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La schedatura burocratica dei non indigeni è il primo dei passi concatenati che abbiamo conosciuto nell'antisemitismo della Germania nazista: stigmatizzazione del diverso, conversione forzata, discriminazione, segregazione, espulsione, aggressione, sterminio. Ieri per gli ebrei, oggi per i migranti.

La Repubblica, 20 ottobre 2016

SICURAMENTE ignorante, dunque apparentemente “innocente” secondo i canoni rovesciati della nuova antipolitica, sta ritornando in Europa una pratica che dovremmo conoscere bene: i governi che prescrivono la “lista” degli stranieri, la loro individuazione, la classificazione, la divisione delle persone in categorie distinte, con le scuole che procedono all’identificazione di specifiche caratteristiche antropologiche per chi viene da altri Paesi. Quasi come se le democrazie spaventate si muovessero inconsciamente alla ricerca dell’ultima forma del peccato originale, il peccato d’origine. Tutto questo disegnando con le persone una scala implicita di vicinanza o di lontananza dall’uomo bianco indigeno che i populisti xenofobi o anche i conservatori a caccia di voti considerano ormai l’unico soggetto meritevole di tutela.

Non sappiamo quel che stiamo facendo, non ne leggiamo il significato profondo e universale che pure dovrebbe risalire dalla nostra storia recente, preferiamo trasformare le pulsioni estreme in burocratiche misure amministrative e poi rapidamente in “gaffe” quando scoppia l’incidente, e il governo di Sua Maestà britannica deve chiedere scusa.

Siamo nuovamente tornati a ragionare di spazi, movimenti, frontiere, e dentro questa spazialità identitaria ci stiamo smarrendo credendo di proteggerci, mentre abbiamo paura di tutto ciò che si muove tra i vecchi confini. Osserviamo il rimpicciolimento dei nostri orizzonti, le chiusure progressive a cui scegliamo di assoggettarci: prima il terrore della mondializzazione, con qualche motivo. Poi il ripudio dell’Europa, con troppa fretta. Quindi la chiusura nell’identità nazionale nascosta tra i muri. Infine, in quello spazio recintato e protetto, l’ultima distinzione e la definitiva separazione: l’elenco dello straniero, marchiato burocraticamente nel cuore dell’Europa democratica del 2016.Ma era stata proprio la burocrazia statale ad agire per prima e per gradi, due mesi dopo la presa del potere di Adolf Hitler. Dunque, se siamo fortunatamente vaccinati dai fascismi, dovremmo almeno vigilare sull’ottusità strumentale degli apparati amministrativi di governo, sui loro meccanismi che una politica spaventata e inconsapevole sta nuovamente mettendo in moto. Dovremmo ricordare che in soli dodici anni, tra il 1933 e il 1945, il governo del Reich firmò duemila decreti anti- ebrei per cancellare passo dopo passo i loro diritti, realizzando nel 1933 quella che fu chiamata la loro “morte civica”, nel 1935 la “morte politica” e nel 1938 la “morte economica”. Anche allora era pura tecnica amministrativa?

Stiamo parlando di anni in cui la logica hitleriana è ancora quella della persecuzione e della discriminazione come armi di pressione per costringere gli ebrei tedeschi ad emigrare in massa, e infatti all’avvento del regime vivevano in Germania 500 mila ebrei, mentre nel 1939 la metà di loro aveva cercato scampo all’estero. Lo strumento è la compressione crescente dei diritti degli ebrei, la progressiva e sistematica riduzione del loro spazio di cittadinanza, la vita quotidiana mutilata pezzo per pezzo sotto gli occhi di tutti, sotto gli occhi degli altri, cittadini a pieno diritto. Prima il boicottaggio delle attività commerciali nel 1933, poi gli ostacoli di una “banale” azione amministrativa contro i medici e gli avvocati, quindi l’esclusione dagli uffici pubblici, infine da tutti i settori vitali del Paese per arrivare nel ’35 alle leggi di Norimberga che vietano i matrimoni misti e codificano la categoria da colpire: chi ha almeno due nonni ebrei.

È utile, oggi che ci sentiamo al riparo della storia, indagare la banalità della selezione, ripercorrere l’ottusità tecnica della differenziazione, fisica, civile o culturale, fino alla risoluzione dell’Unesco che due giorni fa ha negato il legame tra il “miglio sacro” dei luoghi santi di Gerusalemme e gli ebrei. Lo fa Pierre-André Taguieff nel suo saggio sull’antisemitismo [Il Razzismo, pregiudizi, teorie, comportamenti, Cortina editore], che è una storia dettagliata della giudeofobia e delle sue metamorfosi dall’antichità fino al contemporaneo, ma è anche un’indagine sul pregiudizio e sui miti negativi che lo sostengono e lo giustificano, ottundendo via via il senso di una responsabilità comune, la coscienza democratica, il sentimento di umanità.

Il termine “antisemitismo” (che si basa sull’equivoco di una visione razziale della storia fondata sulla lotta tra semiti e ariani, mentre gli ebrei non sono semiti in senso etnico, e non tutti i semiti sono ebrei) viene coniato nel 1860 dall’ebreo austriaco Moritz Steinschneider per denunciare un pregiudizio antiebraico ma presto viene impugnato da movimenti antiebraici per definire se stessi, tanto che nel 1888 si raccolgono 265 mila firme per la “Petizione degli antisemiti” contro l’emancipazione degli ebrei e nel 1882 la definizione approda sul dizionario tedesco Brokhaus: «Odio verso gli ebrei, avversione per l’ebraismo, lotta contro i caratteri, i modi e le intenzioni del semitismo».

Prende così il via la fase post- religiosa della giudeofobia, che cataloga le caratteristiche razziali, fisiche, mentali dell’ebreo considerandole fisse e immutabili, per innestare su questo profilo codificato e denunciato pubblicamente una visione fantasmatica capace di alimentare odio e ostilità verso ogni individuo che appartenga al gruppo, proprio e soltanto per l’appartenenza. La giudeofobia è prima pagana, ricorda Taguieff classificandola storicamente, poi teologico- religiosa cristiana, poi antireligiosa illuministica, poi anticapitalistica e socialista, poi ancora razziale e nazionalistica per approdare alla forma contemporanea dell’antisionismo radicale che salda i due stereotipi eterni quando mescola la denuncia di nazionalismo all’accusa di mondialismo: deorientalizzando e desemitizzando il popolo ebraico per occidentalizzarlo radicalmente nella guerra annunciata da Bin Laden nel 1998 contro “la crociata mondiale”.

La sua persistenza nella storia attraverso una continua metamorfosi dell’odio è dovuta alla forte carica mitica, al fondamento teologico, alla capacità di adattamento a culture diverse. L’accusa più ricorrente agli ebrei è di costituire uno Stato nello Stato, una sorta di nazione separata all’interno della nazione d’accoglienza, con la conseguenza per cui l’antisemitismo sarebbe una forma di difesa indigena. A questo corto-circuito di comodo ha già risposto Sartre, spiegando che non è l’ebreo a provocare l’antisemitismo, ma al contrario è l’antisemitismo che crea l’ebreo come soggetto immaginario e mitologico, costruito su misura per giustificare l’odio fobico dei suoi avversari. I quali in questo processo di costruzione del nemico eterno, universale, lo sopravvalutano dilatandolo nel numero dunque nella presenza, nelle facoltà, quindi nella potenza, nell’ubiquità leggendaria, fino ai luoghi del dominio. È la formula di Alfred Rosenberg, l’ideologo nazista: «L’ebreo si erge come il nostro avversario metafisico».

Queste accuse sono anche forme di razionalizzazione teologica, politica, scientifica dell’antisemitismo, appoggiandolo ai grandi miti antiebraici che ideologizzano e culturizzano la giudeofobia, dall’odio verso il genere umano all’assassinio rituale, al deicidio con l’assassinio di Cristo, alla maledizione con l’erranza, alla perfidia della speculazione finanziaria, alla cospirazione, al razzismo per l’elezione divina del popolo prediletto. È da qui che sono nate le tre politiche con cui si è manifestata la violenza contro gli ebrei: la conversione, da quando nel IV secolo Costantino trasforma il cristianesimo in religione di Stato, la persecuzione ogni volta che la conversione fallisce, con il Talmud processato e portato in piazza nel 1242 su 24 carretti per essere bruciato pubblicamente. L’ultima politica è l’annientamento.

Bisognerebbe riflettere sulla concatenazione dei passaggi. La giudeofobia ha quattro dimensioni, e la prima è fatta di atteggiamenti e opinioni (credenze ostili, stereotipi negativi, pregiudizi) che producono esclusione simbolica; la seconda da comportamenti individuali o collettivi che producono esclusione sociale; la terza da decisioni istituzionali che producono esclusione discriminatoria, la quarta da discorsi ideologici e dottrinari, che teorizzano la violenza finale. Dunque esiste una scala nell’antisemitismo che è specifica ma rimanda un’eco per tutti i razzismi e le xenofobie: stigmatizzazione, conversione forzata, discriminazione, segregazione, espulsione, aggressione, sterminio. La soluzione finale non arriva quindi per caso o all’improvviso. Prima c’è la riduzione dell’”altro” a corpo estraneo, corpo ostile non assimilabile, che va escluso dalla vita politica, economica, culturale per spingerlo a emigrare, poi c’è l’espulsione per chi resta, dal 1941 c’è lo sterminio «come logica conseguenza di un lungo processo di emarginazione degli ebrei, trattati come estranei al genere umano, patologizzati, demonizzati come una potenza satanica».

È un’evoluzione per stadi, che Hilberg riassume in questi tre passaggi via via più prescrittivi: «Se rimanete ebrei, non avete il diritto di vivere tra noi». «Non avete il diritto di vivere tra noi». «Non avete il diritto di vivere». Lo strumento tecnico di queste politiche è fin dall’inizio la lista, perché su di essa si basa l’intenzione di “purificare” la popolazione legittima, distinguendo gli “altri”. Ben prima della soluzione finale, l’emarginazione, la discriminazione, la delegittimazione e infine la segregazione hanno bisogno di una tecnica di supporto, con strumenti pratici e amministrativi per individuare, identificare, localizzare, registrare, classificare, censire, marchiare, comunque separare. È l’ossessione del “passeggero clandestino”, dell’infiltrato, dell’estraneo nel corpo nazionale supposto puro, dunque da distinguere e difendere. Tutto questo nasce nello spazio occidentale, nel quadro delle procedure democratiche, nel dominio del diritto, nel cuore dell’Europa cristiana e dell’umanesimo progressista, ultima religione secolare dei moderni. La cornice di civiltà non ci preserva. L’orrore, ci ricorda Bauman, non è figlio dell’irrazionale ma è l’esito di un processo che è al contrario espressione della modernità e della sua razionalità e usa la competenza tecnologica, impiega gli strumenti del progresso, misura l’efficacia dei metodi, valuta il rapporto tra mezzi e fini, ricorre all’applicazione universale della norma. Fino alla conclusione: La violenza burocratizzata, in tutte le sue forme, «è l’espressione stessa della civiltà occidentale contemporanea, non una ribellione contro di essa».

«La . Il manifesto, 19 ottobre 2016 (p.d.)
Ci sarà tempo, dopo l’8 novembre, per rimpiangere la presidenza Obama, e non solo se, malauguratamente dovesse essere Donald Trump a occuparne la scrivania della sala ovale. Ma oggi, dopo l’ultima cena alla Casa Bianca con Renzi, e tripudio di agnolotti, pacche sulle spalle e sorrisi tra leader e first lady, Obama ha indossato la giacca dell’amico amerikano, e noi quella della colonia.

Obama ha detto che il Sì al referendum sulla riforma costituzionale «può aiutare l’Italia a procedere verso un’economia più vibrante, verso un sistema più efficiente». Non solo. Il presidente degli Stati uniti ha voluto sottolineare che se, sfortunatamente, Renzi il referendum dovesse perderlo, «secondo me dovrebbe restare in politica». L’endorsment a stelle e strisce metterà le ali ai piedi del nostro presidente del consiglio, atteso a rapporto dai vertici di Bruxelles sui conti pubblici.

Non che in Europa gli siano mancati gli sponsor, da Merkel a Hollande a Moscovici, o che abbia da temere da chi, Osce, Fmi, JPMorgan, Ficht, governa la finanza internazionale. Ma certo il pieno, fragoroso sostegno americano, sul nostro mercato elettorale è un carico da novanta. Del resto già l’ambasciatore Usa in Italia aveva annunciato il convinto appoggio d’Oltreoceano.

Certo, quando Alcide De Gasperi, dopo la guerra, andò negli Stati uniti con il cappello in mano a ringraziare per gli aiuti del Piano Marshall, erano altri tempi.

Ma il vizietto di considerarci il fedele alleato da usare nel teatro europeo, e in quelli infiammati dalle guerre americane, non cambia. Forse, però, sono cambiati gli italiani, che hanno ben assaggiato i frutti avvelenati della grande crisi provocata proprio da chi oggi ci regala il suo Sì alla riforma costituzionale. Non avrebbe potuto scegliere giornata peggiore, Obama, per rallegrarsi delle riforme renziane. I dati sul fallimento del Jobs act, sulla ripresa dei licenziamenti, sul ritorno delle finte partite Iva, sui centri della Caritas frequentati più dai giovani italiani del Sud che dagli immigrati, ci tengono svegli anche di notte.

Questa mobilitazione internazionale a favore della rottamazione costituzionale dimostra, se ce ne fosse bisogno, l’importanza del voto del 4 dicembre. E forse non esagerava Rino Formica quando, in una recente intervista al nostro giornale, spiegava che il referendum e la battaglia tra il No e il Sì sarà importante come quella tra monarchia e repubblica.

Il manifesto, 19 ottobre 2016 (p.d.)

Il Jobs Act è scoppiato come una bolla di sapone. Secondo i dati di agosto pubblicati ieri dall’Osservatorio sul precariato dell’Inps, la bandiera che il governo Renzi sventola nei consessi internazionali per dimostrare che le riforme in Italia sono «impressionanti» (il copyright è della cancelliera Merkel che lo disse già a Monti) serve in realtà a coprire questa situazione: il mercato del lavoro è stagnante, anzi le attivazioni e le cessazioni dei contratti diminuiscono; crollano del 33% i rapporti di lavoro a tempo indeterminato con il contratto «a tutele crescenti», dove l’unica cosa che cresce è la libertà di licenziare i lavoratori.

I licenziamenti sono aumentati tra gennaio e agosto 2016. Quelli sui contratti a tempo indeterminato sono passati da 290.656 del 2015 a 304.437 (+4,7%). Sono cresciuti soprattutto i licenziamenti individuali per ragioni disciplinari sui quali è intervenuto il Jobs act eliminando la possibilità di reintegra sul posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato dei nuovi assunti dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore della riforma. In otto mesi i licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo sono passati da 36.048 a 46.255 con un aumento del 28%. Nello stesso periodo le dimissioni sui contratti a tempo indeterminato, sono passate da 599.248 a 510.267 con un calo del 14,8%.

Per il presidente dell’Inps Tito Boeri questa crescita dei licenziamenti rispetto al 2015 «è agli stessi livelli del 2014». «Dicono che il Jobs act ha aumentato i licenziamenti – ha precisato – ma le tutele crescenti c’erano già nel 2015». «Si cominciano a vedere gli effetti concreti dell’aver abolito la tutela nei confronti del licenziamento, con particolare riferimento a quelli individuali o disciplinari – ha detto invece il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso – in mancanza di tutele nei confronti dei licenziamenti e in mancanza di ammortizzatori sociali, le nostre preoccupazioni si stanno dimostrando più che fondate». «dovremo gestire questi licenziati in più proprio a causa della riduzione delle tutele generata dal Jobs Act – ha aggiunto Carmelo Barbagallo (Uil). Qual è la soluzione per queste altre persone che, ora, si ritrovano senza occupazione?». Una domanda, al momento, senza risposta.

I numeri dimostrano che il Jobs Act non ha scalfito la struttura del mercato del lavoro fondato sul contratto a breve e brevissimo termine e, oggi, su un’alluvione di . Questo è il risultato dell’ulteriore liberalizzazione dei «buoni lavoro» che si comprano in tabaccheria voluta dal governo Renzi. Ad agosto ne sono stati venduti 96,6 milioni in più, il 35,9% in più rispetto ai primi otto mesi del 2015. La regione che ha registrato il maggior aumento di ticket-lavoro è la Campania (+55,6%), seguita dalla Sicilia (+50,7%).

Questa ondata di ticket influisce sui dati complessivi dell’occupazione e si riverbera sulla crescita che il governo continua a rivendicare. Questa crescita trainata dagli over 50 obbligati a restare al lavoro dalla legge Fornero. Tra queste persone si registra l’aumento maggiore dell’occupazione dovuta a una quota più alta di trasformazioni dei contratti precari nel nuovo a «tutele crescenti». Ne sono esclusi i giovani e gli under 49.

Il nuovo monitoraggio dell’Inps conferma inoltre il legame tra i fondi pubblici erogati alle imprese per la decontribuzione sui neoassunti con il «contratto a tutele crescenti»: tra i 14 e i 22 miliardi in tre anni e l’aumento relativo dell’occupazione. Erano oltre 8 mila euro nel primo anno del Jobs Act, ora sono a poco più di 3 mila euro, e sono destinati a scomparire, a parte alcuni incentivi mirati per le assunzioni a Sud.

Le statistiche registrano un crollo clamoroso degli assunti con questa formula. L’andamento era già evidente da un anno al punto che lo stesso governo sembra, oggi, avere rinunciato a rifinanziare i costosissimi sgravi. La droga degli incentivi non ha tuttavia risolto uno dei problemi che gli ideatori del Jobs Act speravano di avere risolto: il costo del lavoro per i contratti a tempo indeterminato. Invece di tagliarlo effettivamente, il governo ha abbassato i salari e dato incentivi alle imprese. È difficile tuttavia assumere qualcuno quando non esiste una domanda e non si sa bene cosa produrre. Chi ha concepito questa strategia ha ignorato un problema fondamentale. I fondi generosamente elargiti sarebbe stato più utile investirli in un reddito minimo, ad esempio. Le perdite sono pubbliche. I guadagni sono dei privati.

Una delle tante aberrazioni della rforma che Renzi e i suoi alleati vogliono imporci per obbedure all'ordine impartito nel 2013 dalla JP Morgan Chase & Co.

Huffington Post, 19 ottobre 2016

«Vogliamo una democrazia che decide», sostiene il fronte del Sì. «Anche noi! Ma decidere non vuol dire comandare, o dominare: avete costruito una dittatura della maggioranza, un sistema in cui chi vince prende tutto. Un sistema in cui non esistono più garanti terzi», ribattiamo dal fronte del No. È stato questo il leitmotiv del mio confronto con Luciano Violante, arbitrato venerdì scorso da Enrico Mentana. Un punto cruciale del dibattito ha riguardato l'elezione del presidente della Repubblica. Come il vecchio, il nuovo articolo 83 prevede che: «Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri». Solo che - se vincesse il Sì - il Parlamento sarebbe così composto: 630 membri della Camera (come ora: si sono ben guardati dal limitarne il numero, alla faccia della retorica del risparmio!), 95 senatori nominati dai consigli regionali (iddio sa come), fino a 5 senatori nominati dal presidente della Repubblica (durano sette anni, e dunque il loro numero al momento del voto è imprevedibile: dipende quando saranno stati nominati) e i senatori di diritto e a vita in quanto ex presidenti della Repubblica.

