«È sempre più evidente che la lunga, e per molti versi violenta, campagna elettorale, ha già determinato profonde divisioni proprio sul terreno costituzionale, dove la logica dovrebbe essere piuttosto quella del reciproco riconoscimento di principi comuni». La
Repubblica, 8 ottobre 2016 (c.m.c.)
Guardando alle discussioni sul referendum costituzionale, sembra ogni giorno più difficile segnare un confine tra politica e antipolitica, stabilire dove finisce l’una e comincia l’altra. Un manifesto come quello che chiede ai cittadini “Vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un Sì”, incorpora clamorosamente l’antipolitica, le attribuisce una legittimazione che finora le era mancata. Ma quali rischi accompagnano questa legittimazione in un periodo in cui è forte la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, grande il loro bisogno di partecipazione, sempre più intensa la ricerca di modalità di rappresentanza diretta?
È sempre più evidente che la lunga, e per molti versi violenta, campagna elettorale, tutt’altro che conclusa, ha già determinato profonde divisioni proprio sul terreno costituzionale, dove la logica dovrebbe essere piuttosto quella del reciproco riconoscimento di principi comuni. E gli interventi continui, e assai spesso aggressivi, del presidente del Consiglio certo non contribuiscono a crearne le condizioni.
Il rischio è che, quale che sia l’esito del referendum, una parte significativa dei cittadini possa non riconoscersi nel risultato del voto. Bisogna ricordare che ai tempi dell’Assemblea costituente la preoccupazione era stata proprio quella di non dividersi, tanto che fu possibile un accordo sui temi fondamentali malgrado la guerra fredda e l’estromissione dal governo di comunisti e socialisti.
Il legame stretto tra la legge elettorale, l’Italicum, e la riforma costituzionale aveva suscitato legittime preoccupazioni per le forme di concentrazione di potere che avrebbe determinato, cambiando in maniera significativa gli stessi equilibri istituzionali. Le modifiche all’Italicum, più ventilate che tradotte in impegni effettivamente vincolanti e alle quali si era riferita la minoranza del Pd, condizionando ad esse il suo consenso, non potrebbero comunque avere l’effetto di rendere accettabile la riforma.
È persino imbarazzante, per la pochezza dei contenuti e del linguaggio, leggere il testo al quale è stato consegnato il compito impegnativo di riscrivere ben quarantatré articoli della Costituzione. L’intenzione dichiarata è quella di semplificare le dinamiche costituzionali, in particolare il procedimento legislativo. Ma per liberarsi dal tanto deprecato bicameralismo paritario si è approdati invece a un bicameralismo che generosamente potrebbe esser detto pasticciato.
Neppure gli studiosi più esperti sono riusciti a dare una lettura univoca del numero delle nuove e diverse procedure di approvazione delle leggi. Ma l’attenzione critica si è giustamente rivolta anche alla composizione del nuovo Senato, che sembra essere stata concepita per renderne quanto mai arduo, e per certi versi impossibile, il funzionamento.
Il compito affidato ai nuovi senatori, infatti, è assai difficile da conciliare con il loro primario compito istituzionale. Si tratta, infatti, di consiglieri regionali e sindaci. E proprio il ruolo assunto in particolare dai sindaci nell’ultimo periodo, divenuti determinanti per il rapporto tra cittadini e istituzioni, rende inaccettabile o concretamente impossibile una loro presenza attiva e informata come senatori.
Non potendo svolgere una vera e incisiva funzione istituzionale, i nuovi senatori frequenteranno Palazzo Madama come una sorta di dopolavoro?
«Il rapporto 2015: in 107mila via dall’Italia».
Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2016 (p.d.)
Il grave problema dell’Italia, oggi, è l’incapacità di evitare il depauperamento dei giovani e dei più preparati a favore di altri Paesi”: il succo del rapporto Migrantes Italiani nel Mondo, presentato ieri a Roma, è nell'introduzione dello studio. Gli espatriati aumentano, sono stati 107mila nel 2015, e vanno via soprattutto gli under 35 più preparati, insieme a una buona fetta d’età compresa tra 35 e 49 anni. Forza lavoro qualificata, che emigra soprattutto perché in Italia i salari sono più bassi.
A Milano, qualche giorno fa, in una brochure per gli investitori esteri (con logo del ministero dello Sviluppo economico) si leggeva che “un ingegnere in Italia guadagna mediamente in un anno 38.500 euro, mentre in altri Paesi ha una retribuzione media di 48.500” e che più in generale “i costi del lavoro in Italia sono al di sotto dei competitor”. E ancora, che “la crescita del costo del lavoro nel 2012-14 è stata la più bassa dell’Eurozona”.
I dati. I numeri della Fondazione Migrantes vengono soprattutto dall’anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire): in un anno, hanno lasciato l’Italia 39.410 giovani tra i 18 e i 34 anni – 6.232 in più rispetto al 2014 – pari al 37 per cento circa del totale. Non vanno via dall’Europa (gli spostamenti intercontinentali sono costanti e, in alcuni casi, in lieve diminuzione) ma migrano soprattutto verso la Germania (16.568), il Regno Unito (16.503) e la Svizzera (11.441). Restano in Europa. E se chi ha meno di 35 anni si sposta a seconda delle opportunità, la fascia 35-49 anni (il 25,8% del totale) lo fa con un progetto di vita. Aumenta, poi, l’emigrazione dal Nord Italia. “Pur restando indiscutibilmente primaria l’origine meridionale dei flussi – si legge – si sta progressivamente assistendo a un abbassamento dei valori percentuali del Sud a favore di quelli del Nord”. Lombardia e Veneto prima di tutto. Totale: a gennaio, gli italiani residenti all’estero erano più di 4,8 milioni, il 3,7%in più rispetto al 2014, +54,9% rispetto al 2006. Peggio dell’Italia fa solo la Spagna, dove in dieci anni l’incremento è stato del 155,2%.
La globalizzazione non è una spiegazione sufficiente. “Oggi il fenomeno degli italiani migranti ha caratteristiche e motivazioni diverse rispetto al passato – ha detto ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella –. Un segno di impoverimento piuttosto che
una libera scelta ispirata alla circolazione dei saperi e delle esperienze”.
“Sono dati che non stupiscono – spiega al Fatto Ugo Fratesi, docente di Economia regionale al Politecnico di Milano, studioso degli effetti delle migrazioni sui differenziali economici tra regioni – e che mostrano un cambiamento rispetto alle migrazioni del Dopoguerra e del periodo pre-crisi”. Il dato più evidente è che ci si sposta all’estero da tutte le regioni, non più solo dal sud. “Pur considerando che la Lombardia è la regione più popolosa d’Italia, è comunque significativa l’inversione del trend. Segnala che il ruolo di assorbimento che il nord Italia svolgeva prima della crisi economica è svanito”.
Chi va via è giovane e ha un titolo di studio medio-alto: la fuoriuscita di persone qualificate impoverisce il Paese di capitale umano, portando con sé anche l’investimento fatto su di loro dalla collettività (attraverso l’istruzione pubblica, ad esempio). Sempre più gente emigra, mentre il numero di chi rientra in Italia è rimasto lo stesso negli ultimi dieci anni. “Bisogna capire se queste persone emigrano per sempre o se rientreranno – dice Fratesi – Perché questa perdita di capitale umano potrebbe non danneggiarci del tutto in futuro, a patto che queste persone mantengano rapporti con l'Italia e che magari rientrino portandosi dietro esperienze e network di relazioni”.
In questo contesto, c’è chi ne trae beneficio, Germania su tutti. I programmi speciali del governo tedesco per la “Promozione della mobilità dei giovani stranieri interessati alla formazione professionale” – spesso pagati con fondi Ue – non sono un investimento a fondo perduto,ma una strategia precisa. Corsi teorico-pratici di almeno tre anni, l’insegnamento del tedesco, stipendi di 800 euro al mese nel periodo di formazione. Senza contare che gli ultimi dati demografici sulla Germania, confermati anche dall’Istituto tedesco di studi demografici, parlano di più di 64 milioni di morti previsti nel prossimo mezzo secolo e meno di 40 milioni di nascite. Berlino ha quindi un bisogno disperato di forza lavoro per evitare una crisi demografica.
“Per quanto riguarda i salari – spiega Fratesi – bisogna invece ragionare non tanto sul loro livello medio, quanto sul differenziale relativo a certi tipi di qualifiche”. In pratica, la ricercadi migliori opportunità in altri Paesi dà vantaggi economici soprattutto alle persone più qualificate e per le quali, come mostra la letteratura scientifica, è anche più facile inserirsi in contesti diversi. La moneta unica poi, non aiuta. “Un’area monetaria che non è ottimale – spiega Fratesi – cioè formata da economie che funzionano in modo diverso e hanno diversi livelli di inflazione, non rende possibile recuperare competitività con la normale svalutazione del cambio”. Quindi si svaluta il lavoro. “Non c’è una relazione diretta col fenomeno migratorio ma contribuisce a spiegare perché sono più bassi e non stanno crescendo”.
«Il 3 ottobre a Varsavia e in altre città polacche le donne vestite di nero hanno marciato contro il divieto d’aborto. Respinto il ddl dei teo-con. Governo intimorito dalle manifestazioni oceaniche». Articoli da
ilmanifesto e la Repubblica , 7 ottobre 2016 (c.m.c.)
Il manifesto
VITTORIA DELLE DONNE.
IL PARLAMENTO BOCCIA
IL DIVIETO TOTALE DI ABORTO
di Giuseppe Sedia
Non ci sarà divieto totale di aborto a Varsavia. Il Sejm, la camera bassa del parlamento polacco, ha bocciato un disegno di legge proposto dal movimento civile teo-con Ordo Iuris per mettere al bando le interruzioni volontarie di gravidanza senza se e senza ma. Già due giorni fa la maggioranza della destra populista di Diritto e giustizia (PiS) aveva chiesto di ritirare il provvedimento che era finito sul tavolo di una commissione del Senat, la camera alta polacca.
«Le manifestazioni da parte delle donne ci hanno spinto a riflettere dandoci anche una lezione di umiltà», ha dichiarato il ministro dell’Istruzione Jaroslaw Gowin, smettendo così le esternazioni del collega degli Esteri Witold Waszczykowski che aveva invece derubricato le proteste a una forma di «happenning». A dire vero, più che di un bagno di umiltà, si tratta di un mero calcolo politico per la dirigenza del PiS, disposta a tutto per prevenire un’emorragia di consensi, ora che il governo procede a ritmo spedito con il suo piano di “orbanizacja” del paese.
È una piccola ma grande vittoria per le migliaia di donne vestite a lutto che hanno inondato le strade dei maggiori centri della Polonia nelle ultime due settimane. Le proteste culminate nel «lunedì nero» segnano invece la sconfitta degli iniziatori della legge, e più in generale, della politica intransigente del governo nei palazzi del potere. Ma il dietrofront del Sejm è anche la testimonianza della débâcle ideologica di Ordo Iuris e della Conferenza episcopale polacca. A nulla è servito lo zelo pro-life nelle zone rurali del paese dei «berretti di mohair», seguaci dell’emittente xenofoba Radio Maryja del pastore redentorista Tadeusz Rydzyk.
La legge del 1993, frutto di un compromesso al ribasso dopo la discesa in campo della Chiesa negli anni della transizione al capitalismo, non sarà dunque stracciata. E per questo che resterà difficile vedere tutto rosa per quelli che sono scesi in piazza ammantandosi di nero per dire «nie» al divieto totale. Gli aborti resteranno infatti punibili con un massimo di 8 anni di carcere per i medici che eseguono l’intervento. Non è prevista invece nessuna pena per le donne che decidono di sottoporsi all’operazione. Su quest’ultimo punto, nemmeno la gerarchia ecclesiastica locale sembra disposta a criminalizzare le donne.
L’attuale legislazione consente di eseguire l’intervento soltanto in tre casi: quando la gravidanza mette a repentaglio la salute della madre, quando il feto è danneggiato, e in caso di stupro. L’ondata di indignazione popolare del «Black Monday» dovrebbe anche distogliere il PiS dall’idea di presentare un proprio disegno di legge sul modello brasiliano che eliminirebbe la possibilità di eseguire l’aborto in caso di malformazioni del feto.
Con il mantenimento dello status quo il turismo abortivo verso Ovest continuerà ad andare a gonfie vele. Un vero e proprio «soggiorno della speranza», spesso in direzione Praga e Bratislava, dove le interruzioni volontarie di gravidanza non sono rimborsate dai servizi sanitari nazionali.
La Repubblica
IL NO DEI POLACCHI AL DIVIETO DI ABORTO
HA VINTO SUIBARBARI
di Andrea Tarquini
Adam Michnik, veterano della lotta non violenta per la libertà del centroest europeo contro l’”Impero del Male”, intellettuale di punta europeo e fondatore diGazeta Wyborcza, non ha dubbi: la rinuncia del governo polacco alla legge antiaborto di divieto totale è una nuova fase del conflitto tra il potere e la società civile, e grande vittoria dei diritti umani e delle donne nell’Europa intera.
Come valuta la situazione, che cosa ha spinto i onservatori del PiS alla svolta?
«Siamo in una nuova fase del conflitto tra potere politico e società civile, la quale è organizzata nel Kod (Comitato di difesa della democrazia, ndr), nei partiti d’opposizione come Platforma o Nowoczesna (I moderni) e in diverse organizzazioni. E specialmente è una grande vittoria del movimento delle donne nel mondo globale contro quella legge assolutamente barbara e anacronista che vietava di abortire anche a donne stuprate, una legge da Medioevo».
Come ha fatto questo eterogeneo movimento a vincere contro una maggioranza assoluta di governo liberamente eletta e così solida?
«Mobilitandosi in ogni città. Nelle piazze come sul web, sui social forum. Lanciando messaggi che hanno convinto donne e cittadini d’ogni opinione politica. È la prima volta che il PiS (il partito di maggioranza,
ndr) capitola. Grazie ai suoi parlamentari convintisi alla fine ad ascoltare il paese reale è stata bocciata la legge voluta dai più oscurantisti, dai falchi della Chiesa, altri grandi sconfitti ».
E adesso come evolverà il confronto politico in Polonia?
«Tre aspetti sono decisivi. Primo, insisto, il conflitto tra il regime autoritario e la società civile e democratica è entrato in una nuova fase, la società civile si è rafforzata. Secondo, è una grande vittoria della civiltà: nella cattolica Polonia le donne hanno conquistato un nuovo ruolo nella politica e nella vita pubblica, contro l’animo del sistema patriarcale. Terzo, ora è chiaro che la maggioranza del PiS non coincide necessariamente con la maggioranza nella società civile».
È rimasto sorpreso?
«Sì. Ora vedremo come la situazione andrà avanti. Il movimento deve continuare a lottare, ma deve stare molto attento: posizioni pro aborto troppo massimaliste spaccherebbero la società, sarebbe un regalo per il governo. Questo governo, come Orbàn in Ungheria, ritiene di essere più forte quando il paese reale si spacca».
Che succede nel mondo del cattolicesimo polacco, che molti accusano di oscurantismo?
«Il cattolicesimo polacco è diviso, anche in seno alla Conferenza episcopale. Vedremo chi vincerà al suo interno, perché finora la prevalenza di linee fondamentaliste ha portato la società verso sempre più secolarizzazione totale, ha indebolito il cattolicesimo».
Qual è il rapporto tra chiesa polacca e papa Francesco?
«Complesso. Per i cattolici fondamentalisti è impossibile contestare apertamente il Papa, eppure nell’episcopato polacco vive forte una eresia nazionalista di fatto anticristiana, come ha scritto Tygodnik Powszechny (il settimanale cattolico liberal di qualità di Cracovia, città di Giovanni Paolo II, ndr). È una sfida al Papa, pericolo mortale per il cattolicesimo in Polonia. Vedremo chi vincerà, io laico da sempre sono a fianco di Francesco. Anche in questo scontro tra Francesco e i nostri vescovi conservatori si è aperta ora una nuova fase».
L’Europa come deve reagire?
«Dico una cosa sola: sono completamente d’accordo con il commissario europeo Timmermans, secondo cui in Polonia la democrazia è minacciata ».
Dalle polemiche al ricorso al Tar: i sostenitori del No portano il quesito davanti ai giudici amministrativi. Il decreto Mattarella che fissa il voto il 4 dicembre non rispetterebbe la legge: testo troppo sommario. Il Quirinale replica agli avvocati: è stata la suprema Corte a validare quella formula (ideata dal governo)». il manifesto, 6 ottobre 2016
Le polemiche sulla scheda del referendum costituzionale prendono la strada della giustizia amministrativa. Arriva al Tar del Lazio un ricorso contro il decreto del presidente della Repubblica che ha indetto il referendum il 4 dicembre, stabilendo anche il testo del quesito. Testo che non riporta l’intero elenco degli articoli della Costituzione modificati o soppressi dalla riforma che gli elettori devono approvare o respingere – sono in totale 47 articoli -, così come previsto dalle legge che ha introdotto i referendum nel 1970. Ma solo una sintesi del contenuto del disegno di legge, soluzione già adottata in occasione dei due precedenti referendum costituzionali nel 2001 e nel 2006.
Si chiese allora ai cittadini di approvare o respingere le «modifiche al Titolo V» (2001) e le «modifiche alla seconda parte» della Costituzione (2006). Due quesiti sintetici eppure neutri, se paragonati a quello che il presidente del Consiglio Renzi ha cominciato a esibire in comizi e trasmissioni tv anche prima di fissare la data del referendum. Agli elettori, oggi, viene chiesto di approvare o respingere le «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione». Una formula ingannevole, per i sostenitori del No. Secondo i quali il quesito contiene più gli auspici del governo che la realtà della riforma, visto che il bicameralismo non è affatto superato, vengono ridotti solo i senatori e non i deputati, il contenimento dei costi è al massimo una possibilità e la soppressione del Cnel è assai meno rilevante di una serie di novità costituzionali neanche citate, come la modifica dei quorum per l’elezione del presidente della Repubblica [e l'abolizione dell'elettività del Senato - ndr]].
I sondaggi sul referendum testimoniano di una grande incertezza, la preoccupazione degli avversari della riforma è che una quota di indecisi possa essere convinta, direttamente nell’urna, dal testo accattivante del quesito.
