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«Quelli che vengono definiti i lacciuoli dai quali sarebbe necessario liberarsi altro non sono che contrappesi per evitare di scivolare nuovamente in un sistema autoritario».

Il Fatto Quotidiano online, 3 luglio 2016 (c.m.c.)

Poche persone sembrano averlo compreso ma il referendum di ottobre è destinato ad essere la scadenza elettorale più importante almeno degli ultimi cinquant’anni: non si decide chi governerà nei prossimi cinque anni il Paese o qualche città, scelte sempre importanti ma modificabili in un arco di tempo tutto sommato non lunghissimo.

In ottobre decideremo la qualità della nostra vita democratica che accompagnerà noi e le future generazione nei prossimi decenni; per essere ancora più espliciti e più realisti, decideremo se potremo ancora usare la parola democrazia per descrivere lo Stato nel quale vivremo.

Il combinato disposto tra l’Italicum, nella sua attuale versione, e la riforma costituzionale elaborata da Renzi e approvata dal Parlamento, mette in discussione non solo scelte che affondano le loro radici nella lotta di Liberazione del nostro Paese, ma i presupposti stessi sui quali si è formata l’idea di Stato democratico nel mondo occidentale.

Infatti il premio di maggioranza attribuito dall’Italicum al partito vincitore del ballottaggio, indipendentemente dal risultato raggiunto nel primo turno, sommato alle modalità di formazione del nuovo Senato, previste dalla controriforma costituzionale (che garantiscono un’ulteriore sovrarappresentazione del partito maggiore rispetto ai risultati ottenuti nelle varie regioni) rendono, tra l’altro, fortemente probabile la possibilità che il partito al governo possa eleggere da solo il Presidente della Repubblica e possa fortemente aumentare il proprio peso nell’elezione dei membri laici del Csm. Ne consegue che in tal modo verrebbero drasticamente posti in discussione sia il bilanciamento tra le varie istituzioni dello Stato, sia l’indipendenza della magistratura dal potere politico.

Se a questo si aggiunge il forte prevalere del potere esecutivo sul potere legislativo, che già si verifica quotidianamente attraverso il moltiplicarsi dei decreti e attraverso la modifica dei regolamenti d’aula e della loro concreta interpretazione, ne consegue che ad essere posto in discussione è lo stesso principio della separazione dei poteri, elemento costitutivo di qualunque Paese democratico dalla Rivoluzione francese in poi. Quanto all’indipendenza del “quarto potere“, l’informazione, questa da noi è ormai da tempo una chimera (salvo poche e coraggiose eccezioni).

Non va inoltre dimenticato che con l’Italicum, cade anche il principio cardine di una testa=un voto. I voti, infatti, con il sistema maggioritario a doppio turno, non avrebbero tutti lo stesso peso, anzi potrebbe anche capitare che il voto attribuito al partito che risulterà vittorioso arrivi a contare, nell’elezione dei parlamentari, addirittura il doppio, se non il triplo, del voto dato ad un’altra lista. L’intreccio tra l’Italicum e la controriforma costituzionale rappresenta quindi un disegno unitario perseguito da Renzi per concentrare l’insieme del potere/dei poteri nelle mani di un solo partito, che, con i capilista bloccati nei vari collegi, significa concretamente la concentrazione di un enorme potere nelle mani di un uomo solo, il leader del partito di maggioranza.

Tutto ciò è ancor più scandaloso se si pensa che la controriforma costituzionale è stata realizzata attraverso un colpo di mano della sola maggioranza senza ricercare alcun confronto con le opposizioni parlamentari, come dovrebbe essere ovvio in materia di modifiche costituzionali.

E’ anche bene precisare che tutto quanto sta avvenendo nulla ha a che vedere con la lotta ai privilegi dei politici, né con la riduzione dei costi della politica: obiettivi sacrosanti ma che possono essere raggiunti con ben altre soluzioni e che vengono invece strumentalizzati dall’attuale esecutivo per altri, inconfessabili, obiettivi politici.

Alla luce di tutto ciò è di inaudità gravità il sostegno fornito a questo abberrante disegno dalla minoranza Pd, la preoccupazione di salvare il posto e di non dispiacere al capo non può portare a sacrificare principi fondanti della democrazia.

Quelli che vengono definiti i lacciuoli dai quali sarebbe necessario liberarsi altro non sono che contrappesi per evitare di scivolare nuovamente in un sistema autoritario; contrappesi costruiti non a caso da chi aveva sperimentato sulla propria pelle la dittatura e aveva studiato a fondo i meccanismi attraverso i quali un partito si era impadronito di tutte le istituzioni del Paese. Oggi perché questo avvenga non è necessario un colpo di Stato coi militari per strada.

«A settant’anni dal processo di Norimberga e dal giudizio sull’informazione di regime, la responsabilità dei media nella costruzione dei discorsi d’odio è ancora centrale. Lo dimostrano la strage di Orlando e l’omicidio di Jo Cox, nel Regno Unito».

Altraeconomia, 1 luglio 2016 (c.m.c)

Un uomo dai tratti duri, completamente glabro a eccezione per i baffetti hitleriani, Julius Streicher apparve quasi irriconoscibile -emaciato, spettinato- sul banco degli imputati del processo di Norimberga, che esattamente 70 anni fa si celebrava per punire i “principali criminali di guerra” del Terzo Reich.

Fu condannato a morte per “crimini contro l’umanità” benché non fosse un militare (ma fu un dirigente del regime nazista). Sin dal 1923 - dieci anni prima dunque dell’ascesa di Hitler - Streicher era infatti soprattutto l’editore di una pubblicazione violentemente antisemita, Der Stürmer (“L’attaccante”), settimanale illustrato che raggiunse la tiratura di quasi 500.000 copie. Finì a Norimberga con l’accusa di essere uno dei principali istigatori dell’odio razziale nei confronti della popolazione ebraica e non solo. Il Tribunale internazionale (una realtà fino ad allora inedita nella storia) riconobbe per la prima volta in maniera lampante la responsabilità dell’utilizzo di talune parole -della parola in generale- in caso di crimini efferati.

Più recentemente, nel 1994, durante i cento giorni delle violenze in Rwanda dove morirono un milione di tutsi e hutu moderati, l’emittente radiofonica “Radio Mille Colline” -nota anche come “radio machete”- fu uno dei più «sinistri esempi di come i media possono favorire lo sterminio di massa» (Fulvio Beltrami).

Mandiamo in stampa questo numero della rivista pochi giorno dopo l’assassinio della deputata laburista Jo Cox -uccisa per le sue posizioni di integrazione e accoglienza- e della strage omofoba di Orlando. Nell’uno e nell’altro caso sono emerse evidenti le responsabilità dei media, dei social network e di tutte quelle persone che, attraverso di essi, hanno alimentato odio e acrimonia: la verità è che a furia di inneggiare ai fucili, qualcuno finisce per imbracciarli davvero (soprattutto se si comprano anche al supermercato).

A partire dal 1936, la casa editrice Stürmer-Verlag di proprietà di Streicher intraprese anche la pubblicazione di libri per bambini. Illustrati, contenevano filastrocche inneggianti la supremazia della razza ariana e i pericoli di “contaminazione”.

È nelle scuole che inizia il lavoro di responsabilizzazione della parola -insieme, o a volte in contrasto, con le famiglie-. Ecco perché forse non diamo mai abbastanza riconoscimento al ruolo indispensabile di maestri e insegnanti, categoria perlopiù bistrattata: il ruolo di chi contribuisce alla formazione della coscienza critica degli individui.

In un Paese di furbi «che cercano sempre di approfittare degli altri» come l’Italia, scriveva Bruno Munari sulla rivista Azione non violenta nel 1998, “se non cambiamo la mentalità dei bambini, se non insegniamo loro che essere furbi è una scelta arida, non riusciremo ad aprire una via verso la civiltà”. Le scuole sono chiuse e riapriranno a settembre.

I bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze che vi studiano oggi sono le donne e gli uomini che presto affronteranno le grandi sfide della nostra epoca: il cambiamento climatico, i conflitti, le migrazioni, la disuguaglianza. Emergenze alle quali noi “adulti” ci siamo addirittura assuefatti, e che non fanno quasi più notizia (ma non vale per tutti). Non cambiare mai, non rassegnarci, non abituarci all’orrore.

«Se succedesse a me, l’anestesia del cuore, preferirei morire. Tutta la mia energia è nel fare, nell’agire, perché ho dovere e responsabilità, ma una dose è per difendere la mia capacità di piangere, di urlare e quindi di ridere, se arrivano vivi» ha scritto il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini). Le affronteranno meglio di quanto forse abbiamo saputo fare noi.

«Catania. I dipendenti riaprono lo storico stabilimento di sanitari investendo la cassa integrazione. I suoi pezzi anche nel bagno di Madonna. Ma nel 2007 era arrivata la crisi. Cgil e Federmanager: La tenacia premia

»Il manifesto, 2 luglio 2016 (c.m.c.)

Persino la popstar Madonna si fregiava di avere nella sua camera da bagno pezzi della Cesame. Un marchio internazionale che negli anni Settanta e Ottanta, il periodo d’oro, era sinonimo di qualità, eleganza, cura dei dettagli. Roba da vip, ma soprattutto pezzi che piacevano a tanta gente comune che arredava la propria casa con i sanitari made in Sicily. Una grande azienda, creata nel ’55 nell’area industriale di Catania, diventata leader nel settore della ceramica durante il boom economico toccando le vette dei mercati per poi precipitare, a inizio del nuovo millennio, in un vortice infernale fatto di crisi finanziaria, speculatori, immobiliaristi, cambi di proprietà e burocrazia.

Un crollo verticale, culminato nel fallimento con i libri contabili portati in Tribunale nel 2007, con i lavoratori rimasti per anni senza paracadute sociale mentre pareva senza via d’uscita la diatriba tra i commissari nominati sotto leggi-Prodi e la curatela fallimentare.

Ma si deve proprio ai lavoratori se il marchio dopo nove anni è ritornato alla ribalta. Cesame è risorta dalle ceneri del fallimento e ieri nel vecchio stabilimento, depredato dai vandali e dal tempo, è stata posata la prima pietra: entro dodici mesi la fabbrica sarà completamente ristrutturata e attrezzata per consentire la ripresa della produzione. Dietro al miracolo non c’è un cavaliere bianco, non c’è un fondo di venture capital e non ci sono i milionari cinesi.

C’è la "cooperativa Cesame". Ci sono 80 lavoratori, alcuni storici, che hanno deciso di scommettere sulla loro azienda, mettendoci i propri risparmi e persino quelle quote di cassa integrazione straordinaria che hanno versato sul conto corrente della cooperativa invece di utilizzarle per sopravvivere. Ci hanno creduto e ci sono riusciti. «È stata dura, molto dura e ancora c’è da lavorare: ma siamo molto soddisfatti del risultato», dice Giuseppe D’Aquila, segretario della Filctem Cgil a Catania.

Con la costituzione in cooperativa gli ex dipendenti hanno rilevato il 50% dello storico stabilimento, circa 50 mila metri quadrati, accendendo un mutuo con Unicredit di circa 2 milioni di euro. A garanzia c’è il contratto di sviluppo regionale, lo strumento finanziario creato dalla Regione siciliana proprio su impulso proprio della cooperativa Cesame (ma aperto a qualsiasi altra iniziativa imprenditoriale) che vale 10 milioni di euro: il 50% a fondo perduto (ex fondi Fas), il 25% di finanziamenti in conto capitale con un’operazione fatta con la banca pubblica Irfis e la restante parte con fondi versati dai soci-lavoratori, tra cui 1,7 milioni di Cigs.

A guidare il progetto è Sergio Magnanti, manager e già amministratore delegato dell’azienda ai tempi floridi in cui esportava in 40 Paesi e ora presidente della cooperativa. «Oggi festeggiamo un risultato concreto, dopo anni di sacrifici e di lotte», spiega. «Il confronto con la concorrenza sarà duro, ma questa azienda continua a essere un punto di riferimento per tutto il Sud Italia e un esempio di made in Italy che trova forza nel radicamento territoriale», aggiunge.

Il business plan è ambizioso: raggiungere in tempi brevi almeno un quarto della produzione passata, che si aggirava su circa un milione di pezzi all’anno. Il caso Cesame è stato al centro dell’assemblea annuale di Federmanager Sicilia orientale, a Catania. «Management, istituzioni e lavoratori possono lavorare congiuntamente per salvaguardare il patrimonio produttivo di questa Regione», sostiene Giuseppe Guglielmino.

Per Federmanager il cosiddetto modello workers buyout, che consiste proprio nella ri-acquisizione di un’azienda fallita, in liquidazione o in crisi, da parte dei suoi dipendenti, va sostenuto attraverso un tris di azioni: meno burocrazia, accesso facilitato ai fondi strutturali europei 2020-2040, introduzione di management esperto in azienda, anche temporary.

La burocrazia è stato il grande nemico dei lavoratori, all’indomani del fallimento della Cesame. Era il 2007. Ci sono voluti ben nove anni per poter trasformare l’idea della cooperativa, lanciata subito dopo il default, in un progetto di sviluppo. «Il merito dei lavoratori è stato quello di non arrendersi, di stare sempre un passo avanti alla politica e saperla indirizzare – spiega il segretario della Filctem Cgil D’Aquila – Invece di optare per la strada degli ammortizzatori sociali, hanno scelto quella della salvaguardia della propria azienda».

La Filcetm Cgil valorizza il ruolo avuto dal governatore Rosario Crocetta, dal suo vice Mariella Lo Bello e dal dirigente Attività produttive della Regione, Alessandro Ferrara. «Abbiamo litigato spesso con loro – ricorda D’Aquila – ma va dato atto che hanno creduto e dato fiducia al progetto industriale della cooperativa».

«Il 4 luglio 1976, in Algeria, veniva proclamata la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli. Un'intera sezione dedicata ai "diritti economici" contro pretese coloniali» Duccio Facchini intervista Gianni Tognoni.

Altraeconomia, 30 giugno 2016 (p.d.)

“Coscienti di interpretare le aspirazioni della nostra epoca, ci siamo riuniti ad Algeri per proclamare che tutti i popoli del mondo hanno pari diritto alla libertà”.Così, già nel preambolo, iniziava il suo cammino la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, il 4 luglio di quarant’anni fa. Un “foglio di carta”, come ebbe a descriverla Lelio Basso, uno dei suoi padri, nato dalla decennale esperienza del Tribunale internazionale contro i crimini di guerra - o Tribunale Russell -. Una sorta di completamento in trenta articoli di quella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 che aveva lasciato “scoperti” i diritti all’identità nazionale e culturale, all’autodeterminazione, i diritti economici, il diritto alla cultura, all’ambiente e alle risorse comuni, i diritti delle minoranze.

Gianni Tognoni è il segretario generale del Tribunale permanente dei popoli, fondato nel 1979 come emanazione pratica della Carta di Algeri. Il TPP, come lo descrive il suo segretario, è “un’isola di resistenza, coscienza e collegamenti internazionali” che ha affrontato 42 sessioni (tutte le sentenze sono consultabili sul sito), l’ultima a Colombo in Sri Lanka, muovendosi dall’America Latina alle Val Susa. E che farà un bilancio a Roma, il 4 e il 5 luglio alla Camera dei deputati, in occasione di un convegno internazionale in occasione dell'anniversario della Carta.

Tognoni, come e perché nel luglio 1976 è nata la Carta di Algeri?
Il contesto storico entro il quale è maturata la Carta era caratterizzato da due componenti tra loro contraddittorie. Una era la fine del vecchio modello della colonizzazione e del prevalere dei movimenti di liberazione delle aree centrali, salvo l’apartheid che si sarebbe concluso vent'anni dopo; intorno al 1975, infatti, le ultime colonie formali del Portogallo terminavano la loro esistenza e finiva la guerra del Vietnam. Dall'altra parte, però, c’era la situazione assolutamente contraddittoria riassunta dai fatti del marzo 1976, quando l’Argentina concludeva con il suo colpo di Stato una nuova ricolonizzazione militare ed economica. Si riaprì un enorme laboratorio di moti coloniali - come evidenziato da tre sessioni del tribunale Russell sull'America Latina - fondato sulla violazione massiva dei diritti umani e dei popoli, praticamente inedita. La cosiddetta comunità internazionale fu spettatrice, a parte qualche importante esercizio di solidarietà. Bene, dinanzi a questa esperienza di forte contraddizione emerse il ruolo di un diritto internazionale nelle mani degli Stati quando questi non erano in grado di riconoscere in maniera formale ciò che stava succedendo. Basti pensare che nel 1978 si tenne il campionato del mondo in Argentina. Era necessario riprendere l’agenda lasciata consapevolmente aperta nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, in cui gli Stati, al di là di una menzione dei "Popoli" fatta solamente nel preambolo, erano i protagonisti assoluti e autonomi, liberi da qualsiasi limite esterno.

L’idea di Lelio Basso e di altri giuristi che all'epoca lavoravano in maniera attiva nella formulazione delle ultime convenzioni internazionali delle Nazioni Unite, fu quella di ricreare nuove categorie, ridando ai popoli presenti simbolicamente nel preambolo una loro visibilità e rappresentatività. La Carta di Algeri diventa un’area su cui sviluppare una resistenza alle nuove forme di colonialismo o repressione per dare - o ridare - ai popoli il ruolo di soggetti e non soltanto di "elettori" di governi. Allora non si parlava nemmeno di Corte penale internazionale (fondata il primo luglio 2002, ndr).

È a partire da quell'esigenza che è nato il Tribunale permanente dei popoli?

Sì, il Tribunale rispondeva alla convinzione che fosse veramente importante dare visibilità e legittimità - seppur attraverso uno strumento sussidiario, non dotato di potere immediato di intervento - alle lotte che in maniera diversa si dovevano condurre per evitare il riprodursi su base massiccia di fenomeni di colonizzazione.
Basso ripeteva nei suoi discorsi che la dichiarazione Algeri, legalmente, era soltanto un "foglio di carta", ma in qualche modo, come nella biografia di qualsiasi movimento di liberazione, era un iniziale strumento di lotta e di ricerca collaborativa. Era una svolta per il diritto internazionale.


