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«Noi votiamo No, anche se lo stesso faranno molti altri che hanno idee politiche opposte alle nostre; non sono loro l’oggetto del voto del 4 dicembre, ma la legge fondamentale del Paese: la Costituzione italiana».

libertàgiustizia online, 21 novembre 2016(c.m.c.)

Se Gad Lerner può dire di votare Sì nonostante Renzi, altri possono dire di votare No nonostante molti di coloro che votano No abbiano idee politiche non condivisibili. In altre parole, il voto sul referendum costituzionale non è un voto su o contro Renzi: e infatti c’è chi vota Sì, come Lerner, pur distinguendosi da Renzi. E’ vero anche l’opposto: si può votare No pur non avendo le stesse idee politiche di molti coloro che votano No.

Il referendum sulla Costituzione taglia trasversalmente le idee e le appartenenze e, nonostante lo abbia promosso il Governo Renzi, l’opposizione a quella proposta del suo Governo non si identifica necessariamente con il giudizio sul Governo. Il referendum non si propone di “mandare a casa” Renzi. Non è un plebiscito su di lui e sul suo esecutivo.

Dunque, distinguiamo la legge fondamentale da chi la usa. Noi votiamo No, anche se lo stesso faranno molti altri che hanno idee politiche opposte alle nostre; non sono loro l’oggetto del voto del 4 dicembre, ma la legge fondamentale del Paese: la Costituzione italiana.

IGiandomenico Crapis il manifesto, 20-21 novembre 2016

DALLA CARTA NATA DALLA RESISTENZA
ALLO STATUTO ALBERTINO
di Mario Agostinelli e Giuseppe Vanacore

«Referendum. Se vince il sì alle riforme, alla camera siederanno deputati di regia, scelti dal governo e dai capipartito. E il nuovo senato non elettivo indebolirà i diritti sociali»
In base alla superiorità della Camera «elettiva» e l’invenzione di un senato di nominati (camera di seconda mano) senza legittimazione territoriale diretta, come si attuano i diritti sociali che la Costituzione ha programmato nella prima parte e ha posto in gestione a istituzioni locali autonome, partiti e forme associative riconosciute nella seconda? Uno stravolgimento che determina la definitiva soluzione di continuità con l’attività legislativa costituzionalmente orientata e che a partire dagli anni ’60 aveva prodotto la legge sul divieto di licenziamento (legge 604/66); lo Statuto dei lavoratori (legge 300/700); la riforma delle Autonomie locali (legge 382/75); l’abolizione dei manicomi (legge 180/78); la riforma delle pensioni, la riforma sanitaria (legge 833/78). Tantissime le norme che condizioneranno in senso negativo il nostro sistema democratico, con dissimulazioni che talvolta appaiono come un vero e proprio raggiro.

Innanzitutto non è vero che si abolisce il bicameralismo: è vero altresì che il senato non è più elettivo. La ragione non emerge mai con chiarezza nei dibattiti: eppure è semplice: l’articolo 57 della Costituzione attuale afferma che i senatori sono eletti a suffragio universale su base regionale.

Questa norma impedisce una legge elettorale con un premio di maggioranza a livello nazionale. Ed è per questa ragione – di inconsistenza di rappresentanza – che Renzi è approdato alla decisione di abolire l’elezione diretta del senato, prevedendone invece la nomina da parte dei consigli regionali. Ogni funzione del senato sarà così di puro complemento alla dinamica partitico-politica in corso in quel momento, senza alcun collegamento con la rappresentanza diretta e l’autonomia dei territori.

Con questa riforma costituzionale i livelli essenziali (non minimi!) di assistenza (Lea), enucleati della riforma sanitaria e posti a presidio del diritto alla tutela universale della salute (art. 32 Cost.) non assurgono a criterio costituzionale e si riducono a una scaramuccia tra il governo centrale e regionale all’atto della finanziaria.

Fuorviante l’obiezione che elevarli a tale rango rischierebbe poi di limitarli, perché è noto che i Lea rappresentano la garanzia di uguaglianza su tutto il territorio nazionale, tanto che un domani di fronte a tentativi di tagli – come è già successo – costituirebbero una robusta difesa e un argine invalicabile sotto il quale non sarebbe possibile andare. E’ bene sapere che il vincolo del pareggio di bilancio in costituzione vuol dire, invece, che l’esercizio di diritti fondamentali dipenderà dalle risorse correnti disponibili, mentre l’individuazione delle prestazioni sanitarie e sociali essenziali verrà affidata semplicemente ad un provvedimento amministrativo di competenza del governo, con una funzione solo residua e caritativo-compensativa delle Regioni. Sanità a gogò e privatizzazioni quindi, come voleva Formigoni.

Con l’alibi della semplificazione, si affidano alla legislazione esclusiva dello stato, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale della energia (materia finora concorrente), nonché le infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione. Anche il governo del territorio diventa di competenza esclusiva dello stato, così come la tutela e la sicurezza del lavoro (applicatelo alla TAV o alla discarica delle scorie, all’Ilva o a Seveso!).

Di fatto alle Regioni – a parte pochi residui – non spetterà la potestà legislativa sulla generalità delle materie: morte quindi all’alternativa di società fatta di «formazioni sociali» e di autonomie che sta scritta nella prima parte della Costituzione.

Ma c’è un’ultima osservazione che non ci deve sfuggire, la guerra. L’innovazione esplicita è che il senato, secondo l’articolo 78 della nuova Costituzione, viene escluso dal partecipare alla deliberazione della guerra e al conferimento al governo dei relativi poteri, in base a una gestione riservata al primo ministro e ai suoi deputati. E ciò è molto strano, perché il senato dovrebbe rappresentare le realtà territoriali (anche se in forme non dirette), dove ci sono le case e i corpi delle persone che più di tutti sarebbero colpiti dalla guerra.

Rendiamoci conto di un tremendo paradosso: rimane il bicameralismo, quello dello Statuto Albertino, ma con un rovesciamento. Con la riforma proposta, la camera dei deputati diventa lei la camera alta. Con l’Italicum in essa siederanno infatti dei deputati di nomina «regia», che cioè saranno nominati dall’alto, ovvero dal governo e dai capipartito, e sarà così assicurata la continuità del potere, e sotto l’ombrello dei minor costi della politica, si farà garante che tutto resti com’è.

Il senato, che si presentava come il punto forte della «riforma» rivela invece la sua funzionalità a colpire la democrazia sociale della Costituzione antifascista. Grazie a Renzi che ci sta dando tutto il tempo per compiacerci del No.

A RETI UNIFICATE,

IN TV RENZI SI FA IN QUATTRO
di Vincenzo Vita

«Il parabolico. Premier Millecanali è riuscito a battere Berlusconi»

L’esposto presentato dal Comitato per il No al referendum costituzionale sulle violazioni della par condicio di questa campagna in corso è davvero il minimo sindacale. La costante negazione di un corretto diritto all’informazione meriterebbe qualche attenzione generale in più. Anche da parte delle forze di sinistra, che talvolta sembrano ignorare la gravità di quello che accade.

Stiamo parlando della torsione filogovernativa di grande parte dei media. Questi ultimi, oggi persino in misura maggiore rispetto all’età berlusconiana, sono diventati una componente di una sorta di sistema politico allargato, piuttosto che un rigoroso contropotere.

Ecco il perché si è sentita l’esigenza di ricorrere allo strumento dell’esposto, cui l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è tenuta a rispondere, e non con qualche richiamo flebile e burocratico.
La legge 249 che istituì l’Agcom introduce meccanismi sanzionatori affidati ad un organismo che si voleva “cattivo” e determinato. La normativa sulla par condicio è aggirata bellamente attraverso la costante presenza nelle reti e nelle testate di Renzi, il quale usa molti travestimenti: statista europeo, presidente del consiglio, leader di partito, esponente di punta del Sì.

È così che salta ogni conteggio delle presenze radiotelevisive. Renzi, infatti, quando parla sembra una star delle telepromozioni, in cui il conduttore del programma a un certo punto apre il siparietto pubblicitario, forte della presa sul pubblico del programma stesso.

Sono forme sofisticate di manipolazione, che le istituzioni preposte alla vigilanza dovrebbero sorvegliare. E punire, quando necessario. Le ultime due settimane prima del voto sono decisive nella formazione dell’opinione elettorale. Ecco, quindi, che si esige un comportamentale adeguato alla bisogna. Adesso, subito. Altrimenti, come già è accaduto in passato, il «riequilibrio» è richiesto a cose fatte.

Un punto, poi, merita un chiarimento. Il concetto di «riequilibrio». Con l’invito a Matteo Salvini, Fazio non pareggia la presenza della scorsa domenica di Renzi. Renzi è il Sì. Salvini, con rispetto parlando, non sintetizza le ragioni del No.

Serviva uno dei costituzionalisti prestigiosi che diedero vita alla campagna contro la revisione della Costituzione. O il presidente dell’Anpi, altrettanto decisivo. La forma è sostanza. E viceversa. O Salvini è una sineddoche, la parte per il tutto? Insomma, la Rai e Fazio non possono cavarsela così. Siamo seri.

RENZI A RETI UNIFICATE:
«IL NO UN’ACCOZZAGLIA»
ESPOSTO BIS ALL’AGCOM
di Maria Teresa Accardo

«Le mille balle blu. Nei Tg Rai il governo da solo doppia tutti gli altri protagonisti. Dal premier pioggia di insulti: "Non voterei no neanche ubriaco". Il Comitato all’autorità garante: intervenire subito, negli ultimi giorni cruciale un’informazione»

Una presenza del governo in tv «abnorme», una «vistosa violazione delle leggi» sulla par condicio durante le campagne elettorali. È durissimo, ma soprattutto molto dettagliato il nuovo esposto del Comitato per il No che arriva all’Agcom, dopo il «buffetto» imbarazzante che la stessa autorità negli scorsi giorni aveva impartito alle tv in cui dilaga la presenza del fronte del Sì. Soprattutto grazie ai suoi massimi esponenti, premier e ministri. L’esposto, il secondo, è firmato dai costituzionalisti Alessandro Pace e Roberto Zaccaria, e dai rappresentanti del No Alfiero Grandi e Vincenzo Vita. È corredato da tabelle che vale la pena léggere con attenzione per verificare quella che viene definita «la vistosa sovraesposizione del presidente del consiglio e di esponenti del governo nell’informazione diffusa dalla concessionaria pubblica», con particolare riferimento ai principali Tg (Tg1, Tg2, Tg3, RaiNews). Una situazione particolarmente delicata, visto che siamo a meno di due settimane dal voto e cioè nel cruciale momento in cui gli «indecisi» si fanno un’idea di cosa votare. Spesso grazie alla tv.

Il «tempo di antenna», cioè la somma del tempo di notizia e quello di parola, di Renzi e del governo in totale «è superiore al 42 per cento». Nel dettaglio: «Nelle tre edizioni principali dei telegiornali Rai di domenica 13, lunedì 14, martedì 15 e mercoledì 16, il presidente del consiglio ha avuto rispettivamente 62 secondi di tempo di parola, 63 secondi, un minuto e 34 secondi ed un minuto e 22 secondi. Una quantità di tempo di parola che da sola doppia quella totalizzata da tutti gli altri soggetti politici».

Ormai siamo all’ultimo miglio della campagna referendaria. Per questo il Comitato chiede all’Autorità di intervenire «prontamente ed incisivamente» per ripristinare il diritto dei cittadini a «un’informazione imparziale». Anche per evitare il ridicolo delle sanzioni a futura memoria, quelle che arrivano fuori tempo massimo a voto celebrato, grande classico dell’autorità garante dell’era berlusconiana.

Ma se in tv il premier fa un gioco sempre più duro grazie a direttori compiacenti, anche fuori non scherza. I sondaggi, che lo penalizzano (da ieri non sono più pubblicabili) gli suggeriscono di tentare il tutto per tutto per la rimonta. E quindi via a insulti, sarcasmi, sfottò all’indirizzo del fronte del No: altro che «restiamo al merito della riforma», i suoi comizi ormai sono show che finiscono per aizzare gli spettatori contro gli avversari politici. Come ieri a Matera. Il premier ha definito il No «l’ennesima accozzaglia di tutti contro soltanto una persona». Renzi si rivela sempre più un talento da palco: ammiccamenti, persino imitazioni (D’Alema è il bersaglio preferito): «Stanno mettendo insieme un gioco delle coppie fantastico. Meglio di Maria De Filippi. Abbiamo fatto capire a Berlusconi e Travaglio che si vogliono bene a loro insaputa, D’Alema e Grillo, uno che sostiene la politica e uno l’anti politica. E poi Vendola e La Russa», ieri ha detto. Poi però, stavolta a Caserta, gli è toccato fermare i suoi dal cacciare in malo modo un signore che lo contestava. Al grido già sentito (alla Leopolda) «fuori, fuori». Poco prima aveva detto, a proposito dei referendum propositivi: « Se uno vota 5 Stelle come fa a votare No? Nemmeno ubriaco». I deputati M5S replicano a stretto giro: Renzi mette insieme volti diversi?, «Agli italiani basta vedere la sua faccia per sapere quale sia la scelta giusta».

Lo scontro a distanza si fa molto ruvido anche dentro il Pd. Roberto Speranza, in tour in Sicilia per difendere le ragioni del No, replica al segretario: «Accozzaglia? Siamo di fronte alla solita arroganza, quella del ’Ciaone’ pronunciato dopo il referendum sulle trivelle a cui parteciparono oltre 15 milioni di italiani». Da sinistra Pippo Civati intanto invoca una parola da Romano Prodi, storico leader dell’Ulivo. Lo fa da Bologna, dove ieri ha riunito i suoi per la manifestazione «Per noi è no». Accanto a lui c’era Silvia Prodi, la nipote dell’ex premier. Il quale ex premier da settimane è dato ’ tendenza No’. Lui però non parla: e questo lo salva dagli attacchi forsennati che Renzi riserva ai protagonisti della sinistra di ieri che non votano Sì «per riprendersi le poltrone di prima».

PERCHÉ LA RIFORMA È DANNOSA
DA UNA PROSPETTIVA FEMMINISTA
di "Femministe per una Costituzione Fica"

«Con il nostro No ci uniamo ad altri soggetti insubordinati ed esclusi, a chi cerca vie d’uscita dal precariato, a chi vuole accogliere i migranti e a chi costruisce reti di intimità e cura al di fuori della famiglia nucleare!»

“Il 4 dicembre mi tengo libera. Io voto no”: è uno degli slogan che lanciamo come “Femministe per una Costituzione Fica”. È un invito esplicito a non astenersi e a votare No, perché “questa riforma ci tocca e quando le donne dicono No, è No”.

In cosa il No femminista è diverso dagli altri No
Una riforma come quella proposta ostacola il nostro agire politico come femministe, perché riduce gli spazi di democrazia e confronto. Limita la politica a una questione di governabilità e rafforza i poteri dell’esecutivo, espressione di una minoranza che si fa maggioranza schiacciante e decide per tutti. Come femministe lavoriamo nei territori per avere maggiore partecipazione, per creare alternative all’autoritarismo, al maschilismo che ancora dilaga nei posti di lavoro e nei luoghi della politica, alle misure di austerità che con tagli alle spese sociali e con privatizzazioni colpiscono le donne più degli uomini. Per tutto questo diciamo “no” e da qui partiamo per rinnovare la nostra attuale Costituzione. Sono altre, infatti, le modifiche alla Costituzione che potremmo sostenere: dall’eliminazione del pareggio di bilancio all’inserimento di una chiara formulazione del diritto alla casa, alla riscrittura dell’articolo 29 che definisce la famiglia “società naturale”, fino a chiarire che il lavoro su cui si fonda la Repubblica non è solo quello produttivo, ma anche quello riproduttivo.

I punti più dannosi della riforma da una prospettiva femminista

Con questa controriforma torniamo a una concezione del potere come qualcosa che appartiene a un piccolo gruppo di persone che con una legge elettorale iper-maggioritaria può facilmente ottenere una maggioranza decisiva alla Camera dei deputati (340 su 630 seggi). Sarà solo questa Camera a dare la fiducia al governo e a deliberare lo stato di guerra. Sarà un’artificiosa maggioranza a controllare l’elezione del presidente della repubblica, dei giudici costituzionali e dei membri laici del consiglio superiore della magistratura. In altre parole, non ci saranno contrappesi al “capo” – come lo chiama l’Italicum – che “guida” la lista che vince le elezioni. Il Senato diventerà una farsa, dovendo rappresentare istituzioni territoriali svuotate di ogni autonomia dal governo centrale. L’unica cosa certa è che non avremo più il diritto di eleggere i componenti del Senato. Non si tratta delle “dittatura della maggioranza”, ma dello strapotere di una minoranza. Per di più questa minoranza approverà le leggi secondo procedimenti legislativi molto complessi. Sarà sempre più difficile quindi esercitare alcun controllo politico. Questa riforma infatti parla una lingua burocratica che allontana la cittadinanza dalla cosa pubblica. Noi invece troviamo fondamentale che la Costituzione sia scritta in un italiano facilmente comprensibile a tutte/i.

Il nostro No si coalizza con il No di altri gruppi
Con il nostro No ci uniamo ad altri soggetti insubordinati ed esclusi, a chi cerca vie d’uscita dal precariato, a chi vuole accogliere i migranti e a chi costruisce reti di intimità e cura al di fuori della famiglia nucleare. Non abbiamo niente a che spartire con chi, come Salvini e Adinolfi, strumentalizza questo voto per perseguire campagne razziste e omofobe. Noi ci uniamo a tutte le donne, gli uomini e le soggettività che assumono il conflitto fra i sessi come un terreno per lottare contro altre diseguaglianze e discriminazioni. Diciamo No con chi si batte contro il verticalismo del potere, le facili guerre, il parlamento ostaggio del governo, lo svilimento del diritto di voto, l’aumento dei procedimenti legislativi, i governi di false maggioranze. E poi, non dimentichiamoci, che questa è una riforma voluta da un governo sostenuto da un parlamento eletto con una legge elettorale già dichiarata incostituzionale.