A firmare il ricorso al Tar sono due avvocati del comitato del No (Enzo Palumbo e Giuseppe Bozzi) e due senatori (Vito Crimi del M5S e Loredana De Petris di Sinistra italiana) che sono tra i firmatari della prima richiesta di referendum sulla riforma, ammessa dalla Cassazione il 6 maggio scorso. Una richiesta che per la verità era fatta indicando come testo da sottoporre a referendum lo stesso che adesso il No considera ingannatore. Ma, sostiene l’avvocato Palumbo, è proprio la legge sul referendum a distinguere tra il momento in cui si avanza la richiesta di referendum, dov’è consentita una indicazione generica della legge che si intende fermare con il referendum (articolo 4 della legge 352/70) e il momento in cui si stabilisce il quesito, che andrebbe scritto sulla scheda indicando tutti i punti della Costituzione soggetti a modifica, così come impone l’articolo 16 della stessa legge.
Il decreto del presidente della Repubblica che indice il referendum, invece, riporta solo il titolo del disegno di legge Renzi-Boschi, chiaramente concepito dal governo in vista del referendum e passato indenne attraverso il percorso – blindato – di approvazione parlamentare.
Il Quirinale, ieri, con una nota dell’ufficio stampa, ha scaricato la responsabilità sull’Ufficio centrale per il referendum della Cassazione, che ha svolto le verifiche formali sulle richieste di referendum: «Il quesito è stato valutato e ammesso, con proprio provvedimento, dalla corte di Cassazione e riproduce il titolo della legge approvato dal parlamento». «Ma la legge – è la replica dell’avvocato Palumbo – all’articolo 16 che il Quirinale nel suo decreto ha anche dimenticato di citare, indica in termini precisi e senza equivoci che il quesito dev’essere scritto citando gli articoli oggetto del referendum».
In realtà, già al tempo della prima richiesta di referendum, il vecchio democristiano Peppino Gargani, oggi schierato con il No, si era accorto che era il caso di riformulare la domanda alla Cassazione, ma la sua istanza era stata respinta dai giudici della suprema Corte che avevano già ammesso il referendum. A tempo di record: a maggio sembrava infatti che il governo volesse votare il prima possibile. E velocissimo dovrebbe essere adesso il Tar del Lazio, se volesse accogliere quest’ultimo ricorso: per confermare la data del 4 dicembre eventualmente cambiando il quesito resta poco più di una settimana.
È vero o no che la riforma Renzi-Boschi dell'assetto costituzionale delle istituzioni pubbliche è un vulnus grave alla democrazia in Italia? Le opinioni sono diverse, e per fortuna non tutti twittano e insultano invece di parlare. La Repubblica, 6 ottobre 2016, con postilla
LA RIFORMA
E L’ELEZIONE DEL PRESIDENTE
di Salvatore Settis
Distrattamente, Guido Crainz scrive su Repubblica di ieri che «si è considerato addirittura un la norma che in realtà innalza il quorum necessario per l’elezione del Presidente della Repubblica, portandolo dalla maggioranza assoluta ai tre quinti dei votanti, e quindi al di fuori della portata di chi governa (a meno di non ipotizzare un’assemblea letteralmente dimezzata nelle presenze, come ha fatto ieri Salvatore Settis)». Non è così. Nella Costituzione vigente, il Presidente si elegge coi due terzi dei voti degli aventi diritto (tutti i deputati e senatori) nei primi tre scrutini, con la maggioranza assoluta dell’intera assemblea dal quarto in poi. Secondo la riforma, il Presidente è eletto coi tre quinti dell’assemblea dal quarto al sesto scrutinio, coi tre quinti dei votanti dal settimo in poi (art. 83), il che vuol dire che gli assenti non si contano ai fini del risultato. Secondo l’art 64, «le deliberazioni del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei componenti», dunque nell’assemblea che elegge il Presidente, composta di 630 deputati e 100 senatori, devono esservi almeno 366 presenti in aula. I tre quinti di 366, provare per credere, fa 220. Ergo, il Capo dello Stato potrebbe essere eletto da soli 220 votanti, e questo in un Parlamento dove, stando al vigente Italicum, il partito al governo avrà 340 seggi nella sola Camera: l’elezione pilotata del Presidente è dunque tutt’altro che «al di fuori della portata di chi governa». Crainz sembra credere che tante assenze non ci saranno mai. Ma se è così, perché prevederle in Costituzione?
LA RISPOSTA
di Guido Crainz
Salvatore Settis ribadisce tutto quello che avevo attentamente scritto: sino ad oggi dal quarto scrutinio in poi era necessaria la maggioranza assoluta dell’assemblea (ovviamente a disposizione di chi governa), con la riforma dal settimo scrutinio saranno necessari i tre quinti dei votanti (non raggiungibili da chi vince le elezioni). Settis ribadisce inoltre che l’elezione del Presidente della Repubblica potrà comunque essere pilotata: nel caso, appunto, che la metà dei senatori e dei deputati sia misteriosamente assente (e le assenze riducano soprattutto le fila degli oppositori). Le elezioni del Presidente della Repubblica vedono da sempre la presenza pressoché totale degli aventi diritto, come è naturale, e quindi l’ipotesi di un’aula letteralmente dimezzata mi sembra davvero poco plausibile: a meno che non si tratti di una scelta consapevole, volta a rendere meno dura la propria opposizione (e questa è la possibilità che quell’articolo apre). Nel suo recente libro,
Costituzione!, Settis spiegava: “se al settimo scrutinio dovessero votare solo 15 fra deputati e senatori basteranno 10 voti” (p.16). Evidentemente ha tenuto poi conto dell’art.64 ed ha provveduto ad aggiornare la contabilità ma non il senso di quel che sostiene. A mio avviso “interpretazioni” come queste, relative a un nodo centrale come le figure e gli organi di garanzia, alimentano la paura di un Annibale alle porte e rendono incandescente un dibattito che dovrebbe rinsaldare invece il nostro “essere comunità”.
postilla
Crainz non s'è accorto che Annibale è gia dentro le porte. Per rendersene conto basta leggere con pazienza i numerosi articoli che abbiamo inserito nella nostra cartella Renzi e il renzismo. E' da tempo che il regime feudale, avente al suo vertice Matteo I, si è consolidato, proseguendo con giovanile ardore e volpesca furbizia il cammino aperto da Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, nella direzione tracciata tanti anni fa dalla Mont Pèlerin Society. La riforma Renzi-Boschi non cancella il Senato, ma lo rende un organo dei partiti anzicchè una rappresentanza degli elettori.
E' di moda una pratica per eliminare i conflitti individuali. Ma così «si rischia di creare una società di palle di gomma immerse in una palude dove il tiro, che già parte debole, quando arriva non ha alcun effetto. Come dire: vai pure, tanto non dai fastidio a nessuno».
il manifesto, 5 ottobre 2016
Da alcuni anni è esplosa la moda del coach e sento sempre più persone che, quando gli chiedi che fanno nella vita, rispondono: «L’impiegato, ma anche il coach. L’infermiere e insieme il coach. Il parrucchiere e come secondo lavoro il coach». Se un tempo il coach era in sostanza l’allenatore di una squadra, dagli anni Settanta ha cominciato a entrare nelle aziende e lì sono comparsi gli executive, team, leadership coach, figure che, secondo la classificazione ICF, «attraverso un processo creativo stimolano la riflessione, spingendo i clienti a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale». In altre parole, insegnano strategie per tirare fuori il meglio di sé e dalle situazioni. Da lì il coaching si è allargato alla sfera privata e così sono spuntati i life, health, relationship, parent coach, gente che dovrebbe insegnare ad altra gente strategie per vivere meglio, stabilire relazioni costruttive con i colleghi, i figli, i coniugi, gli amici e se stessi. Premesso che nutro un’istintiva diffidenza verso chi, con tre anni di corso, si ritiene in grado di dare indirizzi esistenziali e comportamentali agli altri, parlare con qualcuno di loro apre visioni interessanti su come va il mondo.
Pochi giorni fa, una coach mi ha raccontato che cosa fa nello specifico. Il suo lavoro a tempo pieno è in una sede italiana della più importante banca tedesca. Lei, che ama il suo mestiere ma vorrebbe aprirsi alternative per il futuro, due anni fa si è iscritta a un corso di coach, la voce si è sparsa in ufficio e ora ha già un po’ di clienti a cui dà consigli gratis in attesa di terminare gli studi. Chi le chiede più aiuto sono le sue colleghe che vanno tutte, ma proprio tutte, da lei non per imparare a fare carriera, ma per apprendere l’esatto contrario, ovvero come non farsi schiacciare la vita e i pensieri dai rospi che devono ingoiare sul lavoro. «Tutte – racconta la mia informatrice – mi dicono la stessa cosa, e cioè che amano il loro lavoro e che sanno di essere brave perché hanno studiato, si sono specializzate, sono precise, efficienti. Quello che non sopportano è che nessuno dei capi, tutti maschi fra l’altro, se ne accorga e lo apprezzi. Insomma, vorrebbero essere considerate di più». E da lei che aiuto cercano? «Posto che è quasi impossibile cambiare la situazione, io insegno loro a trovare il modo per smettere di prendersela e rimuginare, destinando le energie a qualcosa di costruttivo. Poi ci sono i casi più impegnativi»[. Per esempio? «Beh, come quella collega che stava malissimo perché si rifiutava di vendere ai clienti titoli spazzatura e per questo era stata messa da parte.
Alla fine non ha resistito e se ne è andata». E gli uomini non le domandano nessun aiuto? «Sì, ma riguardano solo la sfera personale, in sostanza vogliono avere consigli sulla relazione di coppia». Tutto ciò mi spinge a fare alcune considerazioni. N.1. Riguardo al lavoro, le donne sollevano problemi diversi da quelli dei colleghi maschi. N. 2. I coach tentano di dare risposte a bisogni che altri non ascoltano. N. 3. I coach convogliano in un rapporto di sostegno a due quello che un tempo sarebbe diventato lotta di classe o di categoria. N. 4. I coach forniscono ascolto e strumenti di resistenza, o resilienza, che alla fine tengono a bada il conflitto interiore. N. 5. Il conflitto interiore è la premessa per il conflitto in generale. N. 6. Se si elimina l’idea di conflitto, si rischia di creare una società di palle di gomma immerse in una palude dove il tiro, che già parte debole, quando arriva non ha alcun effetto. Come dire: vai pure, tanto non dai fastidio a nessuno.
Il manifesto, 5 ottobre 2016 (p.d.)
Intorno al voto referendario crescono non gli argomenti, ma il rumore. Ora, per la riforma dell’Italicum: si modifica, e come? C’è una proposta Pd, e quale? Ma alla fine Renzi che vuole davvero?
Il cardine del sistema elettorale nel Renzi-pensiero è dato dal primo turno con soglia seguito da un ballottaggio senza soglia, con 340 seggi garantiti da un mega-premio di maggioranza. Solo questo può dare in un sistema ormai tripolare i numeri parlamentari truccati che realizzano il mantra renziano di sapere chi governa la sera del voto. Tutto il resto è contorno, dal premio alle coalizioni alla preferenza per i capilista.
Elementi rilevanti ma non decisivi, perché una accorta gestione delle candidature può comunque assicurare al premier una truppa di pretoriani fedeli. Dubito che Renzi intenda rinunciare agli strumenti veri del suo potere personale.
In ogni caso, la legge Renzi-Boschi impone di per sé il No nel referendum. La correzione dell’Italicum, che è solo una aggravante, non muterebbe il giudizio. Il premier ha propinato alla democrazia italiana due pillole al cianuro: riforma costituzionale e Italicum. Ciascuna basta a uccidere il paziente. E dunque bisogna rifiutare entrambe.
Il Sì cede nei sondaggi ma prima ancora negli argomenti portati nei dibattiti, a partire da quello dei risparmi. Renzi insiste sulla favola dei 500 milioni, ma il silenzio cala in platea quando si legge il documento della Ragioneria dello stato che certifica il risparmio per il senato a meno di 49 milioni all’anno, rendendo vera l’immagine di un diritto di voto scippato ai 50 milioni di elettrici e elettori italiani per un risparmio equivalente di meno di un caffè all’anno a testa. Il senato sopravvive, si taglia il diritto di votare i senatori. Il silenzio è poi tombale quando ancora si legge che non c’è risparmio quantificabile dalla cancellazione delle province in Costituzione, o dalla limitazione degli emolumenti per i consiglieri regionali. Mentre sopprimere il Cnel vale meno di nove milioni all’anno. Alla fine, con i suoi 500 milioni Renzi è il venditore di auto usate che vuole far passare un catorcio per una Ferrari.
Ma, si dice, abbiamo una camera delle regioni, in stile Bundesrat tedesco. È falso. Nel Bundesrat i governi dei Lander partecipano direttamente ai processi decisionali attraverso rappresentanti assoggettati a vincolo di mandato. Mentre nel nostro senato a mezzo servizio arriverebbero per ogni regione pochi consiglieri regionali e un sindaco, legati ai piccoli segmenti di territorio nei quali sono stati eletti, liberi di votare come vogliono. Una camera di frantumazione, di egoismi territoriali, di inciuci. Alla fine, il senato futuro somiglia non al Bundesrat tedesco, ma alla camera alta austriaca, che nell’opinione comune è un fallimento. L’affermazione che la riforma non rafforza il premier si colpisce ricordando il controllo del governo sull’agenda e i lavori parlamentari, con il voto a data certa. Che non sia toccata la parte I della Costituzione si nega perché i diritti in essa garantiti vanno attuati dal legislatore e dalle maggioranze di governo, e dunque l’architettura dei poteri è essenziale. La celebrata semplificazione si distrugge leggendo in parallelo gli artticoli 70 e 72 nella versione vigente e in quella riformata. Cede anche l’argomento della partecipazione democratica, di fronte a firme triplicate per la proposta di legge di iniziativa popolare, e referendum propositivi e di indirizzo rinviati a data futura e del tutto incerta. Mentre è indiscutibile e immediata la ri-centralizzazione nel riparto di competenze stato-regioni.
Alla fine di ogni dibattito rimane al Sì un solo argomento: non c’è alternativa. È lo scenario fine del mondo, disegnato dallo stesso Renzi e sollecitamente assunto da J.P.Morgan, Fitch, Confindustria, Marchionne, multinazionali e tutti i poteri forti dell’economia e della finanza, certo non per caso schierati con lui.
Ma per nessuna ragione si scambia una Costituzione – che può durare generazioni – con un governo in carica, destinato a fare le valigie in un tempo comunque breve. Se fosse uno statista, lo stesso Renzi ripulirebbe il campo da ogni gramigna politica e personale. Ma le sue aspirazioni non vanno oltre l’essere uomo di governo. Il più a lungo possibile.

«». connessioni precarie, 4 ottobre 2016 (c.m.c.)
Dobbiamo ammetterlo, questa volta il governo ci ha colto di sorpresa pubblicando un dis∫ocial di sua spontanea volontà, dimostrando di non avere ormai nemmeno l’ambizione di assumere le più vaghe sembianze di uno Stato orientato al benessere. Ci riferiamo al recente opuscolo diffuso dal sito investinitaly.com – il portale dell’ICE, l’agenzia per la promozione all’estero e l’internalizzazione delle imprese italiane, in cui compare il logo del Ministero dello Sviluppo Economico – e distribuito a Milano durante la presentazione del piano nazionale Industria 4.0, in cui il governo sfodera tutte le sue migliori carte al fine di attirare capitali e investimenti esteri. Ma quali carte?
Beh, nel mondo c’è chi può garantirsi un posto tra i grandi competitors globali attraverso dei primati tradizionali come le risorse in materie prime, la strategicità della propria posizione geografica, la produzione di sapere, o addirittura puntando sull’innovazione.
Allora l’Italia ha dovuto necessariamente trovare degli altri punti di forza, solidi e credibili, per far sì che i capitali del mondo possano intravedere nella penisola degli scorci di «investibilità» al di là di quella serie di catapecchie romane di cui siamo in possesso e che, lo sanno tutti, non serve proprio a nulla se non a impedire di costruire metropolitane più efficienti e ponti sugli stretti. Non è quella la grande bellezza!
Per fortuna però abbiamo una peculiarità dai tratti imbattibili, siamo un popolo in balia della miseria economica e della precarizzazione crescente, allora perché non smettere di pensare che sia un problema ed elevarlo invece a pregio? Il governo giura che da noi un ingegnere guadagna mediamente 38.500 € l’anno contro i 50.000 € della media europea… Una grande occasione! Se pensavate che impoverire il famoso e famigerato ceto medio fosse un problema, non avevate capito niente. Sono gli altri, tutti quei paesi che stanno messi leggermente meglio e che pur precarizzando i lavoratori, gli danno degli aiuti sociali, che sono un po’ sfigati.
Siccome propinandoci il Jobs Act, ci avevano garantito che la precarietà sarebbe andata a nostro favore, che i voucher avrebbero fatto emergere il lavoro nero e altre amenità di questi generi, ora verrebbe da pensare che ci abbiano accuratamente indebolito a tal punto da far di questo male il nostro punto di forza. Grazie, non ci avevamo mai pensato. La prossima volta che ci proporranno un salario indecente, senza contratto e con un calcio in culo al posto del preavviso di licenziamento, sapremo di essere in realtà baciati dalla fortuna. Beh certo ora che siamo sempre più impoveriti possiamo dire finalmente che investire in India, Vietnam o in Italia sia ormai la stessa cosa.
Noi sì che ci teniamo all’uguaglianza globale delle condizioni. Potremmo dire, senza timore di sbagliarci, che è stata trovata una soluzione più che efficiente al problema della delocalizzazione della produzione delle merci: «mai più Taiwan, ora anche in Italia puoi pagarli come se fossero asiatici»!
D’altronde a Prato sono in corso da anni sperimentazioni in questa direzione. Ma evidentemente dire che siamo un popolo di poveri iperqualificati non è sufficiente, infatti gli investitori non sono scemi e guardano al futuro, non sia mai che subentrino dei diritti e delle rivendicazioni per ottenere migliori condizioni.
Così il governo, per chiudere una volta per tutte la partita con i futuri investitori, gli fa giustamente notare che non c’è alcun pericolo in vista, le condizioni dei nostri lavoratori non potranno che peggiorare, perché il costo del lavoro è aumentato negli ultimi anni in maniera di gran lunga inferiore rispetto al resto di Europa: +1,2% contro la media del +1,7% altrove. Diciamo pure che ce ne eravamo accorti.