Quali sono stati i “risultati” principali di questi quarant'anni di “vita” della Carta e dei suoi strumenti?
I bilanci storici sono sempre controversi. Dal punto di vista oggettivo, il diritto internazionale non ha fatto passi in avanti. La Corte penale internazionale è stato un prodotto molto tardivo e sostanzialmente quasi obbligato visto quello che era successo negli anni 90 con il genocidio in Rwanda, o le guerre nella ex Jugoslavia, o nel Golfo. Rimane il fatto che i Paesi "centrali" non ne hanno ratificato il trattato di istituzione, dichiarandosi così non vincolati a questa proposta di tribunale internazionale. Il TPP ha avuto dei ruoli sicuramente positivi dal punto di vista dell'utilizzo delle sue sentenze da parte di quelli che sono stati movimenti di liberazione. Penso al riconoscimento del Fronte Polisario dopo la sessione sul Sahara Occidentale del novembre 1979, all'attenzione per Timor Est - giugno 1981 - portata anche in sede di Nazioni Unite a seguito dell'invasione "tollerata" da parte dell'Indonesia, al caso di El Salvador (febbraio 1981), o delle Filippine, dove la sentenza sul caso "Filippine - Popolo Bangsa Moro" è stata riconosciuta come essenziale per creare una forma di opposizione vincente. Si è sollevata l’attenzione sull’Afghanistan, nel maggio 1981 e nel dicembre 1982, dopo l’illecita invasione dell'Unione sovietica e l'utilizzo di armi proibite, o sul genocidio armeno (aprile 1984), rimettendo all’ordine del giorno qualcosa che veniva, come adesso, accantonato per equilibri europei. Ricordo anche il lavoro sulla "non possibile impunità" rispetto ai crimini commessi in America Latina, che è stato alla base dell’operazione di memoria poi condotta in Argentina, Brasile, Uruguay e Cile.

Ecco, senza darsi illusioni, il ruolo del Tribunale è stato quello di trasferire strumenti pratici per lotte reali dei popoli - come ha fatto la sentenza sul Nicaragua dopo l'invasione degli Stati Uniti, ripresa anche dalla Corte internazionale dell’Aja -.


In più di un’occasione ha definito la Corte penale internazionale come un’occasione mancata.
Il suo grande limite è aver stralciato dalle proprie competenze il contrasto ai crimini economici, che invece sono sempre più al centro dell’attenzione del Tribunale. Qualificare oggi i diritti fondamentali dei popoli non come variabile dipendente dalle dinamiche economiche ma come elemento centrale di autodeterminazione - sto pensando alla sessione sulla Tav in Piemonte, dove l’esercizio della partecipazione popolare è stato piegato agli interessi di un’opera - è un qualcosa di cui non si discute più. E i trattati dominano sulle costituzioni.


Come sono cambiati i “popoli” cui guarda il Tribunale?

È mutato il termine. Prima, ai “popoli” si dava un’identità comunitaria, un gruppo che rivendicava diritti. Oggi i popoli sono trasversali dal punto di vista del rapporto con i poteri economici che ne condizionano (o negano) i diritti. In Europa, è il caso dei migranti, uno dei casi cui guarderemo da qui in avanti insieme alla finanza “illegittima”.

Potete scaricare qui la "Dichiarazione universale dei diritti dei popoli"

«». Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2016 (c.m.c.)

Partiamo da Dossetti, perché è di lui che si occupa l’ultimo libro di Paolo Prodi (Giuseppe Dossetti e le Officine bolognesi, Il Mulino). «Comincio dal periodo immediatamente successivo all’approvazione della Costituzione, quando io studiavo alla Cattolica e il mio professore di Diritto costituzionale era Antonio Amorth, uno degli autori della nostra Carta», spiega Prodi. «La Costituzione, attraverso la Commissione dei 75 ha degli autori e, com’è noto, il testo fu perfino rivisto da linguisti e letterati, perché fosse efficace: la preoccupazione era che fosse comprensibile e armonico tra le sue varie parti».

E Dossetti?
Fu un protagonista di quella fase: come Aldo Moro era un giurista e dunque particolarmente preparato al compito. La sua attenzione alla Carta ebbe una nuova spinta all’inizio degli anni 90, con la nascita dei Comitati Dossetti per la Costituzione. Allora parlai a lungo con lui: considerava la Carta certamente il patto tra tutti gli italiani, ma anche un patto per garantire l’equilibrio.

Nel ’46 – per evitare i pericoli di una guerra fredda, possibile in Italia perché eravamo sul confine tra i due mondi – bisognava approntare tutte le misure necessarie perché non ci fosse una prevalenza di una parte sull’altra. È qui che nasce il bicameralismo perfetto.

Qualche settimana fa Pierluigi Castagnetti ha detto: «Basta tirare per la giacca don Dossetti: è sempre stato contrario al bicameralismo paritario».
Stavo per dirlo: Dossetti ha dovuto digerire, all’epoca, il bicameralismo. Era contrario, ma lo riteneva politicamente essenziale. Una medicina amara, ma fondamentale per garantire quell’equilibrio di cui parlavamo.

Veniamo all’oggi. Cosa pensa di questa riforma?
Davanti alla Costituzione bisogna levarsi il cappello. La Carta è di tutti e non si cambia a colpi di maggioranza, specie se è una maggioranza come questa che si tiene in piedi a malapena. Ma prima ancora bisogna dire che questa nuova Costituzione è assolutamente incomprensibile, illeggibile. Sembra il bugiardino di un farmaco.

I sostenitori della legge di revisione dicono che non si tratta di estetica, ma di funzionamento delle istituzioni. La parola magica è “governabilità”.
Sento spesso parlare con disprezzo dei numerosi governi che si sono succeduti, specialmente nella Prima Repubblica. Quei governi però navigavano in acque tranquille, sia internamente che a livello internazionale. Certo calibravano, con o senza manuale Cencelli, i pesi delle correnti e delle varie personalità dentro ai partiti. Ma allora c’era una stabilità che di questi tempi ci sogniamo: a mancare non è oggi la stabilità dei governi, ma i partiti che sono evaporati.

Un problema che non si risolve con mezzucci tipo i capilista bloccati dell’Italicum. Piuttosto bisognerebbe applicare l’articolo 49 della Carta che dava ai partiti rilievo costituzionale. Nel ’58 Sturzo presentò in Parlamento un progetto di legge proprio sull’attuazione dell’articolo 49: ecco, oggi potremmo prenderlo e avremmo ben poco da aggiungere. La responsabilità politica non esiste più e si pensa di rimediare con il rafforzamento dell’esecutivo!

Il presidente del Consiglio ha legato il suo destino al felice esito della riforma.
Tutto parte dall’equivoco del doppio ruolo di premier e segretario del partito. Nella Dc uno statista come Alcide De Gasperi sapeva benissimo che se voleva vincere doveva permettere che il partito avesse una sua vita interna, dove lui come presidente del Consiglio non interveniva. Quanto a Renzi, puntando sulla vittoria come vincolo per la sua permanenza al governo si è preso un bel rischio. Quel che sta accadendo dopo il referendum sulla Brexit lo dimostra.

La riforma è molto disomogenea: voteremo su tantissime materie.
Da un punto di vista giuridico e razionale io sarei per lo spacchettamento, anche se so che è improponibile. Sottoporre al giudizio dei cittadini materie così diverse è un errore enorme.

Questa riforma è stata approvata con scorciatoie di ogni sorta: ghigliottine, canguri, sostituzione dei membri della commissione Affari costituzionali, sedute fiume. Lo spirito dell’articolo 138 è tutt’altro: una saggia ponderazione.
La forma non è stata violata, ma il metodo è profondamente sbagliato: certo i costituenti non pensavano a questo quando hanno scritto l’articolo 138. Tutta la riforma è un bitorzolo che cresce sulla nostra Costituzione. Non posso riconoscere valore costituzionale a un testo nato sotto spinte umorali e illogiche. Dicono che si migliorerà con il tempo: io studio la storia da mezzo secolo e non ho mai visto migliorare un sistema politico con questi percorsi. Il problema della democrazia è far coincidere la rappresentanza degli interessi con il tessuto sociale. Qui non si vede nulla di tutto questo.

lo passivamente criticando e lamentandosi per la cattiva politica, proprio come il consumatore si lamenta di merci e servizi che non lo soddisfano». La Repubblica, 30 giugno 2016

Byung-Chul Han, Psicopolitica, nottetempo traduzione di Federica Buongiorno pagg. 110, 12€

Viviamo gli anni del serpente. Anni apparentemente post-conflittuali, che non contemplano più ordini, precetti, costrizioni e divieti: salvo l’austerity. Quasi come se la politica avesse delegato alla crisi il controllo spontaneo del sociale, tagli e fratture, disuguaglianze ed esclusioni e se ne volesse lavare le mani, ignorando quel che accade sotto di sé perché le basta il saldo finale, nella nuova meccanica della democrazia dei numeri. Al posto delle ideologie ci sono le emozioni, dove c’erano i valori crescono i sentimenti, spesso nella forma del grande risentimento collettivo che sta diventando dovunque la cifra del nostro scontento, unendo disperazioni individuali, solitudini repubblicane, sedizioni silenziose: e lasciandoci credere che tutto questo è politica. Cosa fa il potere davanti a questa mutazione in corso? Molto semplicemente ha congedato il corpo, che nel Novecento aveva ossessionato i due totalitarismi europei nella loro sindrome di vigilanza, e lo ha relegato a oggetto di consumo da vendere e comprare nelle palestre, nei centri estetici, nei trattamenti sanitari.

Il corpo come strumento della produzione industriale e dunque come oggetto della sorveglianza politica, non c’è più. Col corpo, finisce la biopolitica teorizzata da Foucault, col potere impegnato nel controllo del somatico, del biologico, del corporale. Si conclude così anche la lunga fase del controllo sociale organizzato negli spazi chiusi, dalla scuola all’ufficio, alla caserma, alla fabbrica, all’ospizio, inadatti alle nuove forme di organizzazione post-industriali, interconnesse, immateriali. Per forza di
cose muore la vecchia talpa, animale sottomesso della società disciplinare che abitava quei luoghi ristretti, nella rigidità degli spazi. Nasce la società del serpente, l’animale che dischiude gli ambiti chiusi col suo solo movimento, che si adatta e scivola, supera barriere e restrizioni, connette gli spazi e sa cambiar pelle. Mitologicamente, poi, il serpente incarna il peccato generale che la società moderna porta in sé, e dunque avvera la profezia di Benjamin: il capitalismo è il primo caso di una cultura che non consente espiazione ma produce colpa e debito.

Ma soprattutto – e proprio qui – nasce la “psicopolitica”, la nuova tecnica di dominio tipica della società in cui viviamo. L’annuncia, in un saggio pubblicato da Nottetempo, Byung-Chul Han, il filosofo tedesco di origine sud coreana che ha studiato la globalizzazione e la teoria dello “sciame” digitale. La tesi è che le nuove costrizioni cui dobbiamo rispondere sono in buona misura volontarie (e per questo ci appaiono naturali) perché sono generate dalla nostra stessa libertà, in quanto la libertà di potere non ha limiti, e dunque produce più vincoli del dovere. Ecco che mentre si pensa come autonomo e libero, l’uomo d’oggi sta in realtà sfruttando se stesso senza avere un padrone, diventa imprenditore di sé, isolato in sé, e si “usa” volontariamente, seguendo le nuove esigenze della produzione immateriale. In questa volontà libera e sfruttata, in questo isolamento cresce la stabilità del sistema perché saltano le classi e le distinzioni tra servi e padroni, non si forma mai un “noi” politico, una comunità di ribellione, anzi non si vede emergere alcun punto di resistenza al sistema.

Anche il nuovo tecnopotere si nasconde nella libertà, sottraendosi ad ogni visibilità. Deponendo il comando del potere disciplinare, preferisce sedurre piuttosto che proibire, plasmandosi sulla psiche invece di costringere i corpi, assume forme permissive mostrando benevolenza, cerca di piacere per suscitare dipendenza, depone ogni messaggio negativo usando la libertà per portare l’individuo a sottomettersi da sé. Nasce così la “società del controllo digitale” dove grazie all’autodenudamento volontario di ognuno di noi la libertà e la comunicazione che corrono senza limiti in rete si rovesciano in controllo e sorveglianza totali, con i social media «che sorvegliano lo spazio sociale e lo sfruttano », proprio a partire dall’auto- esposizione liberamente scelta da tutti gli utenti. Il risultato è un’informazione che circola indipendentemente dal contesto che la rende comprensibile e la connette ad un paesaggio cognitivo più ampio, mentre ogni estraneità, diversità, difformità viene eliminata perché rallenta la fluidità della comunicazione illimitata.

La libertà del cittadino, avverte Byung-Chul Han, cede alla passività del consumatore che non ha più alcun interesse alla politica e alla costruzione di una comunità, ma reagisce solo passivamente criticando e lamentandosi per la cattiva politica, proprio come il consumatore si lamenta di merci e servizi che non lo soddisfano. Anche il politico, di conseguenza, diventa semplicemente un fornitore. E la trasparenza viene invocata e svalutata insieme, perché non è richiesta per svelare i meccanismi decisionali, ma per mettere a nudo i personaggi pubblici.

Sono tutti ingredienti di una democrazia da spettatori, dove il cittadino guarda l’azione invece di agire mentre il suo status rimpicciolisce e i suoi diritti non sono più quelli del protagonista, ma del pubblico pagante: che fa numero, ma non fa più opinione.

Più dell’opinione pubblica, d’altra parte, nell’era della psicopolitica contano i Big Data che possono realizzare la speranza illuministica di liberare il sapere dall’arbitrio elaborando previsioni sul comportamento umano, ma possono trasformarsi in strumenti devozionali della fede digitale nella quantificabilità della vita: utili a scomporre il “sé” in microdati fino al vuoto di senso, perché «contare non è raccontare», fortunatamente, e fino a rendere visibile una microfisica di mini- azioni che si sottraggono alla coscienza consapevole. Così la psicopolitica potrebbe trovare un suo accesso all’inconscio collettivo, creando un “sapere del dominio” che permette di interagire con la psiche, influenzandola in anticipo sulla coscienza, prima che la razionalità prenda il controllo dei fenomeni.

Non c’è bisogno di arrivare fino a questa soglia. Così come Weber parlava del capitalismo ascetico dell’accumulazione, che seguiva una logica razionale, Byung- Chul Han parla oggi di un “capitalismo delle emozioni” perché il processo razionale diventa anch’esso troppo rigido, scontato e lento per le nuove tecniche di produzione che invece si avvantaggiano dell’emotività. Così la nuova economia dei consumi capitalizza significati e sensazioni in una vera e propria trasformazione emotiva del processo di produzione. E la psicopolitica si è già impossessata della sfera emozionale, in modo da poter influenzare le azioni sul piano pre- riflessivo.

Un potere mimetico, dunque, che vive a suo agio nella libertà sfruttandola e usandoci mentre ci crediamo a nostra volta liberi. Che vive in un tempo digitale di accumulo del passato ma senza un processo narrativo della memoria. Che ci convince della misurabilità di ogni cosa, come se la realtà fosse già tutta rivelata e la conoscenza qualcosa da scaricare più che da conquistare perché le risposte sono tutte pronte, dunque non servono più le domande. Un potere che mentre cattura la psiche dimentica i corpi. Sarà per questo che i corpi dei migranti – puro corpo, nuda vita che pretende di continuare a vivere – ci fanno così paura.

Il Fatto Quotidiano online, 30 giugno 2016 (c.m.c.)

«Come è possibile che alcuni uomini non si rendano conto di quanto è terribile e diffusa la violenza sessista, a cominciare dalle parole che si usano e dalle battute ‘divertenti’, nei social come nella vita reale, e di come in molti siano conniventi quando la incrementano minimizzandola?» L’amica blogger Nadia Somma fa questa domanda durante una conversazione, e nella mente rimbalza la parola ‘ignoranza’.

Tempo fa avevo letto il concetto di ‘ignoranza emotiva’ per definire la condizione di quella considerevole fetta di uomini educati a ridimensionare, se non a considerare estranee dalla loro maschilità, i sentimenti, le emozioni e l’empatia. Non solo verso le donne, ma in generale, verso il mondo. Uomini interconnessi, contemporanei e tecnologici, ma primitivi e ferini nella sfera relazionale. Capaci di motivare i ‘raptus’ stupratori e il femminicidio ricorrendo al concetto di ‘istinto’, descrivendo la virilità come uno status che può andare fuori controllo: «Lei ti fa infuriare, non ci vedi più e partono le sberle», come detto nella felice sintesi del bel video della campagna di Intervita ‘Servono altri uomini’.

Ecco: la lotta contro l’ignoranza è davvero uno dei concetti più importanti nella battaglia contro la violenza di genere.

L’esperienza forte, (e fisica), dell’ignoranza letterale, quella dell’analfabetismo, l’ho fatta quando sono andata per la prima volta in un campo rom, a Genova, una quindicina di anni fa. Fui l’unica tra le madri dell’allora scuola elementare frequentata dal mio figlio più grande, a conoscere di persona le madri di alcuni suoi compagni e compagne di classe appartenenti alla comunità Sinti del campo del mio quartiere. Erano donne tutte molto più giovani di me, tutte analfabete, come mi disse la mediatrice culturale che mi aveva accompagnata lì. Non avevo mai conosciuto nessuno che non sapesse né leggere né scrivere, perché nemmeno le donne e gli uomini anziani della mia famiglia d’origine, contadini poveri dell’entroterra ligure, lo erano.

Le elementari, nel piccolo paese sulle alture della Valfontanabuona dove sono cresciuta, erano tutte insieme nell’unica stanza di una costruzione fatiscente, ma comunque c’erano; nonna, nonno e zie, pur avendo come fonte prioritaria di lettura l’allora assai pittoresca versione di Famiglia Cristiana sapevano leggere, scrivere e fare di conto, come si diceva una volta.

Nei primi anni del nuovo secolo, in Italia, in una grande città del nord l’incontro con donne giovani sprovviste di strumenti culturali di base come la lettura o la scrittura è stato uno shock. Ho provato, senza riuscirci, a immaginare la mia vita priva della possibilità di leggere e scrivere, due attività che diamo per scontate nella nostra quotidianità. E’ infatti anche, (e soprattutto), attraverso la lettura e la scrittura che l’umanità diverge dal resto degli esseri viventi: ciò che chiamiamo “cultura” è apprendimento di quanto altri umani producono scrivendo e scambiando sapere, emozione, senso critico.

