori-consiglieri al voto popolare, «contaminare» direbbe Quagliariello. Eppure è precisamente questa l’intenzione del governo, che non vuole toccare il principio dell’elezione di secondo grado per non riaprire il capitolo della composizione del senato nel prossimo, inevitabile, ritorno del disegno di legge alla camera.
La soluzione preferita nei ragionamenti agostani della maggioranza è quella del vecchio «listino», cioè un elenco di consiglieri regionali «speciali» che una volta eletti (e se eletti) avrebbero diritto a essere nominati in secondo grado tra i senatori. Il che avrebbe un vantaggio per i partiti: poter scegliere i nomi del listino, e dunque i possibili senatori, anche affidandoli formalmente alla selezione popolare. Del resto sul punto sono in pochi a poter vantare assoluta coerenza. Anche il senatore Gotor che oggi è tra i più in vista nel fronte dei 28 Pd favorevoli all’elezione diretta, un anno fa nel corso del primo passaggio sostenne questa soluzione, definendola «un secondo grado rafforzato e qualificato». Ma allora l’Italicum, la nuova legge elettorale, era solo una minaccia.
Nel corso delle ultime settimane sono apparsi in Italia due libri che portano nei propri titoli la parola “margine”. Si tratta di Al margine, di Francesco Magris (Bompiani) e di Margini d’Italia, di David Forgacs ( Laterza). Naturalmente si tratta di una combinazione. Ma anche le combinazioni, se guardate bene, possono riserbare delle sorprese.
In virtù di una cultura poliedrica Magris può, nella sua elaborazione, fornire dati e riprove da letterati e artisti di ogni tempo e paese (il libro si apre nel nome del «grande poeta gradese» Biagio Marin, ma va avanti con quelli di Saba, Hawthorne, Pirandello, Carver, Kafka, Robert Walser, Bukowski), oppure discutere le impostazioni economiche della scuola marginalista e concludere con una riflessione su pregi e limiti della democrazia occidentale. Non si andrebbe troppo lontani dal vero, segnalando la straordinaria rilevanza che, nell’ottica di Magris, occupa il punto di vista della sua città di origine, Trieste; la «frontiera» per eccellenza (ovvero il «margine estremo», anche nel senso letterale del termine) nell’immaginario italiano degli ultimi due secoli, forse proprio oggi drammaticamente rilanciata dalla sua contiguità con il potenziale inferno balcanico.
Forgacs ne descrive cinque fondamentali esempi: le Periferie urbane; le Colonie (Forgacs ha fatto un lungo soggiorno in Abissinia per documentarsi); il Sud; i Manicomi; i Campi nomadi. Se si esclude l’ultimo capitolo, forse più marginale rispetto agli altri, si tratta di un lavoro di solidissimo impianto, ed esiti inequivocabili, che apre orizzonti sul modo di «essere italiani» meno scontati di quanto si potrebbe pensare.
Per uno come me, vedersi messo sotto gli occhi un quadro così preciso di ciò che ha significato per Roma e la (un tempo) leggendaria «campagna romana» la realizzazione, a varie tappe e per il corso di più di un secolo, dei mostruosi quartieri popolari a Sud e a Est della città (poi anche, inesorabilmente, a Nord e a Ovest), ha consentito di ripercorrere con evidenza assoluta le tappe di una storia individuale e collettiva, le cui ultime battute sono sotto gli occhi di tutti (io non ho dubbi che anche i processi corruttivi nascano, come nel nostro caso, da una lunga, lunghissima storia).
Dunque, i due libri, nonostante le loro incancellabili diversità, ci mettono di fronte alle prospettive inedite che «guardare ai margini» (l’espressione è di Forgacs) consente di acquisire e che, restando cocciutamente al centro, non riusciremmo mai neanche a intuire da lontano. La bibliografia su «margine» e «marginalità» è sterminata, e i due autori ce ne danno più di un esempio. Difficile aggiungere qualcosa. E tuttavia: la dinamica che questa suggestiva alternanza fra centro e periferia, fra periferia e centro, suggerisce, è in molte situazioni un criterio ermeneutico pressoché permanente. Ossia: in molti casi, invece di «leggerla », una volta che sia stata interpretata e sistemata nei libri, essa è un dato del nostro vissuto, un’esperienza senza la quale non potremmo capire non solo quanto ci è accaduto intorno ma neanche ciò che è accaduto dentro di noi. Faccio un solo esempio, ma rilevante: l’Italia. L’Italia vive da qualche anno un processo di marginalizzazione crescente. Cioè: sta scivolando al margine (e finora su quel margine non ha trovato la carica diversamente positiva che, ad esempio, nelle prospettive di Magris si potrebbe costruire anche «al margine»).
Se ho qualcosa da rimproverare ai due autori è di non aver inserito nelle loro potenziali tabelle di valutazione (forse qualche accenno solo nel capitolo Margine, povertà e dissenso del libro di Magris) il più gigantesco processo di marginalizzazione che abbia riguardato l’Italia nel corso degli ultimi cinquant’anni, e cioè quello sperimentato e vissuto dalla sua classe operaia, processo perseguito con implacabile perseveranza e in taluni casi una dose molto elevata di ferocia: dall’innegabile centralità degli anni Sessanta – fatta di forza e presenza politica e sociale – alla condizione appartata e spesso subalterna, in continua discussione e ridiscussione, di oggi.
È un esempio di cosa significhi stare dentro il flusso delle scelte e degli eventi, e spesso rendersene poco conto, o niente. La mia opinione è che la crescente marginalizzazione della classe operaia – che, in altri termini, giustifica e incrementa la crescente marginalizzazione del lavoro in quanto tale, nei suoi vari aspetti, sia economici sia culturali – determini e spieghi la crescente marginalizzazione dell’Italia rispetto al resto del mondo. Ma è ovvio che di questo si dovrebbe discutere.
Mi piacerebbe davvero discuterne, se avessi la forza di farlo. Soprattutto su due questioni: l'una teorica, l'altra pratica. (1) Se non ci si rinchiude in una logica capitalistica è giusto ridurre il concetto di "lavoro" a quello di "lavoro operaio"?. A me sembra di no. Se avessi ragione occorrerebbe poi domandarsi: (2) Se la crescente marginalizzazione della classe operaia fosse inarrestabile, non esistono altri "margini" suscettibili (ove acquistino coscienza di sé) di svolgere nel XXI secolo il ruolo svolto nei secoli precedenti dalla classe operaia? (e.s.)
«Parla Marco Revelli, intellettuale de L’Altra Europa con Tsipras: l’Europa o cambia o muore. E da novembre una nuova “casa” della sinistra in Italia». un'intervista di Luigi Pandolfi.
Linkiesta, giornale online, 15 agosto 2015
Intervista a Marco Revelli, docente di Scienza della politica all’Università del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro”, promotore, insieme ad altri intellettuali, alle scorse elezioni europee della lista L’Altra Europa con Tsipras, di cui oggi è tra gli esponenti di maggiore spicco, parliamo di ciò che si muove alla sinistra del PD e delle prospettive di una nuova sinistra in Italia.