Quando il costo del lavoro cresce lentamente, per chi lavora il prezzo di dover lavorare è molto alto. Se a tutto ciò aggiungiamo che un welfare degno di tale nome è ormai latitante da anni, quale miglior investimento della povera, misera, qualificata e sfruttabile Italia? Pensiamo si siano però dimenticati di vantarsi anche della presenza di migranti quotidianamente sfruttati nelle catene di produzione nazionali…ah già, sarebbero sembrati razzisti e crudeli e quello non va affatto bene. Forse così avrebbero rivelato uno degli ingredienti principali di un sistema che tende a precarizzare le persone dividendole in categorie di «sfruttabilità».
Tutto questo dovrebbe andare nel capitolo «valorizzazione del capitale umano». Ciò che si mostra, invece, è il lato volgarmente disumano del capitale, davanti al quale il governo vanta oltre ogni senso del ridicolo la sua politica pro-business. Purtroppo, tanto per ripetere una vecchia verità davanti a tante nuove idiozie, noi non siamo nel business, noi siamo il business.
«L’elemento democratico non sta solo nel voto (eguale nel peso e individuale) ma nel voto che prende corpo all’interno di una società plurale, fatta di un reticolo di opinioni, liberamente formate, comunicate, associate, discusse e cambiate». La
Repubblica, 4 ottobre 2016 (c.m.c.)
«L’oligarchia è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono, salvo la cosiddetta democrazia diretta, quella che si esprime attraverso il referendum ». Eugenio Scalfari, che scriveva queste parole nell’editoriale di domenica scorsa, ci stimola con la sua lapidaria catalogazione a chiederci se questa riproposizione di Robert Michels sia utile a capire ( e soprattutto a gestire) la forma di governo nella quale viviamo, il governo rappresentativo. Un governo che agli elitisti antidemocratici del primo Novecento sembrava null’altro che un’astuta riedizione dell’oligarchia appunto, con le masse illuse che bastasse votare per vivere in democrazia.
Parlare di democrazia rappresentativa all’interno di questo universo concettuale, attivato proprio quando l’odiata democrazia si presentava sulla scena europea, ha poco senso. Meno ancora ne ha pensare di rubricare il governo rappresentativo come democratico. Nello schema duale proposto da Scalfari — decidere direttamente oppure essere governati da un’oligarchia — è difficile far posto al governo rappresentativo. Difficile, anche, vedere lo scivolamento del governo rappresentativo verso una concentrazione oligarchica del potere.
Però la democrazia rappresentativa non è un ossimoro. Ha un’identità e una tradizione sua specifica, con un pantheon di studiosi ( certamente diversi tra loro) di tutto rispetto, a partire da Montesquieu e Condorcet, dai Federalisti americani a J. S. Mill, autori a Scalfari familiari. Circa vent’anni fa Bernard Manin ha sistematizzato queste idee e proposto il governo dei moderni come un “ governo misto”, che tiene insieme forma oligarchica e forma democratica.
L’oligarchia non è democrazia. E quando ha un fondamento nel consenso elettorale libero e ciclico può combinarsi con la democrazia (per questo, Madison rifiutava il termine oligarchia e parlava di “aristocrazia natuale”, per distinguerla da quella cetuale che non discende dalla selezione elettorale).
L’elemento democratico non sta solo nel voto (eguale nel peso e individuale) ma nel voto che prende corpo all’interno di una società plurale, fatta di un reticolo di opinioni, liberamente formate, comunicate, associate, discusse e cambiate.
È il libero e plurale dibattito che dà alla selezione elettorale (di natura aristocratica, secondo gli antichi e i moderni) un carattere democratico. Quindi la democrazia elettorale e discorsiva limita l’oligarchia, non è oligarchia.
Perché è importante tenere insieme i pochi e i molti, o se si preferisce la distinzione di chi compete (poiché per competere occorre mostrare un’identità distinguibile) con la dimensione dell’eguaglianza democratica?
Tra le tante ragioni che si potrebbero addurre, una soprattutto merita attenzione: per impedire la solidificazione del potere dei selezionati; ovvero per scongiurare la formazione di una classe separata, oligarchica. La temporalità del potere (la sua brevità di esercizio) che l’elezione immette nel sistema e la subordinazione dell’eletto (o del candidato) all’opinione di ordinari cittadini: questo fa della democrazia rappresentativa non un ossimoro e non una malcelata oligarchia, ma un governo unico nel suo genere, che contesta l’identificazione della democrazia con il voto diretto.
E fa comprende perché nelle democrazie moderne la lotta, perenne, è sulle regole che presiedono alla formazione del consenso, all’organizzazione elettorale, e infine alla limitazione del tempo in cui il potere è esercitato. Nella tensione mai risolta fra diffusione e concentrazione del potere (democrazia e oligarchia) sta la dinamica della democrazia rappresentativa.
Consigli a Matteo Renzi (il cui potere del resto il fondatore del quotidiano e il suo gruppo hanno contribuito a costruire) e un affettuoso buffetto a Zagrebelsky, perché non sa abbaiare come Renzi. E idee discutibili su democrazia e oligarchia. La Repubblica, 2 ottobre 2016
FORSE i miei venticinque lettori, come diceva l’autore dei Promessi sposi, si stupiranno se, avendo visto alla televisione de La7 il dibattito tra Renzi e Zagrebelsky, comincio dalle nostre rispettive età: Renzi ha 41 anni, Zagrebelsky 73 ed io 93. Sono il più vecchio, il che non sempre è un vantaggio salvo su un punto: molte delle questioni e dei personaggi dei quali hanno parlato io li ho conosciuti personalmente e ho anche letto e meditato e scritto sulle visioni politiche dei grandi classici.
Nel dibattito l’accusa principale più volte ripetuta da Zagrebelsky a Renzi è l’oligarchia verso la quale tende la politica renziana. L’oligarchia sarebbe l’anticipazione dell’autoritarismo e l’opposto della democrazia rappresentata dal Parlamento che a sua volta rappresenta tutti i cittadini elettori.
Conosco bene Gustavo e c’è tra noi un sentimento di amicizia che non ho con Renzi e, mi dispiace doverlo dire, a mio avviso il dibattito si è concluso con un 2-0 in favore di Renzi ed eccone le ragioni.
Il primo errore riguarda proprio la contrapposizione tra oligarchia e democrazia: l’oligarchia è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono salvo la cosiddetta democrazia diretta, quella che si esprime attraverso il referendum. Pessimo sistema è la democrazia diretta. La voleva un tempo Marco Pannella, oggi la vorrebbero i 5 Stelle di Beppe Grillo. Non penso affatto che la voglia Zagrebelsky il quale però detesta l’oligarchia. Forse non sa bene che cosa significa e come si è manifestata nel passato prossimo ed anche in quello remoto.
***
A me il Renzi europeista piace. Facendolo sul serio si è anche conquistato un ruolo che prima di lui e molto più di lui si erano conquistati De Gasperi, Ciampi, Prodi e Draghi che però il ruolo, che sorpassa tutti gli altri, non l’ha ottenuto in quanto italiano e in rappresentanza dell’Italia, ma come banchiere centrale eletto da tutta l’Europa perché primo tra i primi, nonostante il parere della Bundesbank.
Per criticare il Renzi europeista molti sostengono che quel ruolo lui l’ha usato per fare colpo sugli italiani per ottenere più facilmente il loro consenso elettorale. Sbagliato: il popolo che vota se ne infischia del ruolo del suo partito in Europa. Semmai può interessarlo il nazionalismo. E visto che siamo in argomento aggiungo che non mi stupisce affatto la richiesta di Renzi di esser votato anche dal centrodestra, essendo lui il capo d’un partito di centrosinistra. Ma chi chiede voti a destra deve essere realmente di sinistra. Se invece si è collocato al centro, come di fatto è da tempo avvenuto, sarà la destra a chiedere i suoi voti e non viceversa.
La conclusione su questo punto è che lui voleva ritornare a quello che fu il programma di Veltroni quando, eletto segretario del Pd, descrisse le idee del partito al Lingotto di Torino e alle elezioni di pochi mesi dopo ottenne il 34 per cento dei voti, più i 4 di Di Pietro suo alleato.
Veltroni presentò il Pd come il partito che doveva ricostruire l’Italia su basi socialmente, economicamente e politicamente riformatrici per un paese da modernizzare. Renzi si presentò come rottamatore e non fu una presentazione felice. La rottamazione avviene in modo naturale se si modernizza un paese, ma non per ragioni anagrafiche. Infatti quella parola ormai Renzi non la usa più. Se ha fatto un dibattito con un anziano costituzionalista che ha trattato con grande rispetto, questa è stata una buona svolta. Comunque, chieda pure i voti al centrodestra, ma accentui le caratteristiche di sinistra democratica del suo partito. Una sinistra moderna, questo sì. Che si imponga non solo in Italia ma in tutta l’Europa. La modernità, l’ha detto più volte Mario Draghi, consiste nell’aumentare la produttività, puntare verso l’Europa unita, risanare un sistema bancario alquanto indebolito, creare un bilancio sovrano europeo e un Tesoro unico in grado di emettere buoni del Tesoro europei sul mercato. Su alcuni di questi elementi Renzi è d’accordo ma non lo è sulla politica economica che pure rappresenta il punto centrale. La sua politica economica si basa soprattutto sulle mance, a volte benfatte, più spesso malfatte ed elettoralistiche. E per finanziarle non fa che chiedere flessibilità all’Europa.
Ebbene, non si fa così la politica fiscale, specie quando si ha una tecnologia che rende assai più facile individuare il lavoro nero e l’evasione. Il reddito nero e l’evasione ammontano a centinaia di miliardi di euro. Ma quello che stiamo ottenendo da queste operazioni ammonta a stento a 50-60 milioni all’anno. Cioè niente.
Non parliamo del problema spese e tasse. In teoria dovremmo aumentare le prime e diminuire le seconde. Nei fatti avviene l’inverso: si aumentano le tasse e si diminuiscono le spese, oppure restano ferme tutte e due ed è ferma anche l’economia del paese, salvo la flessibilità e il costante aumento del debito pubblico.
La vera ed unica soluzione è un taglio massiccio del cuneo fiscale. Ne ho già parlato su queste pagine ma nessuna risposta c’è stata, sicché ne riparlo ancora.
L’ammontare dei contributi che imprese e lavoratori versano all’Inps ammonta a 300 miliardi dei quali i datori di lavoro versano all’incirca il 21 per cento e i lavoratori il 9. L’ipotesi da me suggerita è un taglio di 30 punti, pari a 90 miliardi. L’Inps naturalmente dovrebbe continuare a fornire i servizi previsti, ma le sue entrate avendo subìto questo taglio massiccio dovrebbero essere finanziate dallo Stato il quale a sua volta dovrà fiscalizzare l’importo con una tassazione moderata dei redditi a cominciare da quelli che superano i 120mila euro e aumentando a misura dei redditi più elevati. Per un certo aspetto si tratta d’una imposta sul patrimonio, ma l’aspetto più rilevante riguarda l’aumento della domanda e quindi dei consumi da parte dei lavoratori e dell’offerta da parte delle imprese, indotte a questo comportamento che non avviene una tantum e quindi mette in moto i motori di una politica progressista.
Misure del genere in realtà andrebbero prese anche dai paesi europei alcuni dei quali non hanno mai adottato queste soluzioni. Va detto però che in molti paesi i servizi pubblici vengono forniti direttamente dallo Stato e quindi la fiscalizzazione è già in corso.
Gentile presidente del Consiglio, vorrei conoscere che cosa lei pensa di questa proposta. L’ideale sarebbe che lei la mettesse in moto subito ottenendone al più presto le conseguenze positive.
Il manifesto, 4 ottobre 2016 (p.d.)
Ha sentito Giorgio Napolitano? Solo la vittoria del Sì, ha detto, restituirebbe la dignità al parlamento.
«Se avessi detto io che il senato e la camera sono ridotti a uno straccio sarebbe insorta mezza Italia. Non credo proprio che si possa parlare così del parlamento, per quante critiche gli si possano fare – e noi gliele abbiamo fatte».
Carlo Smuraglia, 93 anni, professore, avvocato e partigiano, è il presidente nazionale dell’Anpi. Dopo giorni di attacchi da parte dei sostenitori della riforma costituzionale, per via della decisione dell’associazione di schierarsi per il No, ha recuperato un po’ di tranquillità uscendo vincitore dal confronto pubblico con Renzi alla festa dell’Unità di Bologna.
Diceva delle critiche a questo parlamento.
La Corte costituzionale l’ha pesantemente delegittimato. Nella sentenza sul Porcellum si diceva che le camere avrebbero potuto andare avanti, ma per il tempo strettamente necessario a fare una nuova legge elettorale. Non certo una riforma «epocale» della Costituzione.
Adesso pare che di leggi elettorali questo parlamento voglia farne ben due e Renzi dice di essere pronto a riscrivere l’Italicum. Le fa piacere?
Chiariamo agli italiani che nessuna nuova legge elettorale sarà fatta prima del referendum. Non ce n’è il tempo. Stiamo parlando solo di chiacchiere e promesse di poco valore. Ed è davvero strano che dopo oltre un anno di silenzio – tanto è passato da quando è stato approvato l’Italicum – improvvisamente, gli esponenti della maggioranza comincino ad agitarsi adesso. Dimostrando così proprio quello che vogliono negare: c’è un collegamento strettissimo tra Italicum e riforma costituzionale.
Crede a Renzi che vuole correggere la legge elettorale?
Non gli credo, è stato lui voler porre addirittura la fiducia. Penso che sia solo un tentativo di confondere gli elettori. Ai quali invece è bene spiegare che dovranno giudicare la riforma costituzionale anche tenendo presente che una legge elettorale in vigore adesso c’è. È l’Italicum, e ci preoccupa molto.
Ha visto il confronto Renzi-Zagrebelsky in tv?Purtroppo no, ero in treno. Ne ho letto.
Che idea si è fatto?
Ce l’avevo già prima un’idea: in questi confronti le regole sono importantissime. Noi dell’Anpi, in vista del faccia a faccia di Bologna, che pure non era in tv, ci avevamo pensato per tempo. Non tutti sono abituati al linguaggio televisivo, bisogna che ognuno sia messo in condizione di esprimersi tranquillamente, non bisogna consentire a uno dei due di interrompere. Se Zagrebelsky fa un’osservazione di stretto diritto, Renzi non deve potergli rispondere sviando e parlando d’altro. Il confronto deve servire ai cittadini per capire, prima che a fare audience.
Lei è rimasto soddisfatto del suo confronto bolognese?
A parte qualche prevedibile tentativo di Renzi di parlare d’altro, nel complesso sì. Il segretario del Pd e io abbiamo dimostrato che si può ragionare su questi temi, pur partendo da posizioni lontane e da modi di essere lontanissimi.
Ha visto i manifesti del comitato del Sì che invitano a tagliare le poltrone dei politici?
Li ho visti e li trovo vergognosi. Ho anche letto, con piacere, che c’è qualcuno che vota Sì che gli ha trovati eccessivi. Meno male. Accarezzare il populismo nelle sue forme peggiori è sempre sbagliato, perché si ritorce contro tutti e contro la democrazia. E poi è molto facile obiettare a quello slogan: perché le poltrone dei senatori sono «poltrone», e quelle dei deputati, non sono toccate dalla riforma, no lo sono?
Che spiegazione si è dato degli attacchi all’Anpi?
Tutto è dipeso dalla nostra decisione di schierarci per il No. Tutti quelli che ci hanno attaccato si sono accorti di noi solo nel momento in cui abbiamo cominciato a dare fastidio sulla riforma. Fino a poco prima abbiamo avuto diversi esponenti della maggioranza alle iniziative che organizziamo di continuo. Poi si è cercato di negarci il diritto di prendere posizione sul referendum. Abbiamo reagito con fermezza, ricordando a tutti cos’è l’Anpi e perché è suo dovere denunciare i tentativi di stravolgere la Costituzione.
Avete annunciato l’intenzione di fare un appello al capo dello stato
Sì, perché sia garantito un minimo di parità di condizioni durante la campagna elettorale. Al momento non è così, ogni sera in televisione c’è il presidente del Consiglio che con la scusa delle più diverse cerimonie pubbliche fa campagna per il Sì. Dando corpo agli allarmi per la vittoria del No. Un ricatto continuo al quale spero proprio che i cittadini si sottrarranno con intelligenza.
A tre precise domande di Salvatore Settis l'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, replica ( non "risponde") con paroe che rivelano la statura dei complici di Matteo Renzusconi .
La Repubblica, 4 ottobre 2016
LA RIFORMA RICALCA
QUELLA DI BERLUSCONI
di Salvatore Settis
«Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, ex direttore della Scuola Normale di Pisa e editorialista di Repubblica, autore del libro Costituzione!(Einaudi, 2016) ci ha inviato una lettera aperta al presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha accettato di rispondergliı
ILLUSTRE Senatore Napolitano, ho la più grande considerazione per la Sua cultura politica e per la Sua figura, tra le poche di questi decenni che resteranno nella storia d’Italia. È proprio per questo che mi permetto di rivolgerLe rispettosamente tre domande a proposito della proposta governativa di modifica della Costituzione, sulla quale il popolo italiano si esprimerà in un referendum convocato secondo l’art. 138 della Carta.
Primo punto: la riforma che Lei oggi sostiene, e che ha sostenuto già da Capo dello Stato (al punto che il presidente del Consiglio l’ha definita “riforma Napolitano”), coincide in alcuni punti essenziali con la riforma Berlusconi-Bossi che Lei vigorosamente osteggiò con memorabili interventi, e che 16 milioni di italiani bocciarono nel referendum popolare del 2006. Analogo è il rafforzamento dell’esecutivo, in ambo i casi presentato come finalità delle modifiche. Assai simile è la metamorfosi del Senato (“federale” nel 2006, “delle autonomie” nel 2016), che in ambo i casi non esprime la fiducia al governo. Quasi identico al precedente del 2006, in questo nuovo tentativo di riforma, è il “bicameralismo imperfetto”, secondo cui ogni legge approvata dalla Camera dev’essere trasmessa al Senato, che può chiedere di riesaminarla, e deve comunque esprimersi sempre su numerose materie (artt. 55, 70, 72), nonché su tutte quelle che comportino «funzioni di raccordo» con le Regioni, i Comuni o l’Europa (art. 55). Quel che Lei, in un intervento al Senato del 15 novembre 2005, chiamò «una soluzione priva di ogni razionalità del problema del Senato, con imprevedibili conseguenze sulla linearità ed efficacia del procedimento legislativo» appare insomma assai vicino a quel che 56 costituzionalisti (tra cui 11 presidenti emeriti della Corte Costituzionale) hanno denunciato, nella riforma 2016, come «una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato, con rischi di incertezze e di conflitti». Di fronte a tali e tante affinità fra i due progetti di riforma costituzionale, e dato il Suo notevolissimo percorso attraverso le istituzioni, è naturale chiederLe: che cosa è cambiato in questi 10 anni perché Lei mutasse così radicalmente la Sua posizione?
