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Memoria. Bifo ha scritto quello che avremmo voluto scrivere noi. Perché nel giorno della memoria non si ricordano, oltre alla Shoah, anche gli altri gravi stermini della storia: quello dei pellerossa, degli aborigeni austrialiani, dei popoli africani durante il colonialismo, del Ruanda, della Cambogia, della Bosnia, dell’Armenia e quello in corso dei palestinesi?

Comune.info, 27 gennaio 2017 (i.b.)

Dopo la guerra che Israele scatenò contro la popolazione di Gaza nel 2008, Stefano Nahmad (la cui famiglia subì le persecuzioni naziste) scrisse queste parole: «Hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame […] li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera».

La guerra che Israele conduce contro il popolo palestinese non è finita, non finisce mai. Continua ogni giorno, e ogni giorno uccide, distrugge, depreda. Negli ultimi mesi è esplosa una povera Intifada, chiamata l’Intifada dei coltelli. Si manifesta con azioni suicidarie compiute da uomini donne, anziani e giovani che il razzismo quotidiano del gruppo dirigente di Israele ha reso a tal punto disperati da cercare la morte per strada, nel tentativo generalmente fallimentare di accoltellare uno dei superarmati agenti dell’esercito di Israele.

Come ogni anno si avvicina il giorno della Memoria, e come ogni anno mi preparo a parlarne con gli studenti della scuola in cui insegno. Insegno in una scuola serale per lavoratori, in gran parte stranieri. È un ottimo osservatorio per capire quel che accade nel mondo. Qualche anno fa, in occasione di questa ricorrenza, leggemmo brani dal libro Se questo è un uomo di Primo Levi. Avevamo parlato molto della questione ebraica, e della storia del popolo ebreo dalle epoche lontane al ventesimo secolo. Proposi che tutti scrivessero un breve testo sugli argomenti di cui avevamo parlato. Claude D, un ragazzo senegalese di circa venti anni, piuttosto pigro ma dotato di vivacissima intelligenza concluse il suo lavoro con queste parole: «Ogni anno si fanno delle cerimonie per ricordare lo sterminio degli ebrei, ma gli ebrei non sono i soli che hanno subito violenza. Perché ogni anno dobbiamo stare lì a sentire i loro pianti quando altri popoli sono stati ammazzati ugualmente e nessuno se ne preoccupa?». Questa frase mi colpì, e decisi di proporla alla discussione della classe, in cui oltre Claude c’erano cinque italiani due marocchini un peruviano una brasiliana, un somalo, due ragazze romene una ucraina e due russi. L’opinione di Claude era quella di tutti.

Sia ben chiaro: nessuno mise in dubbio la verità storica dell’Olocausto, neppure Yassin, un ragazzo marocchino appassionato alla causa palestinese e sempre pronto a criticare con durezza Israele. Tutti avevano seguito con attenzione e partecipazione la lettura delle pagine di Primo Levi. Però tutti mi chiedevano: perché non si fanno cerimonie pubbliche dedicate allo sterminio dei rom, dei pellerossa, o allo sterminio in corso dei palestinesi? Claude a un certo punto uscì fuori con una frase che non potevo contestare: perché nessuno ha pensato a un giorno della memoria dedicato all’olocausto africano? Pensai ai milioni di suoi antenati deportati dagli schiavisti, pensai all’irreparabile danno che questo ha prodotto nella vita dei popoli del golfo d’Africa occidentale, e conclusi il discorso in maniera che a tutti apparve risolutiva (vorrei quasi dire salomonica): «Nel giorno della memoria si ricorda l’Olocausto ebraico perché attraverso questo sacrificio si ricordano tutti gli Olocausti sofferti dai popoli di tutta la terra».

Ammesso che la parola «identità» significhi qualcosa, e non lo credo, per me l’identità non è definita dal sangue e dalla terra, blut und boden come dicono i romantici tedeschi, ma dalle nostre letture, dalla formazione culturale e dalle nostre mutevoli scelte. Perciò io affermo di essere ebreo. Non solo perché ho sempre avuto un interesse fortissimo per le questioni storiche e filosofiche poste dall’ebraismo della diaspora, non solo perché ho letto con passione Isaac Basheevis Singer e Abraham Yehoshua, Amos Oz, Gershom Scholem e Daniel Lindenberg, ma soprattutto perché mi sono sempre identificato profondamente con ciò che definisce l’essenza culturale dell’ebraismo diasporico.

Nell’epoca moderna gli ebrei sono stati perseguitati perché portatori della Ragione senza appartenenza. Essi sono l’archetipo della figura moderna dell’intellettuale. Intellettuale è colui che non compie scelte per ragioni di appartenenza, ma per ragioni universali. Gli ebrei, proprio perché la storia ha fatto di loro degli apatridi, hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della figura moderna dell’intellettuale e hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione dell’Illuminismo e della laicità, e anche dell’internazionalismo socialista.

Come scrive Singer nelle ultime pagine del suo Meshugah, «la libertà di scelta è strettamente individuale. Due persone insieme hanno meno libertà di scelta di quanto ne abbia una sola, le masse non hanno virtualmente nessuna possibilità di scelta». Per questo io sono ebreo, perché non credo che la libertà stia nell’appartenenza, ma solamente nella singolarità. So bene che nel ventesimo secolo gli ebrei sono stati condotti dalla forza della catastrofe che li ha colpiti, a identificarsi come popolo, a cercare una terra nella quale costituirsi come stato: stato ebraico. È il paradosso dell’identificazione. I nazisti costrinsero un popolo che aveva fatto della libertà individuale il valore supremo ad accettare l’identificazione, la logica di appartenenza e perfino a costruire uno stato confessionale che contraddice le premesse ideologiche che proprio il contributo dell’ebraismo diasporico ha introdotto nella cultura europea.

In Storia di amore e di tenebra scrive Amos Oz: «Mio zio era un europeo consapevole, in un’epoca in cui nessuno in Europa si sentiva ancora europeo a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano panslavi, pangermanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi slovacchi. Gli unici europei di tutta l’Europa, negli anni venti e trenta, erano gli ebrei. In Jugoslavia c’erano i serbi i croati e i montenegrini, ma anche lì vive una manciata di jugoslavi smaccati, e persino con Stalin ci sono russi e ucraini e uzbeki e ceceni, ma fra tutti vivono anche dei nostri fratelli, membri del popolo sovietico».

Il mio punto di vista sulla questione mediorientale è sempre stato lontano da quello dei nazionalisti arabi. Avrei mai potuto sposare una visione nutrita di autoritarismo e di fascismo? E oggi potrei forse sposare il punto di vista dell’integralismo religioso che pervade la rabbia dei popoli arabi e purtroppo ha infettato anche il popolo palestinese nonostante la sua tradizione di laicismo? Proprio perché non ho mai creduto nel principio identitario non ho mai provato particolare affezione per l’idea di uno stato palestinese. I palestinesi sono stati costretti all’identificazione nazionale dall’aggressione israeliana che dal 1948 in poi si è manifestata in maniera brutale come espulsione fisica degli abitanti delle città, come cacciata delle famiglie dalle loro abitazioni, come espropriazione delle loro terre, come distruzione della loro cultura e dei loro affetti. «Due popoli due stati» é una formula che sancisce una disfatta culturale ed etica, perché contraddice l’idea – profondamente ebraica – secondo cui non esistono popoli, ma individui che scelgono di associarsi. E soprattutto contraddice il principio secondo cui gli stati non possono essere fondati sull’identità, sul sangue e sulla terra, ma debbono essere fondati sulla costituzione, sulla volontà di una maggioranza mutevole, cioè sulla democrazia.

Pur avendo un interesse intenso per l’intreccio di questioni che la storia ebraica passata e recente pone al pensiero, non ho mai scritto su questo argomento neppure quando l’assedio di Betlemme o il massacro di Jenin o l’orribile violenza simbolica compiuta da Sharon nel settembre del 2000 o i bombardamenti criminali dell’estate 2006 provocavano in me la stessa ribellione e lo stesso orrore che provocavano gli attentati islamici di Gerusalemme o di Netanya o gli omicidi casuali di cittadini israeliani provocati dal lancio di razzi Qassam.

Non ho mai scritto nulla (mi dispiace doverlo dire), perché avevo paura. Come ho paura adesso, non lo nascondo. Paura di essere accusato di una colpa che considero ripugnante – l’antisemitismo. So di poter essere accusato di antisemitismo a causa della convinzione, maturata attraverso la lettura dei testi di Avi Shlaim, e di cento altri studiosi in gran parte ebrei, che il sionismo, discutibile nelle sue scelte originarie, si è evoluto come una mostruosità politica. Pur avendo paura non posso però più tacere dopo aver discusso con lo studente Claude.

Per quanto io sappia che il sionismo va compreso nel contesto della persecuzione di cui gli ebrei sono stati vittime per secoli, non posso ignorare che l’ideologia sionista si è evoluta come nazionalismo colonialista, è causa di infinite ingiustizie e sofferenze per il popolo palestinese, e rischia, nel lungo periodo, di rivelarsi un pericolo mortale per lo stesso popolo ebraico.

La violenza sistematica che lo stato di Israele ha scatenato negli ultimi sessant’anni alimenta la bestia antisemita che sta diventando maggioritaria nel subconscio collettivo. Poiché non si può affermare che il nazionalismo sionista è una politica sbagliata che produce effetti criminali senza essere accusati di antisemitismo, molti non lo dicono, ma non possono impedirsi di pensarlo. Dato che non è possibile affermare a viso aperto che uno stato che si definisce ebraico e discrimina i cittadini sulla base dell’appartenenza religiosa è uno stato integralista, allora molti lo tacciono ma non possono impedirsi di pensarlo.

Aprendo la discussione sulle parole dello studente Claude, ho scoperto che gli altri studenti, italiani e marocchini, romeni e peruviani, che pure nel loro svolgimento avevano trattato la questione secondo gli stilemi politicamente corretti, costretti ad approfondire il ragionamento e a far emergere il loro vero sentimento, finivano per identificare il governo colonialista di Israele con il popolo ebraico e quindi a ripercorrere la strada che conduce verso l’antisemitismo. Considerando criminale e arrogante il comportamento dello stato di Israele, identificandosi spontaneamente con il popolo palestinese vittimizzato, finivano inconsapevolmente per riattivare l’antico riflesso anti-ebraico. Proprio la rimozione e il conformismo che si coltivano nel giorno della memoria stanno producendo nel subconscio collettivo un profondo antisemitismo che non si confessa e non si esprime. Perciò credo che occorra liberarsi della rimozione e denunciare il pericolo che il sionismo aggressivo rappresenta soprattutto per il popolo ebraico.

Si avvicina il 27 gennaio, che sarà anche quest’anno il giorno della memoria. Come potrò parlarne agli studenti della mia scuola? Non c’è più Claude, ma ci sono altri ragazzi africani e arabi e slavi ai quali non potrò parlare dell’immane violenza che colpì il popolo ebraico negli anni Quaranta senza riferirmi all’immane violenza che colpisce oggi il popolo palestinese. Se tacessi questo riferimento apparirei loro un ipocrita, perché sanno quel che sta accadendo. E come potrò tacere le analogie tra l’assedio di Gaza e l’assedio del Ghetto di Varsavia? È vero che gli ebrei uccisi nel ghetto di Varsavia nel 1943 furono 58.000 mentre i morti palestinesi sono per il momento solo poche migliaia. Ma come dice Woody Allen i record sono fatti per essere battuti. La logica che ha preparato la ghettizzazione di Gaza (che un cardinale cattolico ha definito «campo di concentramento») non è forse simile a quella che guidò la ghettizzazione degli ebrei di Varsavia? Non vennero forse gli ebrei di Varsavia costretti ad ammassarsi in uno spazio ristretto che divenne in poco tempo un formicaio? Non venne forse costruito intorno a loro un muro di cinta della lunghezza di 17 chilometri di tre metri di altezza esattamente come quello che Israele ha costruito per rinchiudere i palestinesi? Non venne agli ebrei polacchi impedito di uscire dai valichi che erano controllati da posti di blocco militari?

Per motivare la loro aggressione che uccide quotidianamente centinaia di bambini e di donne, i dirigenti politici israeliani denunciano i missili Qassam che in un decennio hanno causato dieci morti (tanti quanti l’aviazione israeliana uccide in mezz’ora). È vero: è terribile, è inaccettabile che il terrorismo di Hamas colpisca la popolazione civile di Israele. Ma questo giustifica forse lo sterminio di un popolo? Giustifica il terrore indiscriminato, la distruzione di una città? Anche gli ebrei di Varsavia usarono pistole, bombe a mano, bottiglie molotov e perfino un mitra per opporsi agli invasori. Armi del tutto inadeguate, come lo sono i razzi Qassam o i coltelli da cucina. Eppure nessuno può condannare la difesa disperata degli ebrei di Varsavia.

Cosa posso dire, dunque, nel giorno della memoria? Dirò che occorre ricordare tutte le vittime del razzismo, quelle di ieri e quelle di oggi. O questo può valermi l’accusa di antisemitismo?

Se qualcuno vuole accusarmi a questo punto non mi fa più paura. Sono stanco di impedirmi di parlare e quasi perfino di pensare ciò che appare ogni giorno più evidente: che il sionismo aggressivo, oltre ad aver portato la guerra e la morte e la devastazione al popolo palestinese, ha stravolto la stessa memoria ebraica fino al punto che nelle caserme israeliane sono state trovate delle svastiche, e fino al punto che cittadini israeliani bellicisti hanno recentemente insultato cittadini israeliani pacifisti con le parole «con voi Hitler avrebbe dovuto finire il suo lavoro».

Proprio dal punto di vista del popolo ebraico il sionismo aggressivo del gruppo dirigente di Israele è un pericolo mortale. La violenza degli insediamenti, la violenza dell’operazione Piombo Fuso del 2008 e dei bombardamenti su Beirut del 2006 è segno di demenza suicida. Israele ha vinto tutte le guerre dei passati sessant’anni e può vincere anche la prossima guerra contro una popolazione disarmata. Ma la lezione che ne ricavano centinaia di milioni di giovani islamici che assistono ogni sera allo sterminio dei palestinesi fa nascere in loro un odio che oggi si manifesta nelle forme del terrorismo islamista. Israele può sconfiggere militarmente Hamas. Può vincere un’altra guerra come ha vinto quelle del 1948 del 1967 e del 1973. Può vincere due guerre tre guerre dieci guerre. Ma ogni sua vittoria estende il fronte dei disperati, il fronte dei terrorizzati che divengono terroristi perché non hanno alcuna alternativa. Ogni sua vittoria approfondisce il solco che separa il popolo ebraico da un miliardo e mezzo di islamici. E siccome nessuna potenza militare può mantenere in eterno la supremazia della forza, i dirigenti sionisti aggressivi dovrebbero sapere che un giorno o l’altro l’odio accumulato può dotarsi di una forza militare superiore, e può scatenarla senza pietà, come senza pietà da anni si manifesta l’odio israeliano contro la popolazione indifesa di Gaza.

Erano tre le incostituzionalità di immediata e sfacciata evidenza dell’Italicum.

Al ballottaggio che tale sistema elettorale prevedeva e che è stato soppresso, si aggiungevano (e si aggiungono) sia il premio (per di più esorbitante) del 14 per cento dei 630 seggi della Camera a quella lista che avesse ottenuto il 40 per cento dei voti, sia la nomina a deputati dei capilista (e dei secondi di lista) da parte dei capipartito delle liste che ottenevano seggi all’elezione della Camera dei deputati.

Questo terzo vizio è stato solo ridotto, ma non sanato. È stato invece conservato il cosiddetto premio di maggioranza. Non se ne comprende il perché (che è difficile che ci sia).

Leggeremo la sentenza ma, per ora, non ci convince affatto il rigetto dell’eccezione di incostituzionalità del “premio”.

Non ci convince proprio partendo dalla incostituzionalità, accertata dalla Corte, del ballottaggio per i 340 seggi tra liste che avessero ottenuto anche una bassissima percentuale di voti al primo scrutinio ed anche al secondo, incostituzionalità clamorosamente evidente. Ma lo è perché un meccanismo di tal tipo contraddice la misura del consenso. La misura cioè di quanto è necessario, indefettibile, inalienabile ed incomprimibile in democrazia per l’esercizio del potere. Tanto più se potere normativo, che riguarda quindi lo status di cittadino, i suoi diritti, le sue pretese, i suoi doveri, i suoi obblighi, i suoi oneri.