Immaginiamo dunque l'elezione del successore di Mattarella, e consideriamo il corpo elettorale più ampio possibile (augurando lunghissima vita a Giorgio Napolitano): 630+95+5+2, cioè 732 elettori.
Dobbiamo subito dire che, a legislazione attuale (dunque ad Italicum vigente), il partito di maggioranza avrà (per legge) 340 seggi alla Camera, e, diciamo, una maggioranza di 60 senatori (qua il dato è, per forza di cose, empirico: ma è una ragionevole proiezione del peso attuale del Pd): dunque un pacchetto di 400 voti.
«Ebbene, nei primi tre scrutini (come ora) per eleggere il Capo dello Stato ci vorranno i due terzi: 488. Il partito di maggioranza dovrebbe trovarne 88: il che implica un'alleanza politica di una certa ampiezza. Già, però, dal quarto al sesto scrutinio il quorum per l'elezione presidenziale scende ai tre quinti dei componenti: 440. E qua cominciano i problemi, perché basta una piccola 'aggiunta' (esempio non troppo astratto: un drappello di volenterosi verdiniani) per fare schiavo colui che dovrebbe essere il massimo garante di tutti.
«Ma la vera e propria crisi democratica si manifesta con ciò che viene previsto dal settimo scrutinio: quando basteranno i tre quinti dei votanti. Si tratta di un inedito quorum mobile: ma fino a che punto potrà abbassarsi? L'unico limite è quello imposto dall'articolo 64 della Costituzione (non toccato dalla riforma), che impone il numero legale: perché il presidente possa venire eletto è necessario che siano presenti la metà più uno dei componenti, cioè 367 elettori. Ora, i tre quinti di 367 è pari a 221: e dunque la nuova Costituzione prevede che dalla settima votazione il Capo dello Stato si elegga con una maggioranza minima di 221 voti, cioè con una maggioranza che è tutta nella disponibilità del singolo partito che avrà vinto le elezioni (340 deputati), anche se al Senato non dovesse avere nemmeno un seggio!
«Di fronte all'evidenza dei numeri, Violante ha risposto che si tratta di un'eventualità remotissima, perché alle elezioni presidenziali tutti sono presenti. Benissimo: ma allora perché la nuova Costituzione dovrebbe prevedere una simile stranezza? Come è ovvio, le Costituzioni dovrebbero evitare le trappole, non configurarne di bizzarre. Mentre qua si aprono scenari bizantini complicatissimi, fatti di giochi incrociati di assenze e presenze: una geometria dalle mille varianti che consegna un margine enorme alla peggiore politica, quella da corridoio parlamentare. A questo punto Violante ha ammesso che la ratio di questa bizzarra norma è evitare uno stallo nell'elezione presidenziale, perché questo potrebbe creare un danno all'immagine del Paese.
E così - dopo mille infingimenti, mille tentativi di negare l'evidenza - è finalmente emersa la verità. Che è questa: gli autori della riforma preferiscono consegnare la massima magistratura dello Stato all'arbitrio di un singolo partito, piuttosto che permettere che la sua elezione duri qualche giorno (perché di questo si tratta). E basterà ricordare che Sandro Pertini fu eletto al sedicesimo scrutinio per far capire come possa invece valer la pena di aspettare un po'. Se vince il Sì, il Presidente della Repubblica potrà dunque essere eletto solo dalla maggioranza creata a tavolino dall'Italicum. Sarà improbabile, ma è possibile: anzi, è esplicitamente previsto.
Ora, questo particolare cruciale rivela moltissimo dello spirito della riforma su cui siamo chiamati a votare. Una riforma che baratta decisionismo con democrazia, e che aumenta il potere della maggioranza senza aumentare le garanzie delle minoranze. È qui il suo carattere totalitario: letteralmente totalitario, nel senso che chi vince si prende tutto, e a chi perde non rimane alcuna tutela.
Accanto all'arroganza maggioritaria, la cialtroneria della scrittura: non si è fin qui notato che - a rigore - per il regolamento della Camera (quello che vige nelle sedute comuni dei due rami del Parlamento) il numero legale è distinto dal quorum richiesto per le votazioni di natura elettiva. Tra i presenti che rendono valida la seduta potrebbero essercene alcuni (o anche moltissimi) che non rispondono alla chiama, e non partecipano alla votazione: in pura teoria per eleggere il presidente della Repubblica basterebbero 3 voti su 5 votanti, purché ci siano 367 presenti a garantire il numero legale. Non accadrà mai? È molto probabile. Ma diventa davvero colossale l'arbitrio dei signori del voto parlamentare, che potranno agitare la minaccia di colpi di mano, fare uscire ed entrare dall'aula interi gruppi, pescare nel torbido: con i famosi 101 franchi tiratori che impallinarono la presidenza Prodi abbiamo imparato quanto l'elezione dell'inquilino del Quirinale possa essere velenosa e opaca.
Appare dunque plasticamente evidente come la riforma costituzionale che stiamo per votare sia stata scritta con sciatteria, ignoranza, inettitudine. Oltre che con colossale arroganza.
Il diavolo si nasconde nel dettaglio, ammesso che l'elezione del Capo dello Stato sia un dettaglio. E il 4 dicembre non vogliamo andare all'inferno.
Riferimenti
Sull'ordine impartito dal colosso finanziario JP Morgan ai governanti degli stati dell'Europa del sud vedi anche anche vedi l'articolo di Tomaso Montanari dell'aprile 2016,le 'nterviste a Stefano Settis, a Paolo Maddalena ed a Gustavo Zagrebelsky

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». il manifesto, 19 ottobre 2016 (c.m.c.)

«Per un paese la Costituzione è il riferimento comune, una carta di identità di principi e valori in cui tutti si riconoscono. È il terreno comune su cui si può e si deve svolgere il dialogo. Una cosa è la discussione sulle leggi ordinarie, un’altra, tutt’altra, è la discussione sulle leggi costituzionali. Ma Renzi non tiene in conto questa fondamentale differenza».

È una forte preoccupazione quella che esprime il giurista Stefano Rodotà – già parlamentare, accademico, garante della privacy, teorico dei beni comuni, candidato alla presidenza della Repubblica, insomma ottant’anni intensi di passione politica a sinistra. In omaggio alla sensibilità del tema di cui ragiona, «il paese che rischia di essere lacerato da un governo divisivo», misura le parole con attenzione. Stava dicendo della Costituzione come terreno comune. «Ecco, invece oggi la Carta non è più guardata come tale. È come se oggi, nel pieno conflitto sulla modifica Renzi-Boschi, ciascuna delle parti finisca per identificarsi con una sua propria Costituzione».

Una modalità di conflitto, quello di questi mesi, che sembra l’esatto contrario di ciò che viene comunemente definito ’spirito costituente’?
La grande preoccupazione dei costituenti, anche negli anni successivi al 1948, è stata quella di non far diventare la Carta un tema di divisione. Tant’è che quando durante i lavori dell’Assemblea ci fu l’espulsione dal governo dei comunisti e dei socialisti, il lavoro comune sulla Carta non si interruppe.

Ma a dicembre ci sarà un referendum per approvare o bocciare la riforma. I conflitti di questi mesi non sono fisiologici di una logica binaria, giocata fra sì e no?
Solo in parte. A differenza di tutta la nostra storia precedente, oggi succede che il presidente del consiglio tende fortemente a identificarsi con la ’sua’ riforma e a sovrapporre le scelte che riguardano la stretta attività di governo con la ’sua’ riforma. Ma non può usare sulla Costituzione la stessa logica che userebbe per una legge ordinaria.

Quest’atteggiamento può avere conseguenze dal 5 dicembre in avanti, e cioè dal giorno dopo l’esito del referendum?
Naturalmente dipende da chi vince, è banale dirlo. Non demonizzo la lunga campagna referendaria da maggio a dicembre: la discussione è aperta e continua. Ma è il tipo di confronto ingaggiato dal governo che preoccupa: non dovrebbe mai scivolare nella delegittimazione dell’avversario, non deve perdere di vista appunto il ’terreno comune’, non dovrebbe promuovere una logica divisiva, che esclude chi non è d’accordo.

Sta dicendo che se vincesse il Sì potrebbe esserci una parte di questo paese che non si riconosce nella ’nuova’ Costituzione?
Sto dicendo che questo è il problema. Le Costituzioni hanno bisogno di legittimazione, i cittadini vi si devono riconoscere. Non sto dicendo ovviamente che tutti debbano condividerne ogni passaggio, ma tutti debbono sentirsi inclusi in quei principi e in quei valori. E questo processo non può essere ridotto una pura questione di maggioranza dei votanti. È un terreno delicato per un presidente del consiglio che ha deciso di fare in prima persona la battaglia per il Sì. Il rischio è che il 5 dicembre ciascuna parte dica ’io ho la mia Costituzione’. E la Carta anziché unire il nostro paese finirà per dividerlo.

Nel 2006, ai tempi del referendum confermativo della riforma di Berlusconi, il paese non appariva così diviso. Eppure quella riforma poneva il tema del federalismo spinto voluto dalla Lega. O è un’impressione dovuta al senno di poi?
No, è vero che all’epoca la lotta politica c’era ma la divisione non era così profonda. Le condizioni erano tutte diverse, la ’devolution’ chiesta dalla Lega in effetti appariva molto più preoccupante di quello che poi si è rivelata. Ma soprattutto Berlusconi e i suoi fecero una campagna imparagonabile a quella di Renzi per intensità, tensione e anche presenza pubblica. E poi c’è una differenza politica di fondo fra il Renzi di oggi e il Berlusconi di ieri. Oggi Renzi punta sulla vittoria per rafforzare, anzi persino costruire la sua identità. Legittimo, certo, ma questo lo porta a esasperare tutti i toni.

Molti contestano allo schieramento del No di essere composto per lo più di elettori di Grillo e di destra che voteranno contro Renzi ’con la pancia’, con buona pace delle approfondite ma elitarie analisi dei giuristi e dei costituzionalisti.
Qui c’è un altro punto della delegittimazione dell’avversario. Che significa ’votare con la pancia’? Renzi sta facendo una battaglia con toni più che arroganti e quindi è del tutto comprensibile che si diffonda una reazione individuale forte, diretta, emotiva. Che a qualcuno non appare mediata da sufficiente riflessione. Liquidare la ’pancia’ come un elemento non all’altezza del dibattito è una sottolineatura delegittimante. Schematizzo: il tema è se ti riconosco o no come interlocutore. Ed è la regola della democrazia.

Rovescio la domanda. Nel fronte del No, che spesso parla di un parlamento in parte o in tutto delegittimato dalla Corte costituzionale che ha cancellato la legge con cui è stato eletto e nominato, non c’è proprio la tendenza speculare, o la tentazione, di non riconoscere Renzi come interlocutore?
Direi che questo pericolo non c’è, sarebbe una forzatura. Renzi esagera nei toni, è arrogante, ma resta il presidente del Consiglio. Certo, il suo stile e il suo linguaggio, oltreché la sua proposta di modifica costituzionale, sta cambiando di fatto il suo ruolo rispetto ai predecessori. Ma nessuno trascura che è il presidente del consiglio e che, comunque composta, ha una maggioranza.

L’esito del referendum cambierà in qualche misura la vita politica italiana. I comitati del No sono impegnati non solo per la difesa dell’attuale Costituzione ma per la sua attuazione concreta. Che farete dopo il 5 dicembre, andrete avanti?
È un proposito che abbiamo pronunciato molte volte, e che ora potrebbe aver cambiato significato. Dipende dalle volontà, dalle persone che vorranno fare questa battaglia. Ma resta un fatto: il tema dell’attuazione della Costituzione ormai è stato posto, è emerso chiaramente, e in molti oggi sono consapevoli. Non potrà essere eluso.

«Una messa in discussione di quell’aggettivo, “naturale” che, come sappiamo, è stato l’asse portante ideologico della violenta differenziazione tra i sessi, e di ogni altra forma di dominio».

comune-info, 19 ottobre 2016 (c.m.c.)

La famiglia sta conquistando spazi sempre più ampi, nell’informazione, nel dibattito politico, nelle pubblicazioni e nelle aule parlamentari, il che fa sperare che sia uscita definitivamente da quell’idea fuorviante di “privato” che l’ha tenuta tradizionalmente nell’ambigua posizione di “cellula primaria”, fondante della società, e, insieme, appannaggio di un potere patriarcale considerato, come ha scritto Rossana Rossanda, “libertà naturale”.

A stanare ciò che non si sa o non si dice degli interni delle case, del modo di vivere delle persone, ci pensano poi, sempre più insistentemente, i rapporti statistici, gli studi sociologici, da cui apprendiamo, per esempio, che le single americane superano oggi le coniugate, che la senescenza della società italiana aumenta, sia come vissuto soggettivo – “giovani” fino a ottanta anni e finché non si muore -, e come età media di chi riveste ruoli di potere.

Prese separatamente, le notizie che arrivano al cittadino sulla realtà che lo tocca più intimamente e materialmente, non possono che generare un effetto disperante, come tutto ciò che non lascia intravedere vie d’uscita: in famiglia si continua a uccidere; aumenta il numero delle coppie senza figli, e così pure le persone che vivono sole; i giovani ritardano sempre più l’uscita dalla famiglia d’origine; gli anziani al potere non danno segno di voler arretrare.

Per riassumere: una società di potenziali assassini, una gioventù irresponsabile, una caparbia senilità, e uno Stato confessionale. Per aprire uno spiraglio dentro questo orizzonte asfittico, che ci viene descritto dai media ogni giorno, basterebbe fare lo sforzo di collegare aspetti che nella realtà sono annodati, rilevare le contraddizioni che li attraversano, mostrare i segnali di nuove incoraggianti prospettive, che ci sono e che vanno nominate, sostenute, sottratte al quadro sinistro in cui rischiano di eclissarsi.

In una lettera, che si può considerare tuttora attuale di Rosy Bindi, pubblicata quasi una decina di anni fa su Repubblica (19.1.07) compariva una visione lucida, appassionata, dei molteplici mali che minacciano il benessere, l’autorevolezza e persino la sopravvivenza della famiglia, dal carico di incombenze che la società rovescia su di essa agli episodi violenti di cui sono vittime soprattutto le donne.

Una descrizione, realisticamente impietosa, che elencava: “degrado materiale e morale”, “soprusi economici”, “ricatti psicologici”, “abbandoni”, “aggressività”, “abusi sessuali sulla donna, sui vecchi e persino sui bambini”.

Sorprendente era invece la conclusione: la famiglia restava, nonostante tutto, “un organismo sano e vitale”, “culla naturale della formazione degli affetti e palestra dei rapporti tra le persone”. Invece di indagare le ragioni di una “ambivalenza” che è tutto fuor che “naturale” – frutto evidente di condizioni storiche e culturali, come la divisione dei ruoli sessuali, i postumi psicologici di un millenario dominio maschile, e così via -, si tornava, come sempre a rispolverare un armamentario antico, il foucaultiano “sorvegliare e punire” che, depurato “degli accenti autoritari”, diventava “vigilare e riparare”: servizi territoriali, consultori, agenzie, figure e associazioni del volontariato, chiamati a formare, attorno alla famiglia, una cerchia investigativa e protettiva, da affiancare a interventi più precisi, come la punizione, la “riabilitazione del carnefice”, il dovuto soccorso alla vittima.

Quello che emerge oggi in modo evidente, ma su cui si stenta a fermare l’attenzione senza che questo significhi abbandono di ogni speranza o rimpianto del passato, è che l’istituzione considerata finora “cellula basilare” per la società e per la stessa sopravvivenza della specie, è in declino, attraversata da convulsioni interne, da vistosi mutamenti e da una crisi “valoriale” che solo la retorica nazionalista, religiosa o interessata dei nuovi credenti riesce malamente a nascondere.

La famiglia, così come l’abbiamo conosciuta – scriveva Roberto Volpi nel suo libro La fine della famiglia (Mondatori 2007) – sta “evaporando”, e, se c’è ancora, non è più quella.

Famiglia ha voluto dire finora “continuità biologica al di là del singolo”, quindi genitori e figli, coppie che affidavano alla prole “l’ampliamento della loro visuale sul mondo”, mentre oggi la coppia, che già stenta a formarsi, “vede in se stessa le aperture, cerca e persegue per se stessa i traguardi, non demanda ai figli né le une né gli altri”.

Il “mondo dei senza figli”, la società che assiste al “trionfo dei celibi”, e dove sempre più persone “dirottano risorse e tempo” in direzione di “cose belle della vita”, meno impegnative dei figli, non sono solo il portato di difficili condizioni socio-economiche, della carenza di adeguate politiche famigliari, ma di una “rivoluzione dei costumi”, un cambiamento profondo dei paradigmi culturali che data dalla metà degli anni Settanta, dalle leggi sul divorzio e sull’aborto.

Del femminismo, dei gruppi omosessuali e lesbici, del movimento non autoritario, non veniva fatta parola, protagonisti, per molti evidentemente ancora innominabili, della rivoluzione più temuta, benché pacifica, dell’ultimo secolo. Pur essendo attraversato da una nota di ricorrente allarmismo, che gli impedisce di vedere nelle nuove forme di convivenze prospettive inedite e liberatorie, riguardo alla socializzazione, al rapporto tra i sessi, il desiderio di figli, il libro di Volpi sottolineava due aspetti significativi del cambiamento: la centralità che assume l’individuo all’interno delle nuove formazioni sociali, e lo scarto, la discontinuità, che esse rappresentano, ragione per cui non avrebbe più senso chiamarle famiglie.

La recente discussione parlamentare sulle unioni civili alla Camera, si è mossa dentro contraddizioni, avanzamenti e arretramenti analoghi. Importante è non toccare l’articolo 29 della Costituzione, la famiglia intesa come “società naturale fondata sul matrimonio”, che resta pertanto modello di riferimento imprescindibile, quanto a legittimità e valore riconosciuto. Ottenere che il riconoscimento giuridico delle unioni di fatto sia “equiparato”, e abbia “pari dignità” rispetto allo statuto matrimoniale, avvalora l’idea di “famiglie di serie B”, con vincoli più “leggeri”, meno impegnativi, e quindi con tratti di instabilità e scarsa garanzia per i figli.

Solo sottolineando la convivenza come unione finalizzata “al naturale sviluppo e alla libera autorealizzazione del singolo”, si apre l’orizzonte a nuove progettualità, possibilità finora sconosciute di ripensare il rapporto tra individuo e collettività, a partire da quella individualità ancora da riconoscere e far vivere appieno, che è l’esistenza femminile svincolata dal destino di moglie e madre. Non si trattava solo di colmare una “lacuna normativa”, di “adeguare” la disciplina giuridica a una “realtà sociale”, 1.200.000 coppie di fatto.

Ciò a cui ci si augurava fosse dato il giusto riconoscimento simbolico con una legge è il “pluralismo” nelle relazioni affettive, e questo comporta una messa in discussione di quell’aggettivo, “naturale” che, come sappiamo, è stato l’asse portante ideologico della violenta differenziazione tra i sessi, e di ogni altra forma di dominio.

. MicroMega online, 17 ottobre 2016 (c.m.c.)

«Macché semplificazione e tagli a sprechi, le ragioni della riforma vanno indagate altrove: Renzi si è piegato alla volontà dei poteri forti, Jp Morgan ci ha dettato le modifiche costituzionali».

Dalla voce non sembra stia parlando un ottantenne. Ragiona, analizza e spiega le ragioni per le quali sta sostenendo la campagna del NO al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. Paolo Maddalena, vice presidente Emerito della Corte Costituzionale, è uno dei massimi esperti in materia. Lo contattiamo telefonicamente, combattivo, ha desiderio di sviscerare nel dettaglio la riforma per convincere soprattutto gli indecisi al voto.

La riforma voluta dal presidente Matteo Renzi riduce il numero dei senatori, stabilisce nuovi rapporti tra Stato e Regioni, oltre a semplificare l’annosa questione della burocrazia e cancellare carrozzoni come il Cnel… Cosa non la convince?
Sono spot propagandistici, senza alcuna logica. La riduzione dei costi e la semplificazione non si raggiungono col soffocamento del Senato, uno degli organi massimi dell’espressione della sovranità popolare. Tra l’altro la Ragioneria di Stato ha smentito i numeri del governo e, con la riforma, si risparmierebbero soltanto 51 milioni. Ci sono altri modi per racimolare soldi. Anche la questione dello snellimento dell’iter legislativo è mendace. Agli esami degli atti i tempi si allungheranno.

Beh, però si pone fine alla “navetta” tra i due rami del Parlamento…
Su molte materie rimane obbligatorio l’esame di una e dell’altra Camera. In caso di divergenze di vedute tra Camera e Senato, il conflitto dovrà essere risolto dai due presidenti e, qualora non trovassero un accordo, la questione andrebbe fino alla Corte Costituzionale dove trascorrerà almeno un anno dalla sentenza. Un iter così, lo capisce chiunque, è lungo e assurdo.

Insisto, i fautori del Sì dicono che il Senato interverrà su poche leggi e soprattutto c’è l’occasione di superare il bicameralismo paritario, come già avviene in Francia e Germania. Lei è per difendere a priori il bicameralismo?
In dottrina il bicameralismo può essere imperfetto, alcune materie possono passare soltanto alla Camera e non al Senato. Il governo, invece, con tale riforma fa un pasticcio, il provvedimento è scritto male e pieno di incongruenze. Il Senato sarà formato da nominati, ovvero da sindaci e consiglieri regionali senza vincolo di mandato, tanto valeva eliminarlo del tutto e rimanere con una Camera Alta. Infine, la questione dei tempi di approvazione di una legge: è una questione di volontà politica, non di bicameralismo paritario. Quando la maggioranza ha deciso – si pensi all’introduzione del pareggio di Bilancio in Costituzione – ha modificato la Carta in poche settimane. Quando si vuole, le leggi vengono varate velocemente, anche adesso.

Quindi è falso che si sta ricalcando il modello del Senato tedesco?
La Camera dei Lander funziona diversamente. Nel testo della riforma si parla di “Senato delle Autonomie” ma nel dunque non ha competenze specifiche sui territori anzi schiaccia le autonomie locali.

Il pensiero di molti si può riassumere col giudizio: “Dopo anni di immobilismo, siamo di fronte a una riforma pasticciata ma sempre meglio di niente”. Come replica?
È una grande sciocchezza, meglio il niente al male. Questa riforma segna la fine della democrazia.