Per noi, questa volta, è importante non astenersi

Quello del 4 dicembre non è un voto per elezioni amministrative o politiche. Per alcune di noi è difficile trovare rappresentanza istituzionale e, quindi, l’astensione o l’annullamento della scheda elettorale può sembrare la scelta migliore. Questo referendum è diverso. Non solo non c’è quorum, ma si vota per respingere una controriforma che, in nome della governabilità e dell’efficienza, renderà l’Italia sempre più facile preda dei biechi interessi, nazionali e sovranazionali, delle politiche di austerità neoliberiste indirizzate dalle grandi società finanziarie come J.P.Morgan o dai gruppi alla Bilderberg. L’attuale Costituzione resta una delle migliori al mondo, per i suoi contenuti, le finalità e anche per la forma. La Costituzione, infatti, deve essere facilmente comprensibile a tutte e tutti in modo che ciascuna possa verificare che venga rispettata e attuata. Una Costituzione illeggibile, quale quella profilata dalla riforma, è utile solo a chi vuole evitare che si rivendichino i diritti e i principi in essa garantiti. Noi vogliamo andare oltre, non possiamo certo tornare indietro.

REFERENDUM, UNA LETTERA APERTA
A FABIO FAZIO
di Giandomenico Crapis

Caro Fazio, Lei è garbato, è simpatico, duetta alla perfezione con Littizzetto, ha varato con scelta indovinata un gradevole talk show con Salemme, Marzullo e Frassica, ha ripreso, sia benedetto, il «Rischiatutto» di Bongiorno. Lei invita gli attori e le attrici che piacciono, gli artisti emergenti, i cantanti che vanno, gli scrittori che vendono, gli sportivi di successo. Con loro la conversazione è piacevole, leggera, divertente, a volte anche interessante. Insomma, Fazio, Lei fa un bel programma, complimenti, e i risultati gliene danno atto. Però quando sceglie di cimentarsi con la politica Lei non funziona più. Di Pietro direbbe che con la politica Lei non ci «azzecca» niente. Tanto che, non di rado, quando invita i politici inciampa, scatena il caso, combina qualche guaio.

Invita Renzi, come la scorsa settimana, in piena par condicio elettorale: una dimenticanza. E l’Agcom l’ha bacchettata. La dimenticanza, perdipiù, è recidiva, infatti era successo anche a maggio scorso: altra ospitata, altra polemica, altro intervento Agcom, perché anche allora c’erano elezioni amministrative alle porte. Ancora: nel 2014 ci sono le primarie Pd per la scelta del segretario. E Lei che fa? Decide di offrire il palcoscenico della sua trasmissione ai candidati: Renzi, naturalmente, poi Cuperlo. Ma dimentica Civati, che però non se la prende più di tanto e le risponde con l’ironia.

Insomma pare proprio che quando Lei ha a che fare con par condicio o campagne elettorali, insomma con la politica, si confonda, sfiori l’incidente, perda d’un tratto quell’equilibrio che invece dispensa altrove con sapienza. Quella che la porta a selezionare per il suo programma un parterre di ospiti sempre nuovi, scelti con cura ed attenzione.

Virtù che smarrisce quando ha a che fare con i politici. Per dire: il premier in un anno è venuto da Lei già tre volte: non le sembra sinceramente un po’ troppo per una trasmissione della domenica sera? Faccia uno sforzo di fantasia e se proprio deve invitarli, questi politici, vada a scovare quelli meno noti, il cui lavoro magari meritevole si svolge lontano dal teatrino e senza riflettori. Le riuscirebbe molto meglio.

Anche perché, poi, Lei è troppo gentile, tanto educato, così poco incline al contraddittorio vivace, per avere a che fare con la politica. Sicchè lo spettacolo non è mai all’altezza: se alla star di turno basta far raccontare qualcosa di sé e dell’ultimo disco (o film, o libro), al politico devi pur rivolgere qualche domandina cattiva, impertinente, guardi che perfino Vespa lo fa. Metterlo, magari un pochino, in difficoltà. Una cosa che non è mai stata nelle sue corde.

La comprendiamo, ognuno ha il suo carattere. Ma se inviti Renzi per fagli fare uno spot per il sì, e l’Agcom ti rimprovera, poi devi invitare per il No un esponente del maggior partito di opposizione, e se non c’è Grillo puoi chiamare pur sempre Di Maio, che è vicepresidente della Camera, o un Di Battista, ma non Salvini. È l’abc del giornalismo. Altrimenti sorge il dubbio che tutto ciò non accada a caso, ma sia il frutto di una strategia. E noi questo non lo vogliamo pensare.

Veda Fazio, Lei ci piace molto quando fa quello che sa fare, meno quando si mette a fare cose che non sa fare. Ci perdoni l’impertinenza se ci permettiamo di rivolgerLe, con sincerità ma con affetto, un dolce rimprovero: lasci perdere la politica. Non fa per Lei.

Una utile premessa a un ragionamento sulla "sinistra" in Italia. Per andare avanti bisognerebbe domandarsi che cosa non si sapeva vedere del mondo nel XX sec. e che cosa si sa vedere oggi.

il manifesto, 19 novembre 2016, con postilla

Come mai in Italia non c’è una sinistra dalle dimensioni elettorali e dalla forza attrattiva di Podemos, Linke, Syriza mentre quello spazio è occupato dai 5 Stelle? È un rompicapo a cui applicarsi in attesa del referendum del 4 dicembre. Il «caso italiano» dei decenni passati (la società più politicizzata d’Europa con la più ramificata sinistra politica e sociale) è infatti evaporato del tutto presentando ben altre anomalie e peculiarità.

La data fondamentale di passaggio ravvicinato è il 1989: «socialismo reale» in frantumi, «svolta» del Pci. Si aprì allora una violenta diaspora tra chi intendeva liquidare storia e patrimonio di quella sinistra e chi voleva provare a rinnovarla.

La «carovana» di Achille Occhetto non aveva ancoraggi ideali, se non un generico aprirsi al nuovo con una contemporanea presa di distanza dal socialismo europeo (l’ombra di Craxi).

Il fronte del «no» si divise invece all’interno del Pci tra i promotori di un nuovo partito (Sergio Garavini, Armando Cossutta, Lucio Magri e altri) e chi riteneva possibile rimanere nel «gorgo» (Pietro Ingrao, Aldo Tortorella, Giuseppe Chiarante e per una fase Fausto Bertinotti).

Rifondazione comunista finì per nascere più su una spinta emotiva di resistenza che su un progetto di ripensamento a fondo dell’esperienza comunista bisognosa di novità progettuali, organizzative e di innovative pratiche politiche. La segreteria di Bertinotti cercò di superare l’handicap dell’atto di nascita collocando Rifondazione sulla frontiera dei movimenti.

La rottura col governo Prodi nel 1998 e le successive scissioni (Comunisti unitari, Pdci, Sel) sui temi del governo e della collocazione politica hanno però reso via via impraticabile l’ipotesi di un partito neocomunista non testimoniale. Si è dimostrata inoltre assai fragile l’idea che il comunismo italiano potesse salvarsi indenne dallo tsumani grazie alla sua diversità positiva. A loro volta i movimenti – quello no gobal innanzitutto – non sono riusciti a occupare con una proiezione politica lo spazio lasciato libero (gli indignados e Podemos in Spagna sono l’esempio contrario).

Le «due sinistre» si sono successivamente allontanate ulteriormente, Pds-Ds da una parte e Rifondazione dall’altra. Una chance di rimescolare le carte la ha avuta Sergio Cofferati che tra il 2001-2003 coagulò intorno alla Cgil e a sé, sul tema della difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, di una sinistra dei diritti e del lavoro, una domanda che attraversava sia Rifondazione sia i Ds.

Poteva allora nascere un Partito del lavoro come riaggregazione di una nuova sinistra non più figlia solo della diaspora comunista e come alternativa al progetto di Partito democratico che andava decollando? È probabile. Ed è assai probabile che sarebbe cambiata pure la storia successiva delle due sinistre.

Resta tuttora un mistero la scelta di Cofferati di ghettizzarsi nel ruolo di sindaco a Bologna e di rinunciare perfino a una battaglia politica interna quando il Pd prese forma, riaprendola solo dopo la sua esclusione dalle liste regionali piddine in Liguria.

All’afasia di Rifondazione e al tentativo di Sel di avviare una controtendenza, ha fatto pendant la navigazione perigliosa del Pd voluto da Prodi, D’Alema, Veltroni, Rutelli. Quando la sinistra Ds di Fabio Mussi decise di non aderire al Pd echeggiando un refrain musicale dei Dik Dik («Io mi fermo qui»), le cose erano andate troppo oltre le previsioni di quella componente per modificarne il corso: non restava che tentare la risalita con Sel.

Dopo aver perso per strada Prodi e Rutelli, aver preso atto del «ritiro» di Veltroni, la conquista del Pd da parte di Matteo Renzi ha finito di fare la frittata e ha segnalato – a seconda del punto di osservazione – il fallimento del progetto Pd o il suo inevitabile inveramento. Mentre la sinistra si divideva e tentava riaggregazioni, diventava ancora più grave la crisi della politica italiana e iniziava a germogliare la fenomenologia che ha dato origine al Movimento 5 Stelle: corruzione dilagante, separazione abissale tra istituzioni, attività politica e vita reale, opinione pubblica sempre meno interessata ai partiti, rancore come reazione alle stagioni militanti.

La cosiddetta «antipolitica» ha così iniziato a dilagare senza che le due sinistre adottassero le contromisure. Riforma della cultura politica e delle sue pratiche, questione morale non sono state ritenute priorità.

Ecco così che il grillismo è diventato capace di tenere insieme spinte trasversali di sinistra e di destra, sollecitazioni ambigue e contraddittorie socialmente unificandole in un generico ma motivato disprezzo per la politica e i partiti oltre che in una sbandierata deideologizzazione di riferimento.

Lo spazio politico ed elettorale che altrove è occupato a sinistra da Podemos, Linke e Syriza in Italia è saldamente presidiato dai 5 Stelle. Ed è prevedibile che lo sarà anche nel medio periodo con concrete chance di andata al governo.

postilla

Tre quarti di ciò che c’era nella sinistra del secolo scorso si è lasciato conquistare o corrompere dal neoliberalismo, frutto tossico del capitalismo globalizzato, alimentato nelle sue serre culturali (a partire dalla Mont Pèlerin Society e dalla Trilaterale). L’altro quarto si attarda ancora con i temi che erano centrali allora (lo sfruttamento in fabbrica, la visione delle istituzioni come luogo di possibile composizione del conflitto tra sfruttati e sfruttatori, la centralità del Primo mondo sul resto del pianeta, la sottovalutazione della questione ambientale, il segno ancora progressista del compromesso storico tra capitale e lavoro, una visione limitata del lavoro umano e una concezione condivisa della "sviluppo"). Eppure, i segni premonitori erano visibili da tempo: Packard, Galbraith, Harvey (per nominarne solo alcuni) seppero vederli. Alcune intelligenze politiche seppero comprenderli, e altri seppero ra
ccontare la mutazione antropologica che stava avvenendo, ma i loro ammonimenti vennero ignorati.
Forse cominciare a ragionare su quali erano i meccanismi, gli autori e le vittime dello sfruttamento ieri e oggi potrebbe aiutare a comprendere che cosa fare, in che direzione muoversi per costruire (non ri-costruire) qualcosa di analogo alla sinistra di ieri. Ma il primo passo da compiere dovrebbe essere divenir consapevoli che per superare il male che i secoli passati ci hanno lasciato è andare alle loro radici e svellerle. Essere radicali significa questo

Sarebbe interessante se qualcuno dei fautori del SI contestasse argomentatamente queste lucide affermazioni. Ma forse la maggioranza degli italiani preferisce stare sotto padrone e pensare meno.

La Repubblica, 19 novembre 2016

AMICI lettori, pensate davvero che la “riforma” costituzionale Renzi-Boschi-Verdini non costituisca un pericolo per le vostre libertà? Provate a ragionare su questi ineludibili dati di fatto.

Oggi in Italia vi sono tre schieramenti che ottengono grosso modo il 25/30% dei voti (il resto si disperde tra forze minori). Poiché ormai un terzo degli italiani non va a votare (e il fenomeno è in crescita), con la “riforma” suddetta e la concomitante nuova legge elettorale (sia nella versione Italicum che, forse ancora peggio, in quella “corretta Cuperlo”), chi rappresenta solo il 17/20% dei cittadini otterrà una schiacciante maggioranza assoluta in Parlamento (di nominati, dunque fedeli al Capo “ perinde ac cadaver”), il controllo della Corte Costituzionale, del Consiglio Superiore della Magistratura (da cui dipendono tutte le nomine ai vertici di Procure Tribunali e Cassazione), la scelta del Presidente della Repubblica (e la possibilità di facile impeachment nel caso non piacesse più e non si “allineasse”), il controllo della Rai, tutte le nomine delle Authority di “garanzia” (Consob, Privacy, ecc.), oltre ovviamente al governo.

Potrebbe vincere Renzi, potrebbe vincere Grillo, potrebbe vincere la destra- destra (in declinazione Berlusconi/ Salvini o Berlusconi/Parisi, a seconda degli umori di Arcore). Io voterò M5s, come faccio già da tempo, ma avrei paura se a questa forza andassero i poteri previsti dalla contro-riforma (chiamiamola col suo nome, vivaddio!) Renzi-Boschi-Verdini. E ne avrebbero anche i “cinquestelle”, responsabilmente, visto che hanno proposto una legge elettorale “proporzionale corretta” (tipo Spagna e in parte Germania) e sono impegnati per il No.

Perché con la contro-riforma costituzional-elettorale (le due cose sono inscindibilmente intrecciate proprio nel disegno dei promotori), un leader da 17/20% di consenso dei cittadini avrebbe un potere che sfiora quello di Putin e di Erdogan, senza necessità di ricorrere alla galera e alla violenza. E, ripeto, chi sia questo leader dipenderebbe da spostamenti minimi di voti (nel caso del turno unico saremmo addirittura alla roulette). Davvero questa prospettiva non vi gela il sangue?

Se non vi fa paura vuol dire che avete superato in atarassica serenità zen il più “disincarnato” dei monaci orientali, il che sarà magari ottimo per la vostra psiche e le vostre future reincarnazioni, ma per il funzionamento di una democrazia è micidiale. In ogni democrazia fondamentale è il rispetto delle minoranze, le garanzie per i bastian-contrario, i diritti civili e gli spazi di comunicazione reale di quella minoranza delle minoranze che è il singolo dissidente. Niente di tutto questo resta in piedi con le contro-riforme Renzi-Boschi-Verdini.

Vi flautano nelle orecchie: ma è il prezzo da pagare per l’efficienza, per la velocità del processo legislativo. Davvero ci siete cascati? Non l’avete ancora letto l’articolo 70 controriformato? Claudio Santamaria lo ha recitato in pubblico, alla manifestazione indetta da MicroMega con Maltese, Rodotà, Zagrebelsky, Carlassare, Ovadia e tanti altri, lo ha letto come si conviene a un grande attore e come esige la punteggiatura di quella pagina e mezzo (attualmente l’articolo 70 è di una riga): un incomprensibile labirinto mozzafiato di commi e sottocommi, su cui i giuristi hanno già dato una dozzina di interpretazioni diverse, una sbobba procedurale che garantirà ricorsi su ricorsi fino alla Corte Costituzionale. Santamaria ha detto che sembrava scritta da Gigi Proietti in uno dei suoi momenti satirici di grazia. Forse, ma certamente con la collaborazione del notissimo e manzoniano dottor Azzeccagarbugli.

Vi sventolano davanti agli occhi lo specchietto per le allodole dei costi della politica che diminuiscono, davvero ve la siete bevuta? Qualche decina di milioni in meno: costa assai di più ogni settimana semplicemente tener in vita l’ipotesi del Ponte sullo Stretto (se poi, con il Sì nelle vele, lo costruiranno davvero, saremmo a una tragedia da piangere per generazioni). E se i senatori saranno un pochino di meno, in compenso i politici regionali e comunali che andranno in quegli scranni godranno del premio più ambito per i troppi politicanti che della politica fanno mercimonio e profitto: l’amatissima immunità. I costi della politica si tagliano in radici riducendo a zero le migliaia e migliaia di consigli di amministrazioni delle “partecipate”, le migliaia e migliaia di consulenze di nomina politica, il groviglio ciclopico di enti inutili, e insomma i milioni di persone che “vivono di politica”, e lautamente, per meriti che con il merito hanno ben poco a che fare.

Millantano che con il Sì combatterete la Casta, ma la Casta sono loro, ormai, il giglio magico e le sue infinite propaggini, l’indotto di nuovi piccoli satrapi messo in moto dalle Leopolde, le incredibili mediocrità assurte a posizioni apicali, le imbarazzanti nullità innalzate nell’Olimpo dell’intreccio affaristico- politico, che ormai fanno apparire uno statista perfino Cirino Pomicino.

Col No, il No che conta, vince invece la società civile di questo quarto di secolo di lotte. Che ha come programma l’unica grande riforma necessaria: realizzare la Costituzione, che i conservatori di sempre hanno bloccato, edulcorato, sfigurato, avvilendola nella camicia di forza della “Costituzione materiale”, democristiana prima, del Caf (Craxi Andreotti Forlani) poi, infine di Berlusconi (che con le sue televisioni ammicca al Sì e a chiacchiere sta col No, il solito piede in due scarpe), e oggi del suo nipotino Renzi.

Se col tuo voto vincerà il No, amico lettore, non ci sarà nessuna instabilità, semplicemente diventerà inevitabile un governo di coerenza costituzionale, e si aprirà la strada per l’unico rinnovamento di cui l’Italia ha bisogno, quello che porta scritto “giustizia e libertà” e come stella polare ha l’eguaglianza incisa nella Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza.