Non va mai dimenticato, eluso, rimosso, taciuto, sminuito il nucleo duro dei sistemi elettorali, che è quello del consenso numerico certo, da cui deriva la maggioranza reale da accertare a sua volta in modo incontrovertibile, non manipolandola, non falsificandola sostituendo numeri e gonfiando somme.

Se si qualifica negativamente la quantità del consenso espresso col voto in caso di ballottaggio tra liste con ridotto numero di voti sia al primo che al secondo turno ad ogni fine giuridicamente rilevante, deve non diversamente rilevare la quantità del consenso, se si tratta di voti ottenuti da una lista che consegua il 40 per cento dei voti all’elezione della Camera dei deputati. Quale magia espande nell’ordinamento costituzionale italiano, nei rapporti interpersonali, nel futuro dell’italica gente, quel 40 per cento, resta un arcano.

Forse no. Fu del 40 per cento il numero dei voti conseguiti, alle ultime elezioni al Parlamento europeo, dalla lista del Pd. Il 40 per cento dei voti si attribuì in quell’occasione l’ex Presidente del Consiglio Renzi. Che ritenne, con ogni probabilità, che fosse fatale quel numero per lui e ineluttabile per i suoi luminosi successi. Non aveva, invece, e non poteva aver altro ruolo, quel numero, che quello di rivelare la distanza che lo separava e lo separa da quella metà più uno che segna, da sempre, la maggioranza numerica dei voti di ogni aggregata pluralità umana.

Conseguire un numero di voti che si avvicina a quella metà, significa solo che la maggioranza reale, quella vera ha negato a quella più ambiziosa minoranza il potere della metà più uno.

Sovviene un raffronto cui segue una riflessione.

È del 40,89 per cento il numero dei sì al referendum del 4 dicembre contro il 59,11 dei no. Con questo risultato il corpo elettorale ha respinto la legge costituzionale che sconvolgeva l’ordinamento parlamentare della Repubblica, una legge della massima rilevanza costituzionale, certo, ma comunque una legge, una sola legge.

E ora una domanda: un risultato di tal tipo può essere rovesciato, quanto ad effetti, per legittimare una maggioranza parlamentare, un legislatore per cinque anni ? Il 40 per cento di una lista sola o anche di più liste collegate può legittimare l’acquisizione di 340 seggi parlamentari? Tanti quanti necessari – si pretende – per assicurare la governabilità secondo i suoi pasdaran?

A quanto ammonta, di grazia, il costo della governabilità imposto alla democrazia? A quanto ammonta inoltre il prezzo della personalizzazione del potere per la nomina a deputato dei capilista anche se lasciano alla sorte di optare per il collegio di derivazione?

Or son pochi mesi, riconobbi alla Corte costituzionale il merito esclusivo di garante della Costituzione. La legittimazione del premio di maggioranza mi induce ora a riflettere su quel giudizio.

«La Consulta che aveva bocciato le liste bloccate ora partorisce una legge che aumenta il numero di deputati scelti dai capi: potrebbero essere persino tre su quattro».Sembra che siano diventati grandi pasticcioni i giudici della Corte costituzionale. L'irresistibile declino di tutti i cervelli oppure asservimento alla politica? Morale, chi ci rimette è la democrazia.

IlFatto quotidiano, 27 gennaio 2017

È un paradosso, ma capita spesso che le cose abbiano un andamento circolare: quel che resta dell’Italicum, dopo la sentenza della Consulta dell’altroieri, è sostanzialmente un Porcellum 2.0, cioè la legge che la stessa Corte costituzionale aveva bocciato tre anni fa. “È paradossale, ma per certi versi è davvero così”, dice Federico Fornaro, senatore Pd di rito bersaniano, uno di quegli uomini di partito che sa tutto di leggi elettorali in teoria e, soprattutto, in pratica: “Si può dire che, dando quasi per scontato che nessuno prenderà il premio di maggioranza oltre il 40%, nella prossima Camera i deputati nominati dai vertici dei partiti passeranno dal 50-60% dell’Italicum col ballottaggio vigente al 70-75% di questa versione aggiornata dalla Consulta”. In teste significa, come vedremo nel dettaglio, tra i 426 e i 456 parlamentari su 630 totali.

Breve spiegazione. Intanto si parla solo della Camera: in Senato vige infatti un sistema – residuato dalla sentenza con cui la Consulta ha ucciso il Porcellum – in cui si elegge chi prende più preferenze nella singola lista (se ne può esprimere una). Nel 2014 la Corte dichiarò incostituzionali le liste bloccate (in cui cioè si elegge automaticamente dal posto numero 1 in giù), mercoledì ha promosso i “capilista bloccati”: l’unico nominato è il capolista, dal posto numero 2 in poi valgono le preferenze. Quanti sono i capilista bloccati? Tecnicamente parlando 91 per ogni partito, cui aggiungere gli 8 del Trentino Alto Adige e quello della Val d’Aosta, che sono però collegi “uninominali”, cioè con una lista è di un solo nome (poi ci sono i 12 eletti all’estero con un sistema a parte).

Stabilito questo, veniamo ai probabili effetti – sulla base delle intenzioni di voto rilevate dai sondaggi – della legge per la Camera venuta fuori dalla sentenza della Consulta (una soglia di sbarramento bassa al 3% e premio di maggioranza che scatta solo oltre il 40% dei voti). Solo due liste hanno la legittima speranza di eleggere più di 100 deputati (i primi 100 sono infatti i capilista bloccati, cioè nominati dalle segreterie): sono Pd e Movimento 5 Stelle. Per comodità, assegniamo il 30% dei voti a entrambe che, calcolando un generoso 10% di voti dispersi sotto la soglia di sbarramento, gli consente di ottenere circa il 33% dei deputati a disposizione: al massimo 200, insomma, di cui all’ingrosso la metà eletti col voto di preferenza.

Gli altri partiti, al momento, sono tutti lontani dal 15%, che rappresenta con questo modello elettorale la soglia per ottenere 100 deputati. Significa che Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, Nuovo centrodestra e Sinistra Italia avranno nella prossima Camera quasi solo parlamentari nominati: va segnalato che se tutti questi partiti – due dei quali “ballano” attorno alla soglia del 3% nei sondaggi – riuscissero a entrare in Parlamento, si ridurrebbe la quota di eletti di Pd e M5s rispetto all’esempio che abbiamo appena fatto: i nominati, insomma, sarebbero di più rispetto ai 420 abbondanti dello scenario più favorevole.

I sondaggi sono compatibili, insomma, con un risultato che porterebbe a Montecitorio poco meno di 460 deputati nominati, quasi il 75% o, se preferite, tre su quattro. Il conto, ovviamente, scende se il vecchio centrodestra dovesse optare per un listone unico che al momento è poco probabile: anche coalizzato non ha speranza di arrivare al 40% e i dissidi di linea politica tra i vari partiti non paiono sanabili facilmente.
Paradossalmente l’Italicum – che col ballottaggio assegnava il premio di maggioranza in ogni caso – produceva meno nominati della legge lasciata in vigore dalla Consulta (non che questo attenui la natura incostituzionale di quel sistema, ormai acclarata): la lista vincente, infatti, portava a casa 340 deputati solo 100 dei quali nominati. A seconda dei risultati degli altri partiti (ma superare i 100 deputati dovendosi “spartire” solo i restanti 282 eletti in Italia è eventualità assai difficile con una soglia di sbarramento così bassa) la forchetta dei nominati oscilla tra un minimo di 335 (quasi impossibile con le intenzioni di voto di oggi) e un massimo di 360, cioè da poco più del 50% a poco meno del 60% di nominato. Un’enormità, ma comunque meno del sistema prodotto con la sentenza dell’altroieri dalla Corte costituzionale, l’organo che aveva bocciato il Porcellum (anche) perché non consentiva ai cittadini di scegliere chi mandare in Parlamento.

«Per salvare e rilanciare l’Italia occorre rilanciare il concetto dell’interesse pubblico umiliato e sotterrato dalla nostra sciagurata classe dirigente, si chiami essa Pd o Forza Italia»

. Il Fatto Quotidiano/ bolg / di Fabio Marcelli, 27 gennaio 2017 (c.m.c.)

In questi momenti di disagio e sofferenza determinati da eventi catastrofici ma anche da crisi economica e culturale, determinate persone assurgono a simbolo di quello che è nel bene e nel male, il nostro Paese. Soffermarsi a riflettere su questi esempi può essere utile per identificare la via da percorrere se vogliamo risanare, salvare e rilanciare l’Italia (non vuote chiacchiere renziane ma fatti concreti e scelte inevitabili nella giusta direzione).

Cominciamo dagli elementi negativi. Uno dei fattori principali di stress e sofferenza di questi giorni è costituito, a detta delle autorità locali e dei cittadini che hanno la sfortuna di risiedere nelle zone colpite da terremoto e maltempo, è costituito dal funzionamento di un ente fondamentale come Enel che si è rivelato incapace di fornire l’essenziale servizio di fornitura dell’energia elettrica a un numero enorme di famiglie.

Si scopre quindi che la rete elettrica è obsoleta e che elementari operazioni di manutenzione non sono state adeguatamente condotte. Al punto che sono in molti gli amministratori locali e regionali che chiedono oggi esplicitamente la cacciata dell’amministratore delegato Starace mentre si annunciano le prime inchieste penali e sostanziose richieste di risarcimento dei danni. Si tratta d’altronde dello stesso personaggio passato qualche mese fa alla cronaca per aver teorizzato la necessità di terrorizzare gli oppositori interni per affermare il proprio potere. Un programma ben eseguito, sembrerebbe.

Ironia a parte, è chiaro che questo modello di concepire le relazioni aziendali e quelle con il pubblico, basato non sul soddisfacimento dell’interesse generale ma sull’alimentazione del proprio personale potere, è in buona misura alla base di molti fallimenti dell’Italia di oggi. E’ a ben vedere la stessa logica delle privatizzazioni selvagge con le quali si è distrutto un patrimonio pubblico accumulato nel corso di decenni a costo di molti sacrifici. Si tratta quindi di un modello da rovesciare immediatamente. Non solo Starace, del resto, ne è il rappresentante, se è vero che tutti i manager insediati da Renzi sono oggi sotto accusa per una ragione o per l’altra, tutte riconducibili peraltro in ultima istanza a tale modello perversamente autoreferenziale di direzione aziendale.

Un esempio positivo è invece costituito da tutti coloro che, operando in condizioni di estrema difficoltà, sono riusciti a portare aiuto alle popolazioni colpite. In primo luogo l’eroico corpo dei vigili del fuoco e poi anche le forze dell’ordine nel loro complesso e la moltitudine dei volontari, tra i quali voglio sottolineare il ruolo di taluni richiedenti asilo che si sono mobilitati anch’essi con efficacia. Si tratta di categorie bistrattate ed umiliate da tutti i governi. Basti ricordare, per quanto riguarda i vigili del fuoco, la vicenda delle pensioni, con il mancato riconoscimento del carattere usurante delle mansioni svolte, o quella dei rischi ambientali, in particolare dovuti ad esposizione ad amianto, non adeguatamente contrastati.

L’attuale agonizzante governo Gentiloni, nato sulle macerie del renzismo che sarebbe ora di sgombrare definitivamente dalla scena, continua ovviamente a caratterizzarsi per assecondare gli aspetti negativi e frustrare quelli positivi della situazione che stiamo attualmente vivendo. Non è un caso che in Italia oggi prosperino le inaccettabili diseguaglianze sia nel reddito che nel patrimonio. Non c’era del resto da aspettarsi nulla di diverso da un governo che è nato facendo orecchie da mercante rispetto alla richiesta di radicali cambiamenti che è venuta dalla valanga di No al referendum del 4 dicembre. Rovesciare le politiche in questione appare invece sempre di più un imperativo urgente e su ciò devono riflettere ed attrezzarsi le forze dell’alternativa.

Per salvare e rilanciare l’Italia occorre rilanciare il concetto dell’interesse pubblico umiliato e sotterrato dalla nostra sciagurata classe dirigente, si chiami essa Pd o Forza Italia. Sollecitando e gratificando le enormi energie sociali e politiche di lavoratori, giovani e donne oggi disperse e sprecate, cominciando con il referendum contro il Jobs Act e attuando politiche redistributive ed egualitarie. Non c’è bisogno di “uomini forti”. Chi li invoca dovrebbe ricordarsi della storia del nostro Paese.

«È davvero paradossale che un Paese che ha tra le maggiori preoccupazioni per la propria tenuta da un lato la fecondità ridotta, dall’altro la presenza crescente di stranieri portatori di culture diverse, getti via, per un calcolo politico di breve periodo, una opportunità per affrontarle entrambe seriamente».

la Repubblica, 25 gennaio 2017 (c.m.c.)

Sacrificati sull’altare di un possibile compromesso sulla legge elettorale e della rincorsa populistica, ancora una volta i bambini e ragazzi figli di migranti nati e cresciuti in Italia devono rinunciare a poter acquisire la cittadinanza italiana senza dover attendere il compimento della maggiore età.

Il progetto di legge già approvato alla Camera oltre un anno fa sembra definitivamente insabbiato al Senato. Rimandato nei lunghi mesi della campagna referendaria, fermo alla Commissione Affari costituzionali per l’opposizione di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, nel disinteresse dei Cinquestelle, ora sembra diventato, merce di scambio per l’accordo sulla legge elettorale.

Renzi, che da segretario del Pd e presidente del Consiglio aveva, all’inizio del mandato e prima di entrare nel girone infernale della riforma costituzionale, ne aveva fatto uno dei fiori all’occhiello del suo programma, non solo lo ha lasciato al suo destino, non si oppone (per non pensare il peggio) che venga scambiato per ciò che ora gli sta più a cuore: arrivare alle elezioni il più presto possibile, a costo di rimandare sine die una legge di civiltà. Con grande felicità della Lega, che in questo modo coglie due piccioni con una fava - elezioni subito e contrasto duro ai migranti, inclusi quelli che migranti non sono perché nati e cresciuti qui. Un successo che saranno la Lega e gli altri partiti di destra a sbandierare nelle elezioni prossime-future come difesa dell’italianità rispetto all’odiato straniero.

E l’intero iter legislativo dovrà ricominciare da capo, rendendo inutile il lungo processo di mediazione e i molti compromessi restrittivi che avevano portato alla legge approvata alla Camera. Nel frattempo, i ragazzi nati e cresciuti qui, o arrivati da piccoli e andati a scuola qui, dovranno continuare a vivere da stranieri nel Paese che conoscono meglio, in cui vanno a scuola e di cui parlano la lingua a volte meglio di quella del Paese dei loro genitori. Stranieri in casa propria, verrebbe da dire, in bilico tra due mondi cui per motivi diversi non sono pienamente appartenenti: l’Italia, perché rifiuta di riconoscerli come propri cittadini, il Paese d’origine, perché lo conoscono solo in via mediata.

Esclusi dall’appartenenza, dovranno anche stare attenti a non fare passi falsi nella lunga attesa della maggiore età. Se i genitori, come sta capitando in questi anni di crisi, li mandano temporaneamente a vivere con i nonni nel Paese d’origine, rischieranno di perdere il diritto ad accedere a una corsia privilegiata per ottenere la cittadinanza una volta divenuti maggiorenni. A differenza dei loro coetanei italiani, non potranno partecipare a scambi culturali che prevedono mesi all’estero, perché ciò potrebbe inficiare il requisito della residenza ininterrotta in Italia. Se non in possesso di un documento di identità del Paese d’origine (cosa difficile per i rifugiati, ma anche per molti migranti economici), non potranno recarsi all’estero con la loro classe.

È davvero paradossale che un Paese che ha tra le maggiori preoccupazioni per la propria tenuta da un lato la fecondità ridotta, dall’altro la presenza crescente di stranieri portatori di culture diverse, getti via, per un calcolo politico di breve periodo, una opportunità per affrontarle entrambe seriamente. Deludendo sistematicamente le attese legittime di una giovane generazione di stranieri e dichiarandone implicitamente ed esplicitamente l’irrilevanza, si aliena la fiducia di chi potrebbe concorrere sia agli equilibri demografici, sia alla costruzione di una società più integrata e meno divisa in gruppi non comunicanti.

L’unico modo che hanno il Pd e il suo segretario di smentire i sospetti di un patto scellerato è che tutti i suoi senatori chiedano l’immediata calendarizzazione del provvedimento, assumendosi la responsabilità di argomentarne le buone ragioni anche al proprio interno, verso i propri alleati di governo e verso il proprio elettorato, senza farsi ricattare dalle minacce di Calderoli di seppellirli di emendamenti. Altrimenti, oltre al sospetto di cinismo, si avallerà anche quello che il Pd voglia non già affrontare le questioni che, in assenza di attenzione e risposte credibili, alimentano i populismi, bensì cercare di competere su quel terreno con le stesse armi e argomenti di chi ci sta da anni e ne ha fatto la propria cifra.