Veramente, come denuncia il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, siamo al rischio di una deriva oligarchica? Non le sembra di esagerare? Renzi ha annientato i contrappesi creando un esecutivo forte. Ha tolto poteri al presidente della Repubblica il quale sarà, a conti fatti, eletto solo da 220 parlamentari, e ha ridotto le garanzie costituzionali alla Consulta. Nell’albero istituzionale ha tagliato le foglie facendo restare esclusivamente il tronco dell’esecutivo.

La legge elettorale – che prevede un rafforzamento dell’esecutivo – è uscita però dalla contesa referendaria e si ipotizza una modifica dell’Italicum.
Che si raggiunga una nuova legge elettorale entro il 4 dicembre è escluso da tutti, non c’è tempo. E l’Italicum è strettamente collegato con la modifica del titolo V: rischiamo un Senato esautorato di potere e una Camera con un premio di maggioranza “drogato”. Mi spiego meglio. Secondo l’Italicum, il ballottaggio si può vincere col 20/25 per cento del consenso degli elettori e ciò – considerando l’alto tasso di astensionismo – significa che il 10/15 per cento dei cittadini italiani vanno a costituire una maggioranza assoluta. Ribadisco, siamo alla distruzione della democrazia.

Ma la Costituzione si può modificare ed è migliorabile oppure dovrà rimanere così vita natural durante?
La nostra Carta è ottima e ha bisogno soltanto di piccoli ritocchi. Qui si fa una modifica che trasforma la forma di governo: passiamo da una democrazia parlamentare a un governo presidenziale. Sul piano giuridico è un grave errore perché oligarchia e democrazia sono forme di Stato diverse.

Scusi, governo presidenziale non è ben diverso dal dire oligarchia? Pensiamo agli Usa o la Francia, sono democrazie funzionanti…
Il problema è stabilire sempre il contrappeso al potere: negli Usa c’è il bilanciamento col Congresso se noi invece il Parlamento lo riduciamo ad un Senato di nominati ed esautorato di potere e ad una Camera che rappresenta una maggioranza del 10 per cento degli italiani, mi spiega dove sono i contrappesi?

Se vince il NO la situazione rimarrà così per anni, lo sa?
Non è vero, se vince il NO si mette in moto finalmente una forma di partecipazione popolare perché la gente sta capendo il quadro politico: siamo succubi di finanza, banche e multinazionali. E anche della Germania. Si capirà che l’Italia deve cambiare politica e riappropriarsi di se stessa. Noi stiamo svendendo il nostro territorio e la sovranità. Gli ultimi governi, dal 2011 in poi – i cosiddetti governi presidenziali – hanno perseguito le medesime politiche: al proprio interno il dominio dell’esecutivo e all’esterno l’assoggettamento ai diktat di Bce e Troika. Rischiamo di diventare come gli ebrei sotto la schiavitù di Babilonia.

La battaglia per la difesa della Costituzione si intreccia con l’Europa dell’austerity e per un ritorno alla sovranità popolare, sta dicendo questo?
Questa riforma, come tutte le leggi di Renzi, come il TTIP, come il CETA, e come molti regolamenti e direttive europee sono tutte a favore della finanza e contro gli interessi del popolo. E’ un passaggio di una storia che inizia negli anni ’80, si vuole capovolgere l’ordine sociale italiano. Non conta il valore della dignità umana, l’uomo diventa merce. Pensiamo allo Sblocca Italia: a favore della finanza, distrugge l’ambiente e regala i nostri territori ai profitti delle lobby.

Insomma, professor Maddalena, crede veramente che le Istituzioni europee, la Bce e le agenzie di rating abbiano fatto pressioni al governo Renzi per varare la riforma costituzionale?
JP Morgan l’ha chiesto esplicitamente con un documento del 2013, di 16 pagine: i governi del Sud Europa sono troppo antifascisti e democratici e vanno cambiati a vantaggio di un esecutivo forte col quale i mercati possono dialogare. Il Mercato è formato da un denaro fittizio – creato ad hoc da politici servitori – che ammonta a 1,2 quadrilioni di dollari, 20 volte il Pil di tutti gli Stati del mondo. Il processo di una finanza sana che passa per il percorso finanza-prodotto-occupazione-profitto-finanza, è sostituito da finanza-finanza. Qual è l’obiettivo finale?

Qual è?
Appropriarsi dei beni esistenti, soprattutto dei Paesi più deboli e periferici. E noi, ogni giorno, stiamo svendendo pezzi importanti del nostro territorio oltre a privatizzare beni comuni e diritti basilari. Ci impoveriamo. L’articolo I della nostra Costituzione dice che siamo una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, tra i recenti dati su disoccupazione e precarietà, possiamo affermare che stiamo spogliando il lavoro dalla sua funzione e sostituendolo col massimo profitto. E’ immorale e contro l’etica repubblicana.

Per difendere la nostra Costituzione bisogna rompere con l’Europa?
La tematica è controversa. Noi dobbiamo accettare la sfida europea ma non a prezzo della nostra miseria perché gli attuali manovratori di Bruxelles stanno privilegiando la Germania. L’Europa, a trazione tedesca, viaggia a due velocità: o si contrastano le disuguaglianze e si costruisce un’Europa più equa o andremo verso la nostra fine.

«». il manifesto, 18 ottobre 2016 (c.m.c.)

La forma di governo è il modello organizzativo assunto dallo Stato per esercitare il potere sovrano. La novità del Titolo V riguarda la modifica della forma di governo. Essa, diceva Aristotele, per essere compresa deve essere ricondotta al suo fine.

In sanità abbiamo avuto diverse forme di governo organizzate in diversi modi per diversi fini.

Nel 1978 (riforma sanitaria) il fine è la salute e la forma di governo è la gestione centrale in forma di decentramento amministrativo (il ministero è la testa e regioni e comuni sono le braccia e le gambe).

Nel 2001 la strategia resta quella della salute ma la forma di governo viene modificata in senso federalistico-devolutivo (le regioni sono la testa le braccia e le gambe). Un disastro. Le regioni si rivelano enti insostenibili, non riescono a diventare regioni quindi veri enti di governo e vengono ridimensionate.

Il nuovo Titolo V prende atto di questo fallimento e prefigura una combine istituzionale che nel linguaggio sportivo si definirebbe un «biscotto»: una super concentrazione di poteri al ministero dell’economia, una riduzione di poteri delle regioni, uno svuotamento della funzione del ministero della salute.

Negando il ministero della salute e potenziando il ministero dell’economia, dalla salute si passa alla sostenibilità finanziaria. Aristotele va quindi letto in due sensi: la forma di governo definisce il fine ma anche il contrario.

A questo punto la domanda pratica: se il potere di spesa è nelle mani del ministero dell’economia e i poteri di organizzazione e di pianificazione dei servizi restano nelle mani delle regioni, il ministero della salute che fa? Quello che gli resta da fare sarebbe facilmente riducibile ad un dipartimento tecnico scientifico nulla di più.

Quindi la domanda vera è: perché il governo vuole de-sanitarizzare la sanità riducendo il ministero della salute ad un dipartimento tecnico-scientifico? O meglio perché pur riesumando il decentramento ammnistrativo in luogo della devoluzione, ai fini del diritto alla salute, non restituisce al ministero della salute i poteri necessari come una volta?

Risposta: perché il fine vero del nuovo Titolo V, per ragioni di sostenibilità, è negare l’art 32 della Costituzione. Il diritto alla salute per questo governo è finanziariamente insostenibile per cui non può che essere ridimensionato.

Costituzione contro Costituzione. Una tesi forte quasi temeraria che va dimostrata.

All’inizio del ’900 la salute pubblica era affidata al ministero degli interni perché la malattia a quei tempi era considerata un problema di ordine pubblico.

Nel 1958 si istituisce il ministero della sanità quale logica conseguenza di un cambio di strategia. Il fine era dare piena attuazione all’art.32 («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»). La malattia da problema di ordine pubblico in questo modo diventa un problema finalmente sanitario. Oggi la malattia non è né un problema di ordine pubblico né un problema sanitario ma solo una questione di spesa. In una fase sociale nella quale ci si ammala di più, si è curati meno e si campa non quello che potremmo e vorremmo campare.

Il significato del nuovo Titolo V è politicamente istituzionalmente e culturalmente regressivo e prefigura la forma di governo più adatta alle politiche di negazione dell’art 32. Oggi la ministra Lorenzin neanche si rende conto che votando Sì al referendum vota contro se stessa cioè contro l’istituzione che rappresenta votando per negare l’art 32 della Costituzione del quale lei dovrebbe essere la prima garante dal momento che il suo ministero fu istituito proprio per inverarlo.

«Perché, si avverte ancora in ogni ambiente, politico e religioso, culturale e d’opinione, il disagio per la forza che la cultura di genere ha avuto nel trasformare i codici comportamentali e nel contestare la divisione dei ruoli secondo la lettura maschile del pubblico e del privatoLa

Repubblica, 18 ottobre 2016 (c.m.c.)

IL “Gender” è la traccia, nemmeno tanto sotterranea, che tiene insieme molti luoghi dell’opinione, culturale e politica, apparentemente lontani tra loro. È decisamente al centro della campagna elettorale americana, dove le offensive e a tratti violente esternazioni del candidato repubblicano hanno mosso non semplicemente il senso del disgusto, ma la determinazione a reagire.

Il genere conta. Conta anche a guardare la politica americana da parte democratica: perché vi è la possibilità concreta che una donna diventi commander in chief della prima superpotenza. Da un lato le donne sono trattate come “ pussycat” da prendere e usare, secondo una visione del mondo che ci porta molto indietro nel tempo, ai cliché insopportabili dei mad men che come despoti toccano, aggrediscono, usano e promuovono. Dall’altro, sempre più donne, come Michelle Obama, sentono l’urgenza di farsi politiche per ristabilire l’ordine della decenza e della libertà, spiegando dalla tribuna della campagna per Hillary Clinton che non è ammissibile che la vulnerabilità diventi arma di potere nelle mani di un uomo, e che è offensivo per gli uomini che uno di loro li metta tutti insieme nel modello dei “discorsi da spogliatoio”. « Enough is enough » ha scandito Michelle Obama.

Perché il genere produce tanto scompiglio? Perché, dopo decenni di più o meno efficace aggiustamento dei sistemi politici e giuridici alla pratica e alla cultura dei diritti civili, si avverte in ogni ambiente, politico e religioso, culturale e d’opinione, il disagio per la forza che la cultura di genere ha avuto nel trasformare i codici comportamentali e, soprattutto, nel contestare la divisione dei ruoli secondo la lettura maschile del pubblico e del privato?

Parlando dalla Georgia alcune settimane fa, papa Francesco ha fatto sue le preoccupazioni dei cristiani tradizionalisti che animano ogni anno il Family Day. Anche lui ha chiamato in causa la «teoria del gender», una «colonizzazione ideologica» che tenta di ridefinire i contorni naturali del matrimonio tra uomo e donna, sovvertendo l’ordine delle cose.

Il gender però non è una «teoria», non un’arma polemica da usare contro; è invece una cultura dei diritti civili che mette al primo posto la dignità della persona, nella sua specificità, la sovranità della decisione individuale e della scelta. È una cultura della maturità e della responsabilità, non della ludica irresponsabilità. Il genere mette a dura prova le culture sedimentate di ruoli e valori, non mobilita il mondo delle donne contro quello degli uomini. Critica abiti mentali, ruoli istituzionalizzati e linguaggi, e invita, donne e uomini, a leggerli come indicatori di un mondo gerarchico che offende e svaluta una parte dell’umanità, qui quindi tutta l’umanitá.

C’è bisogno di una cultura di genere, anche perché l’appello ai diritti e all’imparzialità della giustizia non ha da solo avuto la forza di cogliere le specificità delle condizioni di dominio e di violenza, di richiamare l’attenzione sul rovesciamento della diversità sessuale in subordinazione. Il genere consente di recuperare la dignità della donna come persona, senza dover azzerare la sua specificità e senza confinare l’esperienza femminile allo spazio del privato.

Questa categoria ci invita a pensare che l’opposto del truculento mondo da spogliatoio di Trump non è la devozione sacrificale della donna ai ruoli domestici. Aspirare alla Casa Bianca è una delle strade che si diramano dalla cultura del genere; una, non la sola. È la pluralità dei percorsi di vita, la stessa pluralità che ogni persona rivendica, la prospettiva che la cultura dei diritti ha contribuito a consolidare.

Guardare il mondo sociale dalla prospettiva del genere fa vedere e sentire come insopportabile ogni forma di discriminazione e di diseguaglianza, da quella che permane nell’uso ordinario della lingua a quella che si sperimenta nel mondo del lavoro e nella forza degli stereotipi. Anche quando il diritto ha acquistato piena cittadinanza in tutte le pieghe della vita sociale. La cultura del genere può svolgere questo ruolo critico perché fondata sul principio della dignità della singola donna e del singolo uomo. Da questa radice hanno preso forza le parole « enough is enough », scandite da Michelle Obama: non si possono tollerare narrazioni di subordinazione, immagini di donne deboli che l’uomo marchia. La forza della cultura del genere si prova qui.

«In un sussidiario per le quinte si spiega così il funzionamento delle Camere: “I deputati vengono scelti, i senatori indicati dalle Regioni”».

Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2016 (p.d.)

Il potere legislativo è il potere di decidere le leggi, che sono le regole che valgono per tutta la nazione. In Italia è affidato al Parlamento, diviso in due Camere”.

E fin qui, la lezione di Costituzione e società presente su un sussidiario per le quinte elementari è corretta. Poi, la descrizione. “La Camera dei deputati: i suoi componenti sono eletti diretta mente dai cittadini con le elezioni”. E, anche in questo caso i bambini di 10 anni, possono dirsi soddisfatti. Un po’ meno quando si affronta il nodo della seconda camera. “Il Senato della Repubblica: i suoi componenti sono indicati dalle diverse Regioni in cui è suddiviso il territorio Italiano”.

Tutto questo è a pagina 85, nella sezione Geografia, che si occupa pure dell’Organizzazione politica dello Stato. Il libro, o meglio il sussidiario, si chiama Imparo facile ed è pubblicato dalla casa editrice milanese Cetem che è specializzata in prodotti per la scuola primaria fin dal 1945 e che fa parte del gruppo editoriale Principato. Nelle sue pagine (segnalate anche al Comitato per il No), la vittoria del Sì al referendum costituzionale di dicembre, e quindi la conseguente applicazione della riforma, è data per scontata. La causa, secondo chi lavora nel settore, è la probabilità del cambiamento. Così, chi deve redigere, scegliere e vendere i libri scolastici (che presumibilmente, non dovrebbero scadere, non almeno durante l’anno della loro adozione) si trova a fare una scelta.

Così, nel caso di una nuova edizione da lanciare nell'anno referendario, si scommette: e, in questo caso, si è scommesso sulla vittoria del Sì. Il Fatto ha provato a contattare sia la casa editrice che il curatore della parte che contiene questo testo. “Verifichiamo quanto segnalato e le faremo sapere in giornata”, la risposta di Cetem.

Non si tratta però di un evento isolato: già a maggio era stata pubblicata dalla Simone Editore una guida per gli studenti dal titolo La Nuova Costituzione spiegata ai ragazzi.

Anche in quel caso si parlava di modifiche e nuova forma. E l’autore – nonché editore – si era giustificato incolpando il redattore della sezione scolastica di una scelta poco felice. Impegnandosi a ritirare il volume. A rapida verifica, risulta ancora in commercio con lo stesso nome. Ma negli store, la sua presentazione è stata modificata: da “Testo che favorisce un primo approccio con la rivoluzione che l’anno prossimo investirà il nostro ordinamento costituzionale” a “Testo che favorisce un primo approccio con la rivoluzione che l’anno prossimo probabilmente investirà il nostro ordinamento costituzionale”. Un avverbio, ma che fa la differenza.

«». connessioni precarie online

Dal 21 al 23 ottobre si svolgerà a Parigi il secondo meeting della Transnational Social Strike Platform. L’incontro avrà luogo a tre settimane di distanza dallo sciopero delle donne polacche contro la proposta di riforma della legge sull’aborto e a pochi mesi dalla grande sollevazione francese contro la loi travail e il suo mondo.

In entrambi i casi lo sciopero è andato ben oltre la pratica istituzionalizzata nell’iniziativa sindacale. Esso è stato politicamente più significativo della momentanea rottura di un rapporto di forza nei luoghi di lavoro. I primi grandi scioperi francesi contro la riforma si sono riversati nelle strade e nelle piazze coinvolgendo milioni di persone, rifiutando il brutale dominio sul presente e sul futuro di intere generazioni.

Lo sciopero in Francia è stato sociale perché ha connesso segmenti altrimenti separati del lavoro vivo investiti dalla loi travail e dall’austerità europea. Le donne polacche hanno mostrato che la parola d’ordine dello sciopero mantiene il suo potentissimo richiamo anche al di fuori dei luoghi di lavoro.

La rivendicazione della libertà di aborto non ha soltanto prodotto grandi manifestazioni di piazza e la forzatura dei limiti imposti dalla legislazione sullo sciopero. Essa ha ridefinito le posizioni individuali e messo in discussione le gerarchie sessuali e sociali, stabilendo le connessioni che hanno portato così tante donne e molti uomini a esprimersi contro un modo complessivo di governare che non riguarda solo la società polacca. Lo sciopero in Polonia non è stato sociale perché ha difeso un diritto più o meno universale, ma perché la rivolta di una parte della società ha fatto valere una differenza contro un ordine complessivo dei rapporti sociali e sessuali.

In questi ultimi mesi, da est a ovest, attraversando i confini e in contesti radicalmente diversi, lo sciopero è stato la condizione grazie alla quale donne e uomini, precarie, operai e migranti hanno potuto prendere parola in prima persona e in massa contro le condizioni politiche che determinano la loro oppressione e il loro sfruttamento.

Da più di un anno la Transnational Social Strike Platform agisce per fare dello sciopero l’articolazione politica delle differenze che attraversano il lavoro vivo contemporaneo e quindi per stabilire una prospettiva condivisa del rifiuto soggettivo delle condizioni della nostra oppressione. Per raggiungere questo scopo, lo sciopero deve essere logistico, industriale e metropolitano. Sono queste le modalità in cui donne e uomini, precarie, operai e migranti si scontrano con la furia accumulatrice del capitale e con le coazioni della riproduzione sociale.Sono questi i tre fronti sui quali ogni giorno le strategie individuali e collettive di insubordinazione si scontrano con quelle messe in atto dai governi europei per garantire il dominio del capitale.

In questo campo di tensione, in cui la mobilità del lavoro fronteggia quella del capitale, il punto d’impatto può continuamente cambiare e, con esso, anche i comportamenti soggettivi di precarie, operai e migranti.

In ognuna di queste congiunture, perciò, lo sciopero può assumere una forma diversa, rimanendo però una pratica per sottrarsi alla coazione quotidiana, per colpire le diverse facce del padrone collettivo, per ampliare e approfondire le connessioni con tutti coloro che condividono le stesse condizioni di vita e di lavoro. La distinzione dello sciopero in logistico, industriale e metropolitano è quindi direttamente politica, perché dà conto delle molteplici forme del lavoro sociale, cogliendole nei loro differenti punti di impatto con il capitale.

Essa non riguarda soltanto la categoria politica del lavoro salariato, ma ambisce a dare espressione a posizioni tanto specifiche quanto essenziali alla produzione e riproduzione sociale nel suo complesso, da quella delle donne – che con il loro lavoro domestico sono obbligate a sostenere le trasformazioni contemporanee del welfare e la ristrutturazione neoliberale delle gerarchie sessuali – a quella dei migranti, il cui lavoro è sottoposto a un’autorizzazione politica e a un razzismo istituzionale che impongono loro obblighi che altri lavoratori semplicemente non conoscono. Ciò conferma d’altra parte l’insufficienza pratica di categorie universali che pretendono di unificare i lavori a partire da un loro carattere più o meno diffuso, come può essere il loro contenuto di conoscenza.

La frammentazione e l’isolamento sono le caratteristiche fondamentali del lavoro sociale contemporaneo. Il sapere, il comando diretto, l’organizzazione complessiva del lavoro mirano costantemente a questo risultato. Spetta a noi produrre la forza politica in grado di opporsi a questa realtà.

Logistico, industriale e metropolitano non rimandano alla combinazione o al coordinamento di tre diversi settori (smistamento e trasporto, produzione di merci, servizi) e neppure di conseguenza a tre diverse pratiche di sciopero (il blocco della circolazione, della catena di montaggio, dell’ordine delle città). Logistico, industriale e metropolitano sono tre modalità di organizzazione del capitale che dobbiamo essere in grado di aggredire simultaneamente.