Professor Revelli, in molti Paesi europei, soprattutto della periferia, la crisi sta producendo significative trasformazioni in ambito politico, oltre che in campo economico e sociale. A sinistra, in particolare, si affermano nuove soggettività politiche che, con diverse sfumature, mettono in discussione l’attuale governance comunitaria e gli assetti di potere che vi corrispondono. E in Italia?«È vero. Mentre in altri Paesi mediterranei, in particolare in Grecia ma anche in Spagna, la crisi ha prodotto una palingenesi a sinistra con l’emergere di "sinistre nuove" a vocazione maggioritaria e radicalmente innovative, in Italia il processo è stato finora asfittico e bloccato. È una sorta di rovesciamento storico: la sinistra italiana che ha costituito a lungo, dagli anni ’60 in poi, una sorta di caso di scuola per molti Paesi, appare invece oggi come il vagone di coda, il grande atteso che non arriva mai. Qui gli effetti politici della crisi si sono scaricati piuttosto nella genesi di una serie di populismi che occupano in forma preponderante il quadro politico: non solo il populismo nazional-xenofobodi destra della Lega di Matteo Salvini, ma anche quello trasversale e "guardiano" di Grillo e Casaleggio e, specificità italiana, il populismo "di governo" di Matteo Renzi. In particolare questi ultimi due hanno contribuito in modo preponderante a togliere terreno a un possibile processo di costruzione di una credibile alternativa di massa e maggioritaria a sinistra, il primo sottraendole l’elettorato più ostile alle tradizionali oligarchie politiche e più sensibile alla radicalità della protesta, il secondo bloccando, almeno temporaneamente, il processo dissolutivo del Partito democratico avviatosi dopo le elezioni politiche del 2013, con l’immagine di una sua radicale mutazione. Il risultato è la sostanziale assenza di una credibile proposta di sinistra nel pieno della crisi italiana, e quando dico credibile intendo capace di innovazione - nel linguaggio e nello stile, nel modello organizzativo, e nelle idee - e di forza».
Viste le esperienze del passato, sarà sufficiente mettere insieme ciò che rimane della sinistra politica italiana, con l’aggiunta dei fuoriusciti del Pd, per realizzare l’impresa della costruzione di un nuovo soggetto capace di coniugare radicalità e ambizione di governo?
«Sufficiente sicuramente no. Necessario, certo; ma non sufficiente. La sinistra politica italiana ha dato negli ultimi anni prove di sé troppo sconfortanti per potersi presentare oggi come credibile forza di alternativa. La frammentazione dei suoi soggetti organizzati e dei suoi gruppi dirigenti ha prodotto un moto di rigetto nell’elettorato di sinistra difficile da superare. L’impotenza e l’incapacità di resistere a una lunga serie di aggressioni alle condizioni di vita materiali e ai diritti del proprio insediamento sociale - le sconfitte, diciamolo pure, talune subite senza neppure riuscire a combattere - ne hanno minato la credibilità. La pigrizia nell’innovazione del linguaggio e nell’analisi delle vere e proprie mutazioni genetiche sul piano sociale e politico hanno fatto il resto. Esiste, certo, un buon numero di militanti dalle qualità umane e politiche indubitabili, e di quadri e dirigenti dalle competenze preziose, ma senza un contesto organizzativo e una cultura politica tali da segnare una netta discontinuità con le esperienza del passato non credo che potranno incidere sui grandi processi in corso. Per questo resto convinto che il processo di unificazione di quanto di organizzato esiste alla sinistra del Pd sia oggi, come ho detto, una condizione necessaria - tanto necessaria da richiedere tutto lo sforzo e la pazienza possibili - ma non sufficiente per fare ciò che la crisi ci richiede di fare.
«Necessaria perché la frammentazione rimane il principale fattore che distrugge la credibilità e genera discredito. Un’ennesima riproposizione di più liste autoproclamantisi di sinistra a una qualsiasi nuova elezione sarebbe di per sé letale. Ma non sufficiente perché senza un segnale chiaro di "nuovo inizio", senza un’innovazione radicale nel linguaggio, nel modo di stare tra la gente facendola sentire "la propria gente", con cui si condivide sofferenza e destino, senza, diciamolo, un ricambio generazionale, quello che chiamiamo il "processo costituente" fallirebbe in partenza. Non farebbe che riproporre l’immagine di una "sinistra senza popolo" circondata da "populismi senza sinistra"».
Quanto conta la questione della leadership in questo progetto?
«Non sottovaluto il ruolo della leadership. Soprattutto della leadership collettiva: quello che un tempo si chiamava "la formazione del gruppo dirigente". Ma anche di quella individuale: l’esistenza di figure-simbolo che nella propria biografia e persino nella propria immagine comunicano messaggi sintetici sulla natura della forza che rappresentano e a cui danno voce, è diventata un fattore strutturale in una sfera politica fagocitata da quella mediatica. Alexis Tsipras in Grecia, Pablo Iglesias in Spagna ci dicono qualcosa in questo senso. Penso però che la questione della leadership segua quella del processo, dello stile, dei valori e della cultura politica qualificanti per un soggetto politico, anziché precederla. Se si partisse dalla leadeship individuale anziché dal corpo collettivo si cadrebbe nell’errore che si intende combattere. Se ci sono le condizioni per la costituzione del soggetto politico non sarà difficile trovare le figure che lo rappresentan»o.
L’esito della trattativa tra Atene ed i suoi “creditori”, ha dimostrato che non basta la “ragionevolezza” per imporre un cambio di paradigma in Europa. Più precisamente, cosa lascia in eredità questa vicenda? Quale la lezione per la sinistra?
«La notte tra il 13 e il 14 luglio resterà a lungo uno spartiacque politico nella vicenda europea. Allora si è dimostrato in modo brutale che l’Unione Europea - questa Unione Europea - è purtroppo incompatibile con la democrazia e con l’esistenza di una sinistra degna di questo nome. Questo è il grande merito del governo greco e della linea seguita da Alexis Tsipras: aver mostrato l’Europa così come è. L’Europa reale, a dominanza tedesca, chiusa nel dogma neo-liberista eretto a Nomos così come l’“ordoliberismus" germanico l’intende, gabbia di ferro che fa dei rapporti di forza economici la chiave del’ordine politico. Più che di una "questione greca" la lunga trattativa con Atene ha rivelato l’esistenza di una enorme "questione europea" e, dentro a questa, di una gigantesca "questione tedesca"».
Perché vede una “questione europea”?
«Perché l’Europa così come si è rivelata non può sopravvivere alle proprie contraddizioni. Senza immaginare un meccanismo di governo e di compensazione dei differenziali di produttività tra i diversi Paesi e le diverse macro aree, la moneta unica finisce per funzionare come un dispositivo distruttivo delle società periferiche e della coesione politica inter statale. Senza un ridimensionamento del potere tedesco nelle e sulle istituzioni europee una qualunque logica confederativa non può reggere, e l’Europa tornerà a essere la torre di Babele che fu, spazio genetico di rapporti di dominio-subordinazione o campo di battaglia per conflittualità distruttive.
«Vorrei dire di più: senza una dura lotta per mutare i cattivi sentimenti che si sono diffusi in Germania, non solo in una parte molto ampia di ceto politico ma anche a livello popolare – il senso di superiorità e di perfezione teutonica, l’uso del meccanismo perverso della colpa e della grazia con cui dispensare punizioni e meriti, l’ottusità direttamente proporzionale alla disciplina nella visione della complessità del contesto e la pulsione a ridurre tale complessità con l’uso della forza, militare o finanziaria: tutto ciò che ha portato i tedeschi più volte a distruggere se stessi e l’Europa con loro -, senza questo, dicevo, è difficile immaginare un futuro comune. Ma per fare tutto ciò è necessaria una soggettività politica organizzata nello spazio europeo, con una cultura e un raggio d’azione trans-nazionale, determinata, colta, intelligente, dotata di senso della storia e di valori adeguati, capace di radicamento popolare e di linguaggio nuovo».
In questi giorni, si discute molto della “riformabilità” o meno dell’Europa. Qual è la sua opinione al riguardo?