Secondo punto. La proposta di riforma contiene alcune singolarità e incoerenze, fra le quali una che La riguarda anche personalmente, in quanto Presidente emerito. La riforma innova sull’elezione del Capo dello Stato, prevedendo che dal settimo scrutinio in poi bastino «i tre quinti dei votanti», cioè 220 voti sul quorum minimo di 366 (art. 64). Inoltre, secondo la Costituzione vigente (art. 67) «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione». La riforma Renzi-Boschi conserva tale funzione ai membri della Camera (art. 55), ma la toglie ai senatori, poiché (dice la relazione illustrativa) «il mandato dei membri del Senato è espressamente connesso alla carica ricoperta a livello regionale o locale », e perciò i senatori sono «rappresentativi delle istituzioni territoriali» (art. 57). Ma chi è stato Presidente della Repubblica, anche secondo la nuova proposta, è senatore a vita. Mi permetto perciò di chiederLe: che senso ha che Lei diventi, a norma della nuova Costituzione se approvata, rappresentante non della Nazione ma di Regioni e Comuni? Un’elezione del Presidente ad opera dei tre quinti non dell’assemblea ma dei votanti non ne inficia il ruolo di garanzia super partes? In che modo una tal riforma contribuirebbe alla dignità e autorevolezza del Capo dello Stato?
Infine: mentre Lei era ancora in carica come Presidente, un accreditato commentatore politico, Marzio Breda, scriveva sul Corriere della sera (1 aprile 2014) un articolo dal titolo “Da Napolitano un segnale sul percorso delle riforme”. In esso, citando una nota del Quirinale, Breda scrive che «la riforma per lui [il Capo dello Stato] è importante, anzi improrogabile», e va «associata alla legge elettorale ». E prosegue: «A questo proposito, basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J. P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indica nella “debolezza dei governi rispetto al Parlamento” e nelle “proteste contro ogni cambiamento” alcuni vizi congeniti del sistema italiano». Ora, il rapporto a cui si fa qui riferimento accusa le Costituzioni dei «Paesi della periferia meridionale, approvate dopo la caduta del fascismo », di avere «caratteristiche non adatte al processo di integrazione economica» perché risentono di «una forte influenza socialista» e sono «ancora determinate dalla reazione alla caduta delle dittature ». Il documento auspica che tali Costituzioni vengano prontamente modificate, e cita l’Italia come «test essenziale» in tal senso. Ma J.P. Morgan è la banca d’affari che sei mesi dopo questo rapporto dovette pagare una multa di 13 miliardi di dollari per aver venduto agli investitori prodotti finanziari pesantemente inquinati, contribuendo in modo determinante alla crisi finanziaria globale del 2008 ( Washington Post, 19 novembre 2013). La domanda è dunque: citando il rapporto J.P. Morgan in appoggio al Suo «segnale sul percorso delle riforme» Breda ha forzato la mano? Quell’analisi della banca americana può valere, come alcuni vorrebbero, come un argomento per riformare la Costituzione?
Ora che è finalmente certa la data del referendum, è urgente sviluppare la discussione sul merito della riforma e sulle sue ragioni. Una Sua autorevole risposta a queste poche domande sarebbe, io lo spero, un importante contributo in questa direzione.
I CONFINI DEL PREMIER
NON SONO DILATATI
di Giorgio Napolitano
Caro Professore, la ringrazio naturalmente per i generosi riconoscimenti rivolti alla mia persona già all’inizio della lettera: riconoscimenti peraltro introduttivi a domande insinuanti e ad aspre quanto infondate considerazioni relative al mio atteggiamento sulla riforma costituzionale approvata dal Parlamento.
Premetto che escludo di poter rispondere giornalisticamente su questa materia a questioni o osservazioni di singole personalità. Lo faccio qui brevemente, ed eccezionalmente, per cortesia verso il Direttore de La Repubblica.
Ma in generale, rinvio chiunque a quanto in materia ho detto e mi riservo di dire pubblicamente, rivolgendomi alla generalità degli interessati al confronto referendario in atto.
Ribadisco qui solo che non ho mai “mutato radicalmente” la posizione che assunsi sulla “riforma Berlusconi- Bossi”: della quale d’altronde non potetti nemmeno occuparmi ampiamente, o “vigorosamente”, in quanto entrai in Senato, chiamatovi come Senatore a Vita dal Presidente Ciampi, appena in tempo per pronunciare un sintetico intervento alla fine della discussione e alla vigilia del voto finale, il 15 novembre 2005. Una lettura non unilaterale e strumentale di quel mio testo mostra chiaramente che considerai essenzialmente come “inaccettabile”, di quella legge di riforma, il “voler dilatare in modo abnorme i poteri del primo ministro”, con un evidente “indebolimento dell’istituto supremo di garanzia, la Presidenza della Repubblica”. Del che non vi è traccia nella riforma attuale.
Diversi punti poi toccati dalla sua lettera, e sollevati da altri, hanno già ricevuto puntuali risposte da parlamentari autorevoli che sono stati gli effettivi protagonisti della definizione della legge, articolo per articolo, su cui il Parlamento si è espresso a larga maggioranza anche in Senato. Lei ne ha certamente preso nota, studiando e citando anche qualche fonte non italiana.
In quanto a me non sono, com’è ovvio, come Senatore di Diritto e a Vita, rappresentante elettivo della nazione, ma mi sentirò pienamente a mio agio anche nel nuovo Senato grazie a titoli di rappresentanza che mi sono stati conferiti con l’elezione a Presidente della Repubblica e con il successivo status attribuitomi dall’art. 59 della Costituzione.
Infine, per quanto mi riguarda, più in generale ho esposto organicamente le mie posizioni e i miei argomenti di carattere storico-istituzionale nell’ampio intervento in discussione generale alla I Commissione del Senato il 15 luglio 2015 (e nella dichiarazione di voto resa in Aula il 13 ottobre 2015). Sono certo che lei — nella lodevole grande attenzione che ha riservato a queste questioni, pur lontane dal campo di ricerca e di insegnamento in cui ha saputo eccellere — abbia letto attentamente il testo di entrambi quei miei interventi, peraltro facilmente a tutti accessibile. Per ausilio pratico, gliene invio comunque copia.
«La valenza di questo sciopero non può risolversi in una giornata ma deve diventare parte di un progetto.le donne esprimono un triplice potere, come donne, precarie e migranti, facendo valere politicamente la loro condizione specifica contro l’ordine globale del patriarcato neoliberale.»
connessioniprecarie online, 3 ottobre 2016 (c.m.c.)
«Qualunque potere non usi tu stessa sarà usato contro di te». Sulla pagina facebook Black Protest International queste parole di Audre Lorde accompagnano le ragioni delle donne polacche che oggi, lunedì 3 ottobre, scioperano contro la legge sull’aborto attualmente in discussione nel parlamento del loro paese.
Il significato della legge, che mira a eliminare anche le ultime eccezioni a una normativa già estremamente restrittiva, è chiaro: ciò che si discute nel parlamento polacco sono le condizioni politiche della subordinazione e dello sfruttamento di milioni di donne, il cui destino di «macchine da riproduzione» dovrebbe essere sancito per legge.
Un nuovo e più rigido «Ordo iuris», per riprendere il nome del gruppo che ha promosso l’iniziativa legislativa, deve essere organizzato a partire dal comando istituzionalizzato sul corpo delle donne. La #blackprotest, perciò, va ben al di là della rivendicazione di un diritto individuale alla scelta: facendo dello sciopero lo strumento della loro protesta, le donne polacche ambiscono a far valere il potere che esercitano nella produzione e riproduzione contro un ordine che pretende di usare quel potere contro di loro.
Lo scontro in atto in Polonia supera i confini nazionali. È certamente vero che la proposta di legge è avanzata e sostenuta da un governo di destra, che sta sovvertendo ogni procedura democratica, e in un contesto peraltro segnato dall’oltranzismo cattolico. Ed è altrettanto vero che, come sta avvenendo anche con il migration compact, il governo polacco non perde l’occasione di accentuare il suo attrito con l’Unione Europea, il cui parlamento ha criticato la proposta di legge considerandola una violazione delle fondamentali garanzie di libertà.
Tuttavia, anche questa politica nazionalistica e ultraconservatrice deve essere letta nella più vasta cornice delle politiche neoliberali poste in essere dall’Europa e dai suoi Stati. Come la libertà di muoversi, così anche la libertà di scegliere autonomamente sul proprio corpo va governata e, se necessario, repressa affinché sia funzionale agli imperativi della produzione e riproduzione sociale. Le donne polacche sono libere di accettare uno sfruttamento pari o più intenso rispetto a quello degli uomini, ma non sono libere di decidere su se stesse e sul proprio corpo né quindi di mettere in questione il dominio maschile.
La maternità diventa così una coazione sociale restando al contempo una responsabilità completamente individuale, come dimostra la pesantissima pena che sarebbe comminata alle donne che abortiscono, nel caso in cui la legge fosse approvata.
Come il Piano italiano per la fertilità – l’altra faccia dei ripetuti attacchi alla legge 194, che pure formalmente ancora garantisce il diritto di abortire – la legge polacca mira a neutralizzare gli effetti socialmente sovversivi del rifiuto della maternità come destino. Questo rifiuto le donne polacche lo hanno espresso in molti modi: non solo attraverso interruzioni ‘clandestine’ della gravidanza, praticate in Polonia nonostante le restrizioni imposte dalle normative statali oppure all’estero, ma anche attraverso la migrazione, che ha drasticamente trasformato le tradizionali forme patriarcali di organizzazione sociale, in primo luogo la famiglia, e che ha permesso alle donne di sottrarsi alla loro coazione.
L’abolizione e penalizzazione dell’aborto che questa legge vuole introdurre mirano quindi a restringere questi spazi di libertà femminile. Ciò non significa evidentemente un «ritorno tra le mura domestiche» delle donne polacche, il cui lavoro continuerà a essere essenziale alla produzione di ricchezza almeno quanto il loro salario – e le loro rimesse, nel caso delle donne migranti – continuerà a sostenere la riproduzione delle loro famiglie.
Il punto è semmai riaffermare la maternità come baluardo simbolico del dominio maschile e come fulcro della riproduzione dei ruoli e delle autorità di cui il neoliberalismo si alimenta. La dimensione di questo patriarcato neoliberale, assieme ai movimenti delle donne per sottrarsi alla sua presa, conferiscono a questa protesta un significato transnazionale, testimoniato dalla sua diffusione in decine di città europee: mentre le donne migranti provenienti dalla Polonia hanno la pretesa di far sentire la loro voce anche al di là dei confini, la #blackprotest riguarda la possibilità per tutte le donne, in ogni parte d’Europa, di rifiutare il comando neoliberale sul loro corpo.
In questo modo, lo sciopero diventa una pratica femminista in cui le donne esprimono un triplice potere, come donne, precarie e migranti, facendo valere politicamente la loro condizione specifica contro l’ordine globale del patriarcato neoliberale. Lo sciopero diventa una pratica femminista perché aspira a interrompere la produzione e riproduzione sociale a partire dal protagonismo di coloro che ne sono il pilastro.
Oggi le donne polacche non andranno al lavoro, sfidando tutti i limiti imposti dalla legislazione sullo sciopero e dalla loro quotidiana precarietà: le insegnanti e le docenti universitarie sospenderanno le lezioni, le madri non porteranno i bambini a scuola per consentire alle maestre che non possono scioperare di non lavorare, le precarie chiederanno il permesso speciale per donare il sangue in modo da potersi astenere dal lavoro o prenderanno un giorno di ferie.
L’importanza e la dimensione di massa della protesta – cominciata con una manifestazione dei 30mila donne a Varsavia nel mese di marzo – sono tali da aver obbligato alcune imprese a riorganizzare il lavoro affidando i turni di lunedì ai soli uomini, mentre il Teatro nazionale di Varsavia chiuderà i battenti e in quello Breslavia le cassiere saranno sostituite nelle loro mansioni dagli uomini.
I limiti oggettivi alla partecipazione saranno superati dando a tutte le donne la possibilità di manifestare in modo simbolico, lavorando con un nastro nero – che richiama il colore scelto per contrassegnare questa lotta e la sua rabbia – o diffondendo sui social network immagini accompagnate dall’hashtag ormai globale #CzarnyProtest. Alla fine della giornata, in settanta città polacche sono organizzate manifestazioni di piazza per dare a questa mobilitazione di massa la sua massima visibilità.
Non si tratta però soltanto di un’astensione dal lavoro produttivo: l’invito a interrompere ogni attività domestica e di cura, l’appello rivolto agli uomini a prendere parte a questa protesta facendo tutto ciò che è necessario per consentire alle donne di esserne protagoniste rompono il confine tra il pubblico e il privato e sovvertono la divisione sessuale del lavoro che lo sostiene.
Questo sciopero è uno sciopero sociale perché le donne che lo stanno mettendo in pratica rifiutano contemporaneamente la doppia subordinazione e lo sfruttamento che la produzione di ricchezza e la riproduzione della società impongono loro. Per questa ragione, lo sciopero delle donne polacche è uno sciopero politico: esso non difende le prerogative di una categoria, ma rompe gli assetti tradizionali dell’organizzazione sindacale del lavoro per far valere un rifiuto radicale della subordinazione e dello sfruttamento, come pure di ogni tentativo di criminalizzare quel rifiuto.
Esso non sopprime la differenza specifica delle donne in un generico appello all’unità, ma la afferma e in questo modo punta al cuore dell’ordine neoliberale e delle politiche che lo sostengono. Anche per questo, lo sciopero chiama in causa gli uomini: anziché difendere il loro privilegio, se davvero vogliono rovesciare sfruttamento e oppressione dovrebbero riconoscere la natura patriarcale dell’ordine neoliberale di cui essi stessi sono agenti e quindi scegliere da che parte stare.
Oggi in Polonia le protagoniste dello sciopero sono le donne. Ed è in un certo senso ironico che un governo che sta sistematicamente respingendo profughi e migranti si trovi in casa una protesta che assume il modello della «giornata senza di noi» inaugurata dai migranti latini negli Stati Uniti. Attraverso lo sciopero, queste donne si stanno riprendendo il potere che vuole essere usato contro di loro e sfidano i confini fisici e simbolici che sostengono la loro subordinazione come donne, precarie e migranti.
La valenza di questo sciopero non può risolversi in una giornata ma deve diventare parte di un progetto. Esso attraversa i confini, esprime un rifiuto di massa delle condizioni politiche che obbligano le donne alla subordinazione, ambisce a far valere il potere di una parte della società contro il suo ordine complessivo. Per tutto questo, lo sciopero delle donne polacche indica la direzione per ogni progetto di sciopero che abbia la pretesa di essere sociale e di sovvertire il presente.
il manifesto, 2 ottobre 2016
COME DIFENDERE IL LICEO CLASSICO
DAI SUOI NEMICI
di Tiziana Drago
Eschilo e i mercanti. L'obiettivo è limitare gli studi classici solo ai ricchi. Reagire alla volontà di sanzionare la criticità dei saperi teorici rispetto al mercato
«Tutte le volte che negli studi di antichità si fanno sentire esigenze di rinnovamento, tanto più è necessario, se non si vuole costruire sulla sabbia, mantenere l’esercizio del “mestiere”». D’altra parte, «senza il possesso della deprecata »tecnica» l’interesse storico rimane velleitario». Così un filologo materialista e «leopardiano» come Timpanaro prendeva posizione, negli anni ’70, contro l’eclettica disponibilità con cui la filologia inglobava i nuovi strumenti strutturalistici e antropologici, spesso in nome di malcelate «civetterie interdisciplinari».
Oggi, nel contesto duro e inasprito del declino italiano, in cui il diritto alla formazione è diventato un costo non più sostenibile, l’ipocrisia dilagante ammanta di ragionevolezza l’attacco portato al cuore delle discipline classiche sotto forma di auspicata amputazione della lingua greca e latina. L’argomentazione si sposta di volta in volta dall’ambito statistico (il calo di iscrizioni al liceo classico) a quello economico (i saperi improduttivi, la spesa senza ritorno immediato) a quello sociologico in versione falsamente egualitaria (gli studi classici come sacca di privilegio: è l’argomento di detrattori di comprovato egualitarismo quali Vespa, Ichino, Berlinguer).
L’amorevole premura di preservare i più giovani dalla innegabile difficoltà di interpretare un testo antico è un regalo avvelenato che cela molti degli inquietanti propositi di trasformazione della scuola e dell’università che sono nell’aria e la volontà di sanzionare la colpevole distanza dal mercato dei saperi teorici. Tanto più autoritario questo intendimento, in un curioso connubio di liberismo selvaggio e controllo dei destini individuali e collettivi, quando nega la possibilità di studiare le lingue antiche nelle loro sfumature all’interno dell’unico curriculum scolastico pubblico in cui questo è ancora consentito. Quando questo progetto sarà compiuto, chi può avrà a disposizione il college privato in cui studiare a dovere le lingue classiche e chi annaspa capirà senza equivoci che il liceo classico è roba da ricchi e dovrà accontentarsi di qualche briciola di cultura dell’antico.
Racconta Franz Mehring che Karl Marx «ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale, restò sempre fedele ai suoi antichi greci e avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine anime di mercanti che volevano togliere agli operai l’interesse per la cultura antica».