La logistica non è semplicemente l’infrastruttura di servizio per lo smistamento di materie prime, mezzi di produzione e merci nel mercato globale. Essa è la logica che il capitale assume nel processo della sua costante globalizzazione. Il capitale scopre la logistica quando ha bisogno di inseguire il profitto e quando deve trovare nuova forza lavoro da sfruttare. Questa sua inesausta ricerca produce le condizioni dello sfruttamento negli hub e nei porti. Tuttavia non sono solo i facchini, i portuali, i marinai o gli addetti alle spedizioni a incontrare e a ribellarsi al comando logistico. Esso estende la propria presa su tutta l’organizzazione del lavoro. Quella che per il capitale è l’estensione nello spazio del suo domino, per noi è un’incessante intensificazione dello sfruttamento, è la costante valutazione di quello che facciamo, è il codice a barre che ci marchia per renderci compatibili con le altre merci, è l’algoritmo che fraziona all’infinito il nostro lavoro.

La logistica è per noi il lavoro «uberizzato» che fa di apparenti imprenditori indipendenti delle frazioni di lavoro comandato dalla logica immanente del capitale. La logistica è per noi la pretesa del capitale di avere un comando assoluto sul tempo per garantire il movimento incessante dei suoi traffici globali. Contro questo tempo assoluto lo sciopero sociale è dunque logistico non solo perché interrompe i flussi, ma perché è il rifiuto della rapina incessante di tempo e di tutte quelle procedure che scaricano sui singoli lavoratori i costi sociali della produzione. Lo sciopero logistico avviene in luoghi precisi, ma anche e soprattutto dove si manifesta il rifiuto alla piena e costante disponibilità del proprio tempo.

Il comando logistico esercita la propria forza in maniera particolarmente feroce sul lavoro industriale che per noi, e per l’evidenza empirica, non è un residuo del passato. In occasione della Brexit e durante le lotte contro la loi travail qualcuno ha scoperto che la classe operaia esiste ancora. Persino l’ascesa di Donald Trump è addebitata alla classe operaia bianca statunitense. Lontani dai miti di destra e di sinistra, noi registriamo più semplicemente che il lavoro manifatturiero non è scomparso. Qualcuno produce materialmente le merci non solo nelle lontane fabbriche cinesi o indiane, ma anche in Europa.

Non a caso il precedente incontro del TSS si è svolto a Poznan con lo scopo di stabilire contatti e connessioni con quei luoghi dove il lavoro operaio è stato delocalizzato o dove sta tornando dopo i suoi viaggi in Oriente. Quale capitale incontrano gli operai dell’industria? Incontrano come sempre la dura legge della fabbrica, nella quale però il comando logistico definisce i tempi del profitto su quelli delle catene transnazionali del valore. Incontrano la realtà della delocalizzazione, che da una parte del confine è utilizzata come minaccia per peggiorare costantemente le condizioni del lavoro mentre dall’altra apre la strada a un nuovo sfruttamento e a nuovi terreni di lotta operaia.

Attraverso e lungo i confini, il lavoro operaio è mobile e precario, senza certezze e con assicurazioni minime se non assenti. Da un lato e dall’altro del confine, la mobilità del capitale impone una sistematica intensificazione del tempo dello sfruttamento. Sciopero industriale significa allora interrompere questo tempo, colpire l’origine del profitto, ma anche l’isolamento sociale a cui la fabbrica è stata condannata. Per il lavoro industriale sciopero significa più che mai stabilire connessioni che smettano di fare apparire gli operai una costante sorpresa sociale.

I lavoratori dell’industria non sono fuori dello spazio metropolitano. Con quelli dei servizi e del terziario essi danno forma a una geografia conflittuale, nella quale la produzione e la riproduzione sociale stabiliscono una connessione sistematica e dominata tra le diverse figure del lavoro vivo proprio perché non coincidono con i limiti della singola città. Nello spazio metropolitano una moltitudine di lavoratori e di lavoratrici ha l’occasione in incontrare la faccia politica del capitale, quella che li obbliga amministrativamente a subire la loro condizione. In questo spazio il welfare non ha più la funzione di produrre una relativa uguaglianza tra i cittadini, ma stabilisce continuamente differenze tra diverse figure del lavoro assegnando posizioni funzionali tanto alla riproduzione sociale quanto al governo della mobilità.

Nello spazio metropolitano, come lavoratrici salariate o gratuitamente, nelle scuole, negli ospedali o nelle case, le donne garantiscono le condizioni generali di riproduzione di una forza lavoro che è transnazionale anche quando può essere puntualmente localizzata. Nello spazio metropolitano il lavoro migrante è governato attraverso norme europee, nazionali e locali che pretendono di farne un segmento separato della forza lavoro e completamente disponibile allo sfruttamento.

Lo spazio metropolitano è quindi uno spazio di movimento nel quale i precari di un call center spagnolo, le operaie di una fabbrica tessile in Polonia, le lavoratrici domestiche, i facchini di un deposito merci francese, i marinai di un cargo attraccato al Pireo, i migranti costretti a lavorare con salari da 1€ l’ora per pagare il prezzo dell’accoglienza in Germania possono riconoscersi come uguali, nonostante tutte le differenze dei loro lavori e delle loro vite, a partire dal rifiuto delle condizioni politiche e amministrative che li costringono alla subordinazione e allo sfruttamento.

Nello spazio metropolitano i diversi lavori possono andare oltre la coazione salariale, oltre le gerarchie che le accompagnano, contro le forme politiche che le legittimano. Lo sciopero è metropolitano perché dà voce al rifiuto di essere frammenti di un ordine, andando oltre le stesse differenze imposte dal lavoro. Lo sciopero metropolitano è uno sciopero contro il lavoro e le divisioni che esso impone. Scioperare nello spazio metropolitano significa restituire al capitale la sua frammentazione sotto forma di progetto comune.

Per tutte queste ragioni le tre dimensioni dello sciopero non possono essere separate. La logistica, la fabbrica e la metropoli rimandano in continuazione l’una all’altra. Sono il segno tangibile della mobilità del capitale e di quella opposta e riottosa di milioni di uomini e donne. Non basta bloccare un hub della distribuzione per sabotare i circuiti del profitto, quando l’infrastruttura logistica è capace di adattarsi in tempi sempre più rapidi riattivando i suoi flussi. Non è sufficiente interrompere la produzione in un intero settore su scala nazionale, quando un segmento di quella produzione continuerà a funzionare al di là del confine e all’interno di ogni fabbrica s’intrecciano figure del lavoro che non rientrano in un’unica categoria.

Non è possibile pensare a una figura del lavoro egemone e capace di ricomporre politicamente tutte le altre, quando il lavoro di un creativo italiano o un ingegnere francese dipende dalla produzione di microchip nelle fabbriche dormitorio della Repubblica Ceca o dal lavoro domestico di una donna migrante. Lo sciopero logistico, industriale e metropolitano è dunque sociale perché trasforma le connessioni globali dello sfruttamento in una comunicazione costante e sistematica tra i diversi segmenti della produzione e riproduzione sociale.

Lo sciopero sociale non è uno sciopero generale, che mira a interrompere in un singolo momento la produzione attraverso l’azione simultanea e confederata di diverse categorie di lavoratori. Lo sciopero è sociale perché connette esperienze soggettive di insubordinazione al lavoro che altrimenti non potrebbero comunicare. Lo sciopero è sociale perché produce un livello di comunicazione che prima non c’era. Lo sciopero sociale connette i tempi diversi della mobilità del lavoro vivo. Lo sciopero sociale agita nel tempo i sonni apparentemente tranquilli del capitale e dei governi europei.

Questa è per noi la scommessa della Transnational Social Strike Platform. Essa non può essere semplicemente una rete o una coalizione per quanto europea di segmenti di movimento e la somma delle loro diverse rivendicazioni. Essa è un processo in cui il rifiuto dell’oppressione logistica, industriale e metropolitana che in modo frammentato e sconnesso già attraversa l’Europa si possa riconoscere in una comune direzione politica. Individuare rivendicazioni condivise – un salario minimo, un welfare e un permesso di soggiorno europei – è essenziale per identificare i punti di impatto con il capitale incidendo sul tempo e sullo spazio in cui esso pretende di imporre il suo dominio, ma anche per aggredire le politiche neoliberali dell’Unione Europea che di quel dominio stabiliscono sistematicamente le condizioni politiche.

Attraverso queste rivendicazioni, la separazione imposta dal capitale tra i segmenti di una stessa catena del valore che va dalla Polonia alla Francia o dalla Germania alla Grecia può essere superata, così come singoli momenti di insubordinazione possono legarsi in un processo comune. Pretendere un salario minimo europeo significa inceppare la strategia logistica del capitale, che si muove per inseguire lavoro a basso costo attraverso i confini. Significa impedire il ricatto che viene imposto nella fabbrica della mobilità.

Conquistare un welfare europeo significa rifiutare le gerarchie che attraversano lo spazio metropolitano ed esprimere il rifiuto della divisione sessuale del lavoro che sostiene la riproduzione sociale transnazionale. Ottenere un permesso di soggiorno europeo senza condizioni significa rifiutare la piena disponibilità al lavoro di centinaia di migliaia di uomini e di donne che altrimenti per restare in Europa devono rinunciare a disporre delle proprie vite.

Contro la presunta opposizione tra un Est isolazionista e rinnegato e un Ovest in cerca di riscatto, queste rivendicazioni puntano a stabilire le connessioni per fare della quotidiana insubordinazione che già esiste un processo collettivo, sociale e transnazionale, per rifiutare l’oppressione che ci divide. Lo sciopero sociale europeo è possibile. Possiamo contrapporre i nostri tempi a quelli del capitale e dei suoi governi. Noi possiamo avere il coraggio di osare.

». Sbilanciamoci.info online, 17 ottobre 2016 (c.m.c.)

Sabato 8 ottobre una cinquantina di lavoratori di Foodora, impresa attiva nel settore della consegna cibo tramite fattorini in bicicletta, sono scesi in piazza a Torino per protestare contro le condizioni di lavoro imposte dall’azienda. La vicenda ha avuto molto risalto mediatico e diversi quotidiani hanno parlato dell’azione dei lavoratori di Foodora come del primo sciopero in Italia della cosiddetta sharing economy.

Questa terminologia è però scorretta. Si parla solitamente di sharing economy in riferimento all’attività di aziende come Blablacar o Aibnb, che operano tramite piattaforme online che hanno essenzialmente la funzione di mettere in rete compratori di servizi e venditori che ‘condividono’ un loro bene, come la propria auto o la casa.

Diverso è invece il caso di imprese come Foodora o Deliveroo: queste compagnie offrono un servizio di consegna cibo dai ristoranti agli utenti, utilizzando lavoratori che danno la propria disponibilità in precise fasce orarie tramite una applicazione per smartphone. L’unico elemento in comune tra i due tipi di attività é il fatto che basano le proprie operazioni su piattaforme digitali, ma la somiglianza finisce qui. L’uso di una app per intermediare la domanda e l’offerta di servizi e consumi e per gestire l’allocazione delle prestazioni lavorative accomuna dunque Foodora e Deliveroo ad altre piattaforme digitali di ‘micro-lavoro’, come Uber, MechanicalTurk o Task Rabbit, che ben poco hanno a che fare con l’idea di ‘condivisione’. In questo caso si tende perciò a parlare di o “economia dei lavoretti” (gig).

La protesta dei lavoratori di Foodora, inizialmente partita da un contenzioso sulle biciclette (i mezzi così come la manutenzione sono a carico dei lavoratori), si è poi allargata su tre fronti. In primis i lavoratori contestano il passaggio da una retribuzione oraria di 5,40 euro ad una retribuzione a cottimo (2,70 euro per consegna), che l’azienda ha implementato per tutti i neo assunti e che avrebbe progressivamente coperto l’intera forza lavoro.

In secondo luogo ad essere messo in discussione è il tipo di contratto: i fattorini e i promoter (ossia coloro che si occupano di fare pubblicità all’azienda) che lavorano per Foodora non sono dipendenti ma risultano essere liberi professionisti assunti con un co.co.co. Non hanno quindi alcun diritto a ferie o malattie pagate. I lavoratori sostengono però che il loro rapporto di lavoro con l’azienda sia, di fatto, un rapporto subordinato: lo dimostrano il fatto di avere un orario concordato, turni stabiliti e un luogo di partenza per le consegne prefissato (per essere “connesso al sistema” un lavoratore deve trovarsi in una determinata piazza di Torino).

Su questa base, i lavoratori rivendicano il diritto ad essere inquadrati all’interno di un contratto collettivo nazionale di lavoro. Fra i motivi della protesta vi è infine il licenziamento di due ragazze che lavoravano come promoter, colpevoli a quanto pare di aver partecipato ad una delle assemblee tramite cui i rider di Foodora hanno organizzato lo sciopero di sabato. Secondo quanto riportato dalla Stampa, il licenziamento è avvenuto tramite la disconnessione delle due lavoratrici dalla app tramite la quale si organizzano i turni di lavoro.

Lo sciopero dei fattorini di Foodora ricorda da vicino quanto avvenuto questa estate a Londra, dove a scioperare sono stati i lavoratori di Deliveroo e UberEats, la piattaforma di consegna lanciata dalla statunitense Uber (nota in Italia per il contenzioso con i taxisti). Anche in questo caso le proteste erano originate dal tentativo delle aziende di passare da una retribuzione oraria ad una a cottimo.

Come già avvenuto a Londra nel caso di UberEats, all’inizio dell’attività le imprese utilizzano un compenso orario. Ma il sistema di consegne a domicilio sul modello di Foodora o Deliveroo utilizza il meccanismo dell’algoritmo per gestire la fluttuazione della domanda: si basa sull’avere a disposizione una forza lavoro flessibile, che può venire mobilizzata o smobilizzata a seconda della domanda dei consumatori. Il tentativo delle imprese di passare ad un sistema di compensi stabilito a prestazione piuttosto che all’ora permette alle piattaforme di esternalizzare totalmente i costi dei potenziali tempi morti o di bassa domanda sui lavoratori stessi, operando dunque una stretta al ribasso sui costi del lavoro.

In questo senso, il modello Foodora ha molto in comune con le strette sui salari del mondo della logistica – in cui la maggior parte dei profitti vengono estratti attraverso l’intensificazione dei ritmi lavorativi dei facchini.

Il vecchio e il nuovo

Come è inevitabile nel caso di tematiche che comprendano l’uso di tecnologie di ultima generazione, molto del dibattito sul tema Foodora si è concentrato sugli aspetti di novità di questo tipo di attività lavorativa. Questo probabilmente spiega anche il grande risalto che ha avuto questa vicenda, che tutto sommato coinvolge un numero di lavoratori piuttosto ristretto. È necessario tuttavia fare chiarezza su cosa sia nuovo e cosa non lo sia.

Non è certamente un fatto nuovo, ma è bene ribadirlo, che l’attività dei fattorini e dei promoter di Foodora sia una prestazione lavorativa a tutti gli effetti, e non «un’opportunità per andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio», come hanno provato a sostenere i responsabili italiani di Foodora. Come ha ricordato il giurista Valerio Di Stefano, fra i primi in Italia ad occuparsi di queste tematiche, i rider di Foodora svolgono «un vero lavoro che comporta tutte le contraddizioni del caso: il rispetto della professionalità, la responsabilità e la fatica fisica».

Il fatto poi che il livello di paga sia troppo basso per permettere ad un lavoratore di sopravvivere lavorando esclusivamente per Foodora (lo stipendio difficilmente supera i 4-500 euro al mese) non significa che il rapporto di lavoro non sia tale, ma soltanto che si tratti di un cattivo lavoro: malpagato e ultraprecario. La logica che accomuna prestazioni lavorative di questo, ossia esternalizzare sui lavoratori il rischio e i costi dei tempi morti, è la stessa per cui in Italia si fa un uso massiccio dei voucher, il cui utilizzo è cresciuto enormemente nel corso degli ultimi anni e non accenna a fermarsi anche nel 2016. Proprio per questo appaiono particolarmente ipocrite le dichiarazioni del Ministro del Lavoro Poletti, che ha preso le difese dei lavoratori Foodora.

Di per sé, la logica che sta dietro alla gestione del processo di lavoro in una piattaforma come Foodora è un principio neo-taylorista: frammentazione del processo di lavoro in compiti misurabili e in cui tutti i lavoratori sono perfettamente sostituibili; privazione del controllo sul processo e i tempi di lavoro da parte del lavoratore, che viene costantemente monitorato tramite la app. Questo è coerente con alcune evidenze empiriche a livello europeo, che mostrano un aumento del grado di routine e standardizzazione in molte occupazioni. Sotto questo aspetto, più che essere innovativa, la gig economy rappresenta semplicemente una reincarnazione dei principi del management ‘scientifico’ che risalgono ai primi del Novecento.

Quello che è nuovo è certamente il mezzo attraverso cui il rapporto e il processo di lavoro sono gestiti: l’algoritmo, e le conseguenze ambigue che l’utilizzo dell’algoritmo ha per quanto riguarda le relazioni di lavoro. La gestione dei lavoratori tramite algoritmo offusca l’esistenza di un rapporto di lavoro standard, visto che a livello formale non ci sono impiegati ma solo, per usare una terminologia cara al management di Foodora, “collaboratori”. Questo permette di aggirare molte delle regolamentazioni previste dai contratti collettivi, come il diritto alla malattia.

Questo nonostante le pratiche di controllo, la gestione dei tempi e delle modalità di lavoro siano in tutto e per tutto simili a quelle di un rapporto di lavoro dipendente: obbligo di indossare la divisa aziendale, paga determinata dall’azienda, ritmi di lavoro ‘abituali’ imposti dall’algoritmo, varie regole e procedure da seguire, e così via.

L’uso della piattaforma digitale come mezzo di gestione del rapporto e del processo lavorativo crea altre opportunità per nuove forme di controllo e coercizione della forza lavoro. La valutazione dei lavoratori della gig economy secondo criteri di performance viene portata all’estremo dall’utilizzo della tecnologia, tramite la quale è possibile monitorare costantemente il lavoratore durante lo svolgimento dell’attività e misurare la sua velocità e efficacia. C’è poi un’individualizzazione totale del rapporto di gestione del lavoratore: i turni vengono dettati dall’algoritmo più che da un interlocutore fisico con cui confrontarsi, e anche i rapporti con i colleghi vengono frammentati e ridotti al minimo, perché ognuno interagisce direttamente con la propria app.

L’unica eccezione è data dai pochi minuti in cui i fattorini si ritrovano in un punto comune in attesa di un ordine, ed infatti è lì che sono nate le proteste dei lavoratori di Foodora, come ha raccontato uno di loro. In questo senso, è interessante notare come i casi di sciopero nella gig economy siano per ora rimasti concentrati in quei servizi in cui c’è ancora un aspetto di compresenza fisica dei lavoratori – come nel caso dei rider di Foodora e Deliveroo. Questo è molto più difficile nel caso di piattaforme in cui la prestazione lavorativa si svolge totalmente tramite mezzo digitale – come TaskRabbit e MechanicalTurk – benché anche in questo caso vi siano stati dei tentativi di organizzazione da parte dei lavoratori.

Dato il meccanismo di individualizzazione del rapporto di lavoro che abbiamo delineato non sorprende quindi che i responsabili di Foodora avessero inizialmente dichiarato di voler trattare esclusivamente a livello individuale con i lavoratori, una tattica per togliere forza ad una vertenza collettiva. Tuttavia, a causa della pressione mediatica generata dall’azione di protesta dei lavoratori, i gestori della piattaforma si sono visti costretti ad incontrare una rappresentanza collettiva dei rider, che hanno così segnato un primo punto a loro favore, anche se a questo non è seguita un’apertura di trattativa e i lavoratori hanno annunciato ulteriori azioni di protesta.

Un altro inquietante elemento di novità è il fatto che l’azienda abbia la possibilità di licenziare un lavoratore semplicemente disconnettendolo dal sistema, come è avvenuto nel caso delle due promoter licenziate. Basta un clic per negare al lavoratore l’accesso ai mezzi di produzione – un’operazione che costituirebbe mobbing in un rapporto di lavoro standard, e che diventa invece possibile nel caso di lavoro ‘autonomo’ pagato a cottimo.

La minaccia della ‘disattivazione’ e il potere totale che la piattaforma ha nel decidere chi possa averne o meno accesso è stata largamente documentata nel caso degli autisti di Uber – ed usata anche come base legale per sostenere che a tutti gli effetti la piattaforma avesse instaurato nei confronti dei propri contractor un rapporto di lavoro di lavoro di tipo subordinato.

Come ultimo elemento di novità, l’utilizzo delle valutazioni del servizio offerto da parte degli utenti, parte centrale del modello di performance management usato da imprese come Uber, aggiunge un’ulteriore fonte di controllo spostando il meccanismo di disciplina sul lavoratore dal manager al cliente, anche se questo magari non se ne rende conto.

