Il manifesto, 15 giugno 2016, con postilla
Il mio ragionamento è questo (per quanto possa risultare sgradevole, mi auguro che sia letto fino in fondo).
1) Qual è l’obiettivo politico-istituzionale, con cui una “sinistra” dovrebbe mirare (in Italia di sicuro, ma forse, in altre forme, anche nel resto d’Europa) per conseguire il governo del paese?
Penso che in Italia, nell’attuale situazione storica, anzi, forse in una dimensione addirittura epocale, non ci sia altra risposta se non un governo, fortemente ragionante e solidamente strutturato, di centro-sinistra. Gli uomini di sinistra che pensano attualmente ad altro, non sbagliano: vaneggiano.
2) Controprova. Perché le liste dichiaratamente di sinistra pressoché dappertutto al primo turno delle elezioni comunali, il 5 giugno scorso, hanno ricevuto così pochi consensi, sproporzionati persino al livello attuale di contestazione che nel paese (comitati, associazioni, gruppi spontanei, sindacati, ecc. ecc.) sembrerebbe invece persino esser cresciuto nel corso degli ultimi anni? Perché non dichiaravano soluzioni politico-istituzionali credibili ma solo un lungo elenco di denunce e di proteste (assolutamente giuste, in sé considerate). La gente, anche se ti è vicina, non ti vota se non hai da proporre soluzioni politico-istituzionali credibili.
3) Esiste per la nostra sinistra una soluzione politico-istituzionale credibile, e magari autorevole, e cioè un governo di centro-sinistra ragionante e solidamente strutturato, senza il Pd? Non esiste. E perché? Perché non sono alle viste soluzioni alternative di nessun tipo. Qui, anche da questo punto di vista, mi guardo intorno, e all’interrogazione si mescola qualche punta di stupefazione.
Può la sinistra italiana costruire un governo di centro-sinistra, – o qualcosa che seriamente gli equivalga, – con il Movimento 5Stelle? E’ evidente per me che non può.
Per almeno tre buoni motivi:
a) Il Movimento 5Stelle in realtà non è un movimento vero e proprio (come, ad esempio, Podemos in Spagna), e tanto meno un partito: è il prodotto, senza dubbio indovinato, della ditta Grillo-Casaleggio, che all’occorrenza, come abbiamo visto recentemente, si trasmette addirittura per via ereditaria; dove di conseguenza il comando, discende esclusivamente dall’alto; e non consente nessuna democrazia interna (c’è bisogno di fare esempi?); e non manifesta in realtà nessuna simpatia neanche per le forme esterne, generali, della democrazia;
b) Il Movimento 5Stelle rappresenta l’espressione pura e semplice, e, se si vuole, più diretta e autentica, di quell’inquieto disagio di massa, prodotto inevitabile e perciò estremamente diffuso della crisi della democrazia rappresentativa e del sistema dei partiti in Italia; è, culturalmente e idealmente, più vicino alla Lega di Salvini e all’Ukip di Farange che non ai resti della vecchia sinistra (tant’è vero che, laddove si può, si predispongono a scambiarsi voti al ballottaggio nel nome del comune odio al sistema); i candidati e le candidate che lo rappresentano sono uomini e donne partoriti direttamente dalla crisi della massa, parlando la lingua balbettante e informe dei loro consimili, e perciò sono così popolari (qualche risorgente simpatia elitista? Ebbene sì);
c) La combinazione “disagio incontrollabile della massa – comando indiscusso e indiscutibile dei Capi” (non ci vuol molto a capire che fra le due cose corre una relazione), ricorda, naturalmente con i necessari ovvii punti di differenza, esperienze consimili già avvenute in Italia, ma, anche in questo caso, anche in Europa. Altro che Michels e Pareto! Ci vorrebbe un novello Giovanni Gentile, magari al livello degradato dei nostri tempi (ma forse oggi basta Grillo), per spiegare e apologizzare un fenomeno come questo. Naturalmente questo discorso non esclude che una quantità anche notevole di italiani onesti e disgustati dal sistema politico italiano abbiano aderito al M5S. Per questi elettori il ragionamento sarebbe diverso. Ma il voto no.
4) Dunque, se le cose stanno così, siamo di nuovo alla presunta inevitabilità dell’alleanza sinistra-Pd per preconizzare e preparare un governo di centro-sinistra, ragionante e solidamente strutturato, nel nostro paese.
Ma chi è l’avversario attualmente più solido e autorevole della formula di governo denominata di centro-sinistra, almeno in Italia? Anche qui la risposta non è difficile.
E’, senza ombra di dubbio, Matteo Renzi, che è, come noto, l’attuale segretario del Pd, oltre che capo di un governo tendenzialmente più di centro-destra che di centro-sinistra.
La cosa è tanto paradossale, e anche scandalosa, in quanto la linea renziana è stata portata avanti con una situazione sostanzialmente favorevole alle Camere solo perché essa è stata creata con una proposta elettorale (appunto) di centro-sinistra. Per realizzarla, dunque, è stato necessario rovesciarla; e questo è stato possibile solo perché siffatta maggioranza si è adeguata senza sostanziale resistenza al mutamento, e con essa la maggioranza del partito, ossia del Pd. E allora?
5) Allora, è evidente che una linea di centro-sinistra può essere restaurata e praticata solo battendo Renzi nei suoi punti più vitali, che sono anche quelli cui lui attribuisce più importanza. E’ possibile?
Osserverei questo. La linea Renzi, e quindi l’abbandono di una prospettiva di governo di centro-sinistra, sta chiaramente portando il paese, non solo a una sconfitta personale del Capo, ma ad una vera e propria catastrofe politica, istituzionale, economica e sociale: di cui altri, non la cosiddetta sinistra, ma una destra sempre più estrema, oltre che, ovviamente, il Movimento 5Stelle, si affretterebbero a giovarsi (come appunto sta già accadendo).
A mio giudizio questa consapevolezza si sta sotterraneamente diffondendo, al di là della sfera, attualmente un po’ limitata, della nostra sinistra: nei grandi giornali d’informazione ne sono già comparsi i segni, e persino in qualche snodo della maggioranza (come sempre in Italia sono i vecchi democristiani ad aver fiutato il vento che cambia). Sembrava che fosse un condottiero instancabile e infallibile. E se fosse un perdente predestinato? Ha organizzato tutto per stravincere: e se per gli stessi motivi, come è sempre più probabile, fosse destinato alla più sonora delle sconfitte?
6) E’ evidente che la battaglia decisiva è quella sul referendum: anch’essa non priva di ambiguità, se è vero che a ottobre, per la prima volta in vita nostra, voteremo insieme con la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Tuttavia, bisogna assolutamente ottenere che al referendum vinca il no.
Anche se più decisiva ancora del referendum costituzionale risulta per noi (noi sinistra) la nuova legge elettorale, l’Italicum. Sempre più lampante appare infatti che essa sia pensata, più che altri motivi, appositamente per rendere impossibile perfino sul piano istituzionale l’alleanza di centro-sinistra.
Cambiare l’Italicum significa dunque, non soltanto assicurare al voto, in generale, migliori garanzie di correttezza istituzionale: ma rendere di nuovo possibile la prospettiva dell’alleanza di centro-sinistra. Del resto in Italia chi pensa di poter fare da sé, e fa da sé, spesso “ruina“. Nella storia recente è già accaduto almeno una volta.
7) Il problema ora è: come si arriva, se possibile, ordinatamente e ancora in forza, al voto di ottobre, e non in una situazione d’irrimediabile, – ripeto: irrimediabile, – catastrofe? Qui le strade, me ne rendo conto, si separano.
Io penso che lavorare ora (ballottaggio delle comunali) per abbattere, o, peggio, contribuire ad abbattere Renzi sia un errore.
Per arrivare a ottobre in condizioni di sopravvivenza (parlo in questo caso anche della sinistra strettamente intesa), e garantire la possibilità dell’unico passaggio positivo possibile, occorre che non prevalgano gli avversari più potenti e determinati della prospettiva di centro-sinistra, e cioè la Destra (sempre più estrema) e il Movimento 5Stelle.
E occorre che il Pd, – attualmente di Renzi, ma domani chissà, non si disgreghi, non si disgreghi letteralmente sotto il peso di una clamorosa sconfitta, prima di essere messo in grado di riprendere la strada violentemente interrotta.
Perciò io penso che i candidati Pd alla carica di sindaco, ovunque, ma soprattutto a Milano, Torino e Roma, vadano votati nelle consultazioni di ballottaggio (Napoli e, sul versante esattamente opposto, Sesto Fiorentino sono casi totalmente anomali, che non possono essere collocati all’interno di questa casistica).
Ma: nel caso che il voto dia in questo senso un esito positivo, non potrebbe Renzi vantarsene per rafforzare la sua posizione? Sì, certo potrebbe.
Ma ho già scritto in passato su questo giornale che ogni battaglia per la sinistra è sempre, di questi tempi, double face. In ogni occasione, e ad ogni snodo, bisogna scegliere nell’immediato il male minore, o, in prospettiva, e se ci si riesce, l’opportunità migliore e più desiderabile.
Io direi che, in questo caso, puramente e semplicemente, non ne esiste un’altra.
postilla
Da molti lustri siamo entrati in un mondo che è radicalmente nuovo rispetto al passato. Il capitalismo di oggi ha ben poco a che fare con il capitalismo di ieri: ieri gli sfruttati erano le classi lavoratrici, oggi sono la maggior parte dell'umanità. La colpa maggiore della sinistra novecentesca è stata quella di non averlo compreso e di aver tradotto la politica a mero gioco per il potere. Le ricette (e le etichette) della sinistra novecentesca non servono più: serve comprendere le verità che aveva elaborato nel suo percorso storico, e serve comprendere come possono reincarnarsi nel mondo di oggi. L'intuizione felice l'aveva avuta proprio Alberto Asor Rosa quando aveva scritto «La sinistra del futuro o sarà rossoverde o non sarà» (il manifesto, 30 aprile 2005). Se questa sinistra esistesse non potrebbe costruire nessuna alleanza con una formazione, una strategia e un'ideologia come quella della quale Matteo Renzi e il renzismo sono l'espressione.
P.S. Cercando su eddyburg (e non trovando) l'articolo di AAR del 2005 ho trovato invece uno scritto di Giuseppe Chiarante che mi sembra utile riproporre oggi: Perchè è finito il PCI (e.s.)
«Se tutto, anche la Costituzione, diventa oggetto di contesa continua, a venir messo a repentaglio è proprio quel residuo di stabilità istituzionale che ancora ci resta».
Libertà e Giustizia, 15 giugno 2016 (p.d.)
«Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva fin dove non trova limiti (…). Perché non si possa abusare del potere occorre che (…) il potere arresti il potere». Montesquieu, Lo spirito delle Leggi. È nelle librerie “Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali” (edizioni Laterza), agile saggio, già alla secondo ristampa, scritto a quattro mani da Gustavo Zagrebelsy, presidente emerito della Corte costituzionale, e Francesco Pallante, professore di diritto costituzionale presso l’Università di Torino. Il libro è diviso in quattro parti: nella prima vengono analizzati gli argomenti che i sostenitori della riforma costituzionale pongono alla base della stessa e, per ognuno, viene fornita una riposta alternativa; la seconda è rappresentata da un parere che Zagrebelsky inviò al ministro Boschi sulla riforma e sulla possibilità di intervenire in modo diverso sulla Carta costituzionale; nella terza parte gli autori illustrano nello specifico sia la legge elettorale che il testo di riforma costituzionale, quest’ultimo poi analizzato articolo per articolo (attraverso un raffronto comparato tra vecchio e nuovo testo) nella quarta ed ultima parte. Il merito principale del presente saggio è quello di andare al di là della retorica dominante di entrambe le parti e di affrontare, con tecnicità ma anche con straordinaria chiarezza e lucidità, tutti gli argomenti che vengono utilizzati dai sostenitori della riforma, per rendere evidente le contraddizioni e la superficialità dei ragionamenti che spesso vengono fatti sulla riforma.E così, ad esempio, si mette in luce che non tutti gli italiani aspettano da anni la riforma della Costituzione, ma solo una parte di essi, ossia coloro che si pongono come obiettivo quello di spostare il baricentro del potere a favore del Governo. Si sfata poi il mito della celebre litania del «ce lo chiede l’Europa», dimostrando come non sia un valido argomento, ma un semplice pretesto. Questa dovrebbe essere, al contrario, l’occasione per riflettere sul tipo di Europa che siamo costruendo e per «liberarci dalle costrizioni della finanza e della speculazione finanziaria».
Si sottolinea anche che la parola governabilità è ambigua in quanto, stante il significato passivo che rimanda al «farsi docilmente governare» non risponde alla domanda «da chi», e che dunque sarebbe auspicabile utilizzare la parola Governo, che in democrazia presuppone «idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno».
Gli autori non hanno remore nel ricordare che il Parlamento che ha approvato questa legge di revisione costituzionale è stato eletto con una legge dichiarata incostituzionale per aver «rotto il rapporto di rappresentanza», ma che, nonostante ciò, ha avuto la presunzione di cercare di riformare il fondamento della convivenza civile, appunto la Carta costituzionale. In quest’ottica, quello che è stato descritto come atto d’orgoglio dei parlamentari capaci di autoriformarsi, viene ricondotto ad una forma di «arroganza dell’Esecutivo», che ha portato a sostituire l’idea di Costituzione come «patto sociale di garanzia e convivenza» a «strumento e armatura del proprio potere», rovesciando la piramide democratica e rimpiazzando la democrazia partecipativa con una «oligarchia riservata».
Un altro leitmotiv dei sostenitori della riforma è il richiamo alla volontà dei partiti della sinistra, che già dagli anni ottanta avevano criticato il bicameralismo perfetto (si pensi ai volantini diffusi con le foto e frasi di Ingrao e Berlinguer, volantini che hanno causato diverse polemiche e la presa di posizione delle relative famiglie): ebbene anche in questo caso Zagrebelsky e Pallante vedono le cose da una diversa prospettiva, contestualizzando le frasi richiamate dai sostenitori della riforma e ricordando che all’epoca la semplificazione delle istituzioni parlamentari era finalizzata a dare più forza alla rappresentanza democratica attraverso la «centralità del Parlamento» e non, come oggi, al consolidamento dell’Esecutivo attraverso la marginalizzazione della rappresentanza perché portatrice di autonome istanze democratiche.
L’effetto di questa riforma, che nella visione degli autori non può che essere letta parallelamente alla legge elettorale (cd Italicum), è «l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’Esecutivo» e la vittoria della «banale e pericolosa concezione della democrazia che si esprime nella formula: ho i voti, dunque posso». A ciò si aggiunga che, per le modalità plebiscitarie con cui i partiti politici stanno affrontando la campagna referendaria, quello che è sempre stato inteso come un «patto solenne che unisce un popolo sovrano» sta di fatto dividendo quello stesso popolo.
Dopo aver riflettuto sugli argomenti innanzi illustrati, nella terza e nella quarta parte del saggio gli autori analizzano nello specifico sia il testo della legge elettorale che quello di revisione costituzionale, mettendo in evidenza innanzitutto le anomalie di metodo con cui gli stessi sono stati adottati: e infatti gli emendamenti dell’Italicum non sono mai stati discussi in Commissione, né alla Camera né al Senato; la discussione al Senato è stata fortemente condizionata dall’approvazione dell’emendamento noto come “super canguro” che, «anteponendo al testo del progetto un articolo avente contenuto non normativo, ma dichiarativo del contenuto degli articoli successivi, ha fatto decadere tutti gli emendamenti ancorati agli articoli successivi»; i deputati dissenzienti del Partito democratico sono stati sostituititi nella Commissione Affari costituzionali per la sola discussione della legge elettorale, considerando in questo modo decaduti automaticamente tutti gli emendamenti che erano stati dagli stessi presentati; sulla votazione finale articolo per articolo è stata posta la fiducia, con ciò violando l’art. 116, quarto comma, del Regolamento della Camera, e ponendosi in continuità con le uniche altre due leggi elettorali sulle quali era stata posta la questione di fiducia, la legge Acerbo e la legge “truffa”.
Per quanto riguarda poi la legge di revisione costituzionale, viene sottolineata l’incompatibilità con il principio del costituzionalismo dell’iniziativa governativa della riforma costituzionale, atteso che la Costituzione può fungere da limite per il potere – ed in particolare per quello governativo – nella misura in cui tale limite sia esterno, eteronomo, e non posto dallo stesso soggetto che dovrebbe soggiacervi. Anche in questo caso sono stati adottati strumenti di riduzione della discussione, come la sostituzione dei componenti della Commissione Affari costituzionali del Senato perché portatori di posizioni difformi, la riduzione degli emendamenti con l’applicazione del “canguro”, il contingentamento dei tempi di discussione (“tagliola”). A ciò si aggiunga la mancata discussione in Commissione degli articoli del ddl.
Gli autori evidenziano poi delle anomalie “di merito” delle leggi, come il carattere eccessivo del premio di maggioranza o gli esiti assurdi a cui porterebbe la legge elettorale in alcuni casi, come ad esempio se due liste ottenessero il 40% dei voti (come accadde all’elezione del 2006) e avessero dunque diritto entrambe al premio di maggioranza. Accanto a ciò c’è la trasformazione di fatto del sistema di Governo da Parlamentare in Presidenziale (o, meglio, in quello che Leopoldo Elia definì premierato assoluto), che attraverso l’indicazione preventiva del candidato premier (art. 2, comma 8, Italicum) trasforma l’elezione del Parlamento anche in elezione del Presidente del Consiglio, in violazione dell’art. 92, comma 8, Cost.
Per quanto attiene poi alla riforma costituzionale, tra i diversi profili analizzati (la composizione del Senato, la diversificazione dei procedimenti legislativi, lo Statuto delle Opposizioni) quello più rilevante attiene alla marginalizzazione del ruolo delle opposizioni nella scelta degli organi di garanzia, come l’elezione del Presidente della Repubblica, l’elezione di un terzo dei membri del Consiglio superiore della magistratura, l’elezione dei Giudici della Corte costituzionale, la dichiarazione di guerra e l’approvazione delle leggi di amnistia ed indulto. Infatti la riduzione del numero dei senatori e la legge elettorale iper–maggioritaria determinano un aumento del potere della maggioranza; a ciò si aggiunga che per l’elezione del Presidente della Repubblica dal settimo scrutinio in poi si fa riferimento ai votanti, anziché ai presenti, con ciò «agevolando tatticismi parlamentari volti ad abbassare ulteriormente il quorum di elezione».