STUDENT ACT:
RENZI E LA FILANTROPIA
DEL CAPITALE UMANO
di Roberto Ciccarelli
Diritto allo studio. Invece di finanziare e rifondare il sistema del diritto allo studio il governo eroga micro-misure simboliche per 500 studenti «plusdotati». Il ministero dell'Economia invita a investire in Italia perché i laureati costano meno. Bassi salari e alla competizione al ribasso nel lavoro della conoscenza. La filosofia del capitale umano è parte integrante della tradizionale politica economica italiana
Il «capitale umano» al tempo di Renzi. Vediamo cosa significa questa espressione neoliberale, passepartout per le politiche neoliberiste che si applicano all’istruzione e alla ricerca nella legge di bilancio prossima ventura. La misura simbolica che conferma la trasformazione dello Stato in un’agenzia filantropica. Si parla di premiare 500 studenti «plusdotati» o «gifted» delle scuole medie o dei licei adottandoli come si faceva nell’Inghilterra raccontata da Charles Dickens. La misura, finanziata con 10 milioni di euro prevede un assegno mensile, l’assegnazione di un tutor e la possibilità di inviare questi «figli della nazione» all’estero per coltivare un «talento» individuato con strumenti e indicatori «meritocratici» ancora tutti da identificare. La misura compassionevole si aggiunge al bonus più populista che c’è: i 500 euro del «bonus cultura» per i 18enni per libri, musei e cinema. Si tratta di una carta prepagata di Poste Italiane riservata quest’anno a oltre 570 mila ragazzi dal costo di 290 milioni.
UN’ALTRA REGOLA RENZIANA: invece di istituire un reddito per tutti, quindi anche per gli studenti, si discriminano categorie sociali e si segmenta il corpo sociale, non più con criteri di merito ma generazionali. Prevista una manciata di borse di studio fino a 15mila euro l’anno per studenti meritevoli e con redditi bassi che potranno pagarsi tasse e affitti. Voi direte: in una casa dello studente, ad esempio. Proprio per nulla. La filantropia neoliberista esclude il rifinanziamento – e il ripensamento – del diritto allo studio agonizzante per tagli che hanno moltiplicato le diseguaglianze tra gli studenti. Si parla di uno «sgocciolamento» di microrisorse che non rimediano alla dismissione programmatica del welfare studentesco. Anche quest’anno il governo elargirà la monetina di consolazione per il diritto allo studio: 50 milioni del Fondo integrativo statale (Fis). Ne servirebbe quantomeno 200 all’anno per tutti gli studenti che ne hanno diritto. In totale saranno stanziati 450 milioni, comprensivi di una «no tax area» per chi ha un Isee tra 12 e15 mila euro con esenzione dalle tasse universitarie. Per essere decente l’esenzione dovrebbe interessare chi ne ha uno inferiore ai 28 mila euro. Il sottosegretario Faraone ha annunciato un confronto. Prima impongono le norme, poi ne vogliono parlare. Concertazione ai tempi della meritocrazia. Nome in codice dell’operazione è Student act.
DIETRO IL FATALE ANGLISMO c’è la filantropia dickensiana. Il suo risvolto reale si trova nella brochure «Invest in Italy» del ministero dell’Economia diffusa alla presentazione del piano «Industria 4.0». «L’Italia – si legge – offre un livello competitivo dei salari che crescono meno che nel resto dell’Ue». Bassi salari e competizione tra la forza lavoro specializzata. Questo è il «capitale umano» nella neolingua renziana. È il futuro meritocratico che a«Industria 4.0». «L’Italia – si legge – offre un livello competitivo dei salari che crescono meno che nel resto dell’Ue». Bassi salari e competizione tra la forza lavoro specializzata. Questo è il «capitale umano» nella neolingua renziana. È il futuro meritocratico che attende gli studenti.
Riforme. Dalla post-democrazia di fatto alla post-democrazia di diritto».
ilmanifesto, 2 ottobre 2016 (c.m.c.)
Sino ad oggi il dibattito sul referendum si è mosso tra questi due poli: le precisazioni dei costituzionalisti contrapposte e l’odio per la casta e la politica della gente.
L’esempio più chiaro di questa contrapposizione è stato il dibattito di venerdì scorso tra Renzi e Zagrebesky. Si è trattato del classico dialogo tra sordi o meglio, tra due persone che parlano lingue diverse.
Zagrebesky faceva appello alla teoria, in particolare ai principi giuridici che una costituzione deve rispettare per essere accettabile.
Renzi conduceva il dibattito in nome del «fare». Ed usava la tecnica all’americana di abbattere, a qualsiasi costo, la credibilità dell’avversario con attacchi, neanche tanto velati a gufi, parrucconi, professori, che paralizzano il fare, trincerandosi nelle loro torri d’avorio da «pensionati d’oro».
Mentre Zagrebesky cercava di spiegare le ragioni del no, Renzi voleva solo demolire l’immagine del suo avversario agli occhi della gente comune.
Ma a parte questa impostazione all’americana, per cui sicuramente si era allenato con coach e spin doctor, anche il dialogo appariva privo di senso. Perché quando Zagrebesky illustrava un concetto, Renzi lo traduceva velocemente in un problema concreto a cui le sue leggi avrebbero da tempo trovato soluzione.
Come se di fronte a Socrate che parla del concetto di cavallinità, Renzi rispondesse: abbiamo disciplinato l’uso del cavallo su strada con numerose normative che riguardano l’uso del basto e la ferratura.
Probabilmente pur essendo in televisione il dibattito era seguito da un pubblico «alto» che ha seguito il discorso del professore Zagrebesky. Ma il grosso della campagna si giocherà in contesti più popolari ed oggi l’astrazione, la concettualizzazione, sembrano provenire da un passato «dipinto col pelo di cammello».
Secondo me il discorso dovrebbe invece partire da un punto di vista globale. In che modo una revisione della Costituzione, può avere conseguenze non solo sulla politica, ma anche sull’economia e perché banche e multinazionali sponsorizzano il SI con tanta aggressività da minacciare tutte le possibili disgrazie nel caso di vincita del NO?
E qui il discorso si fa difficile.
Il motivo è che le analisi globali vengono giudicate ideologiche quando non cospirazioniste. E si dice che bisogna giudicare le cose in modo semplice, a partire dal contenuto concreto della legge. Che prevede comunque meno indennità da pagare e rappresenta quindi un risparmio.
Sono figlio di una generazione che ha appreso a dubitare di ogni evidenza.
Con il crollo del muro di Berlino è venuto meno anche il concetto di lotta di classe. Se non esistono socialmente interessi in contrasto, perché dovrei diffidare?
Intanto la forbice sociale si è così divaricata da creare la crisi permanente dei consumi. Oggi ci insegnano che l’arricchimento di pochi genera benessere e lavoro per tutti. Peccato che questa redistribuzione dei redditi sul territorio tardi a realizzarsi. In realtà nella crisi proletariato e classe media si sono impoveriti, sino a cadere in miseria, ma i ricchi sono diventati infinitamente più ricchi di quanto non lo fossero prima della crisi stessa.
Io continuo a dubitare. Ci hanno convinto che la lotta di classe è pura ideologia per praticarla contro di noi e vincerla senza che ce ne rendessimo conto.
«La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi», ha dichiarato Buffet. Oggi le tutele sociali devono essere espulse dalla costituzione per rendere le masse prive di potere contrattuale ed assoggettabili.
L’attuale disegno di riforma costituzionale a firma Boschi, è stato steso sotto le direttive della banca J.P. Morgan, che ha definito le costituzioni dei paesi del Sud Europa «comuniste».
Se ormai il comunismo non c’è più, per le élites finanziarie anche il semplice testo costituzionale pecca di estremismo. Perché, a differenza che negli Stati Uniti, le nostre costituzioni partono da un concetto di democrazia che non esalta l’individuo e la sua lotta contro tutti, ma la società e la cooperazione in quanto connaturate alla natura umana. «L’uomo è un animale politico».
Non esiste democrazia senza bene comune. Una democrazia di individui in lotta per il bene personale è un ossimoro. Questo è tanto più valido in un’epoca in cui le élites sono multinazionali e depredano ogni territorio a cui hanno libero accesso.
Vorrei ricordare il precedente del referendum di dieci anni fa.
Allora fu respinta la riforma perché, in virtù dei suoi molteplici conflitti di interessi, gli italiani ritennero pericoloso dare tutto il potere a Berlusconi. Gli interessi di Berlusconi erano comunque dentro i confini del Paese. Il suo ulteriore arricchimento poteva aver ricadute di occupazione e fiscali qui. Anche Mussolini, a suo tempo, con la legge Acerbo, gemella dell’Italicum, concentrava il potere nelle sue mani per promuovere l’autarchia.
Oggi banche e multinazionali non hanno residenza se non in paradisi fiscali.Esse impongono trattati come il TTIP che avranno la conseguenza di avvelenarci senza neppure un ritorno in chiave di lavoro o di ricchezza. Trattati come questo vanno sottoscritti in fretta, prima che l’opinione pubblica si opponga e prima che si formi un’opposizione parlamentare.
L’eutanasia dell’opposizione perseguita da Renzi in vari modi ed oggi con la riforma elettorale, ha questo scopo. «Lasciatemi lavorare» significa: lasciatemi decidere senza controllo, affidando il paese a chi ritengo opportuno.
Questo sistema di governo in cui apparentemente il potere è affidato al popolo, ma il popolo è di fatto esautorato di ogni potere si chiama post-democrazia.
Ecco, con la riforma costituzionale, siamo chiamati a ratificare una post-democrazia di fatto per trasformarla in una post-democrazia di diritto.
I
l trattato per il commercio tra Unione europea e Canadà ha gli stessi contenuti del TTIP: privilegia gli interessi economici delle aziende ai diritti sociali e ambientali dei cittadini: la democrazia all'oligarchia dei potenti. %Attac, 30 settembre 2016.
Mentre il TTIP sembra in netta difficoltà (ma massima attenzione ai colpi di coda di una sua approvazione “light”- ministro Calenda lancia in resta- nel prossimo incontro del 3 ottobre a New York), diventa sempre più concreto il “piano B” delle grandi multinazionali e delle lobby finanziarie per far rientrare dalla finestra quello che per ora, grazie alla straordinaria mobilitazione internazionale, sembra faticare ad entrare dalla porta.
Stiamo parlando del CETA, ovvero dell’accordo di libero scambio tra UE e Canada, che il prossimo 27 ottobre verrà ufficialmente firmato per giungere al voto del Parlamento Europeo entro dicembre.
Si tratta del primo vero accordo commerciale su larga scala dell’Ue con una grande nazione occidentale, il Canada, e promette vantaggi commerciali per 5,8 miliardi di euro all’anno, un risparmio per gli esportatori europei di 500 milioni di euro all’anno (grazie all’eliminazione di quasi tutti i dazi all’importazione) nonché -ca va sans dire- 80mila nuovi posti di lavoro.
Dunque qual è il problema? Lo stesso del TTIP e di tutti gli accordi di libero scambio, che servono a mettere in sicurezza il modello liberista, ponendo definitivamente i profitti e gli interessi delle grandi imprese fuori dal Diritto e dai diritti.
Credo sia chiaro a tutti come l'approvazione del CETA, oltre che un danno di per sé, diventerebbe il vero cavallo di Troia per far passare, nei fatti prima ancora che nella normativa, il TTIP.
A CETA approvato, la maggior parte delle multinazionali americane, già attive sul territorio canadese, potranno citare in giudizio nei tribunali internazionali privati le aziende europee, avvalendosi della clausola Ics (Investment court system, ovvero il sistema giudiziario arbitrale per la difesa degli investimenti), omologo all'organismo arbitrale inserito nel TTIP.
Sarà il Parlamento Europeo a rappresentare le preoccupazioni dei cittadini? Come per tutti gli altri trattati, anche il CETA è stato negoziato con il minimo coinvolgimento dei parlamentari europei e l’accordo, composto da più di 1500 pagine, è stato reso disponibile in tutte le lingue dell’Unione solamente dal luglio 2016.
Saranno i Parlamenti nazionali a non ratificare un accordo che viola i diritti sociali e del lavoro, privatizza i beni comuni e mette a rischio la sicurezza ambientale e alimentare? Naturalmente, la gran parte dei parlamentari non sa nemmeno di cosa si stia parlando, ma nel caso avessero intenzione di informarsi per poter decidere, ecco servito per loro l'ennesimo attentato alla democrazia: è notizia recente l'appello di 41 Parlamentari europei -in prima fila Alessia Mosca del PD- che chiedono che il CETA entri in vigore senza la ratifica dei Parlamenti nazionali!!
Dovrà essere ancora una volta la mobilitazione dei cittadini a fermare il CETA, il TTIP e tutti gli accordi che vogliono che diritti, beni comuni e democrazia siano considerati variabili dipendenti dai profitti.
Sarà un autunno caldo e la mobilitazione per fermare CETA e TTIP non potrà che incrociare la battaglia per il NO al referendum costituzionale.
Perché entrambi parlano di democrazia: una cosa troppo seria per lasciarla in mano agli interessi finanziari.
Riferimenti
Per sapere che cos'è il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) leggi su eddyburg
l'articolo do Giovanna Ricoveri e l'intervista a Colin Crouch.
Le parole di un erede autentico del PCI: «Il Parlamento funziona male? Sì, ma solo il Parlamento è lo specchio del paese, è la casa di tutto il popolo “ricchi e poveri, borghesi e proletari”. Non è la privativa di nessuno. Solo una vittoria del NO può consentire di riaprire il discorso sul futuro dell’Italia».
L'Unità, 30 settembre 2016
Ho molto esitato prima di decidere che tra due mali (quali sono come dirò i quesiti del referendum Costituzionale) credo che sceglierò quello che mi pare – dopotutto – il minore: il No. Mi rendo conto benissimo degli interrogativi che anche questa scelta apre.
Ma di che cosa stiamo parlando? Del Senato? Suvvia, è l’ininterrotto parlare, annunciare, promettere “rottamare” dello stesso Matteo Renzi che ci dice la verità. È su di lui che egli ci chiede ogni giorno più chiaramente di votare. Egli chiede un plebiscito. Non è chiaro? Questo è il punto, gravido di enormi conseguenze. Ed è questo che avverrà il 4 dicembre tra lo stupore e disappunto di tanti autorevoli custodi della Costituzione repubblicana.
Avverrà che milioni di italiani si scontreranno in modo lacerante e drammatico non sui buoni argomenti di Violante oppure su quelli di Rodotà (che essi ignorano) ma sul voto popolare e diretto del Capo del governo. Ponendo fine, così di fatto al regime parlamentare e all’attuale divisione dei poteri. E temo che un solco resterà e tutta la comunità nazionale già così divisa ne pagherà le conseguenze.
A me questo non sta bene. È chiaro?
Io ho preso le armi per dare all’Italia un Parlamento. Io ricordo i tanti che allora volevano un regime politico più “avanzato” nel senso di dare poteri più diretti al popolo (i CLN). E ricordo la risposta di Togliatti: no, il PCI vuole una repubblica parlamentare. E su ciò si fece la Costituzione. Il Parlamento funziona male? Sì, ma solo il Parlamento è lo specchio del paese, è la casa di tutto il popolo “ricchi e poveri, borghesi e proletari”. Non è la privativa di nessuno.
Di conseguenza ma c’è una preoccupazione altrettanto grande che domina i miei pensieri. È l’idea perfino angosciosa (che mai avevo avvertito così forte) che il destino dell’Italia, dell’Italia come comunità nazionale e come organismo statale rischia di non essere più nelle nostre mani. Basta un accenno ai fatti: la disgregazione in atto dell’unità europea, le guerre feroci che insanguinano le coste del Mediterraneo, la massa degli emigranti che preme sulle nostre coste; tutto ciò insieme alla sensazione che la grande scommessa di rilanciare lo sviluppo italiano bloccato da più di 20 anni (e certo non per colpe solo di Renzi) quella scommessa che Renzi si era illuso di vincere con la straordinaria energia del renzismo (un uomo solo al comando, chi non sta con me è contro di me, lo svuotamento del partito dei sindacati degli organismi sociali intermedi) mi pare fallita.
Siamo arrivati a un punto di svolta. Il problema non è tecnico-economico. È altamente, più che istituzionale, politico. Riemerge la sostanza storica del problema italiano. Tutti comunicano tra loro ma nessuno conta davvero, aumentano i disoccupati e meno del 50% degli italiani ha un lavoro. Di qui la necessità di porre su basi politiche, sociali e morali più ampie lo sviluppo del paese. È solo così che nel passato siamo usciti dalle crisi più gravi: le svolte giolittiane e il riconoscimento dei sindacati, il patto con Turati, l’ide a dell’Ulivo e l’accordo sulla scala mobile tra Ciampi e Trentin, per non parlare dell’unità nazionale del dopoguerra e la ricostruzione. Come non si capisce che questo è il problema principale? Di fronte a un paese che invecchia, non fa figli, non da più lavoro in patria alla nuova generazione? Non illudetevi amici che il problema è chi comanda. È invece con chi si comanda. Con o senza il proprio popolo. Popolo dico. Popolo vero, non opinione pubblica; sono due cose diverse.
Ecco perché considero disastroso questo referendum plebiscito. E contro il bisogno di una svolta in senso più comunitario e di ricostruire il patto tra gli italiani del Nord e del Sud. Ecco perché sono arrivato alla conclusione che solo una vittoria del NO può consentire di riaprire il discorso sul futuro dell’Italia. Il problema non è Renzi, un uomo che resta per me assai notevole e un amico. Egli può benissimo continuare a governare. È la partecipazione del popolo italiano, alla vita pubblica, che è ormai quasi inesistente. È il nostro modo di stare insieme. È il partito ridotto a puro servizio del Capo, tramite Serracchiani che non funziona.
Queste cose vanno dette anche alla sinistra. La quale deve ritrovare il senso vero della sua missione, che è quello di ridare voce al popolo italiano. Mi hanno commosso le facce di quel popolo meraviglioso che è apparso sugli schermi delle televisioni tra le macerie del terremoto. Perfino commovente nella sua forza d’animo, nel sentimento di sé e della sua terra, nel suo slancio solidale.
Qui sta la leva per l’innovazione. Sta nella straordinaria creatività del popolo italiano.
».
Il manifesto, 1 ottobre 2016 (c.m.c.)
Stavolta Matteo Renzi si è preparato benissimo. Per il secondo confronto in «Sì o No» su La7, condotto da Enrico Mentana, il presidente del consiglio si è fatto il mazzo come uno studente che all’esame universitario che sa di dover affrontare il luminare. Ripassando il dossier anche sul volo di ritorno dal funerale di Shimon Perez a Gerusalemme. E si capisce tanta solerzia: il premier deve affrontare il professore Gustavo Zagrebelsky, uno dei più blasonati esponenti del no, già presidente della Corte Costituzionale.