La premio Nobel, avvocata e femminista Shirin Ebadi si è chiesta come possa una donna che non ha fatto esperienza per sé della libertà passarla alle figlie che partorisce, e questo è tanto più vero quanto poco, o nulla, quella donna ha a disposizione dal punto di vista culturale. Alla base della libertà di un essere umano ci sono i diritti universali, che sono impossibili da ottenere se non si sa leggere e scrivere.

Mi chiedo se la lotta contro la violenza alle donne, il sessismo, l’omofobia e ogni forma di odio non debba essere combattuta considerando una priorità la lotta contro la forma occulta e pericolosa di analfabetismo, quello che genera l’ignoranza emotiva di molti uomini, del quale la nostra cultura è imbevuto quando si tratta di educazione al rispetto tra i generi. Qui non si tratta più di saper leggere e scrivere: qui si tratta di alfabetizzare alle emozioni, all’empatia, alla relazione e al rispetto. Una lotta non meno dura come quella che si è fatta, e che ancora si deve fare, per dare a ogni essere umano gli strumenti per uscire dall’analfabetismo materiale.

Me ne convinco sempre di più quando giro l’Italia per incontrare gli uomini, (e chi li invita a far parte dell’esperienza), che partecipano a "Manutenzioni-Uomini a nudo" laboratorio di teatro sociale per uomini contro la violenza di genere. Credo che non ringrazierò mai abbastanza Ivano Malcotti, l’autore teatrale tra i primissimi lettori del libro "Uomini che odiano amano le donne" dal quale la piece è tratta, per avermi suggerito di lavorare con lui alla scelta delle frasi più significative tre le 1800 arrivate in risposta a sei domande sulla sessualità.

Negli ultimi tre anni ho conosciuto 200 uomini che hanno accettato di salire sul palco leggendo, (spesso imparando a memoria), frasi di altri uomini sulla sessualità, la violenza, la virilità, la pornografia, creando un mosaico emozionale mai visto e ascoltato prima. Un antidoto all’ignoranza emotiva fatta di parole maschili condivise nello spazio pubblico, che, per citare Carla Lonzi, è già politica.

E per celebrare questi tre anni ecco alcune delle frasi che compongono l’abbecedario emotivo di "Manutenzioni-Uomini a nudo":

«A volte mi accorgo di vivere in un mondo in cui sembra che il sesso sia la cosa più importante che ci sia. È come avere l’impressione che il sesso sia ovunque: è in rete, è in tv, è in discoteca, per le strade, è nei cartelloni pubblicitari. E poi devi essere un vero maschione… superdotato, superpalestrato, sempre brillante, sempre al 100% e devi aver fatto sesso con molte donne perché altrimenti non vali una mazza. Forse sto divagando! Però il messaggio che mi piacerebbe passare è che il mio desiderio è calato vertiginosamente quando ho avuto la percezione che, per essere normale, dovessi diventare un superman».
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«Cosa provo quando leggo di uomini che violentano le donne? Provo compassione. Per l’uomo, che ha un evidente bisogno d’amore e nessuna consapevolezza di ciò, e per la donna, perché è vittima di un’aggressione che le cambierà la vita».
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«Ricordo che rimasi impressionato dalla notizia di quella ragazza, che viveva nel meridione e fu violentata e uccisa da un branco.
Forse anche io sono un violentatore ma non ho mai capito, come un uomo, che sta di fronte ad una donna spaventata, atterrita, magari piangente, che sta supplicando per la propria salvaguardia, sicuramente dall’aspetto sconvolto, con gli abiti sgualciti dall’atto predatorio,… come un uomo possa avere un’erezion

«La revisione in corso cerca di mantenere la promessa costituzionale, o no? Si può ragionevolmente dire di no: perché essa instaura una democrazia d’investitura». Occorre continuare a ragionare sugli effetti devastanti della riforma.

Libertà e Giustizia, 30 giugno 2016 (p.d.)
Il Presidente del Consiglio ha scatenato il suo plebiscito, convinto di vincere perché pensa di avere contro solo dei piagnoni (la memoria fiorentina gli fa pensare di essere un Lorenzo de’ Medici contro dei Savonarola, i cui seguaci erano detti, appunto, dalla brillante società ultracorrotta del tempo, “piagnoni”).
Che il referendum “confermativo”, o “oppositivo”, si trasformasse in un plebiscito, era ovvio. Ed altrettanto ovvio era che si sarebbe trattato in uno scatenamento – come dice la parola – della plebe. La riforma Renzi è infatti una mossa di antipolitica dall’alto per cavalcare (o meglio, per ingoiare) l’antipolitica dal basso.

1) Con la calma della ragione continuiamo a dire che:

a. La revisione costituzionale cd. Renzi-Boschi (unita alla nuova legge elettorale) è fatta male. E’ malfatta nel senso che, dati (presi per buoni) i suoi fini proclamati, essa è intimamente contraddittoria e, dunque, incapace di raggiungerli.
Aumenterà la sudditanza del Parlamento verso il Governo (il rapporto di fiducia si trasforma in una catena di comando); genererà ulteriori malfunzionamenti nello svolgimento dell’attività legislativa e nel rapporto tra Stato e Regioni; ma, primo fra tutti, genererà una determinazione della politica nazionale avventurosa (più simile a una partita a poker che al coagularsi di un indirizzo politico-sociale maggioritario nella società) e, conseguentemente, una frantumazione delle forze politiche sulla base di motivi egoistici sempre più superficiali, perché sempre più determinata da mosse di corto respiro (di reazione a sondaggi, campagne giornalistiche …), e dunque una loro sempre maggiore subalternità alle pulsioni irrazionali dell’elettorato e dei mass-media, accompagnata, di converso, da una sempre maggiore cecità politico-intellettuale di fronte alle dinamiche profonde del Paese e del contesto internazionale.

b. Il giudizio sulla coerenza e sulla efficacia della revisione rispetto ai fini da essa stessa prefissati non può essere disgiunto dal giudizio su quegli stessi fini rispetto a quelli costituzionalmente stabiliti. Ogni Costituzione è un programma di altissima politica sui profili fondamentali che la società deve raggiungere. Un programma aperto al conflitto, o, se si preferisce, “l’asse della morale politica di un popolo”.
Certi fini (ad esempio perseguire l’onnipotenza nell’esercizio dei diritti di proprietà) sono vietati; altri (ad esempio impedire che sul suolo della Repubblica si possa morire di una malattia curabile) sono obbligatori.
La riforma renderà più agevole perseguire i fini obbligatori, e più difficile perseguire i fini vietati? Il giudizio sulla revisione dipende dalla risposta a questa domanda. Non è dunque possibile una discussione che si esaurisca sul piano tecnico: la congruità dei mezzi rispetto ai fini richiede che contemporaneamente si definiscano criticamente i fini (mantenere o sostituire esplicitamente gli obblighi e i divieti che la Costituzione impone; facilitarne l’attuazione o propiziarne lo scivolamento nell’oblio).

c. La natura del potere democratico è oggi estremamente confusa, e va chiarita; ma la riforma non lo fa.
La Costituzione vigente è fondata sull’assioma ottimistico che il volere del popolo sia “cosa in sé buona”. Caduto il fascismo e il nazismo, sperimentata l’unità ciellenista e quella costituente, si pensava che il popolo si sarebbe risollevato con tutta la sua forza, e con una sostanziale unità d’intenti, dovuta alla condivisione degli stessi problemi vitali, al di là delle divisioni politiche, sostanzialmente esogene. Di qui la scelta del sistema pluripartitico e della legge proporzionale pura come fondamenti dello “Stato di tutto il popolo”.
Il potere politico è dunque – secondo l’idea di democrazia adottata dalla nostra Costituzione – “fatto” di scelte compiute dagli individui intesi come parti del popolo concreto, e dunque delle “formazioni sociali” che lo compongono (alcune volontarie, altre determinate dall’economia o dalla tradizione). Di azione collettiva (dei cittadini “associati”, come dice la Costituzione) e contemporaneamente di azioni individuali, di cittadini come elettori “liberi”, i cui voti si contano, non si pesano. E infine, il potere politico è “fatto” dagli eletti e da tutti coloro che attuano le loro scelte, che dovrebbero agire con disciplina ed onore. La materia di cui dovrebbe essere fatto il potere politico dovrebbe dunque essere solo e soltanto la volontà dei cittadini, e la “disciplina e onore” (che comprende il divieto di vendere, e comperare, i voti) con cui questa volontà viene politicamente tradotta in atti pubblici ed eseguita. Il potere politico, insomma, dovrebbe essere fatto della stessa pasta della democrazia organizzata e delle istituzioni sociali che essa presuppone. Non è l’esito momentaneo di una scelta di gusto e di una delega assoluta. Invece la democrazia d’investitura (non prevista dalla nostra Costituzione) presuppone il potere istituzionale come un potere pre-politico, e cioè progettato, finanziato, finalizzato da qualcuno, nell’ombra, e poi “investito”, scelto, votato, acclamato, con un delega assoluta, da maggioranze irrazionali.
La revisione in corso cerca di mantenere la promessa costituzionale, o no? Si può ragionevolmente dire di no: perché essa instaura una democrazia d’investitura.

2) di carattere finanziario e sovranazionale (crisi del debito pubblico italiano con rischi di contagio a tutta la UE, impennata dello spread, lettera della BCE al Governo) – che hanno portato alle dimissioni del IV Governo Berlusconi, alla formazione del governo Monti, e alla confusa e inedita rielezione del Presidente Napolitano, sono state, per il nostro sistema politico e il nostro assetto costituzionale, unitamente allo zoccolo duro del malaffare e della mala gestio della cosa pubblica, una “Algeria”, che mise a nudo – come reale e tragico – il divario tra volontà popolare e capacità di assumere scelte politiche “buone” (che almeno salvassero il paese tutto dal naufragio).
Conseguentemente, e contemporaneamente, quella crisi manifestò in tutta la sua drammatica evidenza e urgenza la necessità di una politica costituzionale che rafforzasse lo Stato, travolto da una crisi finanziaria che non aveva saputo prevenire e combattere per i suoi antichi mali, ma che al contempo (secondo il pensiero di molti) salvaguardasse la Costituzione del ’47, mettendola al riparo dagli umori populisti che infuriavano in quei tempi.
Che cosa voleva dire? Garantire continuità e stabilità ai Governi, ma senza schiacciare il pluralismo. Solo il pluralismo, e cioè la libertà, rende accettabile il principio (il mito, la finzione …) del popolo buono, perché ciò che è veramente buono non è il “popolo” in sé, ma la libertà, e la saggezza, con cui affronta i suoi conflitti interni senza autodistruggersi (cioè stando dentro le “forme e i limiti della Costituzione”: art. 1 della Cost. italiana).
Ma non tutti hanno creduto in quella drammatica e urgentissima necessità. Senza ripercorrere i tentativi del Governo Letta, fatti abortire, va sottolineato che il presidente del Consiglio avviò – è questo il punto – un procedimento che è stato il contrario di quello che avrebbe dovuto essere un procedimento di revisione costituzionale: il più possibile inclusivo, tale da tendere alla unanimità. L’antico principio, da cui tutti discendiamo: “ciò che tocca tutti sia approvato da tutti” è stato messo sotto i piedi, all’urlo di “Abbiamo i voti!” (distorti dal premio di maggioranza e, ciononostante, insufficienti ad evitare aiuti ambigui). Il disegno di revisione si è caratterizzato fin da subito come un disegno di rottura, sprezzante della tradizione costituzionale italiana e delle sue nobili e straordinarie origini – si è detto, a ragione, “miracolose” (Onida) -, chiuso ad ogni dialogo e insultante verso tutte le voci anche solo dissonanti.
Con questo inizio, il procedimento di approvazione dell’attuale testo è stato obbrobrioso. L’originale “maggioranza riformatrice del Nazareno” si è spappolata; una nuova maggioranza è stata rabberciata con il ricatto e con le negoziazioni sottobanco; il Parlamento, anche grazie alla stupefacente arrendevolezza dei Presidenti delle due Camere, è stato costantemente tenuto sotto schiaffo; e – in questo vuoto di politica – si è andato progressivamente cementando un blocco affaristico-finanziario con contorni inquietanti (fino al riapparire di personaggi della P2) che ha imposto la scrittura del testo che ora ci troviamo a giudicare.
La riforma, di per sé, è essenzialmente un pasticcio. Ma collegata con la legge elettorale crea un meccanismo micidiale per cui l’indirizzo politico sarà la plebiscitazione delle scelte opache compiute da quel blocco (che scioccamente ha ritagliato la riforma su se stesso, come se fosse eterno).

3) Occorre essere chiari: se ci limitiamo a queste critiche, senza interrogarci con spietatezza sulle cause dei nostri antichi mali, e sul perché dell’emergere di “cerchi magici” che privatizzano il potere pubblico, si dà l’impressione che stiamo vivendo in un paradiso che qualcuno vorrebbe farci perdere, da cui rischiamo di essere cacciati. E invece i cittadini sanno bene di non essere vissuti affatto, negli anni recenti, in un paradiso che rischia di essere perduto.
Le nostre istituzioni – politiche ed economiche – sono collassate; e sono collassate alla radice. La conoscenza e l’esperienza di questo collasso è comune; ed è ancora diffusa la consapevolezza dei rischi che la democrazia corre quando si avvita sui propri conflitti interni (Italia del primo dopoguerra, Weimar …).
Per questo è urgente uscire da questo avvitamento impantanato.
Occorre però una risposta più articolata all’obbiettiva verticalizzazione e privatizzazione del potere che il disegno di riforma persegue, e che va giustissimamente criticata per gli squilibri che porta con sé.
Il punto è chiaro: l’epicentro della crisi è il Parlamento. E la causa della crisi è – direttamente – quella dei partiti.
La casa brucia. Ma chi accorre a spegnere l’incendio?
La revisione ha come baricentro la neutralizzazione e l’umiliazione del Parlamento. Di un Parlamento, è vero, che è stato ed è il peggior nemico di se stesso.
In pochi abbiamo cercato di salvare la forma parlamentare. Non ci siamo riusciti. Ne è uscito un ibrido che assomma il peggio del maggioritarismo (il dominio del governo su un parlamento impotente) con il peggio del parlamentarismo (lo spappolamento del parlamento stesso). L’equilibrio dovrebbe invece consistere in una “direzione” del governo su un parlamento forte (e in grado di poterla – in casi gravi, esaurite le possibili mediazioni – rifiutare).
Il nucleo della riflessione che non è stata pubblicamente condotta avrebbe dovuto consistere nel chiarire quali giudizi sulla capacità di rinascita dei partiti siano oggi possibili: quali giudizi siano improntati a cinismo (incentrati sull’inevitabile investitura irrazionale) e quali improntati ad una, politicamente ragionevole, scommessa sulla ripresa della politica organizzata.
Forse difendere la forma parlamentare non è più possibile. Chissà se “tornando allo Statuto” ci saremmo evitati i decenni di fango a cavallo di Otto e Novecento, e il fascismo. Ma proprio questa incertezza (cioè il dubbio che “forse sì”) dovrebbe non impedirci di pensare ad una forma di governo più rigidamente ispirata al principio della divisione dei poteri, e dunque più “accogliente” per il pluralismo politico e per la libertà e dignità parlamentare: una forma di governo cioè che non trasformi il rapporto di fiducia in una catena di comando del Governo sul Parlamento.
E’ questa la riflessione che deve essere subito avviata.

4) Certo, quale che sia l’esito del referendum, la Costituzione avrà subito un terremoto.
Sarà difficile continuare a dire che è la casa di tutti, l’asse condiviso della nostra cultura politica, il “bene comune” per eccellenza, o addrittura, usando le parole di un costituente (Togliatti) “l’Arca dell’Alleanza” tra le parti di un popolo, uscito da una guerra, anche civile, e che è stato capace di non precipitare in un’altra.
La spaccatura, parlamentare e civile, c’è già stata; e il Governo irresponsabilmente soffia sul fuoco. E chi, come molti tra noi, ha avanzato in questi anni proposte e obiezioni (preoccupato, e angosciato, dallo stato delle cose e dalle pieghe che stava prendendo il discorso sui rimedi), e se le è viste respingere e disprezzare, che cosa deve fare?
Se gli italiani voteranno massicciamente “si”, e gli avversari verranno “asfaltati”, la cultura politica del pluralismo e della democrazia redistributiva, inclusiva ed emancipante verrà sepolta, e chissà se risorgerà (preoccupazione che è in cima ai nostri pensieri, a differenza di quel che sembra pensare l’ex Presidente Napolitano).
Se questo non avverrà, la lotta per la Costituzione potrà continuare. Il Governo ha già ammesso che su alcuni punti saranno necessari approfondimenti e correzioni. Ammissione straordiaria e stupefacente se pronunciata dal protagonista di una ampia revisione, perché denuncia la consapevolezza che in ogni caso i nodi di questo testo confuso, contradditorio e pericoloso verranno al pettine.

«L’Italicum è una legge di parte che non può essere modificata per convenienze di parte, ma che deve essere cestinata. Punto e a capo ».

Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2016 (c.m.c.)

Domenica 19 giugno le candidate e i candidati del Movimento 5 Stelle sono arrivati al ballottaggio in 20 Comuni e ne hanno vinti 19. Subito dopo sono ricominciate le richieste da più parti di ritoccare la legge elettorale nazionale detta Italicum per impedire l’eventualità che il ballottaggio per la conquista del governo nazionale avvenga fra il M5S e Pd.

Renzi si è affrettato a rispondere che non sono previste modifiche. Si vedrà. Comunque, il principale problema dell’Italicum è che è una legge elettorale fatta su misura del Pd di maggio (2014, quando nelle elezioni europee il partito superò il 40% dei voti) con il consenso di Berlusconi, allora convinto che sarebbe stato il suo centrodestra ad arrivare al ballottaggio, e di Alfano, che chiese e ottenne una clausola di accesso al Parlamento non più alta del 3% (come in Spagna, circa 15 milioni di elettori meno dell’Italia, e non 4 come in Svezia: meno di 10 milioni di elettori).

Tanto Berlusconi quanto Alfano vollero la possibilità di candidature multiple (non più in tutte le circoscrizioni, ma “solo” in dieci) e parlamentari nominati (adesso capilista bloccati in tutte le circoscrizioni) cosicché l’Italicum che, persino secondo Napolitano, dovrà essere sottoposto alle “opportune verifiche di costituzionalità”, assomiglia molto al Porcellum, smantellato dalla Corte Costituzionale.