«Disperati per la mancanza di credibili argomenti di merito, i sostenitori del Sì sono ripiegati nella loro ultima ridotta: occorre comunque votare a favore della riforma, anche se si tratta di un cambiamento peggiorativo, perché altrimenti cade il governo e arrivano i barbari (variamente incarnati da Grillo o Salvini)».

il manifesto, 19 novembre 2016

Il ragionamento è sorprendente. E non tanto perché, se davvero il Paese è costretto al bivio tra una riforma dannosa e un populismo pericoloso, occorrerebbe anzitutto chiamare a risponderne chi – Renzi – lo ha irresponsabilmente messo in questa condizione. Davvero sarebbe una consolazione rimanere nelle mani di una persona tanto incapace e spregiudicata?

Ma, soprattutto, la posizione sorprende perché, per evitare un pericolo ipotetico ed evitabile oggi, crea un pericolo reale e inevitabile domani.

Iniziamo dal primo. Nessuno può realmente sapere cosa accadrà il 5 dicembre in caso di vittoria del No, se Renzi si dimetterà o resterà al suo posto. In questi giorni sta cercando in tutti i modi di drammatizzare la situazione, ma quale realmente sarà il quadro politico all’indomani del referendum, quale la posizione delle diverse forze politiche, quali i convincimenti del Presidente della Repubblica è impossibile prevederlo.

Molto dipenderà anche dalla misura della sconfitta del Sì, perché, qualora fosse limitata, Renzi potrebbe pur sempre rivendicare un risultato superiore rispetto all’attuale consistenza del suo partito. Il punto fondamentale, in ogni caso, è che con la prevalenza del No occorrerà riscrivere le leggi elettorali per Camera e Senato, essendo il quadro elettorale attuale calibrato sulla vittoria del Sì.
Sul tavolo c’è già la proposta dei 5 Stelle, molto ben congegnata dal punto di vista tecnico e, soprattutto, largamente connotata in senso proporzionalistico (sia pure con soglie di sbarramento implicite piuttosto elevate). Anche Forza Italia, attraverso Silvio Berlusconi, ha lasciato intendere una propensione per la proporzionale. Se anche il Pd muovesse in questa direzione, svaporerebbe qualsiasi rischio che una eventuale vittoria delle forze populistiche possa tradursi in un loro governo incontrastato, perché la loro consistenza elettorale è ben lontana dalla maggioranza assoluta dei consensi. È questo che ci si aspetta da una forza politica responsabile: che, una volta individuato un pericolo, metta in campo le strategie atte a scongiurarlo. Tanto più, se si tratta di strategie a portata di mano… Detto più nettamente, se vincesse il No nessun panico è giustificato: si faccia una riforma elettorale sul modello proporzionale e si torni al voto. Quale che sarà il risultato, nessuno avrà le leve del potere a sua completa disposizione.

Tutto il contrario se vince il Sì. Il cambiamento di Costituzione creerebbe infatti un’incredibile concentrazione di potere nelle mani del partito di maggioranza e, in particolare, del suo “capo”, che si ritroverebbe alla guida sia del governo sia della maggioranza parlamentare. L’esecutivo, vero nuovo fulcro del sistema, otterrebbe i poteri necessari a condizionare sia l’attività del Parlamento (grazie al voto a data certa) sia l’attività delle regioni (grazie alla clausola di supremazia affidata al governo anziché, com’era nella Costituzione del 1948, al Parlamento). Persino l’autonomia degli organi di garanzia – Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, Csm – ne risulterebbe gravemente compromessa, a causa delle modalità di elezione o dei vincoli posti alle loro modalità di funzionamento.

Insomma: dalla vittoria del Sì scaturirebbe un sistema del tutto squilibrato, avulso dalla tradizione del costituzionalismo, più simile a quel che si vede oggi in Russia o in Turchia che all’assai più ponderato presidenzialismo statunitense. Certo, con il Sì Renzi resterebbe al suo posto, ma quale certezza c’è che lo steso accada anche dopo le elezioni politiche del 2018? Lo scenario è apertissimo e nessuna persona di buon senso, dopo l’elezione di Trump, può escludere a priori una vittoria delle forze populiste. Un esito che, a quel punto, con il nuovo sistema costituzionale, metterebbe il vincitore in condizione di governare l’Italia per 5 lunghissimi anni, senza incontrare ostacoli di sorta.
Ecco allora che, a prendere sul serio la preoccupazione che vanno esprimendo i sostenitori del governo, se ne ricava un potente argomento a favore del No. Chi davvero è preoccupato che le elezioni possano essere vinte da una forza politica che reputa pericolosa (quale essa sia), chi davvero teme il ripetersi in Italia di un caso Trump, non può far altro che votare No, perché il No è l’unica garanzia che, anche se dovesse vincere il peggior politico del mondo, chi accede al potere non si troverà in condizione di poter fare quello che vuole.
«Il sostituto del processo Stato-mafia, Nino Di Matteo, spiega, stavolta da Palermo, perché si batte per il no al referendum: "Obbedisco solo alla Costituzione, non ai gove

rni"». Il dubbio online, 18 novembre 2016 (c.m.c.)

«Noi non facciamo spot. Parliamo della riforma costituzionale, certo, ma proponiamo discussioni di merito». Michele Pagliaro fa di mestiere il sindacalista: è il segretario della Cgil Sicilia. Annuncia l'incontro palermitano che di lì a poche ore, mercoledì pomeriggio, vedrà sul banco degli oratori il pm antimafia Nino Di Matteo. Titolo: "Le nostre ragioni del no". Promotore, con l'organizzazione di Susanna Camusso, l'Associazione nazionale partigiani, rappresentata dal presidente Carlo Smuraglia.Location austera come si conviene: la sede della Società di Storia patria, nel cuore del capoluogo siciliano.

Ma con Di Matteo non ci si limita mai alla sobria accademia. C'è sempre un tocco di appassionato furore, che neanche stavolta il magistrato fa mancare. L'apice arriva quando il sostituto che rappresenta l'accusa al processo Stato-mafia spiega perché lui, magistrato, attacca a testa bassa la riforma e suoi promotori: «Ci sono momenti in cui un magistrato ha il dovere etico di esprimersi: io non dimentico di aver giurato fedeltà alla Costituzione, non obbedienza ai governi o ad altre istituzioni politiche, né alle persone che rivestono, alcune volte anche indegnamente secondo il mio parere, le cariche istituzionali».

Toni da crociata, che trovano ispirazione nell'idea del giudice come paladino estremo della Costituzione, illustrata mesi fa da un altro pm palermitano, Roberto Scarpinato: «La magistratura deve vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze di governo», disse a Repubblica il procuratore generale, «e fra più interpretazioni possibili della legge, deve privilegiare quella conforme alla Costituzione». Fino a impedire che, di quest'ultima, le «maggioranze» possano arrivare ad alterare i principi fondamentali.

Di Matteo come Scarpinato, dunque: guardiano estremo della democrazia, pronto a battersi contro gli altri due poteri dello Stato. Certo sarà inevitabile d'ora in poi leggere all'interno di tale quadro ideologico i diversi aspetti della vita pubblica del pm Di Matteo, dalle sue accuse al processo sulla "trattativa" alla sua aspirazione a far parte della Direzione nazionale antimafia (è di nuovo in lizza per uno dei 5 posti di sostituto, dopo aver rifiutato di esservi trasferito d'ufficio dal Csm).

E diventa d'altra parte difficile ricordarsi che Di Matteo è un pubblico ministero quando dice, come ha fatto sempre giovedì a Palermo, che «la riforma è stata adottata e votata da un Parlamento eletto con una legge elettorale dichiarata illegittima dalla Consulta» e che «un Parlamento così eletto non è moralmente legittimato a modificare la Costituzione». Nessuno in platea gli chiede di indicare il punto in cui la Carta parla di legittimazione morale a riformarla.

All'incontro organizzato da Cgil e Anpi, il pm ha sfoderato tutto l'armamentario oratorio già visto in recenti altre uscite referendarie, a Firenze per esempio: la riforma firmata da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, dice, «segue un percorso di sostanziale restaurazione, una svolta in senso autoritario». La magistratura deve schierarsi in prima linea per impedire che sia portata a termine l'offensiva contro le istituzioni democratiche. Anche perché la riforma produrrebbe sul potere giudiziario «gravi conseguenze».

Comprometterebbe in modo irreparabile il «delicato equilibrio, fondamento di ogni democrazia, del principio di separazione dei poteri: c'è il rischio di sbilanciarlo», appunto, «a vantaggio del potere esecutivo rispetto a quelli legislativo e giudiziario». La maginot è la Costituzione che non va «cambiata» ma semplicemente «applicata», a partire da quella che evidentemente per il pm della "trattativa" è l'architrave dello Stato moderno: «Considerare mafia e corruzione come negazione dei principi costituzionali e principali fattori di inquinamento della democrazia».

Il merito di cui parlava il povero segretario della Cgli Pagliaro resta schiacciato dalla metapolitica: Di Matteo si limita all'ormai consumata tesi per cui «non si può scindere il giudizio sulle modifiche alla Costituzione da quello sulla legge elettorale, che sacrifica il principio di rappresentatività sul totem della stabilità dei governi». Spunta se non altro uno slogan originale: «Si passa da un bicameralismo perfetto a uno confuso». Perché? «Il Senato continuerà ad esistere: si ingenererà una confusione totale sull'impiego part time di consiglieri regionali e sindaci, che dovranno svolgere entrambe le cariche».

Tutta qui, la nuova Costituzione che Renzi vorrebbe far ingoiare agli italiani. «L'unica certezza sarà l'acquisizione di spazi di immunità penale per consiglieri e sindaci, che, senza voler colpevolizzare in maniera generalizzata, sono largamente interessati da indagini e processi in corso». Ecco. E qui interverrà la magistratura inquirente igiene del mondo. Senza neppure dover forzare la legge all'interpretazione più fedele alla Carta, come predica Scarpinato.

«Perché senza riformare le relazioni commerciali tra grande distribuzione e trasformatori non sarà possibile eliminare lo sfruttamento nei campi. Che non è solo quello dei braccianti, e riguarda anche l’ambiente». Altreconomia online, 18 novembre 2016 (c.m.c.)

Intervista al portavoce, Fabio Ciconte. Spolpati è il terzo rapporto della campagna #filierasporca, che dopo aver analizzato negli anni precedenti la mancanza di trasparenza della grande distribuzione organizzata e il mercato dell’arancia, nel 2016 si è dedicata all’industria del pomodoro.

Per quattro mesi Fabio Ciconte, direttore di Terra! onlus e portavoce della campagna, e il giornalista Stefano Liberti, si sono dedicati a un’indagine sul campo, intervistando gli attori della filiera, anche i “caporali” e i trasformatori: grazie a queste testimonianze restituiscono una lettura mai banale delle strozzature e delle inefficienze che hanno reso quasi “naturale” lo sfruttamento, in un mercato che vale 3 miliardi di euro.

Senza sminuire la condizione dei braccianti, e plaudendo la nuova legge sul caporalato, si ricorda che ormai l’85% della raccolta è meccanizzata. «Piace, specie a voi giornalisti, raccontare le storie sempre in maniera sensazionalistica, emergenziale: queste permette di nascondere all’opinione pubblica le principale cause di questo fenomeno che riguarda la manodopera, ad esempio quello, drammatico, delle aste on line» spiega Ciconte, secondo cui anche l’eccessiva meccanizzazione comporta però problemi «di natura ambientale, relativi all’esigenza di aumentare continuamente la resa per ettaro, anche in assenza di manodopera».

Che cos’è un’asta on line? È quel momento, generalmente a primavera, in cui i gruppi della grande distribuzione organizzata (GDO) pubblicano su portali con accesso riservato le proprie richieste di prodotto per l’autunno successivo. Riflettiamo, dice Ciconte: «Il prodotto verrà raccolto a partire dal mese di agosto, e a quel punto viene trasformato. Mesi prima, senza aver cognizione di quel che sarà l’annata agricola, l’industriale ha raggiunto un accordo con la GDO, sulla base di due successive aste, la seconda delle quali, decisiva, fatta con offerte al ribasso. Questo processo si fa a maggio, quando le fabbriche sono chiuse e il pomodoro non è ancora stato comprato. Da quell’offerta dipenderà il prezzo d’acquisto proposto agli agricoltori, che sono costretti ad accettare».

Quasi tutte le catene della grande distribuzione non hanno accettato di rispondere alla domande di #filierasporca, che è un campagna di Terra! onlus e DaSud. «L’unica che lo ha fatto è Coop, che ha confermato di partecipare alle aste on line: lo fanno tutti. Il 17 novembre, con la conferenza stampa alla Camera dei deputati, lanciamo una mini campagna per chiedere l’abolizione delle aste on line, ed è una richiesta che avanziamo al governo, chiedendo un impegno agli attori della GDO» aggiunge Ciconte.

Alcuni marchi, «come Esselunga in occasione del secondo rapporto -spiega il portavoce di #filieraspoarca-, hanno risposto che loro non sono interessati ad interloquire per politiche aziendali; altri lo fanno, ma non danno informazioni e si nascondono dietro ragioni di business, concorrenza, privacy: la realtà è che anche i trasformatori sono soggetti deboli, molti dei quali ormai producono solo il private label della GDO. Esistono, infatti, pochissimi marchi ‘riconosciuti’: il leader del settore è Mutti, che di fatto non partecipa alle aste on line, perché ha un potere d’acquisto forte. Gli altri, tutti piccoli o disorganizzati, si trovano dentro questa morsa. E a loro volta mettono dentro questa morsa i loro fornitori».

Spolpati sottolinea il ruolo ambiguo di un altro attore fondamentale della filiera, ovvero le O.P., organizzazioni di produttori (riconosciute e con tanto di albo sul sito del ministero delle Politiche agricole): «Nascono per aggregare l’offerta, su impulso dell’Unione europea. Le ritengo un soggetto importante: è utile che esiste un’aggregazione tra ‘piccoli’ che faccia da contraltare all’industria e alla GDO, e nel distretto Nord del ‘pomodoro industriale’, a Parma, Piacenza e Ferrara, le OP funzionano: si sottoscrive un contratto, fissando il prezzo d’acquisto, e questo viene rispettato; nel Sud, molte delle O.P. sono in realtà organizzazioni di carta che esistono per prendere i fondi europei destinati al settore, senza farsi carico di alcune responsabilità, senza assumere in alcun modo il rischio d’impresa, firmando i contratti di vendita all’industria per nome e per conto del produttore».

Nel Sud Italia, dove 30mila ettari sono coltivati a pomodoro ed esistono 84 impianti di trasformazione, le O.P. sono 39, contro le 14 del Nord Italia (che ha 26 impianti di trasformazione e una superficie dedicata al pomodoro di 40mila ettari). «L’estrema frammentazione e la loro frequente disconnessione dal mondo agricolo rendono uno dei principali ostacoli allo sviluppo di una filiera funzionante, in cui i diversi attori lavorano in un sistema integrato» spiega il rapporto. Questa disconnessione Ciconte la traduce con un dato: la gran parte delle O.P. del Sud hanno sede in Campania, dove hanno sede gli impianti di trasformazione, mentre oggi la produzione avviene principalmente tra le province di Foggia e Potenza, tra Puglia e Basilicata.

«Il rischio è che ogni anello della filiera lavori per fregare l’altro, com’è successo a settembre 2016, quando le piogge intense durate una settimana hanno portato a una diminuizione del prodotto. A quel punto il produttore ha la possibilità di andare con un autotreno carico di pomodori di fronte all’industria, e metterlo in vendita a 130 euro per tonnellata, quando il contratto firmato stabiliva un prezzo di 87 euro. L’anno scorso, però, quando c’è stato un esubero di produzione questo potere di stracciare il contratto lo avevano i trasformatori» dice Ciconte. È un circolo vizioso da cui -allo stato attuale- risulta difficile uscire, a meno che tutti gli attori della filiera non prendano l’impegno di farlo.

A partire, magari, da una legge sulla trasparenza, quella che con la pubblicazione del rapporto Spolpati la campagna #filierasporca avanza a governo e Parlamento. Due gli elementi chiave: l’introduzione di una “etichetta narrante” sui prodotti agroalimentari, in particolare su quelli (agrumicoli in primis) dove insiste il fenomeno del caporalato; l’introduzione dell’elenco pubblico dei fornitori che permetta la loro tracciabilità lungo la filiera: «è sufficiente un elenco, consultabile sui siti web delle aziende, in cui siano indicati tutti i fornitori di ciascuna» spiega il rapporto.

». il manifesto, 18 novembre 2016 (c.m.c.)

Sul segno reale della vittoria di Donald Trump, le opinioni in merito paiono tanto polarizzate quanto la società che l’ha prodotta. È l’incedere della crisi che sta stravolgendo non solo la vita materiale di milioni di persone, ma anche subculture politiche consolidate e sistemi istituzionali tra i più stabili. Il disfacimento della Obama coalition e l’affermazione del fenomeno Trump proietta una luce globale sul Midi francese già roccaforte del Pcf e ora bacino di consensi per la vandea lepenista; o ancora sull’Emilia fu rossa che alza barricate contro un pugno di donne e bambini migranti.

La crisi attuale, nella lettura che, per certi versi anticipandola, ne è stata data da Giovanni Arrighi, è la piena epifania della crisi del sistema egemonico della grande fabbrica integrata e imperniato sugli Stati uniti d’America, in realtà già avviata alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Il modello di Arrighi prevede che ogni ciclo espansivo del capitalismo giunga a saturazione per una doppia pressione che si scatena sui profitti: pressione orizzontale dovuta alla concorrenza tra imprese, pressione verticale dovuta alla spinta delle rivendicazioni delle classi subalterne.

Si produce dapprima una «crisi-spia» del sistema egemonico, cui il capitale tende a sfuggire tramite il ricorso alla finanziarizzazione. Il boom borsistico dà luogo ad una euforia dei mercati mondiali che rende possibile un momentaneo superamento della crisi (le belles époques). Ma allo scoppio della bolla la crisi esplode con violenza ancor maggiore, con la conseguenza della ripresa del conflitto sociale, questa volta allargato dai subalterni alle classi medie, cioè a quei gruppi sociali che avevano costituito il collante del precedente regime di accumulazione; che avevano fatto sì che esso si instaurasse in termini di egemonia e non di puro dominio.