La sospensione dei diritti degli stranieri e dei migranti (si pensi al progetto di rivitalizzare i Cie o di ridurre le possibilità di appellarsi a decisioni di rigetto della domanda di asilo) come carta da giocare nella competizione politica. Una scelta suicida, perché il terreno è già occupato da giocatori più esperti e spregiudicati.

«La parola "progresso" ha perso il significato univoco dei secoli passati. Oggi la critica alla società del rischio dovrebbe suggerire alla sinistra un altro vocabolario».

il manifesto, 24 gennaio 2017

Nella discussione sulla costruzione di un “campo progressista”, in risposta alla crisi della sinistra, chi ha criticato questa formula ha fatto riferimento al campo, richiamando il centro sinistra e l’Ulivo, più che a progressista, la cui positività è data per scontata.

E lo è stata in effetti per tutto il diciottesimo e per gran parte del diciannovesimo secolo. Con essa si esprimeva la fiducia nel miglioramento continuo della vita umana, sulla base di progressi scientifici e tecnologici, e sullo sviluppo economico conseguente alla nascita dell’industria moderna. La fede nel progresso era la fede nella centralità dell’uomo sulla terra, sia da parte dei laici che dei religiosi, per cui la natura era stata creata per l’uomo.

A dire il vero già nell’800 ci fu chi mise in dubbio questa fede e l’antropocentrismo che la ispirava. Giacomo Leopardi, La ginestra, ironizza su «le magnifiche sorti e progressive» dell’umanità, di fronte al tragico spettacolo de «lo sterminator Vesevo» che spazza via le opere dell’uomo che ha con stolta fede nel progresso disseminato di manufatti - ora diremo che ha cementificato - le pendici del Vesuvio, al cui furore ha resistito solo l’umile fiore della ginestra. La voce di Leopardi rimase per molto tempo isolata. I giganteschi passi avanti nella ricerca tecnica e scientifica, gli spettacolari successi della rivoluzione industriale misero in ombra il radicalismo del pensiero critico del poeta di Recanati.

Ma ai nostri tempi è sorprendente trovare un eco delle tesi dell’ateo e materialista Leopardi nell’Enciclica di papa Francesco, che fra le altre cose sembra farla finita con il tradizionale antropocentrismo della dottrina cattolica. L’uomo più che il centro dell’Universo, dopo Dio si intende, è solo una componente di una natura, che se l’uomo continuasse nella sua opera dissennata trainata dal profitto e dal consumismo, potrebbe addirittura fare a meno di lui.

Il cambiamento cessa in quest’ottica di essere di per sé una cosa sempre positiva, e ancor meno il cambiamento veloce, le decisioni rapide volte all’accelerazione della crescita economica. Siamo entrati nella società del rischio come l’ha definita Ulrik Beck, in cui i rischi sono provocati soprattutto dall’opera dell’uomo, dagli stessi “progressi”, che sia sul terreno socioeconomico, che su quello ambientale, l’umanità ha portato avanti senza curarsi delle conseguenze sulla natura e sulla coesione sociale. Il progresso trova un limite nel principio di precauzione, in cui la positività del cambiamento viene messa alla prova sulla base delle sue conseguenze sulla sicurezza ambientale, sulla salute e sulle opportunità di vita buona che apre o chiude al genere umano.

Oggi i cambiamenti, le riforme appaiono come una cosa che peggiorerà le proprie condizioni di vita e di lavoro.. Zygmut Baumann lo ha detto così: «Il ’progresso’, un tempo la manifestazione più estrema dell’ottimismo radicale e promessa di felicità universalmente condivisa e duratura, si è spostato all’altra estremità dell’asse delle aspettative, connotata da distopia e fatalismo: adesso ’progresso’ sta ad indicare la minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui».

Credo ce ne sia abbastanza per non dare alla parola progressista un significato univocamente positivo. Oltre tutto il campo che definisce risulta connotato quasi per necessità da due altri elementi altrettanto meritevoli di una disamina critica. Perché i progressisti per natura sono governisti, perché è essenzialmente dal governo che si diffondono e si controllano i cambiamenti, e riformisti, tesi cioè a perseguire i cambiamenti conseguibili nel quadro economico dato, da fare evolvere con la necessaria cautela..

Viene in mente a questo punto Enrico Berlinguer che di fronte ai progressisti e ai riformisti del suo tempo non esitò a dichiararsi conservatore e rivoluzionario. Perché la conservazione di un equilibrato rapporto tra l’uomo e la natura, dei nostri beni culturali e ambientali, dei valori della nostra storia, e dei diritti civili e sociali in questa lunga storia conquistati, richiedono la messa in discussione radicale dello stato di cose presente.

«L’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia».

la Repubblica, 23 gennaio 2017 (c.m.c.)

Insieme agli altri decreti attuativi della cosiddetta Buona scuola, è appena arrivato alla Camera anche quello «sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività».

Per la redazione di questo testo, la ministra senza laurea né maturità Valeria Fedeli si è avvalsa della collaborazione dell’ex ministro, ex rettore, professore emerito e plurilaureato ad honorem Luigi Berlinguer: e il risultato dimostra che il punto critico non è il possesso di un titolo di studio.

Sul piano pratico, la principale obiezione al decreto (che tra 60 giorni sarà legge) è che si tratta di un provvedimento a costo zero (art. 17, comma 1): e dunque anche a probabile efficacia zero. Ma, una volta che se ne considerino i contenuti, c’è da rallegrarsene. L’articolo 1 chiarisce i principi e le finalità del provvedimento: «il sapere artistico è garantito agli alunni e agli studenti come espressione della cultura umanistica… Per assicurare l’acquisizione delle competenze relative alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del Made in Italy, le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività».
Cultura umanistica, creatività e Made in Italy (in inglese) sarebbero dunque sinonimi: per conoscere il patrimonio culturale, la Ferrari e il parmigiano (tutto sullo stesso piano) bisogna essere creativi.

Si stenterebbe a credere alla consacrazione scolastica di questo “modello Briatore” se la relazione illustrativa del decreto non fosse ancora più chiara: «Occorre rafforzare… il fare arte, anche quale strumento di coesione e di aggregazione studentesca, che possa contribuire alla scoperta delle radici culturali italiane e del Made in Italy, e alla individuazione delle eccellenze già a partire dalla prima infanzia». Insomma: fin da bambini bisogna saper riconoscere (e, inevitabilmente, desiderare) una giacca di Armani o una Maserati. E visto che si raccomanda «la pratica della scrittura creativa», la via maestra sarebbe fare il copywriter per gli spot, o scrivere concept per reality show, per rimanere alla lingua elettiva del Miur.

Ora, anche ammesso che tra la nostra storia dell’arte e il «Made in Italy» esista un rapporto genetico, ciò non si traduce in un’equivalenza culturale, e tantomeno in un orizzonte formativo. E non è solo un problema di confusione concettuale: la domanda più urgente riguarda il tipo di società prefigurata da questa idea di scuola. Una società in cui non si riesca nemmeno più a distinguere la conoscenza critica dall’intrattenimento, l’essere cittadino dall’essere cliente, il valore delle persone e dei princìpi dal valore delle «eccellenze» commerciali.

Una società dello spettacolo a tempo pieno, un enorme reality popolato da «creativi» prigionieri di un eterno presente, senza passato e senza futuro. Già, perché la creatività ha preso il posto della storia dell’arte, che continua a non essere reintrodotta tra le materie curricolari da cui la Gelmini l’aveva espulsa in vari ordini di scuole.Più in generale, l’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia.

«Il fine delle discipline umanistiche sembra essere qualcosa come la saggezza», scrisse Erwin Panofsky nel 1944. Negli stessi mesi Marc Bloch scriveva, nell’Apologia della storia: «nella nostra epoca, più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria, che vergogna che il metodo critico della storia non figuri sia pure nel più piccolo cantuccio dei programmi d’insegnamento! ». Di fronte al nazismo e all’Olocausto la cultura umanistica sembrava ancora più necessaria: Bloch — fucilato dalla Gestapo perché membro della Resistenza — la definisce «una nuova via verso il vero e, perciò, verso il giusto».

È su questo fondamento che, nel dopoguerra, sono state ricostruite le democrazie europee. È per questo che la nostra Costituzione impone alla Repubblica di promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca». La necessaria scommessa di un umanesimo di massa è infatti quella di riuscire a praticare tutti, anche se in dosi omeopatiche, le qualità della ricerca: precisione, desiderio di conoscere e diffondere la verità, onestà intellettuale, apertura mentale. Per secoli si è creduto, a ragione, che queste virtù non servissero solo a sapere più cose, ma anche a diventare più umani: e che dunque non servissero solo agli umanisti, ma a tutti. E oggi sono il presupposto necessario perché le democrazie abbiano un futuro.

Essere umani — ha scritto David Foster Wallace nel 2005 — «richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri... Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo». Formare gli italiani del futuro al marketing del «Made in Italy»; indurli a coltivare la scrittura creativa e non la lettura critica di un testo; levar loro di mano i mezzi culturali per distinguere la verità dallo storytelling, o per smontare le bufale che galleggiano in Internet; annegare la conoscenza storica in un mare di dolciastra retorica della bellezza: tutto questo significa scommettere proprio sull’inconsapevolezza, sulla modalità predefinita, sulla corsa sfrenata al successo.

La cultura umanistica è un’altra cosa: è la capacità di elaborare una critica del presente, di avere una visione del futuro e di forgiarsi gli strumenti per costruirlo. Siamo sicuri di non averne più bisogno?

Dalle donne degli USA e del mondo la prima risposta di massa al trumpismp. Articoli di Geraldina Colotti, Bia Sarasini, Marina Catucci. Presenti anche i maschi e altre minoranze.

il manifesto, 22 gennaio 2017


WASHINGTON È ROSA:
IN 600MILA SFIDANO TRUMP
di Marina Catucci
Stati Uniti. Donne, uomini, etero, gay, bianchi, neri alla Women’s March. «La resistenza comincia oggi», lo slogan di un corteo senza fine. Non solo la capitale: cortei anche nel resto degli States a Boston, New York, Chicago, Los Angeles. Una manifestazione lunghissima, incredibilmente numerosa, una città invasa di berretti rosa, simbolo de facto di questa marcia storica che ha invaso Washington ed è stata presente a New York, Chicago, Los Angeles, Boston ma anche a Sidney, Tokyo, Parigi.

La Women’s March, nata dall’idea di un gruppo di donne hawaiane due giorni dopo l’elezione di Trump, in poco tempo ha raggiunto una dimensione tale da non poter essere ignorata ed ha attratto l’adesione di praticamente tutte le associazioni americane che si occupano di diritti civili.

«Ogni volta che si fa un corteo serve un permesso del comune, per ogni gruppo che aderisce al corteo – dice Tim, 62 anni che lavora al comune di Washington ed è sceso a manifestare alla Women’s March – Questa volta abbiamo rilasciato più di 100 permessi».

Nella sola Washington, dove si aspettavano 200mila persone ne sono arrivate più del doppio, si parla di una folla di quasi 600mila composta da donne, uomini, americani, stranieri, etero, gay, tutti a dire che la resistenza comincia ora, che i diritti delle donne sono diritti civili e come tali verranno difesi.

«Sono ebrea ed ho 78 anni – dice Ruth – I miei genitori sono scappati dalla Germania nazista, io ho vissuto gli anni ‘50. Tesoro, quando vedo un fascista e un misogino lo riconosco, e lo combatto».

Per raggiungere il comizio che ha preceduto l’inaugurazione l’unico mezzo era arrivarci a piedi, le metropolitane, con i treni e le piattaforme stracolme di gente, non si fermavano alle fermate più vicine il concentramento in quanto la zona non poteva più accogliere altre persone.

Per cui una fiumana di gente rimasta a piedi ha composto svariati cortei di fatto che da vari punti, ben lontani da dove si sarebbe tenuto il comizio, è confluita nella zona prevista, senza poter arrivare nemmeno minimamente vicino al palco.

Sullo stage si sono alternati vari personaggi davanti all’immensa folla festante in modo liberatorio dopo la pesantezza della giornata precedente.

«Siete tantissimi, siamo tantissimi – ha detto Michael Moore evidentemente emozionato – ed ora bisogna continuare. Io, non ci crederete, sono un uomo timido, quando ho cominciato a fare ciò che faccio, in Michigan, avevo bisogno di ore per vincere la timidezza, e questo è ciò che ora dovremo fare tutti quanti, anche voi, è importante vincere le proprie resistenze e mettersi un gioco. In special modo politicamente: entrare nel gioco politico locale, la politica locale è fondamentale, difendete il vostro quartiere, la vostra città, questo difenderà il paese».

Uno degli interventi più applauditi è stato quello della giovanissima Sophie Cruz, 8 anni, diventata famosa quando, durante la visita del papa a Washington nel 2015, era riuscita a scivolare tra le transenne, abbracciarlo e consegnargli a una lettera scritta a mano con un appello per la riforma dell’immigrazione, in quanto i suoi genitori sono illegali.

La paura personale di Sophie per la deportazione dei suoi genitori l’ha resa una delle voci più giovani del movimento di riforma dell’immigrazione. La leader femminista Gloria Steinem ha descritto la mobilitazione in tutto il mondo come «il rialzo del rovescio della medaglia: si tratta di una iniezione di energia e di democrazia, come non ho mai visto nella mia vita, una vita molto lunga».

«A volte dobbiamo mettere i nostri corpi fisicamente là dove sono le nostre convinzioni – ha aggiunto – in special modo ora, con Trump che è un presidente impossibile».

Il colpo d’occhio che si vedeva per le strade di Washington era quello di un fiume rosa, formato principalmente dai cappellini di lana con le orecchie da gattino, pussy in inglese, o vagina, in riferimento a uno dei peggiori commenti di Trump riferiti alle donne. Moltissimi uomini si sono presentati con questo cappello, fieramente.

«Questo l’ha fatto mia moglie – dice Mitch, 35 enne della Virginia – È un simbolo fantastico anche perché fatto a mano, così come questa nazione, fatta dalle mani degli americani, quelli che sono in piazza oggi è che saranno in piazza per i prossimi 4 anni, se necessario anche tutti i giorni».

Gli slogan che risuonavano più frequentemente non è di timore, come invece nelle manifestazioni precedenti, ma di lotta. «La resistenza comincia», hanno detto tutti gli speaker dal palco .

«La resistenza comincia», ha detto l’attrice Ashley Judd, prima di cominciare il suo discorso sul significato dell’essere una donnaccia, una nasty woman, cattiva, così come Trump si era riferito ad Hillary Clinton durante un dibattito. «Io sono una nasty woman – ha affermato – ma ora vi dico cosa non fa una nasty woman», ed ha continuato elencando tutte le malefatte dei componenti del gabinetto di Trump, interrotta continuamente dal boato della folla che a quel punto era incontenibile e si espandeva in tutte le vie intorno la piazza.

«Manifestanti, non fate errori – ha detto dallo stesso palco l’attrice America Ferrera – Tutti noi, ognuno di noi, siamo tutti sotto attacco. La nostra sicurezza le libertà sono in estremo pericolo». Il messaggio di Ferrera era palpabilmente ricevuto, molti nel corteo indossavano sombreri, simboli nativi americani, magliette di Black Lives Matter.

Quando arriva l’ora della partenza del corteo in realtà il corteo è cominciato da un pezzo, le persone non hanno mai smesso di sfilare, ci sono manifestanti in ogni via di Washington.

«Chissà che twitterà oggi Trump – dice Ira, afro-americana – Forse farà finta di niente, ma è qua a Washington, se ha delle orecchie ci sente». Ignorare questa folla sarà difficile, Trump potrà provarci ma dovrà fare grossi sforzi, nessuno sembra intenzionato a restare a casa e tranquillamente guardarlo fare a pezzi i diritti civili.

UOMINI CHE MARCIANO
CON LE DONNE
di Marina Catucci

Tante donne, ma anche tantissimi uomini hanno partecipato ieri alla Women’s March: «È solo questione di tempo – dice Sam, giovane padre che indossa il berretto rosa e il rossetto mentre spinge il passeggino – Io sono un uomo bianco eterosessuale, la specie più protetta, ma ho portato qua mio figlio per insegnargli a rispettare le donne e per fargli capire che, se a una parte della società tolgono dei diritti, siamo tutti in pericolo».