In buona sostanza, l’Italicum è un porcellinum, con le preferenze e con il ballottaggio che deve avvenire, a causa dell’ossessione anti-coalizioni di un capo di governo che vuole essere l’uomo unico al comando, fra i due partiti o le due liste più votate, a meno che un partito o una lista ottenga al primo turno il 40% dei voti più uno. Già alcuni renziani si affrettano a sostenere che la lista può anche essere composta da più partiti, ma questo sarebbe uno stravolgimento dello spirito della loro legge (e delle intenzioni personalistiche di Renzi) nonché una molto dubbia, forse improponibile, interpretazione della lettera.

Queste sembrano e, sostanzialmente, sono quisquilie e pinzillacchere. Né le leggi elettorali né i ritocchi cosmetici alle leggi esistenti debbono essere fatti con riferimento ai desideri e alle preferenze dei partiti e dei loro dirigenti. L’Italicum è una legge di parte che non può essere modificata per convenienze di parte, ma che deve essere cestinata. Punto e a capo.

Nel frattempo, pendono anche alcuni ricorsi alla Corte costituzionale su diverse clausole della legge. Il criterio con il quale valutare qualsiasi legge elettorale non è mai il tornaconto dei partiti esistenti, ma il potere degli elettori. L’Italicum migliora il Porcellum grazie sia al ballottaggio sia alla possibilità di esprimere uno o due voti di preferenza, ma, a causa dei capilista bloccati e come conseguenza dell’ingente premio in seggi consegnato a un partito/lista che ottenga anche soltanto poco meno o poco più del 30% al primo turno (quindi, quasi raddoppiandone la rappresentanza parlamentare), rimane molto al di sotto quanto a potere degli elettori tanto del sistema maggioritario francese quanto del sistema proporzionale personalizzato tedesco.

Nel maggioritario francese a doppio turno (non ballottaggio poiché al secondo turno possono esserci tre, se non quattro candidati) in collegi uninominali, gli elettori hanno il potere di eleggere il candidato preferito oppure, quanto meno, di sconfiggere il candidato più sgradito. E i partiti ottengono importanti indicazioni anche per la formazione delle coalizioni di governo.

Nella rappresentanza proporzionale personalizzata tedesca, gli elettori hanno due voti sulla stessa scheda: uno per il candidato nel collegio uninominale, uno per il partito. Con il primo voto eleggono il loro rappresentante, con il secondo voto contribuiscono a determinare il bottino complessivo dei parlamentari del partito preferito purché abbia superato la soglia del 5% (la Germania ha circa 60 milioni di elettori).

Cestinato il sostanzialmente irriformabile Italicum è fra questi due ottimi sistemi elettorali che bisognerebbe scegliere, eventualmente introducendo correttivi giustificabili non come contentino ai dirigenti di partito, ma come variazioni che migliorano la rappresentanza politica senza frammentare il sistema dei partiti.

Se queste scelte alternative non fossero praticabili nell’attuale Parlamento non resterebbe che un ritorno al Mattarellum, un sistema sostanzialmente conquistato nel 1993 attraverso un referendum popolare, “probabilmente” già sufficientemente noto all’inquilino del Colle il quale potrebbe anche cominciare a fare sentire la sua voce, utilizzato con risultati soddisfacenti in tre elezioni generali: 1994, 1996, 2001.

Con l’eliminazione delle liste civetta e una migliore definizione del recupero proporzionale, il Mattarellum consente agli elettori di eleggere i rappresentanti che preferiscono e dà loro un doppio voto che conta e pesa. Il resto (della discussione fra opportunisti elettorali) è fuffa oppure truffa.

«La vendetta ha a che vedere con la solitudine in cui si trovano coloro che hanno perso con il lavoro un ruolo sociale e un peso politico e i giovani, lasciati allo sbaraglio dal venir meno di tutto ciò che i padri avevano conquistato». Il manifesto, 29 giugno 2016

Nelle democrazie consolidate «il popolo» e cioè i disoccupati, i precari, le periferie hanno usato il voto per vendicarsi. La vendetta riguarda le sconfitte economiche/politiche e l’emarginazione sociale subite senza potersi difendere. Per difendersi avevano bisogno di rappresentanti all’altezza dei loro bisogni sotto scacco e che avessero un’alternativa alla crescente deindustrializzazione, alla flessibilità del lavoro, alla ghettigazione urbana. Rappresentanti che nei governi locali, nelle istituzioni nazionali e transnazionali avessero una politica contrapposta all’altra in corso.

E cioè alla politica che ha abdicato al suo ruolo e si fa suggerire dall’economia come democraticamente realizzare le esigenze dell’economia. Esigenze di valore universale: meno lavoro operaio significa un minor prezzo del bene prodotto e dunque un vantaggio anche per l’operaio che ha perso il lavoro.

Il mercato unico e l’appuntamento elettorale son divenute una sorta di brevetto di legittimazione di come si deve stare nel mondo. È poi quel mondo in cui il dito viola dell’elettore analfabeta e il degrado di città come Detroit o Manchester o Bagnoli testimoniano la guerra combattuta, vinta dagli uni e persa dagli altri. Coloro che l’hanno vinta si son resi conto che potevano vincerla quando hanno capito di non avere più avversari. E anzi che il loro governo del mondo era accettato da chi nel passato lo combatteva in campo opposto.

The unipolar moment è stato giustamente esaltato dai neo-conservatori di George Bush come la fine di una cogestione dello stato delle cose nel mondo. L’esaltazione conseguiva dalla dissoluzione dell’avversario, dalla sua sparizione non solo dal terreno geopolitico ma anche dal cielo teorico. Le idee «contro» sono state le prime a sparire, sostituite da proposte «per» che nel breve periodo si sono adeguate alle strategie di potere di chi aveva in mano le carte vincenti. E la partita si avvaleva di sofisticati mezzi di comunicazione politica che la identificava come la partita di tutti per il progresso e la libertà politica per tutti. È stata la partita che gli avversari di ieri hanno fatto vincere senza combattere. E l’hanno fatta vincere perché avevano smarrito le coordinate di ieri: era meglio difendere il lavoro dell’operaio o il diritto del consumatore?

L’interrogativo avendo a che fare con l’economia, è stato di per sé una messa in non cale della politica. Della politica progetto con programmi per i rappresentati e percorsi di realizzazione dei programmi per i loro rappresentanti. Difatti quell’interrogativo era già oltre le coordinate di ieri, non vi erano più due campi concorrenti, avversari, nemici. Sull’unico campo visibile vi era l’interesse comune per il bene comune, identificabile con etichette da considerare sacre come globalizzazione e democrazia.

Guai ad avere dubbi sulle conseguenze dell’una o sulla praticabilità dell’altra. Il rischio minimo è l’accusa di non saper accettare la morte delle ideologie, la fine dei partiti di massa, il superamento delle lotta di classe, anzi delle classi. Rimane consentito – seriosissimamente – indagare sulle diseguaglianze di reddito, su ricchi e poveri, sul ritorno da protagoniste delle èlite, sul loro rapporto con le masse. Un rapporto che ridà consistenza alla democrazia plebiscitaria, a quella diretta, a quella referendaria. Un rapporto che nessuno si azzarda a riconoscere (ed averne paura) come il principale effetto della sconfitta subita allorchè si è rimasti senza più idee «contro». Nessuno più si aspetta che esistano ancora idee differenti da quelle messe sugli altari dagli uomini del potere economico transnazionale. È in questo spazio che va inserito il voto di vendetta espresso in diverse occasioni e luoghi.

La vendetta ha a che vedere con la solitudine in cui si trovano coloro che hanno perso con il lavoro un ruolo sociale e un peso politico e i giovani, lasciati allo sbaraglio dal venir meno di tutto ciò che i padri avevano conquistato. Per i giovani è un voto contro i padri che si sono arresi e per chi si è arreso è un voto contro chi non li ha fatti lottare.

P.S. Le disquisizioni sul populismo di destra e di sinistra sono per coloro che lo studiano.

Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2016 (p.d.)

Nel Parlamento europeo di cui sono membro, quel che innanzitutto colpisce, osservando la reazione alla Brexit,è la diffusa assenza di autocritica, di memoria storica, di allarme profondo – e anche di qualsiasi curiosità – di fronte al manifestarsi delle volontà elettorali di un Paese membro. (Perché non va dimenticato che stiamo parlando di un Paese ancora membro dell’Unione). Una rimozione collettiva che si rivela quanto mai grottesca e catastrofica, ma che dura da decenni. Meriterebbe studi molto accurati; mi limiterò a menzionare alcuni punti essenziali.

1. Quel che manca è l’ammissione delle responsabilità, il riconoscimento esplicito del fallimento monumentale delle istituzioni europee e dei dirigenti nazionali: tutti. La cecità è totale, devastante e volontaria. Da anni, e in particolare dall’inizio della crisi del 2007-2008, istituzioni e governi conducono politiche di austerità che hanno prodotto solo povertà e recessione. Da anni disprezzano e soffocano uno scontento popolare crescente. Non hanno memoria del passato –né quello lontano né quello vicino. Sono come gli uomini vuoti di Eliot: “Uomini impagliati che s’appoggiano l’un all’altro, la testa riempita di paglia”. La loro ignoranza si combina con una supponenza senza limiti. Il suffragio universale ha tutte le colpe e le classi dirigenti nessuna. È come se costoro, trovandosi a dover affrontare un esame di storia al primo anno d’università, dicessero che le cause dell’avvento del nazismo sono addebitabili solo a chi votò Hitler, senza mai menzionare le istituzioni di Weimar. Sarebbero bocciati senza esitazione; qui invece continuano a dare lezioni magistrali.

2.Nessun legame viene stabilito tra la Brexit e l’evento disgregante che fu l’esperimento con la Grecia. Nulla hanno contato le elezioni greche, nulla il referendum che ha respinto il memorandum della troika. Dopo i negoziati del luglio scorso il divario tra volontà popolare ed élite europea si è fatto più che mai vasto,tangibile e diffuso. Con più peso evidentemente della Grecia, il Regno Unito ha posto a suo modo la questione centrale della sovranità democratica, anche se con nefaste connotazioni nazionalistiche: il suo voto è rispettato, quello greco no. Le lacerazioni prodotte dal dibattito sulla Grexit hanno contribuito a produrre il Brexit, e il ruolo svolto nella campagna dal fallito esperimento Tsipras è stato ripetutamente ostentato. Ma nelle classi politiche ormai la memoria dura meno di un anno; di questo passo tra poco usciranno di casa la mattina dimenticandosi di essere ancora in mutande. È per colpa loro che la realtà ha infine fatto irruzione: Trump negli Usa è la realtà, l’uscita inglese è la realtà. Il voto britannico è la vendetta della realtà sulle astrazioni e i calcoli errati di Bruxelles.

3. La via d’uscita prospettata dalle forze politiche consiste in una falsa nuova Unione, a più velocità e costituita da un “nucleo centrale” più coeso e interamente dominato dalla Germania. Le parole d’ordine restano immutate: austerità, smantellamento dello Stato sociale e dei diritti, e per quanto riguarda il commercio internazionale – Ttip, Tisa, Ceta – piena libertà alle grandi corporazioni e ai mercati, distruzione delle norme europee, neutralizzazione di contrappesi delle democrazie costituzionali come giustizia, Parlamenti e volontà popolari. Lo status quo è difeso con accanimento: nei rapporti che sto seguendo come relatore ombra per il Gue mi è stato impossibile inserire paragrafi sulla questione sociale, sul Welfare, sulla sovranità cittadina, sui fallimenti delle terapie di austerità.

4. Migrazione e rifugiati. È stato un elemento centrale della campagna per il Leave – che ha puntato il dito sia su rifugiati e migranti extraeuropei, sia sull’immigrazione interna all’Ue –, ma le politiche dell’Unione già hanno incorporato le idee delle destre estreme, negoziando accordi di rimpatrio con la Turchia (e in prospettiva con 16 paesi africani, dittature comprese come Eritrea e Sudan) e non hanno quindi una visione alternativa a quella dell’Ukip. La Brexit su questo punto è un disastro: rafforzerà, ovunque, la paura dello straniero e le estreme destre che invocano respingimenti collettivi vietati espressamente dalla legge internazionale e dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Quanto ai migranti dell’Unione che vivono in Inghilterra, erano già a rischio in seguito all ’accordo dello scorso febbraio tra Ue e Cameron. Le politiche dell’Unione sui rifugiati sono un cumulo di rovine che ha dato le ali alla xenofobia.

5. Il ritorno alla sovranità che la maggioranza degli inglesi ha detto di voler recuperare mette in luce un ulteriore e più vasto fallimento. L’Unione doveva esser un baluardo per i cittadini contro l’arbitrio dei mercati globalizzati. La scommessa è perduta: le sovranità nazionali escono ancora più indebolite e l’Unione non protegge in alcun modo. Non è uno scudo ma il semplice portavoce dei mercati. La globalizzazione ha dato vita a una sorta di costituzione non scritta dell’Unione, avversa a ogni riforma-controllo del capitalismo e a ogni espressione di scontento popolare, e in cui tutti i poteri sono affidati a un’oligarchia che non intende rispondere a nessuno delle proprie scelte. Sarà ricordata come esemplare la risposta data dal Commissario Malmström nell’ottobre 2015 a chi l’interrogava sui movimenti contrari a Ttip e Tisa: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo”. Questa costituzione non scritta si chiama governance e poggia su un concetto caro alle élitefin dagli anni 70 (il vero inizio della crisi economica e democratica): obiettivo non è il governo democratico ma la governabilità. Il cittadino “governabile” è per definizione passivo.

6. L’intera discussione sulla Brexit si sta svolgendo come se l’alternativa si riducesse esclusivamente a due visioni competitive: quella distruttiva dell’exit e quella autocompiaciuta e immutata del Remain. Le cose non stanno così. C’è una terza via, rappresentata dalla critica radicale della presente costruzione europea, dalla denuncia delle sue azioniedalla ricerca di un’alternativa. Era la linea di Tsipras prima che Syriza andasse al governo. È la linea di Unidos Podemos, che purtroppo non è stata premiata. Resta il fatto che questa tripolarità è del tutto assente dal dibattito.

7. La democrazia diretta, i referendum, la cosiddetta e-democracy. Il gruppo centrale del Parlamento li guarda con un’ostilità che la Brexit accentuerà. La democrazia diretta è certo rischiosa, ma quando il rischio si concretizza, quasi sempre la causa risiede nel fallimento della democrazia rappresentativa. Se per più legislature successive e indipendentemente dall’alternarsi delle maggioranze la sensazione è che sia venuta meno la rappresentatività e con essa la responsabilità di chi è stato incaricato di decidere al posto dei cittadini, i cittadini non ci stanno più.

«Bisogna cominciare da subito a mettersi insieme per attivare un progetto di inclusione culturale a sinistra, per superare confini che prima di noi sono stati abbattuti dal nostro avversario». Il manifesto, 28 giugno 2016 (c.m.c.)

Con il risultato del referendum inglese il capitalismo finanziario che governa gran parte delle dinamiche mondiali ha ottenuto un’altra importante vittoria. Solo ad una lettura superficiale e di corto periodo dell’avvenimento si potrebbe credere il contrario, cioè che le forze antisistema, perlopiù di destra, ma anche qualche sprovveduto altermondialista, siano i veri trionfatori della Brexit.

Se l’economia finanziarizzata è senza territorio, senza nazione, senza spazio, se ha progressivamente superato tutte le differenze di cultura e di clima tra le varie parti del globo rendendolo realmente ciò che è, un luogo senza inizio e senza fine in cui i confini sono retaggi del passato, ebbene l’ulteriore scomposizione europea risulta un tassello fondamentale nella sua strategia di globo-colonizzazione. Che senso ha oggi, infatti, pensare le Nazioni come spazio di governo reale delle dinamiche economiche? Quale modello è realmente e stabilmente sovrano nel mainstream dei flussi di capitale?

Noi sappiamo, ma non riusciamo a pensare questo dato in termini politici, che ogni microsecondo miliardi vengono spostati da una parte all’altra del globo senza nessuna regolazione, mossi da algoritmi atti solo a guadagnare plusvalenze da qualunque cosa, dalle vite migranti alle armi, passando per consumi di lusso o cultura di massa.

Su tutto questo, che influenza nella quotidianità la nostra vita spirituale, imaginale e materiale, che ci condizione nel profondo archetipico della nostra relazione con mondo dentro e fuori di noi, che potere hanno oggi gli Stati, le Nazioni? Estremamente residuale purtroppo, o per fortuna, se solo riuscissimo a pensare il globo per come lo ha reso uniforme questo flusso.

Tutto scorre, diceva Eraclito di Efeso, riferendosi al fluire del tempo. Ma oggi che tempo e spazio sono la stessa cosa, o meglio che lo spazio non esiste più perché annullato, sussunto nel tempo degli scambi «in tempo reale», che senso ha questa verità? Evidentemente abbiamo bisogno di rivedere le nostre categorie e di adattare la nostra episteme a condizioni già da tempo mutate ma che non riusciamo a cogliere nelle loro implicazioni politiche.

Gli «utili idioti» delle destre xenofobe, con la bava alla bocca per la Brexit sono dunque solo le teste di ariete per un ulteriore processo di sminuzzamento mucillaginoso delle società europee ridotte a meno dei loro individui, come proponeva la Thatcher quando fece entrare la Gran Bretagna nella CEE, e lo fece proprio perché in quel momento il significato della scelta non era affatto «europeista» ma strumentale alla decostruzione di una Europa che doveva così essere frenata e sottoposta ai diktat liberali che allora stavano divenendo liberisti: la reganomics.

Infatti, l’effetto domino che probabilmente si attiverà, dato che i politici europei non hanno le circonvoluzioni celebrali per pensare se non in termini territoriali e di breve periodo, porterà ad un azzeramento radicale dell’ideale europeo come venne concepito da Spinelli, cioè uno spazio macroculturale, aperto e poroso, prima ancora che politico ed economico, nel quale i popoli mettevano da parte le diseguaglianze per costruire, attraverso le loro diversità, uno spazio comune.