Il tema della condizione di questa classe media, delle sue aspirazioni e delle sue frustrazioni, è oggetto di una contesa egemonica all’interno dei Paesi a capitalismo maturo e tra le cosiddette economie emergenti. Nel corso della belle époque le disuguaglianze sono in genere socialmente tollerate, ma nel momento in cui le prospettive di stagnazione si fanno «secolari» non possono più esserlo. A determinare l’esito politico dei processi sociali innescati concorre la capacità dei soggetti organizzati di politicizzare e attrarre a sé nuovi protagonisti del conflitto sociale.

Negli Stati uniti di questo primo scorcio di XXI secolo il tema è tornato in auge. Uno studio del 2012, a cura del Pew Research Center, recava l’eloquente titolo The lost decade of the middle class. Il dato econometrico sulle disuguaglianze ha ben presto lasciato il passo alla disputa politica tradizionale tra democratici e repubblicani. Lungi dal rappresentare un’alternativa reale al cosiddetto establishment, Trump ne è una particolare e nuova incarnazione, nel tentativo di sussumere e neutralizzare reali istanze sociali.

Lo sfarinamento delle classi medie, e l’emergere di nuovi protagonisti, sta introducendo tuttavia mutamenti massicci nei sistemi politici liberal-democratici. Quello dell’impermeabilità dello scontro partitico a quanto si muove nella società non è uno scenario sostenibile. Iniziarono già ad inizio secolo i regimi oligarchici latinoamericani a crollare sotto l’urto della crisi. Seguì la Grecia, con la pratica scomparsa di uno dei pilastri del regime liberale, il Pasok, e di lì a breve saltarono altri sistemi bipolaristi, come quello spagnolo sorto dalla Transizione e quello italiano che aveva caratterizzato la seconda repubblica. E già la V Repubblica francese si avvia a essere sconvolta dall’ondata lepenista.

Se il bipartitismo made in Usa sarà in grado di assimilare la presidenza Trump e la contemporanea spinta radicale manifestatasi nel corso delle primarie nel sostegno al socialista Sanders è forse ancor presto per dirlo. Di sicuro c’è che la governance neoliberale, l’estremo centro in cui ci sono spazio e risorse per rispondere a tutte le più disparate istanze provenienti da una società frantumata, o meglio ancora inesistente, crollano assieme all’illusione dell’eternità della belle époque.

«La crisi – annotava Gramsci – crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifici, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere».

La caduta dei pilastri di un ordine che tramonta può essere gravida di grandi pericoli, ma allo stesso tempo di altrettanto grandi opportunità di riarticolazione politica del sociale. Un terreno del tutto nuovo che le forze democratiche non possono permettersi di lasciare in balia dei tanti Trump che si candidano a monopolizzarlo.

il manifesto, 18 novembre 2016
Non mancano, apparsi negli ultimi mesi, studi seri che affrontano, in punto di diritto e nella loro rilevanza politica, le questioni sollevate dalla attuale proposta di riforma costituzionale che interviene su quasi cinquanta articoli della Carta.

Si tratta di contributi ai quali può opportunamente far ricorso chi voglia acquisire i termini e gli argomenti sui quali è impostata e viene articolandosi la discussione in corso e intenda farsi, pertanto, un’opinione ponderata in vista dell’imminente referendum. Quegli studi seri mettono bene in luce gli intendimenti che orientano le correzioni che si vogliono apportare al dettato e allo spirito della Costituzione. Detto in estrema sintesi: depotenziare il ruolo centrale del parlamento e conferire poteri accresciuti all’esecutivo.

Tale il nucleo della riforma. Che poi, nella fattispecie, questa opzione di principio si affermi in un articolato denso di idiotismi giuridici, quindi foriero di complicanze facilmente prevedibili (si pensi solo al nuovo Senato: modalità della sua composizione; funzioni; competenze; sue relazioni con la Camera dei deputati) è da imputare alla scarsa e difettiva qualità della cultura del legislatore, ovvero alla rozzezza di un ceto politico ampiamente espresso da clientele corrotte e per lo più selezionato in virtù di legami personali (non per caso si tratta di un parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale).

Sta di fatto che la scelta che opera al rafforzamento della funzione esecutiva è, nella torsione che muta la figura costituzionale del presidente del Consiglio dei ministri (Art. 95) in capo del Governo, bene interpretata dal primo ministro in carica. Si dirà che, nel caso di Matteo Renzi, non mancano elementi caricaturali, nella mimica e nei gesti e più nell’eloquio e nella fraseologia. Ma sarebbe un errore attribuirli ad un tratto solo caratteriale. Molti osservano in lui l’esercizio di doti brillanti, se virtù sono l’astuzia e la spregiudicatezza, ma di poco momento e di un costrutto illusionistico che rasenta l’irresponsabilità.

Anche la qualità dei capi è varia e diversa la loro durata. Si vuol dire che la figura del Capo, in politica, vive di sottolineature e di accentuazioni. Esse debbono connotare in modo riconoscibile prese di posizione e decisioni espresse secondo un tratto personale che, di necessità, pur se a varie gradazioni e a intensità diverse, si afferma e cresce da una retrostante radice apodittica. Il capo interpreta.

In politica più che attore è autore. E anche la qualità degli autori varia. Valga il vero. Nella quotidiana discussione che agita in gran crescendo la campagna referendaria in corso, uno dei cavalli di battaglia prediletti di Renzi è il seguente: da oltre trent’anni si ammette che è necessario intervenire sulla Costituzione.

Dopo tanta inconcludenza oggi, grazie a un Capo del Governo che non si fa intimidire dai cacadubbi, ecco, la riforma si fa. Un taglio definitivo col passato di un’aula parlamentare tanto ciarliera quanto inetta. Una riforma che apre al futuro. Questa ricostruzione è – coerentemente, va detto – una caricatura operata da Renzi in veste di autore di storia. Dicevamo di contributi seri che val la pena leggere. Mi sia permesso consigliarne uno che si deve a Giuseppe Cotturri, pubblicato da Ediesse. Alludo a “Declino di partito. Il Pci negli anni Ottanta visto da un suo centro studi”, prefazione di Maria Luisa Boccia. Si può apprezzare qui, illustrato nel corso di un quindicennio, il ricchissimo, esemplare lavoro di ricerca analitica, di elaborazione teorica e giuridica e di coinvolgimento di soggetti politici e sociali svolto sulla riforma della Costituzione dal “Centro studi e iniziative per la Riforma dello Stato” presieduto da Pietro Ingrao.

Il Sì è la continuità del sistema politico. Il capitalismo non garantisce più lo sviluppo, quello italiano è ormai sinonimo di stagnazione permanente. In questa stagnazione si cercano di porre continuamente delle pezze a un sistema politico al capolinea. Il No renderà difficile mettere nuove toppe». il manifesto, 17 novembre 2016 (c.m.c.)

Al referendum del 4 dicembre votare sul governo «sarà inevitabile», spiega Giorgio Galli, decano della politologia italiana, docente di dottrine politiche all’Università degli Studi di Milano, studioso del «bipartitismo imperfetto» della Prima Repubblica quando Dc e Pci si confrontavano senza che questo producesse alternanza. Negli ultimi anni, fra l’altro, ha analizzato le riforme di Renzi (in L’urna di Pandora delle riforme, con l’avvocato Felice Besostri). Dunque si voterà su Renzi «innanzitutto perché lui stesso ha intrecciato la riforma e il suo futuro di presidente del consiglio. Per questo gli italiani voteranno più su sui mille giorni del governo che sulla riforma».

Il suo giudizio sui mille giorni di Renzi qual è?
Non molto positivo. È riuscito a fare molto meno di quello che aveva promesso. L’economia resta stagnante. Oggi sfida l’Europa come un euroscettico ma è un’oscillazione notevole rispetto al forte investimento di credibilità che aveva fatto sull’Europa.

Dal famoso semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione oggi siamo allo sbianchettamento delle bandiere europee.
Nella prima parte della campagna referendaria ha sostenuto che a differenza dei suoi predecessori aveva ottenuto importanti risultati in Europa. Ora invece rinuncia a questo aspetto e mette in evidenza la forza con cui avanza le richieste.

Renzi dice: il Sì è cambiamento, il No è conservazione.
È il contrario. Il Sì è la continuità del sistema politico. Il capitalismo non garantisce più lo sviluppo, quello italiano è ormai sinonimo di stagnazione permanente. In questa stagnazione si cercano di porre continuamente delle pezze a un sistema politico al capolinea. Si è cominciato con la rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale: una toppa per tenere in piedi un sistema. Poi le prime larghe intese con tutto il centrodestra, le seconde con una parte del centrodestra. Tutti tentativi di rappezzare un sistema in grave difficoltà. L’ultimo di questi tentativi è il governo Renzi. Rafforzarlo significa rafforzare la continuità di questi rammendi. Il No, al contrario, renderà difficile mettere nuove toppe.

La vittoria del No rappresenta la possibilità di rompere la continuità?
Il No è la possibilità che i giochi si riaprano. Con un trauma, ma piccolo. Del resto ormai in tutti i paesi europei si esprime, in diversi modi, esigenze di cambiamento molto radicali.

Renzi invece oggi si presenta come una forza antisistema. Dice: «Il sistema è tutto schierato per il No». È singolare che un governo si presenti antisistema. E comunque è evidente il contrario: dalla Confindustria alle banche fino all’ambasciatore americano, il sistema è pesantemente schierato dalla parte di Renzi.

Però non tutto il No è «antisistema». Il No di Berlusconi, ammesso che alla fine voti No, è chiaramente di altra natura.

Berlusconi sa, e dal suo punto di vista è giusto, che una vittoria del No lo metterebbe in una posizione di forza quando si ricostituirà un qualche tipo di Patto del Nazareno, cosa che accadrà in ogni caso. Ma la vittoria del No va al di là del contingente interesse tattico di ciascun protagonista. Sarebbe un’altra prova nella sfida al potere economico, abbastanza in linea con quello che succede in Europa, anche se con caratteristiche diverse.

Brexit è considerata una vittoria del vituperato populismo.
La democrazia rappresentativa è in crisi ovunque, in Europa e non solo. E non a causa di alcuni anni di populismo ma a causa di decenni di svuotamento del potere politico da parte del potere economico. Oggi il problema delle democrazie occidentali sono le 500 multinazionali che governano il mondo, non i populismi. E il piccolo trauma sarebbe prenderne atto. Finché il potere politico sarà quasi impotente di fronte al potere economico la continuità è garantita. Il No è la critica alla continuità. Una possibile sfida al sistema.

Negli Usa Trump è una sfida al sistema?
Al di là dei protagonisti, negli Usa come nella Brexit si è espresso il voto degli svantaggiati della globalizzazione. E a questa crisi c’è una declinazione italiana. Ne ho appena scritto in Scacco alla superclass (Mimesis Edizioni, ndr), ovvero scacco a quel mondo che si riunisce a Davos non per decidere i destini del mondo – lo fa in altri luoghi – ma per celebrare il proprio ruolo. Nella postdemocrazia il potere economico ha preso la supremazia su quello politico. O la democrazia rappresentativa affronta il potere economico o è destinata a decadere.

In Italia comanda la finanza, non il governo Renzi?
Nella stessa misura dei governi che lo hanno preceduto. La crescita del populismo è l’espressione di questa crisi. Che si affronta solo se il controllo dei cittadini si estende dall’area della politica a quella dell’economia.

È l’elogio della cittadinanza a 5 stelle?
I 5 stelle sopravvalutano la democrazia elettronica. Il sogno di Casaleggio in fondo era una democrazia diretta fatta di tecnologia informatica. Invece fare in modo che i cittadini si riapproprino della loro condizione è molto più complicato.

PLa Repubblica, 17 novembre 2016

Si può dire in tanti modi: i fatti non contano più, la menzogna e la diceria hanno rimpiazzato la verità, la gente crede alle frottole. “Post-truth”, post-verità, riassume il concetto ed è diventata la «parola internazionale dell’anno». L’ha scelta l’Oxford Dictionary, bibbia e punto di riferimento della lingua anglosassone (e non solo), definendola come «l’aggettivo che descrive una situazione in cui i fatti obiettivi sono meno influenti sull’opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle convinzioni personali».

E’ il termine che in un certo senso ha deciso le due elezioni cruciali degli ultimi dodici mesi: il referendum britannico sulla Brexit e le presidenziali americane. Ma incarna un fenomeno ancora più ampio, va dalla politica alla società, dal pubblico al privato, dall’Occidente ai paesi emergenti. Domina il web, in particolare i social network, come sottolinea ilmea culpain questi giorni di Facebook e Twitter, ma dilaga anche su altri media, la tv, i talk-show radiofonici, i giornali, nelle battute che si ascoltano al bar, sul bus, in ufficio.

Il suo uso, affermano gli esperti del dizionario di Oxford, è aumentato del 2000% nel 2016 rispetto all’anno precedente, trainato da eventi come il referendum della Gran Bretagna per uscire dall’Unione Europea e la corsa alla Casa Bianca, nei quali i dati di fatto sono stati sommersi da una propaganda priva di riferimenti reali e in cui, ha osservato qualcuno, il cuore (o meglio la pancia) ha surclassato il cervello.

La scelta della parola dell’anno, da parte della “madre di tutti i dizionari” (la prima edizione risale al 1857), mira a riflettere sull’evoluzione del linguaggio. Qualche volta la parola selezionata dalla versione inglese e da quella americana del dizionario divergono, ma quest’anno ha prevalso “post-verità” in entrambi i casi. C’erano altri contendenti per il titolo, fra cui “alt-right”, diminutivo di “alternative right” (gruppo ideologico di destra estremamente reazionario e conservatore) e “brexiteer”, brexitiano o brexitiere. Ma “post-truth” ha superato tutti, come sottolineano fra l’altro una recente copertina dell’Economist dedicata al tema e un’infinità di articoli che lo analizzano e denunciano su giornali di mezzo mondo. «Non mi sorprenderei se diventasse una delle parole che caratterizzano il nostro tempo», commenta Casper Grathwohl, presidente dell’Oxford Dictionary.

Secondo i ricercatori, la parola fu usata per la prima volta nel ‘92 in un saggio del commediografo serbo- americano Steve Tesich per il settimanale The Nation, ma allora era intesa come ”dopo che è emersa la verità”, non nel senso attuale di “indifferenza alla verità”. Il termine segnala anche, osserva il dizionario, la crescente diffusione di espressioni con il prefisso “post” seguito da trattino. Peccato che a seguirlo, in questo 2016 di incredibili sorprese politiche, sia la “verità”, intesa come qualcosa di cui si può fare a meno.

Riferimenti
Qui il link al testo della Riforma costituzionale Renzi-Boschi scaricabile in formato .pdf

«La globalizzazione deregolata ha prodotto i suoi frutti avvelenati, è sfuggita di mano alle èlite che l’hanno promossa, e si riaprono contraddizioni di enorme portata, su cui le forze democratiche e di sinistra dovrebbero sforzarsi di intervenire

».il manifesto, 16 novembre 2016 (c.m.c.)

Qualcuno comincia a chiedersi quale impatto avrà l’elezione di Trump sul voto italiano del 4 dicembre. In particolare, comincia a circolare un argomento: «Teniamoci caro e stretto il nostro Renzi: avete visto cosa può accadere? Un Trump è sempre alle porte». Si può rispondere che Renzi è parte del problema, non la soluzione. Siamo nell’epoca in cui domina il sentimento anti-establishment e su questa idea il presidente-segretario ha disegnato la propria immagine e la propria «narrazione».

Questa strategia ha funzionato quando si trattava di contrapporsi a una precedente leadership di partito. Dimostrando tutti i suoi limiti quando si è trasfusa in un’azione di governo. Non ci si può auto-dipingere come il corifeo dell’anti-elitismo e poi esaltare le doti dell’ing. Marchionne. Non si può trasudare di retorica quando si esaltano le «punte» avanzate dell’innovazione e della creatività italica, senza tener conto che – per definizione – quando qualcuno riesce a «emergere» altri sono necessariamente «sommersi» (o «dimenticati», per usare l’espressione che Trump, molto abilmente, – ed è una chiave della sua vittoria – ha usato nel suo primo discorso).

Non si può proporre una riforma della Costituzione parlando “contro” i politici e la politica, e non pensare poi che qualcun altro – molto più credibile di te – se ne gioverà ampiamente. Renzi non è l’argine al populismo: al contrario, ha profondamente legittimato un discorso pubblico «populista». E non – si badi bene – di un qualche «populismo di sinistra», come pure sarebbe possibile provare a fare, ma di un populismo che si nutre di tutti i tasselli ideologici di destra che hanno profonde radici nella cultura politica italiana, e che già avevano fatto la fortuna di Berlusconi: qualunquismo, antiparlamentarismo, rifiuto della politica come mediazione, «decisionismo»…

Il secondo ritornello dice che «non c’è alternativa a Renzi», come qualcuno dice, motivando il proprio Sì. La vittoria del No sarebbe il classico «salto nel buio»?

Tutt’altro. Intanto, la vittoria del No aprirà la via ad un più fisiologico sviluppo della situazione politica. In primo luogo, costringerà a fare una riforma elettorale sensata e coerente (non l’incredibile «bricolage» contenuto nel documento partorito dalla commissione del Pd); e, in secondo luogo, – sulla base di una legge elettorale decente, e in vista delle elezioni del 2018 – , potrebbero crearsi le condizioni per tornare ad orientare la politica italiana sull’asse destra-sinistra, non su quello sistema/anti-sistema.

Il più potente antidoto al veleno del populismo di destra è la riapertura di un conflitto politico aperto e regolato, che abbia al centro i grandi temi del nostro tempo: uguaglianza e ridistribuzione della ricchezza (contro privilegi e ingiustizie), democrazia e partecipazione (contro accentramento, plebiscitarismo, tecnocrazia). Solo così, i “dimenticati» non saranno abbandonati nelle mani del tycoon di turno, o almeno si potrà provare a evitarlo. E per riuscirci, bisognerà anche che – da sinistra – su questi due grandi temi, giustizia sociale e democrazia, si riesca a dire qualcosa di nuovo e di credibile.