«Mi ripeto. L’Europa rivelatasi nei giorni decisivi della “crisi greca” – l’Europa dell’Eurogruppo, di Juncker, di Schäuble, di Martin Schulz, dei cristiani sociali bavaresi ma anche dei socialdemocratici berlinesi e dei gelidi guardiani delle regole danesi o finlandesi, con il supporto dei fascisti ungheresi (contro cui nessuno si è mai sognato di muovere un dito, fosse solo per ammonire) -, non appare riformabile. Ma quell’Europa non può durare. È destinata a crollare da sé, sotto il peso delle proprie stesse contraddizioni. Per questo dico che c’è una questione e una crisi europea, più che una questione e una crisi greca. L’Europa – l’abbiamo scritto nel nostro documento de L’Altra Europa – o cambia o muore».
«Per questo è così importante l’insegnamento del governo greco e di Alexis Tsipras: perché si propone di salvare l’Europa da se stessa. Di permetterle di sopravvivere, cambiandola radicalmente. È velleitario? Utopistico? Può darsi. Può darsi che non ci sia più nulla da fare e che l’egoismo intrecciato alla stupidità dei ceti dirigenti e dominanti europei porti al disfacimento. Soprattutto se la Grecia continuerà a rimanere sola, come lo è stata in questo passaggio. Se invece il contagio avverrà, almeno sull’asse mediterraneo, allora credo che si potrebbe giocare una bella partita».
Torniamo in Italia e alla costruzione del nuovo soggetto della sinistra. Qual è la road map dei prossimi mesi?
«Qualcosa è successo, nelle ultime settimane prima delle ferie. La consapevolezza da parte praticamente di tutte le componenti della frammentata sinistra italiana che senza un processo costituente nessuno si salva ha prodotto almeno un embrione di road map.
«Già all’inizio di settembre sarà annunciata una serie di appuntamenti, sia a livello territoriale che a livello centrale, con un punto di arrivo: una tre giorni nella prima settimana di novembre, in cui definire in pubblico il profilo di una nuova soggettività unitaria – quella che noi chiamiamo la “casa comune della sinistra e dei democratici” e che ognuno potrà battezzare come crede ma che dice la medesima cosa: che non ci sarà più una sinistra dispersa. In mezzo, nel bimestre settembre-ottobre, l’invito è a organizzare il più ampio numero possibile di assemblee e di incontri “di territorio”, alcuni dei quali sono già stati annunciati nell’assemblea congiunta dei parlamentari che si riconoscono in questa esigenza di unitarietà (si è parlato di 200 incontri), altri si aggiungeranno con lo scopo di rendere la discussione la più partecipata possibile e di evitare che il processo costituente sia un mero assemblaggio “dall’alto”.
«Gruppi di lavoro sono già previsti, per “istruire” sia le problematiche politiche che gli aspetti cosiddetti “tecnici”, come quello della “piattaforma telematica”… Contemporaneamente sarà necessario stare nei conflitti sociali e politici che il governo Renzi non manca di offrire: la lotta contro la scuola renziana, che si riproporrà all’apertura, quella contro i tagli sconsiderati alla sanità, le lotte del lavoro, la difesa della democrazia contro l’autoritarismo della riforma costituzionale. E naturalmente il fronte referendario, a cui dare la massima energia».
Il decalogo del manifesto suggerendo alcuni nodi che impediscono il decollo di una nuova sinistra ci chiama ad intervenire dove ci sono carenze di analisi da colmare o punti di vista diversi da avvicinare. Al punto 6 tre domande da brivido: Chi sono oggi i lavoratori? Cosa è il lavoro? Come e quanto viene riconosciuto? Il solo fatto di porle significa riconoscere che la crisi investe le ragioni fondative del nostro essere. Ed infatti è cambiato tutto.
«La mutazione antropologica. Bisognerebbe raccogliere i cocci dello sviluppo e con quelle macerie iniziare a costruire nuove architetture come si faceva con le cattedrali gotiche».
Il manifesto, 13 agosto 2015
Che ci sia (o meglio, che ci potrebbe essere) “vita a sinistra” è quasi “naturale” considerato come va il mondo, ovvero verso una rotta di collisione inevitabile con l’ambiente, la povertà diffusa, l’esodo inevitabile di masse enormi di popolazione dai territori devastati da guerre, carestie, siccità. Ma rimanendo alle disgraziate sorti italiche, se poco poco si ascoltano i rappresentanti delle giovani generazioni, si ha la sensazione che nessuno creda più a una qualche possibilità collettiva di riscatto, di alternativa.
Circolano perfino mitologie antropologiche sulla dannazione della specie umana, come a dire: l’uomo è fatto così, le guerre sono inevitabili, la povertà di molti è necessaria al funzionamento dell’economia. Basta osservare, per convincersi della diffusione di questo virus, l’atteggiamento di tante (troppe) persone qualunque nei riguardi degli esodi di massa dai paesi che si affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo: non possiamo accoglierli tutti — si dice nel migliore dei casi -, finiremmo col diventare come loro, ci rubano il lavoro (che non c’è). E poi ancora, a me sgomenta il fatto che il Papa venga oscurato; i suoi messaggi compaiono come trafiletti nei media nazionale; quelli internazionali neppure lo citano: non era mai successo in passato. C’è di che rassegnarsi a una estinzione di massa per asfissia culturale, per impotenza politica, per disperazione. “Speriamo che io me la cavo” sembra essere il motto delle nuove generazioni. Non può certo stupire il successo di Renzi: è pur sempre meglio credere alla befana che rassegnarsi alla cruda realtà che costei non esista.
E a vedere i telegiornali il quadro si incupisce ancora di più: beghe condominiali, litigi personali, leaderismo occupano l’intero spazio politico, quello dal quale dovrebbe nascere il progetto di futuro. Ha ragione Bevilacqua a dire (il manifesto dell’8 agosto) che la sinistra è oggi una testa senza gambe. Le gambe, quando ci sono, camminano da sole senza testa, e la testa ancora non si accorge di non avere le gambe, o forse più cinicamente pensa di non averne più bisogno come in quei romanzi di fantascienza dove si parla di immaginarie menti senza l’ingombro del corpo che partoriscono pensieri e comandi. Questo il punto cruciale all’ordine del giorno della politica.
Così come ha ragione Michele Prospero (il manifesto del 4 agosto) a dire che la minoranza Pd, piaccia o no, è molto utile al gioco del partito della nazione fornendo la sua maldestra stampella all’esercito dei vincenti. Chi mai, tra i giovani (e anche tra i non giovani) può credere ad essa? Se vogliamo continuare con i tentativi di suicidio, facciamo pure un nuovo partito, inventiamoci un nuovo leader per avere l’illusione di esistere ancora. Tutto ciò che resta dell’attuale sinistra non è più credibile agli occhi di nessuno, quando essa non viene addirittura ritenuta la responsabile degli attuali guai nostrani per averci illuso – e ingannato — che esisteva un altro mondo diverso da questo.
Per esperienza personale posso citare la questione drammatica dell’università. Tra i vecchi docenti impegnati, molti hanno fatto domanda di pensionamento anticipato, altri, pur restando, vivono in solitudine senza impegno a curare i propri (legittimi) interessi di ricerca. Un’intera classe dirigente ha dato forfait: chi può scappa, chi rimane tace diffidando dell’impegno politico, mentre l’ideologia liberista meritocratica si diffonde alla velocità della luce attraverso il disbrigo quotidiano di schede da riempire e valutazioni da fare per dimostrare di essere i “migliori” e accedere alle graduatorie nazionali e internazionali. Se vuoi avere successo parla pure in italiano (ancora è consentito) ma scrivi in inglese e su riviste che sono accreditate da improponibili agenzie di valutazione pagate a peso d’oro dalle istituzioni. Un intero sistema formativo essenziale per lo sviluppo del paese è stato smantellato nel giro di pochi anni e ancor di più minaccia di esserlo prossimamente.