In questo quadro, ciò che più desta preoccupazione è il combinato disposto di queste due riforme, che partono dall’idea del sacrificio necessario dei valori del dialogo, della tutela del dissenso e delle minoranze, dell’importanza delle diverse componenti sociali, tutti sacrificati sull’altare della stabilità, della governabilità e della velocità della decisione, con buona pace della prima parte della Costituzione ed in particolare del principio di uguaglianza sostanziale.
Tale cambiamento, epocale, è avvenuto procedendo non attraverso un atteggiamento inclusivo, volto alla ricerca di punti di contatto tra le diverse parti presenti in Parlamento, ma in un clima da “conta finale”, in cui l’argomento dell’avversario non è mai stato preso in considerazione.
Accanto a questa pars destruens, vi è una lunga pars costruens, rappresentata dal parere inviato da Zagrebelsky al ministro Boschi, parere che non ha mai ricevuto risposta.
Stante l’impossibilità in queste brevi riflessioni di illustrare le numerose proposte di Zagrebelsky (per le quali si rimanda alla lettura del libro), mi pare utile soffermarsi su una questione particolare, ossia quella relativa alle ragioni del bicameralismo, che è indice del fatto che probabilmente molte questioni sottese alla riforma non sono state affrontate con la dovuta profondità.
L’autore rileva infatti che nella storia i senati hanno rappresentato o esigenze federali rispetto allo Stato centrale (ad esempio il sistema tedesco) ovvero ragioni conservative rispetto alla camera elettiva e alle sue mutevoli maggioranze (ad esempio il sistema inglese) e propone di prendere atto della natura non federale del nostro Stato e di provare dunque ad immaginare un Senato che sia posto a tutela di ragioni conservative, non rispetto al passato (come era appunto la camera dei Lord inglese) ma rispetto «alle ragioni di opportunità per il futuro», per evitare in sostanza la dissipazione delle risorse pubbliche, materiali e immateriali, a causa della brevità dei governi democratici, che devono sottostare a scadenze elettorali. Tale obiettivo potrebbe essere raggiunto prevedendo l’elezione di membri del Senato «per una durata adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola della non rieleggibilità». Un Senato, in sostanza, che sia posto a presidio dell’ambiente, del patrimonio artistico e culturale, e di tutti quei beni che dovremmo conservare per le prossime generazioni e che invece la politica non riesce adeguatamente a tutelare.
Se si avesse avuto meno fretta, se si fosse ragionato maggiormente sui problemi posti dalle disposizioni che via via si cercavano di riformare, se si fosse prestata maggior attenzione alle opinioni di quanti sottolineavano i passaggi problematici della riforma, probabilmente ne sarebbe scaturito un risultato migliore. Se si fosse stati meno superficiali, si sarebbero analizzati a fondo i problemi, trovando soluzioni nuove a problemi che da tempo affliggono la nostra società.
Il metodo adottato non ha invece consentito questo tipo di dialogo e ha contribuito a collocare la Costituzione non al di fuori del contingente, ma dentro lo stesso, con ciò portando la Carta a non essere più lo strumento che rende possibile il confronto tra forze politiche, senza che questo degeneri in scontro a tutto campo.
«Se tutto, anche la Costituzione, diventa oggetto di contesa continua, a venir messo a repentaglio è – al contrario di quel che sempre affermano i sostenitori della riforma – proprio quel residuo di stabilità istituzionale che ancora ci resta».
«Habemus Corpus. Il duro lavoro per crescere senza pregiudizi sul rapporto uomo/donna».
Il manifesto, 14 giugno 2016 (m.p.r.)
Fra i commenti letti sull’omicidio di Sara Di Pietrantonio, la studentessa romana strangolata e bruciata dall’ex fidanzato, uno mi ha colpito più di altri. E’ quello di P., uomo 40enne, che su un social network ha scritto: «Dopo lunga riflessione, volevo ribadire che neanche con l’esercizio di tutta l’autocritica possibile e immaginabile sono arrivato al punto di sentirmi personalmente responsabile né come essere umano, né come soggetto di sesso maschio, né come uomo bianco appartenente alla cultura occidentale dominante, né come abitante del nord Italia, né come blogger, della morte di Sara». La lapidaria risposta di un’amica gli ha tolto la maschera dell’ipocrisia: «Allora a posto così amici. P. non c’entra e quindi non parlatene con lui».
A parte che un’excusatio non petita nasconde sempre un po’ di coda di paglia, l’ autoassoluzione di P. svela la montagna ancora da scalare per non vedere certi numeri. Secondo Telefono Rosa, da inizio anno in Italia sono 59 le donne uccise da partner o ex, ed è un conto che non considera vessazioni e violenze che ancora molte subiscono.
Il modo in cui si concepiscono le relazioni nasce dall’educazione ricevuta, dagli esempi che si hanno e dall’aria che si respira in una società. Se questi tre elementi non sanzionano il concetto di possesso e potere di un individuo su un altro, crescere senza pregiudizi di genere chiede un lavoro molto lungo e difficile, e non è detto che riesca.
Come madre di un maschio 26enne, fin dalla sua nascita mi sono posta il problema di come renderlo immune dalle zavorre mentali che per secoli hanno regolato il rapporto uomo/donna. All’epoca mi sembrò un lavoro facile, credevo che la mia determinazione sarebbe bastata. Mi accorsi ben presto che avevo peccato di presunzione. Sulla strada c’erano molti più ostacoli di quanto pensassi. I discorsi, i commenti, gli atteggiamenti, il linguaggio che mio figlio sentiva in giro, a scuola, fra i vicini di casa, nella pubblicità, alla televisione, insomma tutto ciò che chiamiamo cultura sociale erano come un’idra. Tagliavo un pregiudizio, ne rispuntavano sette.
Una delle prime cose che imparò all’asilo fu dividere il mondo in maschi e femmine, i giochi da maschio e quelli da femmina, i mestieri delle mamme e quelli dei papà, i ruoli delle prime e quelli dei secondi. A tre anni, vedendo la copertina di un Espresso con una donna discinta, lo sentii dire: «Però, che tette ha questa qua». Come faceva un bambino così piccolo ad avere già un giudizio estetico su dei seni? Ma il disastro fu alle scuole medie, quando cominciò a dividere le ragazze fra quelle che ci stanno e quelle no. Aveva assorbito dai compagni l’idea che le donne si distinguono in facili e no. Altro che risolto, mi sembrava di aver allevato un talebano.
Poi il tempo, le discussioni, le liti, le esperienze hanno fatto il loro lavoro, ma il luogo comune è sempre in agguato. Se i bambini vivessero in una società libera da linguaggi e giudizi machisti, se sentissero padri, fratelli, zii, amici condannare il più piccolo gesto di violenza su una donna, se bevessero insieme al latte materno l’idea che l’amore non è possesso, sarebbe più difficile per un 27enne pensare che se una ragazza ti lascia non ha più il diritto di vivere.
E poi vorrei dire a P. una cosa. Io mi sono un po’ stufata che siano quasi sempre le donne a mobilitarsi per prime. Noi il nostro lavoro di emancipazione lo abbiamo cominciato molto tempo fa. Sarebbe ora che anche i maschi ne parlassero fra loro e di più. In certi casi dire solo «Io non ho colpa» non basta per nulla. Quindi, caro P., la cosa ti riguarda eccome.
Sulla violenza alle donne numerosi scritti nella cartella de homine

«». Corriere della Sera, 14 giugno 2016 (c.m.c.)
Il Giornale propone in edicola copie del libro di Hitler, Mein Kampf . Ci sono ragioni per essere offesi o disgustati da questa scelta, e Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale , lo dico apertamente, non è persona che mi piace. Eppure mi sono trovato d’accordo con lui quando, forse un po’ goffamente, ha provato a difendere la sua provocazione dicendo che per combattere un male bisogna conoscerlo. Ho letto Mein Kampf qualche tempo fa, e effettivamente mi ha insegnato delle cose: cose che non mi aspettavo. Provo a riassumerle.
Il nazismo è stato un feroce scatenarsi di aggressività. Dalla notte dei lunghi coltelli alla disperata difesa di Berlino, ha cavalcato la violenza estrema. La giustificazione ideologica immediata per la brutalità e la violenza era la superiorità della razza e della civiltà germanica, l’esaltazione della forza, la lettura del mondo in termini di scontro invece che di collaborazione, il disprezzo per chiunque fosse debole.
Questo pensavo, prima di leggere Mein Kampf . Il libro di Hitler è stato una sorpresa perché mostra cosa c’è alla sorgente di tutto questo: la paura. Per me è stata una specie di rivelazione, che mi ha d’un tratto fatto comprendere qualcosa della mentalità della destra, per me da sempre difficile da cogliere. Una sorgente centrale delle emozioni che danno forza alla destra, e all’estrema destra sopratutto, non è il sentimento di essere forti: è la paura di essere deboli.
In Mein Kampf , questa paura, questo senso di inferiorità, questo senso del pericolo incombente, sono espliciti. Il motivo per cui bisogna dominare gli altri è il terrore che altrimenti ne saremo dominati. Il motivo per cui preferiamo combattere che collaborare è che siamo spaventati dalla forza degli altri. Il motivo per cui bisogna chiudersi in un’identità, un gruppo, un Volk, è per costruire una banda più forte delle altre bande ed esserne protetti in un mondo di lupi. Hitler dipinge un mondo selvaggio in cui il nemico è ovunque, il pericolo è ovunque, e l’unica disperata speranza per non soccombere è raggrupparsi in un gruppo e prevalere.
Il risultato di questa paura è stata la devastazione dell’Europa, e una guerra con un bilancio totale di 70 milioni di morti. Cosa ci insegna questo? Penso che quello che ci insegna è che ciò da cui bisogna difendersi per evitare le catastrofi non sono gli altri: sono le nostre paure degli altri. Sono queste che sono devastanti.
È la paura reciproca che rende gli altri disumani e scatena l’inferno. La Germania umiliata e offesa dall’esito della prima guerra mondiale, spaventata dalla forza della Francia e della Russia, è stata una Germania che si è autodistrutta; la Germania che, imparata la lezione sulla sua pelle, si è ricostruita come centro di collaborazione e di resistenza alla guerra è una Germania che è fiorita. A me questo insegnamento suona attuale.
Forse ora nel mondo la paura reciproca sta aumentando, non lo so, ma a me sembra che noi siamo i primi ad alimentarla.
Chi si sente debole ha paura, diffida degli altri, difende se stesso e si arrocca nel suo gruppo, nella sua pretesa identità. Chi è forte non ha paura, non si mette in conflitto, collabora, contribuisce a costruire un mondo migliore anche per gli altri. Pochi libri svelano questa intima logica della violenza come Mein Kampf .
«Dopo le molte e più o meno discutibili parole di uomini di buona volontà, è difficile non porsi il problema del "che fare" (senza rimuovere l’essenziale "che pensare")».
Il manifesto, 14 giugno 2016
Come molti sanno Che fare è il titolo di un celebre scritto di Lenin, a sua volta citazione dell’omonimo e forse meno celebre (ma molto più bello) romanzo di Cernyševskij. Un libro-manifesto determinante per la vittoria dei bolscevichi nella rivoluzione d’Ottobre. Ma anche - mi sento di dire - per i tragici disastri che una certa concezione del potere rivoluzionario ha prodotto in seguito. Tempo fa un illuminato dirigente del vecchio Pci ci esortava a concentrarci piuttosto sul che pensare, prima di agire perseverando in antichi errori…
L’interrogativo di quel titolo, con la coorte di dubbi che si porta dietro, mi è tornato in mente leggendo i numerosi interventi maschili che si sono schierati contro la violenza sulle donne, spesso adottando per certi versi, e più o meno consapevolmente, quel «partire da sé» teorizzato e praticato dal femminismo.
Dall’appello pubblicato sabato 11 da questo giornale, agli interventi di Christian Raimo, Nicola La Gioia, Michele Serra, Paolo Di Stefano, per citare solo gli ultimi che ho letto su alcuni siti e quotidiani nazionali (una raccolta si sta formando su maschileplurale.it): in genere mi ha colpito l’opinione, diffusa, che il problema riguardi il persistere di una cultura maschilista del possesso e della forza dalla quale è difficile dirsi completamente immuni.
Ascoltando e leggendo poi altre notizie di questi giorni mi rimbalzava l’idea che un filo rosso, o per meglio dire nero, e sessuato, leghi in qualche modo l’omofobia omicida e terrorista di Orlando ai tumulti degli hooligan di varie nazionalità «europee», ai femminicidi di cui si discute nel bel paese.
Ovvio che dire così espone al rischio di azzerare le enormi differenze che connotano comportamenti violenti tanto distanti nelle modalità, nelle conseguenze, nei contesti, nelle stesse «motivazioni».
Eppure l’ipotesi che qualcosa sia da ricondurre a una incapacità di vivere il proprio corpo e la relazione con l’altro/a radicata nella sessualità maschile così come è codificata in tante culture pur molto diverse, non mi sentirei di escluderla completamente.
C’è chi mette poi in relazione la violenza personale e sociale con gli effetti della crisi economica, e del malessere che crea, esasperato da un sistema «neoliberista» che accentua il narcisismo e l’edonismo solitario.
Un mix deleterio soprattutto per un più fragile equilibrio dell’ex «sesso forte»? Un esito che francamente eviterei è quello di definirsi «vittime» di un sistema di potere di cui riconosciamo la matrice patriarcale. Prima vediamone le connivenze.
Dopo le molte e più o meno discutibili parole di uomini di buona volontà, è difficile non porsi il problema del che fare (senza rimuovere l’essenziale che pensare).
La prima cosa che mi viene in mente è una proposta molto modesta: incontrarsi, mettere a confronto le proprie idee e le proprie esperienze. Non accontentarsi di firmare accorati interventi e appelli.
Un secondo passo può essere interrogarsi - pubblicamente? - su come si agisce e interagisce in ogni contesto, su che cosa e come si desidera: la famiglia e le proprie relazioni affettive, il proprio essere padri (o non esserlo), i luoghi di lavoro, la politica, il sindacato, e il rapporto che viviamo con quel tanto o poco di potere reale che siamo pronti ad ammettere di gestire solo perché uomini.
Fatti e non parole? Ma i fatti possono essere anche nuove parole, se nascono da una diversa pratica di scambio consapevole e condivisa. Tra maschi. E con le donne che desiderassero interloquire.

. Il Fatto quotidiano, 13 giugno 2016 (c.m.c.)
“La riforma crea una democrazia di investitura, quella di un leader e del suo programma”. Così sintetizza uno dei motivi del “No” Mario Dogliani, professore di diritto costituzionale tra i firmatari dell’appello dei 56 costituzionalisti contro le modifiche alla Carta. Lo ha detto ieri al cinema Eliseo di Torino al “Referendum Day”, un incontro del comitato piemontese “Salviamo La Costituzione”, presieduto da Antonio Caputo.
Oltre a loro due in molti sono intervenuti per esprimere il parere contrario alla riforma voluta dal governo Renzi: il professore ed ex partigiano Gastone Cottino, l’ex segretaria nazionale di Magistratura democratica Rita Sanlorenzo, il filosofo politico Maurizio Viroli e il direttore del Fatto Marco Travaglio. “Con questa riforma ci privano di una parte importante del potere sovrano, ci privano della possibilità di eleggere i parlamentari. Le leggi verranno imposte dall’alto ”, ha detto Viroli, professore di filosofia politica (e opinionista del Fatto).
Insomma, secondo lui si contraddirà l’articolo 1 della Costituzione, secondo cui “la sovranità appartiene al popolo”: “Saremo meno cittadini e più sudditi”. Per Rita Sanlorenzo, ex segretaria nazionale di Magistratura democratica, la riforma non tiene conto delle considerazioni della minoranza, facendo venire meno la “casa comune, un patto che unisce tutti, senza uno che vince e l’altro che perde senza possibilità di opporsi”.
Per lei “Renzi dovrebbe pensare quello che potrebbe succedere quando l’attuale maggioranza si troverà in minoranza”. “Siamo ormai quasi al termine della raccolta firme – ha dichiarato Caputo -. Abbiamo voluto fortemente allestire un nuovo momento di partecipazione e di confronto per poter spiegare ai cittadini quanto queste riforme mettano in pericolo la democrazia”.
Pubblichiamo parte della lettera che Mimmo Calopresti ha inviato per l’appuntamento di Torino sul No al referendum di Ottobre in difesa della Costituzione.
"In tutto questo mio muovermi, affaccendarmi alla ricerca di qualcosa che abbia senso raccontare, mi accorgo che scompare sempre di più qualcosa intorno a noi senza che noi quasi ce ne accorgiamo. I negozietti sotto casa, il senso di appartenenza, le classi sociali e il ceto medio, le periferie perdono visibilità, il lavoro perde centralità, perché non c’è; i pensionati, perché in pensione non si andrà più e scompaiono i servizi sociali, scompaiono i bambini in un paese senza nascite, la ricerca e le università soffrono e così scompaiono gli studenti.
Sento dire da tempo che abbiamo la montagna del debito che ci soffoca e allora non abbiamo soldi e posto per tutti nella società, si fanno sparire i problemi si pongono obbiettivi sempre più lontani, la crescita diventa una priorità allora bisogna far fuori tutti quelli che pongono problemi e sono un costo: il capo e suoi amici devono lavorare.
Mi sembra che si stia esagerando, non son importanti i risultati elettorali qualunque essi siano ci dicono, non si capisce perchè. È imporre la riforma elettorale che è importante, l’Europa ci guarda e voi professoroni, siete vecchi e noiosi. Ritiratevi. E i sindacati che la smettano di porre problemi.
È impossibile andare avanti così. Noi vogliamo cominciare a dire no a questo potere politico sovrumano, che non vuole neanche che ci sforziamo di votarlo, si è imposto e dobbiamo solo assentire. Dobbiamo cominciare a resistere come fecero un pugno di ribelli nell’Italia fascista: decisero contro tutti, anche contro la maggioranza, che avrebbero detto basta a quel baraccone che Mussolini aveva messo in piedi.
E così che siamo arrivati a quella che viene definita la Costituzione più bella al mondo. Mi sono fermato a riflettere su questo imperituro bisogno per il Paese di fare il più in fretta possibile la riforma costituzionale e poi una legge elettorale che permetta a qualcuno di andare alle elezioni con una legge che consentirà a un premier di avere la possibilità di governare senza troppe scocciature e impedimenti. NO. Mi sono informato e ho deciso che al referendum costituzionale voterò NO, e in questi mesi d’impegnarmi per riuscire ad arrivare alle famose urne per vincere.
Far vincere le ragioni del No. Non mi piace in nessuna parte. A essere radicali sarebbe stato meglio abolirlo il Senato e invece no si continua nella direzione dei nominati, non degli eletti, si va avanti per controllo di gruppi di persone nella logica del capo bastone, e così come si fa’ ormai nella politica italiana dove si elegge poco e si nomina molto. Si promette molto e si mantiene poco. Ci si sovraespone per coprire il vuoto. Il NO è un atto di resistenza."