Ci sarà bisogno di tempo per metabolizzare il senso e le conseguenze dell’elezione di Trump. Sarà veramente in grado il neo-eletto di perseguire le politiche neo-protezionistiche che ha promesso, senza aprire un fase storica di guerre commerciali (e forse non solo commerciali)? È davvero possibile tornare indietro, dai livelli attuali di integrazione dell’economia mondiale, senza innescare una reazione a catena altamente destabilizzante? O non ci riuscirà, ed allora ben presto saremo di fronte all’ennesima manifestazione tipica dei cicli populisti, con il rapido alternarsi di aspettative salvifiche e poi di disillusioni e risentimenti?

Si dovrà riflettere sulla nuova fase in cui la sindrome dell’«apprendista stregone» esplode in tutta la sua virulenza. In particolare, le analisi che dipingevano un dominio neoliberista compatto, pervasivo e totalizzante, devono oggi lasciare il campo ad analisi – e possibilmente, azioni politiche – guidate da tutt’altri presupposti.

Si ritiene davvero che anche la sinistra possa puntare su un ripiegamento all’interno dei confini dei vecchi stati nazionali, o non è suo compito – difficilissimo ma ineludibile – quello di indicare la via di una democrazia trans-nazionale, in grado di «addomesticare» le tendenze distruttive delle logiche sistemiche (impersonali, «automatiche») del capitalismo contemporaneo e di prospettare per esso nuove forme di regolazione?

Nel suo piccolo, anche Renzi è un apprendista stregone. Per questo, la vittoria del No, il 4 dicembre è un essenziale spartiacque. Se il No vincerà, sarà per motivazioni diverse, anche opposte. Toccherà alla sinistra, se sarà in grado di farlo, orientare la rivolta contro le «elite» in senso democratico e progressista.

«La sinistra ha dimenticato intere categorie della popolazione che si sentono umiliati, abbandonati, e spesso non riescono a comprendere le sue politiche in favore delle minoranze, le sue riforme libertarie».Ma di quale "sinistra" parla? Renzi, Hollande, Schulz, magari Clinton e Obama

? La Repubblica 16 novembre 2016 (c.m.c.)

Dopo la Brexit, Donald Trump. E in prospettiva, il referendum del 4 dicembre in Italia. L’esito di questo voto, quale che sia, rischia di provocare una rottura irrimediabile in seno al Pd.

Lo stesso giorno, in Austria, il candidato del partito di estrema destra Fpö potrebbe essere eletto presidente della Repubblica. In Olanda, nel marzo 2017 i populisti del Partito per la Libertà di Geert Wilders peseranno sulle elezioni legislative. E a primavera in Francia la sinistra rischia di non arrivare al secondo turno delle presidenziali, che si giocherebbe allora tra il candidato della destra e Marine Le Pen. Infine, in Germania l’Spd guarda con apprensione al voto dell’autunno 2017.

La sinistra è sotto shock. Dopo la crisi del periodo tra le due guerre, quando rischiò di essere annientata non solo dal fascismo e dal nazismo ma anche dalle lacerazioni fratricide tra comunisti e socialisti, oggi affronta una nuova sfida: l’ascesa dei vari populismi, di destra, di sinistra, o anche né di destra né di sinistra, regionalisti, nazionalisti o generati da imprenditori straricchi, come nel caso di Silvio Berlusconi in Italia, e ora in quello di Donald Trump negli Stati Uniti.

Populismi che peraltro non scuotono solo la sinistra, ma anche la destra, sia pure in misura minore. Prima di vincere le presidenziali, Trump aveva battuto i suoi rivali alle primarie e stravolto il partito repubblicano. In Francia Marine Le Pen sottrae voti alla sinistra, e al tempo stesso attira sulle sue tematiche, ma anche sulla sua persona, gran parte della destra. In Italia il Movimento 5 Stelle ha sparigliato il gioco politico captando voti a sinistra e a destra, e riportando una parte degli astensionisti alle urne.

Di fatto, tutte le grandi famiglie politiche di destra, di sinistra e di centro che hanno dominato la competizione politica in Europa e guidato i governi sono destabilizzate. Non solo: i populisti riescono a imporre la loro percezione della realtà. Pretendono di incarnare il popolo unito e portatore di verità contro un’élite che descrivono come omogenea, corrotta, sclerotizzata e malefica. E non pochi osservatori danno credito a tali argomenti, spiegando ad esempio che Trump ha vinto perché il popolo ha voluto punire le élite; ma dimenticano che una maggioranza di americani, ancorché risicata, ha votato per Hillary Clinton. Nel contesto attuale non possiamo accontentarci di spiegazioni semplicistiche, che riportano tutto a un’unica causa.

Se i populismi avanzano ovunque in Europa, è per l’azione congiunta di vari fattori, diversamente articolati a seconda dei Paesi: la globalizzazione senza regole, le disuguaglianze crescenti, una democrazia senza popolo e un’Europa senz’anima né progetto.
Queste le sfide che la sinistra è chiamata ad affrontare. Di concerto con altre forze, dovrà inventare procedure per imporre regole alla globalizzazione, rifiutando al tempo stesso il protezionismo che sta riemergendo ovunque.

E operare per il ritorno della crescita, nel rispetto dell’ambiente, creando posti di lavoro e riducendo la disoccupazione che distrugge i rapporti sociali, condanna alla precarietà intere fasce di popolazione, inasprisce le disuguaglianze sociali, di genere, territoriali, generazionali, culturali (tra laureati e chi non ha un titolo di studio), nonché tra cittadini di un Paese e immigrati. La sinistra ha dimenticato intere categorie della popolazione — dagli operai ai ceti medi, ai giovani a basso livello di istruzione o in via di declassamento, che si sentono umiliati, abbandonati, e spesso non riescono a comprendere le sue politiche in favore delle minoranze, le sue riforme libertarie.

D’altra parte la sinistra è vittima di una profonda diffidenza nei riguardi delle istituzioni, a livello sia nazionale che europeo, in particolare da parte delle fasce di popolazione meno abbienti a basso livello di istruzione, che guardano alla politica e alle élite dirigenti con disaffezione o addirittura disgusto; e dunque non può più accontentarsi di rivendicare la propria esperienza e responsabilità, né di puntare tutto sulla politica pubblica. Dovrà rilegittimare la politica. Perché esiste nella società una profonda aspirazione a una politica diversa, più trasparente, più aperta, più partecipativa. Ciò presuppone una profonda riconversione dei suoi dirigenti, del suo modo di fare politica, del suo rapporto coi cittadini e delle sue forme organizzative.

Infine, l’Europa è scossa dalla spinta degli egoismi, dalla tentazione del ripiegamento, dall’ascesa del razzismo e della xenofobia, da timori e angosce d’ogni genere, a cominciare dalla paura dello straniero. Questo impone alla sinistra di rilanciare il progetto europeo, e di condurre una coraggiosa battaglia culturale, evitando gli atteggiamenti moralistici e sprezzanti verso chi si sente abbandonato e non sapendo a che santo votarsi presta orecchio agli argomenti più demagogici.

La sinistra del XIX e del XX secolo è acqua passata. Costretta, ancora una volta, ad adattarsi alla realtà per non essere spazzata via, dovrà certamente affrontare terribili lacerazioni interne, e portare avanti una grande opera di ricomposizione politica. In quest’impresa gravida di incognite, dovrà però essere guidata da due valori cardinali: l’uguaglianza, ripensata nelle condizioni attuali, e — per riprendere la parole di Carlo Rosselli — la libertà per i più umili.

». il manifesto, 15 novembre 2016 (c.m.c.)

«Ci fu un momento più populista di quello in cui 99 anni fa qualcuno gridò ’pace e pane’»? Si tratta di un’affermazione di Pablo Iglesias, leader di Podemos (Publico.es, 9 novembre). «Trump ha vinto sulla base di due parole d’ordine che fecero il successo dei bolscevichi nel 1917: pace e pane». Così ha scritto su questo giornale (12 novembre) Leonardo Paggi. Mi sembra del tutto evidente che né Iglesias, né Paggi suggeriscano analogie forti tra Trump e Lenin. Entrambi usano l’analogia come iperbole concettuale, in grado di cogliere affinità tra contenuti assai diversi.

Dice ancora Iglesias: «Il populismo non definisce le opzioni politiche, ma i momenti politici». I populismi sono, per eccellenza, parametri di definizione e di svelamento delle crisi, in particolare di quelle di lungo periodo come l’attuale. Il populismo di Trump, e di tante sue varianti europee, ha certamente tratti parafascisti, ovviamente in contesti (e forme) del tutto diversi dal fascismo storico, ma ci mostra con chiarezza che non esistono possibilità di sbocchi della crisi a «sinistra» senza popolo.

È ancora particolarmente attuale la questione che il responsabile esteri del Partito comunista cinese pose a Bertinotti nel dicembre del 2005: «Mi spiegate come mai vista la vostra intelligenza, poi nel vostro Paese, quando andate alle elezioni prendete poco più del 5 per cento?». Ed oggi anche il 5% è un obbiettivo ambizioso. Ebbene, Paggi nel suo articolo è proprio di questo problema che parla.

Se la nostra sinistra da quel 5%, peraltro nemmeno garantito, vuole iniziare con coerenza e rigore il difficile percorso necessario per acquisire una forza reale, può farlo senza entrare in una comunicazione non monodirezionale con il popolo degli sconfitti dall’attuale fase di accumulazione del capitale? Senza partire dalle condizioni materiali di quel popolo e dagli effetti che quelle condizioni materiali hanno sui modi di espressione politica?

Per questo non basta la critica al neoliberismo e/o all’ordoliberismo, ma è necessario che questa critica coniughi gli aspetti generali dell’analisi con un ri-pensamento di alcune categorie interpretative di questo nostro presente. Ri-pensarle alla luce della possibilità di proposte politiche che siano chiaramente riferibili al complesso delle condizioni materiali di quel popolo che vorremmo ancora nostro.

Ed allora categorie come cosmopolitismo, europeismo, unità monetaria dell’Europa, forme di autonomia nazionale, vanno sottoposte al vaglio di una critica realistica, alla pietra di paragone degli effetti di disgregazione che la loro interpretazione dominante ha avuto sulla vita dei subalterni.

Paggi cita assai opportunamente Karl Polanyi a proposito della necessità di difendere umanità e democrazia dalle tendenze strutturalmente distruttive della società di mercato. Vorrei ricordare che Polany chiama «socialismo» tale azione di autodifesa.

Lo stesso fenomeno delle migrazioni deve essere pensato nella coniugazione delle forme del loro governo. È problema difficilissimo che scuote alle fondamenta la nostra ragione e la nostra coscienza. Ma non possiamo più permetterci di affrontarlo soltanto attraverso pur lodevoli petizioni di principio.

Per certi aspetti si ripropone oggi, in condizioni non certo paragonabili, il problema dell’incontro avvenuto nella seconda metà del XIX secolo, tra movimento operaio, socialismo, teorie critiche del capitalismo. Sarebbe il caso di non dimenticare che uno dei momenti iniziali di quel percorso, il momento fondamentale, fu la fondazione della I Internazionale. Alle origini del meeting tra organizzazioni operaie francesi e Trade Unions, confronto preliminare alla fondazione dell’Internazionale, fu la questione del controllo del mercato del lavoro, a partire dalle possibilità per le Unioni di impedire l’esportazione di lavoro francese (allora nella forma del crumiraggio) in Inghilterra.

Possiamo ignorare una questione, il controllo del mercato del lavoro, che è quasi consustanziale alle ragioni fondative dell’organizzazione operaia?

Una analisi della scelta di voto degli americani e un impegno preciso per il suo partito e un suggerimento difficile da seguire al Partito Democratico.

The New York Times, 11 novembre 2016 (p.d.)

Bernie Sanders, candidato alle primarie presidenziali democratiche e ridotto al ruolo di portatore d'acqua a Clinton, si dice amareggiato ma non sorpreso dalla vittoria di Trump, il quale, per mezzo di una efficace campagna elettorale populista, ha saputo attirare il voto dei lavoratori americani, da trent'anni sempre più schiacciati dalle scelte operate dalle grandi compagnie e dalla finanza di Wall Street.
Trump avrà il coraggio di cambiare verso o si limiterà a scaricare la rabbia degli americani su minoranze, immigrati, poveri e bisognosi? Nel primo caso Sanders si dice ben disposto a collaborare e a presentare proposte di riforma ma, soprattutto, auspica che il Partito Democratico subisca una radicale trasformazione, rompendo i legami che lo stringono agli interessi economici a aprendosi di nuovo a quanti lottano per la giustizia economica, sociale, razziale e ambientale [si ricordi che Clinton e Obama non vollero accettare che fosse Sanders il competitore di Trump, mentre molti ritengono che fosse l'unico capace di raccogliere la rabbia contro l'establishment, sgonfiando così le vele di Trump].


BERNIE SANDERS:

WHERE THE DEMOCRATS

GO FROM HERE
By Bernie Sanders

Millions of Americans registered a protest vote on Tuesday, expressing their fierce opposition to an economic and political system that puts wealthy and corporate interests over their own. I strongly supported Hillary Clinton, campaigned hard on her behalf, and believed she was the right choice on Election Day. But Donald J. Trump won the White House because his campaign rhetoric successfully tapped into a very real and justified anger, an anger that many traditional Democrats feel.

I am saddened, but not surprised, by the outcome. It is no shock to me that millions of people who voted for Mr. Trump did so because they are sick and tired of the economic, political and media status quo.

Working families watch as politicians get campaign financial support from billionaires and corporate interests — and then ignore the needs of ordinary Americans. Over the last 30 years, too many Americans were sold out by their corporate bosses. They work longer hours for lower wages as they see decent paying jobs go to China, Mexico or some other low-wage country. They are tired of having chief executives make 300 times what they do, while 52 percent of all new income goes to the top 1 percent. Many of their once beautiful rural towns have depopulated, their downtown stores are shuttered, and their kids are leaving home because there are no jobs — all while corporations suck the wealth out of their communities and stuff them into offshore accounts.

Working Americans can’t afford decent, quality child care for their children. They can’t send their kids to college, and they have nothing in the bank as they head into retirement. In many parts of the country they can’t find affordable housing, and they find the cost of health insurance much too high. Too many families exist in despair as drugs, alcohol and suicide cut life short for a growing number of people.

President-elect Trump is right: The American people want change. But what kind of change will he be offering them? Will he have the courage to stand up to the most powerful people in this country who are responsible for the economic pain that so many working families feel, or will he turn the anger of the majority against minorities, immigrants, the poor and the helpless?

Will he have the courage to stand up to Wall Street, work to break up the “too big to fail” financial institutions and demand that big banks invest in small businesses and create jobs in rural America and inner cities? Or, will he appoint another Wall Street banker to run the Treasury Department and continue business as usual? Will he, as he promised during the campaign, really take on the pharmaceutical industry and lower the price of prescription drugs?

I am deeply distressed to hear stories of Americans being intimidated and harassed in the wake of Mr. Trump’s victory, and I hear the cries of families who are living in fear of being torn apart. We have come too far as a country in combating discrimination. We are not going back. Rest assured, there is no compromise on racism, bigotry, xenophobia and sexism. We will fight it in all its forms, whenever and wherever it re-emerges.

I will keep an open mind to see what ideas Mr. Trump offers and when and how we can work together. Having lost the nationwide popular vote, however, he would do well to heed the views of progressives. If the president-elect is serious about pursuing policies that improve the lives of working families, I’m going to present some very real opportunities for him to earn my support.

Let’s rebuild our crumbling infrastructure and create millions of well-paying jobs. Let’s raise the minimum wage to a living wage, help students afford to go to college, provide paid family and medical leave and expand Social Security. Let’s reform an economic system that enables billionaires like Mr. Trump not to pay a nickel in federal income taxes. And most important, let’s end the ability of wealthy campaign contributors to buy elections.

In the coming days, I will also provide a series of reforms to reinvigorate the Democratic Party. I believe strongly that the party must break loose from its corporate establishment ties and, once again, become a grass-roots party of working people, the elderly and the poor. We must open the doors of the party to welcome in the idealism and energy of young people and all Americans who are fighting for economic, social, racial and environmental justice. We must have the courage to take on the greed and power of Wall Street, the drug companies, the insurance companies and the fossil fuel industry.

When my presidential campaign came to an end, I pledged to my supporters that the political revolution would continue. And now, more than ever, that must happen. We are the wealthiest nation in the history of the world. When we stand together and don’t let demagogues divide us up by race, gender or national origin, there is nothing we cannot accomplish. We must go forward, not backward.

La Repubblica

Dopo i poveri incoda per la mensa (accusati di portare degrado nel quartiere),la Lega che ha la presidenza del Municipio 2 a Milano adesso ha i fari puntatisugli islamici e sui loro luoghi di culto. Anzi, per estensione, se la prendeanche con gli evangelici e i copti ortodossi. Il primo passo è un censimentodelle moschee abusive e dei centri di preghiera per segnalarli alla Regione,che ha in corso un'inchiesta in materia su tutta la Lombardia, una sorta dimappatura di tutti i luoghi di culto. La richiesta è quella dichiuderli per "problemi di sicurezza" e per la "paura deicittadini che non escono più di casa per la presenza di troppi stranieri".

Il Municipio copre la zona fra via Padova,la stazione centrale, viale Monza e tutta la periferia est: le zone a maggioredensità di stranieri residenti. Lo stesso quartiere dove è avvenutol'accoltellamento al giovane dominicano sabato sera. Un pezzo di città dasempre sotto i fari dell'attenzione politica, con opposte strategie da parte didestra e sinistra. Sotto la Moratti arrivò l'esercito, con Pisapia si puntò invece sulla socialità. Il nuovo presidente del municipio, il leghista, Samuele Piscina, vuole un ritorno al passato. E annuncia che si sostituirà a Palazzo Marino nella segnalazion di quella che secondo lui è una "problematica non irrilevante" cioé "i numerosi luoghi di culto irregolari presenti nel nostro municipio". Dunque anche se "purtroppo il Comune di Milano ha deciso di non presentare questo censimento, il Municipio 2 prende atto diquesta scelta dell'amministrazione comunale, ma non può rimanere a guardarementre le regole non vengono rispettate. Per tale motivo abbiamo iniziato uncensimento dei luoghi di culto del Municipio 2 che avremo cura di trasmettereappena completato a Regione Lombardia".