In effetti l’uso della piattaforma digitale come forma di intermediazione lavorativa rende il lavoro che sta al suo interno a tutti gli effetti invisibile. Come già nel caso della logistica e dei servizi di consegna di altri prodotti, l’utente-cliente clicca, il cibo arriva a casa e nessuno si chiede come abbia fatto ad arrivare così velocemente e soprattutto come facciano

I costi a rimanere così bassi. L’invisibilità del lavoro che sta dietro al funzionamento della piattaforma facilita la permanenza di condizioni lavorative ai limiti del legale, e rende queste aziende più attrattive agli occhi degli investitori perché permette loro di presentarsi come start-up tecnologiche – e dunque, in teoria, innovative – piuttosto che come semplici intermediari di lavoro che estraggono profitti tramite meccanismi vecchi quanto il capitalismo stesso: l’intensificazione dei ritmi lavorativi e il ribasso dei salari.

L’invito dei rider di Foodora a boicottare la piattaforma in supporto alla loro protesta é dunque particolarmente efficace perché chiama in causa anche i consumatori come parte complice, e forza il lavoro invisibile a essere riconosciuto. In questo senso, ancora una volta, il fatto che i lavoratori di Foodora si possano vedere ed essere visti fisicamente aiuta a dare forza alla loro protesta.

Ed ora?

La protesta dei lavoratori e le lavoratrici di Foodora ha giustamente suscitato molto interesse, anche perché i lavoratori della gig economy sono spesso considerati ‘inorganizzabili’ a causa della frammentazione e del carattere transitorio della forza lavoro. Va sottolineato che il lavoratore tipo di questa azienda è solitamente alle prime esperienze lavorative.

La paga bassa e le condizioni di estrema precarietà fanno sì che la percezione sia quella di aver poco da perdere: come ha dichiarato un altro intervistato, «c’è un punto di non ritorno passato il quale la ritorsione non è più efficace». Non va quindi sottovalutata l’importanza di questa mobilitazione, anche per l’oggettivo elemento di novità. Secondo un articolo di Wired il settore del food delivery in Italia vale ad oggi 400 milioni di euro, con altre aziende come Deliveroo o Just Eat presenti oltre a Foodora. Non è quindi da escludersi che sull’onda della protesta di Torino le lotte per le rivendicazioni salariali si allarghino anche ad altre aziende e altre città.

Come nel caso inglese, dove i sindacati di base UWGB e UWW hanno giocato un ruolo importante per dare alla lotta una rivendicazione collettiva, e in maniera simile alle lotte nei magazzini della logistica a Piacenza e oltre, è probabile che anche in questa situazione sarà importante l’intervento delle forze sindacali. Anche nel caso di Foodora, come già nel settore della logistica, i sindacati confederali sembrano giocare un ruolo minore, probabilmente per la diffidenza da parte di una componente giovane e precaria e le difficoltà nell’organizzare i lavoratori in assenza di canali tradizionali di intermediazione.

Ma qualsiasi sia la forza sindacale che si occuperà della questione, il punto su cui impostare la lotta è l’oggettivo elemento di rigidità del sistema: che servono (ancora) lavoratori umani per far arrivare le merci ai consumatori e realizzare il loro valore, e senza di essi Foodora o Deliveroo non possono esistere. Dare visibilità a questi lavoratori e facilitare la loro organizzazione collettiva, superando l’individualizzazione del rapporto di lavoro facilitata dalla piattaforma digitale, rappresenta la chiave di volta per costruire una mobilitazione a lungo termine che non rimanga soltanto un fuoco di paglia.

E forse l’indignazione collettiva del pubblico italiano nei confronti della vicenda Foodora può costituire un punto di partenza per mettere finalmente in discussione in maniera più fondamentale il modello di mercato del lavoro italiano, in cui la precarietà é all’ordine del giorno, anche quando non gestita tramite una app.

«il manifesto, ottobre 29016

Domani, 17 ottobre, è la giornata mondiale per l’eliminazione della povertà, istituita nel 1993 dalle Nazioni Unite. Povertà e disuguaglianze sono oggi i principali problemi del nostro Paese e del nostro continente. Ma quel che è ancor più grave, è che ogni anno per noi italiani è sempre peggio. Gli ultimi dati Istat, Eurostat, Svimez, Censis denunciano una vera e propria emergenza sociale e democratica. «Un sistema di protezione sociale tra quelli europei meno efficace ed incapace di far fronte all’aumento di diseguaglianze e povertà», queste le parole pronunciate lo scorso 20 maggio alla Camera dal presidente dell’Istat, Giovanni Alleva, durante la presentazione dell’ultimo rapporto 2016 sulla situazione del Paese.

Disuguaglianze e povertà aumentano, nonostante la crescita economica. I dati sono drammatici ed al tempo stesso inequivocabili: l’indice Gini sulle diseguaglianze di reddito è aumentato da 0,40 a 0,51, dal 1990 al 2011, portando il nostro Paese ad essere quello con l’incremento peggiore d’Europa dopo la Gran Bretagna, in cui si registra un indice dello 0,52; il 28,3% della popolazione è a rischio povertà, in particolar modo al sud; altissimo il numero della povertà assoluta, che colpisce quasi 5 milioni di italiani, triplicati negli ultimi 8 anni, così come il numero dei miliardari, arrivati a 342, a dimostrazione che la ricchezza c’è ma il sistema la ridistribuisce verso l’alto. Resta immutato all’11,5% l’indice di grave deprivazione materiale che colpisce le famiglie. L’Istat denuncia come il sistema di trasferimenti italiano (escludendo le pensioni) non sia in grado di contrastare la dinamica di costante impoverimento, che colpisce soprattutto donne, minori, famiglie monoparentali, migranti già residenti. Il progressivo deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro ha contribuito in maniera determinante all’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, colpendo soprattutto giovani e donne.

Instabilità lavorativa e precarietà sono tra i principali fattori che generano i maggiori svantaggi distributivi.

Questo spiega la crescita dei Neet, gli under 30 che non sono occupati, non studiano ed hanno smesso di cercare lavoro. Nel 2015 erano oltre 2,3 milioni, in grande aumento rispetto al 2008 ma in leggero calo rispetto al 2014 (-2,7%). A conferma di una situazione che vede i giovani del nostro Paese tra i più discriminati del continente, i dati del rapporto Istat sulla mobilità sociale e sugli effetti occupazionali del percorso di studi testimoniano un sistema sociale bloccato e/o altamente selettivo, nel quale l’accesso ad un buon lavoro è possibile solo per chi ha condizioni di partenza migliori.

Il nostro sistema di protezione sociale è sottofinanziato ed inadeguato. L’Istat fa l’esempio di altri Paesi europei che nonostante le politiche di austerità imposte dalla governance hanno garantito e finanziato sistemi di welfare in grado di evitare o contenere l’aumento della povertà. Il rapporto dimostra che si poteva e doveva fare decisamente molto di più per evitare il disastro sociale. Il problema non è certo di assenza di risorse, ma di priorità scelte dalla politica. Dal rapporto emerge infatti come nel 2014 il tasso delle persone a rischio di povertà si riduceva, dopo i trasferimenti, di 5,3 punti (dal 24,7 al 19,4%) a fronte di una riduzione media nell’Ue a 27 Paesi di 8,9 punti. Le disparità all’interno dell’Unione sono notevoli. L’Irlanda è il Paese europeo con il sistema di trasferimenti sociali più efficace, in grado di ridurre l’indicatore di rischio di povertà di 21,6 punti; segue la Danimarca (14,8 punti di riduzione). Soltanto in Grecia (dove il valore dell’indicatore si riduce di 3,9 punti) il sistema di trasferimenti sociali è meno efficace di quello italiano.

Questo stato di cose spiega perché anche in presenza di una crescita del Pil non vi sia un miglioramento delle condizioni di vita per chi è in difficoltà, anzi il divario come abbiamo visto aumenta. Così come è stato ampiamente dimostrato che non vi è nessuna relazione tra aumento del debito pubblico e spesa pubblica. La nostra spesa sociale è tra le più basse d’Europa e, nonostante i tagli, il debito continua a crescere. La fotografia scattata dall’Istat è la conseguenza di una politica assente da anni nella lotta alle diseguaglianze, rassegnata all’idea che non sia obbligo della Repubblica combatterle e rimuoverne le cause, sempre più preoccupata a convincerci che il welfare rappresenti ormai un lusso che non possiamo più permetterci. Universalismo selettivo, darwinismo sociale e istituzionalizzazione della povertà sono conseguenze di una cultura politica che rinnega universalismo, solidarietà e cooperazione sociale come strumenti fondanti della democrazia a garanzia della Dignità.

L’impianto normativo adottato e le scelte fatte nel corso di questi ultimi otto anni di crisi lo confermano: taglio del 66% del Fondo Nazionale per le politiche sociali, mancati trasferimenti ai Comuni per 19 miliardi a causa del patto di stabilità (dati Ifel), assenza di una misura di sostegno al reddito, già attiva in tutta Europa con la sola esclusione di Grecia e Italia, invocata da numerose risoluzioni europee a partire dal 1992 e dalle mobilitazioni e proposte di centinaia di migliaia di cittadini impegnati per introdurre un reddito di Dignità. Per ultimo il Ddl povertà, che stanzia la miseria di poco più di un miliardo di euro per affrontare un’emergenza che ne richiederebbe 18 per garantire almeno la dignità.

* Campagna Miseria Ladra, Libera-Gruppo Abele
«Costituzionalisti e giuristi, una giornata di riflessione sulle ragioni del No. Rodotà: la convivenza è basata sui principi comuni. La riforma è divisiva. E dal 5 dicembre ciascuno potrebbe dire "la mia Costituzione". Carlassare: la maggioranza-minoranza pigliatutto? La legge Truffa non si spinse così avanti. Pace: modifica illegittima, eversione costituzionale fatta da un parlamento che doveva dimettersi».

il manifesto, 16 ottobre 2016
La Costituzione è un «terreno comune», il luogo in cui «soggetti diversi si confrontano e trovano le opportunità per la convivenza sulla base di principi comuni». E invece la riforma Renzi-Boschi, «divisiva nel merito e nel metodo con cui è stata votata» «mette a rischio proprio questo terreno comune. Per questo dal 5 dicembre potrà succedere che ciascuno dica ’la mia Costituzione’». L’allarme di Stefano Rodotà è di quelli impegnativi per un giurista.

Usa parole pesanti e lo fa davanti e insieme a un plotoncino di giuristi, costituzionalisti, esperti di diritto e filosofi della politica chiamati a Roma, alla sala Capranichetta, a confrontare le ragioni del No al referendum. Organizza la Scuola per la buona politica di Torino e la Fondazione Basso presieduta da Elena Paciotti, già presidente Anm (associazione nazionale magistrati) ed ex eurodeputata. «Non era successo niente di simile neanche durante il dibattito della Costituente, quando i comunisti e i socialisti furono esclusi dal governo ma i lavori proseguirono con la stessa logica del confronto», continua Rodotà. Non che le differenze di opinione in campo di principi costituzionali non siano previste, naturalmente.

Il dibattito della Costituente ne è formidabile testimonianza. Ma la logica seguita dal governo Renzi – una modifica costituzionale promossa dal governo è già un controsenso perché le Costituzioni hanno una funzione «contromaggioritaria», ricorda Paciotti, e cioè «di limitare l’accentramento del potere politico, separare i poteri pubblici, controllare quelli privati, garantire i diritti fondamentali dei cittadini e delle minoranze» – la logica di Renzi insomma «è quella di far prevalere il proprio punto di vista indebolendo le garanzie», spiega Lorenza Carlassare. In varie maniere, tanto più in combinato con l’Italicum (che è legge dello stato e anche con tutte gli auguri per la sua modifica al momento non può essere ignorata): «Indebolendo la rappresentanza delle minoranze, indebolendo le garanzie nell’elezione del presidente della Repubblica», attribuendo un premio di maggioranza a una minoranza, «cosa che non si permise di fare nel ’53 neanche Alcide De Gasperi» con la famosa legge Scelba detta ’legge truffa’ (il cui premio non scattò appunto perché nessuno raggiunse la maggioranza). Nella giornata «di riflessione» si parla anche di «tirannia della maggioranza» (Michelangelo Bovero), di «verticalizzazione del potere verso la figura del premier (Carlassare e altri), del confuso e confusivo nuovo bicameralismo e dell’improbabile rappresentanza territoriale affidata al nuovo senato (Mauro Volpi, Francesco Pallante, Valentina Pazé). Ma il filo rosso è per tutti l’idea di una Carta come «terreno comune» o, come dice Luigi Ferrajoli, «precondizione condivisa per il vivere civile», «patto di convivenza in cui tutti si riconoscono» sostituita – se vincesse il Sì – dall’idea esattamente opposta «del chi vince prende tutto, e chi vince non è neanche la maggioranza ma la maggiore minoranza». «Il rischio è altissimo», misura le parole un altro costituzionalista, Gaetano Azzariti: «Perdere un bene inestimabile, un valore supremo, quello che nel ’48 rappresentò una carta d’identità per un’Italia che usciva divisa e lacerata dalla guerra e dal Ventennio».

Rischio respinto da uno dei due discussant del Sì invitati al dibattito, Cesare Pinelli, che invita a non drammatizzare i toni e a ricordare che nel 2005 dopo la battaglia per il No al referendum sulla riforma Berlusconi «non ci siamo così divisi, oggi sta a tutti riuscire a conservare le ragioni dello stare insieme dopo il 4 dicembre». Ma nel 2005 era difficile trovare un costituzionalista a favore del pasticciaccio del Cavaliere. Lo stesso Pinelli rivendica di aver militato per il No all’epoca. Oggi è diverso, e questo stupisce soprattutto ora che anche dal partito di governo viene rivendicata la derivazione della modifica Renzi-Boschi da quella berlusconiana, ormai senza più disagio.

Se vincerà il No la riforma «così lontana dal costituzionalismo» sarà archiviata e con essa la stagione politica di cui è figlia. Anche se, avverte Azzariti, da quel No bisognerà ripartire per porre rimedio alla «crisi del parlamentarismo» e quella «della rappresentanza e dei rappresentati, bisognerà rimediare al lungo regresso che questa riforma vorrebbe costituzionalizzare».

Se invece vincerà il Sì, invece. quello dei fautori della maggioranza che è una minoranza «piglia tutto», la situazione sarà invece molto delicata. Da questa sala rullano tamburi: «La modifica è illegittima, anzi è eversione costituzionale», dice il professore Alessandro Pace, «una violazione di inaudita gravità» prodotta da «una legislatura drogata» dal premio di maggioranza attribuito dal Porcellum, «indegna di affrontare la revisione costituzionale».

Anche Pace usa parole pesanti. Non solo le sue, cita anche quelle del deputato a 5 stelle Vito Crimi: «La revisione è un azzardo costituzionale». O quelle assai più autorevoli del costituzionalista Giuseppe Ugo Rescigno all’indomani della sentenza della Consulta numero 1 del 2014 che dichiarò incostituzionale quel premio di maggioranza: «Mi stupisco che milioni di cittadini non siano scesi in strada per esigere l’immediato scioglimento di un parlamento illegittimo».

C

il manifesto, 15 ottobre 2016

Le bocche di fuoco dell’economia, della finanza, dell’impresa, delle tecnocrazie europee, persino i vertici dell’Inps, hanno enfatizzato il significato distruttivo che avrebbe il trionfo del no. Neppure la riesumazione del fantasma della repubblica dei soviet avrebbe ricevuto una delegittimazione così definitiva dalle agenzie del capitale.

Il bello è che i populisti al potere si sbracciano per dire che «con il no nulla cambia». E poi però, proprio alla vittoria dei gufi, attribuiscono dei mutamenti radicali di sistema che abbracciano la politica e l’economia. Gli elettori potrebbero sentirsi tentati dalla liberatoria opportunità di far saltare i brutti giochi dominanti.

A prendere in parola i poteri forti basta un No per dare l’assalto alle oligarchie e sconfiggere i registi dell’esclusione sociale, della contrazione della democrazia. Assaporando il colpo amaro della batosta, Renzi recupera una fissazione di Berlusconi e dice che chi è contro le sue riforme è spinto dal puro sentimento di odio (dovrebbe sapere che «farsi odiare non tornò mai bene ad alcuno principe»). C’è spazio per l’odio in politica?

Una delle coppie centrali nella analisi politica di Machiavelli è proprio lo scontro tra l’ambizione e l’odio. Alla volontà di potenza dei capi, che cercano di accumulare il dominio saltando ogni resistenza degli ordini e sfidando l’apertura al consenso, corrisponde una reazione dei molti, che cercano di preservare gli spazi di libertà e le occasioni di iniziativa popolare.

In questo scontro di civiltà politica che oggi si verifica tra la volontà di potenza di una cricca di provincia e le appannate risorse della partecipazione di una moltitudine, che si attiva per preservare la fondazione democratica degli istituti parlamentari, si è creato una eterogenea coalizione che i governanti chiamano «l’armata brancaleone».

Contro l’arroganza del comitato d’affari toscano si è realizzata una regola della politica. Tocqueville così la precisava: «In politica la comunanza degli odi costituisce quasi sempre la base delle amicizie». E la rottamazione, brandita da Renzi come una ideologia mistificante per estirpare la vecchia guardia, ha coagulato una infinità di odi che non aspettano altro che la dolce vendetta di dicembre.

Non basta però il giusto sentimento di odio coltivato dai ceti politici più responsabili, quelli decapitati dall’ignoranza sovrana oggi chiusa nel palazzo, per abbattere un pernicioso sistema di potere che cerca nel plebiscito la via del consolidamento. Per vincere bisogna tradurre il sapere tecnico dei costituzionalisti in un linguaggio diffuso, con slogan che orientano la massa. A questo servono i sindacati, i politici, le firme dei pochi giornali non piegati, gli artisti non conformisti.

Diceva Lenin che «la politica comincia laddove ci sono milioni di uomini che controllano le questioni con l’esperienza, la pratica, e non si fanno mai sedurre dai facili discorsi, non si lasciano mai deviare dal corso obbiettivo degli avvenimenti». Il governo populista di Renzi sta mobilitando ogni risorsa lecita e illecita per sopravvivere e con alluvionali spot nelle tv manipola i quesiti, falsifica le questioni e invita ad andare a votare come si conviene ad un plebiscito di regime.

Negli scontri politici non bisogna farsi deviare dai sondaggi che annunciano la vittoria e inducono a sottovalutare la forza dell’avversario. Machiavelli suggeriva un precetto: «A volerti ingannare meno, ed a volere portare meno pericolo, quanto è più debole, quanto è meno cauto il nimico, tanto più dei stimarlo». Con minacce, promesse di bonus, scambi e manipolazioni Renzi può ancora risalire e inseguire un sogno di potere. Lo scontro perciò si radicalizza e produce sentimenti che lui chiama odio.

L’odio contro un potere degenerato può vincere solo se lo sostiene la volontà di assestare un colpo al governo che ha strappato i diritti del lavoro, impoverito il pubblico impiego, condannato i giovani all’emarginazione, aziendalizzato la scuola e privatizzato la sanità. Grandi riforme che piacciono ai poteri forti oggi in angoscia per il duello sotto la neve.

12 ottobre 2016 (c.m.c.)

Il 14-15 ottobre al monastero di Sezano si terrà la prima Conferenza nazionale sull’Utopia, con laboratori, proclamazione di dottori honoris causa in utopia, cena utopica oltre ad esperienze di impossibili resi possibili. Una iniziativa stimolante che ci facciamo raccontare da padre Silvano Nicoletto, stimmatino.

In una società pragmatica e competitiva stupisce sentire parlare di utopia….
«Stupisce, ma in realtà ce n’è un estremo bisogno. Viviamo in una società dove un imperante cinismo riduce tutto a denaro e successo, con una visione di politiche dall’esito immediato: prendi e porta via; una monocultura basata sulla predazione dei diritti, della vita, dei beni comuni e dell’ambiente. Rompere con questi mondi chiusi non è uno scherzo, ma occorre rendere possibili altri scenari dove l’umanità e gli esseri possano semplicemente vivere gli uni assieme agli altri e gli uni per gli altri».

Qual è l’utopia di cui si parlerà nella conferenza?
«C’è bisogno innanzitutto di prendere congedo da una concezione sprezzante dell’utopia, quasi si trattasse di sogni irrealizzabili. L’utopia di cui si parlerà nella conferenza invece è concreta ed ha a che fare con progetti di vita e di società che attendono di essere realizzati come superamento delle attuali prospettive a corta veduta».

Da quale visione parte il sogno utopico di questo progetto?
«Il punto di partenza coincide con una visione che considera come bene comune la possibilità per tutti di vivere insieme. Il sogno (che non va inteso come una chimera) è la realizzazione di una umanità che non toglie a nessuno i beni necessari alla vita per destinarli alle logiche del mercato. Si tratta di un altro modo di vivere più rispettoso di tutto e di tutti, in armonia con tutto ciò che abita e si muove nella “casa comune”». Il Monastero di Sezano (Verona)

Il monastero di Sezano capitale nazionale dell’utopia ? Non sarà troppo ambiziosa questa iniziativa?
«Oltre che ambiziosa, se così fosse, sarebbe anche presuntuosa e per questo il monastero di Sezano non sarà mai capitale nazionale dell’utopia. Tuttavia questo è un luogo (topos) in cui le utopie che già anticipano futuro si danno appuntamento, si confrontano e si sviluppano attraverso una feconda relazione».