Con la ripresentazione del libro di Adolf Hitler da parte del quotidiano della famiglia Berlusconi si è giunti «a uno dei punti terminali del revisionismo: siamo passati dalla constatazione filosofica della banalità del male, alla sua deliberata, volontaria e più sconcertante banalizzazione».
Il manifesto, 12 giugno 2016
Nel 1949 uno studioso francese diede alle stampe Les grandes ouvres politiques. De Machiavel à nos jours, un manuale che presentava 15 opere, la prima delle quali era Il Principe machiavelliano, l’ultima, Mein Kampf di Adolf Hitler. Una scelta singolare, che appariva ancora più bislacca, nel titolo della edizione italiana, Le grandi opere del pensiero politico.
Eppure quel libro, adottato in molti corsi universitari, fino a pochi anni or sono, anche per la sua relativa semplicità espositiva, ebbe enorme circolazione. Certo, ancor prima di soffermarsi sul contenuto, era a dir poco discutibile che tra le «grandi opere», si inserisse un testo farraginoso, confuso, privo di qualsiasi coerenza espositiva, e anche di originalità.
L’autore, che lo vergò [Adolf Hittler] dopo breve detenzione, dopo il fallito colpo di Monaco nel novembre ’23, non faceva che rimasticare teorie razziste diffuse in Europa dal tardo Ottocento, mescolandole a ricordi autobiografici, e a bizzarre «folgorazioni», come quella che nasceva dalla constatazione della ebraicità di Karl Marx, e dunque il bolscevismo marxista, era una sola cosa con l’ebraismo, colpendo l’uno si colpiva l’altro…
Un testo che, anche dopo che fu aggiustato a fini editoriali, appare di disarmante rozzezza, ma pieno di tossine velenose. Un campionario di scemenze rivestite, talora, di «scienza», talaltra semplicemente condite in intingolo politico che raccoglie i risentimenti di classi medie e classi popolari frustrate, economicamente e psicologicamente, dalla sconfitta della Germania.
Il libro fu il vademecum nazista e fu imposto ovunque nel Terzo Reich, con milioni di copie diffuse, e spesso vendute, con relative royalties incassate dall’autore. Poi venne la damnatio del Secondo dopoguerra, anche se l’opera ha continuato a circolare un po’ ovunque, in circuiti semiclandestini o, in molti paesi, liberamente.
Della «Mia battaglia» (ecco il significato dello stentoreo titolo tedesco), sono in circolazione diverse edizioni italiane. Da poco, essendo scaduti i diritti (70 anni dalla morte dell’autore), detenuti dal Land della Baviera, è stato annunciato un ritorno del testo originale negli scaffali in Germania (dove era vietato), e, anche altrove, grazie a un’edizione critica, che si annuncia filologicamente ineccepibile.
L’annuncio aveva suscitato immediato dibattito, sia pure di alto livello, mentre davanti all’attuale distribuzione dell’opera hitleriana con il Giornale le polemiche appaiono di basso profilo.
Si tratta innanzitutto di un’operazione commerciale (le copie del quotidiano a metà mattina erano esaurite nelle edicole da me battute…); anche se il significato politico-culturale è fuori discussione, i commenti di dirigenti del Pd che hanno denunciato l’azione «elettoralistica» di Sallusti & C., per far votare i candidati «estremisti» contro quelli del partito renziano suonano grotteschi. Se perderanno, sarà dunque colpa di Hitler? Qualcuno tra costoro non ha mancato di evocare lo spettro penale: sorvegliare e punire, insomma.
Precisato che, a differenza di quanto è stato detto alla vigilia, il libro non era «omaggio» ma a pagamento, inquieta comunque che un quotidiano si sia preso la briga di inaugurare una collana editoriale con siffatta perla.
Personalmente, forse anche sulla base della mia professione di studioso di idee politiche, ritengo ovvio che si possa leggere Hitler; ma non come gadget di un quotidiano di informazione; che al Giornale se la cavino asserendo che il loro retropensiero sarebbe attivare i controveleni rispetto al nazifascismo fa sorridere.
Perché quel giornale, non certo da solo, da anni alimenta razzismo e intolleranza, diffidenza o addirittura odio per lo straniero: e fa specie dunque, che quel giornale (che del revisionismo storico ha fatto una linea di condotta, contribuendo a «normalizzare» il fascismo) distribuisca oggi un testo che se la prende, guarda caso, con «gli sporchi stranieri». E l’ebreo, era per Hitler, il più sporco degli «stranieri», e andava eliminato, in un modo o nell’altro. Auschwitz è in nuce in quel testo.
Siamo ora giunti a uno dei punti terminali del revisionismo: siamo passati dalla constatazione filosofica della «banalità del male», alla sua deliberata, volontaria e più sconcertante banalizzazione.

«La Repubblica
, 12 giugno 2016 (c.m.c.)
SUI maschi che uccidono o sfregiano la femmina che li rifiuta (con lo scopo, lucidamente feroce, di renderla “inservibile” ad altri maschi) si esercitano molto le discipline psicologiche, criminologiche e antropologiche, come è utile e anzi indispensabile che avvenga. Ma credo — e lo dico da maschio — che su quella rovente, tremenda questione, non si eserciti abbastanza la parola politica.
Al netto dei materiali psichici complessi e oscuri che ci animano, molti dei nostri comportamenti sono determinati dalle nostre convinzioni e dalle nostre idee. Ciò che siamo è anche ciò che vogliamo essere. O che tentiamo di essere. Se non rubiamo non è solamente per il timore della punizione, o perché non ne abbiamo la stretta necessità economica. È perché abbiamo ripugnanza etica del furto.
Quando ero ragazzo, negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, si è decisamente sopravvalutato il potere che le convinzioni e le idee potessero esercitare sulla nostra vita; vita quotidiana compresa. “Il privato è politico”, si diceva allora, volendo significare che ogni nostro atto, anche domestico, anche invisibile alla Polis che tumultuava e rumoreggiava sotto le nostre finestre, avesse valore pubblico e producesse il suo effetto politico.
Era una forzatura ideologica che l’esperienza provvide, per nostra fortuna, a sdrammatizzare e infine a diradare, facendoci sentire un poco meno “responsabili del mondo” almeno dentro i nostri letti, un poco meno sottomessi al Dover Essere ideologico. Vennero scritti libri e girati film sulla presuntuosa goffaggine che pretendeva di avere instaurato, in quattro e quattr’otto, libertà di costumi e liberalità di sentimenti. Non erano così facilmente arrangiabili, i sentimenti e gli istinti, alle nuove libertà. Non così addomesticabili il dolore inferto e subito, l’abbandono, la gelosia.
Ma la decompressione ideologica dei nostri anni è funesta in senso contrario. Le idee, che a noi ragazzi di allora parvero fin troppo determinanti, oggi vagolano in forma di detriti del passato oppure di scontate banalità. Hanno perduto molto del loro appeal: in positivo, perché è finita la sbornia ideologica, ma anche in negativo, perché molte fortissime idee hanno perduto la loro presa sul discorso pubblico, impoverendolo e istupidendolo.
Per esempio l’idea - e veniamo al punto - che la donna appartenga a se stessa (“io sono mia”), che la sua persona e il suo corpo non siano mai più riconducibili alle ragioni del patriarcato e del controllo maschile. Se c’è mai stata, al mondo, un’idea rivoluzionaria, è quella: ribalta una tendenza millenaria, smentisce spavaldamente la Tradizione, muta la struttura sociale perfino più radicalmente di quanto la muterebbe la sovversione della gerarchia padrone-operaio. Perché non se ne sente più l’eco, di quello slogan così breve e di così implacabile precisione? Forse perché lo si dà per scontato (non essendolo!); forse perché nessun “principio” assoluto riesce più a ottenere credito in una società smagata, relativista più per sfinimento che per cinismo.
Eppure, volendo ridurre all’osso la questione del femminicidio, è proprio l’ignoranza o il rifiuto maschile di quel principio - io sono mia - il più evidente, perfino il più ovvio di tutti i possibili moventi. No, tu non sei tua, tu sei mia. Il mio bisogno è che tu stia con me, e del tuo bisogno (non stare più con me) non ho rispetto, o addirittura non ne ho contezza. Tu esisti solamente in quanto mia; in quanto non mia, esisti talmente poco che cancello la tua vita.
Certo, la stratificazione psichica è profonda, cause e concause si intrecciano, paure e debolezze si sommano producendo, nei soggetti più sconquassati, aggressività e violenza. Ma il “via libera” all’aggressione, alla persecuzione, allo stalking, al delitto scatta anche perché nessuna esitazione “ideologica” interviene a soccorrere il carnefice, nessuna occasione di dibattito interno gli è occorsa, a proposito di maschi e di femmine.
Politica e cultura (ovvero: il processo di civilizzazione) esistono apposta per non abbandonare la bestia che siamo alla sua ferinità e ai suoi istinti, regolando in qualche maniera i rapporti sociali, rendendoli più compatibili al bisogno di incolumità e dignità di ogni persona. Questo non esclude, ovviamente, che ci siano stalker e aguzzini di buona cultura e di idee liberali. Ma è l’eccezione che conferma la regola: costumi e comportamenti di massa sono largamente influenzati, e sovente migliorati, dalla temperie politica e culturale dell’epoca.
È nell’Italia rinnovata e modernizzata degli anni Sessanta che la contadina siciliana Franca Viola si ribella al ladro del suo corpo e pronuncia, entusiasmando milioni di spiriti liberi, il suo semplice ma inequivocabile “io sono mia” prefemminista e presessantottino, con la mitezza luminosa di una Lucia aggiornata che rimette al suo posto il donrodrigo di turno. È sempre in quell’Italia che, con fatica, si arriva finalmente a mettere in discussione l’obbrobrio giuridico del “delitto d’onore”, che verrà finalmente cancellato vent’anni dopo. Ed è a livello popolare, mica solo nei “salotti”, è nel profondo della società che quei fermenti circolano, quelle discussioni si animano, quei confitti indirizzano il senso comune.
Non so quanto dipenda dalla mia storia psichica o dalle mie attitudini caratteriali il fatto che io non abbia mai alzato un dito su una donna. Ma so per certo che dipende in buona parte, per dirla molto banalmente, dalla mia volontà di non farlo; dalla mia educazione e dall’esempio ricevuto in famiglia; dalle mie inibizioni culturali, che mi fanno considerare indegna e vile la sopraffazione dell’altro; infine, e non ultimo, dalle mie convinzioni politiche, che mi conducono fortemente a credere che la libertà delle donne sia condizione (forse la prima condizione) della libertà di tutti.
Come disse a milioni di persone, con la sua ruvidezza a volte così necessaria, Luciana Littizzetto al Festival di Sanremo di qualche anno fa, «chi picchia una donna è uno stronzo». Poi, certo, è soprattutto di aiuto, di assistenza e perfino di pietà che hanno bisogno anche gli stronzi, soprattutto gli stronzi. Ma la prima domanda da porre, al femminicida in carcere o in altro luogo di recupero e cura, è sempre e solamente una, semplice, facile da capire, ineludibile: ma non lo sapeva, lei, che le donne non sono di sua proprietà? Non glielo aveva mai spiegato nessuno?

«» . La Repubblica,
12 giugno 2016
Ho sempre trovato a suo modo struggente un aneddoto che riguarda gli ultimi anni della vita di Freud riportato dal suo biografo Ernst Jones. Invitato in una prestigiosa università americana a tenere una conferenza in presenza delle maggiori autorità accademiche, mentre stava tenendo il proprio discorso il padre della psicoanalisi veniva costantemente disturbato da una persona tra il pubblico che non tratteneva il proprio dissenso.
A nulla servirono gli interventi del direttore dell’università per calmarlo, al punto che si dovette prendere la misura estrema di allontanare il facinoroso dall’aula. Ma anche fuori dall’aula l’uomo continuava a strepitare disturbando lo svolgimento della conferenza e costringendo il direttore a comunicare a Freud la sua decisione di chiamare la polizia per ristabilire l’ordine. A quel punto Freud stesso intervenne chiedendo al direttore di non procedere in quella direzione, ma di fare rientrare in aula il “dissidente” offrendogli la possibilità di parlare apertamente.
In questo aneddoto troviamo riassunta efficacemente non solo l’etica della psicoanalisi — dare la parola, includere, ascoltare l’Altro che disturba — ma anche una lezione di democrazia politica più ampia: dare la parola e ascoltare l’Altro che disturba significa praticare una faticosa politica di inclusione che non cade nella tentazione del rigetto violento del dissenso.
L’immagine biblica della torre di Babele racconta, tra le altre cose, proprio l’origine della politica come arte della traduzione delle lingue. Nella sua vicenda non è in gioco solo il rapporto tra la superbia degli uomini e l’esigenza di Dio di ribadire contro di essa la sua sterminata potenza. In primo piano, come è stato notato da molti commentatori — da Benjamin sino a Derrida — è il grande tema della lingua e del nome proprio.
Quale è il peccato più grande commesso dai babelici? È quello di voler realizzare la propria impresa escludendo la possibilità di lingue differenti. Essi, infatti, si radunano attorno a un principio forte di identità: “un solo popolo” e “una sola lingua”. Gli uomini della Torre vogliono assaltare il cielo sfidando Dio non solo perché esibiscono la loro ambizione in una spinta ascendente che vorrebbe escludere l’esperienza del limite, ma perché in questo slancio fallico-narcisistico essi vogliono farsi un nome da se stessi.
I babelici sono animati da un desiderio autogenerativo: un solo popolo, una sola lingua, una sola Torre. L’opera incessante di edificazione sembra consegnarsi al culto idealizzato dell’immagine del proprio Io. Costruire la Torre è un modo per generarsi da sé inseguendo un miraggio di autosufficienza. Si tratta di una hybris che viola ogni processo di filiazione. L’esistenza di un solo popolo e di una sola lingua esclude la lingua dell’Altro: l’architettura della Torre esige la compattezza uniforme di una sola lingua e l’idolatria del Nome che si fa da sé. Non è questa una delle cifre più evidenti del nostro tempo? Non viviamo immersi nello sforzo incessante di edificazione del nostro nome proprio? Farsi un nome non è l’imperativo egemone nella concezione occidentale della vita?
Il peccato dei babelici è non aver considerato che l’esistenza di una sola lingua sopprime altre possibilità linguistiche, ovvero altri possibili modi di essere. L’auto-nominazione dei babelici vorrebbe invertire l’atto della creazione attraverso il quale Dio genera gli esseri viventi ciascuno nella propria differenza. La loro spinta alla comunione vorrebbe cancellare il disturbo dell’Altro, il disturbo dell’Altra lingua, del dissenso dell’Altro come, invece, emerge bene dal racconto freudiano.
E quando Dio discende per osservare più da vicino l’opera dei babelici, non può non notare che la loro impresa punta proprio a sopprimere l’esperienza della differenza sulla quale si fonda la Creazione. Per questo egli utilizza lo strumento della pluralità delle lingue confondendo gli uomini della Torre, correggendo la loro illusione della lingua unica. In questo modo costringe gli uomini, come si esprime Benjamin in Angelus Novus, alla «necessità della traduzione», al lutto per una “sola lingua” e un “solo popolo”.
Non si tratta di un semplice castigo ma di un riorientamento: la vita dell’uomo cresce e diviene generativa, capace di democrazia, solo se rinuncia al sogno colonialista di una lingua unica, solo se rispetta il pluralismo delle lingue e la fatica della traduzione.
In primo piano non è il Dio geloso preoccupato nel preservare la sua onnipotenza di fronte all’assalto della superbia dell’uomo, ma l’indicazione preziosa che la vita insieme esclude la comunione,l’immedesimazione, la massificazione, perché “il comune” è sempre costituito da differenze irriducibili. Una comunità non può abolire, diversamente dalla illusione nefasta della comunione, le differenze tra le lingue e tra i nomi propri, non può tendere all’assimilazione uniforme, alla massificazione anonima.
È una indicazione che ritroviamo anche nell’aneddoto di Freud: solo nell’ascolto della lingua dissidente si dà la possibilità di una comunità umana.
«“Basta con questo orrore contro i femminicidi si mobiliti tutto il Paese”. Boldrini dopo il quarto assassinio in dieci giorni “Dai politici alla tv, ognuno faccia la propria parte”».
La Repubblica, 10 giugno
«Ora basta, tutti devono mobilitarsi. Bisogna far capire ai violenti che “no pasaràn”». Dal 29 maggio, da quando è stata strangolata e bruciata a Roma Sara Di Pietrantonio, altre tre donne sono state uccise da uomini, mariti, compagni, spesso ex rifiutati. L’ultima ieri nel Veronese, una maestra trucidata con un coltello.
«È un’escalation di violenza con la quale non si può convivere, non può essere la nostra normalità. Io non ci voglio convivere ». Laura Boldrini è un fiume in piena. La sua battaglia contro il femminicidio, culminata venerdì scorso con l’esposizione del drappo rosso dalle finestre di Montecitorio, non conosce sosta. Perché non può. Viene drammaticamente alimentata, giorno dopo giorno, da nuovi tragici atti di violenza contro le donne. Per questo la presidente della Camera ha deciso di fare un passo avanti e lanciare un appello «perché tutti facciano la loro parte: istituzioni, mondo dell’informazione e dello spettacolo, le tv, le imprese, la scuola, i parroci. Mi rivolgo a chiunque non voglia più tollerare questa violenza e voglia dire “not in my name”».
La presidente ripercorre le scelte di questi ultimi giorni. «Mi è sembrato giusto aderire alla campagna lanciata sul web da molte donne dopo la morte di Sara e ho esposto il drappo rosso». Ma ora «è necessario allargare la mobilitazione, ognuno deve portare il suo contributo in questa battaglia. Io non delego nessuno, la faccio in prima persona». Tocca anche agli altri fare la loro parte.
Le istituzioni in primo luogo. Laura Boldrini ringrazia i sindaci, da Pisapia a Nardella, da Orlando a Bianco, che l’hanno seguita nel gesto del drappo rosso. E il capo della Polizia, Gabrielli, che le ha promesso un’azione incisiva.
E poi ci sono i mass media. A loro la Boldrini chiede di «raccontare questi drammi dalla parte della vittima. Smettiamola di parlare di raptus, perché non si tratta di questo: la maggior parte delle donne uccise aveva già subito molte minacce ». Ma l’appello è rivolto anche alle imprese, ai datori di lavoro, perché «vigilino contro la violenza», ma non solo. È ora che le aziende cambino anche i loro messaggi pubblicitari, che «ci restituiscono in larga parte una figura femminile ammiccante, quasi sempre svestita, per vendere qualsiasi cosa. Sono modelli che sminuiscono le donne, le oggettivizzano». Così come «quegli uomini in giacca e cravatta che conducono programmi televisivi contornati da vallette seminude. Anche le tv devono prendersi le loro responsabilità ».