È evidente ad ogni ragazzino collegato al mondo attraverso il suo smartphone che lo spazio minimo per riacquistare diritti, partecipazione, governo dei territori, podestà sulla propria esistenza, è almeno continentale. E dunque da oggi il dibattito sulla costruzione di una sinistra all’altezza delle sfide deve decisamente prendere una piega di questa portata, mettere subito da parte i livelli nazionali, ricomporsi su scala europea, ripensarsi nell’internazionalismo che ci impongono le mutate condizioni.

Questi mesi vedranno momenti difficili per le istituzioni democratiche nazionali ed internazionali: le ricette del rigorismo cercheranno di dare la spallata finale al progetto europeo, lasciando poi le destre amministrare la povertà e le diseguaglianze.

È possibile che molti governi cadranno, incluso quello italiano, incapaci di ripensare l’Europa come rinascita culturale di una idea di eguaglianza, welfare, libertà di circolazione e solidarietà euro mediterranea. Bisogna cominciare da subito a mettersi insieme per attivare un progetto di inclusione culturale a sinistra, avendo come obiettivo una Carta Costituzionale Europea come programma fondamentale per superare confini che prima di noi sono stai abbattuti dal nostro avversario.

«Il manifesto, 26 giugno 2016 (c.m.c.)

C’è un paradosso nei regimi democratici contemporanei: massimizzano le opportunità per i cittadini comuni di decidere direttamente e minimizzano l’ascolto.

Mai le democrazie si sono mostrate tanto disponibili a dar voce al popolo sovrano, sgombrando il campo delle mediazioni proprie della rappresentanza e dei partiti, tramite referendum, investiture dirette, primarie, consultazioni on line e non, ivi compresi gli onnipresenti sondaggi.

In compenso, questi stessi regimi mai hanno prestato così poca attenzione alle arcinote richieste dei cittadini comuni: lavoro, pensioni, servizi, eccetera. Intendiamoci. Nonostante quel che promettono i loro sacri testi e i loro propagandisti, sinceri e insinceri, i regimi democratici non sono stati inventati né per dare voce all’uomo comune, né per trattarlo con particolare benevolenza. Servono a minimizzare i conflitti e a tener buono il cittadino comune.

Sono il prezzo che i potenti pagano in cambio della pace sociale. Per fortuna, la competizione democratica lascia qualche spazio (che si è sempre provato in vario modo a ridurre) a chi si fa portavoce del cittadino comune, a condizione che lo si organizzi, come facevano i partiti di una volta.

Se non che, da qualche tempo a questa parte i potenti hanno deciso di cambiare strategia e di abbandonare ogni prudenza. Da un lato adottano misure che favoriscono in modo indecente i ricchi e i potenti e hanno ridotto quelle che favoriscono il cittadino comune.

Ritengono meno costoso addomesticarne le sofferenze e il malumore offrendogli quelle che spacciano per maggiori opportunità di decisione. Salvo ridurre le sue scelte a due sole opzioni e investire massicciamente in manipolazione e disinformazione. La democrazia si è pertanto risolta in una drammatica gara a chi manipola meglio e di più. E si dimostra spietata verso il cittadino comune.

Siamo seri. Il cittadino non è uno sciocco. Può di sicuro capire cosa gli conviene tra divorzio sì/divorzio no. Ma orientarsi tra i meandri del Brexit non è alla portata di tutti. Può scegliere un sindaco e un deputato, a condizione che gli si offra un numero decente di alternative. Sono invece democraticamente devastanti le procedure d’investitura diretta della leadership, solitamente ottenute con marchingegni elettorali che promuovono a maggioranze minoranze ristrettissime. Se la scelta è sbagliata (immaginiamo cosa accadrebbe se la spuntasse Trump), è impossibile rimediarvi. Il cittadino comune ha capito il trucco. Non a caso, l’astensione è cresciuta in maniera esponenziale.

Il diavolo, come sempre, fa pentole, ma non coperchi. Così è successo per il Brexit. Cameron ha voluto il referendum imbastendoci sopra una vergognosa speculazione politica. Lo ha voluto per vincere le elezioni, per ricattare i suoi partner europei, per neutralizzare a basso costo il populismo di Farage. Nelle due prime imprese gli è andata alla grande. Al referendum, l’imbonitore ha trovato il suo maestro.

Non sappiamo cosa accadrà. Forse sarà un vantaggio per l’Europa, che non sopporterà più le eccezioni inglesi e non subirà più la concorrenza di quel paradiso fiscale che l’Inghilterra è diventata. Ma è verosimile che i danni per il Regno Unito siano notevoli e che la sua stessa sopravvivenza sia a rischio. Che accidenti di democrazia è comunque quella in cui si sono pronunciati tre elettori su quattro (una quota peraltro altissima) e l’exit ha prevalso di un soffio, avendo messo in lotteria il destino di un popolo, ma anche dei popoli vicini?

C’è da augurarsi che questo evento, quali che siano le sue conseguenze, convinca i potenti che non è opportuno assumere decisioni collettive in maniera tanto avventata. Che possono essere controproducenti anche per loro. Riuscirà la vicenda del Brexit a moderare la loro avidità di potere e di ricchezza, dissipando il micidiale sciocchezzaio di quello che Giovanni Sartori ha chiamato «il direttismo»?

Ci libereremo di idiozie come quella che bisogna restituire al popolo sovrano il suo scettro? Che la sera delle elezioni è giusto che il popolo sappia chi dovrà governarlo? Che la democrazia vince sempre quando il popolo si pronuncia? La democrazia fa dei pronunciamenti popolari il suo fondamento, a condizione però che gli elettori siano istruiti e informati e non manipolati. Non per caso i padri costituenti scrissero che la sovranità popolare si esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla costituzione.

Un secondo insegnamento è che il cittadino comune non lo si può opprimere e spremere più di tanto. Perché alla fine si ribella e lo fa come può. Anche in maniera scomposta. Non solo. Stiamo attenti in special modo agli anziani. Altro che rottamarli, meritano grandi cure e grande rispetto. Sono gli ultrasessantenni che hanno deciso del Brexit.

».

Il manifesto, 24 giugno 2016 (c.m.c.)

Nel budello arroventato di via Cupa, all’entrata del plurisgomberato Baobab, simbolo dell’accoglienza dei migranti apolidi e senza dimora nella Capitale, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e il portavoce di Diem 25 («Democracy in Europe Movement 2025») e l’ex ministro dell’economia greco Yanis Varoufakis hanno esposto ieri le prime linee di un’«agenda paneuropea formata da un rete di città, regioni e governi ribelli» contro l’austerità.

Sarà, verosimilmente, questa la cornice in cui si muoverà il «movimento» di cui parla De Magistris dalla rielezione a palazzo San Giacomo. Un movimento che dovrebbe essere coordinato dal fratello del sindaco Claudio, «spin doctor» e accreditato come mente dell’operazione.

Messa in ombra dall’affermazione del movimento Cinque Stelle a Roma e Torino, e liquidata con la categoria di «populismo» (che, per il mainstream ormai non vale più per i grillini), la formula politica descritta da De Magistris e Varoufakis sembra più complessa rispetto alle astratte categorie liquidatorie degli editorialisti moderati. L’intreccio con la prospettiva di Diem 25, realtà fin’ora rimasta in ombra e quasi disincarnata, permette di tracciare una prospettiva europea all’esperienza municipalista napoletana, permettendo di liberarla dai luoghi comuni antimeridionalisti.
«Iniziamo da questo marciapiede – ha detto Varoufakis – per dimostrare che c’è un’alternativa alle politiche tossiche e alle economie sbagliate di Bruxelles. La nuova politica europea deve partire dalle strade e dalle città sotto l’ombrello di un movimento europeo».
Lo schema politico è quello della federazione politica delle città contro l’Europa degli Stati: un’idea di decentralizzazione e autogoverno che trae spunto dalle Costituzioni antifasciste del Dopoguerra, dalle varie sfumature della democrazia partecipativa (Social Forum di Porto Alegre, il modello «bolivariano», l’orizzontalità della rete, movimenti come Podemos a poche ore dalle elezioni spagnole). Forte è anche il riferimento al concetto di «autonomia» in senso sia municipalista sia politico.
Oltre a Napoli, sostiene Varoufakis, ci sono Barcellona e Madrid, La Coruna e Dublino. Su questa scia, De Magistris svela un altro motivo del blitz romano davanti a 500 persone, strette e accaldate: sondare gli umori della città dove i Cinque Stelle hanno spazzato via il «Sistema Pd». «Buon lavoro alla sindaca Virginia Raggi. Mi auguro – ha detto l’ex magistrato – che tra Napoli e Roma ci possa essere un rapporto di fattiva collaborazione. Guardiamo con interesse soprattutto a chi è contro il sistema».

Sono le prime prese di contatto con i Cinque Stelle, una realtà ormai data al 30% nazionale, in continua trasformazione e accreditamento. È di ieri la loro sorprendente conversione europeista: nell’imminenza degli esiti sul «Brexit», un post sul blog di Grillo sembra avere abbandonato l’alleanza con Farage e cambiato l’orientamento politico «no-euro» del movimento: «L’unico modo per cambiare questa “Unione” è il costante impegno istituzionale – si legge – per questo il Movimento 5 Stelle si sta battendo per trasformare l’Ue dall’interno».

Resta da capire se ai Cinque Stelle interessa la proposta De Magistris-Varoufakis o se continueranno ad occupare tutti gli spazi politici a disposizione nella battaglia finale contro Renzi e il Pd. Da questo si capirà anche lo spazio per l’esperimento europeista di Napoli.

«Se mi vedo alla guida di un movimento sinistra in Italia? No – ha detto De Magistris – Io mi vedo sindaco di Napoli» ma «porteremo la nostra esperienza oltre i confini». Per il momento vede Napoli città autonoma sul modello di Barcellona. «Rientra in una cornice costituzionale agli articoli 117 e seguenti. Non condivido il neocentralismo autoritario» del governo Renzi «che non aiutano le comunità locali. Dal basso si può costruire un nuovo modello».

«Sinistra. L’arma pedagogica è spuntata. Più proficuo rivolgersi alle centinaia di associazioni e movimenti auto-organizzati. Come agli albori del socialismo europeo». Il manifesto, 24 giugno 2016 con postilla

I risultati elettorali impongono alle forze di sinistra una riflessione critica non facile e che proseguirà nei prossimi mesi. Da anni si lavora per la costituzione di un nuovo soggetto politico di sinistra capace di colmare il vuoto che separa milioni di persone dai partiti di governo. Un vuoto che si esprime sia in un astensionismo crescente ad ogni tornata elettorale sia in un disorientamento nelle scelte da compiere.

Al fondo c’è un malessere sociale diffuso in ampi strati della popolazione ma che sembra non trovare sbocco in un progetto di trasformazione sociale e politica in grado di interpretarlo adeguatamente. Il fenomeno non riguarda solo l’Italia, ma anche altri paesi. E per trovare elementi di spiegazione utili occorre risalire alla fine degli anni ’90 ed alla rottura che allora si consumò con quel che restava del riformismo e della tradizione socialdemocratica europea.

La frattura si espresse nella «terza via» teorizzata da Tony Blair, nel «nuovo centro» proposto da Gerhard Schröder, contrassegnò i ripiegamenti dei socialisti francesi e provocò la crisi del secondo centro-sinistra in Italia.

Nell’ultimo decennio l’ulteriore rafforzamento e concentrazione del sistema di potere dominante ha imposto un appiattimento ancor maggiore degli equilibri politici. I governi di coalizione o di pseudo-alternanza in vari paesi europei hanno accentuato il vuoto di proposte politiche alternative. Si aggiungano politiche di rigore a senso unico, flessibilità del lavoro, tagli alle spese sociali predicate dall’Unione europea e diligentemente adottate dai governi degli stati membri, e ci si renderà ragione di quella sorta d’ingabbiamento politico dal quale sembra difficile uscire.

Occorre chiedersi se sia sufficiente che un raggruppamento politico elabori un programma di cambiamento, per quanto articolato e corrispondente a bisogni reali, e lo propagandi diffusamente per far convergere su di esso un ampio consenso da tradurre in voti e, per questa via, modificare l’assetto politico. L’esperienza dimostra che programmi del genere possono risultare inefficaci.

In altri termini, non si può pensare di svolgere un’azione politica efficace per via “pedagogica”. Quando si è davanti a vasti strati di popolazione che, già di per sé passivi, sono sfiduciati e distaccati, gli appelli all’impegno politico sono destinati a cadere nel vuoto. La strada da percorrere sembra piuttosto quella di far riferimento a quei settori della popolazione che sono politicamente attivi e in movimento.

Basta ricordare come sono nati i sindacati di massa e i primi partiti socialisti nell’Europa di fine Ottocento. Da tempo esistevano gruppi socialisti di varie tendenze, ma la loro azione a lungo ebbe un seguito assai limitato. Però quando masse di operai e contadini, colpiti dai duri effetti della seconda rivoluzione industriale e dalla più decisa trasformazione capitalistica delle campagne furono costretti ad auto-organizzarsi per difendersi e resistere, allora e solo allora alcuni gruppi socialisti riuscirono a collegarsi con lavoratrici e lavoratori che erano già in movimento.

L’insegnamento che viene da quella e da altre fondamentali tappe della storia del socialismo in Europa consiste appunto nel fatto che gruppi, o «avanguardie», promotori di mutamenti sociali e politici hanno raggiunto dimensioni di massa quando sono riusciti a interpretare bisogni e rivendicazioni espressi da movimenti in essere.

Anche oggi la sinistra europea deve cercare la connessione con soggetti sociali già attivi. Basta guardarsi intorno. In Italia, come in altri paesi, vi sono centinaia di associazioni e movimenti auto-organizzati che si battono per vari obiettivi politici e sociali. Si va dalla difesa dei diritti umani alla salvaguardia dell’ambiente, dalla lotta contro le discriminazioni di genere a quella contro la precarietà del lavoro, dai movimenti in difesa della scuola pubblica a quelli contro i tagli alla sanità. Le numerose lotte per i diritti dei lavoratori non di rado si sono consolidate in organizzazioni durevoli che si affiancano o competono con l’azione dei sindacati tradizionali.

Sempre più numerose e di varia ispirazione sono le associazioni che si mobilitano in difesa dei diritti degli immigrati e per politiche di accoglienza. Altrettanto significativo è l’impegno di quanti militano in associazioni pacifiste, per debellare fame e malattie endemiche nei paesi più poveri. O nelle organizzazioni in difesa dei beni comuni o della stessa Costituzione.

Molte di queste organizzazioni svolgono la loro azione in modo implicitamente o esplicitamente alternativo alla mappa degli interessi, poteri e politiche dominanti. Con tratti d’unione potenziali o in atto tra i diversi movimenti. Realtà testimoniata anche dal fatto che molte persone militano in più movimenti e organizzazioni di questo tipo. D’altra parte, non c’è dubbio che le rivendicazioni e gli obiettivi perseguiti attingono a livelli di consapevolezza politica decisamente alti. Né si può trascurare minimamente il fatto che molte di queste organizzazioni hanno carattere internazionale o si collegano ad omologhe attive in altri paesi. È a questi movimenti che occorre guardare. È con essi che si può e si deve cercare la saldatura comprendendone la maieutica e le nuove forme di espressione politica.

In che modo è avvenuto il coagulo di movimenti come gli Indignados spagnoli poi sfociati nella formazione di Podemos? Come è lievitato il movimento di Occupy Wall Street e come si è intrecciato ad altri fino a costituire la base più attiva dell’elettorato di Bernie Sanders nelle primarie americane? E da dove nasce la forza insospettata e irriducibile del movimento di protesta contro la Loi Travail in Francia? Perché nulla di simile si è verificato nel contrastare il Jobs Act italiano, che pure è decisamente peggiore?

Auto-organizzazione, trasversalità, maieutica dei movimenti ci sembrano elementi da cui non si può prescindere se si vogliono innescare processi di trasformazione in una società in cui i vincoli sembrano prevalere sulle possibilità.

postilla
La metà degli italiani (tra astenuti e voti M5S) ha votato contro il sistema e gli uomini che si riallacciano alle sigle della sinistra novecentesxa. Non è forse arrivato il momenti di abbandonare tutte le croste del passato per cercarne l'anima, e ritrovarla in un nuovo modo di fare politica? Per esempio, Podemos

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La Repubblica, 24 giugno 2016 (c.m.c.)

Valutando i risultati dei ballottaggi, Matteo Renzi ha voluto subito sottolineare che la capacità attrattiva dell’M5S dipendeva dal fatto che era stato percepito come soggetto del “cambiamento”. Ed ha aggiunto che da questo portava con sé la conclusione che il governo doveva insistere con ancor maggiore determinazione sulla strada delle “riforme”.

Ma proprio le parole adoperate per una diagnosi così sbrigativa mostrano gli equivoci politici che la caratterizzano e l’intenzione di sfuggire alle domande più stringenti che le elezioni hanno proposto.

Non si può certo dimenticare il fatto che il Presidente del Consiglio ha sempre insistito in maniera martellante proprio sul cambiamento che il suo governo avrebbe già determinato in tutte le materie più significative.

Perché l’opinione pubblica non ha dato rilievo a questo fatto proprio nel momento in cui il governo si presentava al giudizio dei cittadini? Non credo che ci si possa rifugiare nell’argomento del difetto di comunicazione, visto che proprio la comunicazione ha costituito l’ossessione di Renzi, sì che si potrebbe, se mai, addirittura azzardare l’ipotesi che la sua presenza in ogni luogo e in ogni tempo, il suo tono perennemente assertivo abbiano provocato una reazione di rigetto da parte degli elettori.

Se, però, si ragiona seriamente sull’accoppiata “cambiamento”/” riforme”, diventa più aderente alla realtà la conclusione che vede nel voto amministrativo il rifiuto del cambiamento incarnato dalle politiche governative. Due cambiamenti a confronto, dunque, uno dei quali prospetta un cambio di passo.

Non facile, perché la dimensione locale non rende agevole la messa a punto di politiche che abbiano in qualche modo un significato alternativo rispetto a quelle governative. Ma pure con gli interventi consentiti dalle specifiche competenze dei comuni è ben possibile dare concreti e visibili segnali di un diverso modo di selezionare le domande sociali, di determinare priorità corrispondenti agli interessi e ai bisogni che sono state rese visibili dal voto.