Servirebbe, come è successo a L’Aquila, un popolo delle carriole che cominci a raccogliere i cocci dello sviluppo e con quelle macerie iniziare a costruire nuove architetture come si faceva con le cattedrali gotiche, quando ancora la figura dell’Architetto non era nata. C’erano però i Mastri che con la loro sapienza guidavano i lavori, inventando di volta in volta e collettivamente le forme e le soluzioni tecniche quando comparivano problemi. Bisognerebbe che poi le carriole, con il loro corredo di rovine, confluissero verso una stessa direzione anziché andarsene a spasso ognuna per suo conto.
In un altro mondo, quello che noi vorremmo, a quello sconosciuto migrante che ha attraversato a piedi il tunnel sotto La Manica sfidando cavi ad alta tensione e treni ad alta velocità, avremmo attribuito una medaglia d’oro: è lui il vero maratoneta delle Olimpiadi greche. La risposta di Francia e Inghilterra è stata: ma dov’è la falla nei nostri sistemi di sicurezza?
«L’indeterminatezza della parola sinistra che consente al renzismo di rivendicarla deve spingerci a declinarla in modo nuovo: non siamo "più a sinistra", siamo "diversi"». Il manifesto, 13 agosto 2015, con postilla
Ai molti aspetti paradossali che contraddistinguono la sfera politica in Italia, possiamo aggiungere un altro paradosso che riguarda direttamente l’oggetto su cui Norma Rangeri ci ha invitato a discutere. Quanto più la «sinistra» diventa inconoscibile nelle «cose» tanto più estende i suoi confini nelle «parole».
A «sinistra del Pd» si stanno aprendo vastissimi spazi per la «sinistra». Con formulazioni appena un po’ differenti, frasi di tal genere vengono costantemente ripetute anche sulle colonne di questo giornale. Lo si dice ormai da tanto tempo, ma lo stato di cose presente ci prova in maniera difficilmente controvertibile quanto grande sia la differenza tra affermazioni desideranti e realtà effettuale. Comunque non è senza interesse chiedersi quale sia il modo con cui è possibile intendere il termine «sinistra».
Probabilmente la maggioranza di coloro che si sentono impegnati nella costruzione della cosiddetta «casa comune» ritiene che la «sinistra» in fieri, quella che dovrà occupare gli spazi lasciati liberi dal Pd, sia la sola legittimata all’uso di quel termine. Ci sono però anche coloro che pensano ad un soggetto politico «a sinistra» del Pd. C’è poi il Pd che ha riscoperto il valore nella comunicazione (nella propaganda cioè) di una parola dalla quale, proprio nel suo momento fondante, aveva invece teso a sottolineare la distanza. Ricordiamo bene Veltroni, fondatore e primo segretario, definire la nuova ragione del partito con espressione di radicale chiarezza. A chi gli faceva notare che ormai egli non pronunciava più «la palabra izquierda», rispondeva : «Es que somos reformistas, no de izquierdas» («El País», 1/03/2008). Ora Veltroni ha riscoperto la «parola», così come il suo creativo epigono Renzi.
Naturalmente, trattandosi di pura comunicazione/propaganda, la «parola» deve fluttuare nell’aria, non avere alcun peso ed alcuna radice nelle «cose». Sinistra è «cambiamento», sinistra è «fare», come diceva compulsivamente Berlusconi, al massimo sinistra è un flebile richiamo ai sempiterni valori. Talmente sempiterni che, prescindendo da qualsivoglia dimensione storico-analitica dei concreti rapporti economici e sociali, possono andar bene per tutti.
Proprio per questo lo «sdoganamento» (così ha titolato «la Repubblica») veltron-renziano del termine «sinistra» è semplicemente funzione del mercato elettorale. Funzione efficace peraltro perché a) richiama una tradizione di lungo periodo i cui effetti di trascinamento non sono certo esauriti; b) sposta il confronto con qualsiasi altro soggetto che voglia definirsi di sinistra su un piano esclusivamente assiale.
La collocazione sulla dimensione assiale, essendo le denominazioni politiche strumenti di battaglia, non è la conseguenza di una tecnica naturale, ma degli esiti di lotte politiche e culturali. Per questo tali collocazioni si ridefiniscono continuamente e vanno valutate come sintomi di processi in corso, del tutto esterni rispetto a qualsiasi criterio di oggettività. È evidente, quindi, il vantaggio del Pd che, restando sul piano assiale, può competere con un forza che si colloca inevitabilmente «più a sinistra». E il «più a sinistra» è il luogo di tutte le forme di «estremismo», è il luogo del «più uno».
L’espressione «quelli del più uno» veniva usata dal sindacato (Fiom) e dal Pci di Piombino, la città-fabbrica dove è avvenuta la mia prima formazione politica. La città fabbrica dove, per un periodo non breve, la realtà della direzione operaia ha coinciso con le ipotesi formulate negli scritti dei nostri classici. Veniva usata nei confronti dei «gruppuscoli», che dopo ogni lotta e dopo il successivo accordo, e nei primi anni Settanta gli accordi erano sempre favorevoli ai «produttori», ai siderurgici, si presentavano ai cancelli della grande fabbrica insistendo sull’insufficienza di quegli accordi, sulla scarsa radicalità delle lotte. Quelli del «più uno», appunto.
In un asse dove è collocata una forza di establishment che si definisce come «sinistra» e così viene definita dalla stragrande maggioranza dei media, la contemporanea presenza di una forza «più a sinistra», indipendentemente dalle prassi politiche reali, finisce inevitabilmente per ripresentare quella stessa dinamica.
Certamente è la parola «sinistra» ad avere assunto, ed ormai da lungo tempo, una tale indeterminatezza semantica da permettere qualsivoglia scorreria propagandistica. Un breve intervento non è la sede per discutere della continuità o meno del suo uso nel processo in corso. D’altra parte quello che appare logicamente giusto assai spesso non lo è nei processi di realtà. Ciò che, però, dobbiamo del tutto evitare è qualsiasi riferimento ad un posizionamento «più a sinistra» del Pd.
Karl Polany ha affermato: «Il socialismo è essenzialmente la tendenza inerente ad una civiltà industriale a superare il mercato autoregolato subordinandolo consapevolmente ad una società democratica» (“La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca”, 1944). Se questa conclusione della lunga analisi di Polany, diventa il minimo comun denominatore di tutte le forze impegnate nella costruzione della «casa comune», ecco che la collocazione assiale cessa di avere senso. Non si tratta di essere «più a sinistra», bensì di fare un salto qualitativo, di essere «diversi».
In fondo il problema della «diversità» è tutto qui. Il prius della diversità, anche quella di Berlinguer, non stava nell’etica, nell’antropologia, stava in una concezione della politica e degli obbiettivi della politica.
Affermare una teoria e una prassi che tendono a subordinare il «mercato autoregolato» alla società «democratica» è compito che condiziona tutti gli ambiti della politica, tutta la sfera dei diritti ed anche la sfera dei valori. Il riferimento ai «valori», infatti, ha senso solo all’interno di una precisa concretezza analitica. Frutto, cioè, di una considerazione dei «valori» come dimensione non separata dalla concezione del rapporto tra democrazia e forme del capitale indicato da Polany.
Tutto ciò è di sinistra?
postilla
Nomina sunt consequentia rerum. "Sinistra" è parola che esprime contenuti otto-novecenteschi. Forse varrebbe la pena di iniziare la riflessione su quale fosse la realtà (sociale, economica, ideologica) che in quei secoli (in quelle fasi del capitalismo) allora la parola "sinistra" esprimeva, e quale quella che vogliamo che sia espressa oggi da un nuovo soggetto politico che rappresenti oggi la "diversità".
«In Europa abbiamo perso il valore della fraternità, valore generato dal cristianesimo e conquistato anche a livello politico nella modernità. Siamo tutti fratelli perché tutti esseri umani e come tali portatori di diritti che, nella loro stessa definizione, sono quelli “dell’uomo”. Noi invece siamo giunti a considerarli tali solo per i “cittadini”».