Possono fare molto pure i sacerdoti e i parroci, «seguendo le parole di Papa Francesco sul rispetto per le donne».
E infine la scuola, il capitolo che forse sta più a cuore alla presidente della Camera: «Credo sia arrivato il momento che nelle scuole si insegni il rispetto di genere e venga data ai ragazzi una educazione sentimentale, per capire che si può stare insieme nel rispetto. Purtroppo tra i nostri giovani non sempre è così. Basta guardare il web - sottolinea la Boldrini - sui social abbonda una comunicazione misogina, messaggi di odio contro le donne ». E invece «la violenza contro le donne, ma anche l’insulto sessista, devono essere considerate una vergogna, uno stigma sociale, da isolare e condannare ».
Insomma «chiunque crede in un rapporto di coppia paritario, a partire dagli uomini, deve far sentire la sua voce. La violenza sulle donne è un problema degli uomini, ma finora la loro voce non si è fatta sentire. È ora di agire, perché in ballo ci sono la vita e le conquiste delle donne ».
A livello di governo qualcosa si muove. Ieri la ministra Boschi ha ricordato che è al lavoro la commissione che dovrà valutare i progetti di attuazione del piano anti violenza, con a disposizione 12 milioni. Anche per la Boschi «la vera sfida è quella educativa e culturale», che si combatte nelle parrocchie, nei centri sportivi, nelle associazioni. «La battaglia contro il femminicidio può essere vinta, deve essere vinta -ha concluso - lo dobbiamo a Sara, Alessandra, Michela, Federica e le altre»
Un passaggio necessario per la nuova "questione femminile", e non solo: la "cura domestica" è un attributo e una mansione di genere oppure è una responsabilità collettiva?
Il manifesto 9 giugno 2016
La femminilizzazione della sfera pubblica, a cui assistiamo ormai da anni , anche se viene vista prevalentemente sotto il profilo del numero crescente di donne presenti nelle istituzioni, nella politica, nell’economia, nelle professioni, nella cultura, ha come suo aspetto più innovativo la «valorizzazione» di quegli attributi che sono stati storicamente il pretesto per la loro esclusione dalla polis. Non a caso, è proprio dalla messa in discussione della femminilità che ha preso le mosse il femminismo degli anni Settanta, un salto nella coscienza del rapporto tra i sessi destinato a lasciare un segno duraturo sia nella vita privata che pubblica.
Nella fase iniziale, e per circa un decennio, era parso chiaro a tutte le componenti del movimento che l’emancipazionismo, attestato sul dilemma uguaglianza/differenza -richiesta di parità o viceversa di tutela della particolare «condizione femminile-, non poteva che portare alla conferma del «ruolo secondario e integrativo della donna anche nel lavoro extradomestico».
La «rivoluzione» del nuovo femminismo è stata prendere coscienza che l’espropriazione più profonda di esistenza delle donne passa attraverso il corpo: dalla sessualità negata e trasformata in sessualità di servizio, all’obbligo procreativo. Veniva allo scoperto che le «identità di genere» sono il prodotto astratto di una differenziazione che passa all’interno dell’individuo, separando parti tra loro indisgiungibili come il corpo e il pensiero, i sensi e la ragione. Diventava chiaro, in altre parole, che le differenze di genere, così come sono state concepite strutturano sia la relazione d’amore - come sogno di ricongiungimento armonioso dei due rami divisi dell’umanità - sia il rapporto di potere tra i sessi, a partire dalla divisione sessuale del lavoro.
Modificare se stesse
Le donne sono state confinate sul versante che è parso più vicino alla loro «natura» di genitrici, custodi della sessualità e degli interessi della famiglia, l’uomo ha riservato a sé la sfera pubblica, senza rinunciare per questo ad estendere il suo dominio sugli interni della case: «come una stirpe – scrive Freud ne Il disagio della civiltà – o uno strato di popolazione che ne abbia assoggettato un altro per sfruttarlo».
La critica a ogni forma di dualismo non poteva che partire da chi ne aveva portato per secoli il peso di maggiore alienazione e sofferenza, ma era chiaro che riguardava entrambi i sessi, i ruoli che erano stati chiamati a rivestire di generazione in generazione. Altrettanto chiare erano l’estensione e la complessità del cambiamento che si prospettava: una «modificazione di sé» che spingeva la politica fin dentro le zone più remote e misteriose della vita psichica, per venire a capo di una rappresentazione del mondo imposta dall’uomo e dalla donna «aprioristicamente ammessa» – per usare le parole di Sibilla Aleramo-, «compresa solo per virtù di analisi»; ma anche l’idea che si potesse partire da questa incursione nella storia personale, nel «sé» meno conosciuto, per modificare l’ordine sociale nel suo insieme.
Si potrebbe dire che il sogno d’amore, inteso come fusione di nature diverse, ricongiungimento degli opposti, oggi esce dalla sfera intima degli individui per diventare paradigma delle trasformazioni che interessano l’economia, la politica, l’organizzazione sociale nei suoi vari aspetti. Il lavoro di cura o il lavoro domestico, come qualcuna preferisce chiamarlo, elargito finora gratuitamente a bambini, malati, anziani e adulti perfettamente autonomi all’interno delle case, fa il suo ingresso senza soluzione di continuità nella sfera pubblica: un maternage senza fine che da «destino naturale» diventa per le donne il passaporto per la loro piena cittadinanza.
Se il femminismo degli anni ’70 nasceva come processo di «liberazione» da modelli imposti, divenuti habitus mentali, incorporati fino a confondere la lingua dell’oppressa e dell’oppressore, i decenni successivi hanno visto riemergere logiche emancipazioniste, sia pure in forme diverse da quelle del Novecento.
Acque insondate
Dopo aver scavato a lungo, e non senza difficoltà, nei sedimenti della vita psichica e nella memoria del corpo fino ai confini tra inconscio e coscienza, le anomale pratiche politiche del femminismo hanno effettivamente segnato una battuta d’arresto: per stanchezza, per paura di vedere ricomparire nella socialità tra donne che si veniva costruendo fantasmi famigliari, esperienze di rapporti materno-filiali particolarmente distruttivi o dolorosi, per la sensazione di affondare nelle «acque insondate» della vita personale, troppo lontane dalle istituzioni della vita pubblica per poter essere attraversate senza smarrirsi.
Ma c’è un aspetto dell’emancipazione che non si prevedeva o che abbiamo sottovalutato. A quella nota storicamente come rincorsa omologante a essere come l’uomo, fuga da un femminile screditato, se ne è andata affiancando un’altra: l’emancipazione del femminile in quanto tale. La donna, il corpo, la sessualità sembrano essersi presi la loro «rivalsa» sulla storia che li ha esclusi e cancellati, ma senza alcun ripensamento critico. Il passaggio da una condizione che si è subìta, perché imposta con la forza del potere, della legge, della sopravvivenza, alla scelta di farla propria, di assumerla attivamente, non è certo senza significato.
Di fronte a donne che offrono i loro corpi in cambio di carriere e di denaro, che mettono al lavoro affetti, sentimenti, la loro vita intera, non si può più parlare di «vittime». Ma neppure, all’opposto, dell’«eccellenza» femminile che oggi verrebbe riconosciuta. La seduzione e la cura, le due potenti attrattive femminili che l’uomo ha definito in funzione del proprio privilegio, assicurandosene il controllo e il possesso, sono quei poteri sostitutivi con cui le donne, escluse dalla polis, hanno costruito la loro indispensabilità all’altro. Oggi, venuti meno i confini tra privato e pubblico, è la stessa civiltà dell’uomo a richiederli, o come riserva salvifica di umanità o come semplice forza integrativa, valore aggiunto, per un sistema produttivo in crisi.
Conciliazioni indigeste
Nel passaggio dal privato al pubblico, il femminile non sembra perdere tuttavia i tratti di subalternità che lo hanno accompagnato per secoli. Come si può pensare che, richiesta dalla nuova economia, dal mercato, dalla politica, la «cura» possa divenire automaticamente «gesto di libertà femminile», «autodeterminazione del proprio tempo», elemento propulsivo di un Diversity management? Un’analisi più attenta meriterebbe oggi l’autoesclusione: riconoscere che il potere maschile non si manifesta solo come difesa a oltranza del proprio privilegio, ma anche, indirettamente, attraverso i saperi, il linguaggio, i modelli su cui si regge il governo della cosa pubblica, la cui forza sta nel celarsi dietro la neutralità.
Soprattutto, le donne dovrebbero dirsi con chiarezza se vogliono che la cura resti una «competenza» femminile, una «differenza» di genere da valorizzare e far riconoscere come potere, risorsa, anche fuori dalla casa, o se sono disposte a mettere in discussione quello che è stato storicamente un ruolo imposto alla donna.
In altre parole, se pensano che la cura sia una responsabilità collettiva, non un problema privato e tanto meno un destino della donna. In questo caso è evidente che il discorso cambia: si smette di chiamare «maternità» la crescita dei figli, che come tale può essere fatta da uomini e donne, genitori biologici e non biologici; di fare della «conciliazione» tra casa e lavoro extradomestico un problema solo della donna; si cominciano a vedere la cura e il tempo di vita, non come «valore aggiunto», una risorsa che va a migliorare un sistema economico e politico in crisi, ma una finalità in sé da anteporre alla logica del mercato e della produttività illimitata.
Chissà se chi ha promosso e votato il provvedimento che condanna per i "negazionisti", cioè per chi nega i genocidi commessi nel passato (cui si riferisce l'articolo di Melloni), si rende conto che attualmente avviene un genocidio di dimensioni ancora più vaste? La Repubblica
, 9 maggio 2016
Non è una questione di isterie accademiche, anche se queste vi sguazzano. Non sono sottigliezze epistemologiche, anche se vi sono implicate. Non è un problema del solo occidente europeo, anche se rimbomba forte nella sua coscienza. È una metamorfosi culturale profonda che si misura col “male” da cui nasce la nostra cultura e ne cambia il destino, invertendo le polarità intellettuali fra storia e memoria, con conseguenze che ci segnano tutti e che affiorano anche nei dibattiti tedeschi sul genocidio armeno e nel nostro dibattito sulla legge contro il negazionismo, approvata ieri dalla Camera, che punisce con il carcere da 2 a 6 anni.
Quel tipo di conoscenza del passato moderna che noi chiamiamo “storia” è figlia di una tradizione millenaria di esplorazione del passato, ma non di meno della secolarizzazione della “teodicea”. Dalla metà del secolo XVIII anziché chieder conto a Dio del male del mondo in un processo a cui Leibniz diede quel nome (teodicea), abbiamo imparato a chiedercene conto, in un processo fra noi umani di cui la “storia” è parte. Davanti al suo tribunale le tecniche degli avvocati di Dio che dovevano mandarlo assolto rispetto al capo d’accusa coniato già da Boezio (“Si Deus unde malum?”), diventano paradigmi storiografici che frammentano la domanda radicale sul “cos’è” dell’essere umano e sulla irreparabilità del male di cui si rende responsabile.
Bene. Questa conoscenza aveva imparato a difendersi dal potere e dalla sua richiesta ossessiva di legittimazione: e s’è invece mostrata aperta, come notava già René Remond sul finire del Novecento, alla richiesta prepotente di diventare il luogo dove si fa giustizia dei torti del mondo, del silenzio dei cancellati. Lì ha guadagnato visibilità, antagonismo con l’autorità: ma ha dato corda alla sua più insidiosa concorrente che è la “memoria”.
Non la memoria biblica dello “zaqhòr”: quella che comanda di pungere l’indifferenza che rende schiavi rivivendo il percorso di liberazione. Non la memoria “immaginativa” degli
Esercizi di sant’ Ignazio, che costringe ad affrontare i fantasmi dell’auto-carcerazione dell’io, passeggiando nel vangelo come su un set. Ma la memoria normata, quella definita dalle Leggi e regolata dalla politica: la memoria che fa votare al Bundestag (assente la Cancelliera Merkel al momento del voto) una legge contro il negazionismo del genocidio armeno, quello il cui oblio era usato da Hitler per avvalorare la pianificazione della Shoah; la memoria che fa votare al Senato italiano una legge per punire il negazionismo, come se vietare l’assurdo avesse un senso.
Questa memoria, come forma di legittimazione etica della collettività, s’è impossessata dello spazio pubblico: ha surclassato “l’uso pubblico della storia” e ha generato “l’uso pubblico” di sé medesima. Viene celebrata secolarizzando l’antica metrica della liturgia. Produce feste della memoria, sospensioni della memoria, eruzioni della memoria, festival della memoria. Fissa prescrizioni rituali, determina l’umore dei bambini, i palinsesti delle televisioni, le spese della fiction, gli obiettivi formativi delle scuole.
Nello spazio pubblico del primo Novecento, infatti, c’era una separazione fra storia e memoria che assegnava a ciascuna i propri luoghi. I “luoghi della memoria” avevano punteggiato l’Europa del primo dopoguerra, disseminando di cippi ed elenchi dei poveracci mandati a diventare carne da cannone in tutto il continente. Ma questa occupazione, passibile di usi ideologici infiammabili, aveva come contrappeso un altro spazio: quello altrettanto vasto fatto di menti e culture, a disposizione di una casta di storici, capace di aprire le menti con una conoscenza ritenuta essenziale. Anzi: proprio lo sbiadire della memoria, sotto le ingiurie del tempo e dei piccioni, rendeva fisico l’accumulo di “distanza storica”: e lì si inseriva un lavoro scientifico di cui si nutrivano (si “dovevano” nutrire) le classi dirigenti per essere tali.
Ancora nel secondo dopoguerra era questo snodo storiografico “lo” snodo di tutto. Talché si poteva dire che la Shoah diventa tema politico quando lo storico Jules Isaac ne parla a papa Giovanni XXIII o quando Raul Hilberg fa il suo dottorato sulla distruzione dell’ebraismo europeo creando un volume che i leader politici del mondo bipolare dovevano o conoscere o citare. Poi il meccanismo s’è inceppato. È lì, verso la fine della guerra fredda, che la domanda di storia si è contratta e l’offerta di storia è risultata inadeguata sul piano qualitativo e quantitativo.
La cultura storica, quella che ha impregnato la mentalità dei ceti europei di governo del secondo Novecento, quella che è stata egemone nel pensiero dei ricostruttori dell’Europa, è stata rimpiazzata da una gnosi econometrica. La lingua franca non è quella del realismo storico, ma di un moralismo che attribuisce alla opinione pubblica il ruolo delle “tricoteuses” ritratte Charles Dickens, che fanno la maglia mentre la ghigliottina mediatica lavora.
Anche per questo è cresciuto il mito della memoria, che ci somministra in date fisse, brandelli di dolore in cerca d’autore. Al poco di “verità” che volta a volta la ricerca storica afferra, s’è sostituita la dosatura della modica quantità di “colpa” che gli umani possono sopportare e la sua distribuzione per legge. Leggi che obbligano a non negare il male commesso, ma di cui la memoria sbiadisce l’analisi e fino a fissare come dose minima la non-negazione della sua esistenza.
In questo ambito è esemplare il caso italiano. La Legge della memoria del 2001 prende come data simbolo quella della liberazione di Auschwitz, e non quella delle nostre leggi razziali. Ricorda le vittime della Shoah – ebrei e zingari per l’Italia – insieme agli internati militari italiani che finirono in campo di concentramento dopo l’8 settembre e agli altri perseguitati in senso generico, ma esclude questi ultimi dai riti civili del 27 gennaio per evidente incomponibilità fra le misure etiche delle vicende. Non dice mai la parola “fascismo” nella legge della memoria: perché allora la unanimità parlamentare giustamente desiderata fu pagata a un prezzo etico esorbitante. E poi quella legge è stata affiancata nel 2004, dalla legge sulle vittime delle foibe: con un atto che sembrava voler “bilanciare” due tragedie e la loro sostanza umana in una impensabile par condicio.
In attesa che la memoria ritrovi nel sapere un argine e un farmaco, il passato diventa un solaio delle metafore, un bisturi arrugginito dall’erudizione, con cui non si possono incidere i bubboni della vita comune: in attesa che un nuovo “male” ci liberi dalla falsa alternativa fra “Funes el memorióso” di Borges e Auguste Deter, la prima paziente di Alois Alzheimer, e ci obblighi a tornare al sapere del dettaglio in cui s’annida la responsabilità.
«La dinamica dei salari affidata alla contrattazione separata inserirebbe un nuovo cuneo di divaricazione sociale tra il Nord e il Sud del Paese».
Il manifesto, 9 giugno 2016
Non capita spesso, ma quando succede ti si allarga il cuore. Nel torrente di notizie conformistiche e corrive che ci inondano ogni giorno può succedere che qualcheduna ti folgori per la sua abbagliante novità. Non eravamo convinti, tutti, che il Sud Italia - secondo ripetuti dati Istat e gli annuali e ormai monotoni rapporti Svimez - fosse in condizioni sociali alquanto gravi, e sempre più lontano dagli standard di vita del resto del Paese? E invece non è così, almeno su un aspetto: quello dei salari. Lo hanno stabilito alcuni economisti, Andrea Ichino,Tito Boeri ed Enrico Moretti in uno studio presentato in questi giorni al Festival dell'Economia di Trento (ne dà conto R.Mania, Salari appiattiti, prezzi diversi così il Sud batte il Nord più 13% di potere d'acquisto, Repubblica, 6.6.2116).
Secondo questi intrepidi ricercatori il diverso costo della vita, soprattutto il più alto costo delle case al Nord, renderebbe il contratto collettivo di lavoro - che assicura salari uguali per tutti, a Bolzano come ad Enna - fonte di disuguaglianza a svantaggio dei lavoratori delle regioni settentrionali. Il loro potere d'acquisto risulterebbe inferiore del 13% rispetto al Sud, «con un picco del 32% tra gli insegnati della scuola elementare pubblica». Insegnanti che, com'è noto, godono di stipendi lautissimi, invidiati perfino in Svezia. Dunque un egalitarismo ingiusto, che dovrebbe essere superato abolendo i contratti nazionali di lavoro e legando i salari alla produttività del singolo lavoratore, azienda per azienda.