Due sono le dimensioni da prendere in considerazione. Riferimenti come quelli alla trasparenza, alla partecipazione, alla legalità dell’agire pubblico hanno trovato un denominatore comune nel rifiuto di ogni logica oligarchica, che non è solo un retaggio del passato, ma il tratto caratteristico del modo in cui si sono venuti organizzando i partiti. Qui si coglie la spinta a ripensare le forme del rapporto tra i cittadini e la politica, anzi la stessa cultura politica.

Non è una esigenza astratta. Le oligarchie producono un duplice effetto di esclusione — delle persone legittimate ad aver voce effettiva nella politica e delle domande sociali da prendere in considerazione.

Le riforme del governo Renzi sono profondamente segnate da questo duplice limite, del quale le persone hanno potuto direttamente misurare il peso considerando la subordinazione dei loro diritti sociali al primato attribuito al calcolo economico. Di questo, di un nuovo protagonismo delle persone e dei loro diritti hanno cominciato a rendersi conto diversi tra i commentatori dei risultati elettorali, con riferimenti e parole che, come eguaglianza e solidarietà, rinviano a una diversa idea di società.

Anzi, mostrano come la certificata morte della distinzione tra destra e sinistra abbia avuto come esito politico una ideologizzazione ben orientata, che ha attribuito alla logica di mercato le sembianze di un invincibile diritto naturale. Sottolineare questo dato di realtà non significa invocare uno sguardo rivolto al passato, il recupero di vecchie categorie. Pone la ben diversa questione di costruire il futuro secondo principi e diritti nei quali ci si possa comunemente riconoscere.

Poiché un altro dei luoghi comuni che hanno afflitto, e ancora affliggono, la discussione italiana, è rappresentato da una contrapposizione schematica tra conservatori e innovatori, bisogna pur ricordare che non basta proporre un qualsiasi cambiamento per essere automaticamente ascritti alla benemerita categoria degli innovatori. È indispensabile individuare i criteri necessari per valutare la compatibilità del cambiamento con libertà e democrazia. Non vi è dubbio che, altrimenti, dovremmo attribuire a Donald Trump la medaglia dell’innovatore.

I risultati elettorali dovrebbero spingere a una riflessione in questa direzione, non solo per ricondurre alla rilevanza dei criteri costituzionali le politiche di riforma di nuovo promesse, ma per valutarne l’effettivo carattere innovativo. Proprio considerando i valori di riferimento, ben può dirsi che in Italia (e non solo) si sia venuto costituendo un blocco sociale fondato sul primato di interessi e ceti che concretamente revocano indubbio la rilevanza primaria di eguaglianza e solidarietà.

Una politica così fatta assume le sembianze della restaurazione, e non può essere definita che conservatrice. A questa conclusione, consapevoli o no, giungono molti commentatori di questi giorni che insistono sui guasti drammatici della diseguaglianza, senza dire una parola sul fatto che questa diseguaglianza non nasce da dinamiche incontrollabili, ma è l’effetto di politiche deliberate, perseguite con determinazione pari all’arroganza.

Poiché, tuttavia, il perno di una rinnovata stagione di riforme è, per quasi quotidiana insistenza del Presidente del Consiglio, quella legata alla riforma costituzionale, anche questa deve essere valutata considerando i criteri che i risultati elettorali suggeriscono.

La confusione è massima, perché la debolezza culturale del ristrettissimo ceto di governo ha messo spietatamente in luce l’uso strumentale delle istituzioni. Dopo aver personalizzato al massimo la campagna referendaria, ora Matteo Renzi sembra incline a seguire altre strade, non perché si sia reso conto degli effetti distorsivi della trasformazione di un referendum in plebiscito (altro palese segnale conservatore), ma per una convenienza elettorale che non può distogliere da una valutazione nel merito della riforma e della sua innegabile connessione con la legge elettorale.

Proprio l’invocata discussione sul merito si sta rivelando impietosa. Ricordo, da ultimo, l’analisi di Ugo De Siervo, che non mostra soltanto con chiarezza come la sbandierata semplificazione del procedimento legislativo sia contraddetta dalla farraginosità delle procedure previste, ma sottolinea anche l’alterazione di delicati equilibri e prerogative costituzionali.

Vengono pure rafforzati i meccanismi di esclusione, come accade con l’eccessivo accentramento delle competenze statali rispetto a quelle delle regioni, che evoca la riduzione della rappresentanza dei cittadini prevista dall’Italicum (ancora un tratto conservatore). Proprio l’analisi puntuale, di dettaglio, fa così emergere “gravi rischi di un complessivo peggioramento della nostra democrazia”.

Questo è il contesto nel quale si svolgeranno le discussioni dei prossimi mesi. I risultati elettorali lo hanno reso più chiaro, hanno individuato poteri e responsabilità delle diverse forze politiche, che devono esser ben consapevoli anche della necessità di non farsi incantare da un altro argomento che viene speso nella discussione pubblica, secondo il quale, poiché non si toccano formalmente articoli del prima parte delle Costituzione, i principi e diritti lì considerati non correrebbero rischi.

Non è così. Poiché la garanzia dei diritti è affidata alle leggi, nel momento in cui in cui queste vengono variamente manipolate, la soglia di quelle garanzie si abbassa. La discussione dei dettagli della riforma si fa giustamente impietosa, non può dar spazio a convenienze di breve periodo. Se si incrina il patto fondamentale tra i cittadini, la convivenza civile, la buona politica, il reciproco riconoscimento tra i cittadini diventano sempre più difficili.

«I governi di centro-sinistra dopo il voto si sono ridotti alla metà: 45, mentre prima erano 90. Il centro- destra ha mantenuto e anzi allargato un poco il numero delle città amministrate. Mentre il M5S è arrivato al ballottaggio in 20 Comuni e li ha conquistati praticamente tutti».

La Repubblica, 21 giugno 2016 (m.p.r.)

Queste elezioni amministrative segnano, indubbiamente, una svolta. Annunciata da qualche tempo, ma oggi evidente. E irreversibile. La riassumerei in questo modo: in Italia il voto non ha più una geografia. In altri termini: ha perduto le sue radici. E, quindi, i suoi legami con la storia, la società, le identità che gli garantivano senso e continuità. D’altronde, fino a pochi anni fa, la geografia elettorale in Italia riproduceva in larga misura il profilo emerso nel dopoguerra. Dove gli orientamenti di voto, in alcune zone, si riproponevano sempre uguali, nel corso del tempo. Nonostante il mutamento del clima politico e degli stessi partiti. Alcuni dei quali, scomparsi.

In fondo, nel 1994, Silvio Berlusconi aveva “fondato” Forza Italia sull’anti-comunismo. Recuperando le fratture sociali e territoriali del passato. Questa geografia era stata ridisegnata, profondamente, dall’irruzione del M5s, alle elezioni del 2013. Matteo Renzi ne aveva seguito le tracce, alle elezioni europee del 2014. Il suo Pd aveva sfondato il muro del 40%, affermandosi, a sua volta, in tutte - o quasi - le aree del Paese.
Così le Italie politiche si erano confuse. Zone rosse, bianche, verdi, azzurre: tutte scolorite. Ebbene, queste elezioni amplificano queste tendenze. Infatti, se osserviamo il risultato dei 143 Comuni maggiori, risulta chiara l’impossibilità di individuare una chiave di lettura. Se non l’inutilità delle chiavi di lettura che utilizziamo per analizzare e interpretare il voto. Oltre un terzo delle amministrazioni - cioè, circa 50 - ha, infatti, cambiato colore.
Nello specifico, i governi di centro-sinistra dopo il voto si sono ridotti alla metà: 45, mentre prima erano 90. Il centro- destra ha mantenuto e anzi allargato un poco il numero delle città amministrate. Mentre il M5s è arrivato al ballottaggio in 20 Comuni e li ha conquistati praticamente tutti. Cioè, 19. Tra questi, Roma e Torino sono quelli che fanno più notizia. Comprensibilmente. Però il M5s si è affermato in tutte le aree. In particolare nel Mezzogiorno. A Roma e a Torino, peraltro, le sue candidate hanno intercettato il voto dei giovani, dei professionisti, dei tecnici. Ma anche dei disoccupati. In altri termini: la domanda di futuro e la delusione del presente.
Colpisce, soprattutto, il cambiamento che ha coinvolto le regioni dell’Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Tradizionalmente le più stabili. Dove, però, oltre metà dei Comuni di centrosinistra hanno cambiato colore. Ciò conferma la non-chiave di lettura suggerita in precedenza. Sottolineata dal risultato del non-partito per definizione. Il M5s. Che fra il primo e il secondo turno ha allargato i suoi consensi da 650 mila a più di 1 milione e 100 mila voti. Cioè, di oltre il 70%. Un segno della sua capacità di intercettare elettori “diversi”. Che provengono da partiti e da aree “diverse”. Ma soprattutto da “destra”, quando si tratta di opporsi ai governi di centrosinistra. Com’è avvenuto, in modo appariscente, a Roma e Torino, dove, nei ballottaggi, le candidate del M5s hanno allargato in misura molto ampia i loro consensi elettorali.
Per questo penso che il significato di questo voto vada oltre i contesti locali. Riflette una tendenza consolidata, che Matteo Renzi ha contribuito a rafforzare. Non tanto perché abbia personalizzato il voto amministrativo, anche se in qualche misura ciò è avvenuto. Ma perché ha accentuato il distacco fra politica e territorio. Enfatizzando la personalizzazione e la mediatizzazione. Il Pd, trasformato in PdR. E la campagna elettorale condizionata dal dibattito sul referendum “costituzionale”. Pardon, “personale”. Su Renzi medesimo. Così i sindaci e le città hanno perduto significato, importanza. E le elezioni amministrative sono divenute un’arena dove si giocano altre partite, con altri protagonisti. Dove il M5s, più di altri soggetti politici, è in grado di affermarsi.
Nel passato, invece, il suo rendimento elettorale risultava molto superiore nelle scadenze nazionali, quando poteva riprodurre il disagio e la protesta. Mentre nelle elezioni amministrative non riusciva a ottenere risultati analoghi, in quanto non disponeva di figure credibili, come soggetti di governo. In ambito locale. Oggi, evidentemente, non è più così. Perché il M5s è presente, ormai da anni, sul territorio. E ha raccolto, intorno a sé, militanti e attivisti. Tuttavia, più degli altri attori politici, è in grado di canalizzare la “domanda di cambiamento”. Meglio ancora: i sentimenti e i risentimenti “in tempi di cambiamento”. Come quelli che stiamo attraversando.
Così questo voto rappresenta, al tempo stesso, una risposta e un segnale. Una risposta al disorientamento che ha investito molte zone del Paese. E, soprattutto, le aree urbane e metropolitane. In particolare: le periferie. Dove la “politica” ha perduto senso e radici. Ma anche un segnale, a modo suo, fragoroso, quanto il silenzio degli astenuti. Rammenta, infatti, che la “messa è finita”. Le fedeltà si sono perdute. Liquefatte. Come i partiti. Non per nulla ne ha beneficiato un non-partito liquido come il M5s. Così, ogni scadenza elettorale diviene - e diverrà - un passaggio senza destinazioni precise. Senza mappe e senza bussole che permettano ai cittadini e agli elettori di orientarsi. E agli analisti, come me, di interpretarne - e prevederne - i percorsi. Le ragioni. Le destinazioni.
«L’assassinio di Jo Cox e il dibattito violento sulla "Brexit" definiscono ancora una volta la questione immigrazione come questione centrale del nostro tempo».

Il manifesto, 20 giugno 2016 (m.p.r.)

L’assassinio di Jo Cox ci dà una rappresentazione plastica della radicalizzazione a cui sta andando incontro la lotta politica. Da un lato abbiamo un assassino razzista e neo-nazista, legato a una rete internazionale (altro che Britain first!) di primatisti bianchi. Dall’altro, ancor prima che una parlamentare laburista, una esponente, da sempre, del volontariato, impegnata nel sostegno alle politiche di accoglienza dei profughi e migranti e di apertura verso le comunità di immigrati. Respingere contro accogliere.

Delle possibili conseguenze della "Brexit", l’uscita del Regno unito dalla Unione europea, sono piene le pagine dei giornali e i notiziari televisivi: accentuerà la crisi economica? Provocherà un caos nel mondo finanziario? Ridurrà, e di quanto, i Pil? Penalizzerà, e in che misura, il mondo del lavoro, il precariato, i disoccupati? E dove? Solo nel Regno unito, se lascia, o anche nei paesi dell’Unione, se abbandonati? Sono tutte questioni della massima importanza; ma il voto del 23 giugno sulla brexit - leave or remain - non si svolgerà prioritariamente né in misura decisiva su questi temi ma su quello che l’assassinio di Jo Cox ha messo in evidenza: respingere o accogliere?

D’altronde è il tema su cui si sta avvitando e radicalizzando la lotta politica non solo in tutta Europa ma in tutti i paesi di forte immigrazione, volontaria o forzata, a partire dagli Stati Uniti.

È il tema su cui si è votato nelle recenti elezioni presidenziali in Austria, che hanno visto la polarizzazione dell’elettorato intorno a due schieramenti contrapposti, con la dissoluzione dei due partiti centristi che avevano governato il paese, insieme o alternandosi, negli ultimi settant’anni.

È il tema che sta mettendo in crisi le maggioranze di tutti i paesi dell’Unione, che vedono nell’esito del voto austriaco l’alternativa tra la loro scomparsa e il loro allineamento con le posizioni xenofobe più estreme, solo in parte mascherate da iniziative come l’accordo con Erdogan o la proposta del Migration compact che non hanno futuro, ma che contribuiscono non poco alla moltiplicazione delle sofferenze di milioni di profughi e all’imbarbarimento della convivenza nei propri paesi.

Quando già non si sono decisamente spostate verso il primo di quei poli - respingere - con tutte le conseguenze di ordine politico che questo comporta, come è successo in molti dei paesi membri dell’Europa orientale.

Se l’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione rischia di aprire la strada ai molti governi già tentati di farlo per conto loro – Danimarca, Olanda, Svezia e poi, chissà? – questo non è certo per le assurde politiche economiche adottate dall’Unione, di cui quei governi sono grandi sostenitori, ma perché ormai "uscire" è diventato l’equivalente di respingere.

Ma è un tema che non sta mettendo sottosopra solo il posizionamento e l’esistenza stessa di forze politiche consolidate; divide e mette in discussione anche le fedi religiose. E non solo l’Islam, tra integralisti radicalizzati e i cosiddetti "moderati", che altro non sono che coloro che vorrebbero praticare in santa pace il loro credo.

Ma anche, e in misura crescente, i cristiani: tra chi, come papa Francesco, ha messo il tema dell’accoglienza al centro di una pratica autentica della propria fede e chi nelle "radici cristiane" dell’Europa o dell’Occidente rivendica le ragioni del respingimento dei seguaci di altre religioni, quando non di un razzismo ormai scoperto, di cui non ci si deve più vergognare. Come mette in crisi le culture, scoprendo tanti sedicenti liberali apertamente schierati contro la libera circolazione delle persone tanto quanto sono favorevoli alla libera circolazione di merci e capitali; e tanti eredi di quello che fu l’internazionalismo proletario (che in verità non ha evitato, e spesso nemmeno sconfessato, un secolo di colonialismo e due guerre mondiali) impegnati a ripetere che «così son troppi» e che «così non si può andare avanti».

Ma il fatto è che la contrapposizione tra respingere e accogliere attraversa e divide verticalmente anche le classi sociali lungo linee che in nulla corrispondono alla visione tradizionale che per lo più se ne continua ad avere: operai e capitale, proletari e borghesi, basso e alto, 99 e 1 per cento.

Vuol forse dire, questo, che la lotta di classe è finita e bisogna attestarsi su altri fronti? Certo no. Ma vuol dire che le lotte sociali, anche le più radicali, come quelle che stanno attraversando la Francia, se non sapranno misurarsi con questo problema rischiano di portare acqua anche loro al fronte di chi punta a rifondare stati e governi su basi autoritarie, antidemocratiche, nazionaliste e razziste.

Dunque la partita decisiva è questa; bisognerebbe attrezzarsi in gran fretta se non per vincerla, perché un esito del genere appare al momento fuori portata, per lo meno per non farsene sopraffare. Tenendo conto soprattutto di due elementi:
1. Se respingere è così popolare perché è semplice dirlo e sembra facile farlo, in realtà tutte le soluzioni proposte sono impraticabili; ma ricade sui suoi fautori la responsabilità di decine e decine di migliaia morti, di violenze senza fine sui corpi e sulle vite di milioni di esseri umani, dell’istituzione di veri e propri campi di sterminio che avvicina di molto l’esito pratico di questa scelta all’ideologia che ha armato la mano dell’assassino di Jo Cox.
2. Accogliere non vuol dire solo aprire le porte a chi cerca la propria salvezza nei nostri paesi, offrire loro tetto e cibo, e poi costringerli per anni a un ozio forzato mantenuti dallo stato, per poi abbandonarli alla clandestinità: cioè quello che tanto fa arrabbiare, e giustamente, chi accanto a loro fatica giorno per giorno a sbarcare il lunario.

Accogliere vuol dire anche includere, inserire i nuovi arrivati in una rete di rapporti sociali che li metta in condizione di rendersi autonomi, di lavorare, di andare a scuola, di imparare, ma anche di trasmettere e divulgare la loro cultura; e di organizzarsi per contribuire a creare le condizioni di un ritorno – per chi lo desidera, e sono molti! – nel paese da cui sono dovuti fuggire.

Profughi e migranti possono essere una risorsa straordinaria sia per l’Europa che per i loro paesi di origine. Ma bisogna capirlo, saperlo spiegare, e poi cominciare a tradurlo in pratica: con dei progetti, anche minimi, che aprano la strada a una diversa visione del problema.

. Il Fatto quotidiano online, 19 giugno 2016 (c.m.c.)

Il referendum costituzionale si intreccia al giudizio della Corte costituzionale sulla legge elettorale. Il 4 ottobre è fissata la prima udienza alla Consulta. «La bocciatura della legge elettorale sarebbe un pessimo viatico per i sostenitori del Sì, ecco perché vogliono fissare il referendum prima del giudizio della Corte», spiega l’avvocato Felice Carlo Besostri, il regista della strategia giudiziaria contro l’Italicum. Ma nella maggior parte dei Tribunali i nostri ricorsi sono fermi, aggiunge Besostri, come se si volesse prima conoscere il risultato del referendum e il giudizio della Corte sul primo ricorso.