La Repubblica, 13 agosto 2015
Eppure, con il fenomeno dell’immigrazione siamo di fronte a un paradosso simile: chi ha responsabilità di governo e chi dall’opposizione confida di averne a breve continua a parlare di “emergenza” per un fenomeno che ormai risale ad almeno una ventina d’anni — o abbiamo già dimenticato le navi stracolme di albanesi che approdavano in Puglia? — e a latitare in azioni politiche a medio e lungo termine, confidando che il tessuto sociale e le reti della solidarietà umana suppliscano alle loro carenze. La chiesa e molti cristiani — realtà ben più ampia sia della Cei che del Vaticano — sono da sempre in prima linea in questa carità attiva sul territorio e cercano di porsi di fronte all’umanità ferita senza chiedere passaporti né badare a identità etniche o culturali. Eppure quando si occupano dei poveri di cittadinanza italiana passano inosservati, come se la loro azione fosse dovuta e scontata, mentre quando si chinano su fratelli e sorelle in umanità di altri popoli e paesi, vengono sprezzantemente invitati a farsi carico dei disoccupati di “casa nostra”.
Purtroppo in Europa abbiamo perso il valore della fraternità, valore generato dal cristianesimo e conquistato anche a livello politico nella modernità. Siamo tutti fratelli perché tutti esseri umani e come tali portatori di diritti che, nella loro stessa definizione, sono quelli “dell’uomo”. Noi invece siamo giunti a considerarli tali solo per i “cittadini”, escludendone gli “stranieri” come se non ne fossero degni. Sì, quando la fraternità viene meno, cresce la paura dello straniero, dello sconosciuto, del diverso: una paura che va presa sul serio ma che non va alimentata per farne uno strumento di propaganda politica. Va invece razionalizzata, contenuta e placata con un’autentica governance dell’immigrazione, con un volontà fattiva di collaborazione con i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, con una politica che sappia interagire con i Paesi da cui hanno origine i flussi più intensi di emigrazione. Certo, non possiamo accogliere tutti, ma la solidarietà umana ci spinge a superare i limiti delle nostre comodità e ad accogliere l’altro per quello che siamo capaci, senza innalzare muri.
Questa “emergenza” non è tale: è un fenomeno che durerà a lungo ed è contenibile nei suoi effetti solo con uno sforzo di solidarietà. La sua portata, del resto, è tale che mette in crisi ogni tentativo di respingerlo con la forza. L’Europa sembra in piena confusione, non più sicura dei suoi valori umanistici, delle sue lotte secolari per il riconoscimento dei diritti di ogni essere umano, in qualsiasi situazione si trovi. Ritrovare questi principi decisivi non è questione solo cristiana, è innanzitutto umana e, proprio per questo, cristiana: l’accoglienza è una responsabilità umana perché l’altro è uguale a me in dignità e diritti.
Su queste tematiche a volte la chiesa suscita ostilità quando parla e agisce con la parresia dei profeti e di Gesù di Nazareth. Il Vangelo per molti sarà utopia irrealizzabile, ma non pone condizioni o limiti al comandamento di servire affamati, assetati, stranieri, carcerati, ignudi, ammalati… Parla invece di “farsi prossimo”, di andare incontro a chi è nel bisogno, fino al paradosso di “amare i nemici”. Queste esigenze radicali poste da Gesù possono dar fastidio a molti, ma chi professa di essere suo discepolo non può fare a meno di sentirle come appelli ineludibili rivolti proprio a se stesso. Il cristiano si saprà sempre inadeguato nel mettere in pratica queste parole, sovente dovrà riconoscere che il proprio comportamento quotidiano le contraddice, ma non potrà mai accettare che carità fraterna, solidarietà, accoglienza siano variabili da sottomettere alle necessità della realpolitik.
Così un cristiano, di fronte al dramma di milioni di esseri umani vittime della guerra, della fame, della violenza, della cecità anonima della finanza e del mercato, della “politica” di potere, proverà vergogna per non riuscire a far nulla nemmeno per quelle poche migliaia di disgraziati che giungono fino al suo Paese, ma non potrà tacere e non gridare “vergogna” a chi chiude gli occhi di fronte al proprio fratello in umanità che soffre e muore, tanto più se chi si astiene dall’agire ha responsabilità, onori e oneri di governo.
Sì, come ha detto papa Francesco, «respingere gli immigrati è un atto di guerra!». Questo non è un proclama politico: piaccia o meno, è un grido di umanità.
Priore della comunità monastica di Bose
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Quando la fraternità viene meno cresce la paura dello straniero, dello sconosciuto, del diverso Va razionalizzata
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L’accoglienza è una responsabilità umana perché l’altro è uguale a me in dignità e diritti
Napolitano risponde sulla riforma costituzionale a Scalfari (La Repubblica, 9 agosto) dichiarando essenziale che non vi siano «due istituzioni rappresentative della generalità dei cittadini, sottraendo al senato solo (e a quel punto insostenibilmente!) il potere di dare la fiducia al governo». In breve, il senato di seconda scelta è cardine indispensabile della riforma. Non siamo e non saremo d’accordo, per molteplici motivi.
Intervista alla costituzionalista Lorenza Carlassare: si sta neutralizzando il popolo, cioè la fonte che legittima il potere. Qui tutto mira a indebolire la forza degli altri poteri in favore dell’esecutivo.».
Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2015 (m.p.r.)
Proviamo a metterci nei panni dei profughi e a ragionare con rigore e immaginazione; potremo finalmente comprendere quale potrebbe essere un futuro positivo per l'Europa. L'autore ci riesce. Il manifesto, 7 agosto 2015
Immaginate di essere uno dei profughi accatastati a Calais, all’ingresso dell’Eurotunnel, e che ogni notte cercate di attraversarlo infilandovi sotto il rimorchio di un camion, per venirne ogni volta respinti. Oppure un migrante imboscato ai confini di Melilla in attesa di trovare il modo di scavalcare la rete che vi impedisce di entrare in Spagna. O un profugo siriano o afghano in marcia attraverso le strade secondarie della Serbia con quel che resta della sua famiglia che non sa ancora che ai confini con l’Ungheria troverà una rete a impedirgli di varcare il confine. O un eritreo imbarcato a forza, dopo mesi di attesa e violenze, nella stiva di una carretta del mare, che sa già che forse affonderà con quella, ma non ha altra scelta. O una donna aggrappata con i suoi figli agli scogli di Ventimiglia.
E’ un esercizio dell’immaginazione difficile e i risultati sono comunque parziali. Ma bisogna cercare lo stesso di farlo, perché “mettersi nei panni degli altri” serve sia a dare basi concrete a solidarietà e convivenza, sia a capire un po’ meglio dove va il mondo. Per lo stesso motivo è utile provare a immaginare che cosa passa nella testa (vuota) di uno come Dijsselblöm o in quella (troppo piena) di uno come Schäuble per cercare di “comprendere” meglio dove va l’Europa. Non che, in entrambi i casi, questo esercizio sia di per sé sufficiente; ma è anche vero che nelle cose di cui parliamo o scriviamo è troppo spesso assente questo risvolto, questo lavorìo dell’immaginazione.
«Resta valido l'obiettivo dell'integrazione ma la stanchezza sembra prevalere. Ricordiamo le parole di Péguy: la speranza è la più grande virtù».
Corriere della Sera, 6 agosto 2015 (m.p.r.)