UN PROGRAMMA POLITICO
CHE PARLA A TUTTE E A TUTTI
di Bia Sarasini

Sono centinaia di migliaia le manifestanti che, insieme a tantissimi uomini, si sono riversate per le strade di Washington, rispondendo all’appello della Women’s march contro Donald Trump. Si sono superate così le più rosee previsioni della vigilia, che stimavano 200.000 persone. Mentre altre centinaia di migliaia si sono radunate in altre città degli Stati Uniti, come Boston, ma anche nel resto del mondo. Una marcia che è stata caratterizzata da un programma politico inedito, che dai diritti delle donne si allarga e include tutte le minoranze.

Tutti coloro che sono oggetto di ingiustizie sociali minacciati dal feroce populismo di Trump.

Un atto esemplare della politica femminista di nuova generazione, che forte di una mobilitazione femminile travolgente parla a tutte e tutti. La marcia, dice il testo «è un movimento guidato da donne che porta nella capitale persone di ogni genere, razza, cultura, appartenenza politica, per affermare la comune umanità e un messaggio di resistenza e auto-determinazione».

«Raccogliamo l’eredità – prosegue l’appello – dei movimenti suffragisti e abolizionisti, dei diritti civili, del femminismo, dei nativi americani, di Occupy Wall Street», si riconoscono, tra le altre, leader come bell hooks, Gloria Steneinem, Betha Caceres, Audre Lourde, Angela Davis.

Al centro le differenze economiche, le differenze tra le donne di colore e quelle bianche, le disparità economiche tra razze e sessi. E si sostiene la libertà riproduttiva, e la libertà di scegliere il genere, e i diritti lgbtq.

Ma non solo. «Riconosciamo – scrive il documento – che le donne di colore sostengono il maggior peso del lavoro di cura, in patria e nel mondo globale. Sosteniamo che il lavoro di cura è lavoro, un lavoro quasi tutto sulle spalle delle donne, in particolare donne di colore».

Inoltre il testo sostiene un’economia giusta, trasparente e equa. E sostiene che tutti i lavoratori, compresi i lavoratori domestici e i contadini, hanno il diritto di organizzarsi e di lottare per un salario equo, compresi gli immigrati senza documenti.

«Crediamo – scrivono – che migrare è un diritto umano e che nessun essere umano è illegale».

Un programma ampio, complesso, che è una grande novità politica. Dal classico «i diritti delle donne sono diritti universali», si fa programma politico generale che guarda a tutta la società e propone un’alleanza a tutte le minoranze minacciate dal nuovo presidente. In tutto il mondo.

Il contrario del radical chic. Hanno partecipato attrici come Scarlett Johansson, Ashely Judd, ma anche una delle madri del femminismo come Gloria Steinem, il super-attivista Michael Moore.

E non è mancata l’irriverenza femminista, il pussy-hat (pussy sta per vagina), il cappello rosa sfoggiato dalle manifestanti, che è servito a raccogliere i fondi necessari.

IN MARCIA NEL MONDO
CONTRO IL TRUMP-MACHISMO
di Geraldina Colotti

Lo sfacciato maschilismo del neo presidente Usa ha unito le donne di tutto il mondo, che ieri hanno manifestato in oltre 600 piazze dei cinque continenti. Ad accompagnarle, le comunità Lgbt, quelle per i diritti civili e molti uomini, che hanno sfilato in ogni paese, dall’Australia alla Nuova Zelanda, dall’America latina all’Europa. La «Women’s march» contro le discriminazioni di genere ha portato in piazza milioni di persone: a Parigi, a Berlino, a Roma, a Pristina (in Kosovo), a Buenos Aires, ad Accra (in Ghana), a Nairobi (in Kenya, dove si trovano le «radici» di Obama). Sono arrivate immagini persino dall’Antartico.

Milioni di berretti rosa, per riprendere i simboli lanciati dalle statunitensi, hanno unito la protesta contro le discriminazioni di genere a quella per la difesa dei diritti globali. Molti anche i cartelli contro la repressione e il militarismo, in una gara di creatività stimolata dal grottesco personaggio Trump.

Trump, «You are not my president», dicevano i cartelli in Australia e in Nuova Zelanda, moltiplicando il grido delle donne statunitensi. Migliaia di persone hanno sfilato a Sydney e a Melbourne, a Wellington e Auckland. In Sudafrica, qualche centinaia di persone ha marciato a Durban per dire che «nella nostra America, siamo tutti uguali».

A Parigi hanno sfilato almeno 7.000 persone chiedendo «respect pour les femmes américaines»: rispetto

per le donne americane, ferite dalle dichiarazioni e dai comportamenti del miliardario Usa. Marce di protesta anche in altre città francesi, e cartelli di solidarietà per «le sorelle nere, lesbiche e trans che dovranno vivere per quattro anni con un presidente che avversa i loro diritti e la loro esistenza».

Ad Amsterdam, circa 4.000 persone si sono scambiate «coccole gratuite» (free Hugs) davanti al consolato Usa. Alcuni hanno innalzato cartelli contro «l’odio, il razzismo, il sessismo e la paura», altre pancarte dicevano «Make America sane again», invitando l’America a tornare alla ragione. E ancora: «Donne, non oggetti», uno degli slogan della pagina Facebook da cui è partita la protesta delle donne statunitensi. Tra le «perle» vomitate da Trump nei mesi di campagna e prima, c’è stata infatti anche quella secondo cui «le donne sono dei begli oggetti», da prendere per la vagina.

A Ginevra, circa 2.500 manifestanti di ogni generazione hanno sfidato il freddo per gridare: «Ponti e non muri», per rivendicare la disobbedienza («la resistenza è un dovere quando l’ingiustizia diventa legge»), o per ricordare che «il cambiamento climatico è reale». A Berlino, i dimostranti (circa 700) si sono ritrovati davanti alla porta di Brandeburgo, di fronte all’ambasciata Usa, per gridare «Il popolo unito non sarà mai battuto». A Praga, il giovane cantautore Adam Misik, idolo dei giovanissimi, ha cantato «Let It Be», dei Beatles, ripresa da circa 300 manifestanti. E a Lisbona, diverse centinaia di persone, statunitensi e portoghesi hanno gridato davanti all’ambasciata Usa che «Trump è una vergogna per l’America» e «No alla violenza sulle donne». Dello stesso tenore le manifestazioni a Barcellona.

A Roma, oltre 500 le manifestanti che si sono ritrovate davanti al Pantheon insieme a numerosi uomini: per condividere i temi della «Women’s march», per dire «no alla guerra» (rete Wilpf), e ribadire il No alla violenza sulle donne, che ha di recente portato in piazza oltre 200.000 donne. Un movimento globale, che sta unificando i contenuti forti di un nuovo mondo in cammino, provando ad amplificare la voce di tutti i sud del mondo.

Anticipato dallo sciopero generale delle donne polacche, lo sciopero globale ha spinto tutte ad astenersi da ogni tipo di attività: in un’azione mondiale che ha raccolto la proposta delle donne latinoamericane, iniziata dalle argentine. Un’iniziativa che si ripeterà per l’8 marzo al grido di «Non una di meno» e che – per l’Italia – porterà a una nuova tappa il lavoro dei tavoli tematici nati dal 26 novembre e dal prossimo appuntamento di Bologna, il 4 e 5 febbraio.

Le donne latinoamericane sono state presenti anche ieri, coniugando i temi di genere a quelli della dignità, del lavoro, dei diritti umani e dell’antimperialismo. In Argentina, la protesta contro Trump si è unita a quella contro il miliardario presidente Macri, che governa a colpi di privatizzazioni e licenziamenti. Si è manifestato anche contro la visita del presidente messicano Peña Nieto e contro le basi militari Usa, già decise da Macri e Obama e di certo confermate da Trump.

«il manifesto, 21 gennaio 2017

Centinaia di persone – gli organizzatori azzardano la cifra ragguardevole di mille uomini e donne – che prendono appunti per cinque ore al giorno sulle relazioni che hanno come oggetto il comunismo.

È questa la prima immagine che emerge nel convegno in corso a Roma – tra la Gnam e lo spazio occupato Esc Atelier – che ha visto alternarsi sui due palchi filosofi, sociologi, antropologi ed economisti provenienti oltre che dall’Italia, da Australia, Stati Uniti, America Latina, Russia, Francia, Germania, Inghilterra.

La seconda immagine è la eterogeneità generazionale. Giovani uomini e donne di venti, trenta anni assieme a chi ha attraversato altri decenni. Infine, molti dei partecipanti non sono solo italiani.

I temi affrontati finora hanno molto a che fare con la storia, anzi le storie dei vari movimenti comunisti. La critica dell’economia politica, il concetto di proletariato, l’esperienza dei socialismi reali. Ma nel convegno non c’è nostalgia del passato: tutti i relatori, e molte delle domande emerse nei workshop svolti alla Gnam, invitano a guardare al futuro e a pensare una trasformazione radicale dell’esistente, che segua strade nuove. Il pubblico è parco di applausi facili. Ascolta in silenzio e con una attenzione che meraviglia – per primi gli stessi organizzatori, i quali per oltre un anno si sono incontrati e hanno discusso su come poter parlare del comunismo. In base a quello che è accaduto nei primi due giorni, l’obiettivo è stato raggiunto.

Lo ha anche sottolineato Toni Negri prima di prendere la parola in una sala strapiena e con altrettante persone che sono rimaste in strada senza riuscire a entrare. Se ci sono momenti come questi, ha affermato Negri, vuol dire che non tutto è perduto, come sostengono i cantori del capitalismo.

I relatori, spesso, hanno una lunga militanza politica e teorica alle spalle. Verso di loro molte le manifestazioni di affetto, segno di un riconoscimento per una scelta di vita perseguita con coerenza. È stato così con Luciana Castellina che, nel giorno di apertura con passione ha difeso una scelta di vita e di militanza comunista. Castellina ha però sgomberato il campo da ogni equivoco. Il comunismo storico è cosa finita, bisogna pensare ad altre forme della politica per conseguire l’obiettivo di una società di liberi ed eguali, ma se quella esperienza va considerata chiusa, ciò che invece non può essere archiviata è la storia dei comunisti, cioè di chi in nome della propria visione del mondo ha messo a rischio la vita, il lavoro, gli affetti.

Tutto può essere ripensato, ma quelle storie individuali vanno ricordate, rispettate: senza di esse non saremmo qui a pensare le sconfitte, le vittorie e il come ripartire. È in questo passaggio che è partito il primo lungo applauso che ha accompagnato il suo intervento. Eppure, l’intervento di Castellina non è stato l’unico ascoltato quasi in religioso silenzio. Anche quelli di Mario Tronti e Maria Luisa Boccia sono stati diligentemente appuntati.

Tronti ha presentato la sua sofferta riflessione sulla sconfitta dell’idea comunista. Il mondo che vede dipanarsi davanti gli occhi non gli piace, è scettico se non all’opposizione verso chi prova a sbrogliare la matassa del presente facendo leva su una idea plurale di comunismo e di marxismo.

Maria Luisa Boccia, invece, ha messo sul piatto della bilancia il rapporto e le differenze tra il comunismo e il femminismo, due esperienze che hanno scandito la prima e la seconda metà del Novecento.

L’ultima, maliziosa, immagine di questa iniziativa è che il comunismo da queste parti è un oggetto pop. Non c’è però nessuna aura vintage nella platea, a partire dagli sforzi fatti dai relatori per misurarsi con il presente.

L’elezione di Donald Trump, il populismo xenofobo in ascesa, una crisi economica che mette in ginocchio economie nazionali. Un lavoro frantumato nelle prestazione lavorativa e nei diritti.

È questo il mondo dove i più giovani sono cresciuti, cioè un mondo dove la parola comunista evoca ere lontane nel tempo. E per questo concedono l’applauso a chi parla di precarietà, di sessismo, di razzismo. L’invito di Franco Berardi Bifo è quello di passare a loro il testimone. Un intervento coinvolgente, il suo, accolto anche con scetticismo da chi non crede che il problema del comunismo sia una questione di generazioni passate (Riccardo Bellofiore).

Ieri è stata la volta di Christian Laval e Pierre Dardot, che a Marx hanno dedicato lavori importanti, tra i quali Karl, prenome Marx, uno dei testi più interessanti usciti negli ultimi anni sull’opera del filosofo di Treviri. Che come un fantasma si aggirava nei locali della Gnam e di Esc. Ma non destava paura, bensì la curiosità di poterlo finalmente – e nuovamente – spendere come compagno di strada in quel movimento che abolisce lo stato di cose presenti.

».

Sbilanciamoci info online, 19 gennaio 2017 (c.m.c.)

Lavorare nei beni culturali in Italia, si sa, è complicato. Qualche anno fa con brutale chiarezza l’allora Ministro dell’Economia Tremonti ebbe a dichiarare che «con la cultura non si mangia». La vicenda che coinvolge i lavoratori della Reggia di Venaria, ex residenza reale dei Savoia in Piemonte, è esemplificativa della precaria condizione di chi oggi lavora nel settore culturale.

Mentre il 29 dicembre dello scorso anno la dirigenza della residenza sabauda festeggiava il milionesimo visitatore del 2016, il sindacato USB – che organizza la maggior parte dei 95 lavoratori cui sono affidati i servizi esternalizzati della Reggia – proclamava il decimo sciopero di una vertenza cominciata nella scorsa primavera.

Dopo anni di abbandono e incuria, la Reggia ha riaperto nel 2007. Sin da allora si decise di esternalizzare i servizi di sorveglianza, assistenza, custodia, accoglienza, biglietteria, call center e attività didattiche essenziali per il funzionamento della struttura. Per il consorzio che gestisce la Venaria Reale (un ente partecipato dal Ministero dei beni culturali, dalla Regione, dal comune di Venaria e dall’onnipresente Compagnia di San Paolo), è un modo molto comodo per godere dei benefici dei servizi dei lavoratori in outsourcing senza avere l’onere della gestione delle loro questioni lavorative.

Per circa un centinaio di lavoratori e lavoratrici questo significa invece che ad ogni cambio di appalto, all’incirca ogni quatto anni, c’è il rischio concreto di rimanere a casa o di vedere ridotto il proprio stipendio. Una situazione che si è concretizzata nella primavera del 2016, quando è stato pubblicato il bando per il rinnovo dell’appalto dei servizi esternalizzati.

I lavoratori in outsourcing avevano immediatamente segnalato il taglio delle ore messe in appalto, che significava quasi certamente una riduzione del loro orario di lavoro e quindi degli stipendi. Inoltre non veniva specificato il contratto di categoria che sarebbe stato applicato, il che sollevava il sospetto che ci fosse l’intenzione di sbarazzarsi del contratto Federculture, conquistato dopo una lunga lotta che finalmente aveva equiparato la situazione contrattuale fra lavoratori esternalizzati e quelli assunti direttamente dalla Reggia.

Tutte previsioni che si sono puntualmente verificate, nonostante i numerosi scioperi e il tentativo da parte dell’USB di bloccare il bando per vie legali. CoopCulture, cooperativa vincitrice dell’appalto che fattura oltre 43 milioni di euro e che opera anche in tanti altri beni culturali in Italia, applica ad oggi ai lavoratori il contratto multiservizi: minor paga oraria, nessun supplemento domenicale e abolizione dei buoni pasto. A questo si aggiunge una riduzione dell’orario fino al 20 per cento. Il risultato è un taglio del salario che, secondo quanto riportano i lavoratori esternalizzati, va dai 200 ai 400 euro. Una situazione insostenibile, il tutto mentre il numero di visitatori continua a salire e la Reggia è sempre più il fiore all’occhiello del sistema culturale piemontese.

Il 6 gennaio USB ha pertanto proclamato un nuovo sciopero. CoopCulture ha risposto precettando 23 lavoratori, grazie alla legge del Ministro alla Cultura Franceschini, che equipara i musei a servizi pubblici essenziali come gli ospedali o le scuole. Contrariamente a quanto avvenuto in precedenza, quando alcuni spazi espositivi erano rimasti chiusi, il Consorzio che gestisce la Venaria Reale non aveva però annunciato nessuna chiusura. Il perché si è capito nella mattinata dell’Epifania, quando gli scioperanti si sono accorti della presenza di lavoratori esterni, che CoopCulture ha assunto con un contratto giornaliero e che hanno garantito l’apertura dell’intero complesso, di fatto neutralizzando lo sciopero.

Il sindacato ha immediatamente denunciato ai carabinieri quello che considera un evidente comportamento antisindacale, presentando anche un esposto alla Commissione di Garanzia e all’Ispettorato del Lavoro. CoopCulture si è difesa sostenendo che non si sia trattato di un’illegale sostituzione di personale in sciopero, ma «di un potenziamento già previsto e concordato con il Consorzio per i fine settimana e i ponti di maggior richiamo turistico».