In realtà Piscina una mappa dei luoghi di culto nella sua zona ce l'ha già. Ed è anche una mappa molto affollata, visto che quelli sui quali lui "governa" sono i quartieri più multietnici della città. Dunque chiede alla Regione di intervenire di "contrastare" la loro presenza che "crea problemi di sicurezza". Scrive Piscina all'assessora regionale alla Sicurezza, Simona Bordonali: "Pur sostenendo il principio della libertà di culto, riteniamo essenziale il rispetto delle normative esistenti che garantiscono la sicurezza di tutti i cittadini. Per tale motivo chiediamo all'assessorato che vengano contrastati i centri di culto irregolari, e quindi senza destinazione d'uso adeguata, presenti nel Municipio 2. Tali luoghi di culto non risultano a norma di legge e creano evidenti problemi di sicurezza (anche urbanistica) sia per chi li frequenta sia per i cittadini che vivono nelle immediate vicinanze".

Di seguito, un primo elenco dei "luoghi di culto irregolari":
- Moschea Bangladesh Cultural &Welfare association di via Cavalcanti 8;
- moschea di via San Mamete 76;
- moschea dell'associazione culturale Al Nur di via Carissimi 19;
- moschea Casa della Cultura islamica, Via Padova, 144;
- moschea Alleanza islamica d'Italia di viale Monza 50;
- moschea di via Arbe 93.

A queste aggiunge anche:
- la chiesa evangelica di via Teocrito 45;
- la chiesa cristiano copta di via Gluck 46;
- la chiesa evangelica cinese di via Antonio Fortunato Stella 2;
- la chiesa Unita Pentecostale Internazionale di via Carta 21;
- chiesa cristiana evangelica delle Assemblee di Dio in Italia di via Matteo Maria Boiardo, 10;
- la missione Evangelica Maranata D'Itália nella via Privata Pericle, 9.

Dura la presa di posizione spiegata in un consiglio di zona straordinario al quale è stata invitata anche l'assessora alla Sicurezza del Comune, Carmela Rozza: "Il Municipio 2 negli ultimi cinque anni è stato totalmente dimenticato sotto il profilo della sicurezza. I problemi sono conosciuti ormai da anni, ma l'amministrazione comunale nel recente passato non è mai intervenuta per tutelare i cittadini che, specialmente in quartieri quali ad esempio via Padova e stazione Centrale, hanno paura di uscire di casa, anche per la presenza dell'hub profughi di via Sammartini. Per tale motivo ci sembra
fondamentale mettere telecamere e riportare sia l'esercito, sia le forze dell'ordine e la polizia locale nelle strade delle periferie, dove sussistono i veri problemi. Importantissimo è in primis trasferire il comando zonale della Polizia locale all'interno del territorio del Municipio 2, dove ci sono i veri problemi dei cittadini, cercando possibilmente una sede lungo l'asse di via Padova". Che notoriamente è la strada simbolo della Milano multirazziale.

«». il manifesto, 13 novembre 2016 (c.m.c.)

Da alcuni decenni sono tornate a vedersi, prima nelle grandi città arabe e musulmane, poi anche in quelle europee e occidentali, donne velate come prima si potevano incontrare solo negli angoli più emarginati delle zone rurali.

Anche l’estensione della copertura a cui viene sottoposto il loro corpo, dal chador al niqab, al burka, per finire ai guanti, per impedire ogni possibile contatto con mani estranee, è andata crescendo – ben al di là di quanto possa essere ricondotto anche alla più rigida delle tradizioni – come segno della progressione di un riconquistato dominio dell’uomo sul popolo delle donne; un dominio che i contatti con la cultura occidentale, soprattutto dopo l’esplosione del femminismo negli anni ’70, stavano erodendo poco per volta.

Non era difficile riconoscere in questa inversione di tendenza il segno esteriore della rivalsa di una popolazione maschile, di fronte alla constatazione che né la decolonizzazione dei loro paesi, né la strada di un socialismo sui generis, in gran parte di impronta sovietica, né quella del nazionalismo arabo, e nemmeno quella dell’emigrazione in Europa avevano raggiunto i risultati promessi in termini di emancipazione, di diritti, di benessere.

La strada sbarrata dello sviluppo umano in tanti paesi ex coloniali e in tante comunità immigrate e discriminate stava spingendo, una dietro l’altra, le popolazioni che continuavano a subire il predominio della «civiltà» bianca occidentale a compensare questa loro subalternità imponendo alla «loro» altra metà del cielo, e in forme ben più visibili che non in passato, una subalternità altrettanto se non anche più spietata.

L’origine di questo cambio di rotta è di per sé sufficiente a spiegare, anche se non in modo esaustivo, la condivisione o l’accettazione di questa imposizione da parte di molte donne che indossano con orgoglio questi segni della loro subordinazione come manifestazione del rifiuto di tutto ciò che la «civiltà» occidentale ha cercato di imporre anche a loro.

Il fondamentalismo radicale ha poi fatto di questa riconquista dell’uomo sulla donna il centro della propria ideologia, della propria prassi (fino a giustificare lo stupro e la schiavitù delle donne estranee alle proprie comunità) e anche del richiamo nei confronti di giovani maschi alla ricerca di avventure.

Per questo è già stato rilevato più volte che l’arma principale che può disgregare questa vera e propria minaccia per l’umanità, sia quando assume le forme e la consistenza di uno Stato, di un esercito, di una comunità chiusa, sia quando si manifesta nel moltiplicarsi delle iniziative stragiste in tutto il resto del mondo, non può che essere la decisione delle donne di queste comunità di riprendere in mano il loro destino; ovviamente nelle forme che loro stesse decidono di adottare, anche in considerazione dei pesanti vincoli a cui sono sottoposte, e che non coincidono necessariamente con quelle che molti di noi desidererebbero.

Certamente l’esempio che viene dalle aree liberate della Siria curda come il Rojava, e che non si limita solo alla partecipazione delle donne alla guerra di liberazione, ma investe tutti gli ambiti della vita associata, è quello che a noi risulta più chiaro ed efficace. Ma non è detto che sia il solo e che altre strade non possano essere percorse, senza pretendere che il primo passo in questa direzione sia quello di «togliersi il velo».

Ma che ne è dalle nostre parti? Quelle dell’uomo bianco occidentale? Tanto è facile – o sembra – fare l’antropologia delle altrui culture quanto è difficile riconoscere nella nostra i segni vistosi di processi analoghi, che pure sono sotto gli occhi di tutti. Così, prima ancora di individuarvi una manifestazione del rancore della popolazione bianca declassata dalla globalizzazione contro le rispettive élite, ci si dovrebbe chiedere se l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, come l’«irresistibile» avanzata di tanti movimenti xenofobi e di destra nei paesi dell’Unione Europea, non siano innanzitutto manifestazioni di una rimonta di maschilismo, non nelle forme bigotte e cupe imposte dal fondamentalismo islamico, ma in quelle volgari, sboccate e persino pornografiche che da tempo covano sotto la coltre del cosiddetto «politicamente corretto».

Spiegare la vittoria di Trump o l’avanzata delle destre xenofobe solo come una scelta di classi e ceti «dimenticati» urta innanzitutto con il dato, appurato, che a votare per entrambi non sono solo né principalmente i poveri e i declassati; e che anzi, come nella più classica delle analisi sociali, le adesioni ai loro programmi o, meglio, ai loro slogan, cresce col crescere del reddito e della posizione sociale – non con quello dell’istruzione – anche se sono certamente molto ampie tra le persone, qui soprattutto maschi bianchi, che sono vittime della globalizzazione e che rischiano di restare vittime di questa loro forma di ribellione.

Che l’adesione alle prospettive xenofobe e razziste di questi schieramenti abbia molto a che fare con un desiderio di rivalsa nei confronti delle «proprie» donne, e delle donne in generale, è evidente vedendo che la candidatura alla Casa Bianca di una donna ha creato molta diffidenza in tutti le componenti dell’elettorato statunitense, anche se Hillary Clinton si è giocata la carta del genere solo nella parte finale della sua campagna elettorale. Ma l’indizio maggiore di questa volontà di rivalsa tra l’elettorato maschile di tutte le classi – e anche tra quello femminile che vede nella liberazione della donna dai vincoli patriarcali una minaccia per la stabilità della propria collocazione familiare – è il fatto che a sostegno di Trump siano scesi in campo, come a suo tempo con Berlusconi, i settori più estremisti del fondamentalismo cristiano: soprattutto protestante negli Usa, o cattolico – quello di Comunione e Liberazione, ma non solo – in Italia.

Ma lo stesso succede in molti altri paesi dell’Europa, soprattutto dell’Est. Non c’è stato un semplice «passar sopra» ai vizi conclamati dei loro leader, bensì il riconoscimento, forse inconsapevole, che l’ostentato maschilismo del leader, e non solo suo, è la conferma della riconquista di un potere maschilista e patriarcale sulle donne, che funziona innanzitutto come risarcimento per la perdita di diritti, di benessere e di potere nella vita «globalizzata». Il senso di questa rimonta del maschilismo è confermata dall’aumento verticale dei femminicidi: il Kukluxklan del maschio che lincia la «propria» donna disobbediente.

Per questo razzismo e maschilismo risultano intrecciati anche nel nostro occidente e l’affermazione di uomini come Trump, o l’avanzata dei suoi omologhi europei recano il segno del ripiegamento verso un fondamentalismo occidentale – dove molta parte del cristianesimo, quella non a caso avversa al magistero ecumenico di papa Francesco, gioca un ruolo identitario fondamentale – nei cui confronti la partita decisiva non si potrà giocare senza una vigorosa ripresa del movimento femminista.

«L’orario di lavoro è aumentato e gli stipendi diminuiti, i lavori pagati dignitosamente si spostano in Cina o in Messico. Queste persone sono stufe di avere capi che guadagnano 300 volte più di loro, e che il 52 per cento di tutti i nuovi proventi vada all’un percento della popolazione».

La Repubblica, 13 novembre 2016 (m.p.r.)

Milioni di americani martedì scorso hanno espresso un voto di protesta, ribellandosi a un sistema economico e sociale che antepone ai loro interessi quelli dei ricchi e delle grandi imprese. Ho dato forte appoggio alla campagna elettorale di Hillary Clinton, convinto che fosse giusto votare per lei. Ma Donald J. Trump ha conquistato la Casa Bianca perché la sua campagna ha saputo parlare a una rabbia molto concreta e giustificata, quella di tanti elettori tradizionalmente democratici. L’esito elettorale mi addolora, ma non mi sorprende. Non mi sconvolge il fatto che milioni di persone abbiano votato Trump perché sono nauseate e stanche dello status quo economico, politico e mediatico.

Le famiglie lavoratrici vedono che i politici si fanno finanziare le campagne da miliardari e dai grandi interessi per poi ignorare i bisogni della gente comune. Da trent’anni a questa parte troppi americani sono stati traditi dai vertici delle aziende. L’orario di lavoro è aumentato e gli stipendi diminuiti, i lavori pagati dignitosamente si spostano in Cina o in Messico. Queste persone sono stufe di avere capi che guadagnano 300 volte più di loro, e che il 52 per cento di tutti i nuovi proventi vada all’un percento della popolazione. Molte delle città rurali, un tempo belle, sono ormai spopolate, i negozi in centro chiusi e i giovani vanno via da casa perché non c’è lavoro - tutto questo mentre tutta la ricchezza delle comunità va a rimpinzare i conti delle grandi imprese nei paradisi fiscali. I lavoratori americani non possono permettersi servizi per l’infanzia decorosi e di buon livello. Troppe famiglie sono in condizioni disperate e sempre più spesso la vita si accorcia per colpa della droga, dell’alcol e dei suicidi.
Trump ha ragione: gli americani vogliono il cambiamento. Ma mi chiedo che tipo di cambiamento gli offrirà. Avrà il coraggio di opporsi ai potenti di questo paese, i responsabili delle difficoltà economiche patite da tante famiglie o dirotterà invece la rabbia della maggioranza sulle minoranze, sugli immigrati, i poveri e gli indifesi? Avrà il coraggio di opporsi a Wall Street, di adoperarsi per sciogliere le istituzioni finanziarie “troppo grandi per fallire” e imporre alle grandi banche di investire nella piccola impresa e creare posti di lavoro?
Sarò aperto a riflettere sulle idee proposte da Trump e su come si possa lavorare assieme. Però, siccome il voto popolare nazionale lo ha visto sconfitto, farà bene a dare ascolto alle opinioni dei progressisti. Ricostruiamo le nostre infrastrutture fatiscenti e creiamo milioni di posti di lavoro ben pagati. Portiamo il salario minimo a un livello dignitoso, aiutiamo gli studenti a sostenere i costi dell’università, garantiamo il congedo parentale e per malattia e incrementiamo la sicurezza sociale. Riformiamo il sistema economico che permette a miliardari come Trump di non pagare un centesimo di tasse federali. E non permettiamo più che i ricchi finanziatori delle campagne elettorali comprino le elezioni.
Nei prossimi giorni proporrò anche una serie di riforme per ridare slancio al Partito Democratico. Sono profondamente convinto che il partito debba liberarsi dai vincoli che lo legano all’establishment e torni a essere un partito di base della gente che lavora, degli anziani e dei poveri. Dobbiamo aprire le porte del partito all’idealismo e all’energia dei giovani e di tutti gli americani che lottano per la giustizia economica, sociale, razziale e ambientale. Dobbiamo avere il coraggio di sfidare l’avidità e il potere di Wall Street, delle case farmaceutiche, delle compagnie assicurative e dell’industria dei combustibili fossili.
Allo stop della mia campagna elettorale ho promesso ai miei sostenitori che la rivoluzione politica sarebbe andata avanti. E questo è più che mai il momento giusto. Siamo la nazione più ricca della storia del mondo. Se restiamo uniti senza permettere che la demagogia ci divida per razza, genere o origine nazionale, non c’è nulla che non possiamo realizzare. Dobbiamo andare avanti, non tornare indietro.
Traduzione di Emilia Benghi The New York Times Company

. Nuove forme di auto-organizzazione si diffondono in Europa e sono ispirate alla storia del mutualismo, con un nuovo progetto

». il manifesto, 13 novembre 2016 (c.m.c.)

È NATA L’ALTERNATIVA A FOODORA
ORA I BIKERS PEDALANO IN COOPERATIVA

Gig Economy in Belgio. Take Eat Easy, start up belga di consegne a domicilio, è fallita a luglio. I ciclo-fattorini si sono organizzati con la società mutualistica Smart. La storia della prima innovazione dal basso nel mondo delle piattaforme digitali

È nata in Belgio l’alternativa a Foodora, Deliveroo o UberEats, le multinazionali statunitensi ed europee che usano i ciclofattorini per le consegne a domicilio. Tutto è iniziato il 26 luglio scorso con il fallimento del gigante Take Eat Easy, l’analogo belga di Foodora o Deliveroo. Pochi giorni dopo, ad agosto, una parte dei bikers hanno deciso di organizzarsi. Alcuni di loro, 434, facevano già parte della «società mutualistica per artisti» Smart, un’impresa di economia sociale composta da diverse entità con personalità giuridiche distinte e una fondazione che le coordina e ne garantisce il fine senza scopo di lucro. Da marzo a oggi sono cresciuti e, insieme ad altri 1.300 che svolgono lo stesso lavoro, parteciperanno alla più grande cooperativa europea composta da lavoratori indipendenti.

A gennaio, infatti, Smart ha deciso di trasformarsi in cooperativa e diventerà uno dei casi di riferimento per il dibattito mondiale sulla nuova cooperazione. I «livreurs» – così vengono chiamati in Belgio i ciclo-fattorini – saranno protagonisti della prima innovazione su base solidale e mutualistica nel mondo della «gig economy», l’economia dei «lavoretti» che in Italia è diventata nota dopo la vertenza dei bikers torinesi della Foodora.

Take Eat Easy era una start up di consegne a domicilio che operava in venti città belghe e con la sua piattaforma metteva in contatto 3200 ristoranti. I bikers impiegati circa 4500. In un solo anno i clienti sono aumentati da 30 mila a 350 mila. Cifre vertiginose per un paese come il Belgio, ma non sufficienti per un’economia altamente finanziarizzata come quella della «gig economy». Adrien e Chloé Roose, co-fondatori di Take Eat Easy, hanno spiegato le ragioni del fallimento. La start-up si è sviluppata troppo lentamente e non è riuscita a trovare nuovi investitori.

Se non ci fosse stata Smart, i 434 «livreurs» non avrebbero ricevuto i compensi, né versamenti degli oneri sociali per una cifra pari a 340 mila euro, come invece è capitato ai loro colleghi. Smart ha versato i soldi ai suoi impiegati senza poterli riscuotere dal committente Take Eat Easy. Forte di 60 mila soci che versano il 6,5% dei guadagni in un fondo di garanzia in cambio di servizi, Smart è riuscita a sostenere il peso delle conseguenze del fallimento e ha allargato il numero dei soci. Nel 2015 erano infatti solo 89 i «livreurs» ad avere aderito all’iniziativa. Oggi le cose sembrano funzionare: sono 50 mila le ore di lavoro prestate dai 1300 fattorini.

Smart aveva già siglato con Take Eat Easy, e con Deliveroo, un protocollo d’intesa che rimedia al principale problema del ciclo-lavoro a domicilio: il tempo di lavoro tra una corsa e l’altra non è remunerata. Il protocollo ha assicurato un salario pari al minimo legale mensile in base alle ore lavorate, il rimborso delle spese di manutenzione per la bicicletta o le spese telefoniche e un’assicurazione contro gli incidenti. Il tutto nel quadro di un contratto di lavoro di cui Smart si è assunta le responsabilità del datore di lavoro.