Alcuni mesi fa ho chiesto a un mio amico, funzionario dell’Unione Europea e da tempo impegnato nella commissione Difesa, se esiste un esercito europeo. Sì, mi ha risposto. Ma mezzo minuto dopo ha aggiunto: No. Probabilmente avrà pensato al lambiccato groviglio di suddivisioni di compiti e funzioni - in ogni settore - tra i vari Stati, alle alternanze di gerarchie, ai bilancini di competenze, ai paralizzanti codicilli miranti a impossibili equilibri perfetti tra le singole componenti. Tutto ciò, per quel che riguarda l’organizzazione militare, gli sembrava troppo diverso da quello che deve essere un esercito, formato, nel caso sciagurato di una guerra, per agire in quest’ultima con rapidità, efficacia e determinazione. Alcune buone prove date in occasione di interventi delle forze armate, a cominciare da quelle italiane, non bastano per poter parlare di un esercito europeo, come si parla invece di esercito inglese, francese o americano. È vero che le nuove modalità dei conflitti mettono in difficoltà pure gli eserciti veri e propri, come dimostra la guerra nell’Afghanistan, che sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale.
...(continua a leggere)
Del fitto decalogo che Norma Rangeri ha proposto alla discussione pubblica privilegerei solo pochi temi, ma tutti curvati ai bisogni fondativi di quell' organismo politico cui la sinistra aspira da tempo.
E tuttavia partendo da una considerazione generale.Non pochi si stupiscono, che proprio in Italia, malgrado i ripetuti tentativi, non riesca a prender forma una forza politica di sinistra simile a Syriza o a Podemos. Si stupiscono che ciò accada proprio nel Paese che ha visto nascere e prosperare il maggiore partito comunista dell 'Occidente. E invece proprio in questa storia, in questo passato di successo, si trova almeno una ragione delle presenti e sinora sovrastanti difficoltà. Più grandi e sontuosi sono i monumenti, più ingombranti le macerie che il loro crollo dissemina. Da noi, a sinistra, non c'è uno spazio vuoto in cui edificare. Ci sono i resti del PCI, gruppi dirigenti che sopravvivono alla sua storia dentro il PD e che da riformatori moderati conservano legami di consenso con settori popolari e di ceto medio della società italiana. Gruppi che oggi stemperano il neoliberismo riverniciato e senza prospettive del governo Renzi. Poi ci sono i tronconi sopravvissuti alle scissioni multiple: SEl, Rifondazione comunista, quel che resta de L'altra Europa con Tsipras e altre formazioni più o meno pulviscolari. Infine la galassia dei movimenti e delle associazioni con i loro leader.
Se dovessi condensare la situazione presente in una immagine, ricorrerei alla metafora che gli illuministi meridionali del XVIII secolo utilizzarono per rappresentare Napoli nel territorio del Regno: una grande testa su un corpo fragile. La sinistra politica italiana è tutta testa e quasi priva di corpo. E' una costellazione di dirigenti e di gruppi intellettuali senza popolo. Si tratta di un grande patrimonio che nessun Paese d'Europa, forse neppure la Francia, oggi può vantare, ma che rischia di esaurire la propria azione in un'opera di impotente testimonianza. E' evidente, dunque, che se tutti sono dirigenti essi portano oggi una responsabilità enorme. Ad essi spetta fare le mosse, prendere le iniziative che possono aggregare le forze, trovare il cammino dell'unità, capace di rovesciare l'attuale dispersione in un aggregato largo e potente.
Ora sono almeno due i problemi fondamentali che questi gruppi dirigenti ormai consapevoli della situazione drammatica cui siamo giunti, in Italia e nel mondo, debbono affrontare. Uno riguarda la necessità di dare gambe robuste alla grande testa, in maniera di consentire non solo al corpo di camminare, ma alla testa stessa di pensare in maniera adeguata alle sfide presenti. C'è un unico modo di munire la testa di gambe, che è quello di andarsele a cercare. Esiste in Italia una questione più grave della condizione giovanile? Disoccupazione al 44%, precariato, lavoro in nero, gratuito, aumento delle tasse universitarie, sbarramento degli accessi, decurtazione delle borse di studio, ecc.Ma non basta gridare contro le precarietà.Occorre andare dove essa si genera, parlare con i lavoratori , farsi raccontare i loro problemi, ascoltare le loro idee. La proposta del reddito minimo o di cittadinanza, che io chiamerei il reddito di dignità, è arrivata nelle commissioni del Parlamento. Ma i dirigenti sono mai andati nelle scuole, nelle Università, nei luoghi pubblici a spiegare le ragioni della proposta? Eppure non solo è indispensabile mobilitare i soggetti sociali interessati per vincere questa battaglia, è anche necessario conquistare alla militanza forze giovani, in grado di dare nuove energie alla lotta politica. Almeno un paio di generazioni sono state annichilite dal modello capitalistico che domina da trent'anni. Le lasciamo nel loro limbo, oppure offriamo loro almeno una prospettiva politica?
Questo bagno sociale dei dirigenti si rende necessario per un'altra ragione. Essi debbono sapere che non basta dire “cose di sinistra” per ottenere consenso. Anche i dirigenti di sinistra oggi sono percepiti dalla grande maggioranza degli italiani come membri del numeroso esercito del ceto politico, con gli stessi privilegi, ma con l'aggravante di essere deboli e minoritari. Non importa la loro storia, il loro personale disinteresse.E' così.Occorre dunque che essi compiano tutte le operazioni necessarie per liberarsi di questa ingombrante divisa che li fa somigliare a tutti gli altri.
L'altro grande problema da affrontare riguarda la costruzione e il mantenimento dell'unità della dirigenza in presenza di una così marcata difformità, di posizioni,vedute, storie personali, ecc In questo nodo si concentra la nostra più grande sfida, decisiva per uscire dall'impotenza a cui sembriamo condannati. Occorre non soltanto organizzare un gruppo dirigente trasparente e controllabile dalla base, capace di ascoltare le voci che vengono dal basso, ma trovare soprattutto il modo di far coesistere il dissenso interno con le scelte della maggioranza. Discussione, decisione, ma anche condivisione del progetto unitario anche da parte di chi dissente. Un tempo tale risultato si otteneva – ad esempio nel vecchio PCI, che ereditava in parte il modello leninista – con la disciplina del cosiddetto centralismo democratico, grazie al collante semireligioso dell'ideologia, ma anche, diciamo la verità, in virtù di quell'amalgama di autoritarismo burocratico e passività conformistica dei militanti che caratterizzava in genere i partiti di massa.
Oggi questo non è più possibile. Ogni testa pensa da sé. E' la ricchezza culturale e la tragedia politica del pluralismo. E non c'è altra strada per domare tale disordinata potenza della modernità che la sapienza politica delle regole. Occorrono regole chiare e ben pensate fin da subito, per far coesistere le diversità e rendere fisiologici, puro dinamismo di crescita, i conflitti interni. Circolarità delle cariche, criteri elettorali interni e di accesso alla rappresentanza, regole di disciplinamento dei rapporti con le istituzioni o con le società private, uso delle risorse, ecc. E soprattuto stabilire le basi minime di un'etica del dissenso. I dirigenti, proprio perché spesso lontani dai comuni cittadini, neppure immaginano quali ferite provochino nell'animo di militanti ed elettori i loro gesti di disaccordo sbandierati ai quattro venti. Ciò che il popolo della sinistra non tollera è la divisione delle forze politiche che pretendono di difenderlo dai grandi poteri capitalistici.Se si è divisi si è deboli e si va incontro alla sconfitta. Certo, il pudore del silenzio, in caso di dissenso, non si può imporre per decreto. Ma occorrerebbe far di tutto per farlo diventare un valore, supremo e distintivo, dell'essere di sinistra.
Cambiare il mondo non è facile. «La sfida più grande: come fare procedere le cose dopo la fine della prima fase di entusiasmo, come fare il prossimo passo senza soccombere alla catastrofe della tentazione “totalitaria”. In breve, come superare Mandela senza diventare Mugabe».