Ora io mi chiedo, senza nessuna ironia, se questi economisti - e la gran parte degli economisti che esce oggi dalle nostre Università - sono in grado di fare analisi sociale oltre che conteggiare dati, son capaci di pensare oltre che a fare calcoli. Ma davvero si può valutare il potere d'acquisto dei lavoratori meridionali limitandosi alla cifra del valore nominale dei salari? Ma si sono rammentati costoro che nelle regioni del Sud oltre 2 milioni e mezzo di persone vivono in condizioni di povertà assoluta, che il tasso di disoccupazione ufficiale (cioè un tasso che non registra chi il lavoro non lo cerca più) si attesta da tempo sul 12%, che quello della disoccupazione giovanile supera spesso il 40%? Sono stati sfiorati dal sospetto che un salario, uno stipendio, una pensione, in tantissime famiglie, costituisce l'unica fonte di reddito che dà da vivere a vari disoccupati? Un potere d'acquisto vantaggioso per i meridionali? Ma valutato come?
Conoscono questi studiosi, le sperequazioni drammatiche, nei servizi pubblici, che i cittadini meridionali patiscono a parità di pressione fiscale rispetto ai cittadini del Nord? Di quanti asili nido dispongono le insegnanti di Ragusa, rispetto a quelle di Ferrara o di Bergamo? Si tratta di disparità gigantesche in ogni ambito della vita sociale: nella scuola, nella sanità, nei trasporti, nell'assistenza agli anziani. Si pensi, tanto per fornire qualche dato, che i servizi per l'infanzia coprono in Campania solo il 14% del fabbisogno, a fronte del 70% in Lombardia. In Sicilia solo l'11% degli anziani sopra i 65 anni usufruisce dell'Assistenza integrata domiciliare (ADI), contro il 34% della Liguria e il 93% del Veneto. Più della metà della famiglie calabresi non può bere acqua dal rubinetto a fronte del 3% delle famiglie trentine. (Domenico Cersosimo e Rosanna Nisticò,
Un paese disuguale. Il divario civile in Italia in S
tato e mercato, 2013, n.98) Ha a che fare tutto questo col potere d'acquisto?
Ma veniamo alla vera posta in gioco, che è il fine politico di queste e altre rattoppate analisi che circolano tra economisti, uomini di Confindustria, politici di varia collocazione: l'abolizione dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Ho un ricordo personale in proposito. Ho incominciato a sentir parlare di questa istituzione contrattuale, e a comprenderne il profondo significato sociale, sin da quando ero ragazzo, in Calabria. Era la seconda metà degli anni '60 e partecipavo alle lotte degli edili per l'abolizione delle “gabbie salariali”: quella divisione dei contratti di lavoro tra varie aree del paese - frutto del “realismo” della CGIL e del fronte sindacale del dopoguerra - che assegnava agli operai meridionali salari inferiori rispetto ai loro compagni del Nord.
La lezione fondamentale che appresi allora fu che i contratti collettivi nazionali costituivano una sorgente fondamentale di solidarietà di classe. I risultati salariali e normativi strappati dalla classe operaia dove essa è più forte e meglio organizzata, vengono goduti anche dai settori più deboli e marginali, che in genere si trovano in tante aree del Sud, ma anche in varie periferie del Paese. Ma quei contratti, che servivano e servono a fornire parità di salario a tutte le diverse categorie di lavoratori, svolgono una funzione rilevantissima di coesione sociale, sono necessari a non lasciare indietro sul piano del reddito e delle condizioni di lavoro migliaia di italiani che svolgono lo stesso lavoro, ma operano in aziende più marginali, vivono in aree più disagiate. Hanno il compito di non lacerare oltre il dovuto un Paese che ha disuguaglianze territoriali marcate e di antica data. Se tante aree del nostro Mezzogiorno non sono precipitate nella miseria lo si deve anche a questi istituti di solidarietà collettiva e di valore costituzionale.
Ora, com'è noto, il nuovo presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, si è presentato al suo pubblico come un deciso oppositore dei contratti collettivi nazionali. Sappiamo che all'interno del governo Renzi cova da tempo il disegno di sostituirli con contratti decentrati, che prevedono un salario minimo, e affidano il resto alla libera contrattazione fra lavoratori e padronato dentro le aziende. Constatiamo che ora economisti e dirigenti pubblici (Boeri) accorrono in sostegno del padronato (e del governo che ha deciso di rappresentarne gli interessi), mettendo a servizio di tale buona causa il loro prestigio accademico e il loro potere istituzionale.
Ebbene, noi crediamo che l'abolizione dei contratti collettivi nazionali costituisce, insieme al Jobs Act, non solo un attacco grave a quel che resta dell'unità dei lavoratori. Non solo verrebbe a lacerare gravemente il tessuto pubblico delle relazioni industriali, lasciando i singoli operai nelle mani dell'imprenditore privato, in grado di controllare una parte decisiva del salario e potendoli così ricattare con incontrastato arbitrio. Ma la dinamica dei salari affidata alla contrattazione separata inserirebbe un nuovo cuneo di divaricazione sociale tra il Nord e il Sud del Paese. Un Sud sempre più immiserito per la fragilità del suo tessuto industriale, che vedrebbe allargarsi lo spazio di cui oggi gode la criminalità organizzata per praticare il suo welfare fra gli strati emarginati.
E' bene dunque che sappiano, questi entusiasti novatori che vogliono “favorire la competività delle imprese”, che allorquando le loro proposte si affacceranno in Parlamento apriremo una campagna di denuncia politica senza quartiere. Non credano di potere vincere piegando un sindacato indebolito e con poche idee. Avranno da combattere contro un fronte ben più ampio, perché renderemo evidente che la loro proposta è una minaccia contro l'unità sociale del Paese, è un danno per la Repubblica, è un attacco alle popolazioni del Mezzogiorno. Una prateria per la sinistra se vuol cominciare a mettere radici in questa parte sempre più lacerata e immiserita d'Italia.
Un intervento a proposito della questione sollevata dall'appello "Esiste una questione maschile", lista di discussione
Officina dei saperi, 8 giugno 2016
Care amiche e cari amici,
quando ho scritto che l'Officina non può far molto per arrestare il dilagare delle violenza assassina contro le donne, intendevo dire che non ha la forza per intervenire con efficacia operativa su questa pratica ormai endemica. Rispondendo così in parte ai toni legittimamente disperati di Annamaria Riviello e di altre amiche, stanche di discorsi, amareggiate e deluse di fronte all'inerzia e all'impotenza delle istituzioni. Ma non mi riferivo certo al piano delle idee e delle proposte. Il dibattito sulla mailing list, del resto, già lo dimostra, e l'efficace appello di Enzo Scandurra è un ottimo esito di tale discussione. A riprova che l'Officina non fa accademia ma sa affrontare anche temi politici, della “politica alta”, per dirla con Papa Francesco.
Io riprenderei alcuni temi presenti nelle vostre mail (Villani, Rufino, Scandurra) per svolgere un paio di considerazioni che sono più coerenti coi temi dell'Officina. Naturalmente il tema della violenza maschile potrebbe essere affrontato sotto molte profili. Io credo che quello della costruzione della soggettività maschile sia un nodo fondamentale. Lo dico per convinzione ovvia, ma anche perché, alla fine delle mie considerazioni, intendo fare una proposta. Qui, parlo da maschio, meridionale, nato sul finire della guerra mondiale, che ha sperimentato personalmente, all'interno della propria famiglia, la naturalità del fatto che sua madre e le sue sorelle dovessero cucinare, fare il bucato, rifare il letto, stirare, pulire i piatti, ecc. Altrettanto naturale era il fatto che gli uomini dovessero astenersi da simili compiti,” da femminucce”. Solo abbastanza tardi mi sono accorto di quanta incomprensibile ingiustizia ci fosse in tale normalità: in questa accettazione universale di una servitù, di un asservimento della persona umana della donna, vissuto come un fato indiscutibile, come il colore dei nostri occhi, il cadere della pioggia, il soffiare del vento.
C'è nella subalternità della donna che ancora domina il nostro tempo un che di clamoroso, un sopruso gigantesco che ci si para davanti come una montagna: una montagna che noi non riusciamo a scorgere . E naturalmente sorprende la sua perduranza, dopo tante lotte e dibattiti e libri. Non mi sto allontanando, badate, dal cuore del nostro problema. A spingere un uomo a uccidere la propria compagna concorrono molti elementi. Ma al fondo c'è sempre un dato antropologico comune: la subalternità della figura femminile, la sua pretesa appartenenza strutturale ai maschi. Oggi tanto più forte quanto più il corpo della donna fa ormai parte del paniere delle merci nelle società opulente. Si compra e si vende. Ma il fatto è che noi abbiamo a che fare con un rapporto sociale che si è naturalizzato, è diventato perciò invisibile, si è trasformato in mentalità. E «la mentalità - diceva Fernand Braudel - è la più tenace delle strutture».
Io credo, però, che tale permanenza della servitù della donna nella modernità, l'unica rimasta ancora in piedi in Occidente - anche se oggi rinasce in nuove forme nelle nostre campagne - non sia un esito inerziale, un retaggio del passato. La subalternità della donna è una componente fondamentale del capitalismo attuale e del suo meccanismo di accumulazione. Questo modo di produzione, che ha rivoluzionato i rapporti sociali dell'antico regime, non si è mai sognato di liberare la donna, di renderla autonoma, e ha ereditato in pieno e rifunzionalizzato quella forma di servaggio personale. Non solo, come sappiamo, portando le donne in fabbrica (insieme ai bambini, nel XIX secolo) ma - per quel che ci interessa qui - soprattutto confermando il suo ruolo di “assistente” del maschio.
Ormai nessuno ci fa più caso, ma il sistema capitalistico utilizza una massa gigantesca di lavoro non pagato che si svolge dentro le mura domestiche. Pensiamo alle migliaia di famiglie operaie (e non solo operaie) del nostro come di tanti altri paesi. Le donne che cucinano, lavano, stirano, ecc. non solo svolgono il ruolo di riproduttrici del proletariato, ma sostengono l'attività non pagata di preparazione della forza lavoro. L'operaio o l'impiegato arrivano ogni mattina sul posto di lavoro pronti a valorizzare il capitale (industriale o finanziario) senza che l'imprenditore abbia cacciato nel frattempo una lira di tasca propria. Ha pronta la manodopera da sfruttare, in tuta o in giacca e cravatta, grazie al lavoro non pagato delle donne di famiglia, costrette talora a svolgerlo nelle pieghe delle prestazioni salariate che svolgono fuori casa.
E' anche questa è una montagna invisibile di paradossale ingiustizia. Resa ancora più paradossale dal fatto che il femminismo non è ancora riuscito a vedere in questo servaggio nascosto del capitale, un terreno eversore di lotta non solo femminista, ma universalmente anticapitalistica. C' è da liberare le donne dai maschi, ma anche gli uomini dal dominio degli altri uomini.
Infine la proposta. Avrei voglia di suggerire l'istituzione di un pronto soccorso in ogni comune, che intervenga con tempestività su chiamata. Ma lascio la cosa a chi è più competente di me su questi problemi. La proposta di fondo, che voglio fare è invece di lungo periodo e di carattere culturale. Ha di mira il fine di rendere visibile la montagna. E occorre farla scorgere ai ragazzi fin da quando formano la loro mentalità. Penso - è una idea da arricchire e completare da chi ha più competenza in materia – che sarebbe il caso di inserire nei programmi scolastici, probabilmente nelle medie, almeno un'ora alla settimana, obbligatoria, dedicata alla servitù di genere. I programmi da impartire andrebbero studiati bene, anche se non mancano certo i materiali storici, sociologici, i testi, gli argomenti.
Sarebbe, io credo, una leva importante per costruire una nuova soggettività, fondata sul rispetto per le donne, di scoperta della loro naturale parità. Ma io credo che, in mano a bravi insegnanti, (che potrebbero essere anche figure esterne agli insegnanti di ruolo) l'insegnamento sarebbe assai utile per formare una coscienza che non solo non accetta la subordinazione femminile, ma che si accorge della montagna: vede l'ineguaglianza fra le persone, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, come una condizione innaturale, inaccettabile, a cui ribellarsi.
Riferimenti
Altraeconomia, 6 giugno 2016 (p.d.)
La “riforma” costituzionale voluta dal Governo non rappresenta soltanto un “attacco al cuore delle istituzioni”, ma la garanzia di un sostanziale immobilismo parlamentare e legislativo. A sostenerlo, dopo aver letto con attenzione i 41 articoli del testo definitivo pubblicato in Gazzetta ufficiale, è il professor Vittorio Angiolini, docente di Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano. Con altri 55 colleghi, ha sottoscritto a metà aprile un documentato appello a sostegno delle ragioni del “No” in vista del referendum di ottobre, meritandosi l’etichetta di “archeologo travestito da costituzionalista” dal presidente del Consiglio.
Professor Angiolini, quali sono i pregi e i difetti della riforma?
Abolire il bicameralismo paritario indifferenziato -e cioè due Camere che devono entrambe deliberare la legge nello stesso testo, che devono entrambe dare la fiducia al Governo e che sono entrambe composte pressoché nello stesso modo- è un’idea corretta, in astratto. Il problema è che nella riforma il Senato è stato cambiato sia nella composizione sia nelle funzioni. E il guaio è che in entrambi i casi si è voluto costruire un meccanismo che produce effetti opposti a quelli dichiarati, traendo contraddittoriamente ispirazione da modelli opposti tra loro: quello del Senato degli Stati Uniti, composto di senatori direttamente eletti dal popolo per ogni Stato -e dotato di funzioni di controllo sul potere esecutivo molto potenti-, e quello tedesco, dove i Laender, gli Stati federati della Germania più simili alle nostre Regioni, eleggono un certo numero di rappresentanti dentro il Bundesrat, il consiglio federale. Il nuovo articolo 57 della Costituzione prevede infatti che i senatori vengano eletti dai Consigli regionali ma in "conformità" alla volontà del popolo. Siccome è impossibile fare una legge che metta d'accordo il popolo e i consiglieri regionali, perché tutto ha un limite anche nella magia di questo Governo, si dovrà operare una scelta attraverso una legge di approvazione delle due Camere che sacrificherà una delle due volontà, contrastanti tra loro nello stesso articolo, e che sarà incostituzionale per definizione. La cosa curiosa di questa "riforma" è che nasce da un governo che ha molto fastidio per il componimento delle controversie in sede giudiziaria, e che però ha scritto una riforma il cui principale vizio sta proprio nel fatto che rimette tutto ai giudici.
Dunque sarà impossibile comporre il nuovo Senato?
Sarà difficile, quanto meno in modo legittimo. La qual cosa 'non ha un gran peso', si dice, perché in fondo alla riforma c'è una norma transitoria secondo la quale fino a che non si fa la legge per l'elezione dei senatori, li eleggeranno i consigli regionali su liste bloccate. Ripeto, su liste bloccate. C'è il rischio dunque che la legge non si faccia mai e che la composizione del Senato venga regolata dalla norma transitoria da qui all'eternità. Che è un classico in Italia.
Poniamo che si passi questo piccolo ostacolo. Lei rileva un vizio anche in tema delle “nuove” competenze delle Camere.
Nel testo della riforma, il Senato perde la funzione di dare la fiducia al Governo ma mantiene funzioni legislative. E si differenziano i procedimenti. I fautori del Sì ne hanno contati due. In realtà non è così. Abbiamo un florilegio di procedimenti differenziati. Cito un esempio: la legge con cui lo Stato interviene nelle competenze regionali, secondo il nuovo articolo 117 della Costituzione, per quella che è definita come "l'unità giuridica ed economica" -che non si sa cosa sia ma questo poi lo stabiliranno i giudici, ancora una volta-, non solo dovrà essere approvata da entrambe le Camere ma c'è una previsione inedita. Questo tipo di legge potrà essere proposto soltanto dal Governo. Bene, avremo un Parlamento che delibererà leggi per cui l’iniziativa è preclusa ai membri del Parlamento stesso. Dopodiché, ai sensi del "nuovo" articolo 70, Camera e Senato dovrebbero legiferare insieme tutte le volte che si parla di "attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea". Chiunque sa che è molto difficile che vi sia una materia regolata dalla legge nazionale che non sia toccata da una direttiva comunitaria. E poi ancora le due Camere voteranno insieme in merito a “organi di governo, funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni". La questione non è tanto se tutto rimanga come prima, quanto il fatto che tutto diventi più complicato di prima, visto che la competenza generale di legislazione dovrebbe essere solo della Camera. Ma questa differenziazione di materie, passibili di mille interpretazioni sull'intervento del Senato, possono dare luogo ad incostituzionalità per vizio di procedura.
In che senso?
Se la Camera dei Deputati delibera da sola in una materia per cui sarebbe prevista la partecipazione del Senato, la legge è incostituzionale. Se il Senato interviene in una materia in cui in realtà spetta la competenza solo alla Camera dei Deputati, la legge è incostituzionale. È il festival delle controversie procedurali di fronte alla Corte costituzionale.
Che cosa muta a proposito dell’elezione del presidente della Repubblica?
La modifica dell'articolo 83 della Costituzione contiene quello che secondo me è un errore secco, nel senso che proprio non se ne sono accorti. Nelle situazioni di crisi, penso all'ultima rielezione di Napolitano, cioè dal settimo scrutinio, si potrà eleggere il presidente della Repubblica con i 3/5 dei votanti. Il che vuol dire, anche adottando l'interpretazione più rigorosa secondo la quale la votazione è valida solo se è presente la maggioranza degli aventi diritto, che la maggioranza che può eleggere il presidente della Repubblica è più ristretta della maggioranza che occorre per dare la fiducia al Governo. È chiaro che cosa significa? Che un Governo in crisi, privo di una maggioranza chiara sul piano dell'assemblea, può eleggere il "suo" presidente della Repubblica, magari anche a seguito di dimissioni volontarie di quello che lo precede. Tecnicamente, il presidente della Repubblica diventerà un'appendice del Governo, un unicum in tutta l'Europa occidentale.
Al vostro appello dei 56 è stato contrapposto quello dei 184 a sostegno del Sì, in parte anche non appartenenti al mondo accademico del diritto. Che cosa ne pensa?
La questione non è tanto se i 184 sottoscrittori del Sì siano o non siano costituzionalisti. Ciascuno ha diritto di esprimersi. La cosa straordinaria è che questo documento è stato anticipato una settimana prima da una dichiarazione del presidente del Consiglio al Corriere della Sera in cui si diceva "Loro sono 56 noi ne troveremo più di 100 e ho già incaricato il ministro Boschi di trovare la lista". Io credo che questo fatto, in un Paese normale fatto di persone di buon senso, debba far riflettere.
Qual è la sua opinione sul combinato disposto riforma costituzionale e nuova legge elettorale (l’Italicum) fortemente maggioritaria?