Ma agli esami la tensione gioca brutti scherzi. Renzi attacca la sua mitraglietta, «sono trent’anni che la classe politica dice che si deve semplificare il bicameralismo, dal decalogo Spadolini dell’82», ma il professore, come farebbe ad un esame, inizia con una bonaria presa in giro: «Vedo intanto che forse ha ripensato ai discorsi sui parrucconi, rosiconi, gufi, altrimenti non avrebbe perso tempo, come stasera, con uno di loro…», e si concede persino una battuta: credeva al massimo di poter incontrare la ministra Boschi. Renzi neanche sorride, ha dimenticato la sua polemica sui professoroni, e oggi finalmente un po’ se ne vergogna: «Non mi sono mai permesso di dire che lei è un parruccone». Il professore ribatte: «Spero che non parli di gufi per l’avvenire», ma Renzi è nervoso, «Prof, venga al merito». Più tardi però sarà lui a dimenticare il merito attaccare Zagrebelsky su sue precenti posizioni. Anche lì Zagrebelsky non se ne cura, spiega che i contesti sono importanti: «Se avessimo voluto parlare delle sue contraddizioni…».
I due vengono da due mondi diversi. Renzi incalza con domandine da Lascia o raddoppia, perfette per la tv. «Davvero crede che ci sia un rischio di svolta autoritaria? In che articolo della riforma?». E il professore dialoga con calma e con pazienza che poco hanno a che vedere con i tempi della tv, si concede persino paradossi: «Rischiamo di passare da una democrazia a una oligarchia. La Costituzione di Bokassa non è molto diversa da quella degli Stati Uniti, ma ha una resa diversa, che dipende dal contesto. E la questa riforma ha una resa che dipende dall’Italicum». Renzi ammette che la legge elettorale va cambiata ma «il sistema dei capilista bloccati non piace neanche a me».
Sull’Italicum il dibattito va avanti a lungo. Zagrebelsky insiste sul combinato disposto fra le due leggi, quella elettorale equella costituzionale, e non ci sta al giochino del presidente, e cioè assicurare che la legge elettorale cambierà.E se non cambiasse? E come cambierà?
Anche sul Quirinale, i due sono agli antipodi. Zagrebelsky insiste a volare alto: «In democrazia chi vince le elezioni non ha solo vinto, è quello incaricato di un grave incarico, ma non è che per cinque anni i vinti non contino nulla. Perché mi guarda così?». Sì, perché Renzi siè preparato sul bignami della sua riforma, ma se è costretto a confrontarsi su un pensiero un po’ più lungo, sulla visione che c’è dietro la sua riforma, perde la battuta. Non capisce il senso vero delle parole del professore e quindi replica che «in tutto il mondo c’è chi vince e chi perde».
«La ragione per cui il bicameralismo paritario non funziona è che le forze politiche non sono coese», e ancora aggiunge «La riforma non funzionerà, il nuovo senato o non funzionerà o porterà ulteriori complicazioni» , continua il professore. Il premier ribatte: «Ma lei, che è stato presidente della Corte costituzionale, perché mi parla di politica?». «Perché i costituzionalisti non devono pensare non ai singoli governi. Questa riforma, più la legge elettorale, in altra forma raggiunge un risultato di premierato assoluto, più forte del presidenzialismo».
Renzi , quello che cerca i voti della destra, davanti al professore non vuole ripeterlo: «Lei sta dicendo una cosa che non e’ vera. La riforma di Berlusconi dava al presidente del consiglio il potere di sciogliere le Camere. Ma cosa sta dicendo?». Renzi torna ai vecchi cari slogan. «Noi abbiamo smosso la palude, ma perché volete tornare alla palude?». E già, la palude dei primi tempi, quando Renzi aveva il vento in poppa. Il solo fatto di accettare i confronti televisivi rende evidente che i tempi di quelconsenso sono finiti.
«Happy birthday Cgil. Il sindacato compie 110 anni e deposita in Parlamento 1 milione e 150 mila firme a sostegno dello Statuto del lavoro 2.0. La sfida dei tre referendum su ticket, appalti e articolo 18».
Il manifesto, 30 settembre 2016 (c.m.c.)
L’antidoto al Jobs Act della Cgil è finalmente maturo: la Carta dei diritti universali del lavoro ha raccolto un milione e 150 mila firme e adesso approda in Parlamento. La segretaria Susanna Camusso ha consegnato ieri mattina gli scatoloni con le sottoscrizioni alla Presidente della Camera Laura Boldrini, proprio nel giorno del centodecimo compleanno del sindacato: la sfida, a questo punto, sarà quella di portare effettivamente alla discussione delle due Camere la proposta di legge di iniziativa popolare, evitando che come tante altre finisca in un cassetto.
La giornata della Cgil è proseguita poi in Piazza del Popolo, con la festa «Rosso vivo»: cantanti e artisti si sono esibiti per augurare happy birthday al maggior sindacato italiano. Susanna Camusso ha anche intonato «Bella ciao» insieme ai Modena City Ramblers e alla piazza, e molti si saranno chiesti se quella canzone sia in effetti in sintonia con questo governo, le sue leggi, ma anche con l’opposizione: fatta salva la sinistra, non certo con centrodestra e Lega, ma lo stesso dialogo con l’M5S è complicato se non assente. Più probabilmente avranno cantato con la Cgil i braccianti pugliesi, gli operatori dei call center, dei fast food e delle pulizie, i metalmeccanici e i lavoratori della logistica.
La Carta dei diritti universali riscrive in 97 articoli non solo il vecchio Statuto del 1970 – glorioso, ma sicuramente da ammodernare alla luce dei cambiamenti avvenuti negli ultimi 45 anni – ma soprattutto corregge le tante storture intervenute successivamente (ad esempio con la legge 30) dando spazio a due concetti fondamentali: uguaglianza e inclusione.
Il principio lo ha ricordato la stessa Camusso dal palco: «A qualsiasi categoria appartieni, qualsiasi contratto tu abbia, dovrai avere un corredo di diritti uguali per tutti in quanto lavoratore o lavoratrice». E la contrattazione, le leggi, dovranno «includere»: «Includere i tanti invisibili che un tempo avevano rapporti precari e oggi vengono impiegati in nero o con i voucher». Le parole «uguaglianza», «solidarietà», «che noi applichiamo oggi ai migranti e a chi chiede rifugio dalle guerre, dobbiamo farle vivere anche nel lavoro», spiega ancora la leader Cgil: messaggio che ormai senti pronunciato soltanto dal sindacato, perché al contrario la politica vive di distinguo, e spesso alza muri, gioca sulla disuguaglianza.
La Carta dei diritti è integrata da tre referendum – su voucher, appalti, e licenziamenti – che hanno raccolto 1,1 milioni di firme ciascuno: la consultazione potrebbe essere indetta già per la primavera 2017.
Nel suo discorso dal palco, Camusso non ha fatto gli auguri né a Silvio Berlusconi, né a Pierluigi Bersani, che come la Cgil ieri facevano il compleanno. Ha citato un’altra festeggiata: «Mafalda, la bimba dei fumetti, che ci guarda e dice No, che parla delle ferite di questo mondo. Le guerre e il bombardamento degli ospedali dove spesso ci sono bambini: dobbiamo avere il coraggio di opporci, di accogliere chi cerca rifugio in Europa, di dire no a chi vuole costruire muri».
Subito dopo la segretaria Cgil si è rivolta al governo, polemica: «Perché tra i tanti “più” che cita, dimentica il “più” registrato dai voucher? Lo vogliamo dire che è questa la nuova forma di sfruttamento, che ai giovani vengono proposti al posto di qualsiasi tipo di contratto, e che spesso vengono accoppiati al lavoro nero? E perché – ha proseguito, parlando idealmente al premier Renzi, al ministro Poletti – si dimenticano un altro “più”: l’aumento dei licenziamenti che è iniziato dal passato trimestre?».
Dall’altro lato la Cgil in questi giorni è al tavolo delle pensioni, è stata invitata di nuovo a concertare dopo circa due anni di black out: Camusso ha difeso il verbale sottoscritto con il governo e ha rilanciato, chiedendo che venga riconosciuto «il principio che i lavori non sono tutti uguali».
Tornando alla Carta dei diritti universali, la segretaria ha aggiunto di aver chiesto alla Presidente della Camera Boldrini «che la proposta di legge non rimanga chiusa in un cassetto». «È assurdo – ha spiegato – che in un paese democratico il Parlamento non discuta una proposta di legge sottoscritta da più di un milione e centomila persone».
La Cgil, dal canto suo, «quella proposta comincerà a farla vivere subito, nell’azione quotidiana e nella contrattazione». Equo compenso, tutele come la maternità, la malattia, i riposi, la salute e sicurezza sul lavoro. Ma anche la formazione permanente, il diritto di espressione e di partecipazione al sindacato. L’esigenza di una legge sulla rappresentanza e la democrazia, l’efficacia della contrattazione. Questi gli obiettivi della Carta, la materia dei suoi 97 articoli.
Senza dimenticare ovviamente i tre referendum, sfida ancora più complessa visto che ovviamente necessiteranno del quorum. «Dobbiamo convincere milioni di italiani a votare per il referendum – dice Camusso alla piazza – E potremo farlo se useremo una parola che sembra essere stata abolita: solidarietà».
«Il primo quesito – ricorda la segretaria della Cgil – riguarda i voucher». Il sindacato chiede di abolirli completamente, perché «sono la nuova grande malattia della precarietà del nostro Paese». Il secondo vuole riordinare gli appalti, «assegnando la responsabilità in capo alla committenza: perché non si può essere sempre sospesi, aspettando la nuova gara al massimo ribasso, sperando che ti assegnino le stesse ore e che magari i tuoi contributi e la tua retribuzione non spariscano insieme a qualche imprenditore truffaldino».
Infine, il terzo quesito, quello sui licenziamenti, e che più direttamente va a impattare con (anzi sarebbe meglio dire: contro) il Jobs Act di Renzi. «Ci dicono che siamo vecchi, e in effetti abbiamo 110 anni, ma non credo che sia vecchio voler ridare dignità e tutela a chi lavora. Puntiamo a un nuovo articolo 18 e a reintrodurre le garanzie per i licenziamenti collettivi».
«Rivendicazioni europee è l’unico modo per scardinare la falsa alternativa tra europeisti e antieuropeisti, che sono accomunati in realtà dalla condivisione del progetto neoliberale di comando sul lavoro».
connessioniprecarie online, 30 settembre 2016 (c.m.c.)
Sul fronte orientale non c’è niente di nuovo. L’opposizione dei paesi dell’est al migration compact mostra che il tentativo di risolvere la crisi centralizzando la decisione politica all’interno dell’Unione è fallito prima ancora di nascere. Anche a ovest d’altra parte l’austerità continua a essere affermata come la pietra angolare del governo dell’Unione, sebbene i singoli Stati stiano progressivamente forzandone i confini. Anche qui niente di nuovo, si potrebbe dire: a est come a ovest i confini dell’Unione sono continuamente violati.
L’Unione europea non è quel Moloch unitario che alcuni immaginano e che essa stessa pretende di rappresentare. Le crepe della sua disgregazione sono le stesse che migranti, precarie e operai cercano quotidianamente di allargare per garantirsi una vita migliore. Tanto per Bruxelles quanto per i singoli Stati, però, il governo dell’austerità e quello della mobilità sono due facce della stessa medaglia. Mentre la Commissione cerca di imporre un sistema coordinato per tutta l’UE, gli Stati mettono in scena uno scontro che non intacca il governo neoliberale dell’Unione.
Questo gioco delle parti è ormai parte integrante della costituzione materiale dell’Europa e dei suoi Stati e, anche laddove la sovranità nazionale è invocata a viva voce, il dispotismo del capitale è imposto attraverso il predominio incontrastato degli esecutivi. È ormai chiaro che la presunta difesa delle prerogative sovrane non è che un’articolazione delle politiche di austerità, il cui prezzo viene costantemente pagato da precarie, operai e migranti. È quindi illusorio pensare che, in Italia come altrove, questo predominio e quel dispotismo possano essere rovesciati dando una spallata al governo attraverso un referendum, un’elezione o una manifestazione stagionale.
L’Europa è il campo di contesa sul quale far valere la pretesa di libertà e l’insubordinazione allo sfruttamento praticate dalle precarie, dagli operai e dai migranti che ogni giorno attraversano il suo spazio con i loro movimenti. L’Europa è il terreno minimo sul quale praticare una prospettiva politica transnazionale. Ciò lascia tuttavia aperto il difficile problema di comprendere quale sia la scala della nostra iniziativa politica, a partire dalla consapevolezza che non è possibile contrapporre il piano transnazionale e quello territoriale: mentre fermarsi al primo finisce per essere un esercizio politicamente sterile, puntare solo sul secondo ci condanna all’impotenza.
Partiamo allora da un fatto: la dimensione transnazionale è già presente nel locale e riconfigura radicalmente le sue coordinate, tanto dal punto di vista materiale quanto da quello istituzionale. L’iniziativa transnazionale, perciò, non può più essere concepita come il risultato di una messa in rete, federazione o coalizione di differenti esperienze radicate sui territori, perché ogni territorio è attraversato da poteri sociali che si muovono attraverso i confini e che continuamente li producono e riproducono.
Come dimostrano le lotte dei migranti nella logistica, anche conflitti apparentemente radicati sul territorio riguardano linee di comando e organizzazione del lavoro transnazionali e coinvolgono una forza lavoro mobile che non può più essere identificata secondo i criteri della cittadinanza. Le stesse città, sulle quali investono le ipotesi di «nuovo municipalismo», sono parte di uno spazio metropolitano che non coincide con quello municipale ma lo determina.
Metropolitano è lo spazio della produzione e riproduzione sociale, creato dalla connessione logistica tra hub di servizio e zone industriali poste anche a migliaia di chilometri di distanza e nel quale le direttive dell’Unione, mediate dai singoli Stati, ricadono, determinando le condizioni politiche dello sfruttamento. Lo spazio metropolitano è organizzato da regimi giuridici che connettono ogni singola azione amministrativa locale alle politiche neoliberali europee, alla direzione finanziaria impartita dall’Unione e alle strettoie del suo governo della mobilità in modo funzionale al dominio del capitale globale.
Basta leggere in che modo le linee di finanziamento europee parlano della governance delle città per capire che essa è costituita da assetti di governo che si confondono con le zone di scambio e sono connessi con altre «regioni metropolitane» o «zone urbane», che costituiscono le basi dello sviluppo economico in quanto capaci di unire tutti i livelli della catena produttiva: dalla scuola all’Università alla fabbrica, passando per i nuovi centri delle reti logistiche.
La metropoli è in questo senso uno spazio post-coloniale, non per gli effetti persistenti di una passata dominazione, ma perché è governata secondo criteri coloniali di efficienza, differenziazione e gerarchizzazione per via amministrativa divenuti ormai globali. Questo governo dello spazio metropolitano si serve delle istituzioni municipali incatenandole a uno Stato che non si rivolge a tutti i cittadini allo stesso modo, ma governa e reprime i loro movimenti con diverse intensità, combinando l’azione assistenziale o coattiva dei servizi sociali all’esercizio della forza armata nelle periferie.
Lo spazio metropolitano, allora, comincia là dove la cittadinanza è destrutturata, dove la precarietà si manifesta come mobilità, frammentazione e gerarchia mettendo radicalmente in questione le forme tradizionali dell’organizzazione e dell’iniziativa politica, da quella sindacale a quella elettorale.
Questa configurazione impone di ripensare il modo in cui la città può essere oggi l’orizzonte di riferimento di un’iniziativa politica alla luce di due diversi ordini di problemi. Il primo ha a che fare con la reale capacità di azione delle istituzioni municipali in relazione tanto allo Stato, quanto all’Unione quanto, infine, alle dinamiche transnazionali che attraversano lo spazio metropolitano in cui le città sono inserite, in modi anche molto diversi l’una dall’altra.
Questa differenza è qualcosa con cui è necessario fare i conti, per non istituire modelli ideali che, come nel caso di Barcellona, sembrano semmai segnalare l’originalità, ma anche la specificità di un’esperienza. Il secondo ordine di problemi riguarda invece la capacità di fare della città uno spazio di organizzazione, senza per questo rivolgersi a un indeterminato pubblico dei «cittadini», unito da improbabili bisogni comuni, dall’essere l’oggetto complessivo e il destinatario universale di una medesima amministrazione o da una generica volontà di partecipazione attiva nei processi di decisione che dovrebbe coinvolgere anche chi non ha la cittadinanza.
Questo modo di guardare alla città non avrebbe nulla di particolarmente nuovo. Per non limitarsi a una pratica di lobbismo pre-elettorale, magari anche utile nel breve periodo ma di incerta e improbabile prospettiva, una politica nella città deve necessariamente offrire alle figure irriducibilmente diverse del lavoro vivo contemporaneo la possibilità di riconoscersi, non in nome di un’identità etnica o etica già condivisa o di una presunta tradizione ribelle, ma in vista di un progetto comune di insubordinazione, emancipazione e lotta.
Il municipalismo può essere nuovo se è all’altezza dell’orizzonte metropolitano e dunque transnazionale in cui si costituisce la città. Ciò significa che la ribellione non può consistere nella ricostruzione localizzata di una comunità andata in frantumi, né si può risolvere mettendo in rete sul piano europeo le esperienze esistenti: la città deve diventare il fulcro di un processo di sollevazione del lavoro vivo che, anche per consolidare la sua forza e le sue conquiste sul piano istituzionale, deve essere in grado di interrompere i momenti della produzione e riproduzione sociale che organizzano lo spazio metropolitano a partire da un progetto politico che ne riconosca la dimensione già globale e offra a quella sollevazione la sua infrastruttura logistica.
Riconoscere il modo in cui la dimensione transnazionale ridetermina quella locale significa allora rovesciare l’ordine delle priorità: non si tratta di partire dal locale per arrivare al transnazionale, secondo un movimento progressivo di accumulazione di esperienze o attraverso una messa in rete e coalizione dell’esistente, ma di collocare ogni iniziativa locale in quell’orizzonte transnazionale capace di conferirle forza espansiva.
DIEM 25 sembra avere compreso la necessità di questo rovesciamento, perché assume l’Europa come propria dimensione specifica aggirando, almeno a parole, l’idea di una federazione internazionale di partiti o movimenti nazionali. Ciò dovrebbe spiegare la polemica di Varoufakis contro il «sovranismo» e le proposte di uscita a sinistra dall’Unione. Al di là della singolare scelta di assumere il sig. Fassina Stefano quale interlocutore, ciò che conta è la registrazione che la sovranità degli Stati è ormai radicalmente riconfigurata dal piano transnazionale entro il quale essa agisce.