Prima le persone online, 31 agosto 2015
«Sembrerebbe difficile nascondere un’organizzazione così grande come il Partito Comunista Cinese, ma questo coltiva con gran cura il suo ruolo dietro le quinte. Il personale di controllo dei dipartimenti del grande partito e i media mantengono volutamente un basso profilo pubblico. I comitati del partito (noti come ‘piccoli gruppi guida’) che indirizzano e dettano le politiche ai ministeri, che a loro volta hanno il compito di eseguirle, lavorano non visti, dietro le quinte. Nei media controllati dallo Stato si fa raramente riferimento alla composizione di tutti questi comitati e in molti casi perfino alla loro esistenza, men che meno alla discussione su come arrivano alle decisioni».
«
Come pagare le tasse (diceva Padoa-Schioppa) ha un’intrinseca bellezza (perché sono i liberi che si assegnano quell’obbligo per vivere autonomamente), così lo è il servizio civile alla comunità, un impegno di cittadini liberi verso se stessi».
La Repubblica, 2 agosto 2015.
Questa ragione realistica è stata superata dall’appartenenza dei nostri Paesi all’Europa, che ci ha abituati a pensare non più in termini di eserciti e di difesa da nemici (e quindi di una pace armata), ma in termini di cooperazione fra diversi e quindi di una pace vera, non armata (lasciando però alla Nato e agli Stati Uniti l’onere della nostra difesa). Ma in aggiunta a questa ragione realistica ve n’è un’altra, etica, che Serra coglie molto bene: «Per una società narcisista e liquida come la nostra ripensare a un periodo (obbligatorio e uguale per tutti) nel quale si mettono da parte le proprie esigenze e ci si dedica agli altri sarebbe rivoluzionario. Le istanze pacifiste e militariste, non solo rispettabili ma anche decisive nella cultura della sinistra libertaria, sarebbero ampiamente garantite dalla scelta tra leva civile e leva militare». È così scandaloso avanzare questa proposta?
In questi giorni si è fatto largo uso dell’argomento “non lasciamo la battaglia per meno tasse alla destra”. Molto più pertinente sarebbe applicare lo stesso schema argomentativo alla cultura del servizio civile e della solidarietà di cittadinanza. Il fatto è che queste due prerogative stanno su opposte sponde poiché una propone che sia etico ritirarsi dall’impegno verso la società e concentrarsi sui propri interessi, mentre l’altra suggerisce che sia etico dare più impegno.
Non c’è alcun bisogno di rispolverare la dottrina dello stato etico per dare sostegno a questa idea come fa la destra. È cruciale invece rifarsi alla più convincente idea democratica di reciprocità tra liberi e uguali, poiché dare servizio alla nostra comunità di cittadini è una scuola di sentimenti pubblici che ci abitua a pensare in termini di autonomia vissuta, non solo proclamata dai diritti e scritta nei codici. Come pagare le tasse (diceva Padoa-Schioppa) ha un’intrinseca bellezza (perché sono i liberi che si assegnano quell’obbligo per vivere autonomamente), così lo è il servizio civile alla comunità, un impegno di cittadini liberi verso se stessi.
Recensione preziosa, libro da leggere: perché nel pieno della crisi del finanzcapitalismo non emerge la prospettiva del superamento di quel devastante “modello di sviluppo”? Una nuova idea del lavoro come questione essenziale da affrontare.
Il manifesto, 30 luglio2015
Nel suo ultimo libro Il soggetto dell’economia, pubblicato da Ediesse, l’autrice Laura Pennacchi sventaglia le motivazioni per cui il neoliberismo, fallimentare già da tempo, ha resistito e troneggia in Europa come unica forma di governo possibile.
C’è una domanda cruciale che si aggira negli ambiti di quella che possiamo chiamare – senza per ora migliore specificazione — la sinistra di alternativa in Europa e nel nostro paese. Laura Pennacchi la pone nelle prime pagine del suo ultimo lavoro (Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, Roma 2015, pp. 318, euro 16,00) con queste parole: «perché il neoliberismo – di cui gli eventi del 2007/2008 avevano sancito il fallimento sul piano teorico – si è mostrato così resiliente nel tempo, continuando imperterrito a informare di sé le politiche e le scelte pratiche?».
Rispondere non è facile, eppure bisogna riconoscere che qui sta, non la, ma certamente una delle chiavi – anche perché le porte da aprire non sono poche – che permettono di comprendere le ragioni profonde della crisi della società contemporanea e della sinistra in particolare.
Non c’è dubbio che perderemmo tempo se enumerassimo le dichiarazioni, le dimostrazioni, persino le auto confessioni che forniscono le prove di quel fallimento. Valga una per tutti. Wolfgang Munchau, in una intervista a un giornale italiano di qualche tempo fa, si dimostrava allibito che «un economista del calibro di Mario Monti abbia potuto firmare un trattato (quello sul Fiscal Compact) che, se applicato alla lettera, porterà l’Italia al fallimento: ridurre al 60% il debito in venti anni significa andare incontro a una recessione che sottrarrebbe il 30–40% del Pil nello stesso periodo. Un disastro, e la fine dell’euro».
Altro che «stagnazione secolare», di cui si parla con maggiore insistenza nel dibattito economico! Si potrebbe dire – come ha scritto altrove Fausto Bertinotti – che il re è nudo, ma è ancora stabilmente sul trono e continua a comandare. Almeno qui, in Europa, dove non a caso la crisi economica e sociale è più grave e non se ne vede via d’uscita.
Crepe nella Troika
La vicenda greca costituisce il disvelamento più clamoroso e recente, ma non l’unico, di questa realtà. Che la condizione del paese e del popolo greci siano peggiorate, da ogni punto di vista, ivi compreso quello della quantità del debito, è questione che nessuno discute. Eppure l’accordo imposto a Tsipras ribadisce, in parte anche peggiorandole e indurendole, le stesse ricette. Ciò che non ha funzionato prima, può farlo ora in condizioni peggiori? Evidentemente no, basta una logica elementare ad escluderlo.
Perfino il Fondo monetario internazionale lo ribadisce, aprendo così una crepa nel monolite della Troika (risultato non trascurabile della tenacia con cui il governo greco ha affrontato la lunga trattativa), quando afferma che senza il taglio del debito non c’è salvezza, perché la situazione debitoria della Grecia è destinata a riproporsi e in modo aggravato. Eppure vi è addirittura, e non solo a destra, chi esalta la lungimiranza presunta di Schäuble perché ha posto la Grecia di fronte all’aut aut: o fuori dall’euro (per un po’, ma preferibilmente per sempre) o accetti queste condizioni. Lo stesso documento dei cinque presidenti reso noto a fine giugno, firmato da Djisselblöm, da Draghi, da Juncker, da Tusk, da Schulz e giudicato irritante persino da un uomo come Fabrizio Saccomanni ex ministro ed ex direttore generale di Bankitalia, ribadisce una linea di galleggiamento della Ue che sconta l’abbandono possibile dei paesi in difficoltà, pur di non rimuovere le politiche neoliberiste del rigore.
Come si vede, sempre in questa vicenda, grandi sono le responsabilità della socialdemocrazia europea – anche se per fortuna non vi è un comportamento omogeneo in tutti i paesi — quella tedesca in prima fila. Il paragone con il voto dei crediti di guerra è certamente forzato, come lo sono tutti i parallelismi storici, ma è quello che più si avvicina per gravità all’attuale comportamento socialdemocratico impegnato a sostenere la politica del rigore, a volte scavalcando a destra i suoi propugnatori come ha fatto Gabriel nei confronti della stessa Merkel.
Eppure non si potrebbe rispondere alla domanda di cui sopra, e infatti l’autrice non lo fa, semplicemente sostenendo che il neoliberismo ha trovato solidi alleati da un lato e il ventre ancora troppo molle della sinistra antagonista dall’altro e che ciò sarebbe sufficiente per spiegare la sua buona salute e la sua sopravvivenza ai propri disastri economici e politici.