Come è nata questa iniziativa, e cosa intende valorizzare?
«La causa remota è il quinto centenario dello scritto di Thomas More sull’utopia. Ma oggi intendiamo dare voce ai molti percorsi che in questi anni i diversi movimenti della terra, della conoscenza, della resistenza al predominio finanziario, dei beni comuni come l’acqua, il suolo, l’energia, l’aria e l’ambiente, hanno realizzato con esperienze di nuove narrazioni del mondo e della vita».

Utopia e realismo contrapposti quindi?
«Non contrapposti ma proposta di nuovi e altri progetti rispetto alla narrazione stantia e scontata che i maestri del realismo continuano a ripetere senza apportare una virgola di miglioramento ai problemi del mondo, ed anzi provocando processi di impoverimento, di squilibri e di guerre».

Sabato pomeriggio ci sarà la proclamazione di alcuni dottori honoris causa in utopia per il 2016…
«Sì, è ormai nella prassi del Monastero del Bene comune, in collaborazione con l’Università del Bene Comune assegnare il dottorato honoris causa in utopia a quelle persone o a quei gruppi che in concreto hanno realizzato azioni ed esperienze in diversi ambiti (economico, lavorativo, educativo, sociale, …) capaci di testimoniare che l’utopia (non luogo) può diventare eutopia (buon luogo)».

Chi sono i nuovi dottori in utopia?
«Quest’anno è stato deciso di premiare la cooperativa sociale New Hope, che sta dando dignità e speranza a tante giovani immigrate; Jürgen Grässlin, pacifista tedesco indomito oppositore dell’industria delle armi e Bernard Tirtiaux, maestro vetraio, scultore, artista, musicista, poeta e scrittore belga». Bernard Tirtiaux

Con che criterio sono stati scelti ?
«Il primo criterio è senz’altro la qualità delle esperienze che rappresentano, vale a dire esperienze capaci di infrangere i dogmi del pensare e del vivere attuali. Un altro criterio individua in persone e in gruppi non necessariamente appartenenti al mondo accademico i candidati per questo riconoscimento. Esiste un mondo complesso di esperienze innovative che necessitano di venire alla luce ed essere riconosciute».

Nel programma dei lavori si legge “Incontro con l’audacia mondiale” …
«In effetti questa sollecitazione dell’incontro con l’audacia mondiale viene proposta nell’ultimo libro, non ancora pubblicato in Italia, di Riccardo Petrella, Au nom de l’humanité. L’autore parla di tre audace: la prima “Dichiarare illegale la povertà” (ovvero i processi che generano impoverimento), la seconda “Disarmare la guerra” e la terza “Mettere fine alla finanza attuale”».

Sembra una scommessa impossibile…
«L’impressione è quella di un’impresa titanica, ma è altrettanto vero che molte micro e macro realtà si stanno muovendo in disobbedienza a questi codici e non è detto che il gigante così possente e terribile alla fine non abbia i piedi d’argilla».

Nel programma della conferenza è prevista anche una cena utopica, di cosa si tratta?
«La conferenza inizierà con una cena curata dallo chef Fulvio De Santa, il cui menù è talmente “utopico” da scartare i prodotti artificiali per gustare i prodotti naturali tramandati dalla saggezza di chi ha lavorato la terra con rispetto e amore, e dei giovani “contadini resistenti”che continuano questa tradizione».

Non solo conferenza quindi, ma festa…
«Certo, non solo conferenza, ma soprattutto festa perché la festa non è un accidente dell’utopia ma fa parte della sua sostanza».

«Dal Referendum del 4 dicembre dipende anche il destino della prima parte della Carta. Compito della sinistra è spiegarlo al Paese e preparare una strategia per rivitalizzare la Democrazia italiana».

centroriformastato online, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)

Ci sono senz’altro molte e diverse ragioni per votare NO al Referendum del 4 dicembre. Non solo ragioni di sinistra, fortunatamente, ché altrimenti vincere il referendum sarebbe quasi impossibile. Compito di ciò che resta della sinistra politica italiana, però, se vuole fare dell’auspicata vittoria nei NO anche un momento ricostituente per sé e per le Istituzioni democratiche, è quello di spiegare al Paese e a quello che dovrebbe essere il proprio blocco sociale le ragioni specifiche del suo NO.

Ragioni che, perché sia efficace il contributo della sinistra alla campagna referendaria, devono necessariamente accompagnare quelle più “tecniche” e trasversali sulle tante disfunzionalità e illogicità presenti nel testo della contro-riforma Renzi-Alfano-Verdini.

Proviamo a dirla nella maniera più esplicita: il Referendum del 4 dicembre sulla modifica della seconda parte della Costituzione proposta dal Governo è in realtà un Referendum sul destino della prima parte della Carta, quella dei principi fondamentali (art. 1-12) e quella dei diritti e doveri dei cittadini (art. 13-54).

Questi infatti si leggono e si reggono solo in relazione all’assetto istituzionale e all’equilibrio tra i poteri disegnato nella seconda parte. La parte programmatica della Costituzione del ’48 indica un solco in base al quale orientare l’azione dello Stato le politiche dei Governi: un solco che parla di progressivo ampliamento della platea di accesso a risorse, diritti e potere. In sostanza: più uguaglianza, più libertà, più democrazia.

Nella prima fase della storia repubblicana dell’Italia (’48-’92) ciò si è per lo più verificato. Progressivamente, attraverso politiche di governo e atti riformatori, si andava realizzando ciò che comandava lo Spirito della Costituzione: dalla scuola media unificata all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, dallo Statuto dei Lavoratori al regionalismo, dalla riforma del Diritto di Famiglia alla legge sul divorzio.

Non è vero, come dice certa propaganda, che non si facevano “le riforme”; si facevano certe riforme, che tendevano a rafforzare uguaglianza, diritti e democrazia. La contrapposizione politica e sociale, certamente tra alti e bassi e comunque passando per momenti conflittuali, portava a un graduale avanzamento delle condizioni di vita per i lavoratori, per le donne, per i giovani, per i più deboli. Esattamente come prescrive la prima parte della Costituzione.

La possibilità che questo avvenisse era data dal fatto che gli equilibri politici che avevano prodotto la Costituzione e l’assetto istituzionale che questa aveva definito erano tali da consentire che il punto di vista di grandi masse popolari risiedesse, con tutta la sua benefica vitalità, nel cuore delle Istituzioni grazie a un dispositivo incentrato su tre pilastri strettamente connessi tra loro che si alimentavano vicendevolmente: centralità del Parlamento, sistema elettorale proporzionale, protagonismo dei partiti di massa.

Quando la tendenza si invertì e si imposero le spinte restauratrici del neoliberalismo, che muovevano dalle classi dirigenti conservatrici sul piano internazionale e nazionale, iniziando ad allontanare l’orientamento dello Stato e delle politiche dei Governi dal solco della Costituzione, quando cioè si sono cominciati a restringere diritti e tutele per allargare gli spazi a disposizione degli spiriti animali del mercato, quando si è ricominciato a favorire privilegi e disuguaglianza, il processo fu innanzitutto segnato dall’attacco a quel dispositivo politico-istituzionale che garantiva la possibilità per le masse di essere realmente rappresentate nei luoghi del potere e così di poter incidere direttamente sulle scelte politiche: i partiti di massa sostituiti da partiti personali e dai partiti-azienda; il sistema proporzionale sostituito da distorsivi maggioritari sempre più lesivi del principio di rappresentatività.

A più riprese vennero messi in campo anche tentativi di contro-riformare la stessa Costituzione al fine di colpire la residua centralità del Parlamento, ultimo fondamentale pilastro del sistema voluto dai Costituenti.

La Costituzione del ’48 seppe resistere, sia in ragione di fattori legati alla contingenza politica sia perché in una parte larga del popolo italiano restava traccia di quel patriottismo costituzionale che per lungo tempo aveva accomunato le culture cristiano-democratiche, liberal-progressiste e social-comuniste.

Non è un caso che oggi il più violento e spregiudicato tentativo di manomettere l’assetto istituzionale fondato sulla centralità del Parlamento venga portato avanti a partire da un luogo -il principale Partito che si proclama erede di quelle tradizioni politiche- da cui è più facile dividere quello che è stato negli ultimi decenni lo “zoccolo duro” dell’ampio fronte sociale, politico e culturale che si è posto a guardia della Costituzione del ’48.

Questo è il senso più profondo della contro-riforma Renzi-Alfano-Verdini: completare l’opera, iniziata ufficialmente in Italia al principio degli anni ’90, di espulsione delle masse dai luoghi della decisione politica, dal cuore delle Istituzioni democratiche. Anche nella confusione del dibattito, infatti, appaiono chiari i tratti caratterizzanti dell’operazione che si sta tentando: compressione degli spazi di partecipazione e rappresentanza dei cittadini; verticalizzazione e accentramento del potere.

Tutto perfettamente coerente con quella tradizione del pensiero elitista e conservatore delle classi agiate che già negli anni ’70 parlava di un “eccesso di democrazia” e che da ultimo trova espressione dell’ormai famoso documento della JP Morgan sulle Costituzioni europee, oltre che nelle prese di posizione in favore del SI’ di importanti attori finanziari e grandi industriali.

Votare NO il 4 dicembre può e deve essere innanzitutto il nostro modo per respingere, come cittadini appartenenti a una comunità nazionale legati alla parte migliore della sua storia e come militanti di una parte che di quella storia è stata e può tornare protagonista, il tentativo finale di chiudere definitivamente i conti con il processo di avanzamento e progresso sociale avviato dalla Liberazione, dall’approvazione della Costituzione del ’48 e dal dispiegamento concreto di quell’idea alta che chiamavamo democrazia progressiva; chiudere i conti con la storia che le masse popolari organizzate dai partiti e dai movimenti socialisti, comunisti e cattolici hanno animato nel corso del Novecento.

Da questo punto di vista, la vittoria del NO può fare del Referendum un punto di svolta che sul fronte italiano inverte l’inerzia della guerra aperta contro il lavoro e la democrazia dalla contro-rivoluzione neoliberale. Ma, dopo aver respinto l’attacco, occorrerà far partire la controffensiva: imbracciando la bandiera del lavoro organizzato e della democrazia sostanziale, puntando come primo grande obiettivo strategico a fare di nuovo delle Istituzioni democratiche dei luoghi vivi, nei quali risuonino i battiti di una società quanto mai inquieta e sofferente.

Dopo la necessaria vittoria del NO, sulla quale siamo tutti chiamati a lavorare fino al momento in cui verrà chiuso l’ultimo seggio elettorale d’Italia, bisognerà avviare una battaglia strategica volta all’approvazione di una legge elettorale proporzionale che consenta alle forze politiche di ogni orientamento lo sforzo di ricostruirsi come partiti, cioè come organizzazioni rappresentative degli interessi, delle aspirazioni e delle istanze plurali di soggetti sociali reali. Partiti in grado di stare nella società e nelle Istituzioni, di organizzare il conflitto e praticare la mediazione.

Ciò che serve alla sinistra da qui al 4 dicembre è una strategia per il dopo. Proprio sulla capacità dei gruppi dirigenti e dei militanti della sinistra di mettere in campo -dentro e oltre la campagna referendaria- una strategia all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte, si misureranno le possibilità di esistenza di una forza della sinistra in grado di essere utile al suo blocco sociale, alla rivitalizzazione della democrazia italiana e alla sua possibile riforma in senso progressivo.

Una strategia insieme realista e radicale, che guardi alle condizioni materiali del Paese e dei suoi ceti subalterni, alle tendenze di fase del sistema e allo stato di salute della democrazia in Italia e in Occidente. Senza lasciarsi ingabbiare né dalle logiche stanche del tatticismo politicista né dal ricatto delle compatibilità di sistema.

». Su quali specchi dovrà arrampicarsi Scalfari per replicare? Aspettiamo con pazienza.La

Repubblica, 12 ottobre 2016

L’oligarchia è la sola forma di democrazia, ha sostenuto Eugenio Scalfari nei suoi due ultimi editoriali su questo giornale. Ha precisato che le democrazie, di fatto, sono sempre guidate da pochi e quindi altro non sono che oligarchie. Non ci sarebbero alternative: la democrazia diretta può valere solo per questioni circoscritte in momenti particolari, ma per governare è totalmente inadatta. O meglio: un’alternativa ci sarebbe, ed è la dittatura.

Quindi — questa la conclusione che traggo io, credo non arbitrariamente, dalle proposizioni che precedono — la questione non è democrazia o oligarchia, ma oligarchia o dittatura. Poiché, però, la dittatura è anch’essa un’oligarchia, anzi ne è evidentemente la forma estrema, si dovrebbe concludere che la differenza rispetto alla democrazia non è di sostanza.

Tutti i governi sono sempre e solo oligarchie più o meno ristrette e inamovibili; cambia solo la forma, democratica o dittatoriale. Nell’ultima frase del secondo editoriale, Scalfari m’invita cortesemente a riflettere sulle sue tesi, cosa da farsi comunque perché la questione posta è interessante e sommamente importante.

Se fosse come detto sopra, dovremmo concludere che l’articolo 1 della Costituzione (“L’Italia è una repubblica democratica”; “la sovranità appartiene al popolo”) è frutto di un abbaglio, che i Costituenti non sapevano quel che volevano, che hanno scritto una cosa per un’altra. Ed ecco le riflessioni.
Se avessimo a che fare con una questione solo numerica, Scalfari avrebbe ragione. Se distinguiamo le forme di governo a seconda del numero dei governanti (tanti, pochi, uno: democrazia, oligarchia, monarchia) è chiaro che, in fatto, la prima e la terza sono solo ipotesi astratte.

Troviamo sempre e solo oligarchie del più vario tipo, più o meno ampie, strutturate, gerarchizzate e centralizzate, talora in conflitto tra loro, ma sempre e solo oligarchie. Non c’è bisogno di chissà quali citazioni o ragionamenti. Basta la storia a mostrare che la democrazia come pieno autogoverno dei popoli non è mai esistita se non in alcuni suoi “momenti di gloria”, ad esempio l’inizio degli eventi rivoluzionari della Francia di fine ‘700, finiti nella dittatura del terrore, o i due mesi della Comune parigina nel 1871, finita in un bagno di sangue.

Dappertutto vediamo all’opera quella che è stata definita la “legge ferrea dell’oligarchia”: i grandi numeri della democrazia, una volta conquistata l’uguaglianza, se non vengono spenti brutalmente, evolvono rapidamente verso i piccoli numeri delle cerchie ristrette del potere, cioè verso gruppi dirigenti specializzati, burocratizzati e separati. Ogni governo realmente democratico non è che una fugace meteora. In quanto autogoverno dei molti, fatalmente si spegne molto presto.

Tuttavia, la questione non è solo quantitativa. Anzi, non riguarda principalmente il numero, ma il chi e il come governa. Gli Antichi, con la brutale chiarezza che noi, nei nostri sofisticati discorsi, abbiamo perduto, dicevano semplicemente che l’oligarchia è un regime dei ricchi, contrapposto alla democrazia, il regime dei poveri: i ricchi, cioè i privilegiati, i potenti, coloro che stanno al vertice della scala sociale contro il popolo minuto. In questa visione, i numeri perdono d’importanza: è solo una circostanza normale, ma non essenziale, che “la gente” sia più numerosa dei “signori”, ma i concetti non cambierebbero (dice Aristotele) se accadesse il contrario, se cioè i ricchi fossero più numerosi dei poveri.

Si può parlare di oligarchia in modo neutro: governo dei pochi. Ma, per lo più, fin dall’antichità, alla parola è collegato un giudizio negativo: gli oligarchi non solo sono pochi, ma sono anche coloro che usano il potere che hanno acquisito per i propri fini egoistici, dimenticandosi dei molti. L’oligarchia è quindi una forma di governo da sempre considerata cattiva; così cattiva che deve celarsi agli occhi dei più e nascondersi nel segreto.

Questa è una sua caratteristica tipica: la dissimulazione. Anzi, questa esigenza è massima per le oligarchie che proliferano a partire dalla democrazia. Gli oligarchi devono occultare le proprie azioni e gli interessi particolari che li muovono. Non solo. Devono esibire una realtà diversa, fittizia, artefatta, costruita con discorsi propagandistici, blandizie, regalie e spettacoli. Devono promuovere quelle politiche che, oggi, chiamiamo populiste.

Occorre convincere i molti che i pochi non operano alle loro spalle, ma per il loro bene. Così, l’oligarchia è il regime della menzogna, della simulazione. Se è così, se cioè non ne facciamo solo una questione di numeri ma anche di attributi dei governanti e di opacità nell’esercizio del potere, l’oligarchia, anche secondo il sentire comune, non solo è diversa dalla democrazia, ma le è radicalmente nemica. Aveva, dunque, ragione Norberto Bobbio quando denunciava tra le contraddizioni della democrazia il “persistere delle oligarchie”.

Se ci guardiamo attorno, potremmo dire: non solo persistere, ma rafforzarsi, estendersi “globalizzandosi” e velarsi in reti di relazioni d’interesse politico-finanziario, non prive di connessioni malavitose protette dal segreto, sempre più complicate e sempre meno decifrabili. Se, per un momento, potessimo sollevare il velo e guardare la nuda realtà, quale spettacolo ci toccherebbe di vedere?

Annodiamo i fili: abbiamo visto che la democrazia dei grandi numeri genera inevitabilmente oligarchie e che le oligarchie sono nemiche della democrazia. Dovremmo dire allora, realisticamente, che la democrazia è il regime dell’ipocrisia e del mimetismo, un regime che produce e nutre il suo nemico: il condannato che collabora all’esecuzione della sua condanna. Poveri e ingenui i democratici che in buona fede credono nelle idee che professano!

C’è del vero in questa visione disincantata della democrazia come regime della disponibilità nei confronti di chi vuole approfittarne per i propri scopi. La storia insegna. Ma non ci si deve fermare qui. Una legge generale dei discorsi politici è questa: il significato di tutte le loro parole (libertà, giustizia, uguaglianza, ecc.) è ambiguo e duplice, dipende dal punto di vista. Per coloro che stanno in cima alla piramide sociale, le parole della politica significano legittimazione dell’establishment; per coloro che stanno in fondo, significa il contrario, cioè possibilità di controllo, contestazione e partecipazione. Anche per “democrazia” è così.

Dal punto di vista degli esclusi dal governo, la democrazia non è una meta raggiunta, un assetto politico consolidato, una situazione statica. La democrazia è conflitto. Quando il conflitto cessa di esistere, quello è il momento delle oligarchie. In sintesi, la democrazia è lotta per la democrazia e non sono certo coloro che stanno nella cerchia dei privilegiati quelli che la conducono. Essi, anzi, sono gli antagonisti di quanti della democrazia hanno bisogno, cioè gli antagonisti degli esclusi che reclamano il diritto di essere ammessi a partecipare alle decisioni politiche, il diritto di contare almeno qualcosa.

Le costituzioni democratiche sono quelle aperte a questo genere di conflitto, quelle che lo prevedono come humus della vita civile e lo regolano, riconoscendo diritti e apprestando procedimenti utili per indirizzarlo verso esiti costruttivi e per evitare quelli distruttivi. In questo senso deve interpretarsi la democrazia dell’articolo 1 della Costituzione, in connessione con molti altri, a incominciare dall’articolo 3, là dove parla di riforme finalizzate alla libertà, all’uguaglianza e alla giustizia sociale.

Queste riflessioni, a commento delle convinzioni manifestate da Eugenio Scalfari, sono state occasionate da una discussione sulla riforma costituzionale che, probabilmente, sarà presto sottoposta a referendum popolare. Hanno a che vedere con i contenuti di questa riforma? Hanno a che vedere, e molto da vicino.

Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2016 (p.d.)

La legge c’era ed era giusta, ma nessun Comune d’Italia l’ha mai applicata a eccezione di Milano. Ora quella legge sarà modificata da un’altra che eliminai suoi effetti benefici.Il paradosso è tutto italiano. Sul piatto una delle prime emergenze del nostro Paese: la lotta al riciclaggio e al finanziamento al terrorismo. Per capire bisogna tornare al 2007, quando viene approvato il decreto legislativo 231 “concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo”. Il linguaggio, se pur tecnico, è sostanziale. All’articolo 10 viene iscritta una parola decisiva: obbligo.