Come nel caso delle città, criticare l’idea di una sovranità di sinistra non è semplice materia di dibattito politico e teorico, ma riguarda le forme pratiche di organizzazione del conflitto e i soggetti che le praticano e che trovano in esse espressione. Sino a oggi, per DIEM il riferimento privilegiato sono i cittadini europei delusi dall’Unione. Ma i cittadini sono tali perché c’è una sovranità, così come l’idea di costruire un demos europeo è una prospettiva di riattivazione della sovranità, non la sua critica. Anche dando per scontata la praticabilità delle campagne di disobbedienza civile e governamentale degli Stati, delle regioni o dei municipi, il problema qui si presenta rovesciato e non sembra cogliere ciò su cui insistiamo, ovvero che il transnazionale non è un piano a sé stante, ma è già nel locale e nel territoriale.
Promuovere la disobbedienza degli Stati, o delle regioni e dei municipi nei confronti del comando dell’Unione replica l’idea di un assetto istituzionale in cui questi diversi livelli sono chiaramente distinguibili e relativamente autonomi e possono essere utilizzati uno contro l’altro a seconda delle occasioni. I processi elettorali possono essere certamente spazi di mobilitazione e quindi di soggettivazione, anche importanti, ma non si può affidare loro il compito di resistere alle dinamiche del capitale globale.
Non si tratta solo del carattere ovviamente limitato delle decisioni che possono essere prese tramite elezioni, che è certamente evidente a tutti. Si tratta piuttosto dell’implicita delimitazione del campo di azione e della difficoltà di connettere produttivamente i movimenti del lavoro vivo con la gestione quotidiana degli eventuali risultati elettorali in assenza di un’organizzazione in grado di mantenere quella connessione nel tempo.
Da tempo le elezioni non sono più un esercizio di democrazia. Quando va bene, esse possono essere un momento di lotta dentro e contro il sistema democratico di dominio. La democrazia è certamente un problema urgente: mentre a est sempre più paesi stanno abbandonando procedure democratiche ed erodendo spazi di libertà, tanto formale quanto sostanziale, in ogni punto d’Europa la dinamica dell’inclusione è stata sostituita da una produzione di differenze e gerarchie che servono a irreggimentare il comando capitalistico.
La risposta a questo processo non può tuttavia coincidere con una larga intesa degli scontenti e una coalizione di militanti non allineati, reclutati all’occorrenza anche tra le fila di fantomatici «conservatori progressisti». Allo stesso modo, non è possibile pensare che una politicizzazione di massa possa darsi attraverso il feticismo della procedura e piattaforme virtuali in cui la forma della decisione è sempre prioritaria rispetto al programma. Per diventare lo spazio per una presa di parola di precarie, operai e migranti, la mobilitazione democratica deve essere pensata a partire dalla mobilità del lavoro vivo, dalle sue condizioni materiali e dal rifiuto dello sfruttamento e dell’oppressione che esso quotidianamente esprime.
A partire da qui, una lotta per la democrazia che non sia né un fittizio piano di riforma dell’Europa dell’austerity né un sogno tecnocratico dovrà riempirsi di contenuti e offrire strumenti di lotta e costruzione di autonomia nelle condizioni attuali. Rivendicare un salario minimo europeo, reddito e welfare europei e un permesso di soggiorno europeo significa per noi fare della lotta per la democrazia un progetto di emancipazione che, incidendo sul tempo e sulle condizioni della produzione e riproduzione sociale, sullo spazio metropolitano sul quale il capitale esercita il suo dominio, sia capace di impattare i pilastri dell’Europa dell’austerity e il regime europeo del salario.
Queste rivendicazioni possono connettere i diversi livelli di iniziativa politica sul piano locale e transnazionale. Avanzare rivendicazioni europee è l’unico modo per scardinare la falsa alternativa tra europeisti e antieuropeisti, che sono accomunati in realtà dalla condivisione del progetto neoliberale di comando sul lavoro. Per quanto rilevante, il problema non è oggi verso chi indirizzare queste rivendicazioni, ma pensare chi può oggi riconoscersi in esse. Quelle rivendicazioni non sono parte di un catalogo di diritti, ma identificano salario, welfare e mobilità quali terreni materiali di scontro, partendo dalla consapevolezza che ogni precaria, migrante e operaio può farsi valere in ogni singolo luogo solo utilizzando degli strumenti transnazionali.
Questo non significa negare o aggirare la necessità di fare i conti con il piano istituzionale, che è tanto più rilevante quanto più è urgente consolidare a tutti i livelli ciò che precarie, operai e migranti possono conquistare con le loro lotte. Ma queste conquiste sono possibili solo attraverso un’accumulazione di forza che a sua volta non è data, ma è la posta in gioco di qualunque progetto che abbia la pretesa di essere espansivo e di durare più di una stagione.
Risulta perciò difficile immaginare che questa accumulazione possa compiersi in Italia attraverso la mobilitazione «sociale» in vista del referendum costituzionale. Che cosa significhi sociale non è politicamente dato, né quando si organizza l’opposizione alla riforma costituzionale, né quando si cerca di organizzare lo sciopero sociale transnazionale. In entrambi i casi non può significare la somma delle esperienze esistenti, anche perché sarebbe davvero illusorio pensare che la somma delle nostre forze attuali sia qualcosa di significativo.
Tanto sul piano locale quanto su quello transnazionale «sociale» deve essere lo spazio di espressione di tutti quei segmenti del lavoro vivo che sono colpiti tanto dalle norme della riforma costituzionale quanto da quelle dei governi europei. Il sociale non è un fronte, ma uno spazio aperto sul quale nessuno può vantare una superiore legittimità, perché nessuno è finora riuscito nemmeno lontanamente ad approssimarne la definizione. Solo ponendo questo problema del «sociale» c’è la possibilità che il nostro No sia differente e autonomo dal variegato caravanserraglio che con l’occasione del referendum vuole saldare i suoi conti con il governo Renzi.
Va riconosciuto nel progetto di riforma costituzionale il disegno di consolidare quel predominio dell’esecutivo che è parte integrante della politica neoliberale. Questo predominio è inscritto nella costituzione materiale tanto dell’Unione quanto dei suoi Stati e non sarà la difesa della Carta costituzionale, la garanzia dell’alternanza al governo o il ritorno al bicameralismo perfetto a invertire questa tendenza. L’occasione del referendum non può perciò essere la replica di altre spallate ad altri governi, ma deve mostrare ovunque i nessi tra questa riforma e il dominio quotidiano che milioni di persone subiscono ogni giorno e che sono regolarmente taciuti dallo scontro tra il sì e il no. Quei nessi non sono immediatamente evidenti.
Per questo, più che produrre improvvise chiamate a raccolta delle componenti organizzate di movimento e parti dei sindacati, accontentandosi di una manifestazione più o meno grande o di uno sciopero più o meno rituale, è necessario mostrare questi nessi in tutta la loro brutalità, sapendo che essi non cominciano e non finiscono con il referendum e nemmeno con il governo Renzi. L’autonomia del nostro No non può limitarsi al quadro istituzionale italiano, così come non può accontentarsi di quello che abbiamo. La nostra opposizione può essere sociale solo se diventa lo spazio in cui si esprimono diversi segmenti di classe, con una presenza di massa che supera i confini del tessuto militante e che sappia perciò investire i rapporti di forza transnazionali che organizzano la società.
La Francia ha mostrato che nemmeno il più grande sciopero sociale e la più grande sollevazione del lavoro vivo che l’Europa abbia visto negli ultimi anni sono riuscite a evitare l’approvazione della loi travail attraverso la ripetuta imposizione dello stato d’urgenza da parte del governo. Non si tratta però di registrare una sconfitta, ma di riconoscere che è ormai impossibile conseguire una vittoria eludendo il piano transnazionale su cui si gioca la partita.
Lo hanno compreso bene le realtà francesi che, dopo essere state protagoniste degli scioperi e della mobilitazione di Nuit Debout, ora sostengono la costruzione della tre giorni del 21-22-23 ottobre a Parigi, nella prospettiva di rafforzare il processo verso uno sciopero sociale transnazionale. Dopo l’esperienza di Poznan, che ha indicato nell’Est Europa un terreno centrale di iniziativa, il meeting di Parigi dovrà affrontare il problema di come superare il limite delle lotte nazionali e costruire momenti di sollevazione del lavoro vivo capaci di attraversare i confini e di accumulare forza.
La piattaforma dello sciopero sociale transnazionale può diventare la nostra infrastruttura logistica per connettere le lotte locali e quotidiane e irrompere tanto negli spazi metropolitani quanto nei processi transnazionali per contrastare il governo dell’austerità e della mobilità.
«La piramide del potere si sta sgretolando sotto i nostri occhi. Non è dunque una "deriva" mediatica, è una linea di frattura politica: è la scena stessa del politico che si dissigilla e trema sotto i nostri passi. Ecco la triste sorte di coloro che hanno perduto il "comune"e non hanno più il linguaggio». LaRepubblica
, 30 settembre 2016 (c.m.c.)
Jorge Luis Borges evoca, in uno dei suoi testi più famosi e divertenti, una certa enciclopedia cinese secondo cui gli animali si dividono in: «a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani randagi, h) inclusi nella presente classificazione, i) che s’agitano come pazzi, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, l) eccetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche»… Ho ripensato a questo testo del grande scrittore argentino osservando il moltiplicarsi dei candidati alle primarie che designeranno i rappresentanti dei partiti per le presidenziali del 2017. Ma siamo onesti, non è una specialità francese.
Il processo delle primarie favorisce la moltiplicazione delle candidature in seno a uno stesso partito, e talvolta perfino in seno a una stessa tendenza. Per dare conto di una simile proliferazione di candidature analoghe e cercare di distinguere fra postulanti così simili gli uni agli altri, i media fanno ricorso a metafore ispirate agli universi e ai riti del combattimento o del cimento: dalla corsa a ostacoli (ciclistica o ippica) alla competizione sportiva, al conflitto di archetipi (la forza di Achille, l’astuzia di Ulisse), allo spettacolo, alla serie tv ( House of Cards, Il trono di spade), o ancora al cronotopo della marcia con le sue figure associate (la traversata del deserto, l’ascensione ai vertici, lo stallo, la deriva, la caduta).
L’uso della metafora nel discorso politico non è certo nuovo, ma tende a rafforzarsi quando gli obiettivi politici o ideologici si fanno meno marcati e il personale politico, per forza di cose, diventa più omogeneo. Quando più nulla differenzia un candidato dall’altro sul piano ideologico o politico, bisogna trovare altre maniere per distinguerli, fuori dall’ambito della razionalità politica, in universi narrativi e registri linguistici diversi dalla sintassi politica.
Nell’accavallarsi delle candidature, l’elemento che fa la differenza è la freschezza del segno: lo scintillio di un tweet, di un’immagine o di un semplice accessorio. Matteo Renzi ha saputo sfruttare con abilità questa miniaturizzazione dei grandi obiettivi politici (#lavoltabuona, la camicia bianca e uno smartphone Apple, strizzata d’occhio alla serie House of Cards). La miniaturizzazione agisce come un transistor, il conduttore elettronico utilizzato nei circuiti come interruttore, come amplificatore di segnale, che consente di stabilizzare una tensione, modulare un segnale e tante altre cose.
Propongo di definire questo fenomeno della comunicazione «transistorizzazione » (per cambiare dal pigro storytelling), nel doppio significato di effetto transistor e di trasmutazione storica dei dati della politica. Lo sfavillio dell’eteroclita prende il posto del dissenso democratico. L’esibizione delle piccole differenze (e del narcisismo che le accompagna) si sostituisce alle spaccature politiche e alle battaglie ideologiche.
Il prezzo di questo spostamento è la personalizzazione della lotta politica che aggrava inesorabilmente la spoliticizzazione delle persone, che ci si sforza di compensare attraverso piattaforme digitali di ogni sorta seguite da operazioni porta a porta mirate (il clic e il toc toc). Ma a queste campagne partecipative manca l’essenziale, l’assicurazione di un linguaggio credibile e di un luogo comune dove scambiarlo, accreditarlo. Ed è qui che il testo di Borges, forse, ci dice qualcosa sulla crisi politica che attraversiamo.
Fino a questo momento la vita politica, che si tratti di processi elettorali, dell’organizzazione del dibattito pubblico, della pluralità dei partiti o dell’esercizio del potere, obbediva a una logica di negoziazione. Il campo politico era attraversato da conflitti di interesse che esprimevano, in ultima analisi, gli interessi conflittuali dei dipendenti e dei datori di lavoro. Negoziazione, partiti, rapporti di forza erano i tre concetti fondamentali della ragione politica.
La condizione politica è stata rimodellata negli ultimi trent’anni sotto l’effetto di quattro rivoluzioni intrecciate fra loro, che hanno segnato le società occidentali: 1. la globalizzazione neoliberista che ha trasformato il capitalismo e messo in crisi la sovranità degli Stati; 2. la rivoluzione digitale, la tv via cavo e lo sviluppo di internet, che hanno scompigliato le condizioni sociali e tecniche della comunicazione politica; 3. la rivoluzione manageriale che si è imposta sia negli apparati dello Stato sia nei partiti politici e ha promosso un nuovo modello di uomo politico, più performer che giurista; 4. una rivoluzione della soggettività che si traduce, nella sottocultura di massa, nell’apparizione di un nuovo idealtipo che privilegia i valori di mobilità e flessibilità a quelli di lealtà e radicamento.
Oggi la logica della negoziazione cede il posto a una logica di speculazione e poggia sull’anticipazione di una performance futura. Alla creazione di un rapporto di forza si sostituisce la logica dell’anticipazione. Governare non è più semplicemente prevedere, è speculare sul futuro immediato. E in questa logica non sono più i sindacati o i partiti rappresentativi che intervengono nell’ambito politico, ma attori che cercano di valorizzarsi o di bloccare la loro svalutazione.
Il modello è la start-up politica (come quella di Emmanuel Macron o di Donald Trump) e non più i partiti old school (come il Pd di Matteo Renzi o il Partito socialista di Manuel Valls). L’atomizzazione dello spettro politico evocata all’inizio di questo articolo ne è uno degli effetti. Per l’elettore-scommettitore, non si tratta più di decidere fra partiti, programmi o visioni del mondo, ma di scommettere sul futuro vincente. Il sondaggio si sostituisce all’elezione, il sondato all’elettore. La competenza o l’esperienza cedono il passo all’«indice di futuro» dei candidati. Le primarie hanno aggravato questa logica.
Sono gli stress test del capitale umano. Anch’esse sono basate su previsioni, scommesse, e non sulle qualità presunte o accertate di un candidato. L’homo politicus considerato alla stregua di un qualunque «capitale umano » è un valore in divenire che si apprezza prelazionando un’offerta politica invece che sforzandosi di rispondere alle domande dei cittadini. Una politica dell’offerta politica di cui i sondaggi sono lo strumento centrale: stanno alla democrazia come le agenzie di rating stanno al debito.
Valutano la credibilità dei candidati sul mercato delle opinioni allo stesso modo in cui le agenzie di rating valutano la solvibilità dei mutuatari sui mercati finanziari. Oltre a questo, gli uni e le altre hanno per missione orchestrare, stimolare, influenzare l’attenzione dell’opinione pubblica cittadini e produrre fede nel sistema. Lanciatori di narrazioni, i sondaggi hanno la funzione di mantenere l’attenzione, di scongiurare la fuga o l’astensione. Se li seguiamo, non è in virtù del loro valore informativo o predittivo, ma in virtù della loro funzione drammaturgica(…).
Oggi la perdita di credibilità nelle istituzioni politiche e nella parola pubblica non è un fenomeno congiunturale, è un sintomo della crisi di rappresentanza che colpisce se stessa, legata alla crisi dei vecchi modelli di sovranità statale. Tutto il processo elettorale ormai è visto con grande scetticismo dagli elettori: primarie, sondaggi, comizi, talk show. L’elezione, che prima accreditava l’esercizio del potere e la sua legittimità, è divenuta una sorta di diffidenza, un esercizio non più istituente, ma destituente.
Per dirla sinteticamente, tutta la piramide del potere si sta sgretolando sotto i nostri occhi. Non è dunque una «deriva» mediatica che dobbiamo denunciare, è una linea di frattura politica: è la scena stessa del politico che si dissigilla e trema sotto i nostri passi. Perdita del luogo e delle forme stesse del politico. Ecco la triste sorte di coloro che hanno perduto il «comune» e non hanno più il linguaggio.
«Solo se le imprese recuperate concorrono a realizzare quelle filiere produttive legate ai principi dell’Altreconomia possono costituire un tassello importante per l’alternativa al modello socio-economico dominante». Il manifesto,
29 settembre 2016 (c.m.c.)
Il fenomeno delle «imprese recuperate» sta crescendo in tutti i paesi colpiti dalla lunga Recessione, come era avvenuto in Argentina all’indomani del crac finanziario del 2001. È uno dei modi con cui i lavoratori sono tornati protagonisti del loro destino, reagendo alle cosiddette leggi del mercato capitalistico. Era successo anche nei paesi dell’est, all’indomani della caduta del muro di Berlino, quando furono chiuse migliaia di fabbriche statali e si avviò bruscamente un processo di deindustrializzazione e privatizzazione.
Personalmente, nel periodo 1994-1996 ho promosso con il Cric (una ong meridionale molto attiva in passato), il recupero di tre imprese nel settore dell’abbigliamento a Tirana, Valona e Durazzo. Grazie alla collaborazione del Forum i Grua Shiptar (Forum delle Donne Albanesi) , sono state costituite delle cooperative di donne tra quelle che erano state licenziate. Anche se non si poteva parlare di vere e proprie cooperative, per via dei trascorsi storici che ne avevano distorto le finalità , lo spirito era quello e furono avviate delle produzioni di camicie (a Tirana e Valona) e di biancheria intima a Durazzo.
Le prime due esperienze andarono male per diversi motivi, invece a Durazzo in pochi anni la cooperativa crebbe e riuscì a sopravvivere alla guerra civile del marzo/aprile 1997 , scatenato dagli sgherri dell’ex presidente Berisha. Le donne di Durazzo difesero la fabbrica recuperata con ogni mezzo, impedendo che venisse bruciata insieme ad altri edifici pubblici della zona. A distanza di più di vent’anni l’impresa recuperata di Durazzo, diretta da Elvira Ajazi, è un modello sociale per tutti i Balcani: le donne ricevono un salario mediamente più alto del resto dell’Albania, hanno l’asilo nido e la mensa nella fabbrica ed un buon livello di partecipazione alla gestione dell’azienda.