Una posizione poi ribadita in un comunicato stampa del 17 gennaio. Nell’attesa che gli organi competenti facciano chiarezza, rimane una contraddizione evidente: perché tagliare le ore a chi lavora nella Reggia da anni, per poi assumere lavoratori con contratti a giornata per coprire i buchi di organico? Se davvero si pensa che i musei e i beni culturali siano servizi pubblici essenziali come gli ospedali, non si dovrebbe allora porsi l’obbiettivo che essi forniscano condizioni di lavoro giuste e dignitose per chi vi lavora? Sono domande per cui urge una risposta, anche e soprattutto da parte di chi sogna il turismo come volano per l’economia regionale e non solo.

«Una riflessione di Federico Palla, abitante dell'ecovillaggio e scuola di Naturopatia Lumen, sul metodo del consenso adottato dalla sua comunità per prendere decisioni paritarie e collettive».

Terranuova online, 20 gennaio 2017 (c.m.c.)

«È mattina nel salone di meditazione, un raggio di sole illumina una vasca di rame al centro della stanza: acqua e fuoco, fiori e bastoni sono disposti armoniosamente. Iniziamo a mettere i cuscini sul pavimento, a formare un grande cerchio che contenga una trentina di persone. Stiamo preparando un LUMEN DAY, giornata periodicamente dedicata a prendere decisioni insieme, per il futuro del nostro villaggio.

L'immagine del cerchio di parola è affascinante, mi ricorda i film sugli indiani d'America o i documentari sulle tribù indigene che vedevo da piccolo. Questo riunirsi in cerchio, suggerisce da subito un'idea di uguaglianza tra persone responsabili; sedersi tutti per terra e in posizione scomoda allena la pazienza; guardarsi negli occhi permette di sentirsi unità; la parola che fa il giro del cerchio permette la partecipazione di tutti. In un'immagine sola sono racchiusi tanti elementi di un articolato processo decisionale chiamato "metodo del consenso".

Il metodo del consenso viene spesso utilizzato negli ecovillaggi e nelle piccole comunità intenzionali, ma anche in tante altre esperienze sociali che non comportano necessariamente la convivenza. L'obiettivo è arrivare a prendere decisioni condivise da tutti i componenti del gruppo.

Quello che voglio presentarvi è la nostra particolare esperienza maturata in LUMEN dopo più di vent'anni di convivenza. Così come lo intendiamo noi, il metodo del consenso stimola la responsabilità dei suoi componenti e richiede che vengano sviluppate alcune specifiche qualità umane. Oltre a quelle richiamate prima, è fondamentale imparare ad ascoltare.

Consenso deriva infatti dal latino cum sentire ovvero sentire insieme: stimola le persone ad ascoltarsi con attenzione, sia dentro che fuori. E questo è un vero e proprio lavoro interiore, poiché meccanicamente siamo portati a voler aver ragione e a non ascoltare le ragioni degli altri.

Il metodo del consenso aiuta a costruire decisioni migliori: trovando il consenso unanime vengono sostenute e applicate da tutti; sono migliori perché prendono in esame più punti di vista, tendono quindi ad essere più oggettive e lungimiranti; sono solide perché contengono in sé le soluzioni ai possibili ostacoli emersi durante il confronto allargato.

Inoltre, attraverso il confronto necessario alla loro elaborazione, contribuiscono al rafforzamento della comunità e alla crescita dei membri del gruppo.
E' possibile essere sempre tutti d'accordo?

Questa domanda mi è stata fatta più volte e nasconde spesso due sentimenti: incredulità e timore.

Siamo nati e cresciuti in un sistema dove è normale che la maggioranza "schiacci" la minoranza, dove l'obiettivo principale non è risolvere i problemi, ma vincere la competizione. Ed è così a tutti i livelli, dal Parlamento fino alla più piccola assemblea condominiale.

Questa abitudine al disaccordo induce a pensare che non sia concretamente possibile prendere decisioni in accordo con tutti. Nasce quindi il timore che il metodo del consenso in realtà nasconda una maggioranza persuasiva e una minoranza che tende a delegare e a conformarsi al gruppo, per timore di esporsi.

Il rischio che il metodo non funzioni è reale. D'altronde anche su un sentiero di montagna il rischio di cadere da un dirupo è reale: per tale ragione è fondamentale essere attenti e conoscere in anticipo i possibili pericoli del sentiero. Chi si fa male in montagna di solito sottovaluta i rischi. Lo stesso si può dire per il metodo del consenso: bisogna documentarsi, imparare da chi lo fa da anni e fare esperienza.

E alla fine, come in montagna, i risultati che si ottengono ripagano la faticosa salita.
Ecco 7 cose da mettere nello zaino prima di partire:

Per far funzionare al meglio questo processo, è opportuno che alcuni membri ricoprano ruoli specifici, così come è opportuno scegliere tecniche e strumenti adatti al tipo di gruppo e al tipo di decisioni da prendere».

«Non facciamoci confondere dal gioco linguistico di Giovanardi che lo etichettò come tossicodipendente, anoressico… Un gioco per allontanarlo da tutti noi. Per farci pensare che a noi e alla gente che frequentiamo non succedono quelle cose lì».

comune info newsletter 20 gennaio 2017

Stefano Cucchi viveva nella mia borgata, quella dove sono nato e vivo ancora. È stato arrestato all’Appio Claudio dove porto i bambini a fare i giri in bicicletta, nel quartiere dove è cresciuto mio padre, dove c’è il mercato coperto e una vecchia che vendeva la frutta strillava “mandarini!” con una voce che sembrava uscire da un enorme imbuto di ferro. Ma pure la pizza bianca c’era, quella rossa e quella con la mortadella. Io volevo quella con la mortadella da ragazzino.

“Quando si muore si muore soli” cantava De André mezzo secolo fa. E Stefano è morto solo. Se accanto a lui c’era qualcuno è molto probabile che non l’abbia aiutato. Almeno non l’ha aiutato a vivere.

Lo so che non conta molto che io e Stefano ci siamo incontrati al bar e ignorati ognuno davanti al proprio caffè, che abbiamo comprato il pane allo stesso banco del mercato coperto o abbiamo attraversato la stessa strada nella stessa giornata. Lo so e tantomeno conta pensare che oggi avremmo quasi la stessa età. Ma prendetelo come un gioco. Invece di allontanarle da noi, cerchiamo di avvicinarcele queste storie. Cominciamo a pensare che al posto di Stefano potevo starci io. Io al posto di Aldo Bianzino e mio figlio al posto di Federico Aldrovandi. Io al posto di Giuseppe Uva e mio padre al posto di Michele Ferulli. Eccetera. Non facciamoci confondere dal gioco linguistico di Giovanardi che lo etichettò come tossicodipendente, anoressico… Un gioco per allontanarlo da tutti noi. Per farci pensare che a noi e alla gente che frequentiamo non succedono quelle cose lì. E che, forse, quella gente se le va a cercare certe rogne.

No. Un esercizio di civiltà è sentirsi come lui. Pensarsi dove lui passava le giornate. Lui e tutti gli altri che vengono raccontati come “strani”, “diversi”, “mostri”. Anche io mi ci sento un po’ strano e pure diverso. Ma poi ho tutta una vita da condividere con gli altri e non ce la faccio a pensare che la morte di Stefano riguardi solo lui. Questo è un gioco sporco che facevano i nazisti quando chiamavano “pezzi” gli internati nei campi. Lo hanno fatto gli hutu che in Rwanda hanno massacrato un milione di tutsi: li chiamavano scarafaggi. Non sarebbero stati in grado di uccidere un milione di persone come loro, ma pensarli come un milione di scarafaggi li ha aiutati!

Qui ci sarebbe da aprire un discorso complicato: come è possibile che degli esseri umani come Stefano, come me, come tutti noi lo abbiano abbandonato e fatto morire? Dentro questo discorso ci dovremmo mettere i processi, la disciplina e le regole (scritte e non scritte) delle persone in divisa e degli uomini che prendono decisioni importanti nei tribunali, l’antropologia… Un discorso troppo complicato per me e forse anche per un blog che dopodomani non leggerà più nessuno.

Ma un fiammifero per Stefano vorrei accenderlo, una proposta. A partire dalla sua storia (e dalla titanica lotta della sorella Ilaria) facciamo lo sforzo di pensarci accanto a lui e a loro. Lungo la stessa strada, con le stesse possibilità, la stessa gioia e gli stessi errori. Nello stesso destino.

Lettera43 online, 17 gennaio 2017 (c.m.c.)

Non è una novità. E dunque non c’è da stupirsi. Occorre invece sforzarsi di capire. O, come diceva Spinoza, «non ridere, non piangere, non detestare, ma comprendere». Difficile, in questo caso, non piangere e, soprattutto, non detestare. Dal 1989 a oggi l’offensiva del capitale ai danni del lavoro procede ininterrottamente, inanellando un successo dietro l’altro: quelle che si chiamano abitualmente “riforme” – l’hanno capito ormai pure i bambini – sono tali solo per la parte del capitale. Di conseguenza, hanno come obiettivo puntualmente raggiunto la decomposizione dei diritti, delle conquiste dei lavoratori e delle tutele del mondo lavorativo.

L'ipocrisia di chi parla di "riforme". Basterebbe avere, in fondo, l’onestà per chiamare le cose con il loro nome: senza usare formule patetiche e ingannatorie come “riforme”, “Jobs act”, e via discorrendo, di ipocrisia in ipocrisia. È questa, in breve, la storia reale dal 1989 a oggi, al di là della lieta narrazione che canta un mondo di libertà e democrazia.

Quale libertà, in effetti, per i lavoratori ridotti all’umiliazione permanente del voucher? Il voucher offende la dignità umana e segna l’apice dell’alienazione, giacché riduce il lavoratore a merce disponibile, sottopagata e supersfruttata, alle dipendenze della volontà padronale. Non serve – come falsamente si dice – a evitare il lavoro in nero: serve, invece, a evitare contratti regolari, tutelati e dignitosi.

Voucher, lavoro non pagato (modello Expo di Milano), contratti intermittenti, stage come corvée postmoderne: ecco il paradisiaco mondo delle libertà post-1989, il meglio che la religione del libero mercato sappia venderci. La stessa eliminazione del reintegro nel posto di lavoro (prevista dall’ex Art. 18) per chi viene licenziato senza giusta causa – sostituita da un generico risarcimento (art. 3 Jobs Act) – si pone come la più bieca ridefinizione del lavoro inteso come diritto e dovere in concessione padronale arbitraria e dipendente dalla volontà del buon signore di turno: concessione che, in quanto tale, può essere revocata in qualsivoglia momento.

Il capitale vince senza resistenze. Siamo nel bel mezzo di un feudalesimo capitalistico: con nuovi signori mondialisti e nuovi servi senza diritti; con nuove e radicali forme di rifeudalizzazione dei legami sociali. Il capitale vince senza incontrare resistenze. Il lavoro sta perdendo giorno dopo giorno: complice anche, ovviamente, la generosa operatività di forze che si dicono progressiste e che, di fatto, favoriscono unicamente il progresso della mondializzazione capitalistica.

«Combattere l’esclusione significa, allora, dare vigore alla capacità di governo e di rappresentanza che si sprigiona dalla cittadinanza — a questo serve una legge elettorale coerente».

la Repubblica, 18 gennaio 2017 (c.m.c.)

Quel che manca alla Sinistra è prima di tutto la credibilità. Non solo dell’elettorato da conquistare ma anche dei suoi simpatizzanti che spesso (come è successo negli Stati Uniti ma anche in alcune tornate elettorali regionali nel nostro paese) decidono di astenersi perché non si riconoscono nei candidati, nei progetti e nei discorsi rappresentati dal simbolo del partito. Il risultato del referendum del 4 dicembre scorso parla anche di questo: gli italiani hanno mostrato di dare credibilità più al patto fondativo che a coloro che lo applicano.

E hanno anche fatto capire che in un tempo di grandi incertezze, la Costituzione è probabilmente la maggiore certezza che hanno. Nel dubbio, meglio non rischiare: questa la logica in filigrana della vittoria del No. Che non è per nulla una parentesi o una tappa che interrompe un corso, quello cominciato dalla leadership renziana con la vittoria alle primarie e poi l’ascesa al governo. Non è una parentesi perché dal 2014 ad oggi è mancata una visione politica al di là dei destini della battaglia referendaria. Cominciamo da mille giorni fa.

Matteo Renzi ha esordito come presidente del Consiglio con una introduzione al volume di Norberto Bobbio, Destra e sinistra, per l’occasione ristampato da Donzelli. Erano due i paradigmi centrali che facevano da architrave del suo pensiero sulla nuova sinistra: innanzi tutto la revisione a trecentosessanta gradi della filosofia dell’eguaglianza (sulla quale Bobbio aveva costruito la dicotomia con la destra) e, in conseguenza di ciò, la ridefinizione della coppia destra/ sinistra.

Destra e sinistra, scriveva Renzi, non coincidono più con la libertà individualistica in un caso e la libertà che riposa su premesse di eguaglianza nell’altro. Questa dicotomia, aggiungeva, appartiene a un mondo in cui le menti e le idee era ordinate per classi; oggi, alle classi è subentrata la complessità e quelle due grandi idee — quelle che danno identità alla nostra come a tutte le costituzioni democratiche — non servono ad orientarci né nel giudizio politico né nelle scelte.

Finita la diade libertà/eguaglianza, quel che ci resta è un aggregato di individui distribuiti sulla scala sociale: Renzi usava paradigmi di posizione, come alto/basso: ci sono gli “ultimi” e i “primi”, diceva, e una sinistra moderna deve porsi l’obiettivo di attivare le energia individuali per portare gli ultimi a vincere lotta darwiniana e salire su. Questa era l’idea di “nuova sinistra” con la quale Renzi ha inaugurato il suo governo: una visione che ci riportava al “ self- made man” di ottocentesca memoria e che ha in effetti orientato le sue politiche redistributive, quelle sulla scuola e sul lavoro.

Nella recente intervista rilasciata a Repubblica Renzi è tornato sul luogo del delitto: ha sostenuto che di sinistra c’è bisogno, e ha provato a coniugarla con altre dicotomie: esclusi/inclusi, innovazione/identità, paura/speranza. «Gli esclusi sono la vera nuova faccia della diseguaglianza, dobbiamo farli sentire rappresentati» (solo farli sentire o farli essere?). Ma come fare questo? Una risposta (di sinistra) sarebbe quella di partire dalla Costituzione, che non è una carta di vuote promesse e che impegna i partiti e i cittadini, che con essi “concorrono” alla determinazione delle politiche, a mettere in atto scelte coerenti.

Combattere l’esclusione significa, allora, dare vigore alla capacità di governo e di rappresentanza che si sprigiona dalla cittadinanza — a questo serve una legge elettorale coerente. Ma non basta: occorre prendere sul serio gli articoli 2 e 3 che spronano a promuovere coraggiose politiche di opportunità al lavoro e all’educazione. Non si tratta di una lotta per fare “primi” gli “ultimi” ma per dare a tutti/e le condizioni essenziali affinché la realizzazione personale non sia un’illusione o una vuota speranza.

In questo contesto sta la sinistra: il contesto delle politiche del lavoro e dello sviluppo delle capacità. Il lavoro è la condizione imprescindibile dei cittadini moderni, e alcune costituzioni, come la nostra, sono molto esplicite nel riconoscerlo. Amintore Fanfani (che comunista non era) difese l’articolo 1 dicendo con limpida chiarezza (che fa difetto alla sinistra attuale) che il lavoro è sinonimo di eguaglianza democratica, contro il privilegio e il parassitismo; è un dovere responsabile verso se stessi e la società, perciò luogo di diritti, tra i quali quelli a salari che consentano «una esistenza libera e dignitosa» (a questo proposito l’articolo 35 dice che «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni»).

È da questa visione democratica e sociale che nasce infine l’idea che l’iniziativa economica sia soggetta a vincoli, nel senso che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» o in modo da «recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (articolo 41).

Bisogna volere mettere in opera la Costituzione. È questa la politica alla quale dovrebbe orientarsi con decisione una forza che si ispira a valori di solidarietà e di democrazia. Certo, non si tratta di progetti che stanno facilmente insieme a politiche liberiste, e che anzi mettono in discussione la filosofia degli 80 euro e anche buona parte della riforma cosiddetta della “buona scuola”.