Il Tribunale di Trieste è in riserva dal 2 febbraio, Torino dal 21 marzo. Dovrebbero depositare le ordinanze in 30 giorni. «Se prosegue questa inerzia, solleveremo la questione facendo presentare interpellanze e interrogazioni in parlamento». Se salta la riforma costituzionale, tuttavia, «non sta in piedi nemmeno questa illegittima legge elettorale pensata solo per la Camera».

Avvocato Besostri, facciamo il punto della strategia di ricorsi contro l’Italicum.
I Tribunali che abbiamo interpellato sono quelli civili di Torino, Genova, Milano, Brescia, Venezia, Bologna, Firenze, Ancona, Perugia, Roma, L’Aquila, Bari, Lecce, Napoli, Potenza, Catanzaro, Messina. A breve Caltanissetta e Cagliari. L’obiettivo è quello di ottenere più ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale sui quattordici motivi di ricorso. Bisognava evitare che per avere un giudizio di costituzionalità si dovesse arrivare in Cassazione, magari dopo aver già votato con l’Italicum.

Come sta andando?
Le decisioni finora depositate sono state soltanto due. La prima decisione è stata del Tribunale di Messina che ha sollevato questione incidentale di costituzionalità su sei punti: la discussione in Corte Costituzionale è stata fissata per il 4 ottobre. La seconda del Tribunale di Ancona, che ha respinto il ricorso con una motivazione copiata, compreso un errore di data, 10 luglio invece del 1° luglio come data di applicazione della maggior parte delle norme dell’Italicum, da una sentenza del Tribunale di Milano, resa in un giudizio promosso da altri elettori non associati al nostro Coordinamento per la Democrazia.

L’ordinanza di rigetto è già stata impugnata. A Bari un giudice ha messo per iscritto quello che altri stanno facendo senza dirlo: ha rinviato tutto al 7 novembre per conoscere il risultato del referendum e le decisioni della Corte Costituzionale. I giudici che si sono riservati di emettere le ordinanze sono immobili. Il Tribunale di Trieste è in riserva dal 2 febbraio, Torino dal 21 marzo. Dovrebbero depositare in 30 giorni.

Chi avete di fronte nelle udienze?
A Roma l’Avvocatura Generale, negli altri tribunali le avvocature distrettuali in ogni distretto di Corte d’Appello. La difesa è al massimo livello, ma l’impresa è disperata: l’Italicum è come il Porcellum. O la Corte Costituzionale rinnega i principi della sentenza n. 1/2014 o la sua sorte è segnata. Al ballottaggio si accede senza una soglia in voti o seggi e il premio di maggioranza è sempre di 340 seggi che si abbia il 40% o si acceda al ballottaggio con il 25%: il premio è inversamente proporzionale al consenso elettorale e prescinde anche dalla percentuale dei votanti.

Sospetta una pressione per rallentare l’esito dei ricorsi in vista del referendum e del primo dibattimento alla Consulta?
Vediamo se continua l’inerzia. Se non succede nulla solleveremo la questione facendo presentare interpellanze o interrogazioni in parlamento.

Si legge che il governo intende fissare il referendum prima dell’udienza alla Consulta.
Il Governo ha tentato invano di far celebrare il referendum in giugno in coincidenza con le amministrative perché non vuole che gli elettori siano informati. L’abbiamo impedito con la raccolta delle firme che ci ha consentito tre mesi di tempo in più. Se si vota il 2 ottobre, la prima data utile, è per evitare un voto informato: due mesi, luglio e agosto, di vacanza, la prima settimana di settembre di rientro. Di fatto ventuno giorni scarsi per la campagna. Volere la votazione due giorni prima della decisione della Corte Costituzionale è un segno di debolezza.

D’altra parte la Presidenza del Consiglio è informata di ogni passo da noi fatto nella quindicina di Tribunali. Gli avvocati dello Stato, che sono ottimi professionisti, hanno informato il governo dei rischi. C’è un nostro motivo di ricorso che può far cadere l’intera legge: alla Camera è stata approvata con un voto di fiducia, cioè con un procedimento speciale vietato dall’art. 72 della Costituzione per le leggi in materia elettorale e costituzionale. Legge elettorale e deforma costituzionale sono strettamente legate. Non sarebbe un buon viatico per il Sì al referendum un pronunciamento negativo sulla legge elettorale.

Quali sono le possibili conseguenze del referendum?
Se vince il Sì il Senato non sarà più eletto dai cittadini direttamente, ma dai consigli regionali. A differenza di quanto molti pensano, il Senato non è stato abolito. E’ stata abolita la democrazia nell’elezione del Senato. Se vince il No il Senato sarebbe eletto con una legge elettorale non proporzionale, ma con soglie di accesso alte, cioè l’8% per le liste singole e il 20% per le coalizioni. Ma tutto dipende da cosa decide la Corte Costituzionale, se i giudici si svegliano. Se salta la deforma costituzionale tuttavia non sta in piedi nemmeno la legge elettorale pensata solo per la Camera dei Deputati.

Secondo lei il governo potrebbe mettere mano all’Italicum prima delle prossime elezioni politiche?
Dipende da come vanno i ballottaggi del 19. Se Renzi li perde tornerà il premio alle coalizioni.

Uno degli argomenti del Sì è la stabilità di governo. Se vincono i no – dicono – ci sarà il caos. Come risponde?
Un governo che non risolve la crisi economica e toglie il diritto di voto per il Senato è meglio che se ne vada. Il governo deve terrorizzare gli elettori perché non ha altri argomenti.
Siamo sopravvissuti a 63 primi ministri, sopravviveremo a 64.

«Ci dicono che tutto questo servirebbe a “modernizzare” il Paese e a governarlo. Ce lo siamo sentito dire già nell’era del decisionismo craxiano... poi ancora nel ventennio berlusconiano. Ma se alla governabilità è sacrificata la democrazia non è difficile immaginare cosa ci aspetta».

Micromega online, 19 giugno 2016 (c.m.c.)

Settanta anni fa l’Italia andava al referendum istituzionale per scegliere tra Monarchia o Repubblica, ed eleggere l’Assemblea Costituente.Si usciva dalla dittatura fascista che aveva trascinato il Paese nella guerra del terrorismo nazista.

La Resistenza era stata il riscatto da quella vergogna, e la svolta democratica arrivava in quel 2 giugno 1946, quando non più soggiogati nel “credere obbedire combattere”, gli italiani col loro voto facevano nascere la Repubblica e si impegnavano a costruirla nel patto sociale democratico.

Attraverso la Costituente, il Popolo sovrano si dava i principi e le regole attuative della Democrazia, che nella Costituzione ha la propria stella polare. Quella stella a cinque punte che è nello stemma della Repubblica italiana.

Il popolo sovrano l’aveva decretata con quel referendum del 1946, dove per la prima volta le donne non solo votavano, ma potevano anche essere elette in una consultazione nazionale: in ventuno entrarono nell’Assemblea Costituente.Lo Stato democratico era realtà istituzionale, e la Carta repubblicana ne poneva i principi e le garanzie nel nesso inscindibile di prima e seconda parte della Costituzione, per concretizzare libertà, giustizia, uguaglianza: per ciascuno e per tutti.

In questa prospettiva, guardando al futuro della tenuta democratica, i costituenti si sono preoccupati di fissare con precisione ruoli e compiti dei poteri dello Stato, onde evitare derive autoritarie. Nella Repubblica parlamentare, nessun potere poteva essere fuori dal controllo democratico, perché al servizio della democrazia costituzionale.

E contro manomissioni costituzionali, nella rigorosa separazione dei poteri dello Stato, si istituivano pesi e contrappesi per l’equilibrio democratico e organismi di garanzia costituzionale. Primo tra tutti la Corte Costituzionale.

Quel 2 giugno 1946 iniziò questo percorso di democrazia.

E non vogliamo che venga interrotto da abusi su quanto stabilisce l’art. 138 della Costituzione, che prevede la revisione costituzionale, ma non certo la sua manomissione allargando a dismisura il potere del Governo a scapito della rappresentatività. Proprio quanto si prospetta con le attuali modifiche della Carta, profilando un inquietante cambiamento di fatto della stessa forma istituzionale dello Stato.

Quella che «non è oggetto di revisione» come con grande lungimiranza stabilisce l’art. 139.Diversamente, infatti, non è più revisione costituzionale, ma colpo di Stato.Questo pericolo fu già sventato dagli italiani nel 2006, bocciando al referendum la “riforma Berlusconi”.

Allora però il trasformismo del più grande partito di sinistra non era arrivato, a forza di metabolizzazioni in cambi di nome, finanche a perdersi l’anima della Costituzione repubblicana cambiandone ben 47 articoli.

Quando Napolitano era per il No

È interessante ricordare che, chi oggi sembra essere testimonial eccellente di queste modifiche, da Senatore della 14ª Legislatura, nella seduta n. 898 del 15/11/2005, dichiarava: «Quel che anch'io giudico inaccettabile è, invece, il voler dilatare in modo abnorme i poteri del Primo Ministro, secondo uno schema che non trova l'eguale in altri modelli costituzionali europei e, più in generale, lo sfuggire ad ogni vincolo di pesi e contrappesi, di equilibri istituzionali, di limiti e di regole da condividere».

E continuava: «il contrasto che ha preso corpo in Parlamento da due anni a questa parte e che si proporrà agli elettori chiamati a pronunciarsi prossimamente nel referendum confermativo non è tra passato e futuro, tra conservazione e innovazione, come si vorrebbe far credere, ma tra due antitetiche versioni della riforma dell'ordinamento della Repubblica: la prima, dominata da una logica di estrema personalizzazione della politica e del potere e da un deteriore compromesso tra calcoli di parte, a prezzo di una disarticolazione del tessuto istituzionale; la seconda, rispondente ad un'idea di coerente ed efficace riassetto dei poteri e degli equilibri istituzionali nel rispetto di fondamentali principi e valori democratici».

È questione cogente ancora oggi quella che poneva allora saggiamente Giorgio Napolitano, perché non si arrivi alla notte della Repubblica parlamentare.

La Costituzione innanzitutto

Ecco allora che il popolo sovrano si deve riappropriare della sua piena sovranità, perché la Costituzione continui ad essere la stella polare sopra la testa di tutti e non ostaggio di una maggioranza di turno, che per altro cerca di blindarsi al potere con l’ultrapremiale legge elettorale, varata dopo che il porcellum è stato cassato dalla Corte costituzionale.

È il controverso Italicum, pure esso in odore di anticostituzionalità (Cfr: Libero Pensiero, n°75, marzo 2016). Ci dicono che tutto questo servirebbe a “modernizzare” il Paese e a governarlo. Ce lo siamo sentito dire già nell’era del decisionismo craxiano... poi ancora nel ventennio berlusconiano.

Ma se alla governabilità è sacrificata la democrazia non è difficile immaginare cosa ci aspetta.Di regresso in regresso, di defezione in defezione costituzionale, torneremo al monarca assoluto?

Micromega online, 17 giugno 2016 (c.m.c.)

Durante le ultime settimane, il dibattito pubblico sul lavoro è stato investito da due proposte provenienti dagli ambienti industriali e dal campo degli economisti liberal. Al Festival dell’economia di Trento, Andrea Ichino ha presentato uno studio – condotto con Tito Boeri e Enrico Moretti – sulle ricadute del sistema di contrattazione nazionale sull’aumento delle disuguaglianze. Solo pochi giorni dopo è toccato invece al presidente dei Giovani Industriali, Marco Gay, puntare il dito contro le disfunzioni del sistema redistributivo e previdenziale italiano, colpevoli a suo dire di frenare la crescita economica e i livelli occupazionali.

Le due proposte riflettono una visione comune nell’attribuire al sistema della contrattazione nazionale e ai meccanismi redistributivi e solidaristici che essa implica, un ostacolo al miglioramento dell’economia generale e la conseguente ricaduta (negativa) sui livelli di reddito dei lavoratori. Nello studio presentato da Ichino, l’indice viene puntato sull’inefficienza di un regime non abbastanza differenziato di salari nominali, che unendo il paese da Nord a Sud, svantaggerebbe proprio i lavoratori del Nord costretti a far fronte ad un costo della vita più alto, principalmente dovuto al più elevato costo delle abitazioni.

A giustificazione della necessità di introdurre una volta per tutte la cosiddette “gabbie salariali”, intese dagli autori della ricerca come strumento di riequilibrio delle disuguaglianze tra lavoratori (sic!), viene utilizzato – come da tradizione liberista- il mantra della produttività, funzione esclusivamente del lavoro e non anche del sistema produttivo nella sua interezza.

L’analisi suggerisce, inoltre, che il connubio tra la bassa produttività dell’economia meridionale e salari nominali troppo elevati siano causa dell’elevato tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno.

Tuttavia, i risultati empirici della ricerca citata si basano, oltre all’approccio teorico di riferimento, su un indicatore, diverso da quello comunemente usato dall’Istat e, creato dallo stesso Moretti, per correggere le variabili monetarie legate alle abitazioni rispetto al valore dei prezzi a livello locale. Una scelta si direbbe, e infatti gli autori omettono di presentare i risultati utilizzando il deflatore standard dell’Istat, negando quindi la possibilità di valutare se e in che misura la scelta del deflatore sia neutrale oppure determini i risultati ottenuti e la loro magnitudine.

Gli autori inoltre, assumono che nelle diverse regioni, gli abitanti spendono in media quote di reddito identiche per il consumo di beni e servizi pubblici. L’unica differenza è la qualità dei servizi e il costo degli stessi, caratteristiche entrambe inferiori al Sud. Una valutazione che confligge con la realtà, dal momento che al Sud i servizi non soltanto sono mediamente inferiori in termini di qualità, ma soprattutto quantitativamente. Basti pensare alla differenza nella copertura di asili nido tra la Calabria e l’Emilia Romagna, oppure nella copertura del trasporto pubblico tra la Sicilia e il Piemonte.

Gli autori sembrano ignorare innanzitutto i fattori di lungo periodo che spiegano i divari regionali e le debolezze del tessuto economico e produttivo del Sud Italia. Si esclude ogni riferimento alla storia industriale del Meridione, perseverando nell’idea che alle divergenze territoriali bisogna far fronte comprimendo il costo del lavoro e non invece stimolando, in modo antistorico lo sviluppo industriale e la domanda aggregata, cioè la crescita e di conseguenza la produttività.

Convinzioni di senso comune tra gli industriali italiani. Un esempio tra tutti, il Presidente di Federmeccanica, Massimo Franchi, che intervenendo a un convegno sul mercato del lavoro tenutosi a Pisa in aprile, alla parola produttività più volte ripetuta non ha mai affiancato il concetto di investimenti, né tanto meno una loro declinazione concreta relativa ai settori e ambiti di potenziale intervento.

Ignorare un fatto macroscopico come la presenza strutturale del lavoro nero, funzionale alla stabilizzazione degli assetti economici e politici del Meridione, rischia di ribaltare il rapporto tra causa ed effetti, perdendo di vista il ruolo che l’economia sommersa continua a svolgere nel Sud Italia in termini di concorrenza sul costo del lavoro e sull’andamento della produttività.

Storicamente, il lavoro nero è stato creato e mantenuto da un lato per conservare un preciso assetto di potere e come fattore per comprimere i salari dell’economia formale e, dall’altro, per ridurre lo stimolo, anche per questa via, ad investire, aumentando la produttività. Quindi è il lavoro nero a fermare la produttività e i salari (ad esempio attraverso la non applicazione dei minimi contrattuali e all’assenza di una contrattazione territoriale).

Il quadro analitico proposto nasconde evidentemente un obiettivo preciso che riguarda l’attacco all’impianto della contrattazione nazionale, a favore di un regime flessibile che assegna al rapporto diretto tra aziende e lavoratori le decisioni principali sull’organizzazione del lavoro, sugli standard salariali e normativi. Si tratta di un tentativo di suggerire al governo un’ulteriore accelerazione sul piano delle riforme strutturali, svuotando l’istituto della rappresentanza democratica del lavoro, attraverso la cancellazione dell’ultimo presidio a tutela degli interessi della parte debole.

Davanti all’aumento della caduta dei redditi di lavoro della fascia più debole, in buona parte dovute ai processi di flessibilizzazione del mercato del lavoro (e l’uso distorto del part-time), la risposta dei nuovi pasdaran liberisti è la rottura del contratto sociale e l’approdo ad una società au delà du contrat, parafrasando Robert Castel. Una frattura che investe quindi l’insieme dell’ordinamento democratico, ridefinendo la cornice costituzionale del lavoro in un terreno del tutto nuovo, in cui si considera il rapporto di forza tra impresa e lavoratori non più sbilanciato, ma sostanzialmente paritario.

Una prospettiva che trova nelle parole del presidente dei Giovani Industriali un’ulteriore conferma, quando allude ad una riforma del sistema fiscale. “Via il fisco che tassa i dipendenti anche quando non si fanno profitti”, il monito del giovane presidente degli Industriali – prefigura un impianto del fisco teso a garantire prioritariamente alle imprese il perseguimento di margini di profitto, non riconoscendogli nessuna funzione sociale.

Ne è un esempio l’utilizzo sfrenato degli incentivi all’assunzione a “tempo indeterminato” a cui non è corrisposto un valido impegno nella creazione di nuovi posti di lavoro da parte delle imprese. L’idea di una spesa pubblica funzionale alle imprese piuttosto che alla questione sociale, drammaticamente peggiorata nell’ultimo decennio, pare essere un tema condiviso tra Confindustria e il governo.

Basti pensare alla proposta sulla flessibilità in uscita per le pensioni tratteggiata dal governo che non mette in discussione la riforma Fornero e in cui, da un lato, viene escluso l’intervento delle finanze pubbliche e, dall’altro, il diritto a una pensione anticipata viene subordinato all’istituzione di un mutuo che prevedere il pagamento di interessi agli istituti di credito (privati). Non a caso, per gli sgravi sul costo del lavoro si invocava la necessità di puntare sulla flessibilità rispetto ai vincoli europei, mentre nel caso delle pensioni, il Sottosegretario Nannicini richiama l’esigenza di rispettare i vincoli di bilancio.