Sono tra quelli che hanno sempre pensato che le leggi elettorali non fossero decisive per le sorti della Costituzione. Non mi sono mai stracciato le vesti, essendo comunque un proporzionalista. Qui però la combinazione è forte. Come funziona l'Italicum? Si vota su lista, con preferenze quasi bloccate. Se al primo turno qualcuno raggiunge il 40% prende il 55% dell'assemblea della Camera dei Deputati. Una legge così è fatta perché nessuno raggiunga il 40%, disincentivando le aggregazioni. La lista che vince al ballottaggio prende lo stesso premio di maggioranza. In un sistema frammentato come il nostro è immaginabile che con il 15% al primo turno si possa arrivare a conquistare il 55% dell'unica Camera realmente elettiva del Parlamento italiano. È inaccettabile, anche perché i viola i limiti posti dalla Corte costituzionale nella sentenza 1/2014 sul cosiddetto "Porcellum". La riforma costituzionale, che comunque non andrebbe bene anche se questa legge elettorale non vi fosse, con questo testo di appendice peggiora ulteriormente le cose.
Il presidente del Consiglio ha criticato il fronte del “No” sostenendo che nella riforma è rafforzata la partecipazione popolare. È d’accordo?
L’unico elemento di novità è una norma inserita nell'articolo 71 che promette, in una futura legge, di prevedere referendum diversi da quello abrogativo -come i propositivi e di indirizzo-, "al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche". Attenzione, la legge sarà costituzionale, cioè si dovrà rifare un altro procedimento uguale a quello che si è fatto per questa “riforma”. Si tratta di una tecnica vecchissima: già Governi degli anni 70, si facevano le leggi non per dire che si faceva una cosa ma per dire che si sarebbe fatta una legge che avrebbe consentito di fare quella cosa. Dopodiché viene effettivamente modificato il referendum abrogativo in un modo che è curioso, perché sarebbe abbassato il quorum che oggi è necessario per la validità del referendum purché si raccolgano 800mila firme. Mi pare un rimedio peggiore del male. Tutte le Costituzioni più serie sul referendum stabiliscono non una quota fissa di elettori che possono chiedere il referendum ma una quota percentuale del numero degli elettori iscritti alle liste elettorali. Sono molto perplesso anche sull'abolizione del quorum, perché è vero che il quorum si è prestato a giochetti ("Non andate a votare...") ma è vero anche che il quorum stabilisce un minimo di controllo dei votanti sul quesito referendario. Su questo la Consulta ha stabilito che nel caso di un referendum debbano esserci due alternative chiare proposte all'elettore e che siano chiaramente contrapposte ed egualmente credibili. Altrimenti è un finto referendum. In un Paese serio, il non voto che impedisce il raggiungimento del quorum può avere un significato importante proprio quando si tratta di contestare il quesito.
A ottobre, però, il quorum non sarà richiesto.
In questo referendum costituzionale non c'è il quorum ma il problema della omogeneità delle scelte c’è tutto. Perché qui si vota sulla composizione del Senato, le sue funzioni, i poteri e la posizione del Governo, il presidente della Repubblica, i poteri delle Regioni. Ciascuno potrebbe avere su ognuna di queste cose delle opinioni legittimamente diverse. Ma di fatto il referendum si trasforma in un prendere o lasciare. E mi permetto di dire che questo è l'aspetto più grave. Il comportamento che sta tenendo il Governo Renzi in un referendum costituzionale -“O con noi o ce ne andremo”- non si era mai visto. Non si era visto nemmeno ai tempi della votazione della legge costituzionale votata dal centrodestra. Un costituzionalista francese di qualche tempo fa, di fronte al Governo francese che fece precisamente la stessa cosa -stendendo un progetto di Costituzione per poi dire al Paese che se non fosse stato approvato non ci sarebbe più stata la Costituzione-, disse che l'unica ragione del referendum era il “cesarismo”. La scelta delle alternative da sottoporre al voto è un problema serissimo perché se non si fa bene cade la democraticità del voto. Qui il Governo forza questa scelta, mostrando autentico disprezzo per le decisioni democratiche.
Al di là della proposta del Governo, lei ritiene che la Costituzione debba essere modernizzata?
Voglio dire un'eresia: andrebbe cambiata molta della prima parte della Costituzione. Abbiamo tutte le norme sulla libertà che non sono adeguate all'uso delle nuove tecnologie, al fatto che la tecnologia oggi incide sulla vita, sulla morte e sulle vicende della persona. Abbiamo una norma sulla libertà di espressione e manifestazione del pensiero che non parla dei mezzi di comunicazione di massa. Non abbiamo nessuna norma esplicita che parli di ambiente, e perciò ci si deve attaccare a interpretazioni differenti. Perché parlo di un'eresia e io stesso mi guarderei bene dal proporre una cosa del genere? Perché il vero problema dell'Italia è l'inaffidabilità della politica. E questo purtroppo è un problema che nessuna Costituzione ci potrà mai risolvere. Ce lo dobbiamo risolvere da soli, in qualità di cittadini.

Il nostro sistema parlamentare è quello che, dal punto di vista istituzionale, meglio consente alla maggioranza di governare, sia pure nel rispetto delle garanzie di tutti e sotto il controllo delle opposizioni». Corriere della Sera, 8 giugno 2016 (c.m.c.)
Caro direttore, ha sicuramente ragione Michele Salvati («Perché la riforma riguarda tutti ed è solo il primo passo», nel Corriere del 30 maggio) quando dice che la riforma costituzionale «è problema troppo serio per essere affidato ai soli costituzionalisti», ed è piuttosto «un problema storico-politico».
Ma quale problema? Quello di passare (finalmente, dice Salvati) a una «Seconda Repubblica», e quindi di distaccarci decisamente dai caratteri fondamentali della Repubblica nata con il referendum del 1946 e con la Costituente? Questa, dal mio (e non credo solo mio) punto di vista non è una prospettiva allettante, è piuttosto una minaccia.
Sono almeno venticinque anni che taluno vagheggia una «Seconda Repubblica», e i prodromi e le tendenze che si sono visti o intravisti sono tutt’altro che rassicuranti. Salvati muove anch’egli, come altri fautori delle «grandi riforme», dall’idea che il nostro sistema costituzionale sia caratterizzato da un eccesso di poteri di freno e da una endemica debolezza dell’esecutivo, visto invece come unico potere chiamato a decidere; e che ciò sia storicamente dovuto alla scelta di settanta anni fa di voler «imbrigliare un partito antisistema» (il Partito comunista) che si temeva potesse ottenere la maggioranza elettorale.
Ma davvero si pensa che se il Partito comunista degli anni Quaranta del Novecento avesse conquistato la maggioranza elettorale nel Paese il bicameralismo (per dirne una) avrebbe costituito un freno efficace a rischi di abbandono del terreno della democrazia liberale? Davvero si pensa che le forze di ispirazione schiettamente democratica che diedero vita alla Costituzione, se non ci fosse stato il Partito comunista, avrebbero scelto un diverso sistema istituzionale fortemente accentrato e basato sui poteri dell’esecutivo, abbandonando il classico terreno delle democrazie di massa europee, cioè il parlamentarismo?
In realtà il sistema parlamentare, assicurando la consonanza di legislativo e esecutivo (perché il governo non ha altra legittimazione se non quella che gli deriva dalla fiducia della maggioranza parlamentare), è quello meglio in grado di consentire ad una maggioranza di realizzare i propri programmi, non solo in via amministrativa, ma anche promuovendo e guidando la formazione delle leggi che esprimono e traducono il suo indirizzo politico. O si dovrebbe preferire un sistema all’americana, dove il presidente dura in carica quattro anni, ma ogni due anni entrambe le Camere si rinnovano (una per intero, l’altra per un terzo), e se la maggioranza del Parlamento non è d’accordo col presidente questi non ha strumenti, (né la questione di fiducia, né il potere di scioglimento anticipato delle Camere) per tradurre il suo programma in leggi e in decisioni di spesa (il bilancio dello Stato infatti dipende dal Parlamento)?
Il nostro sistema parlamentare è quello che, dal punto di vista istituzionale, meglio consente alla maggioranza di governare, sia pure nel rispetto delle garanzie di tutti e sotto il controllo delle opposizioni.
Ma, si dice, le maggioranze faticano a comporsi, o si disfano spesso, o sono divise, e dunque il processo decisionale non riesce ad esplicarsi con efficacia: solo un governo (anzi, un capo del governo), che possa per tutta la legislatura decidere senza impacci e condizionamenti, potrà governare con efficacia.
Qui si svela il vero sogno dei fautori delle «grandi riforme»: il sogno (o per altri, come noi, l’incubo) dell’«uomo solo al comando». La realtà è che il sistema costituzionale è in grado di offrire ed offre la possibilità di costruire e attuare processi decisionali efficienti, ma perché essi possano operare ci vogliono delle condizioni politiche: è la politica, bellezza, viene da dire.
Al di fuori di queste, le istituzioni, di per sé, possono solo offrire strade di impoverimento della democrazia rappresentativa (occorre un unico «vincitore», e non importa quale consenso abbia dietro di sé); oppure la scorciatoia di torsioni di tipo autoritario. È questo che alla fine vogliamo?
Dire «condizioni politiche», in democrazia, vuol dire necessità che si riescano a promuovere, costruire, mantenere soluzioni sufficientemente condivise. Che non vuol dire solo, si badi, dar vita e tenere unita una maggioranza parlamentare sufficientemente coesa intorno agli obiettivi cui le decisioni politiche tendono. Ciò è certo auspicabile, e il ruolo costituzionale dei partiti (intesi come strumenti di partecipazione politica, e non come puri gruppi di potere) è appunto questo. Ma la condivisione in politica ha molti aspetti.
C’è anche, ci può essere anche, una condivisione più ampia o talora perfino diversa da quella che dà vita alle maggioranze di governo. Nel 1970 la legge sul divorzio fu varata in Parlamento sulla base di un consenso (poi confermato dagli elettori) diverso da quello su cui si fondava la maggioranza di governo dell’epoca.
Più in generale, il confronto fra maggioranza e opposizioni non può reggersi solo su una aprioristica contrapposizione a tutto tondo e senza eccezioni. Può e deve contemplare piani diversi anche di condivisione e di confronto: senza che su ogni tema o sottotema la dialettica si traduca sempre e necessariamente in uno scontro senza quartiere, in cui ognuno è chiamato non tanto a sostenere le proprie idee quanto a reggere un gioco delle parti; senza che ogni convergenza al di fuori dei confini della maggioranza del momento debba spregiativamente qualificarsi come forma di negativo «consociativismo» (anche la comunità politica è fatta di consoci).
Il «miracolo» dell’elaborazione ampiamente condivisa e dell’approvazione pressoché unanime della Costituzione del 1947 (in una congiuntura politica che negli ultimi mesi della Costituente vide fra l’altro la spaccatura della maggioranza di governo, e il passaggio ad una diversa alleanza, quella centrista) si spiega proprio come il risultato prezioso voluto e raggiunto da una classe politica che capì fino in fondo il senso dell’operazione costituente e le ragioni di unità che stavano a base della Costituzione.
Ma, per venire a vicende a noi più vicine, qualcuno forse può pensare che la democrazia italiana sarebbe uscita complessivamente indenne dagli anni dello stragismo (da piazza Fontana alla stazione di Bologna) e dagli anni della sfida del partito armato (fino al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro), se non vi fosse stata una capacità delle forze politiche allora dominanti, di maggioranza e di opposizione, di cercare e trovare terreni di convergenza e di intesa sull’essenziale?
Mettere mano alla Costituzione, lo si dovrebbe fare sempre e solo in questo spirito. Questa è la «politica» degna del nome, non quella contro cui sempre più italiani sembrano oggi concepire solo fastidio e disprezzo, quella fatta, secondo l’immagine oggi purtroppo accreditata anche dall’alto, di «poltrone» da possibilmente sopprimere per ridurne i «costi».
Recenti e troppo frequenti episodi di uccisione di donne a parte di maschi ha indotto alcuni appartenenti al genere dominante, nell'ambito della lista di discussione "officina dei saperi", a reagire con questo appello, che
eddyburg fa proprio e invita a sottoscrivere. In calce l'elenco dei primi firmatari e l' indirizzo a cui inviare le adesioni
La ripetizione sempre più diffusa di efferati femminicidi chiama ormai in causa gli uomini portatori, più o meno consapevolmente, di una cultura maschilista che li rende carnefici, oltre che “vittime” di tale cultura, ben al di là di una loro (consumata) solidarietà con la persona colpita dalla violenza.
L’uccisione o la mutilazione della fidanzata, moglie o compagna, avviene quasi sempre per motivi di gelosia o per rottura, da parte della donna, del patto di convivenza.
L’uomo forte e dominatore non può (o non è capace) di accettare quello che ritiene essere un “affronto”, così che la vendetta è la reazione “istintiva”: mia o di nessun altro. E’ così che da carnefice l’uomo diventa anch’egli vittima del suo stesso pensiero.
C’è un’asimmetria in questo rapporto: se a finire il rapporto è la donna, tale gesto di rottura assume il significato di tradimento, mentre se è l’uomo a rompere il rapporto d’affetto, allora esso viene considerato comprensibile e accettabile. In un passato poi non così lontano ci sono stati processi dove come attenuante è stato addotto il fatto che la donna indossasse jeans aderenti o, comunque, abiti provocanti giustificando il comportamento violento con l’affermazione che “se l’era un po’ cercata”. Così come il “delitto d’onore” non è un’oscura pratica medioevale abbandonata centinaia di anni fa. Noi veniamo da questo passato recente.
I cambiamenti antropologici indotti dallo scatenamento degli istinti animali del neoliberismo, hanno accentuato l’individualismo proprietario soprattutto degli uomini. Ed è per questo che noi uomini dobbiamo dire a gran voce: not in my name, dove il my name oltre ad avere una valenza personale riguarda l’intero genere maschile. E questo vincendo quell’oscuro timore (mai esplicitato) di passare per “femminucce” che trasgrediscono il codice maschile.
Nessun uomo può dirsi innocente, perché c’è una connivenza complice in ciascuno di noi con il pensiero dell’individuo proprietario, della ostentazione della forza, dell’offesa non perdonabile. Quante volte noi stessi abbiamo fatto battute o raccontato a soli amici maschi barzellette denigratorie sul genere femminile? E quante volte pur non avendolo fatto direttamente abbiamo sfoderato un sorrisino complice a questi racconti stereotipi?
La diversità di genere è una ricchezza, ma può scivolare nello sciovinismo maschilista se a tale diversità viene assegnata una gerarchia, ruoli non paritari.
Non basta, per noi uomini, firmare appelli in difesa delle donne, partecipare sinceramente commossi a iniziative di solidarietà con loro. Bisognerebbe iniziare a firmare appelli anche contro quella parte di noi stessi che indulge a connivenze complici perché quei maschi assassini non sono alieni venuti da altri pianeti: sono l’esito drammatico di un pensiero che alberga oscuro nelle teste di noi uomini.
hanno aderito:
Abati Velio
Aragno Giuseppe
Andriollo Danilo
Bevilacqua Piero
Baioni Mauro
Bianchi Alessandro
Budini Gattai Roberto
Camagni Roberto
Cataruozzolo Nicola, libero pensatore
Cervellati Pier Luigi
Fiorentini Mario
Dignatici Paolo
Di Siena Piero
Gambardella Alfonso
Indovina Francesco
Magnaghi Alberto
Masulli Ignazio
Nebbia Giorgio
Ottolini Cesare
Quaini Massimo
Roggio Sandro
Salzano Edoardo
Saponaro Giuseppe
Scandurra Enzo
Scudo Gianni
Siciliani de Cumis Nicola
Stucchi Silvano
Toscani Franco
Urzì Gaetano
Vannetiello Daniele
Viale Guido
Ziparo Alberto
11 giugno 2016, ore 13,00
Intervista alla filosofa Ágnes Heller. «Ognuno deve prendersi cura del mondo e insieme renderlo un po’ migliore. Non è una prospettiva brutta: senz’altro migliore rispetto alla disillusione che nasce dalle utopie mancate
». Il manifesto, 6 giugno 2016 (c.m.c.)
A ottantasette anni, Ágnes Heller incarna sempre la vitalità della filosofia ben oltre l’etichetta di «allieva di Lukács». È stata una delle protagoniste al Festival Biblico di Vicenza del dialogo con Riccardo Mazzeo, ispirato dal saggio a quattro mani Il vento e il vortice.
Utopie, distopie, storia e limiti dell’immaginazione (Erickson pagine 152 euro 14,50). «È un libro nato a Pordenonelegge nel settembre 2015 dopo il confronto con Riccardo Mazzeo sul tema ’bellezza e utopia’. Allora mi stavo occupando di filosofia medioevale e rinascimentale. Ma scattò l’interrogativo: ’Perché oggi non ci sono più utopie?’. Così sono giunta alla conclusione che questa assenza potrebbe perfino trasformarsi in un vantaggio…» spiega, mentre sorseggia felice un espresso e conta di concludere il suo soggiorno italiano con la visita alla Biennale di architettura.
Sopravvissuta alla Shoah, espulsa nel 1959 dall’Università di Budapest, emigra con il marito Ferenc Fehér in Australia nel 1977. Dopo aver insegnato sociologia a Melbourne, approderà a New York sulla prestigiosa cattedra di Hannah Arendt.Da tempo è tornata a vivere nella capitale ungherese, anche nel ruolo di spina nel fianco del premier ultranazionalista Viktor Orban. E di nuovo, nell’ultimo libro, Ágnes Heller insiste nell’illuminare speranze e paure alla luce di uno sguardo filosofico mai disattento nei confronti delle trame visionarie quanto dell’attualità.
«Dal mio punto di vista, occorre distinguere due forme di utopia – spiega la filosofa -. Quella del desiderio, cioè un mondo in cui tutti i bisogni sono soddisfatti: non si deve lavorare, niente Stato né leggi o guerre. È come l’età dell’oro che è alle nostre spalle, come per la Grecia antica. O come nella Bibbia (Genesi, 2) con Adamo e Eva nel Giardino dell’Eden, che hanno tutto a disposizione senza dover lavorare e non sono minacciati dal dolore e dalla morte.
Marx immagina lo stesso tipo di utopia, solo che diventa quella del futuro dell’umanità: niente mercato, Stato, leggi, istituzioni, matrimonio, eccetera; tutti i bisogni soddisfatti nella società dell’abbondanza. Ma come già evidenziava Freud in Disagio della civiltà, utopia senza cultura e con una libertà totalmente negativa».
E l’altra forma di utopia qual sarebbe?
L’utopia filosofica. In buona sostanza, non ci permettono la soddisfazione dei nostri desideri, però da qualche parte e in qualche modo possiamo immaginare la società giusta. Comincia Platone con la sua Repubblica ideale, perché i filosofi sono in grado di trasformare l’idea in realtà e quindi anche di creare lo Stato perfetto.