La decisione, presa allora dal secondo governo Prodi, impone alla pubblica amministrazione di segnalare qualsiasi operazione sospetta. Questo appare evidente scorrendo il comma 2 dell’articolo 10: “Le disposizioni si applicano agli uffici della pubblica amministrazione”. L’obbligo viene ribadito all’articolo 41 della 231. In più si specifica che le segnalazioni raccolte dai comuni devono essere inviate all’Ufficio di informazione finanziare della Banca d’Italia. Ora la bozza della nuova legge-delega che sarà approvata dal governo entro il prossimo dicembre, ammorbidisce il castello normativo. E lo fa partendo da un punto cardine della 231, l’obbligatorietà. Questo particolare emerge dal nuovo articolo 10 dove la parola è stata cancellata. La retromarcia è evidente. Ma c'è di più: il testo prevede che “le disposizioni si applicano ai procedimenti” solamente “di autorizzazione o concessione”. La 231 rinnovata taglierà molti campi sui quali i comuni possono operare un lavoro informativo. Su tutti gli esercizi commerciali, strumenti primari per il riciclaggio. Insomma, accanto al cambiamento semantico (obbligo/non obbligo) si affianca un approccio difensivo. È evidente che collegare le segnalazioni ad atti autorizzativi significa limitare il rischio che la pubblica amministrazione venga utilizzata per riciclare.

Di ben altro tenore, invece, la vecchia 231 che dà ai Comuni un ampio raggio di azione, imponendo, attraverso l’obbligo, un atteggiamento di attacco. La nuova bozza di legge delega, scritta dai funzionari del ministero delle Finanze, opera una rivoluzione al contrario, eliminando le disposizioni obbligatorie. Evidentemente all’interno del governo Renzi qualcosa non funziona. Manca il dialogo tra i ministeri. Le future modifiche, infatti, smentiscono un decreto ministeriale firmato il 25 settembre 2015 dal capo del Viminale, Angelino Alfano. Quel documento è decisivo perché mette nero su bianco gli indicatori di anomalie che portano alla segnalazione di operazione sospette.

L’atto del ministero dell’Interno è frutto dell’esperienza, unica in Italia, del Comune di Milano. Il capoluogo lombardo, nel febbraio 2014, durante la giunta Pisapia e grazie alla spinta di David Gentili presidente della Commissione antimafia, dà sostanza alla 231. A oggi le segnalazioni di Palazzo Marino arrivate alla Uif sono undici per un valore complessivo di 150 milioni di euro. Diverse le tipologie: dal riciclaggio legato alla criminalità organizzata al finanziamento del terrorismo. A oggi Milano resta l’unica grande città d’Italia con un Ufficio specifico per l’antiriciclaggio con 53 funzionari tecnicamente formati sui vari indicatori di anomalie. Sul punto della nuova bozza il presidente David Gentili ha pochi dubbi: “È incomprensibile e inaccettabile pensare che oggi, dopo che dal 1991 in tutte le leggi di recepimento delle direttive antiriciclaggio, è sempre stata prevista la pubblica amministrazione come soggetto obbligato, questo venga annullato”.

Certo a voler essere sospettosi, in tutto questo potrebbe aver avuto un ruolo la lobby delle banche. È evidente che se il Comune denuncia persone fisiche con conti correnti che non sono stati segnalati dalla banca, l’istituto di credito sarà passibile di sanzioni.

Il manifesto, 11 ottobre 2016 (p.d.)

Ogni mese 640 mila italiani possono prendere la loro pensione grazie agli 11 miliardi di euro di contributi pagati ogni anno dai due milioni di lavoratori stranieri occupati regolarmente nel nostro paese. Contributi ai quali vanno aggiunti anche 7 miliardi euro di Irpef. Ma non basta: le oltre 550 mila imprese straniere presenti in Italia producono 96 miliardi di euro all’anno di valore aggiunto. A rivelarlo, smentendo così tanti luoghi comuni sugli immigrati, è uno studio condotto dalla fondazione Moressa dedicato a «L’impatto fiscale dell’immigrazione» secondo il quale complessivamente «gli stranieri che lavorano in Italia producono 127 miliardi di ricchezza, paragonabile al fatturato del gruppo Fiat». In cambio la spesa dedicata agli immigrati è apri al 2% della spesa pubblica italiana (15 miliardi di euro)
«Nel nostro Paese l’immigrazione è sempre più importante», sostiene il dossier. «Per mantenere i benefici attuali anche nel lungo periodo sarà necessario aumentare la produttività degli stranieri, non relegandoli a basse professioni».

Dal punto di vista demografico «nel 2015 gli italiani in età lavorativa rappresentano il 63,2%, mentre tra gli stranieri la quota raggiunge il 78,1%» anche se nella maggior parte dei casi si tratta di lavori a basa qualifica. A livello di singoli settori di attività economica, la presenza degli immigrati è concentrata nel comparto del commercio (oltre 200mila imprese su 550mila totali a guida straniera). Seguono le costruzioni. Per quanto riguarda la distribuzione geografica, invece, la maggior parte dei lavoratori stranieri risiede in Lombardia, anche se non mancano presenze significative nel lazio in Emilia Romagna e in Veneto. Romani, Albania e Marocco sono i paesi di origine maggiormente rappresentati.

I lavoratori stranieri rappresentano una realtà importante già oggi per l’economia italiana e destinata ad assumerne un peso sempre maggiore in futuro. Utilizzando i dati della fondazione Moressa, la Cisl ha calcolato che nel 2013, tra soli 15 anni, il numero dei lavoratori stranieri sarà raddoppiato, passando dagli attuali 2 milioni (pari al 10% del totale) a 4 milioni del 2013 (18% del totale), con un contributo al Pil che salirà dall’attuale 9% al 15%. Nel complesso, con gli attuali flussi migratori, nello stesso periodo gli immigrati sulla popolazione totale italiana aumenteranno dal 8,2% del 2015 al 14,6% di cui il 21,7% nella fascia 0/14 anni ed il 17,4% nella fascia 15/64 anni.
Sempre secondo la Cisl dei 2.294.000 attualmente immigrati nel nostro Paese con un regolare contratto di lavoro, 1.238.000 sono uomini ed 1.056.000 donne, occupati al 70% come operai, con un reddito che, per il 40% degli occupati, è inferiore agli 800 euro mensili.

Infine le richieste di asilo, che nel 2015 sono aumentate passando da 626.960 a 1.321.600, (+110,8%) nell’Unione europea. L’Italia riceve prevalentemente profughi africani che seguono la rotta centrale (dal Camerun, dalla Nigeria, dal Niger, dalla Repubblica Centrafricana ai porti libici di Zawra, Zwiya, Tripoli, Sabrata o cirenaici di Bengasi dai quali si imbarcano per Lampedusa) e la rotta orientale che arriva, a sua volta ai porti libici e cirenaici ed alla Sicilia partendo dal Corno d’Africa (Uganda, Kenya, Somalia, Eritrea, Etiopia, Sudan, Sud Sudan). La rotta occidentale, che attinge al bacino territoriale compreso fra Senegal, Guinea e Mali attraversa la Mauritania ed il Marocco, arriva, come destinazione prevalente, in Spagna.

Parole sagge su Renzi (che non è un ragazzotto di provincia ma un politico lucido e determinato, «che esprime una visione di fondo della democrazia e del potere) sulla necessità di contrastare il suo perverso disegna strategico con una nuova capacità progettuale, dopo l'indispensabile vittoria del NO.

ilmanifesto, 9 ottobre 2016

Tutti dicono che sarebbe preferibile un confronto di merito sui singoli aspetti della riforma costituzionale, ma sia nei confronti tra partiti che nelle motivazioni di voto dei singoli elettori, prevalgono valutazioni politiche di carattere generale. Come mai?

La verità è che il voto del 4 Dicembre è un voto «politico», politico nel senso nobile di questa parola oggi tanto disprezzata.

Certo sarebbe stato più facile se la riforma fosse stata suddivisa in più provvedimenti separati in modo che il singolo elettore avrebbe potuto dire dei si e dei no secondo le sue specifiche valutazioni. Così come sarebbe stato preferibile discutere della riforma costituzionale in presenza di una legge elettorale «neutra» cioè che non interferisse con la riforma.

Ma così non è stato. Il governo ha voluto fare della riforma la sua carta di identità ed ha voluto anticipare una riforma elettorale che è addirittura valida solo per la Camera dando per scontato che il Senato elettivo non esisterà più (con la conseguenza, se vincerà il no, che si dovrà rifare la legge elettorale). Quindi la scelta iniziale del governo di fare di queste due leggi un unicum e di legare le sorti di Renzi al loro esito è stata una scelta consapevole e chiara.

Ha fatto male? Ed i tentativi di aggiustare il tiro dicendo che non si vota per Renzi e che la legge elettorale si potrà anche cambiare sono sinceri? Vedremo come evolverà la situazione. Personalmente penso che dovremo saper distinguere tra scelte tattiche e scelte strategiche e che, una volta per tutte, dobbiamo riconoscere al progetto renziano una sua coerenza ed una sua vision senza ridurlo ad un berlusconismo d’accatto. Berlusconi aveva una sua visione, ma essa era fortemente intrecciata con interessi personali che la rendevano permeabile e disponibile a compromessi.

Renzi a mio parere si colloca su quella traccia ideale, ma è un animale politico, contaminato certo anche da interessi locali ed amical-familiari, ma che esprime una visione di fondo della democrazia e del potere. Una visione coltivata dalle sue parti già prima dell’avvento di Berlusconi, ma che, come si sta vedendo nel suo sapersi muovere a livello internazionale, è nuova ed è funzionale alle attuali esigenze del capitalismo globalizzato e finanziarizzato. In questa fase terminale del capitalismo, infatti, i livelli decisionali si sono spostati sempre più in alto verso organismi sovranazionali ed in questo contesto assetti istituzionali che danno voce ai popoli ed alle loro rappresentanze istituzionali sono considerati lussi che non ci possiamo più permettere.

L’ideologia renziana, la rottamazione ed il cambiamento, la velocità ed il decisionismo, la relazione diretta premier-popolo facilitata dai nuovi media, non sono elementi di colore del «ragazzotto di Rignano», ma pilastri fondanti di una ideologia precisa. Ed i disegni collegati di una costituzione velocizzata, di poteri del premier rafforzati con una sola Camera composta da candidati da lui scelti ed un partito super premiato, sono i pilastri di un nuovo edificio. Un edificio tenuto insieme, nelle intenzioni, da un nuovo partito ricostruito dal basso con i comitati per il sì che nascono a sua immagine e somiglianza. Quindi un unicum ben preciso: nuova costituzione, nuova legge elettorale, nuovo partito.

Questo è il disegno! Ambizioso e sul quale oggi gran parte dei vertici del partito sembra ritrovarsi.

Che fare da sinistra per contrastarlo? Certamente far cogliere la grande portata dello scontro in atto: se con un solo Sì si portano a casa tre risultati – nuova costituzione, nuova legge elettorale, nuovo partito – questo vale anche per il No. Un No che vale tre potrebbe essere il nostro slogan.

Ma nei pochi giorni che abbiamo davanti dobbiamo guardare anche al dopo e cercare di dare alla politica una nuova dignità. Certo che dovremo saper argomentare il nostro no alla riforma costituzionale, criticando il tipo di Senato che viene proposto, contestando la strumentalizzazione sulla riduzione dei costi… Penso che in questo contesto dobbiamo pure riconoscere la validità di certe scelte (Cnel, limiti ai rimborsi dei consiglierei regionali…) e la necessità comunque di accelerare l’iter legislativo, anche se in modo diverso manifestando la nostra disponibilità ad un altro Senato… Ma attenzione allo stop and go di Renzi, che prima ci propone i referendum su di lui, poi di separare la riforma costituzionale dalla legge elettorale portandoci a spasso dietro ai suoi tatticismi.

Prendiamolo sul serio questo Renzi, riconosciamogli la dignità di una sua visione politica, avversiamolo nel merito del suo progetto politico. Ed ai suoi elettori che tendono a votare Sì per senso di appartenenza, rendiamo chiaro che non siamo i conservatori dell’esistente, ma quelli che nel passato hanno saputo difendere valori e diritti, ma anche cambiare e conquistare. E che l’abbiamo fatto insieme a tanti di loro. Che non è vero che dal ’44 ad oggi nulla è cambiato e che aspettavamo il venticello renziano per poter respirare.

E che, passato il referendum con la vittoria del No che auspichiamo, sappiamo che dobbiamo affrontare problemi enormi: la crisi economica e sociale dalla quale non si esce ancora, i rischi di populismo ed i pericoli del riaffacciarsi delle vecchie destre. Problemi tutti che richiedono una capacità di riaggregazione del fronte democratico e di messa al centro dei problemi del paese. Tutto il contrario delle politiche di annunci e divisioni che hanno caratterizzato questi ultimi anni.

Prosegue il dibattito sulla democrazia e sulla de-forma costituzionale di Renzi SI, mah, non so, se.., forse NO, ma in fondo SI. La Repubblica, 9 ottobre 2016, con postilla

SONO stato molto contento come vecchio fondatore di questo giornale che il nostro direttore Mario Calabresi abbia deciso di aprire un dibattito sulle varie tesi che riguardano il referendum costituzionale che sarà votato dai cittadini il 4 dicembre prossimo e la vigente legge elettorale che molti (e io tra questi) considerano malfatta o addirittura pessima.

Il dibattito sulle nostre pagine è avvenuto anche perché Repubblica ha ricevuto una quantità di lettere e di messaggi via web su quei medesimi argomenti, esprimendo variamente il loro atteggiamento sul voto Sì o il voto No o l’astensione attiva (come l’ha definita Fabrizio Barca in un suo memorandum in circolazione nelle sezioni del partito democratico). Sono infine molto grato a Gustavo Zagrebelsky che ha dato il via a questa discussione nel suo incontro televisivo di qualche giorno fa con Matteo Renzi.

Desidero subito chiarire un punto: io non sono contrario al referendum per ciò che contiene e che in sostanza consiste nell’abolizione del bicameralismo perfetto. Esso esiste già in quasi tutti i Paesi democratici dell’Occidente, rappresenta un elemento a favore della stabilità governativa che non significa necessariamente autoritarismo: può significarlo però se la legge elettorale è fatta in modo da conferirgli questa fisionomia. Ragion per cui mi sembra onesto dichiarare fin d’ora quale sarà il mio voto al referendum.

Se il governo cambierà prima del 4 dicembre alcuni punti sostanziali della legge elettorale o quanto meno presenterà alla Camera e al Senato una legge elettorale adeguata che sarà poi approvata dopo il referendum, voterò Sì; se invece questo non avverrà o se eventuali modifiche a quella legge saranno di pura facciata, allora voterò No.

Coloro che non vedono (o fanno finta di non vedere) la connessione che esiste tra un Parlamento monocamerale e l’attuale legge elettorale sono in malafede o capiscono ben poco di politica ed oppongono il renzismo all’antirenzismo, cioè la simpatia o l’antipatia verso l’attuale presidente del Consiglio in quanto uomo. Evidentemente questo è un modo sbagliato di pensare. Ricordo a chi non lo sapesse o lo avesse dimenticato che Napoleone Bonaparte difese da capitano d’artiglieria dell’esercito francese (lui era stato fino ad allora di nazionalità corsa) il Direttorio termidoriano eletto dalla Convenzione dopo la caduta di Robespierre che aveva provocato la reazione di piazza dei giacobini. Questo avvenne nel 1795. Pochi anni dopo il 18 brumaio Napoleone decise di sciogliere il Direttorio, lo sostituì con il Consolato composto da tre Consoli due dei quali non contavano nulla e il terzo che era lui aveva tutti i poteri. Di fatto era l’inizio dell’impero che fu dopo un paio d’anni definito come tale.

Come vedete e già sapete gli umori cambiano secondo le circostanze sicché votare pro o contro deve riguardare soltanto il merito e non il nome di chi lo propone.

***

Fatte queste premesse debbo ora affrontare le questioni dell’oligarchia e della democrazia, che hanno diviso Zagrebelsky e me. Crazia è un termine greco che significa potere. Oli significa pochi, demos significa molti, cioè in politica popolo sovrano. Il potere a pochi o il potere a molti. Così dicono i vocabolari, così pensa la maggior parte della gente e così ha sostenuto Zagrebelsky nel suo dibattito con Renzi prima e con me due giorni dopo.

Al contrario io penso che la democrazia, di fatto, sia guidata da pochi e quindi, di fatto, altro non sia che un’oligarchia. Una sola alternativa esiste ed è la cosiddetta democrazia diretta che funziona attraverso il referendum. In quella sede infatti il popolo si esprime direttamente, ognuno approva o boccia con un voto di due monosillabi, il Sì e il No, il suo parere su un quesito. I singoli cittadini quando raggiungono il numero previsto dalla legge, possono presentare quesiti sotto forma di domanda e sottoporli al voto. Naturalmente quel Paese è uno Stato che ha una sua Costituzione la quale, preparata dai partiti o da un gruppo dei saggi, viene sempre approvata per via referendaria.

Tutto ciò premesso riguardo alla democrazia diretta, va detto che dirigere un Paese soltanto con i referendum è tecnicamente impossibile in Stati la cui popolazione ammonti a milioni di abitanti e convive con miriadi di Stati diversi con i quali esistono complessi rapporti di amicizia o di conflitto, scambi economici o sociali, pace o guerra. Pensare e supporre che tutta questa vita pubblica possa essere governata attraverso i referendum è pura follia e non si può parlare neppure in astratto di questa ipotesi.

Il dibattito dunque è un altro e le posizioni sono già state presentate: io sostengo che la vera democrazia non può che essere oligarchica, molti invece e Zagrebelsky per primo sostengono che quei due temi sono opposti e che non possiamo da veri uomini liberi che preferire i molti ai pochi. Quindi: partiti dove tutti i militanti determinano la linea, il Parlamento (bicamerale o monocamerale che sia) è la fonte delle leggi. Chi rafforza il Parlamento, eletto dalla totalità dei cittadini aventi diritto o comunque dagli elettori che usano il loro diritto di voto, rafforza la democrazia, cioè il governo dei molti.

Questo è dunque il dissenso che personalmente giudico soltanto formale e non sostanziale poiché non tiene conto della realtà. Naturalmente questa mia affermazione va dimostrata.

Gli elettori il giorno del voto hanno davanti a loro la lista dei candidati dei vari partiti. Qualche nome lo conoscono perché sono rappresentanti di quei partiti, ma la maggior parte di quei nomi è sconosciuta. Se comunque hanno scelto il partito per cui votano condividendone il programma o addirittura l’ideologia, votano quel partito e anche il nome di uno dei candidati. Ma chi ha scelto quei candidati?
Dipende dalla dimensione dei singoli partiti. Se sono di molto piccole dimensioni la scelta viene fatta dai leader e dai suoi consiglieri. Così avvenne quando Fini e poco dopo Casini decisero di abbandonare Berlusconi e così avvenne allo stesso Berlusconi che non ha mai avuto un partito. Forza Italia non fu mai un partito ma un gruppo di funzionari della società di pubblicità dello stesso Berlusconi. Così avvenne anche per Vendola e per i radicali di Pannella. Ma se il partito è di ampie dimensioni, come la Dc, il Partito socialista e quello comunista, la scelta avveniva nel Comitato centrale. Il Congresso, una volta terminato, si scioglieva dopo avere appunto eletto il Comitato centrale. Era questo il solo organo governante di quel partito, che eleggeva la direzione che a sua volta eleggeva il segretario.

Ho già fatto un elenco di nomi che guidarono quei partiti e quindi non mi ripeterò. Ricordo soltanto che mettendo insieme il Comitato centrale, i sindaci delle maggiori città ed i loro più stretti collaboratori, si trattava al massimo di un migliaio di persone. Il ponte di comando era quello, che decideva la linea del partito, i candidati e i capilista nelle elezioni amministrative e in quelle politiche.

Un migliaio di persone cioè indicavano i loro rappresentanti in Parlamento il quale rappresentava e tuttora rappresenta i milioni di cittadini che li hanno votati. Non è un’oligarchia di pochissimi che determinano la partecipazione di moltissimi i quali nel loro insieme rappresentano la sovranità del popolo e quindi il Demos che chiamano democrazia?

È sempre stato così, nella civiltà antica, medievale, moderna. L’alternativa è la dittatura.
Oligarchia democratica o dittatura: questa è stata, è e sarà il sistema politico dell’Occidente. Nelle altre parti del mondo la dittatura è la normalità con rare eccezioni di Paesi a struttura federale come l’India e l’Indonesia.

Per quanto mi riguarda non ho altro da aggiungere a quanto qui ho scritto. Se Zagrebelsky vorrà prendere atto o contestare queste mie conclusioni siamo ben lieti di leggerlo.

postilla

Oligarchiademocratica o dittatura: questo è stato, e sarà il sistema politicodell’Occidente, sostiene Eugenio Scalfari. La fede nelle sue convinzioni è cosìforte che il fondatore di Repubblica diventa profeta, e prevede che il futurosarà come il passato (per tutto il mondo, sembra di capire, poiché l’Occidente èil modello unico). Si avvicina così a Margareth Thatcher, che prometteva (ominacciava) che There Is No Alternative: il mondo è così com’è e sarà sempre,se non vi piace arrangiatevi. A differenzadi Winston Churchill Scalfari nonammette neppure che la democrazia che conosciamo sia piena di difetti.