Partire dalla Costituzione è una condizione essenziale e non nebuslosa per superare le divisioni e le fratture. Per recuperare la fiducia e credibilità dei cittadini, che non vogliono la luna o teorie sofisticate e astratte, ma una forza politica che si proponga di mettere in atto con intelligenza e passione le promesse della nostra democrazia.

Nelle elezioni in Francia si presentano come alternative le candidature di Le Pen (destra nazionalista ) e di Mélenchon (sinistra radicale). Il rischio è che i media «si accontentino di fustigare queste due candidature e fare di ogni erba un fascio definendole 'populiste'» È l'errore che portò alla vittoria di Trump.

la Repubblica, 17 gennaio 2017

Fra meno di quattro mesi, la Francia avrà un nuovo presidente. O una presidente: dopo Trump e la Brexit non si può escludere che i sondaggi ancora una volta si sbaglino, e che la destra nazionalista di Marine Le Pen si stia avvicinando alla vittoria. E anche se si dovesse riuscire a evitare il cataclisma, esiste un rischio reale.

Il rischio Le Pen riesca a posizionarsi come la sola opposizione credibile alla destra liberale per il round successivo. Sul versante della sinistra radicale, si spera naturalmente nel successo di Jean-Luc Mélenchon, ma purtroppo non è lo scenario più probabile.

Queste due candidature hanno un punto in comune: rimettono in discussione i trattati europei e il regime attuale di concorrenza esacerbata fra Paesi e territori, e questo attira molti di coloro che la globalizzazione ha lasciato indietro. Ci sono anche delle differenze sostanziali: nonostante una retorica distruttiva e un immaginario geopolitico a tratti inquietante, Mélenchon conserva malgrado tutto una certa ispirazione internazionalista e progressista.

Il rischio di queste elezioni presidenziali è che tutte le altre forze politiche - e i grandi media - si accontentino di fustigare queste due candidature e fare di ogni erba un fascio definendole «populiste». Questo nuovo insulto supremo della politica, già utilizzato negli Stati Uniti con Sanders, con il successo che sappiamo, rischia una volta di più di occultare la questione di fondo.

Il populismo non è nient’altro che una risposta, confusa ma legittima, al sentimento di abbandono delle classi popolari dei Paesi sviluppati di fronte alla globalizzazione e all’ascesa della disuguaglianza. Bisogna fare affidamento sugli elementi populisti più internazionalisti (e dunque sulla sinistra radicale, incarnata nei diversi Paesi da Podemos, da Syriza, da Sanders o da Mélenchon, indipendentemente dai loro limiti) per costruire risposte precise a queste sfide: altrimenti il ripiegamento nazionalista e xenofobo finirà per travolgere tutto.

Sfortunatamente è la strategia della negazione quella che si apprestano a seguire i candidati della destra liberale (Fillon) e del centro (Macron), determinati tutti e due a difendere lo status quo integrale sul fiscal compact, il patto di bilancio europeo firmato nel 2012. Non che la cosa stupisca, visto che uno lo ha negoziato e l’altro lo ha applicato. Tutti i sondaggi lo confermano: questi due candidati seducono innanzitutto i vincitori della mondializzazione, con sfumature interessanti (i cattolici col primo e i borghesi radical- chic col secondo), ma in definitiva secondarie rispetto alla questione sociale. Pretendono di incarnare il perimetro della ragione: quando la Francia avrà riguadagnato la fiducia della Germania, di Bruxelles e dei mercati, liberalizzando il mercato del lavoro, riducendo la spesa pubblica e i disavanzi, eliminando la patrimoniale e aumentando l’Iva, allora sarà finalmente possibile chiedere ai nostri partner di venirci incontro sull’austerità e sul debito.

Il problema di questo discorso che appare ragionevole è che non lo è affatto. Il trattato del 2012 è un errore monumentale, che imprigiona l’Eurozona in una trappola mortifera, impedendole di investire nel futuro. L’esperienza storica mostra che è impossibile ridurre un debito pubblico di questo livello senza fare ricorso a misure eccezionali. A meno di condannarsi a registrare avanzi primari per decenni, zavorrando sul lungo periodo qualsiasi capacità di investimento.

Dal 1815 al 1914, il Regno Unito ha passato un secolo a registrare eccedenze di bilancio enormi per rimborsare i suoi rentier e ridurre il debito esorbitante prodotto dalle guerre napoleoniche. Quella scelta nefasta produsse investimenti in formazione inadeguati e un ulteriore stallo del Paese. Tra il 1945 e il 1955, al contrario, Germania e Francia sono riuscite a sbarazzarsi rapidamente di un debito di proporzioni analoghe con una combinazione di misure di cancellazione del debito, inflazione e prelievi eccezionali sul capitale privato, mettendosi nelle condizioni di investire sulla crescita. Bisognerebbe fare lo stesso oggi, imponendo alla Germania un Parlamento della zona euro per alleggerire i debiti con tutta la legittimità democratica necessaria. Se così non sarà, il ritardo negli investimenti e la stagnazione della produttività già osservati in Italia finiranno per estendersi alla Francia e a tutta l’Eurozona (ci sono già dei segnali in tal senso).

È rituffandoci nella storia che riusciremo a uscire dallo stallo attuale, come hanno appena ricordato gli autori della magnifica Histoire mondiale de la France, ottimo antidoto ai ripiegamenti identitari tricolori. In modo più prosaico, e meno divertente, bisogna accettare anche di tuffarsi nelle primarie organizzate dalla sinistra di “governo” (la chiameremo così visto che non è riuscita a organizzare primarie con la sinistra radicale, cosa questa che rischia, in primo luogo, di allontanarla stabilmente proprio dal governo).

È essenziale che queste primarie designino un candidato deciso a rimettere drasticamente in discussione le regole europee. Hamon e Montebourg sembrano più vicini a questa linea rispetto a Valls o a Peillon, ma a condizione che superino le loro posizioni sul reddito universale e il made in France e formulino finalmente delle proposte precise per sostituire il patto di bilancio del 2012 (evocato solo di sfuggita nel primo dibattito televisivo, forse perché cinque anni fa lo hanno votato tutti: ma è proprio per questo che è tanto più urgente chiarire le cose presentando un’alternativa dettagliata). Non tutto è perduto, ma bisogna agire in fretta, se si vuole evitare di mettere il Front national in una posizione di forza.

«C’è violenza nella politica: una violenza (verbale, di rapporti, di relazioni) che respinge chi pensa ad essa come il mettersi insieme per risolvere i problemi comuni».

il manifesto, 17 gennaio 2017 (c.m.c.)

In occasione del congresso di Sinistra Italiana, alcuni parlamentari ex Sel hanno scritto (come informa il manifesto del 15 gennaio), ad altri che entrerebbero nella nuova formazione, di abbassare i toni dello scontro politico: «La cultura dell’intolleranza è incompatibile con il progetto politico che insieme stiamo animando».

Quale che ne sia stata la ragione, è un’espressione da non sottovalutare e bene ha fatto il manifesto a citarla in vista di uno scontro che potrebbe avvelenare l’atmosfera del congresso fondativo, tanto quanto le diversità dei contenuti e della linea politica.

Se molte persone, e tra queste, molti giovani, avvertono la politica come un luogo estraneo, questo avviene anche, o soprattutto, per il linguaggio utilizzato e per le forme dello stare insieme dei partiti tradizionali (quali che siano). C’è violenza nella politica: una violenza (verbale, di rapporti, di relazioni) che respinge chi pensa ad essa come il mettersi insieme per risolvere i problemi comuni.

Il messaggio di un mondo nuovo, o almeno diverso dall’attuale (meno ingiustizie, meno disuguaglianze, più occasioni di studio come conoscenza critica, più occasioni di lavoro vero, eccetera), esige un nuovo e adeguato linguaggio che non è solo questione di forma, ma di relazioni, di emozioni, di passioni che aspettano da anni di essere accolte e valorizzate: il vero rimosso della politica.

Un Partito deve anche assolvere una funzione pedagogica, ricreare una cultura del vivere insieme, rifondare un linguaggio per la democrazia (così come era nei propositi di Tullio De Mauro), altrimenti i giovani saranno attratti dalle semplificazioni (anche e non solo) dei Cinque Stelle, dalla loro grinta aggressiva e falsamente contestataria dei poteri dominanti. Purtroppo vale anche per i giovani la legge di Gresham, il banchiere inglese che sosteneva l’assunto che la moneta cattiva scaccia sempre quella buona. Fine e mezzi non sono separabili: se il fine è giusto allora anche i mezzi per raggiungerlo devono essere autentici, sani; non si può bleffare con chi attende o lavora da anni per un vero cambiamento.

Credo che parte del successo ottenuto da Pisapia a Sindaco di Milano sia dovuto al suo carattere mite, di gentiluomo di altri tempi. Ricorderete il dibattito finale tra lui e la candidata Letizia Moratti in televisione: quando stavano ormai per scadere i tempi, Moratti – sapendo che il suo avversario non avrebbe potuto replicare per mancanza di tempo -, tirò fuori una vecchia e archiviata questione di un procedimento penale a carico del futuro sindaco. Il sentimento di stupore si disegnò sul viso di Pisapia, prima ancora che di indignazione. Moratti dovette successivamente chiedere scusa; ma, tutto sommato, non aveva fatto altro che ricorrere alle vecchie tecniche della politica (e della boxe): colpire dove l’avversario sanguina per decretarne il ko tecnico, legittimo o meno che sia il gesto (e in questo caso addirittura falso).

Nel suo recente libro, Passione politica, Paul Ginsborg (insieme a Sergio Labate), si chiede: «Quanti tentativi di costruzione di soggetti collettivi sono stati vanificati da un vizio passionale, un eccesso di egoismo o d’arroganza. Molto più che per motivi ideali, il loro insuccesso è spesso causato da una competizione fra primedonne e da una diffidenza astuta esercitata anche nei confronti dei propri compagni, che spesso finisce per trasformare la necessaria condivisione in inimicizia. Come se pretendessimo di contestare l’ordine del neoliberismo usando le sue armi più efficaci». La lezione femminista con la sua solidarietà di genere, non è mai entrata nella pratica politica diffusa, dove il modello machista e guappista di De Luca miete successo.

Dal canto suo, il condottiero Renzi, dopo una istantanea, quanto astuta e opportunistica, pausa, torna alla carica riconoscendo «qualche errore» (la Repubblica del 15 gennaio): «Brucia, eccome se brucia. Tanto che il vero dubbio (durato l’arco di qualche giorno, nda) è stato se continuare o lasciare. Ma poi uno ritrova la voglia di ripartire». Vecchia astuzia politica anche questa che traspare (tra gli altri vizi) nella continuità di aggressione al sindacato («usano anche loro i voucher»). Nessuna autocritica, nessun pentimento, nessun lutto, se non il rimpianto di non essere stato così furbo all’altezza della situazione.

Allora nel nuovo statuto del partito nascente – Sinistra Italiana – quei nuovi contenuti che molti aspettano, dovrebbero essere espressi e spiegati con parole nuove come: mitezza, umiltà, dialogo, solidarietà, e, perfino, direi, amore e rispetto per l’altro: l’avversario, che sempre è portatore di una qualche ragione con la quale vale la pena di confrontarsi e dalla quale si può sempre imparare qualcosa.

«Un’anticipazione dal volume

Tre lezioni sull’uomo (Ponte alle Grazie). Da David Hume a Galileo, un volume che raccoglie le ultime riflessioni del linguista statunitense. La facile acquisizione dei neonati umani della "rigogliosa e ronzante confusione!" delle parole». il manifesto, 17 gennaio 2017
Esistono ragioni ancor più essenziali per cercare di determinare con chiarezza che cos’è il linguaggio, ragioni direttamente collegate alla questione di che genere di creature siamo. Charles Darwin non fu il primo a pervenire alla conclusione che «gli animali inferiori differiscono dall’uomo solo per il potere infinitamente maggiore che l’uomo ha di associare i suoni alle idee più diverse»; «infinitamente» è un’espressione tradizionale che oggi va interpretata alla lettera. Tuttavia Darwin fu il primo a esprimere questo concetto tradizionale nel quadro di un incipiente racconto dell’evoluzione umana.

Ian Tattersall, uno dei maggiori specialisti dell’evoluzione umana, ne ha fornito una versione contemporanea. In una recente rassegna delle prove scientifiche di cui disponiamo attualmente, Tattersall osserva che un tempo si credeva che l’evoluzione avesse prodotto «i primi precursori del nostro io successivo. La realtà però è un’altra: l’acquisizione della singolare sensibilità moderna è avvenuta all’improvviso e molto di recente. L’espressione di questa nuova sensibilità è stata quasi certamente favorita dalla cruciale invenzione di quella che è la caratteristica più notevole del nostro io moderno: il linguaggio».

Se le cose stanno così, allora una risposta all’interrogativo «che cos’è il linguaggio?» è importantissima per chiunque sia interessato alla comprensione del nostro io moderno.

Tattersall colloca quell’evento brusco e repentino in un ristrettissimo arco temporale probabilmente compreso tra 50.000 e 100.000 anni fa. Le date esatte non sono chiare, e non sono rilevanti per quello che ci interessa in questa sede, tuttavia lo è la repentinità della comparsa.

Se l’ipotesi di Tattersall è sostanzialmente precisa, come indicano le prove empiriche assai limitate di cui disponiamo, in quel breve arco di tempo comparve la capacità infinita di «associare i suoni alle idee più diverse», secondo le parole di Darwin.

Questa capacità infinita risiede evidentemente in un cervello finito. La nozione di sistemi finiti dotati di capacità infinita è stata intesa appieno a metà del Novecento, il che ha reso possibile formulare con chiarezza quella che secondo me dovrebbe essere riconosciuta come la proprietà più fondamentale del linguaggio, che chiamerò semplicemente «Proprietà fondamentale»: ogni lingua offre una serie illimitata di espressioni strutturate in maniera gerarchica le cui interpretazioni danno luogo a due interfacce, sensomotoria per l’espressione e concettuale-intenzionale per i processi mentali. Ciò consente una concreta formulazione dell’infinita capacità di Darwin o, risalendo molto più indietro, della classica affermazione di Aristotele secondo cui il linguaggio è suono dotato di senso, anche se le ricerche recenti mostrano che «suono» è troppo limitato.

Allorché, sessant’anni fa, si fecero i primissimi tentativi di costruzione di esplicite grammatiche generative, si scoprirono molti fenomeni sconcertanti che non erano stati osservati finché non si era formulata e affrontata in maniera chiara la «Proprietà fondamentale» e la sintassi era ancora considerata l’«uso delle parole» determinato dalla convenzione e dall’analogia. (…)

Uno degli enigmi relativi al linguaggio che venne alla luce sessant’anni fa e resta vivo ancora oggi, secondo me assai significativo nella sua portata, ha a che fare con un dato semplice ma curioso. Prendiamo la frase «istintivamente le aquile che volano nuotano». L’avverbio «istintivamente» è associato a un verbo, che è però nuotano, non volano. L’idea che le aquile che istintivamente volano nuotino non pone alcun problema, tuttavia non si può esprimere in questo modo. Analogamente la domanda «possono nuotare le aquile che volano?» riguarda la capacità di nuotare, non quella di volare.

La cosa sconcertante è che l’associazione degli elementi iniziali della proposizione, «istintivamente » o «possono», al verbo avviene a distanza ed è basata su proprietà strutturali; non avviene dunque per prossimità né è basata su proprietà lineari, operazione computazionale molto più semplice che sarebbe ottimale nell’elaborazione del linguaggio. Quest’ultimo fa uso di una proprietà di minima distanza strutturale, non adoperando mai la ben più semplice operazione della minima distanza lineare; in questo e in numerosi altri casi, nell’architettura del linguaggio si ignora la facilità di elaborazione.

In termini tecnici, le regole sono invariabilmente dipendenti dalla struttura e ignorano l’ordine lineare. L’enigma sta nel perché deve essere così, non solo in inglese ma in ogni lingua, e non soltanto per le costruzioni come quelle del nostro esempio ma anche per tutte le altre, in una vasta gamma.

Esiste una spiegazione tanto semplice quanto plausibile riguardo al fatto che in casi come questo il bambino conosce automaticamente la risposta giusta, anche se le prove sono scarse o inesistenti; l’ordine lineare semplicemente non esiste per chi apprende una lingua ed è messo di fronte a esempi del genere: questi è guidato da un principio fondamentale che ne restringe la ricerca alla minima distanza strutturale e gli impedisce la ben più semplice operazione della minima distanza lineare. Non conosco altre spiegazioni. E naturalmente questa ipotesi esige ulteriori spiegazioni: perché è così? Cos’ha di speciale il carattere geneticamente determinato del linguaggio che impone questa particolare condizione?