Nel 1516 Thomas More scrive Utopia nell’età delle grandi scoperte: è l’isola esattamente opposta all’Inghilterra; ma è anche, di fatto, uno Stato totalitario. Con Charles Fourier si approda all’utopia socialista del falansterio. Costruita «scientificamente», perché nel XIX secolo si aveva fede nella scienza capace di risolvere ogni problema. Di qui l’idea che sarebbe stato sufficiente mettere gli individui insieme per ottenere lo stato d’armonia e la felicità di tutti. Dopo il 1789 la narrazione è ispirata, invece, dall’idea di progresso universale. Dallo stato primitivo si tende verso quello civilizzato. Progresso all’orizzonte dell’umanità per evoluzione, grazie alla rivoluzione o attraverso riforme progressive.
Il «secolo delle ideologie» tuttavia non produce felicità, ma guerre mondiali. Né realizza sogni: se mai, disillude…
Si giunge così all’idea della fine dell’utopia. Nel XX secolo collassa il concetto di progresso: dopo Auschwitz e i gulag come si può ancora parlare di società che tende naturalmente al meglio, al futuro luminoso, alla progressiva felicità? È il primo momento di critica culturale che apre alla prospettiva della distopia. Si sviluppa il concetto di decadenza, che Oswald Spengler sintetizza nel Tramonto dell’Occidente. Ma con l’incubo della guerra nucleare anche la scienza non è più l’angelo della redenzione: le bombe atomiche sono l’emblema della dannazione.
Si imbocca così l’immaginazione critica, la «contro-narrazione», il pensiero non più edificante?
Le distopie sono gli scenari dell’autodistruzione per la nostra ecosfera, che da almeno vent’anni sono previsti nella letteratura scientifica. Altri vettori di distopie sono le opere di letteratura fiction che già Jonathan Swift aveva offerto con le sue satire. Penso in particolare al Mondo nuovo di Aldous Huxley, a 1984 di George Orwell e a La strada di Cormac McCarthy. Senza dimenticare i numerosi film con le medesime caratteristiche.
E cosa hanno in comune?
Le distopie sono avvertimenti. Ci mostrano le alternative alla disillusione, alla disperazione, alla catastrofe. Un po’ come i profeti biblici che, nella società dominata dal peccato, indicano all’umanità che soltanto con la correzione dei suoi comportamenti, può evitare un’esistenza dannata. Oggi sappiamo che l’uso delle armi nucleari equivale alla fine del mondo. O che abbiamo una scelta fra essere soggiogati da un leader totalitario e difendere le libertà.
Dunque, in questo vortice, esiste qualcosa che si possa fare?
Coltivare il «giardino» in cui viviamo. Con responsabilità, attenzione e cura. Era il suggerimento di Voltaire, nel Candido. Del resto, questo è il mondo dove siamo nati e moriremo. Ognuno deve mantenerlo e insieme renderlo un po’ migliore. Non è una prospettiva brutta: senz’altro migliore rispetto alla disillusione che nasce dalle utopie mancate.
Tornando ai temi dell’ultimo saggio, dove si annida la contraddizione fondamentale dell’individuo nella società?
Occorre ritornare alla Costituzione della Rivoluzione francese che sancisce i droits de l’homme e du citoyen come se i diritti umani e quelli di cittadinanza fossero equivalenti e perfino sinonimi. Non è certo così, soprattutto dal punto di vista etico nell’Europa moderna. Ci viene, infatti, chiesto di essere brave persone e buoni cittadini. Due sfere differenti: la moralità individuale e il rispetto delle leggi. Eppure, sono anche pilastri che si sorreggono a vicenda nel nostro mondo. La cooperazione tra valori privati e virtù pubbliche è oggi più necessaria che mai se vogliamo evitare che il futuro assomigli agli incubi della distopia.
E la crisi che attanaglia l’Europa, è risolvibile?
Va sempre ricordato che, al contrario del mondo anglosassone, in Europa la democrazia non è certo una tradizione. Anzi, per Grecia, Spagna, Portogallo e per la stessa Italia vale solo negli ultimi decenni. E nella storia dei Paesi dell’Est la democrazia è ancora più recente. Piuttosto, bisogna prestare attenzione al bonapartismo sempre presente in Europa: lo inaugura Napoleone e arriva ben oltre Mussolini. L’uomo forte, che tutto risolve, perché finisce con l’incarnare la verità, lo Stato, la società. Il «condottiero» che non si fa scrupoli e ricorre al populismo, anche se rappresenta interessi oligarchici.
A volte mi vien da pensare che il Vecchio Continente sia stato ri-paganizzato: la nazione come autorità suprema e il nazionalismo come religione. Eppure, l’Unione Europea è nata, al contrario, come «universalistica» all’insegna della solidarietà fra gli stati membri.
Purtroppo, la costruzione dell’Ue non è stata accompagnata dall’emergere di una coscienza europea comune. Così l’Europa rischia di restare un progetto burocratico senz’anima. Paradossalmente, l’opportunità di cambiamento e di apertura ci arriva dall’emergenza dei rifugiati e dalla minaccia terroristica.
». La Repubblica
,5 giugno 2016 (c.m.c.)
Il discredito che ha colpito l’arte della politica è sotto gli occhi di tutti e trova una delle sue ragioni più evidenti nel comportamento corrotto di molti politici. Ma esiste una ragione ancora più profonda della sua perdita di prestigio: il nostro tempo è infatti allergico a tutto ciò che impone qualunque differimento alla soddisfazione immediata della pulsione.
La politica come difficile arte della mediazione di interessi differenti e conflittuali per il bene comune della polis appare come un intralcio fastidioso alla realizzazione del programma della pulsione che esige il suo soddisfacimento senza differimenti. Di qui – più profondamente che non a causa della sua corruzione – l’accanimento critico che colpisce l’arte della politica.
Nondimeno è proprio la sua vocazione al confronto con la pluralità dei protagonisti della vita della città e della loro necessaria mediazione che la rendeva già agli occhi di Aristotele un’arte superiore a tutte le altre. Questo significa che la vita della città non scaturisce dalla spinta affermativa di interessi particolari che diventano egemoni, ma dal concerto delle loro differenze.
Senza la faticosa opera di mediazione alla quale l’arte della politica è votata, la vita della città sarebbe facilmente preda della demagogia populista o della tentazione autoritaria. Mentre la seconda elimina le ragioni della politica con il ricorso al potere sovrano del padre- padrone, della prima, oggi di grande attualità, Platone ne fornisce un ritratto efficace quando equipara il politico degno di questo nome ad un medico che si preoccupa della salute di bambini malati (la città) prescrivendo ad essi le giuste diete e i giusti rimedi nonostante possano nell’immediato risultare difficili da digerire, paragona il demagogo-populista a colui che anziché seguire la linea difficile e severa della cura ammalia i suoi piccoli pazienti offrendo loro i dolci più prelibati.
L’immagine di Platone è lucidissima nell’isolare la scaltrezza del demagogo, la quale consiste nel dare al popolo quello che il popolo chiede senza preoccuparsi del destino della città. Tutto il suo operare è asservito all’ottenimento del più largo consenso nel più breve tempo possibile.
È l’essenza anti-politica del populismo che comporta una disgregazione falsamente libertaria del concetto di rappresentanza. Il politico dovrebbe essere soppresso dal Popolo o dovrebbe coincidere con il Popolo stesso in una simbiosi che, in realtà, ha storicamente sempre generato mostri. È il sogno sbandierato qualche tempo fa da un movimento populista nostrano: ottenere il 100 per cento del consenso parlamentare per realizzare l’identificazione integrale dei cittadini con lo Stato. Non deve sfuggire il carattere seduttivo e incestuoso di questa ambizione: ogni differenza deve essere annullata, ogni dissenso appianato, ogni cultura particolare estinta nel nome di una coincidenza assoluta tra il Bene e il Popolo.
La difficile arte dell’integrazione di soggetti e interessi differenti di cui si incarica l’arte della politica deve lasciare il posto ad una fusione tra Stato e cittadini che vorrebbe liquidare la politica come un vecchio tabù da dimenticare. I Partiti sono una casta che il capo carismatico di quello stesso movimento populista nostrano ha una volta definito “letame”. L’anti-politica cavalca l’illusione di identificare il Popolo col Bene contro la politica come difficile pratica della mediazione dei conflitti. Il conflitto politico in quanto tale viene sostituito dalla lotta tra il Bene (il popolo) e il Male (la politica e i politici) senza rendersi conto che la demonizzazione della politica coincide con il collasso della vita stessa della città.
La retorica populista odia la sfumatura, l’analisi, la complessità, la contraddittorietà, gli intellettuali, il pensiero critico, il disordine che accompagna la vita della città. La sua inclinazione paranoica si sposa con una idealizzazione infantile di sé stessa che esclude il disagio che comporta il confronto con il dissenso sia interno che esterno.
In un recente libro intervista titolato Corpo e anima (Minimum fax 2016), curato da Christian Raimo, Luigi Manconi, ex-leader di Lotta continua, protagonista del movimento Verde in Italia e attualmente senatore per il Pd, prova a restituire, nel tempo dell’antipolitica, la giusta dignità all’arte della “politica” ripensandola radicalmente dai piedi”, sottraendola alle chimere totalitarie degli universali: la politica non si occupa dell’Uomo, del Popolo, della Storia, della Solidarietà astratta, ma solo di nomi propri, di persone in carne e ossa, di corpi, di esistenze reali, plurali, soprattutto di quelle che appaiono ai margini della vita sociale.
Dal vertice di questa allergia verso l’universalismo, Manconi propone una definizione lucida e precisa della politica come “governo del disordine”, sforzo per “trovare un posto al disordine”. È l’esatto contrario del sogno paranoico- populista dell’affermazione assoluta del Bene contro il Male.
Non si tratta né di imporre l’Ordine con la violenza (tentazione autoritaria), né di annullare la rappresentanza seguendo la retorica dell’ideale benefico del Popolo (tentazione populista), ma di prendere atto che la vita della polis implica necessariamente il disordine della vita: «Intrecci, innesti e contaminazioni e non un’autarchica sistemazione di tratti originari esclusivi ed escludenti».
Improvvisa conversione a sinistra dell'alfiere della "destra perbene"? C'è da strabuzzare gli occhi. Ma forse vale solo per gli USA, che sono così lontani.
Corriere della Sera, 4 giugno 2016
È molto probabile che Hillary Clinton ottenga la candidatura per il Partito democratico alle prossime elezioni presidenziali americane,ed è quindi molto probabile che batterà il candidato repubblicano Donald Trump, diventando così presidente degli Stati Uniti. Ma come ha scritto qualche giorno fa il New York Times , nella corsa alla Casa Bianca di quest’anno l’impensabile sta diventando possibile. E dunque le cose potrebbero forse andare altrimenti.
Potrebbe accadere che per varie ragioni — non ultima l’uso forse illegale della Clinton della propria mail personale per molte comunicazioni ufficiali — la sua popolarità, già non molto forte, cominci a vacillare; che la sua candidatura si mostri una candidatura sempre più debole, e che, come alcuni indizi già fanno intravedere, l’eventuale duello tra lei e Trump mostri di potersi risolvere a favore di quest’ultimo. In tal caso non è assurdo pensare che il Partito democratico possa allora decidere di puntare sul senatore Sanders, non casualmente rimasto finora in lizza.
Il fatto è che nella corsa presidenziale americana si sta delineando un fenomeno forse decisivo. E cioè che mentre alcuni sondaggi già ora cominciano a non dar più la Clinton come vincitrice sicura in un duello con Trump, viceversa non sembrano esserci dubbi sul fatto che Sanders batterebbe di sicuro il candidato repubblicano. In altre parole, sarebbe il populismo progressista, non già la sinistra democratica «per bene», la posizione davvero capace di sconfiggere il populismo reazionario.
Per l’Europa si tratterebbe di una lezione importantissima. Da tempo i suoi sistemi politici e i suoi partiti tradizionali sono squassati dai venti di tempesta di una spinta antioligarchico-populistica carica di volontà di riaffermazione nazionale: una spinta che finora è stata puntualmente sequestrata da formazioni di destra, intrise di umori xenofobi e autoritari.
Incanalata in un simile alveo questa spinta costituisce una vera minaccia per la democrazia dei nostri Paesi. Ma proprio perché le cose stanno così, l’esempio americano potrebbe indicare quella che forse è la sola via d’uscita da una situazione che invece oggi, qui in Europa, vede le forze democratiche paralizzate, incapaci di trovare idee ed energie per una controffensiva, e perciò destinate inevitabilmente prima o poi, se il quadro resta quello attuale, a una sconfitta rovinosa.
La via d’uscita è per l’appunto quella incarnata dal senatore Sanders: il populismo democratico. A un populismo di destra opporre un populismo di sinistra pronto naturalmente — come farebbe senz’altro per primo Sanders, se mai dovesse essere lui il candidato democratico — a rinunciare al «socialismo» e a stipulare preliminarmente un compromesso con alcuni settori chiave del mondo della produzione e degli affari.
È la via che a suo tempo prese Roosevelt per uscire dalla crisi del ’29: per esempio non esitando a ricorrere con spregiudicatezza all’appello al popolo contro il formalismo giuridico della Corte Suprema che sbarrava il passo al suo programma audacemente riformatore. È la medesima via indicata all’inizio del Novecento da Max Weber, quando vedeva la salvezza delle democrazie nel futuro burrascoso che si annunciava solo nel potere conferito a un «Cesare democratico».
Ma che cosa vuol dire quest’espressione? Che significa in concreto un populismo democratico? Molte cose: dallo stare dalla parte del «piccolo uomo» (il piccolo produttore, il piccolo risparmiatore, il consumatore, il popolo minuto) contro il Big Business; dalla parte della produzione contro le rendite finanziarie; dalla parte dei bisogni e dei diritti dei più contro gli interessi dei pochi smascherando questi interessi e i loro abituali camuffamenti; stare dalla parte dell’espansione contro la deflazione e l’austerità; stare dalla parte della politica contro l’economia, favorendo la possibilità istituzionale di decisioni non contrattate e non compromissorie (come invece vorrebbe il parlamentarismo dei bravi democratici «per bene»).
Populismo democratico significa tutto questo ma in più qualcos’altro, che però — si badi — è un ingrediente essenziale per qualificarne la diversità rispetto a quello reazionario. Significa innanzi tutto un «discorso» diverso. E cioè un’alta «retorica» sui principi della comunità, sul suo destino, sul suo vivere insieme per adempiere un fine inclusivo, per raggiungere un traguardo positivo che alla fine riguarda tutti (anche le oligarchie nemiche). Significa la capacità di richiamarsi credibilmente agli ideali, di costruire un’immagine all’insegna del disinteresse personale, suggerendo l’idea di un impegno politico al servizio di una speranza collettiva da opporre alla paura del declino e del declassamento sociale.
Ecco quanto il Cesare democratico dovrebbe mostrarsi in grado di fare e specialmente di esprimere: grazie alla parola e al gesto simbolico. Rivolgendosi al cuore anziché alla pancia, come invece è spinto a fare il suo omologo reazionario. Il primo è un profeta ragionevole che addita la salvezza, il secondo uno stregone che evoca i demoni sancendo tutti i tabù.
L’Europa però non sembra capace di produrre alcuna figura di Cesare democratico. È la riprova del venir meno nelle sue élite e nelle sue culture politiche egemoni di ogni autentico sfondo ideale, della loro assoluta incapacità di rispondere alla drammatica novità dei tempi, di mantenere un rapporto vero con il sentire profondo delle proprie società.È la conferma altresì di una selezione ai posti di maggiore responsabilità che da tempo si attua dappertutto pressoché esclusivamente sulla base di meccanismi di tipo sostanzialmente burocratico.
In realtà nessun luogo come oggi l’Europa continentale a ovest dell’Elba ha conosciuto una simile eclisse dello Stato nazionale e di conseguenza del «politico» costringendosi, come attualmente è costretta, a confidare per il suo futuro sui tribunali e sulle finanze, sulle banche e sulle «direttive» di Bruxelles: sotto la guida trascinante dell’avvocato Jean–Claude Juncker.
« È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quanto potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce. E invece il clima, è stato rabbuiato dalla retorica del plebiscito». La Repubblica
Rispondendo alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per renziano confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Roberto Benigni ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: «Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto».
Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. È questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Matteo Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica.
Questa trappola ci impedisce di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci fa essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendo e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.
È da anni, da quando Silvio Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica - con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali, ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero ad una vittoria o ad una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettacolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.
Le ragioni a favore o contro passano in secondo piano. Questo succede oggi. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono gravemente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibbiato il titolo di lacché del potere, a chi vota No è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota No sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa di desidera innovare.
Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, mettiamo sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: parliamo del carattere di questa nuova versione della Costituzione e degli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum.
Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate.
Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento, ma il quaranta per cento. È legittimo farsi queste domande e voler discutere di queste questioni. È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quanto potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.
E invece il clima, già da quando la proposta di revisione costituzionale era ancora in Parlamento, è stato rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge - la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra.Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente più colpiti da una battaglia personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi.
Per dirla con Benigni - ci facciamo tutti conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale - per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.
«Referendum costituzionale. Parla l’ex pci Aldo Tortorella: sbaglia chi dice che bisogna votare turandosi il naso, il premier rottamatore ora cerca di legittimarsi arruolando Berlinguer e Ingrao, ma le loro idee erano incompatibili con una legge ipermaggioritaria». Il manifesto, 3 giugno 2016
L’arruolamento postumo di grandi uomini del Pci, da Ingrao a Berlinguer, e di grandi donne, come Nilde Iotti, alla battaglia per il sì al referendum costituzionale, ante litteram s’intende visto che si tratta di persone ormai scomparse, non stupisce Aldo Tortorella, a sua volta uno dei comunisti che hanno fatto la storia di questo paese.
Da ragazzo era «il partigiano Alessio», poi fu direttore dell’Unità di Genova, di Milano e di Roma, di lì una lunga storia di dirigente del Pci, nella segreteria di Berlinguer cui resta vicino fino all’ultimo, poi a lungo deputato, contrario alla svolta di Occhetto ma nel «gorgo» del Pds nell’area dei comunisti democratici, e nei Ds fino alla guerra con la Serbia.
Poi ha fondato, con altri, l’Associazione per il rinnovamento della sinistra e dirige la nuova serie di Critica Marxista, rivista che vuole «ripensare e rinnovare la sinistra».
Dell’uso dei grandi del Pci da parte del premier rottamatore, dicevamo, Tortorella non è stupito.
«È significativo che per giustificare la propria condotta si ricorra a un patrimonio ideale da parte di chi lo ha voluto seppellire come cosa morta. Segno che quel patrimonio è ben radicato nella coscienza di molti. Arruolare Berlinguer e Ingrao per questa riforma, che si deve leggere sempre insieme con la nuova legge elettorale, è grottesco prima che rozzo».