Unico neo è quello che questa impresa recuperata lavora su commesse di due grandi aziende italiane nel settore dell’intimo per bambini. Ed è questo il punto dolente, non solo in Albania. Infatti, quando parliamo di “imprese recuperate”, dovremmo usare il quadrangolare e vedere come queste imprese si collocano nelle filiere produttive. Ci sono infatti “imprese recuperate” che entrano a pieno titolo nella catena dello sfruttamento e dell’accumulazione capitalistica.
Altre che invece fanno parte di quella sfera dell’economia che il grande Fernand Braudel definiva “economia di mercato” dove il denaro è solo un intermediario negli scambi e dove la relazione sociale permane forte e trasparente (Braudel parla di «occhi negli occhi e mano nella mano» ). O se vogliamo in quella forma di economia mercantile che Marx individuava nel circuito «Merce-Denaro-Merce» opposta a quella del mercato capitalistico che si fonda su Denaro-Merce-Denaro.
È questa la questione politica di prima grandezza con cui fare i conti. Se le imprese recuperate concorrono a realizzare quelle filiere produttive legate ai principi dell’Altreconomia – basata sulla ricerca del prezzo equo e della solidarietà – se entrano in circuiti dove c’è un rapporto diretto tra consumatori e produttori, se si avvalgono del credito elargito dalla finanza non profit, allora possono costituire un tassello importante per l’alternativa al modello socio-economico dominante. Altrimenti sono ottime esperienze per chi le fa, ma vengono utilizzate e sfruttate dal sistema.
Che siamo contro questo sistema capitalistico dissennato ed ingiusto lo ripetiamo da molto tempo. E però da quando l’idea di come dovrebbe e potrebbe essere l’altro mondo possibile si è annebbiata, l’enunciazione ha perduto non poca della sua presa. Questa edizione di Terra Madre appena conclusa a Torino mi sembra importante, al di là del merito della sua specifica tematica, perché non solo ha dato concretezza a quella nostra critica e aspirazione, denunciando con la forza dell’esperienza di milioni di contadini gli effetti nefasti della distruzione della terra e della rapina che subisce per mano dei grandi protagonisti della globalizzazione, ma ha anche indicato i modi attraverso cui è possibile resistere e anche avanzare.
Non voglio descrivere questo evento straordinario perché lo hanno già fatto, e benissimo, nei giorni scorsi su questo giornale, Coscioli, Pagliasotti e Vittone. Mi sono riferita a questi cinque intensi giorni torinesi solo per lo stimolo che io credo offrano a una riflessione politica più generale. Mi spiego.
1) Noiosamente ci ripetiamo da tempo che il modo di far politica è cambiato, ma qualche conclusione pratica stentiamo a trarla. Ecco: Terra Madre rappresenta uno dei modi di un possibile rinnovamento, che consiste nel prendere atto che in questi ultimi decenni molte delle idee che nel passato hanno animato il nostro impegno si sono logorate e occorre adesso fare in modo che tutti riattraversino un’esperienza pratica diretta che faccia capire perché il capitalismo va combattuto. (Non solo la povertà e l’ingiustizia, proprio il sistema).
Informare che ogni anno 84.000 chilometri quadrati di terra fertile vengono sottratti all’alimentazione dalla dissennata cementificazione speculativa, generando obesità per i ricchi e fame per i poveri perché il lavoro contadino è stato a tal punto svilito e sottopagato dalla grande industria agroalimentare da desertificare le campagne e infestare il nostro cibo di veleni, apre un nuovo orizzonte del cambiamento necessario. Così come dar evidenza all’acquisizione da parte della Bayer della Monsanto è la forma più concreta e illuminante per denunciare la crisi della democrazia, visto che questo privato accordo commerciale avrà effetti sulla nostra vita quotidiana ben più pesanti di qualsiasi decisione votata dal Parlamento.
Ma la forza dei discorsi che qui si sono tenuti sta sopratutto nel fatto che non è stato solo ripetuto un astratto discorso sull’ecologia, ma che quel discorso è stato pronunciato da nuovi protagonisti della lotta anticapitalista, i contadini dell’Africa, dell’Asia dell’America latina, ma anche del nostro occidente che li ha dimenticati. Perché una nuova sostanza della politica può essere trovata solo se non ci si limita a denunciare ma se si riescono a mettere in moto i nuovi agenti del discorso che facciamo, se si individuano nuovi soggetti politici (o, come nel caso dei contadini, se si reinventano). Il salto di qualità qui a Torino si è avuto perché sono state coinvolte 500.000 persone, non privilegiati gourmets, ma cittadini che hanno imparato qualcosa di prezioso: nuovi modi di lavorare e anche nuovi modi di consumare. (È vero che il capitalismo ha trasformato i cittadini in consumatori, ma è anche possibile ritrasformare i consumatori in cittadini attivi). Qui si sono viste all’opera nuove reti militanti.
2) Ci arrabattiamo per scoprire cosa sia oggi il lavoro, ben consapevoli che la disoccupazione giovanile non è uguale al passato, ha anche una evidente causa nel ridursi del lavoro tradizionale, quello industriale e impiegatizio. Ebbene, guai se dovessimo finire per pensare che la sola nuova occupazione possibile sia quella offerta da una inutile, pletorica, patologica moltiplicazione del settore della comunicazione (o del fast food), e non, sopratutto, quella offerta da settori scelleratamente abbandonati e che oggi occorre reinventare: agricoltura e servizi collettivi, che rispondano ai nuovi urgenti bisogni che sono emersi: la indilazionabile cura della terra, dell’aria, delle città divenute invivibili. Non, dunque, un indifferenziato stimolo della domanda, come con un po’ di faciloneria viene invocato da qualche tardo keynesiano, ma un massiccio spostamento di risorse (e di attenzione) dal consumo individuale a quello collettivo.
Possibili e anzi necessari sono oggi mille mestieri che il mercato non crea, perché è tanto miope da vedere solo il profitto immediato e personale, non il vantaggio comune e di lungo periodo. («Non mangeremo computer» – ha ironizzato Carlin Petrini).
Il lavoro politico oggi necessario consiste nell’aiutare questo processo, impegnandosi a costruire i soggetti sociali e politici in grado di portare avanti questi discorsi.
3) Impegnarsi a fare queste cose vuol dire rinunciare al progetto di un nuovo e vero partito della sinistra, un soggetto in grado di coagulare attorno a un progetto energie e intelligenze? Non credo, anzi. Significa però evitare di ripetere quello che è stato un limite dei partiti comunisti e anche socialdemocratici: l’autosufficienza e, insieme, lo statalismo. Capire cioè che un partito è vivo nella misura in cui attorno alla sua organizzazione esistono forme più estese di democrazia organizzata, reti sociali attive, movimenti, che ne garantiscano la linfa e contribuiscano giorno per giorno, nell’immediato e senza delegare, ad un mutamento della società che anticipi i progetti di governi e istituzioni, impotenti se non accompagnati da questa trasformazione.
4) Ultima osservazione. Ho letto che un pezzo di Sel si è riunito in una piazza romana per dire che non è d’accordo con un altro pezzo di Sel perché occorre tornare a perseguire l’obiettivo dell’alleanza di centrosinistra anziché quello di dar vita a un partitino del 2%. Mi sembra una contrapposizione davvero pretestuosa. Quando si dice che oggi reinventarsi quell’alleanza non è più realistico non è perché si ritiene che non si debba più dialogare con i milioni di compagni che per quella formula hanno votato e che continuano a militare nel Pd. Ci mancherebbe! Vuol dire solo che non basta più rimettere insieme pezzi di vecchie organizzazioni di sinistra, neppure di quelle della sinistra c.d. radicale (per questo, del resto, con un atto coraggioso, Sel ha deciso di sciogliersi). Che, insomma, occorre un ripensamento più profondo, un mutamento più innovativo del far politica. Nel senso delle esperienze di cui prima ho parlato (A Terra Madre si è stretto un patto di lotta fra 75 associazioni contadine e ambientaliste, compresa, figuratevi!, la Coldiretti, quella che una volta chiamavamo con disprezzo «bonomiana», per raccogliere le firme sotto una petizione europea che blocchi la distruzione del suolo. Una coalizione ben più larga del centrosinistra!). Insomma: ormai non basta più rimettere assieme i cocci, sommare Bersani con Furfaro o con Fratoianni. È questo obiettivo a essere un po’ meschino e vecchiotto rispetto ai tempi che ci sono imposti.
È un obiettivo facile e immediato? No, ma il concetto di slow vale anche per la politica.
Tr articoli sul nuovo imbroglio di Matteo Renzi per far vincere il SI al referendum per la deformazione della Costituzione. Metodi degni della peggiore demagogia truffaldina della peggiore destra. E intanto rigurgita il Pontone sullo stretto.il manifesto, 27 settembre 2016IL REFERENDUM DI BABBO NATALEdi Norma Rangeri
Ponte sullo Stretto per 100mila posti di lavoro, 80 euro, forse meno, ai pensionati più disagiati e pazienza se i tagli alla sanità li hanno resi più indifesi. Il presidente del consiglio apre e chiude i cordoni della borsa come farebbe un burattinaio con i fili del suo teatrino. Nella repubblica degli zero virgola barcollano i pilastri dello stato sociale ma in compenso l’impresa è il cuore della politica governativa a base di defiscalizzazione (a carico di chi paga le tasse) con serenata di accompagnamento, ieri cantata dal premier al colosso delle costruzioni Impregilo («Evviva le aziende che rischiano»).
Si potrebbe parlare di conflitto di interessi di un presidente del consiglio che promette ponti d’oro e quattordicesime più pesanti mentre invita a votare sì al referendum. Anche se forse sarebbe più esatto parlare di convergenza di interessi. Il Corriere della Sera lo sintetizzava nel titolo di prima pagina: «Scelta la data del 4 dicembre. Renzi: pensioni basse, raddoppia la quattordicesima». Non era un endorsement del quotidiano ma un semplice accostamento di due fatti, la constatazione di come verrà orchestrata la battaglia referendaria. Grandi opere e potere monocamerale maggioritario per farle senza opposizioni tra i piedi («Finita la parte riforma si può tornare a progettare il futuro»).
Siamo in campagna elettorale ormai già da mesi e ci resteremo fino all’inverno. Abbiamo iniziato con i gazebo sulla spiaggia e finiremo con babbo natale. Oltretutto la par condicio scatta a un mese e mezzo dal voto, quindi le prossime saranno settimane a reti unificate per il Sì come e più di quanto hanno registrato i monitoraggi televisivi fini a oggi. E con le leve offerte dal potere di governo la propaganda viene meglio. Renzi deve portare gli elettori al seggio e una legge finanziaria è merce che si vende bene al mercato elettorale.
Il No dovrà farsi forza delle sue buone ragioni che per fortuna abbondano anche se sono in compagnia di Brunetta e di Salvini, improbabili difensori di una democrazia costituzionale che dovrebbe avere nei loro rispettivi leader di riferimento, Berlusconi e i lepenisti lombardo-veneti, gli alfieri.
Sicuramente è una battaglia da combattere fino in fondo per rompere questa bolla del nuovismo renziano che tra ponte sullo Stretto e pacchi di natale ai pensionati svela le sembianze del vecchio politicante in difficoltà. Tempi lunghi e promesse sonanti indicano che il premier ha bisogno di molte settimane per risalire la corrente del consenso, appesantito com’è dalla zavorra della crescita zero. Ma con ancora davanti più di due mesi di rissosa propaganda c’è il rischio vero di un astensionismo per sfinimento.
COME TI INGANNO L'ELETTORE
FIN DENTRO IL SEGGIO
di Gaetano Azzariti,
Il quesito predisposto dall’Ufficio centrale della Cassazione per il referendum non è neutro. È vero che esso si “limita” a riprodurre il titolo della legge approvata dal Parlamento, ciò non toglie che quella formulazione non doveva essere prescelta. Per diverse e buone ragioni. Anzitutto perché – com’è noto – i “titoli” delle leggi non sono votati dal parlamento sono invece formulati da chi ha presentato il testo, nel nostro caso da Renzi e Boschi. Dunque da una parte interessata a conseguire un certo esito del referendum.
Se – come le regole di drafting imporrebbero e com’è sempre stato in passato – il titolo si fosse limitato a dar conto dell’oggetto della riforma il fatto non sarebbe stato rilevante. Non è però questo il nostro caso, poiché oltre all’“oggetto” solo parzialmente indicato, si richiamano impropriamente anche gli auspicati “scopi” e gli eventuali “effetti” della riforma. Giusta – ma non sufficiente – l’indicazione che la riforma riguarda il superamento del bicameralismo paritario, la soppressione del Cnel, la revisione del titolo V; ingannevole l’ulteriore evidenziazione del contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni e quella della riduzione del numero dei parlamentari. Questi due ultimi sono scopi o effetti che interpretano la riforma secondo gli auspici dei suoi proponenti. Essi possono essere proposti come argomenti “politici” (ovvero retorici), ma non hanno nulla di oggettivo. In ipotesi, si potrebbero ben sottolineare non solo i risparmi ma anche i costi che questa riforma imporrà. Attrezzare il Senato perché esso possa svolgere le impegnative funzioni che la riforma introduce non sarà a costo zero. Un aggravio di spesa discenderà, ad esempio, dalle nuove competenze relative all’attività di valutazione delle politiche pubbliche e l’attività della pubblica amministrazione, di verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori e l’attuazione delle leggi dello Stato. Ed è una previsione legittima quella che fa ritenere che alla fine i costi di funzionamento delle istituzioni supereranno le riduzioni di spesa. Tutto ovviamente è lasciato al futuro e al giudizio degli elettori. Per questo l’indicazione nella scheda di una sola prospettiva possibile appare sbilanciata. Così anche la riduzione del numero dei parlamentari è solo un effetto parziale, peraltro assai contestato nella sua assolutezza. Secondo alcuni ben più rilevante – riguardando l’assetto complessivo dei poteri e non il singolo organo – sarebbe l’effetto di squilibrio che si verrebbe a determinare tra i due rami del parlamento. Aver reso assoluto un elemento (la riduzione dei parlamentari) senza indicare anche i possibili limiti e scompensi che possono conseguire non fa giustizia dell’obiettività del quesito.
La formulazione è inoltre incompleta con riferimento all’oggetto. Si sono omesse, infatti, parti della riforma indiscutibilmente assai significative. Non si richiamano le modifiche che incidono sulla Corte costituzionale (composizione e competenze), quelle che modificano le modalità d’elezione del presidente della Repubblica, le disposizioni relative ai diversi iter di formazione delle leggi, la decretazione d’urgenza, il voto a data certa, nulla sulle nuove forme di democrazia diretta. Anche su queste parti andremo a votare ma dalla lettura della scheda referendaria non risulta.
La formulazione del quesito è stata indicata dall’ufficio centrale presso la Corte di Cassazione. In applicazione della legge? Qui si apre una questione complessa di interpretazione delle norme vigenti e dei precedenti. Da un lato, infatti, nei due referendum costituzionali che si sono svolti il quesito aveva riportato i titoli delle leggi, senonché – a differenza di oggi – essi si limitavano all’indicazione dell’oggetto della riforma nel suo complesso (riforma del Titolo V e riforma della II parte della costituzione).
Dunque, non si potevano sollevare questioni sostanziali. La norma di legge vigente in materia (l’articolo 16 della legge 352 del 1970) peraltro è piuttosto chiara sia nello spirito che nella lettera. Nel caso di revisione della costituzione (a differenza delle altre leggi costituzionali, che hanno necessariamente un titolo proprio), come ha rilevato di recente Paolo Carnevale, il quesito deve indicare espressamente gli articoli della costituzione che si vogliono modificare. È vero che i precedenti richiamati del 2001 e del 2006 non sono in linea, allora prevalse una ragione sostanziale: anziché un elenco interminabile di articoli è apparso più opportuno una indicazione complessiva e neutra.
Ma di fronte a un titolo fuorviante la rigorosa applicazione della lettera della legge sarebbe stata necessaria. Nel caso dei referendum abrogativi, proprio per evitare schede referendarie troppo lunghe e incomprensibili, s’è adottata la misura di far elaborare all’ufficio centrale un titolo autonomo e riassuntivo «al fine dell’identificazione dell’oggetto del referendum» (articolo 1 della legge 173 del 1995), per il referendum costituzionale non so se si poteva operare in analogia. Quel che è certo è però che difronte al vulnus di beni costituzionalmente protetti (la corretta espressione della sovranità popolare, il regolare svolgimento competizione referendaria) sarebbe stato meglio impedire che la scheda diventasse l’ultimo tentativo di indirizzare impropriamente la scelta dell’elettore.
PER CHI È TEMPORANEAMENTE
ALL’ESTERO IL TEMPO STRINGE.
ECCO COME FARE
I cittadini che per motivi di lavoro, studio o cure mediche si trovano all’estero per un periodo di almeno tre mesi nel quale ricade la data di svolgimento della consultazione elettorale, e cioè il 4 dicembre, nonché i familiari con loro conviventi, potranno votare per corrispondenza. Ma per organizzarsi il tempo stringe. L’allarme è stato lanciato dalla lista Tsipras, schieratissima per il No, che sul proprio sito (listatsipras.eu) ha pubblicato tutte le indicazioni e il modulo da scaricare.
La richiesta può essere inviata per posta, per fax, posta elettronica anche non certificata, oppure fatta pervenire a mano al comune di residenza anche da persona diversa dall’interessato (su indicepa.gov.it sono reperibili gli indirizzi di posta elettronica certificata dei comuni italiani).
Ma, attenzione, la comunicazione va trasmessa entro 10 giorni dal decreto del consiglio dei ministri che indice il referendum. La dichiarazione di opzione, redatta su carta libera e corredata di copia di documento d’identità valido dell’elettore, deve contenere l’indirizzo postale estero cui va inviato il plico elettorale, l’indicazione dell’ufficio consolare (Consolato o Ambasciata) competente per territorio e una dichiarazione attestante il possesso dei requisiti per l’ammissione al voto per corrispondenza: e cioè che si è all’estero per lavoro, studio o cure mediche per un periodo di almeno tre mesi nel quale ricade la data di svolgimento della consultazione elettorale; oppure che si è familiare convivente di un cittadino che si trova in queste condizioni.