Ma la suafoga a sostenere la bontà della sostanza della legge sottoposta al referendum lo spinge a cadere in apertecontraddizioni e a commettere alcuni pesanti travisamenti della realtà. Come avvienequando – pur essendo un fervido apostolo della democrazia rappresentativa -mostra di non accorgersi che il senato proposto da Renzi non è affattorappresentativo dei cittadini, ma solo dalle istituzioni substatuali. O quandofinge di non sapere che il Comitato centrale del PCI era solo una dellestrutture di quel partito nelle quali si discuteva, si decideva ai diversilivelli della vita politica, e si partecipava alle decisioni delle istanze nazionali.Oppure quando trascura il fatto che il bicameralismo non “perfetto” dellariforma Renzi, che dovrebbe sostituire quello “perfetto” attualmente in vigore,è così pieno di imperfezioni da essere, come molti studiosi hanno dimostrato,assolutamente paralizzante.
Nonè malizioso ritenere che la discesa in campo di Scalfari, in apparente difesadella materia in discussione, altro non sia che un goffo tentativo di proteggereMatteo Renzi dalle critiche dei “gufi”. Lo conferma del resto il fatto che per aderireal SI gli basterebbe la promessa di Renzi di modificare sostanzialmente l’Italicum.Come se non avesse imparato che il suo protetto è prodigo, oltre che di spotpubblicitari, di reiterate menzogne. (e.s.)

Internazionale online, 8 ottobre 2016

Dovendo scegliere se lasciare l’azienda fondata da papà Aurelio cinquant’anni fa nelle mani di avventurieri americani e cinesi o provare a riprendersela insieme ai dipendenti, Lorenzo Onofri non ha avuto dubbi. Ha scelto la strada apparentemente più impervia, quella di affidare la fabbrica agli operai, aiutandoli a recuperarla, e da appena un mese è il presidente della neonata cooperativa Stile, un acronimo che recupera il nome dell’azienda fondata nel 1965 da suo padre: Società Tiberina legnami.

È una storia lunga più di un secolo, quella della sua famiglia e dei loro soci, i Colcelli, cominciata alla fine dell’ottocento con la produzione di legna da ardere e culminata nell’apertura di una fabbrica specializzata nella produzione di pavimenti in legno. I parquet di Città di Castello nel tempo sono diventati un’eccellenza del cosiddetto made in Italy e gli affari fino alla prima decade del nuovo millennio sono andati a gonfie vele. Nel 2014, però, dopo la morte di Aurelio Onofri e soprattutto a causa del crollo del mercato dell’edilizia, la Tiberina legnami si è trovata in difficoltà, al punto da essere costretta ad avviare una procedura di concordato preventivo per evitare il fallimento giudiziario.

Per provare a risollevarla con capitali freschi, Lorenzo Onofri si è messo alla ricerca di investitori internazionali, riuscendo a mettere in piedi una “compagine straniera”, composta di statunitensi e cinesi, che si è presentata con un piano di rilancio che prevedeva una forte espansione sui mercati europei e mondiali. Con loro aveva costituito una nuova società, la Anbo-Stile, che aveva affittato l’azienda dal liquidatore giudiziale, evitando la chiusura dello stabilimento.

Cinesi, americani e umbri

Ma ben presto i nuovi padroni hanno rivelato il loro vero volto: “Volevano solo svuotare il nostro magazzino, lasciandoci il cadavere dello stabilimento”, ristrutturato con sistemi all’avanguardia dalla vecchia azienda quando ancora le cose andavano bene, poco prima del crac di Lehman Brothers che aveva fatto esplodere la crisi economica.

«Purtroppo, non tutti i dipendenti mi hanno creduto, perché pensavano che fosse una manovra architettata da me per riprendermi l’azienda», spiega oggi Onofri. Ne è nato un “lungo dibattito” all’interno della fabbrica tra gli scettici e chi invece aveva capito che la ex Tiberina legnami sarebbe stata solo spolpata e abbandonata.

I fatti hanno dato ragione ai secondi. All’inizio del 2016 la situazione è precipitata. L’amministratore delegato si è improvvisamente dimesso, gli stipendi hanno cominciato a tardare e così gli altri pagamenti. I sindacati hanno chiesto a più riprese incontri alla proprietà per conoscere il piano industriale, ma inutilmente. A giugno i lavoratori sono entrati in sciopero e la vecchia società Tiberina legnami fondata da Aurelio Onofri ne ha approfittato per chiedere al tribunale di Perugia la revoca dell’affitto all’Anbo-Stile per «gravi inadempienze nel pagamento dei canoni di affitto e delle merci prelevate».

I magistrati gli hanno dato ragione e il 20 giugno hanno deciso di riconsegnare le chiavi dello stabilimento ai vecchi proprietari, che però non avevano i mezzi economici per proseguire.

A questo punto i lavoratori si sono trovati di fronte a un bivio: in piena estate si è consumato lo scontro tra chi era disposto a rischiare il tutto per tutto, «a qualunque costo», provando a recuperare la fabbrica rischiando in prima persona, e chi invece, «per formazione o per interessi diversi», avrebbe auspicato la ricerca di un altro padrone. Alla fine, in venti hanno abbandonato e altrettanti hanno deciso di proseguire. Per non rimanere chiusi troppo a lungo e pregiudicare il riavvio, gli ex operai della Tiberina legnami si sono mossi contemporaneamente su più fronti.

Hanno costituito in tutta fretta una cooperativa, la Stile, che ha chiesto al liquidatore giudiziale di poter affittare l’azienda. Nello stesso tempo, si sono messi alla ricerca dei soldi. Hanno bussato alle porte degli istituti di credito, ottenendo un prestito da Banca Etica, che ha anticipato le liquidazioni.

Sono andati al ministero per lo sviluppo economico, che ha garantito un finanziamento del fondo Cfi (Cooperazione finanza impresa), istituito dalla legge Marcora del 1984 per sostenere il recupero delle fabbriche da parte dei lavoratori, già sospeso dopo una sentenza europea che lo considerava “aiuto di stato” e poi ripristinato grazie ad alcune modifiche (sostanzialmente la concessione a fondo perduto è stata trasformata nell’anticipazione delle indennità di disoccupazione).

Dalla Cuin factory a Fenix Pharma

Infine, si sono rivolti alla Legacoop, che li ha sostenuti attraverso Coopfond, un fondo destinato ai lavoratori che costituiscono una cooperativa per rilevare un’impresa e alimentato con il 3 per cento degli utili di tutti gli iscritti.

Nel giro di un mese, la Tiberina legnami, dopo l’infelice parentesi sinoamericana, si è rimessa in moto, andando ad aggiungersi alle 252 fabbriche recuperate censite in tutta Italia dall’Euricse, l’Istituto europeo di ricerca sull’impresa cooperativa e sociale. Con una particolarità: la Stile è il primo caso in cui è stato recuperato pure il padrone.

Non si tratta di una prima assoluta: già in Spagna il proprietario della Cuin factory, una fabbrica di mobili di Vilanova i la Geltrú, vicino Barcellona, per evitare la chiusura aveva accettato l’offerta dei suoi ex dipendenti di lavorare con loro, accettando una retribuzione di 900 euro al mese.

Sono ripartiti da dove avevano lasciato, sfornando un farmaco contro l’osteoporosi

In Italia, invece, c’è un altro caso atipico, dove il workers buyout non l’hanno realizzato degli operai in tuta blu bensì ex manager di una multinazionale. Si tratta della FenixPharma, una compagnia farmaceutica nata a Roma dalle ceneri della Warner Chilcott. A fondarla sono stati cinque ex manager licenziati da quest’ultima.

Salvatore Manfredi, che ho incontrato nella sede della prima cooperativa farmaceutica d’Italia, nel quartiere Laurentino di Roma, era il responsabile delle vendite quando facevano capo alla Procter&Gamble. Il giorno in cui l’azienda è stata ceduta alla Warner Chilcott ha capito che era l’inizio della fine e ha lasciato, andando a lavorare per un’altra compagnia.

«Era tutto pianificato dall’inizio: appena rientrati dall’investimento e dopo essersi divisi una discreta torta di stock option, i manager della big company d’oltreoceano hanno chiuso e venduto la licenza del farmaco, senza curarsi di lasciare per strada 550 persone in tutta Europa, 151 delle quali solo in Italia», racconta.

Quando gli americani hanno deciso di dismettere le attività in Europa, dopo appena tre mesi, perché il brevetto del farmaco contro l’osteoporosi che assicurava loro guadagni molto forti stava scadendo, Manfredi è tornato sui suoi passi, decidendo con un pugno di colleghi di sfidare i colossi di big pharma.

In cinque, riunendosi puntualmente in un bar della Montagnola, nella periferia sud della capitale, hanno messo in piedi un piano industriale e l’hanno sottoposto agli ex dipendenti, convincendoli a riprovarci tutti insieme. Poi hanno cominciato a cercare fondi, a contattare le banche per avere prestiti e mutui, a negoziare licenze e brevetti.

Dice Manfredi: «Abbiamo scelto la forma cooperativa perché ci piaceva uscire dalle logiche che avevamo conosciuto fino ad allora e nelle quali eravamo rimasti immersi per anni, dove il lavoro è solo un fattore della produzione che si può cancellare quando i profitti attesi non sono quelli sperati, senza tenere in considerazione i drammi personali e delle famiglie». Sono ripartiti da dove avevano lasciato, sfornando un farmaco contro l’osteoporosi.

Un modello che funziona

La prima tranche della licenza per la commercializzazione del medicinale, di 240mila euro, l’hanno pagata investendo le loro liquidazioni: 25mila euro a testa i cinque della Montagnola, diecimila gli altri settanta lavoratori. Poi sono arrivati i soldi di Coopfond, che è entrato nel capitale sociale di Fenix Pharma con 300mila euro, e quelli di Cfi, che ha dato 200mila euro più altri centomila di obbligazioni convertibili.

Grazie alle garanzie fornite da Legacoop e altre individuali hanno avuto inoltre un mutuo da Banca Intesa e un altro da Cooperfidi, l’organismo nazionale di garanzia della cooperazione al quale partecipa l’Alleanza delle cooperative italiane. Inoltre, ogni socio ha fatto un prestito sociale da dieci o quindicimila euro, vincolando i soldi per due anni in cambio di un piccolo dividendo.

Nonostante le difficoltà nel rilevare e far ripartire uno stabilimento chiuso, quello dei workers buyout, come sono definiti i salvataggi operati dai lavoratori che acquistano il loro luogo di lavoro, è un fenomeno in costante crescita, soprattutto nelle regioni del centronord: tra Emilia-Romagna, Toscana e Veneto, regioni dove il movimento cooperativo è tradizionalmente forte, si trova il 76 per cento delle imprese recuperate.

Dai dati dell’Euricse emerge un modello che funziona: il tasso di sopravvivenza medio di un’azienda senza padroni è di 13 anni, contro i 13,5 di un’impresa tradizionale e i 17 di una cooperativa che parte ex novo. Di quelle che hanno riaperto negli ultimi anni, l’86 per cento ha avuto successo, nella metà dei casi innovando la produzione e aumentando il fatturato rispetto alla vecchia società. Per questo i ricercatori europei la considerano una “misura anticiclica”, vale a dire capace di invertire il ciclo economico, creando posti di lavoro laddove si vanno perdendo e facendo aumentare il prodotto interno lordo quando è in discesa.

Nello stabilimento di Città di Castello appena riaperto, Lorenzo Onofri lo sta sperimentando sulla sua pelle: se non ci fossero stati i suoi ex dipendenti, l’eredità di famiglia con ogni probabilità sarebbe andata dispersa. Sostiene che «il passaggio culturale da padrone a socio-lavoratore» non è stato per lui «un grande trauma», a dispetto di quello che si potrebbe immaginare, perché «la Tiberina legnami è sempre stata una fabbrica atipica, nella quale non esistevano gerarchie precise e c’era un rapporto molto amichevole tra la proprietà e i dipendenti».

Piuttosto, si lamenta dei «muri di gomma» contro i quali si sono scontrati per poter riprendere a lavorare: la freddezza e a volte l’ostilità dei sindacati «che hanno scoraggiato i lavoratori» e «ci hanno tagliato le gambe in ogni modo», le porte chiuse delle banche, le risposte poco chiare delle istituzioni, una burocrazia «troppo complessa», fatta di funzionari che «non conoscono le procedure» e di «competenze che si sovrappongono».

Dalla nuovissima sede al Laurentino, Salvatore Manfredi è fiero di ciò che ha fatto: avrebbe potuto agevolmente lavorare per una grande compagnia, ma ha preferito mettersi insieme ai suoi ex colleghi, «pur sapendo che mettevo a rischio la famiglia e che avevo un mutuo da pagare». Dice di aver seguito l’istinto: voleva costruire un’azienda su altre basi, dando «centralità al lavoro e alle persone, quello che mancava quando eravamo dipendenti degli americani».

Al modello delle big companies, dove tutto viene deciso in luoghi inaccessibili dall’altra parte del mondo, contrappongono la gestione collettiva. La sfida si può considerare vinta: la Fenix Pharma commercializza diversi tipi di farmaci e ha una linea di integratori alimentari, fattura sei milioni di euro all’anno e chiude i bilanci in attivo. Il loro slogan è: «Multinazionali? Se le conosci, le eviti».

il manifesto, 7 ottobre) equella Antonio Esposito (il Fatto quotidiano 8 ottobre). Noi preferiamo parlare di "neofeudalesimo"

il manifesto, 7 ottobre 2016
CARO SCALFARi
OLIGARCHIA NON È DEMOCRAZIA
di Valentino Parlato

Dopo la seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo, la regola era che la politica doveva essere di tutti: tutti dovevamo impegnarci in politica perché questo era il fondamento della democrazia: “governo del popolo”. Ma ora l’aria è cambiata: Per il referendum del prossimo 4 di dicembre è assai chiaro. C’è un manifesto assai eloquente: «Cara Italia, vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un SI».
Siamo arrivati al punto da ritenere malfattori quelli che si occupano di politica? Al punto che dire: «tu sei un politico» è un insulto? Quindi, basta anche con la democrazia che significa “governo del popolo”? Meglio il governo di pochi o di uno solo.

Il governo di pochi si chiama “oligarchia”, che già a scuola ci insegnavano che è una brutta cosa. Dire che un personaggio era un “oligarca” non era proprio un complimento. Ma ora anche Eugenio Scalfari ci spiega che sbagliamo: «Il primo errore – scrive nel suo editoriale su Repubblica di domenica 2 ottobre – riguarda proprio la contrapposizione tra oligarchia e democrazia: l’oligarchia è la sola forma di democrazia».

Questo inatteso innamoramento per l’oligarchia stupisce e preoccupa ed è contro tutto quello che avevamo imparato a scuola.

Preso dal dubbio sono andato a leggere la voce “oligarchia” nell’enciclopedia Treccani: «Caratteristica della o. (oligarchia) è l’esclusione di notevole parte dei liberi, spesso la maggioranza, dal pieno godimento dei diritti politici e la menomazione conseguente della dignità individuale, dei diritti e della libertà stessa degli esclusi dal potere».

Ma Treccani a parte, resta il fatto che tra democrazia (governo del popolo) e oligarchia (governo di pochi) c’è una bella differenza che Scalfari non può cancellare, come noi non possiamo ignorare che l’identificazione di democrazia e oligarchia è una deriva della finanziarizzazione e globalizzazione del capitalismo di questi nostri tempi.

Il
Fatto quotidiano, 8 ottobre 2016
SCALFARI, UNA STRANA IDEA DI DEMOCRAZIA
di Antonio Esposito

Eugenio Scalfari, nel suo editoriale su la Repubblica di domenica scorsa dal titolo “Zagrebelsky è un amico ma il match con Renzi l’ha perduto”, sostiene due tesi: la prima è che il dibattito su La7 tra Renzi e Zagrebelsky sulla riforma costituzionale si è concluso con un 2-0 per di Renzi; la seconda è che Zagrebelsky ritiene erroneamente che la “politica renziana tende all’oligarchia” e che l’errore è dovuto al fatto che il costituzionalista “forse non sa bene che cosa significhi oligarchia”.

Entrambe le tesi sono profondamente errate.

Quanto alla prima, è vero esattamente il contrario: alla competenza con cui il Presidente emerito della Consulta ha spiegato e dimostrato, con tono pacato e dialogante e con ineccepibili argomentazioni, i gravi errori della legge di riforma e i pericoli che corre la democrazia parlamentare ove la legge venisse approvata con il referendum, si è contrapposta la “spocchia”, l’arroganza e l’improvvisazione dell’istrione Renzi che ha eluso le domande, ha fatto la solita demogagia sui costi della politica, ha cercato – (egli che è il campione del trasformismo) – di trovare inesistenti contraddizioni nei ragionamenti lineari e coerenti dell’altro, lo ha irriso ripetendo beffardamente “io ho studiato sui suoi libri”, sicché quanto mai appropriato è l’invito a lui rivolto su questo giornale da Antonio Padellaro nell’articolo di domenica scorsa “La ‘coglionella’ del mellifluo rottamatore costituzionale”: “Se davvero qualcosa ha letto (e imparato) da Zagrebelsky cominci a esibire il suo libretto universitario e ci dia la possibilità di consultare la sua tesi di laurea. Con rispetto parlando”.

Quanto alla seconda tesi, Scalfari ci ha impartito una lezione su “che cosa significhi oligarchia”. È partito da Platone per passare a Pericle, alle Repubbliche Marinare e ai Comuni per arrivare nel “passato prossimo” alla Dc e al Pci fino a concludere che “oligarchia e democrazia sono la stessa cosa” e che “Renzi non è oligarchico, magari lo fosse ma ancora non lo è. Sta ancora nel cerchio magico dei suoi più stretti collaboratori. Credo e spero che alla fine senta la necessità di avere intorno a sé una classe dirigente che discute e a volte contrasti le sue decisioni e poi cercare la necessaria unità d’azione. Ci vuole appunto una oligarchia”.

Per anni è stato insegnato che l’oligarchia – e, cioè, “il comando di pochi” (“olìgoi” e “arché”), quel tipo di governo i cui poteri sono accentrati nelle mani di pochi – è qualcosa di molto diverso dalla democrazia, il “governo del popolo” (“dèmos” e “Kràtos”) che si esercita, negli Stati moderni, attraverso la rappresentanza parlamentare. Dall’Antichità al Medioevo, l’oligarchia è stata considerata dal pensiero politico (in primis Aristotele) una forma di governo “cattiva”. Parimenti, nell’età moderna e contemporanea si è rafforzata la tesi che un governo di pochi è un “cattivo” governo. Il sistema oligarchico è in antitesi a quello democratico.

Orbene, non vi è dubbio che nel nostro Paese il Parlamento sia stato, di fatto, esautorato dall’esecutivo che – legato a ben individuati “poteri forti” che hanno chiesto ed ottenuto norme riduttive dei diritti dei lavoratori – ha esteso sempre più la sua sfera di influenza sulla informazione, sui vertici della Pa, delle forze di sicurezza, e delle aziende pubbliche e pone sistematicamente in atto una campagna, da un lato, di disinformazione e, dall’altro, di propaganda ingannevole.

Il Fatto Quotidiano, nel febbraio di quest’anno (“Le Ragioni del no”, 9/2), denunciò che la riforma costituzionale e la nuova legge elettorale – le quali, nel loro perverso, inestricabile intreccio, riducono il ruolo dei contrappesi, azzerano la rappresentatività del Senato, sottraggono poteri alle Regioni, consentono ad una minoranza di elettori di conquistare la maggioranza della Camera, unica rilevante (anche per la fiducia al Governo) di fronte ad un Senato delegittimato e composto della peggiore classe politica oggi esistente – avrebbero contribuito a portare a compimento un disegno autoritario diretto a concentrare tutto il potere nelle mani dell’esecutivo e, segnatamente, nel capo del Governo, (che da tempo è anche segretario del partito di maggioranza, e la doppia carica preoccupa), e di un gruppo di oligarchi da lui designati. Basti pensare a quei personaggi, ben noti, che lo stesso Scalfari inserisce nel c.d. “cerchio magico” di Renzi e che però, definisce, eufemisticamente, “i suoi più stretti collaboratori”.

Questo spiega la impropria discesa in campo degli oligarchi e del loro capo – (che si sarebbero dovuti astenere dal partecipare alla campagna referendaria) – ed il loro attivismo, (anche all’estero), ogni giorno sempre più frenetico, ossessivo, invasivo con la promessa – da veri imbonitori – di stabilità e benessere se vincerà il SÌ e con il prospettare catastrofi e caos nel caso opposto.

Solo votando NO sarà possibile evitare la deriva autoritaria.

Riferimenti
Sul dibattito sui concetti di oligarchia, democrazia, dittatura ecc vedi gli articoli di Eugenio Scalfari, Guido Crainz, Nadia Urbinati, Salvatore Settis, Carlo Freccero, Piero Ignazi
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