Erano monocameralisti, dicono i renziani. Non è così?
«Ma per Berlinguer e Ingrao il monocameralismo e la riduzione dei parlamentari si collegavano al sistema proporzionale, lo stesso per cui è pensata la Carta. E invece il giovane presidente ha fermamente voluto una legge elettorale ipermaggioritaria, l’Italicum. Del tutto incompatibile con la visione di Berlinguer e di Ingrao. E con la Carta».
Perché il premier rottamatore e svoltista oggi ricorre ai classici del comunismo, e a qualche partigiano «vero» secondo la lettura del governo, per legittimarsi?
«Perché sente che una parte del paese, della sinistra, e del suo stesso partito non lo segue. Parecchi dei protagonisti di quella storia antica sono viventi, e alcuni sono vicini al Pd o iscritti al Pd, nella parte che si dichiara un po’ più di sinistra. I più anziani sono di cultura togliattiana, come Reichlin, i più giovani berlingueriana, come Cuperlo».
Ma fra gli ex Pci c’è anche il presidente Napolitano che ha messo a disposizione del sì la sua autorevolezza. Anzi: è stato il tutore delle riforme di Renzi.
»Il Pci non fu mai un monolite come spesso si pensa. Napolitano ebbe una sua posizione non certo coincidente con quella di Berlinguer e meno che mai con quella di Ingrao. La sua posizione certamente si è affermata. I risultati sono quelli che si vedono. Quanta parte dell’attuale corso istituzionale, che oggi in quanto politico sostiene, corrisponda ai suoi propositi non saprei dire. Toccherebbe a lui dirlo.
«Massimo Cacciari ci ha spiegato in sostanza che la riforma è assai malfatta ma bisogna votarla, forse turandosi il naso. Perché è un inizio. Di cosa? Di una democrazia decidente
. Lo spettro è quello della Repubblica Weimar. Certo che la democrazia deve essere capace di decidere, questa preoccupazione l’avevano anche Ingrao e Berlinguer, ma c’è modo e modo. La democrazia tedesca fu distrutta dai nazisti usando una norma votata a Weimar che sospendeva la Costituzione in caso di stato di eccezione e dava pieni poteri al governo. Nuove norme costituzionali o si fanno bene o si corrono rischi».
L’argomento di fondo sembra sia la convinzione che la politica viene prima di tutto. Anche prima della Costituzione.
«Quando ci fu la crisi della Prima Repubblica le interpretazioni erano due: la prima, che fosse colpa di una democrazia dimezzata, di qui l’idea di Berlinguer e di Moro di completarla rimuovendo la conventio ad excludendum dei comunisti; l’altra, secondo cui era colpa della Costituzione.
«E quest’ultima idea risale a molto indietro. La sancisce Cossiga, che come presidente avrebbe dovuto difendere la Costituzione, quando nel ’91 in un messaggio alle Camere dice che la Carta è sbagliata perché frutto di un compromesso con un partito antisistema, il Pci.
Ma l’argomento è ancora più antico, risale a Scelba quando nel ’50 dice che «la Costituzione non può diventare una trappola», ha troppe garanzie. Ed è logico che ve ne fossero: perché nasceva in un momento storico in cui era fresca la memoria della tirannide e ciascuna parte temeva l’altra ed entrambe si garantivano.
«Da qui anche la posizione dell’Anpi: le garanzie andavano rafforzate, non indebolite proprio oggi, di fronte a questo assalto delle forze xenofobe, razziste e autoritarie che riguarda non solo l’Italia, ma l’Europa. L’Ungheria e la Polonia non sono lontane. E l’Austria è al confine».
Dunque i fan del sì si riferiscono a Scelba quando dicono che questa riforma è attesa da decenni?«C’è chi aspetta una riforma in senso autoritario da sempre. E non solo i conservatori e i reazionari.
Per Edgardo Sogno, un uomo della Resistenza di parte diversa dalla nostra, serviva un colpo di stato per cambiare la Costituzione».
E in questa vicenda Renzi che ruolo ha?
«Nella satira dei tempi antichi c’era la figura del politico burattino e del suo burattinaio. Ma non è così, il nostro presidente ci mette del suo. Ha un eloquio fluente, sa usare le slide e i tweet. È un convinto propagandista di una posizione politica che viene da lontano, dalla Trilaterale, e recita così: nelle Costituzioni dei paesi dove ci sono stati movimenti di ispirazione socialista c’è un eccesso di democrazia e di potere legislativo rispetto all’esecutivo.
«Il documento della JP Morgan del 2013 lo dice apertamente: sbarazzatevi delle Costituzioni antifasciste«.
Renzi ha anche un altro ruolo storico: chiudere la stagione, certo tormentata, del centrosinistra attraverso l’Italicum. Una legge elettorale molto maggioritaria i cui frutti non è neanche certo che li raccolga lui e il suo Pd.
«Infatti, il sistema delle garanzie doveva essere rafforzato proprio per il rischio della vittoria di una destra restauratrice e reazionaria. Non credo che dipenda dalla mia tarda età il ritenere che questo pericolo venga sottovalutato.
«Anche per questo non voglio dare per chiuso il rapporto fra le sinistre. Nel Pd c’è ancora una parte che si ispira a sentimenti e idee di sinistra. Certo, la sua capacità di incidere è modesta, la sua voce è tenue, la sua tenuta è fragile, ma non andrebbe isolata. So bene che l’idea di uno schieramento ampio di sinistra è indispensabile e insieme molto difficile.
«Servirebbe una sinistra, ma bisogna prima intendersi su cosa si possa essere oggi una sinistra. Nel secolo passato di sinistre ce n’erano due.
«Una era quella della proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, praticamente fallita nella sua esperienza sovietica. La variante era il Pci con la sua politica riformatrice, in sé ardua, e impossibile in un paese solo e marginale.
«Poi c’era la sinistra dello stato sociale, la socialdemocrazia. In crisi profonda perché contraddittoria nelle sue premesse. Lo stato sociale è indissolubilmente legato al ciclo economico. Quando viene la crisi ciò che sembrava costruito, frana.Hollande ora è al disastro. Schroeder fece qualcosa di simile alla Thatcher».
Renzi si sente l’erede dei riformisti e socialdemocratici.«Forse lo è, ma dei socialdemocratici di destra, quelli di Blair, che è un fallito. Egli, non da solo, professa una sorta di liberismo di stato in cui si privatizzano i profitti e si pubblicizzano le perdite. Lo stato diviene una funzione del mercato o, meglio, del capitale finanziario.
«In ogni caso la difesa dello stato sociale non basta. L’intuizione antica secondo la quale bisognava chiedersi a quale fine e come produrre e consumare torna di piena attualità. Un nuovo pensiero critico viene nascendo in tante esperienze e riflessioni. Bisognerebbe tendere a dare una qualche elaborazione unitaria a questo pensiero. La sconfitta fu culturale e antropologica e non c’è tattica di potere che la risolva.
«Servirebbe abbandonare la caricatura dello storicismo in base a cui chi vince ha ragione. E bisognerebbe farla finita con il volontarismo di chi pensa di poter piegare il mondo a piacimento.
Il pensiero critico non vale se non dà vita a un nuovo realismo, dopo il fallimento di quelli che anche nel Pci hanno scambiato per realismo l’accondiscendenza al mondo così com’è.
Precisazione del 3 giugno 2016
Nella sintesi della conversazione con me, pubblicata sul manifesto in edicola, è saltata una piccola frase là dove si accenna alla necessità di una rinascita della sinistra. Segnalavo che l’assemblea costitutiva della Sinistra italiana era iniziata con un utile ripensamento culturale.
Aldo Tortorella
«"Il futuro della Repubblica, 70 anni di vita civile" L’iniziativa sotto le insegne di Libertà e Giustizia organizzata da Sandra Bonsanti che l’ha condotta assieme alla direttrice del manifesto». I
l manifesto, 3 giugno 2016 (c.m.c.)
«Noi oggi siamo qua per dire che non resteremo in silenzio. Evviva la Repubblica, evviva la Costituzione così com’è». Tomaso Montanari, storico di un’arte da difendere contro l’asservimento al «mercato», parla in un cinema Odeon strapieno. Tocca a lui, partigiano civile di una Repubblica nata dalla Resistenza al nazifascismo, dare il via a una festa che Sandra Bonsanti (e Maria Rosaria Bortolan) hanno organizzato con cura certosina. Un appuntamento «di alto valore simbolico», ricorda Bonsanti, fondatrice di Libertà e Giustizia, che con Norma Rangeri tiene le fila della discussione.
Anche di alto valore pratico: all’ingresso della splendida sala nel palazzo dello Strozzino c’è la fila per firmare i referendum. Tutti, da quello costituzionale a quello sulla legge elettorale, e poi quelli su jobs act, «buona scuola», privatizzazione dei servizi pubblici. Un gruppo di volontarie si sacrifica: per loro «Il futuro della Repubblica. 70 anni di vita civile» resta un’eco indistinta di interventi. E di applausi, fortissimi quando Carlo Smuraglia, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Landini, Marco Travaglio e altri ancora demoliscono la narrazione farlocca, cialtrona – e pericolosa – che gli attuali governanti stanno ammannendo a reti unificate. A un popolo più stanco, e impoverito, che distratto.
«Anche noi abbiamo diritto di parola», ricorda Bonsanti a una platea dove si affacciano anche i giovani, stipati nel loggione e pronti ad appuntarsi le parole di un energico sempreverde di 92 anni, Carlo Smuraglia: «In quel 1946 quasi potevamo toccare il sogno che in Italia nascesse una vera democrazia – ricorda il presidente dell’Anpi – grazie al voto alle donne, alla nascita della Repubblica, all’Assemblea Costituente. Il paese si emancipava». Cosa è rimasto di quel sogno? «Non si è compiutamente realizzato. Così oggi, mentre festeggiamo l’anniversario del voto alle donne, scopriamo con sgomento che ne hanno appena bruciate due».
Ma Smuraglia e i partigiani, come sempre, non si arrendono: «Come possono chiamarla democrazia, quando aumentano da 50 a 150mila le firme per le leggi di iniziativa popolare? E poi si fa una legge elettorale che nel nome della cosiddetta “governabilità”, una balla che ci propinano ogni giorno, fa rimpiangere perfino la legge Acerbo, la “legge truffa”. Ma democrazia è governo di molti, non di pochi. E quando si può vincere, come oggi con il referendum, la regola è che si deve vincere».
Il boato di applausi che saluta Smuraglia accompagna anche l’intervento di Gustavo Zagrebelsky, di cui andrebbe studiato il dialogo con Luciano Canfora sulla «Maschera democratica dell’oligarchia». Il costituzionalista chiede che si faccia ricorso alla ragione: «Vorremmo un dibattito, perché non siamo dei fanatici, non siamo dei dogmatici. Ma, come alla scuola elementare, vorrei chiedere: “Signora ministro, potrebbe spiegarci, con le sue parole, cosa c’è nella legge costituzionale?”».
Al di là del rischio, Zagrebelsky guarda all’opportunità del referendum: “Quello che può accadere potrebbe essere una grandissima occasione per il popolo italiano. Per rivitalizzare la nostra democrazia”. Che non se la passa certo bene: “Guardiamo all’articolo uno della Costituzione, dove, senza pause, è scritto ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’. Dunque non ci può essere un’Italia senza lavoro, senza democrazia, senza Repubblica. Il lavoro deve essere un motivo di emancipazione, i diritti non sono doni ricevuti con il beneplacito del potere, e la Repubblica deve essere fondata non sulla finanza ma sul lavoro”.
Infine Zagrebelsky ricorda le parola di Vittorio Foa: «I veri beni repubblicani spesso sono immateriali, come la scuola, la salute, o i beni comuni». Tutti a rischio oggi, chiosa il costituzionalista, che offre un assist alla direttrice del manifesto quando segnala come, per gli anziani meno abbienti, oggi sia venuta meno anche la possibilità di avere una dentiera. «E sì che ne abbiamo tutti bisogno – annota Rangeri – oggi la Costituzione va difesa anche con i denti».
Applausi, che diventano un’ovazione quando interviene Maurizio Landini: «Per tutte le leggi approvate in questi anni – ricorda il segretario della Fiom Cgil – non è stato chiesto a nessuno cosa ne pensasse. Questo potrebbe essere l’anno in cui ci riprendiamo la parola che ci hanno tolto. Perché l’attacco ai diritti del lavoro e non solo va avanti da tempo. Dalla lettera della Bce dell’agosto 2011, applicata da Monti, da Letta, da Renzi».
A quest’ultimo Landini riserva un cammeo: «Si approva il jobs act, e poi il genio di Firenze lo definisce come “la cosa più di sinistra che ha fatto il governo”. Quando invece offre ai peggiori imprenditori, perché ce ne sono anche di bravi, la possibilità di licenziare chi vogliono. I lavoratori “scomodi” per primi».
Quanta differenza con lo Statuto dei lavoratori, «che salvaguardava dai licenziamenti arbitrari, ed è stato approvato con l’astensione del Pci e il voto favorevole di Dc, Psi, Pli e Pri, in un parlamento eletto dal 95% degli aventi diritto». Non come oggi, dove domina l’astensione: «Quella delle persone più povere, che stanno peggio, che non vedono più nessuno che possa rappresentarle». Ma c’è ancora una speranza: «Votare No oggi è l’unica condizione per poter dire “sì” domani al cambiamento, vero, del paese».
«A Roma, Milano, Napoli, Torino, siamo ben oltre il celebre "piazze piene, urne vuote": il rischio vero, con l’astensionismo che galoppa, è che ci siano «piazze vuote e urne vuote».
Corriere della Sera, 2 giugno 2016 (m.p.r.)
Roma. Alla vigilia del voto amministrativo e in attesa del «ponte» più lungo che ci porterà alle elezioni di domenica, anche Pietro Nenni sarebbe costretto a cambiare il suo slogan. Perché a Roma, Milano, Napoli, Torino, siamo ben oltre il celebre «piazze piene, urne vuote»: il rischio vero, con l’astensionismo che galoppa, è che ci siano «piazze vuote e urne vuote».
I segnali ci sono tutti, specie sotto il Campidoglio, dove lo tsunami di Mafia Capitale, la traumatica fine dell’esperienza del «marziano» Ignazio Marino, gli scontri nel Pd, la spaccatura nel centrodestra (fino a poche settimane fa erano ancora quattro i candidati in campo) producono due effetti: non solo il possibile «vento» a Cinque Stelle che spingerebbe Virginia Raggi, ma anche la difficoltà enorme — per tutti i partiti, ma soprattutto per i dem — di organizzare un evento, un comizio, persino una cena. A Milano, Napoli e Torino va un po’ meglio, ma le piazze del 2011, la «rivoluzione arancione» di Giuliano Pisapia e di Luigi de Magistris, i 40 mila di piazza del Duomo o le adunate a piazza del Plebiscito, sono un ricordo. Tutto è più soft, più circoscritto. Beppe Grillo diserterà piazza del Popolo dove chiude la Raggi (con Claudio Santamaria sul palco), Renzi si è «rinchiuso» ieri sera con Roberto Giachetti all’Auditorium della Conciliazione, Alfio Marchini si sposta sul litorale di Ostia, Giorgia Meloni e Stefano Fassina addirittura in periferia.
E, in queste settimane, trovare qualcuno disposto a partecipare ad eventi di vario tipo è stata un’impresa, prova ne sia che c’era molta più gente a piazza di Pietra alla presentazione del libro di Goffredo Bettini, vecchio «guru» del centrosinistra romano, che in certi comizi in giro per la città.
Dario Franceschini si è imbufalito per un appuntamento sulla cultura, in un cinema vicino al Parlamento, andato deserto. Lo stesso Giachetti, in un’altra occasione, era già in viaggio per Corviale (periferia estrema) quando lo hanno avvertito: «Non venire, non c’è nessuno». Il deputato dem Umberto Marroni, su WhatsApp , aveva creato un gruppo per pubblicizzare l’incontro dal titolo «Una stagione di riforme», il 31 maggio. Risposta, una sfilza di «ha abbandonato il gruppo», di proteste («mi avete fatto attaccare i manifesti e non mi avete neppure trovato il posto di lavoro promesso»), di «non partecipo, non mi scrivete più». E alla cena da Eataly , a «casa» di Oscar Farinetti, organizzata dalla civica di «Bobo», via mail era stato chiesto a tutti i candidati di portare «almeno venti persone»: i candidati, in tutto, sono circa 350, ma alla cena c’erano appena 150 persone.
Marchini, per evitare i flop, seleziona al massimo gli appuntamenti: poche (e mirate) manifestazioni, per il resto molto «porta a porta». Vale anche per Giorgia Meloni, che dopo il «lancio» della sua campagna elettorale sulla terrazza del Pincio torna domani a Tor Bella Monaca.
Non va molto meglio a Milano con Sala e Parisi che hanno scelto chiusure «minimal»: Parisi sarà a piazza Gae Aulenti, mentre Sala dalla Darsena dovrà spostarsi «causa maltempo» in un luogo chiuso. Ma anche qui conta il clima generale. All’Alcatraz, per il concerto della «Sinistra per Milano» con Vecchioni, Morgan e Rocco Tanica c’erano 300 spettatori. E l’8 maggio, quando Silvio Berlusconi era al Teatro Manzoni, dopo un po’ la gente ha cominciato ad andarsene: «C’è la festa della mamma». Scena simile è capitata a Maria Elena Boschi, alla Stazione Marittima di Napoli: a causa dei ritardi sul programma, i due pullman organizzati sono andati via proprio quando la ministra stava iniziando il suo discorso, lasciando Boschi con la sala semivuota. Un po’ meglio va a de Magistris, che tra cantanti (vedi Bennato ed altri), artisti, militanti, le sue uscite da capopolo (vedi quella su Renzi) riesce a «smuovere» un po’ di più le folle, ma anche a Napoli si tratta più di microeventi, qualche salotto buono, sale ristrette. E i Cinque Stelle? Anche per loro l’aria pare un po’ cambiata rispetto al passato. A Torino, per Luigi Di Maio, complice la pioggia, non c’era il pienone. Stessa cosa a Roma, quando la Raggi ha presentato i suoi candidati a Cinecittà, nella piazza del funerale di Vittorio Casamonica. Anche per l’attesa dei risultati la scelta di Virginia è molto «privata»: dentro M5s circola voce che, domenica sera, ci sarà una cena a casa di Di Maio oppure di Di Battista. E poi tutti al comitato elettorale della favorita alle elezioni romane, in un semplicissimo ufficio in zona Ostiense .