«Oggi – afferma Sergio Giorgi, project officer di Smart – i livreurs sono impiegati per il tempo che lavorano per Smart, quando non sono in bici svolgono altre attività che possono anche condurre nell’ambito di Smart, dipende dal loro profilo professionale». «Considerata la natura dei beni dell’azienda in fallimento – un database dei livreurs, un software che fa da interfaccia tra loro, i ristoranti e i consumatori – è probabile che i 340 mila euro versati da Smart saranno iscritti tra le perdite e coperti con le sue riserve».

A questo punto viene da chiedersi che cosa guadagnerà la cooperativa da questa operazione. «Insieme agli altri soci contribuiranno alla costruzione dei servizi che permettono di assicurargli la continuità nel lavoro e la protezione sociale – risponde Giorgi – Quando hanno fatto ricorso a Smart i livreurs sono, di fatto, diventati impiegati. In quanto datore di lavoro, Smart ha fatto valere le condizioni minime di lavoro: la durata minima dell’impiego, il sostegno delle spese nei confronti del cliente».

Nelle intenzioni dei promotori dell’operazione c’è il desiderio di «tutelare i lavoratori su base mutualistica dai rischi derivanti della discontinuità del lavoro indipendente, siano essi freelance o abbiano uno statuto patchwork come quello del lavoro nella gig economy. È un’alternativa al modello attuale dove il singolo «auto-imprenditore» vende un servizio all’azienda proprietaria della piattaforma e vede diminuire il livello di protezione e di sicurezza sociale». Nell’esperimento inauguratocon Smart, i livreurs si sono sottratti all’individualismo e hanno iniziato a organizzare direttamente il loro lavoro in bicicletta senza rispondere a un datore di lavoro che gestisce i tempi del cottimo digitale attraverso un telefono.

SMART, LA SFIDA EUROPEA
ALL’UBERIZZAZIONE DEL LAVORO

Dagli intermittenti dello spettacolo ai lavoratori autonomi e freelance. Nuove forme di auto-organizzazione si diffondono in Europa e sono ispirate alla storia del mutualismo, con un nuovo progetto. «Stiamo creando un mutualismo a livello continentale che permette ai soci della cooperativa in Belgio di aiutare quelli italiani ed europei a tutelare i loro diritti».

Nel 1998 un gruppo di intermittenti dello spettacolo decise di dare una risposta a una domanda ricorrente tra gli artisti in Belgio: come ottenere un livello dignitoso di protezione sociale quando si percepiscono redditi irregolari, soggetti a ritardi? Un problema che riguarda, ieri come oggi, le professioni dello spettacolo e quelle autonome o precarie.

È nata così Smart che oggi conta 75 mila soci, 12 sedi in Belgio e nove società gemelle in altrettanti stati europei: Francia, Svezia, Italia, Spagna, Germania, Olanda, Austria, Ungheria. A gennaio si concluderà il processo di trasformazione di questa impresa sociale in cooperativa al quale ha partecipato un migliaio di persone. Smart è una delle forme del mutualismo di nuova generazione: eroga ai soci servizi di formazione e strumenti amministrativi, giuridici, fiscali e finanziari per semplificare e legalizzare la loro attività professionale.

A differenza del modello dell’auto-imprenditore che spinge il lavoratore autonomo a considerarsi un’impresa e non come un lavoratore, Smart assume il ruolo di datore di lavoro nei confronti dei soci che diventano impiegati di un’impresa condivisa e per questo accedono alla protezione sociale.

Negli anni è stato elaborato, e perfezionato, un meccanismo basato sul principio della mutualizzazione: grazie all’aumento del fatturato dei soci (sul quale Smart preleva il 6,5%, in Italia l’8,5%) si finanzia un fondo di solidarietà che permette di sostenere i lavoratori sia nel caso di interruzione dell’attività o di diminuzione del reddito, o in quello di creazione di nuovi servizi. In una fase in cui la cosiddetta «uberizzazione» del lavoro si sta espandendo, la durata del lavoro è sempre più determinata e frammentata e le condizioni di accesso alle tutele sociali e previdenziali tendono a restringersi sempre di più, questo modello creato dagli artisti, e oggi esteso a molti altri lavori come quello dei «bikers» di Take Eat Easy, si presenta come un’alternativa.

Agli esponenti di Smart, è stato rimproverato di contribuire alla precarizzazione del lavoro e di sostituire il Welfare con il loro modello. L’accusa viene respinta perché l’esistenza di una cooperativa, che continuerà a funzionare su base democratica, non sostituisce il pubblico ma costituisce un esempio per modificare il Welfare in senso universalistico, alla luce di una trasformazione generale del lavoro. Smart costituisce anche un’autodifesa, elemento determinante nella storia del mutualismo, in attesa di una riforma di tale portata.

Su questi temi il dibattito è ampio e se ne sta discutendo anche a New York dove, in questo fine settimana, si è svolta un’importante conferenza sul platform cooperativism, la nuova cooperazione sulle piattaforme digitali, animata dal ricercatore Trebor Scholz.

Giunta al terzo anno di vita Smart Italia può contare su 490 soci, prevalentemente artisti di teatro, cinema, musica e danza. Con l’associazione Acta ha anche siglato un accordo per gestire le committenze complesse dei freelance. «Il fondo di garanzia fornisce liquità a tasso zero per pagare i soci. È un mutualismo di secondo livello che permette ai soci belgi di aiutare gli italiani a tutelare i loro diritti – sostiene Giulio Stumpo di Smart Italia – La trasformazione in cooperativa sarà una sfida per creare una nuova economia partecipativa e democratica in Europa».

«». La Repubblica 12 novembre 2016 (c.m.c.)

I radar dei media che fanno opinione — il New York Times in testa — sono stati spenti o mal posizionati, almeno nell’ultima parte della campagna elettorale che si è conclusa con la vittoria di Donald Trump. E il Times fa pubblica ammenda e parla di errore di “bersaglio” che «significa molto di più dell’aver sbagliato i sondaggi, perché si è trattato dell’incapacità di percepire la rabbia ribollente di una parte così vasta dell’elettorato americano, che si sente abbandonato con una ripresa economica che non coinvolge tutti e tradito da una serie di accordi commerciali che considera una minaccia al proprio posto di lavoro voluta dall’establishment di Washington, da Wall Street e dagli organi di informazione».

I radar dei media liberal erano mal posizionati perché tirati dentro il gorgo della battaglia partigiana fino al punto di diventare essi stessi organi di propaganda — della parte buona, certo, moralmente buona. Ma la bontà dell’obiettivo non li assolve. Gli organi di informazione — quelli di larga diffusione nazionale in primo luogo — dovrebbero avere la funzione di comprendere (e far comprendere) quel che avviene nella società, studiarlo nei suoi fattori e nelle possibili manifestazioni e conseguenze, infine anche esprimere giudizi, certo, e, in questo senso, orientare.

Il giudizio non può essere taciuto né soppresso perché il “fatto” non è un dato oggettivo che si trova per strada (diceva Antonio Labriola che i fatti non sono «come caciocavalli appesi» che si trovano già fatti). Ed è proprio perché fatti e giudizio politico sono così strettamente legati che il lavoro dei media è di grande responsabilità e di delicata combinazione di analisi e comprensione critica.

Il New York Times ha chiesto scusa ai lettori per il cattivo servizio. Tradendo addirittura la sua consuetudine, che consiste nel tenere solo l’ultima pagina per i commenti di giudizio, dedicando tutto il resto a dare conto di umori e fatti facendo parlare direttamente i protagonisti, ai problemi e a chi li avverte e soffre. Ad un certo punto della campagna elettorale, specialmente dopo che Trump ha cominciato a parlare delle donne come “gli uomini quando sono nello spogliatoio”, i media come il Times hanno chiuso l’auricolare su tutto il resto e si sono concentrati solo sul carattere e sui pregiudizi di Trump. E hanno iniziato a gettare discredito su quella parte di America che più facilmente poteva rientrare nella logica di Trump (la stessa Hillary Clinton, che ha definito lui e quelli come lui «disprezzabili», è caduta nella trappola).

L’America non amata, luogo inospitale per chi è incivilito dalla cultura urbana — quei milioni di cittadini lavoratori che in passato hanno votato Obama — non è stata considerata né studiata, non dal punto di vista dei problemi economici e sociali che l’angustiano, semmai solo per i pregiudizi che Trump diceva di rappresentare.

Del resto, la rabbia del Midwest era poco comprensibile per gli opinionisti liberal, per i quali la crisi è stata superata e l’economia è tornata a marciare. Aveva senso andare alla ricerca della scontentezza di chi, negli Stati una volta industriali, assiste impotente alla scomparsa del lavoro o alla sua progressiva delocalizzazione dove costa ancora meno di dieci dollari l’ora? L’altra America, di cui si ha quasi paura nell’America liberal delle due coste, è fatta di una popolazione che sta fuori da ogni comprensione; ad essa non è stata data la stessa attenzione dedicata ai racconti del truce Trump, alle sue bugie e volgarità. E la trappola del rozzo Trump ha funzionato perché ha contato sul fatto, provato, che l’élite non ama il popolo (e viceversa).

L’élite non ama il popolo, come si è visto anche con la Brexit. Il divorzio tra élite e popolo è il pericolo che le democrazie devono temere di più — perché questi due fattori del potere danno il peggio di sé se marciano separati. Il compito dei media è appunto quello di unire élite e popolo nella comune opinione pubblica, che non deve per questo coincidere mai con l’opinione di partito. Non deve legittimare quel divorzio. Far conoscere e analizzare i problemi della società larga è il lavoro dei media.

La rivolta dell’élite contro i molti nasce anche da un modo di considerare la democrazia che è a dir poco problematico: come un sistema di procedure fatte al fine di giungere a decisioni “buone” o “giuste”. Come se solo a questa condizione la conta dei voti dei molti sia legittima. Ma le decisioni sono buone perché prese secondo le procedure condivise non necessariamente per i loro contenuti, che possono anche essere non buoni: sono buone perché ci garantiscono la libertà di cambiare le decisioni prese e chi le prende (governi e maggioranze). Condizionare l’apprezzamento delle regole democratiche alla bontà del loro esito è l’anticamera del divorzio delle élite dal popolo e, infine, di governi non democratici.

La pre-determinazione della scelta buona ha accecato i radar dei media come il Times. Certo, la decisione buona era votare Hillary. E non vi è nulla di male nel fatto che un giornale mostri questa preferenza. Ma poi, il modo migliore per farla capire a tutti (anche ai non-liberal) non è imporla come verità auto-evidente (come i caciocavalli di Labriola), ma portarla alla comprensione a partire proprio dall’analisi dei problemi della vita ordinaria, la quale è fatta anche di luoghi comuni e pregiudizi.

Sapere già tutto in anticipo fa spegnere i radar. Ora, se l’arroganza è dei politici, essa non fa notizia, poiché parte dei loro “vizi”. Ma se sono gli operatori dell’opinione pubblica ad indossare quella casacca, allora si fanno evangelisti e perdono la loro funzione, che è appunto quella di seguire umilmente e comprendere quel che avviene nel mondo largo della società. Dare voce, invece che coprire con la propria voce. Per scongiurare, tra l’altro, che sia un Trump qualunque a dar voce.

Bisogna guardare un po' al di là del "pensiero unico" degli apologeti della globalizzazione capitalista per cogliere la verità di ciò che sta avvenendo«La vittoria del tycoon è frutto di rigetto dell’establishment globalizzato e delle sue politiche neoliberali».

Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2016 (p.d.)

Analizzando la socialdemocrazia nel 1911, Robert Michels parlò di legge ferrea dell’oligarchia: per come si organizzano, e per come tendono a occuparsi della sopravvivenza degli apparati, i partiti diventano pian piano gruppi chiusi, corrompendosi. l loro scopo diventa quello di conservare il proprio potere, di estenderlo e di respingere ogni visione del mondo che lo insidi. Si fanno difensori dei vecchi ordini che Machiavelli considerava micidiali ostacoli al cambiamento e al buon governo delle Repubbliche. Anche le menti si chiudono, e la capacità di riconoscere e capire quel che accade nel proprio Paese e nel mondo circostante si riduce a zero.

Una risposta popolare a questa legge ferrea la stiamo osservando con la vittoria di Trump. Ma ovunque in Europa un numero crescente di elettori boccia i poteri costituiti, se ha l’opportunità di esprimersi in elezioni o referendum. È un rigetto diffuso dell’ globalizzato, delle politiche neoliberali che quest’ultimo ha fabbricato per far fronte alla crisi e dei metodi opachi, concordati e decisi “a porte chiuse”, con cui tali strategie continuano a essere imposte. A questa politica del disprezzo, i popoli stanno rispondendo in modi diversi e distinti fra loro: con la rabbia, con il risentimento, o con la tendenza a cercare capri espiatori. Le tre modalità vengono tutte respinte allo stesso modo, senza alcuno sforzo di distinguerle,e la risposta viene in blocco definita populista o estremista. La Clinton ha addirittura parlato di fine del mondo, rivolgendosi agli elettori: “Io sono l’unica cosa frapposta tra voi e l’apocalisse”. Al contempo, non ha esitato ad ammettere la sua “lontananza” dalle classi medie sempre più depauperate e incollerite. In un discorso alla Goldman Sachs nell’aprile 2014 rivelato dalle email pubblicate da Wikileaks, ha detto: “In qualche modo mi sento lontana (dalle lotte della classe media), e questo per la vita che ho vissuto e per il patrimonio economico di cui io e mio marito oggi godiamo”.

Ma Wikileaks ha rivelato altro. Il Comitato nazionale democratico ha commesso un suicidio, facendo di tutto per garantire la vittoria alle primarie del candidato meno competitivo contro Trump, ossia Clinton stessa. Ha sabotato altre candidature: prima fra tutte quella di Bernie Sanders, dato per vincente contro Trump da almeno tre sondaggi (in uno di essi con un distacco di 15 punti). Ha trasmesso in anticipo allo staff di Clinton domande essenziali che sarebbero state poste nel dibattito con Sanders di marzo. Il campo delle cosiddette sinistre negli Usa avrebbe forse potuto vincere contro Trump. Era più forte, organizzativamente, di un fronte repubblicano disgregato da un decennio. Non ha voluto farlo, ha ceduto alla lobby clintoniana, e di fatto ha preferito perdere, precipitando nel baratro senza nemmeno guardarci dentro.

Non siamo di fronte a un’incapacità di percepire lo stato d’animo degli elettori. Siamo di fronte a una precisa non-volontà di capire e imparare. La democrazia comincia a esser qualcosa che mette paura e lo stesso suffragio universale viene messo in questione: il comportamento delle vecchie sinistre europee sdogana un’offensiva che ricorda polemiche ottocentesche e che riappare nelle strategie di Renzi in Italia (mantenimento delle strutture delle province senza partecipazione diretta dei cittadini; creazione di un Senato non più eletto direttamente). Vengono messe in questione perfino le Costituzioni nazionali, sospettate di ostacolare la “capacità di agire rapidamente”degli esecutivi: qualsiasi richiamo al rapporto Jp Morgan è divenuto lo zimbello della rete highbrow, alla stregua delle scie chimiche. Ma contrariamente alle scie chimiche, quel rapporto esiste davvero. Quanto ai giornali, appaiono elogi disinibiti dell’oligarchia, presentata come sviluppo naturale e auspicabile della democrazia: anzi, come la natura stessa della democrazia. Clinton simboleggiava tale involuzione delle cosiddette sinistre, oggi al servizio di lobby nazionali e transnazionali.

Questa sinistra e il giornalismo mainstream sono ovunque sconfitti e smentiti, ma non sembrano voler imparare nulla. L’elettore fa loro sempre più paura, e per questo le sue espressioni di rabbia o risentimento vengono sommariamente declassate come populiste. Lo stesso accade con i Parlamenti: in vari modi si tenta di depotenziarli, perché accusati di impedire politiche decise nei piani alti. Il Partito democratico Usa, i Partiti socialisti in Francia e Spagna, il Partito democratico guidato da Renzi: tutti sono chiusi in trincea, lavorando a larghe intese per fronteggiare il populismo che incomberebbe.

È un fenomeno che dura da tempo. Ricordiamo la paura suscitata nelle vecchie sinistre dalle elezioni e dai referendum in Grecia o dalle elezioni spagnole. Andando più indietro, fu assordante il silenzio del Pd di fronte all’offensiva di Monti contro il Parlamento e, indirettamente, contro il suffragio universale. Il 6 agosto 2012, l’allora presidente del Consiglio rilasciò un’intervista a Der Spiegele senza remore dichiarò: “Capisco che (i governi) debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere: se io mi fossi attenuto meccanicamente alle direttive del mio Parlamento non avrei mai potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles”.

Poco dopo, nel settembre dello stesso anno, in un incontro a Cernobbio, Monti propose a Herman Van Rompuy, allora presidente di turno del Consiglio europeo, un vertice dell’Unione interamente dedicato alla minaccia del populismo: “Per fare il punto e discutere su come evitare che ci siano fenomeni di rigetto (…) Siamo in una fase pericolosa (…) In Europa c’è molto populismo che mira a disintegrare anziché integrare”.

Tutte ciò è stato completamente assorbito dalle sinistre, fin nel linguaggio. In questa maniera esse hanno legittimato il discorso antidemocratico che serpeggia sempre più insistente nelle élite. Sono entrate anch’esse, senza complessi, nella postdemocrazia descritta da Colin Crouch (Postdemocrazia, Laterza 2003). In Europa si mostrano ogni giorno favorevoli a larghe intese con i Popolari per meglio far quadrato contro i cosiddetti estremismi.