Viene svuotato di fatto il principio della solidarietà fiscale, che aveva costruito la base dello stato sociale, rovesciando la funzione del fisco da garante dell’esercizio dei diritti costituzionali (salute, istruzione, accesso ai beni pubblici) a guardiano degli interessi dell’impresa. La richiesta di rovesciare i meccanismi redistributivi a vantaggio degli interessi forti è un suggerimento al governo a continuare quella politica di riforme, a quanto pare solo abbozzata con il Jobs Act e la proposta di riforma della Costituzione.

La prospettiva assume quindi i tratti di un tentativo di ridefinire un nuovo impianto costituzionale, che prevede la “messa a valore” del pubblico e lo spostamento dell’esercizio della sfera di giurisdizione dallo stato al mercato, il solo che competerà nella definizione dei diritti stessi dei cittadini.

«Qualche sera fa in una trasmissione televisiva è stato intervistato un uomo che vive in quei luoghi [Rosarno]. Gli veniva chiesto che cosa pensasse della sua situazione. Con tono pacato e in un impeccabile italiano ha detto soltanto: "Ho perduto la speranza". No, questa non può essere la società nella quale accettiamo di vivere». La Repubblica, 17 giugno 2016

LA società esiste”. Queste tre semplici parole colgono le forti dinamiche sociali rivelate dal recentissimo voto amministrativo, e così rovesciano la fin troppo nota affermazione di Margaret Thatcher — «la società non esiste, esistono solo gli individui» — che tanto ha pesato in questi anni, influenzando pure la recente politica italiana. L’esigenza di guardare alla società è sottolineata da tutti quelli che hanno dato la giusta rilevanza al modo in cui si è distribuito il voto tra i quartieri centrali delle città e i quartieri periferici. Ma il voto ha pure messo in evidenza l’irrilevanza sociale di movimenti e gruppi assai influenti invece nella dimensione politico-parlamentare. E sono emerse le condizioni materiali del vivere, che rinviano all’impossibilità di separarsi dai diritti sociali.

Come queste diverse dimensioni possano comporsi e intrecciarsi non è questione facile, che tuttavia non può essere affrontata con le categorie abituali. Se si considera proprio il rapporto centro/ periferie, non ci si può semplicisticamente rifugiare nello schema borghesia/classe operaia, la cui inadeguatezza è rivelata, ad esempio, dalle analisi sui votanti per il Movimento 5Stelle — prevalentemente giovani, con notevole scolarizzazione, professionalmente caratterizzati. Si potrebbe essere tentati di concludere che siamo di fronte ad una nuova incarnazione di quello che Paul Ginsborg, considerando l’opposizione al berlusconismo nel primo decennio di questo secolo, definì “ceto medio riflessivo”. Ma rispetto a quelle esperienze, peraltro difficilmente riconducibili tutte al medesimo denominatore, finora sembrano mancare la consapevolezza di agire come unico gruppo sociale, l’esercizio comune e organizzato di virtù civiche pubblicamente contrapposte al malgoverno.

Oggi l’elemento unificante è rappresentato dal riconoscersi in un soggetto politico già esistente, appunto il Movimento 5Stelle. Su questo dato di realtà bisogna ragionare, liberandosi di un altro schema, l’antipolitica, divenuto ormai una semplificazione che esenta dall’obbligo di misurarsi con una realtà in movimento. È di un’altra politica che si va alla ricerca, seguendo motivazioni diversificate, a partire da un bisogno di rappresentanza, non più soddisfatto dai partiti esistenti, di cui si coglie piuttosto l’ormai consolidata deriva oligarchica, divenuta così forte e sfrontata da respingere sullo sfondo il fatto che questo sia un modo d’essere che riguarda lo stesso Movimento 5Stelle.

Sono i paradossi di una situazione che ha visto proprio il disconnettersi tra politica e società, con una ossessiva ricerca del bene assoluto della decisione che travolge ogni altra esigenza e porta verso una concentrazione oligarchica del potere. Così stando le cose, ogni rifiuto dell’oligarchia diviene un segno importante per la permanenza della logica democratica. Si è giustamente detto che la democrazia rischia di ridursi da “due a uno”, identificata con chi detiene il potere di governo in un momento determinato, sì che l’alternativa viene poi presentata come impossibile o addirittura come pericolosa. Il voto del 5 giugno deve essere considerato anche da questo punto di vista, dunque come una indicazione per un recupero della pienezza della democrazia.

L’esistenza della società si fa ancora più evidente se il voto delle periferie, ma non di queste soltanto, viene considerato anche come l’espressione di un disagio sociale sempre più diffuso, che ha la sua origine in un impoverimento non soltanto economico, ma derivante da una riduzione dei diritti. Commentando proprio i risultati elettorali, Piero Ignazi ha giustamente richiamato l’attenzione su una strategia che restringe l’attenzione per i diritti a quelli “libertari” e ignora quelli sociali. Strategia non nuova, nella quale si coglie una illusione “compensativa” di cui le vicende storiche hanno mostrato l’infondatezza e che contrasta con l’ormai riconosciuta indivisibilità dei diritti. Quando ci si domanda se sia ricominciata una stagione dei diritti, com’è avvenuto dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, non si possono dare risposte che prescindano da uno sguardo d’insieme, dunque da una considerazione primaria anche dai diritti sociali.

Lavoro, salute, istruzione, abitazione e trasporti ci portano nel cuore della vita quotidiana, dove il rapporto tra i cittadini e le istituzioni viene percepito nella sua materialità. Qui il ritorno ad una contrapposizione tra società e individui può produrre politiche che portano ad una distribuzione delle risorse non solo a pioggia (o, come ora si dice, lanciate da un elicottero), ma che poi si traduce nell’abbandono di razionali strategie politiche e si affida ad un individualistico “fai-da-te” affidato a bonus, contributi, benefici occasionali. Ma così non si recupera la fiducia dei cittadini, ma si istituzionalizza una loro condizione di dipendenza, con inevitabili conflitti tra gruppi per la spartizione di risorse scarse, In questo senso il voto dei cittadini continuerà ad interrogarci, perché ciò di cui parliamo si chiama eguaglianza, dignità, solidarietà. L’Europa distoglie il suo sguardo, e Andrea Bonanni ha ben raccontato le ragioni di una rinuncia a politiche costituzionali dei diritti nella quale il populismo ha trovato e continua a trovare il suo alimento.

Ma proprio la riflessione critica imposta dai risultati elettorali offre all’Italia una opportunità per guardare finalmente alla società per quella che è, riconoscendo che viene continuamente messo in discussione “il diritto all’esistenza”, che trova un suo esplicito riconoscimento nell’articolo 36 della Costituzione, dove il diritto alla retribuzione è direttamente collegato all’”esistenza libera e dignitosa” del lavoratore e della sua famiglia. Proprio partendo da questa premessa, da tempo si discute dell’introduzione di un reddito garantito, definito da molti appunto come reddito “di dignità”. Una misura, questa, che in Italia ancora non esiste e che, lo ha sottolineato Chiara Saraceno, “potrebbe essere uno degli strumenti per non essere ricattati”, dunque per attribuire alle persone una garanzia indispensabile per il rispetto dei loro diritti fondamentali. Questo tipo di reddito può assumere forme diverse, ben analizzate in un libro dedicato a Il reddito di base da Elena Granaglia e Magda Bolzoni, e rappresenterebbe un essenziale elemento per la ricostruzione delle basi materiali della dignità. Se si vuole continuare a pronunciare quella parola senza farla divenire complice di un permanente imbroglio retorico, bisogna ricostruire le condizioni della sua effettiva rilevanza, della sua materialità, del suo essere componente essenziale di quello che deve essere definito il “costituzionalismo dei bisogni”.
Ma non posiamo fermarci qui. La società italiana, ce lo ricordano periodicamente le vicende delle campagne di Rosarno, conosce ormai una vera e propria schiavitù. Nessun dato elettorale ci parla di queste persone. Ma questo ci autorizza ad ignorarle, a concludere d’avere la coscienza tranquilla perché è stata approvata una legge sul caporalato? Gli schiavi ci sono, mangiamo i pomodori che raccolgono, ma sembra che vi sia ormai un tacito consenso sul fatto che in Italia possano vivere persone per le quali la disattenzione istituzionale e civile esclude la dignità. Abbiamo alzato la voce contro la diffusione del Mein Kampf di Hitler, dunque di un testo che ha posto le premesse perché agli ebrei fosse negata la dignità e quindi la vita. Di fronte agli schiavi, privati di dignità e diritti, rimaniamo silenziosi. E non possiamo dire di non sapere.
L'ultimo libro di Paolo Leon

«Viviamo in un mondo in cui i pochissimi che pensano non comandano. Ora ce ne è uno di meno, e a quanti comandano ciò non dispiacerà troppo». Il manifesto, 16 giugno 2016

Avevo conosciuto Paolo Leon ai tempi della nostra libera docenza, tempi accademicamente migliori di quelli presenti, e ne avevo poi sempre letto gli scritti con stima e simpatia per la sua padronanza dei Classici: Smith Ricardo Marx Keynes, per la sua sprezzatura nei confronti della teoria economica oggi dominante, per la sua conoscenza dei fatti e del contesto istituzionale, e per la sua passione politica.

Il 31 maggio di quest’anno mi aveva annunciato l’invio di un suo libretto, ma l’11 giugno se ne è andato.

Il libretto è: Paolo Leon, i poteri ignoranti, Castelvecchi 2016, e queste ne sono le conclusioni: «Le ragioni economiche per le quali gli Stati e la politica non intervengono direttamemente per aumentare la domanda effettiva dopo il crollo, la depressione e la deflazione, sono certamente di origine sociale e politica. Il meglio che si possa dire è che gli Stati non sono stupidi, ma sono ormai un potere ignorante che agisce sulla base della cultura di chi li governa, e questa è ormai resa ottusa dall’ideologia del libero mercato, che sostiene come qualsiasi intervento pubblico genera più costi che benefici – e questa convinzione accomuna gli imprenditori ai capitalisti, i sostenitori della “terza via” come i partiti conservatori e libertari. Allo stesso tempo, questa ideologia resiste agli urti della crisi, quando i costi superano largamente i benefici, perché la crescente concentrazione della ricchezza per i capitalisti e dei compensi per gli imprenditori giustifica continuamente il diritto dei pochi – e perciò il dovere alla povertà degli altri».

Viviamo in un mondo in cui i pochissimi che pensano non comandano. Ora ce ne è uno di meno, e a quanti comandano ciò non dispiacerà troppo.


Si sono concluse da poco le elezioni comunali del 5 giugno 2016. Su un blog della provincia di Cuneo, leggo quanto segue: Chiuse le urne delle elezioni comunali 2016: in Granda ha votato il 67,51%. Al top Crissolo 82,85%, maglia nera per Pezzolo Valle Uzzone (55,60%).

La notizia non mi lascia indifferente. Pezzolo Valle Uzzone è un Comune dell’Alta Langa assai esteso (più di 26 kmq), con moltissime frazioni e poco più di trecento abitanti. Si tratta di quei piccoli Comuni che molti politici, che stanno altrove, a Roma o comunque in aree urbane centrali, vorrebbero chiudere, prendendo oltretutto a riferimento soltanto il numero degli abitanti, e non anche l’estensione territoriale. E che invece, visti da questi territori interni dell’”osso appenninico”, marginali rispetto ai principali indicatori di accessibilità, rappresenta un presidio fondamentale per la vita della comunità che vi abita e ne mantiene vivo il paesaggio. In questa tornata elettorale, peraltro, i non molti giovani presenti e disponibili si erano presentati in un’unica lista, valutando un po’ ridicolo dividersi.

Come possibile che in un territorio così gli abitanti abbiano corso il rischio di avere una tornata elettorale nulla, e di veder nominato un commissario al posto del Sindaco? Davvero chi vive in questo territorio ha scelto di non recarsi alle urne? Anche negli altri piccoli Comuni contermini, le percentuali alle ultime elezioni sono state appena superiori, sfiorando quindi il rischio di non raggiungere il quorum.

In realtà a Pezzolo ha votato non il 55,6%, bensì l’85,7% degli aventi diritto residenti nel comune. A cosa è dovuta la differenza fra queste due cifre? Ai 144 aventi diritto al voto residenti all’estero (prevalentemente in America Latina), che per una norma bizzarra, a differenza di quanto avviene nelle elezioni politiche, nelle elezioni amministrative non possono votare per corrispondenza, ma soltanto recandosi di persona alle urne. Nessuno ovviamente l’ha fatto.

Man mano che approfondisco la questione, la bizzarria delle norme italiane in proposito si rivela ben più profonda, e conseguente all’organizzazione (partitica?) degli interessi elettorali relativi al voto degli italiani residenti all’estero. Certo, questo diritto esiste anche in altri paesi. Ma non certo regolato come in Italia.

In Italia la materia è gestita dall’AIRE (associazione italiani residenti all’estero). Sulla pagina del Ministero dell’Interno dedicata a questa Associazione si può leggere che

«Possono iscriversi all’AIRE non soltanto i cittadini italiani che espatriano per un periodo superiore all’anno, ma anche I cittadini italiani nati e residenti fuori dal territorio nazionale, il cui atto di nascita sia trascritto in Italia e la cui cittadinanza italiana sia accertata dal competente ufficio consolare di residenza.

«Iscriversi all'AIRE è un obbligo prescritto dalla legge istitutiva dell'AIRE. Il rispetto di tale obbligo è un dovere civico che comporta la possibilità di esercitare con regolarità il diritto di voto e di ottenere certificati dal comune di iscrizione e dal consolato di residenza».

Strana concezione del “dovere civico”: nessun obbligo di contribuire alla vita del paese e della comunità di riferimento, ma possibilità di eleggere le rappresentanze che decideranno come regolamentare i nostri diritti e doveri di abitanti.

Tutti gli iscritti all’AIRE possono ottenere lo status di aventi diritto al voto, anche se non hanno mai messo piede in Italia e mai lo metteranno, e se non contribuiscono in alcun modo a far funzionare il nostro paese. Non soltanto alle elezioni politiche, ma anche alle elezioni amministrative, incluse quelle comunali.

Sulle pagine web del Ministero dell’Interno dedicato alle elezioni comunali del 5 giugno 2016 si legge infatti che:

«Gli italiani residenti all’estero possono votare alle elezioni amministrative venendo in Italia a votare presso il comune di iscrizione nelle liste elettorali. A tal fine i comuni inviano ai nostri connazionali all’estero le cartoline-avviso con l’indicazione della data della votazione. Per le elezioni amministrative non è, infatti, previsto il voto per corrispondenza all’estero».

Anche nelle elezioni comunali possono dunque votare tutti i cittadini iscritti nelle liste elettorali del Comune stesso, indipendentemente dal fatto di risiedervi o meno, pagarvi le tasse ecc. Questa bizzarra (per non dir di peggio) disposizione produce una serie di effetti collaterali, in particolare nei piccoli Comuni in aree marginali, dove l’emigrazione nel passato è stata assai forte.

Nelle elezioni dei Comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti, nel caso di un solo candidato a Sindaco e di una sola lista (situazione assai frequente nei Comuni con meno di 1000 abitanti), devono essere infatti soddisfatte due condizioni: la lista deve aver riportato voti validi superiori al 50% dei votanti, e deve aver votato almeno il 50% degli aventi diritto. Se queste due condizioni non vengono soddisfatte l’elezione è nulla. Sulla carta sembrano condizioni ragionevoli. Sembrano: in realtà la possibilità, per chi risiede all’estero anche da tre generazioni, di essere iscritto alle liste elettorali del Comune nel quale era nato un suo avo, può far sballare tutti i conti. Ragion per cui nel Comune di Pezzolo Valle Uzzone, ad esempio, gli elettori sono assai superiori ai residenti: 410 elettori, contro 345 residenti (non tutti elettori, ovviamente, per ragioni anagrafiche o di cittadinanza: gli aventi diritto al voto residenti sono solo 266).

La questione del diritto di voto agli italiani residenti all’estero che non pagano le tasse nel nostro paese, e in gran parte dei casi non contribuiscono nemmeno al pagamento dei tributi locali non possedendovi beni immobili, è abbastanza inquietante in generale, con riferimento sia alle elezioni amministrative che a quelle politiche, circa la natura pasticciata delle nostre istituzioni.

Da un lato infatti i loro voti determinano chi ci governa, e quindi quali saranno le politiche fiscali, previdenziali, del lavoro, del territorio, dell’ambiente del nostro paese, politiche che riguardano innanzitutto chi vive e lavora in Italia. Perché una persona che aveva il bisnonno o trisnonno italiano, ma che ha sempre vissuto e pagato le tasse all’estero, dovrebbe poter con il proprio voto contribuire a determinare queste scelte?

Dall’altro esiste un’incongruenza interna alle stesse norme che consentono il diritto di voto agli iscritti alle liste dell’AIRE. Per le elezioni politiche e per le consultazioni referendarie, infatti, è richiesto l’esercizio di una specifica opzione di voto e consentito il voto per corrispondenza (quei voti serviti, ad esempio, a eleggere Razzi: qualcuno ce l’ha presente?).

Per le elezioni comunali no. Tutti gli iscritti all’AIRE riconosciuti come elettori di diritto contribuiscono quindi a determinare il quorum, ma possono votare soltanto recandosi di persona al seggio. Pur essendoci la possibilità di ottenere il rimborso (dallo Stato italiano, ovvero da tutti noi che vi paghiamo le tasse) del 75% del costo del biglietto di viaggio (anche di un aereo proveniente dall’altro capo del mondo), praticamente nessuno (fortunatamente per le casse già malandate del nostro Stato) esercita questo diritto.

Ultimo particolare: ma chi decide quali iscritti all’AIRE vengono riconosciuti come elettori? I Comuni. Che a lor volta subiscono non poche pressioni in tal senso. Il Comune in questione, Pezzolo Valle Uzzone, ha diverse decine di ulteriori richieste di riconoscimento pendenti. Se le approvasse tutte, alle prossime elezioni non riuscirebbe a raggiungere il quorum nemmeno facendo votare i defunti recenti.

Qualcuno ci spiega chi ha legittimato queste norme geniali? La firma è quella del governo Berlusconi, ma le responsabilità sono anche quelle dei servizi legislativi di Camera e Senato, e del Presidente della Repubblica che le ha promulgate. E perché nessuno si pone comunque il problema di modificarle?

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