Il concorso delle discipline
Laura Pennacchi tenta con questo suo più recente lavoro un percorso ambizioso. Considerando troppo angusti i confini della «scienza triste» per spiegare la situazione e tracciare delle nuove terapie, vuole mettere in campo una affascinante multidisciplinarietà per aggredire e destrutturare le basi della dottrina economica dominante. Ecco quindi che la ricerca non si limita al campo delle teorie economiche, ma attraversa anche quelli della filosofia, dell’antropologia, della sociologia. Questo rappresenta una nuova sfida per l’autrice, un elemento di novità rilevante, perlomeno in queste dimensioni, rispetto a precedenti lavori e certamente un fattore di particolare godimento intellettuale per il lettore. Infatti sta qui forse il maggiore valore del libro.
Cercare di riunificare mentalmente e metodologicamente le settorialità e le specializzazioni del sapere è una precondizione indispensabile per stroncare il pensiero unico, per ricostruire una critica dell’economia politica all’altezza dei tempi, per fare rinascere una cultura di sinistra. Ne nasce un percorso di scrittura nel quale l’erudizione e la formidabile ampiezza dei puntuali riferimenti ad altre autrici e autori non sono mai ostentati – come purtroppo spesso capita ad altri — ma funzionali alla costruzione di un discorso.
Non tutti i giudizi che l’autrice dà sulle opere altrui sono perfettamente condivisibili. Alcuni sembrano un po’ troppo tranchant. Per esempio sui lavori di Dardot e Laval che meriterebbero una più accurata disamina e non sono accostabili in tutto e per tutto a certe semplificazioni che circolano abbondantemente sul tema del «comune». Questo percorso, partendo dalla analisi delle principali componenti del neoliberismo, individuate nella finanziarizzazione, nella mercificazione (anche se l’autrice preferisce il termine inglese commodification), nella denormativizzazione, ci conduce fino alla proposta di un nuovo modello di sviluppo fondato su un neoumanesimo che sconfigge la dimensione mutilata e alienata dell’homo oeconomicus.
Su tutti questi tre lati gli argomenti portati sollecitano riflessioni importanti. In particolare, meriterebbe un approfondimento il tema della «denomormativizzazione», su cui del resto i giuristi sono da tempo impegnati. In realtà non siamo solo di fronte ad un abbattimento di regole e norme appartenenti alla seconda metà dello scorso secolo, ma anche — e soprattutto nell’ultima fase — ad una pericolosa «rinormativizzazione» secondo i principi della più pura a-democrazia. Nel caso europeo questo è molto evidente.
La politica insidiosa
Da diverso tempo a questa parte la Ue si è data, attraverso un percorso produttivo di nuove norme e trattati, come il già citato fiscal compact, un robusto e complesso sistema di governance. Questo sistema detta nuove norme agli stati membri, fino a modificare le loro Costituzioni in punti rilevanti. Come nel caso italiano ove la modifica dell’articolo 81 ha introdotto il pareggio di bilancio in Costituzione. Dire oggi, come purtroppo non è infrequente udire anche in discorsi altolocati quanto vuoti, che all’Europa mancherebbe un governo, è una pura sciocchezza. Come anche dire che l’Europa è governata solo dalle leggi dell’economia e che la politica è fuori dalla porta.
La politica democratica certamente, ma non la politica tout court. Mario Draghi, in un discorso tenuto all’Università di Helsinki, nel novembre del 2014, affermava che: «una diffusa erronea concezione sull’Unione Europea – e la zona euro – è che esse siano unioni economiche senza una sottostante unione politica. Ciò riflette un profondo equivoco di cosa significhi unione economica: essa è per sua natura politica». Egli ci ricorda una verità sostanziale, curvandola però al suo punto di vista: che il capitalismo, anche nella sua versione più dichiaratamente liberista, non esiste – e non è mai esistito aggiungono gli storici dell’economia come Marc Bloch — senza il supporto dello Stato. Il percorso fin qui fatto dall’Europa è stato solo apparentemente puramente economico. È vero che si è cominciato dal carbone e dall’acciaio. Ma, appunto, quella era economia reale, da cui muoveva un certo tipo di governance politica. Ora siamo dentro un’economia dominata dalla finanza e la sua governance politica è imperscrutabile e impermeabile al volere popolare quanto lo sono le sue istituzioni economiche. Ma non per questo non esiste. Un mondo di interessi
Le cose non vanno meglio se si esce dal nostro continente. Grazie all’apporto dei voti socialdemocratici ha fatto altri passi in avanti il famigerato Ttip, l’accordo «commerciale» tra Usa e Ue. Al suo interno è prevista la possibilità che le multinazionali facciano ricorso contro stati o enti locali se questi attuano provvedimenti che possono limitare la vendita dei loro prodotti o essere considerati lesivi della loro libertà commerciale. La questione non verrebbe risolta nei tribunali ma in sede extragiudiziale, tramite una cupola di superesperti chiamati a dirimere il contenzioso.
Si deregolamenta e si annichilisce il ruolo della giustizia e delle sue proprie sedi da un lato; dall’altro si costruisce un’impalcatura totalmente estranea alle logiche democratiche e coerente con la supremazia degli interessi dell’impresa identificati come interesse generale non della nazione ma di un intero continente e sistema mondo.
Per questa ragione la risposta non può che essere politica, ma non politicista. Deve contenere una proposta di nuovo modello di sviluppo e una nuova e coerente idea di democrazia, di società, di persona.
È vero, la terminologia – nuovo modello di sviluppo — qui usata è un po’ d’antan. Le parole sono consumate, come i sassi di Gino Paoli, dal tempo e soprattutto dal pessimo uso fattone. Ma non vi è altro termine più preciso, perlomeno non ancora, per indicare che non solo di distribuzione della ricchezza esistente bisogna occuparsi, anche se con criteri innovativi e trasformativi degli attuali assetti, come nel caso del basic income, ma soprattutto di radicale modificazione degli oggetti, delle finalità e delle modalità della produzione.
Dalla crisi più lunga di sempre non si esce rilanciando vecchi modelli produttivi, ma con una rivoluzione strutturale che indirizzi la produzione verso la soddisfazione dei bisogni basici e maturi delle popolazioni. Con un ruolo fondamentale del pubblico. Se alcuni prevedono una ripresa senza lavoro, la nuova sinistra non può accettare l’idea di una jobless society.
Il tema della ricerca della piena e buona occupazione va quindi ripensato, ma non espunto. La risoggettivizzazione dell’agente economico — per usare le parole di Laura Pennacchi -, la ricostruzione del nuovo soggetto dell’economia non possono avvenire senza una rivalorizzazione del lavoro in tutte le sue antiche e più moderne forme. Il capitalismo ha mostrato nella sua lunga storia di avere diverse facce. È dunque «riformabile», ma all’interno del suoi confini e ai suoi fini riproduttivi. Il suo superamento, la trasformazione, non può avvenire senza soggetti forti, resistenti a
Riferimenti
Sulla questione del lavoro vi sono su eddyburg numerosi scritti. Un primo tentativo di compilare una "visita guidata" sul tema è nel testo "il lavoro su eddyburg", del 2012. In attesa di un aggiornamento e completamento numerosi altri articolo sull'argomento sono raggiungibili nelle cartelle Temi e principi/Lavoro e "Il capitalismo d'oggi"
Costruire un’alternativa e renderla credibile e concreta si può, ma è necessario sapersi confrontare, discutere e alla fine convergere. Per questo è importante evitare la tentazione di piantare ciascuno la propria bandierina come è fondamentale rinunciare a qualche quarto di identità in favore della posta (alta) in gioco nei prossimi mesi». Il manifesto, 27 luglio 2015