Un’ultima considerazione sul Movimento Cinque Stelle, sbrigativamente assimilato dalla grande stampa ai populismi di Trump o di Le Pen. Poco conta quel che il M5S propone, o le sue battaglie nel Parlamento europeo per una diversa politica economica, per il rispetto delle leggi internazionali nelle politiche di migrazione e asilo, per una politica estera che non trascini l’Europa nella nuova guerra fredda con la Russia che la Clinton favoriva. L’unica frase di Grillo messa in rilievo in questi giorni è quella sul “vaffa day americano”, come se fornendo quest’analisi avesse anche “esultato” per la vittoria di Trump, e non l’avesse invece descritta realisticamente. Non è dato sapere se abbia davvero esultato: tanto più che sul finire della campagna elettorale non si è pronunciato, a differenza di Salvini, in favore di Trump. Grillo ha solo puntato il dito su quel che spinge gli elettori a reagire all’, di volta in volta con rabbia o risentimento o anche con slogan xenofobi. L’Italia è l’unico paese nell’Ue dove l’estrema destra viene “trattenuta” e assorbita da un Movimento per forza di cose contraddittorio, ma democratico. Se Salvini ha un elettorato ristretto lo dobbiamo al M5S.

Marco D’Eramo ha ragione, quando scrive sul sito di Micromega: “Non è per niente certo che si realizzi l’auspicio di Slavoj Zizek, che si augurava la sconfitta di Clinton e l’elezione di Trump perché, secondo lui, avrebbe dato una sveglia alla sinistra. Troppo profondo è il sonno della ragione in cui la sinistra è piombata, da decenni”. Il guaio è che la vecchia sinistra non crede di vivere il sonno della ragione. Crede d’incarnare la ragione ed esser più sveglia di tutti gli altri.

La Repubblica, 11 novembre 2016


LE ISTITUZIONI sono come il corpo umano: per animarle, serve uno spirito che ci soffi dentro. Ma lo Zeitgeist, lo spiritello che governa il nostro tempo, ha il fiato grosso, l’alito cattivo. Succede, quando ti monta in gola la paura. Quando il presente ti sgomenta, il futuro ti spaventa. E quando gli altri, tutti gli altri, t’appaiono come una minaccia, un esercito invasore.

Da qui Brexit, Trump, nonché gli altri sconquassi che si profilano sul nostro orizzonte collettivo. Ma da qui inoltre una domanda, che investe i destini stessi della democrazia. Quali istituzioni nell’epoca dell’insicurezza? E c’è ancora spazio per libertà e diritti mentre prevale la paura?

Non che la democrazia sia una creatura ingenua, senza sospetti né timori. Al contrario: diffida degli uomini, e perciò diffida del potere. Sa che è inevitabile, giacché in ogni società c’è sempre stato chi governa e chi viene governato. Ma al tempo stesso sa che i governanti abuserebbero della propria autorità, se non avessero redini sul collo. L’uomo è un diavolo, non un santo. Sicché occorre una regola che imbrachi il potere, che gli tagli le unghie, che gli impedisca di farci troppo male.
La democrazia nacque così, nella Grecia di 25 secoli fa. Nacque con il sorteggio e con il voto popolare, con la rotazione delle cariche, con i limiti alla loro durata. E nel Settecento fu poi rinverdita dalla teoria di Montesquieu: «che il potere arresti il potere», altrimenti nessuno potrà mai dirsi libero. Come affermava, nel modo più solenne, l’articolo 16 della Déclaration, vergata dai rivoluzionari francesi nel 1789: «Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione».

Insomma, la democrazia si fonda su una promessa di diritti. E i diritti, a loro volta, hanno una doppia vocazione. Sono indivisibili, nel senso che spettano a ciascun individuo, perché in caso contrario si trasformerebbero in altrettanti privilegi. Sono universali, nel senso che tendono a superare le frontiere, come mostrano le innumerevoli Carte dei diritti siglate in ambito internazionale. Da qui il tratto forse più essenziale dei sistemi democratici: l’accettazione dell’altro, l’apertura verso lo straniero. Secondo l’antico rituale greco della xenia, l’accoglienza tributata agli ospiti.

Ma adesso questa prospettiva viene revocata in dubbio, spesso rovesciata nel suo opposto. Le istituzioni modellate dai nuovi sentimenti di paura si ripiegano in se stesse, si rinchiudono in atteggiamenti puramente difensivi. Alzano muri, come in Ungheria e in Bulgaria. Erigono barriere alla circolazione delle persone e delle merci, come ha auspicato Donald Trump durante la sua campagna elettorale, rispetto all’immigrazione messicana e ai trattati commerciali con la Cina o con l’Europa. Sono nazionaliste, isolazioniste, xenofobe. Hanno in sospetto il pluralismo delle identità culturali e religiose. Odiano le procedure cui la democrazia affidava la tutela dei diritti, perché quando ti senti minacciato vuoi dal governo una reazione rapida, efficace. E vuoi un governo forte, senza troppi contrappesi. Come negli Usa: Trump ha dalla sua tutto il Congresso, non succedeva ai repubblicani dal 1928.

Tuttavia c’è un paradosso in questa nuova condizione. Perché la democrazia della paura si regge anch’essa su un’attesa di diritti, pur negando diritti agli stranieri. Dice, in sostanza: sono stati loro a toglierci il lavoro, la prosperità, la sicurezza. Dunque ricacciamoli indietro, respingiamoli al di là delle nostre frontiere, se necessario con le maniere spicce; dopo di che ci impadroniremo dei nostri vecchi diritti. Ma allora la domanda è un’altra: può esistere un’entità politica antidemocratica verso l’esterno, che si conservi democratica al suo interno? La storia non ci offre precedenti. Abbiamo conosciuto invece, e molte volte, l’esperienza inversa: per esempio nell’Atene del V secolo, dopo la sconfitta militare nella guerra del Peloponneso.

Ma dopotutto è la democrazia medesima a costituire un’eccezione, una scheggia della storia. A osservare la corsa dei millenni, i regimi teocratici e dispotici esprimono di gran lunga la regola, come la guerra rispetto al tempo di pace. Forse non si tratta che di questo, forse la regola sta riconquistando il suo primato sull’eccezione.

La Repubblica, 10 novembre 2016, con postilla

Dopo aver dedicato una vita all’ascolto delle periferie, sono un po’ stufo dello sconcerto dei bempensanti per le bastonate elettorali inflitte dalle Destre al pensiero “no border”. Sempre la stessa scena, sempre lo stesso brusco risveglio davanti al caffellatte del mattino o al ritorno in ufficio. “Incredibile”, “Non me l’aspettavo”, “Voto shock”, “I sondaggisti hanno sbagliato”, eccetera. È successo in Gran Bretagna col no a Bruxelles, in Francia con la minaccia lepenista, in Est Europa col ritorno dei populismi, persino in Italia col voto alla Lega Nord e poi ai Cinquestelle. Ora torna ad accadere col voto americano.

Eppure è sempre lo stesso film. In Europa come in America vincono le periferie frustrate e senza voce, quelle banlieue spaventate dalla globalizzazione che nessuno ascolta e che riescono a esprimersi solo al momento del voto. Lo schema si ripete da troppo tempo perché io non cominci a sospettare che qui realmente ci sia una coazione all’errore. Che non si voglia capire, e che sia in atto nel pensiero democratico una clamorosa fuga dalla realtà. Mi chiedo: quanto i democratici frequentano realmente questi luoghi, ne ascoltano il malessere e parlano con la gente comune? Come impostano le loro campagne elettorali? Nei club esclusivi o fra la gente?

Se c’è una cosa che ho capito nella mia vita raminga, è che si impara più in tram che dalle analisi di un luminare, più dal bar d’angolo che da un costoso sondaggio. I treni russi mi hanno avvertito con largo anticipo di quello che stava per succedere in Ucraina e le volontà imperiali della Russia di Putin. Il mitico bus “Greyhound” americano mi allertò, a suo tempo, della popolarità di un Reagan cui nessun ufficio studi dava ancora un briciolo di credito. Facendo l’Appia a piedi ho sentito distintamente il crescente influsso della camorra su Roma. Ora io non pretendo che i politici si carichino uno zaino sulle spalle per battere a piedi i loro collegi. Mi basterebbe che salissero su un mezzo di trasporto pubblico per sentire la pancia del Paese.

Tornando all’America – ma in realtà la questione è planetaria - la domanda è: Hillary è mai andata in tram? Temo di no. Non che il miliardario Trump ci sia mai salito se non per farsi filmare dalle tv. Ma Trump parla il linguaggio della gente. Si rivolge alla pancia. Hillary parla alla testa del Paese, con algidi teoremi, competenza, alleanze altolocate e statistiche. Non basta. Il pensiero democratico deve urgentemente dotarsi di un linguaggio diverso per non condannarsi a perdere per altri trent’anni. Per un motivo elementare: tra le ragioni della pancia e quelle della testa, vincono sempre le prime. E allora, come uscirne?

Certo, la Destra populista non ha mai offerto soluzioni ai problemi di queste periferie decisive per le sorti del mondo democratico. Ha venduto quasi sempre illusioni. Ha fornito semplicemente megafoni e amplificatori al malessere. Ha indicato un nemico, anche per evitare che qualcuno mangi la foglia e capisca la sua corresponsabilità nei confronti di quel malessere. Di più: essa trae voti dall’emarginazione che essa stessa crea con la sua ideologia “darwinista”, basata sulla legge del più forte, del pistolero cow-boy. Ma un megafono è meglio di niente. È sempre meglio di un vuoto ripetitore del silenzio e delle quotazioni Nasdaq di Wall Street.

E allora come smascherare questo gioco, come smarcarsi rispetto alle ragioni dello stomaco e alle false promesse degli arruffapopoli? La soluzione sta sempre lì, in quella grande metafora della vita quotidiana che è il trasporto pubblico. Treni di seconda classe, stazioni, fermate d’autobus, sale d’aspetto. Cesare Zavattini disse: il cinema italiano è finito nel momento in cui i registi hanno smesso di andare in tram. Per ragioni analoghe, Berlinguer chiese a Bettino Craxi se era mai andato in tram, e lui rispose altezzoso che no, perché aveva l’autista. Peccato rispose Enrico, impareresti molto. Craxi non volle imparare.

È viaggiando con la gente che impari ad ascoltare, a porti nel modo giusto di fronte ai piccoli drammi del quotidiano che affliggono la maggioranza. Impari a condividere. Familiarizzi con l’abc dell’empatia, che nessun talk show ti darà mai. Soprattutto impari a non tacere di fronte alle bestialità, a replicare con fiammate di passione alle ragioni dell’odio. Impari a rispondere picche alle urla dei beceri, e a farlo in modo nuovo, offrendo a tanta buona gente un esempio cui fare riferimento. Apprendi come usare quella cosa che sta esattamente a metà fra le ragioni della pancia e quelle della testa. Il cuore. La pompa delle nostre passioni, che i democratici sembrano aver perduto.

Papa Francesco, prima di sbarcare in Vaticano, prendeva il tram per spostarsi spesso senza scorta nelle immense periferie di Buenos Aires. È lì che ha imparato prima ad ascoltare e poi a parlare con il cuore. È per questo che oggi egli è più popolare di qualsiasi politico nel mondo dei democratici senza più casa. Quando mi spendo nelle scuole e parlo a aule piene di adolescenti spaesati, spesso saturi di web e senza più maestri nemmeno in famiglia, vedo che essi apprezzano due sole cose in chi li incontra. Non la competenza professorale, ma le scarpe impolverate e la passione ardente del cuore. È grazie a queste sole armi che vedo accendersi i loro occhi.

È quello il passepartout. Quello l’argine fondamentale all’imbarbarimento del linguaggio, alimentato dai “social” e dalla Tv spazzatura, che potrebbe portare molto male all’Europa e al mondo. Andate in tram, cari politici. O vi ci dovrete attaccare.

postilla

Bella la metafora del tram. Il titolo di un libro di un architetto che mi è piaciuto molto e di cui continuo a raccomandare la lettura (Carlo Melograni, Progettare per chi va in tram, 2004) andava nella stessa linea di pensiero delle frasi di Cesare Zavattini e di Enrico Berlinguer, riportate da Rumiz nel suo articolo. Ma i tempi sono cambiati, e così la formazione dei pensieri nelle teste. Adesso le teste degli uomini che vanno in tram sono foggiate dai persuasori occulti che hanno contribuito a formare il "pensiero comune" (leggi qui come).
E i governanti furbi, come il nostro Renzi certamente è, hanno imparato a loro volta il mestiere. La moneta cattiva della bugia ha cacciato la moneta buona della verità. Quanti di quelli che oggi considerano Barack Obama e Hillary Clinton due eroi lo pensano in base alle belle parole che hanno pronunciato, e non sanno di quanto sangue siano coperte le loro mani, quanti uomini e donne abbia ucciso la loro politica nel mondo, quanta morte abbiano portato le loro guerre e quanta miseria il loro sistematico appoggio a Wall Street. È diventato sempre più difficile comprendere "quello che è", e - come ha detto Rosa Luxemburg - è diventato sempre più rivoluzionario

«». il manifesto, 10 novembre 2016 , con postilla

Illudersi che a fronte di una società che non è mai stata così spaccata dalla disuguaglianza come oggi non ci sarebbe stata, prima o dopo, una reazione che avrebbe terremotato il quadro politico è stato ridicolo. Qualcuno, quando Trump ha iniziato la sua avventura, aveva cominciato a rendersene conto.

Michael Moore, fra gli altri, che da mesi aveva previsto che «quel miserabile ignorante e pericoloso pagliaccio» sarebbe stato «ahimé – il nostro presidente». Ma il regista che meglio di ogni altro ha dipinto la società americana contemporanea aveva guardato i volti scuri dei blue collars espulsi dalle fabbriche della Rust Belt (il Michigan – lo stato della mitica Detroit – il Wisconsin, l’Ohio, la Pennsylvania); le facce non più annerite dei minatori resi obsoleti dalle sacrosante misure ecologiche mai però accompagnate da progetti di rioccupazione; la nuova miseria dei più giovani, spappolati nel precariato e privati della speranza dell’avanzamento sociale.

L’establishment no, di questa umanità che pur ha gridato la sua protesta nelle piazze americane assieme a «Occupy Wall Street» – l’1% di straricchi che si affianca al 99% dei sempre più impoveriti – non ne ha tenuto conto, annebbiati dalla arrogante sicurezza che ha finito per rimuovere ogni loro preoccupazione.

Eppure era chiaro che stava salendo una domanda non rinviabile di cambiamento, una svolta comunque sia. Che aver introdotto, come Obama ha cercato di fare, un po’ di assistenza sanitaria non sarebbe bastato (i sondaggi ci dicono che il 77% degli elettori l’ha considerata troppo gracile ); né è bastato l’aver adottato una politica economica che ha abbassato il tasso di disoccupazione ma ha continuato a chiudere nel ghetto della marginalità milioni di giovani.

L’establishment – democratico ma anche repubblicano – è diventato il nemico da colpire perché titolare del capitalismo finanziario globale, quello che dà via libera alle scorribande del capitale e desertifica intere regioni un tempo ricche di industria. Né vale giustificarsi dicendo che i guai sono derivati dalla crisi, perchè la crisi non è piovuta dal cielo, è stata generata da questo sistema.

È la radicalità di questa voglia di svolta, di una risposta convincente che si faccia carico per davvero della sofferenza che dilaga e che non è stata colta dall’establishment democratico (e repubblicano, preso a sua volta alla sprovvista dal candidato che gli è toccato sostenere).

Avevano ragione i più acuti commentatori del New York Times quando, in occasione delle primarie, scrissero che aveva più probabilità di vincere le elezioni l’«estremista» Bernie Sanders che la moderata Hillary Clinton. Il vecchio socialista era infatti riuscito a mobilitare per la prima volta una larga area giovanile che generalmente diserta il voto e forse non ha alla fine ubbidito il suo leader quando, restata in campo solo la Clinton, li ha invitati a far convergere il proprio voto su di lei. E così si sono sottratte energie alla mobilitazione democratica, smentendo l’ortodossia corrente secondo cui si vince se si sta al centro.

Il voto americano è un buon campanello d’allarme per i nostri governanti europei, siano democristiani o socialdemocratici come in Germania, socialisti come in Francia, o (non so più bene cosa siano) quelli italiani. O questa voglia di rottura viene raccolta da una sinistra capace di proporre una svolta seria, o, se non c’è, alimenterà il peggio. E c’è poco da arricciare il naso se il loro paladino in America lo hanno trovato in chi viene irriso da tutte le più rispettabili figure del paese per la disinvoltura con cui infrange le norme del politically correct con volgarità che noi diremmo da «carrettiere» e che in America chiamano «da spogliatoio».

Le prossime elezioni in Francia rischiano di ripetere lo scenario americano, con qualche variante culturale. Anche lì, comunque, coi soliti pericolosi devianti ingredienti che accompagnano da sempre le proteste rimaste prive di uno sbocco politico realmente alternativo: il razzismo innanzitutto.

Varrebbe la pena che su tutto questo riflettessero quelli che hanno sempre paura della destabilizzazione. (Adesso, ove vincesse il NO). Il pericolo c’è se il disagio sociale non trova canali politici adeguati e democratici. In Italia l’antipolitica ha per fortuna trovato uno sbocco meno perverso nel M5stelle (che solo Scalfari può pensare di equiparare a Trump!). Con tutta la mia distanza dalla cultura dei grillini so bene che sono altra cosa, anche rispetto a Marine Le Pen e soci. Ma occorre ben altro e bisogna avere il coraggio di continuate a provare a costruire un’alternativa di sinistra. Adeguata.


Sacrosanto l'appello alla "sinistra" che non c'è. Ma per il resto non c'è mica tanto da illudersi sulla capacità/possibilità dell'establismant e dei «nostri governanti europei», dagli Usa alla Francia alla Germania (e giù giù fino all'Italia di Renzi) ad allearsi con una sinistra che rappresenti davvero gli "sfruttati della Terra" di oggi - o il 99% di Occupy Wall Street. Quelli che dovrebbero ravvedersi e stipulare un'alleanza onesta con i Barnie Sanders, (se ce ne fossero tanti) sono proprio i rappresentanti ufficiali di Wall Street e dintorni. A partire da Hillary Clinton, che il filosofo Slavoy Zizek ha così precisamente descritto.

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