Il principio della distanza minima è largamente impiegato nell’architettura del linguaggio e si può supporre che si inscriva in un principio più generale, che chiameremo «Computazione minima», il quale a sua volta è presumibilmente un esempio di una ben più generale proprietà del mondo organico, o persino del mondo nella sua totalità. Deve comunque esistere una proprietà speciale dell’architettura del linguaggio che limita la «Computazione minima» alla distanza strutturale, invece che a quella lineare, malgrado la maggiore semplicità di quest’ultima nella computazione e nell’elaborazione.

Secondo una tesi più generale, in quelle zone essenziali del linguaggio in cui si applicano la sintassi e la semantica, l’ordine lineare non è mai tenuto in conto dalla computazione. Pertanto l’ordine lineare è una dimensione periferica del linguaggio, un riflesso delle proprietà del sistema sensomotorio, che lo richiede: non siamo in grado di parlare in parallelo o di produrre strutture, ma soltanto sequenze di parole. Nei suoi aspetti fondamentali, il sistema sensomotorio non è specificamente adattato al linguaggio: sembra che le componenti essenziali per l’espressione e la percezione fossero presenti già molto prima della comparsa del linguaggio.

È provato che il sistema uditivo degli scimpanzé potrebbe essere discretamente adatto al linguaggio umano, malgrado le scimmie non possano compiere nemmeno il primo passo verso l’acquisizione del linguaggio, estraendo dati relativi al linguaggio dalla «rigogliosa e ronzante confusione» che le circonda, mentre i neonati umani lo fanno di colpo, automaticamente, impresa tutt’altro che da poco. E anche se pare che la capacità di controllare il tratto vocale per parlare sia specifica degli esseri umani, non si può dare troppo peso a questa circostanza, dal momento che la produzione del linguaggio umano è indipendente dalle modalità in cui avviene, come hanno stabilito le recenti ricerche sulla lingua dei segni, e sono pochi i motivi per dubitare che le scimmie dispongano di adeguate capacità gestuali. È dunque evidente che nell’acquisizione e nell’architettura del linguaggio entrano in gioco proprietà cognitive assai più profonde.

Benchè la questione non sia risolta non sia risolta, prove considerevoli indicano che la tesi più generale è di fatto corretta: l’architettura fondamentale del linguaggio ignora l’ordine e altre disposizioni esterne. In particolare, nei casi essenziali l’interpretazione semantica dipende dalla gerarchia, non dall’ordine che si rinviene nelle forme espresse. Se le cose stanno così, la «Proprietà fondamentale» non è esattamente come l’ho formulata prima, né come è formulata nella produzione scientifica recente, compresi i miei articoli. Piuttosto, la «Proprietà fondamentale» è la generazione di una serie illimitata di espressioni gerarchicamente strutturate che corrispondono all’interfaccia concettuale-intenzionale, che costituiscono una sorta di «linguaggio del pensiero», molto probabilmente unico nel suo genere.

Molto interesse, nei giornali di oggi, per la scuola. Ma i

columnist più gettonati, e i giornali più letti, aiutano a scendere sempre più in basso. Articoli di Ernesto Galli della Loggia, Gian Antonio Stella, Francesca Barbieri. Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2016, con postilla

Corriere della Sera
LA GRANDE CRISI DELLA SCUOLA
di Ernesto Galli della Loggia

Quali sono le ragioni profonde della crisi radicale che in Italia ha colpito l’istruzione, la sua organizzazione e si direbbe la stessa dimensione educativa? Le opinioni differiscono parecchio ma per capire davvero credo sia necessario fare ciò che solitamente non si fa: riprendere il discorso dall’inizio, riandare alla storia.

La scuola che noi conosciamo, la scuola pubblica (una qualifica, va sottolineato, che significa non solo aperta a tutti, ma anche volta a un fine collettivo, a un interesse pubblico, appunto) non nasce da una decisione di tipo culturale o educativo. Nasce da una decisione politica. Quando cioè nel corso del XIX secolo, per sottrarre la formazione dei giovani all’egemonia fin lì esercitata dalla religione e in particolare dalla Chiesa cattolica, le élite politiche protagoniste delle rivoluzioni liberali decisero che doveva essere il loro nuovo Stato in prima persona, e attraverso un proprio personale, ad occuparsi dell’istruzione.

Allo scopo precipuo non già di assicurare la trasmissione e la diffusione del sapere (c’era anche questo ovviamente, ma non era l’essenziale), bensì di formare i cittadini dei tempi nuovi. Di formare le loro coscienze e con esse quindi lo spirito pubblico del Paese: promuovendo un minimo di autonomia individuale per tutti con l’insegnare a leggere, scrivere e far di conto; e per i giovani della futura classe dirigente avvalendosi dello strumento reputato il più adatto a inculcare i valori della «civiltà moderna» che quelle élite intendevano rappresentare.

Vale a dire un’educazione di tipo laico-umanistico con fortissime radici nella classicità, sia pure allargata a un consistente nucleo di sapere scientifico. Da questa decisione tutta politica è nata la nostra scuola: non a caso, sono i Paesi di tradizione cattolica quelli dove ancora oggi si registra la statalizzazione più piena e ideologicamente convinta di tutti i gradi dell’istruzione.

È superfluo chiedersi se tutto ciò sia stato un bene o un male. Le cose non potevano che andare così. È assai più importante, credo, essere consapevoli che nella specifica realtà storica dell’Italia otto-novecentesca quella scelta si è mostrata quanto mai pagante. Sul medio-lungo periodo, infatti, essa è servita a formare una coscienza dell’identità nazionale sufficientemente ampia, a dare vita a una classe dirigente più o meno culturalmente omogenea, nonché a costituire un ethos dell’appartenenza statale e dei suoi obblighi capace di mettere qualche radice. Ma non solo, se si pensa che un Paese inizialmente sommerso dall’analfabetismo e dalla povertà delle attrezzature, quale era il nostro, riuscì in un secolo a raggiungere traguardi non proprio spregevoli anche da un punto di vista strettamente culturale e nell’ambito della ricerca scientifica.

Tutto ciò, ripeto - dalla nascita dello Stato italiano fino a un dipresso al 1960 - è accaduto per l’impulso e sotto la direzione della politica. Rappresentata istituzionalmente da un ministro con il pieno potere di decidere l’articolazione dei vari ordini di studio e, salvo che per l’università, di stabilirne i programmi; di fissare i requisiti necessari per potervi insegnare nonché di organizzare le modalità per accertare i medesimi requisiti; dotato infine del potere disciplinare e di controllo su tutto l’insieme attraverso la rete dei provveditorati a lui facenti capo. Se qualcuno pensa che tale ministro fosse una specie di khan tartaro, sbaglia. Nell’età liberale e poi nella democrazia repubblicana è stato semplicemente un ministro che come tutti i ministri traeva il proprio potere da una maggioranza elettorale e rispondeva politicamente al Parlamento di ciò che faceva.

È questo edificio che ha iniziato a sbriciolarsi negli anni Sessanta-Settanta per poi scomparire del tutto nel nuovo millennio. In ragione di una causa semplice e insieme complessissima: l’irruzione nel nostro Paese della democrazia di massa. Destinata in questo caso a prendere due forme. Da un lato l’esplosione di un fortissimo investimento collettivo, tanto ideologico che simbolico, sull’ambito dell’istruzione: con l’erompere di un esteso e profondo desiderio di ascesa sociale (vedi l’impennata delle iscrizioni scolastiche o «le 150 ore»), con il sogno egualitario che sempre è alimentato dalla democrazia (vedi parole d’ordine come il «6 politico», il no alla «selezione» o alla «scuola di classe» ecc.), infine con le aule divenute culla di una fraternità giovanile potenzialmente ostile a ogni autorità, vogliosa di essere «libera» e di «contare».

Dall’altro lato, l’irrompente democrazia di massa prese la forma di un’inedita mobilitazione politica di larghi settori di ceto medio, nel nostro caso i docenti della scuola pubblica. Dei quali la parte migliore (e minore) si mosse alla ricerca di un riconoscimento di ruolo e di gratificazioni professionali nuove in armonia con i dettami culturali dei tempi; la parte maggiore, invece, conscia dei possibili vantaggi offerti dalla situazione creatasi, si limitò a essere supinamente consenziente. Tutti furono in realtà lo strumento del solo potere che da lì in poi avrebbe dominato la scuola italiana: il sindacato.

A partire comunque dalla metà dei Sessanta, in ognuno di questi modi la scuola e l’istruzione divennero per anni e anni il luogo del più aspro e violento conflitto sociale, perfino la palestra per ambigui esercizi di sapore eversivo. Per la politica dunque un terreno minato: di cui essa cominciò ad avere paura, sempre più paura. L’incubo di ogni governo, e in specie di ogni ministro con sede a viale Trastevere, divenne quello di avere scuole e università occupate e studenti e professori in piazza: con esiti sempre incerti e spesso drammatici. Unico risultato per lui certo l’impopolarità.

Fu così che alla lunga cominciò a profilarsi la svolta. La politica decise che era meglio sgomberare il campo. Nella grande crisi della politica che a partire dagli anni Ottanta ha annunciato e poi accompagnato massicciamente la globalizzazione - con la conseguente ritirata della politica stessa e dello Stato dalla società - l’istruzione è stata la prima trincea ad essere abbandonata. La prima non a caso. L’abbandono segnalava che stavano ormai venendo meno partiti e culture politiche nutrite di idee e di valori forti. In grado di esprimere in qualche modo un progetto complessivo di società, di credere realmente in un tale progetto, e su tale base addirittura di assumersi il compito di trasfonderne il senso nella formazione delle nuove generazioni, dirigendo contenuti e modi di questa attraverso la scuola. Tutto ciò doveva ormai essere considerato impossibile.

Specialmente in Italia, dove in quel fine secolo gli attori politici e la sfera stessa della politica erano sottoposti a un massiccio processo di delegittimazione che si sarebbe sempre più accentuato. E dove gli effetti dell’avanzata della modernità - quella modernità capace per sua natura di «sciogliere tutto ciò che è solido», secondo la profezia di Marx - erano resi ancor più dirompenti dal non trovare alcun ostacolo in una società dall’antico carattere «gelatinoso», priva di una radicata tradizione cultural-nazionale sul modello francese della quale le istituzioni si considerassero tutrici.

Priva di qualunque fiducia non solo nelle proprie capacità direttive, ma anche nel senso storico che poteva ancora avere una tale direzione, la politica italiana da allora in poi ha abbandonato dunque la scuola. Lo ha fatto consegnandone velocemente e progressivamente tutti gli spazi a due «dispositivi», che poi non erano che altrettanti feticci della modernità: la «tecnica» e l’«autonomia».

La tecnica nelle sue più varie forme e accezioni: dal vastissimo campionario delle prescrizioni circa le modalità presunte «scientifiche» d’insegnamento e di accertamento dei risultati degli studenti, alle procedure di reclutamento e di selezione del personale sempre più dominate dall’impersonalità efficientistica del questionario, del test, ovvero da sistemi preformati di autovalutazione, per finire con la panoplia di strumentazione telematica (lavagne elettroniche, computer, e quant’altro) somministrata in dosi tanto massicce quanto dagli esiti didatticamente e culturalmente quasi sempre nulli.

Dall’altro canto l’autonomia: da quella degli insegnanti a quella degli istituti. La quale autonomia, al di là delle virtuose chiacchiere democratiche, in realtà ha corrisposto a null’altro che al desiderio da parte del centro politico-ministeriale di spogliarsi - complice il più sciagurato dei regionalismi - di ogni responsabilità, in certa misura perfino finanziaria, riguardo l’intero insieme dell’istruzione. Che così ne è uscito inevitabilmente frantumato, segmentato per linee di divisione geografica e sociale nonché di capacità economiche, drammaticamente diviso tra Nord e Sud, in balia delle più casuali e incontrollate capacità (o incapacità) di questo o di quello. Privata della bussola di una direzione politica unitaria la nostra scuola si presenta oggi, così, come una mirabile accozzaglia di progetti, iniziative, corsi, attività, offerte formative che con i più vari obiettivi spaziano sui più vari ambiti.

A logico completamento del tutto, la sostanziale abdicazione della politica pure in merito alla stesura dei programmi, lasciati da tempo alla pressoché unica responsabilità «tecnica» di un manipolo di «esperti», assertori ovviamente del carattere esclusivamente «scientifico» delle proprie scelte. Le quali, inutile dirlo, neutrali però non lo sono per niente. In realtà, infatti, il nucleo delle materie non scientifiche che oggi si insegnano nelle nostre scuole è stato radicalmente depurato di qualsivoglia narrazione connessa non dico a una «tradizione», ma assai spesso neppure a un canone o a un percorso di tipo «nazionale» e caso mai «occidentale».

Così come è stata cancellata da quei programmi ogni potenziale valenza eticamente o spiritualmente formativa che non sia ispirata al politicamente corretto dominante e al più vacuo cosmopolitismo. Dovunque, poi, una ingenua tendenza a formalizzare secondo stereotipi dal sapore strutturalista, e l’allusione velleitariamente colta. Questo è l’orientamento prevalente della scuola italiana attuale, ormai interamente nelle mani degli «esperti». I tentativi in direzione timidamente contraria osati da qualche ministro della Destra ha costituito una minuscola eccezione: che ha confermato la regola ma non ha cambiato realmente nulla.

Alla fine, la cancellazione dell’aggettivo «pubblica» apposto al sostantivo «istruzione» - che fino a qualche tempo fa, ma ora non più, caratterizzava la denominazione ufficiale del dicastero preposto per l’appunto a quell’ambito - si rivela l’adeguata esplicitazione lessicale del congedo della politica dall’istruzione stessa.

È in tale congedo che sta il cuore autentico della crisi della scuola italiana (simile ma non eguale a quella di molti altri sistemi scolastici dell’area euro-occidentale). Esso ha voluto dire la perdita di qualsiasi orizzonte generale, la rinuncia a rendere l’istruzione il momento centrale della riproduzione sociale in senso alto, al tentativo - si può immaginare quanto temerario: ma forse proprio per questo degno di essere perseguito - di fare di essa la matrice del carattere e della personalità.

La scuola attuale, invece, è sempre più giudicata insignificante a cominciare dai suoi stessi alunni e dai loro genitori, perché essa per prima, illudendosi di guadagnarne chissà quale libertà, ha rinunciato al suo massimo significato, ha accettato il proprio declassamento a una dimensione puramente tecnico-operativa, quando va bene a dispensatrice di saperi anziché di cultura. Ha acconsentito, sta acconsentendo, alla tendenziale sostituzione di un docente con un computer.

Mentre ormai, quasi come in un fatale gioco di specchi, la politica partecipa pur essa a questo inabissamento nel negativo: con il vicepresidente del Senato e presidente del Consiglio in pectore in caso di vittoria grillina, l’onorevole Di Maio, il quale, riferiscono le cronache, tra uno «spiano» e uno «spiassero» si affanna a indovinare come diavolo faccia la terza persona plurale del congiuntivo presente del verbo «spiare», ma non ci riesce nemmeno al terzo tentativo

Corriere della Sera
UN ALUNNO SU DUE CAMBIA PROF DI SOSTEGNO
di Gian Antonio Stella

Vengono prima i diritti degli alunni disabili o gli interessi dei docenti fuori piazza? Domanda ustionante. Ma va fatta: è accettabile che il 43% degli scolari più fragili sia scosso dal trasloco dell’insegnante di «sostegno»? Che i quindici bimbi autistici o down d’una scuola d’infanzia laziale vedano ruotare in tre mesi 27 supplenti? O che 18 su 18 dei maestri e professori «specializzati» nominati in un altro istituto «diano buca» obbligando il dirigente a prendere supplenti magari volenterosi ma ignari della materia?

Il nuovo dossier di Tuttoscuola.com da oggi online è ancora più duro di quello sulla folle giostra di docenti anticipato dal Corriere la settimana scorsa. Perché quel tourbillon destabilizzante di oltre 250 mila insegnanti (il triplo del solito) per due milioni e mezzo di bimbi, adolescenti e ragazzi colpiti da qualche sostituzione, era perfino meno grave, pare impossibile, di quanto è denunciato nell’ultimo rapporto. Che parla di «tsunami».

Dicono i numeri, elaborati dalla rivista di Giovanni Vinciguerra, che nelle scuole italiane di ogni ordine e grado ci sono oggi 233 mila alunni disabili che sulla carta possono contare, tra stabili (96.480) e in deroga (41.021: una enormità che andrebbe sanata), su 137.501 docenti di sostegno che costano oltre 5 miliardi l’anno di soli stipendi.

Un investimento vitale. Per capirci: sono più numerosi dei carabinieri e il doppio dei medici. Bene: 60 mila di quei docenti negli ultimi tre mesi hanno cambiato posto e in automatico oltre 100 mila di quei 233 mila alunni, con effetti spesso traumatici, hanno perso il loro punto di riferimento.

Potrebbero essere, quei docenti, il fiore all’occhiello della nostra scuola, che spesso arranca in ritardo sugli altri ma in questo caso fu tra le prime al mondo a capire, nel ‘77 quando le «differenziali» furono abolite, l’importanza dell’integrazione. Potrebbero, se troppo spesso il «sostegno» non fosse visto come uno dei comparti del «postificio» scolastico. Delegato a erogare buste-paga (sia pur modeste e precarie) più che a crescere i cittadini di domani.

Lo conferma una tabella del dossier Tuttoscuola. Dove si spiega che gli alunni con disabilità al Mezzogiorno sono 89.412 contro i 96.163 del Nord ma possono contare su oltre 11 mila docenti di sostegno in più. Ed è già una ripartizione più equilibrata di un tempo, quando nel Mezzogiorno era concentrata, come nel 2007, quasi la metà (il 47%) di tutto il personale di sostegno. Contro una quota di disabili otto punti più bassa. Per carità, quello squilibrio va anche a supplire altre carenze. Però...

Certo è che l’equivoco sul senso del «sostegno», ha pesato in modo esorbitante anche questa volta. Ricorda infatti il dossier che, come sanno tutti i genitori toccati dall’handicap, «i danni della discontinuità didattica sono elevati all’ennesima potenza per gli alunni con disabilità: se l’interruzione della relazione con il docente è in generale negativa, per un alunno disabile, che ha un grado di dipendenza dal docente molto maggiore (specie nel caso di disabilità intellettiva), può essere devastante. Anche perché, nel suo caso, è molto più complesso e lungo stabilire la relazione educativa con l’insegnante a lui dedicato, che richiede una reciproca conoscenza e competenze specifiche del docente, e quindi più deleterio interromperla». Quando arriverà un nuovo docente, «spesso dopo un periodo in cui l’alunno con disabilità è rimasto senza una figura di riferimento, tutto dovrà necessariamente ripartire dall’inizio. Incontro, attese, emozioni, aspettative, paura, rischio di abbandono...».

Può essere un calvario, sferza il dossier, «trovare il supplente annuale da nominare, in una sequenza di supplenti temporanei che si avvicendano, a volte per mesi, in attesa dell’arrivo dell’“avente diritto”, come lo definisce l’ineffabile terminologia burocratica (che non si sofferma sul vero “avente diritto”, la persona disabile che ha il diritto di studiare nelle migliori condizioni possibili». Qui è la differenza, sottolineava l’altra sera a «Zapping» Sergio Govi, già dirigente scolastico ed esperto di problematiche educative: «Mentre maestri e professori hanno (legittimi) “interessi” da difendere, gli studenti hanno “diritto” a una scuola migliore». E il conflitto tra questi «legittimi interessi» di chi insegna e i diritti di chi studia pesa. Come un macigno.

Tanto più se la giostra di docenti riguarda, accusa il rapporto, i disabili: «Per capire gli effetti di questa girandola diabolica, occorre tenere presente che i docenti di sostegno che aspirano a una supplenza sono iscritti sia in una graduatoria provinciale (per le supplenze annuali) sia in diverse graduatorie di istituto (per le supplenze brevi). Un docente nominato su supplenza d’istituto può essere chiamato altrove per supplenza annuale; il supplente che lo sostituisce può essere chiamato a sua volta per supplenza annuale in un altro istituto, e così via, in un gioco dei quattro cantoni che a volte dura due o tre mesi prima di stabilizzarsi. Ma al peggio non c’è mai fine: la ricerca del docente di sostegno supplente che avrà il posto fino alla fine dell’anno scolastico, che può durare mesi, ha sempre esito positivo? Purtroppo no: e allora, sembra un paradosso, l’alunno disabile viene affidato a un docente non specializzato». Cosa piuttosto frequente.

Basti ricordare, appunto, i due casi citati. Il primo lo racconta Manuela Scandurra, dirigente scolastica della scuola «Karol Wojtyla» di Palestrina, e riguarda alunni fra i tre e i sei anni: nell’infernale girotondo «i miei 15 bambini con disabilità (parliamo di disabilità motorie, intellettive, sindrome di Down, sindromi autistiche di diverso grado) tornati in classe dopo le vacanze estive, hanno visto in pochi mesi 27 volti nuovi, senza contare i nove docenti di sostegno dell’anno scorso, per i bambini che erano già nella nostra scuola». Totale: trentasei docenti in pochi mesi.

Antonella Arnaboldi, dirigente dell’Istituto «San Nilo» di Zagarolo, conferma: «Quest’anno abbiamo nominato 18 docenti di sostegno attraverso la “chiamata diretta” ma nessuno di loro ha lavorato con continuità perché hanno ottenuto tutti e 18 l’assegnazione provvisoria nella loro provincia». Tutti. «Siamo dovuti ricorrere a supplenti senza specializzazione nel sostegno». Evviva la «continuità didattica»… Ma l’anno prossimo, almeno, andrà meglio? No, risponde lo studio. Salvo miracoli no.

Il Sole 24 Ore
SCUOLA-LAVORO, AUMENTA LA DISTANZA
Francesca Barbieri

Oltre 400mila giovani «overeducated»: sono il 18% dei diplomati e il 26% dei laureati

Due record negativi che fanno un paradosso. Da un lato, siamo fanalino di coda in Europa per numero di laureati: solo il 25,3% degli italiani fra i 30 e i 34 anni, secondo Eurostat, ha un titolo accademico in tasca, rispetto alla media del 38 per cento. Dall’altro, i pochi che riescono a raggiungere il traguardo faticano a trovare un lavoro o lo ottengono non in linea con il proprio curriculum: appena il 53,9% è occupato a tre anni dal titolo (rispetto all’82% della Ue) e i laureati rappresentano la fetta maggiore dei giovani “overeducated”, quelli cioè troppo istruiti rispetto alle competenze necessarie per svolgere le mansioni assegnate.

Dal report realizzato dal centro studi Datagiovani per Il Sole 24 Ore risulta che i “sovraistruiti”, almeno nei primi anni successivi al conseguimento del titolo, sono più di 400mila su una platea di 1,8 milioni di lavoratori, considerando 1,1 milioni di laureati tra i 25 e i 34 anni e 700mila diplomati tra i 20 e i 24. Tra i primi si riscontra la maggior diffusione della “overeducation”, con un lavoratore su quattro in questa condizione (per un totale di quasi 300mila giovani), mentre si scende abbondantemente al di sotto del 20% per i diplomati (117mila).

Dai numeri emerge che il legame con la crisi economica è stretto: il tasso di disoccupazione è salito per i diplomati dal 17,9% del 2008 al 29,8% del 2016 e per i laureati dal 9,4% al 14,1 per cento.
Per gli occupati l’iperqualificazione è passata dal 13,9% al 17,6% per i diplomati e dal 23,7 al 25,6% per i laureati: un fenomeno più frequente al Nord, dove si concentrano le maggiori chance di lavoro e dove dunque si hanno più possibilità di “adattarsi”, per scelta o necessità, a lavori non allineati al proprio bagaglio di conoscenza.

E a livello di genere si registra una maggior quota di “overeducated” maschi tra i diplomati; situazione opposta tra i laureati, dove sono le donne che faticano di più a mettere a frutto i propri studi.

Non tutti gli indirizzi poi “soffrono” con la stessa intensità del fenomeno: la maggiore eterogeneità si riscontra nelle lauree, dove tra il massimo del 42% di “overeducated” tra i laureati in discipline umanistiche e il minimo del 9% di ingegneri e architetti si passa per il 12% dei medici e il 32% di coloro che hanno conseguito un titolo terziario nel campo delle scienze sociali.

Una quota leggermente più bassa degli “overeducated” laureati (22%, pari a 220mila lavoratori) risente inoltre di un disallineamento tra la posizione occupata e il percorso di studi (per esempio, l’archeologo che si occupa di vendite): anche in questo caso il gap maggiore si riscontra tra i laureati in materie umanistiche (46%), mentre per farmacisti, medici e infermieri l’abbinamento studi–lavoro è quasi perfetto (appena l’8% di mismatch).

Il gap tra tipologia di laurea e professione svolta è poi certificato dal consorzio interuniversitario AlmaLaurea: secondo l’ultimo rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati, solo per il 38% la laurea è richiesta per il lavoro svolto, la metà dei giovani occupati a cinque anni dal conseguimento del titolo utilizza in misura ridotta o per nulla le conoscenze acquisite nel percorso di studi (con punte di oltre il 60% tra i laureati in materie umanistiche).

«Paese paradossale il nostro - commenta Ivano Dionigi, presidente di AlmaLaurea -, che soffre di una duplice e opposta patologia: di “undereducation” e al contempo di “overeducation”. Anche nei settori strategici di innovazione, internazionalizzazione e managerialità la percentuale di laureati è di poco superiore al 17%, rispetto alla media europea del 24,2%». Secondo Dionigi, sono tre gli attori in causa: «Le università, chiamate a formulare corsi parametrati sulla domanda e non sull’offerta e a innovare i corsi contaminando humanities e tecnologie secondo le specificità della cultura del Paese; le imprese, chiamate ad assumere e valorizzare i laureati; la politica, chiamata a favorire l’occupazione e a riconoscere il merito».

postilla
Non è male che la stampa si occupi della scuola. Difendere il ruolo formativo dell'istituzione scolastica è essenziale in una società in cui la formazione dei cervelli è svolta da quella vasta macchina demolitrice delle intelligenze che va dai "persuasori occulti" dalla Renault o del Mulino bianco agli imbonitori tipo Vanna Marchi o Matteo Renzi.
Il disastro (e il tradimento) si manifestano quando di scopre che gli intellettuali ospitati dalla grande stampa non si pongono il quesito fondamentale: l'istituzione scolastica ha il compito di formare le menti necessarie per lubrificare le rotelle arrugginite di questo sistema economico sociale che ci sta portando alla rovina, oppure quello di formare menti capaci di uscire dalla palude ed orientare le loro accresciute capacità a cambiare questo sistema? Siamo orgogliosi di aver pubblicato (insieme al
manifesto) l'unico rilevante articolo che affronti il problema dall'angolatura che a noi sembra giusta, e utile: Piero Bevilacqua, Contro l'alternanza scuola-lavoro

L'impiego truffaldino delle parole per mascherare il vuoto delle idee e conquistare fette di potere. «Renzi si dichiara "riformista di sinistra", Pisapia si battezza come "campo progressista". Due costruzioni retoriche, in danno dell’analisi e della critica della realtà». il manifesto, 15 gennaio 2017

Da tempo ormai, in gran parte dei politici di sinistra, è venuta consolidandosi una paradossale forma di automatismo nei modi di pensare la complessità della dimensione politica. Quanto meno essi si misurano con l’analisi delle condizioni materiali tanto più esercitano la fantasia nelle formule verbali.

E maggiormente nelle formule verbali adatte a mantenere la necessaria agilità di esercizio nel contesto del gioco politico. Costoro si sono specializzati nell’uso di parole e/o locuzioni «suggestive», cioè, come recita il Grande Dizionario della Lingua Italiana (Utet), tali da suscitare «uno stato di coinvolgimento emotivo, sentimentale, fantastico (…) che rappresenta evocativamente, pateticamente» piuttosto che analiticamente. Si è cominciato con la destrutturazione del termine «riformismo», ridotto alla piattezza unilineare di un valore positivo in sé indipendentemente dai contenuti, e poi via via all’uso sempre più frequente di parole tese alla costruzione di una retorica che falsifica i dati di realtà. Un uso che tende a consolidare un contesto politico-culturale che si potrebbe definire miserabile. Non in un’accezione ingiuriosa e/o d’invettiva, bensì nell’accezione in cui utilizza il termine Galileo: rinsecchimento della prospettiva intellettuale, o Leopardi: difficoltà a reagire a stimoli intellettuali.

Nell’attuale dibattito politico «di sinistra» è entrata una nuova/vecchia locuzione, una sorta di collettore, come vedremo, delle parole suggestive: «campo progressista».

Renzi ha detto: «Il renzismo non è un incidente di percorso, una parentesi della storia. Questo Pd rappresenta ancora la sinistra riformista italiana» (la Repubblica, 10 gennaio). Un’affermazione sulla dimensione complementare dell’«area progressista» al riformismo di Renzi. Renzismo come «sinistra riformista» ed «area progressista», infatti, appartengono alla stessa sfera della falsificazione tramite evanescenza concettuale, anzi tramite rifiuto esplicito di ogni concettualizzazione. «Riformismo», «progressismo» non si manifestano come concetti, cioè strumenti di analisi, ma come feticci del bene politico.

L’aggettivo «progressivo» usato per definire un «campo» politico già di per sé si riferisce ad un concetto, progresso, la cui ambiguità è da tempo al centro di una vasta letteratura critica. La «ambiguità», comunque, comporta la necessità di pensare problematicamente l’oggetto. Invece, nel modo in cui il «campo progressista» è entrato come proposta politica nel dibattito di «sinistra», non solo non si trova alcuna traccia di pensiero critico, ma neppure nessun elemento di connotazione.

Il «campo progressista», secondo le parole di Pisapia, dovrà essere capace di unire «il civismo, la sinistra, e il centrosinistra» e questo non solo è necessario, ma possibile visto che «sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono» (Corriere della Sera, 10 gennaio). È giusto prendere in parola Pisapia sulle cose che dice di avere in comune con la forza largamente maggioritaria del «campo», il Pd; il problema è il carattere «progressista» delle «cose» vista la connessione essenziale che queste non possono non aver con la «cosa» Pd. Si invoca la «discontinuità», ma ci si guarda bene dal cercare le ragioni di una «continuità» che nel suo fondo resta immodificabile.

Un personalità del Pd, Goffredo Bettini, argomenta in questi termini la necessità dell’autocritica relativa ad uno dei punti chiave della invocata discontinuità: occorre che il Pd ponga rimedio alla «scarsa empatia» dimostrata «verso la sofferenza dei disagiati» (Blog Bettini, 7 dicembre). Parole analoghe a quelle che avrebbe usato un filantropo dell’Ottocento. D’altra parte quali sono gli strumenti tramite i quali è possibile aumentare il livello di empatia nei confronti dei «disagiati»? Gli scritti dell’ala sinistra del «campo progressista», e della parte del Pd che ha riscoperto la sua «anima» di sinistra, abbondano di esortazioni ad affinare la capacità di «ascoltare» i lamenti dei «più deboli» (Chiamparino), le esortazioni a rappresentare, nell’ambito dei progressisti, il gruppo con la maggiore «sensibilità» sociale.

«Empatia», «ascolto», «sensibilità», con qualche variazione di sinonimi, rappresentano il vocabolario che esprime l’orizzonte delle cose che «uniscono» il «civismo, la sinistra, il centrosinistra». L’oggetto di queste manifestazioni «empatiche» sono i «disagiati», i «diseredati», i «deboli». Per ora ci vengono risparmiati gli «umili».

In verità ogni tanto appare anche il termine «esclusi». Con un po’ di sforzo si potrebbe anche arrivare a vedere i «superflui». Ecco, magari riflettere sui meccanismi che creano continuamente una umanità superflua, sarebbe forse meno emotivamente accattivante, ma analiticamente più produttivo per dare senso ai variabili percorsi del «progresso». Si tratterebbe infatti di ragionare sui modi di accumulazione del capitale nelle diverse fasi. Si tratterebbe di «vedere se gli “animosi intelletti” che ancora si arrovellano nel pensare la politica, e magari provano anche a farla» abbiano la voglia di usare la strumentazione analitica del profondo, «e, eventualmente, il coraggio di tentare un radicale ripensamento della prospettiva della sinistra» (C. Galli, Ragioni Politiche, 6 Gennaio)

«Intervista a Gustavo Zagrebelsky di Marco Travaglio. Il presidente emerito della Corte Costituzionale boccia senza mezze misure il nuovo governo Gentiloni: “Una presa in giro per i 20 milioni di italiani che hanno votato No al referendum. È il rifiuto di guardare la realtà”. E avverte: “Rischiamo di non votare nemmeno nel 2018».

MicroMega online, 13 gennaio 2017 (c.m.c.)

Professor Gustavo Zagrebelsky, è trascorso più di un mese dal referendum costituzionale e lei non ha ancora detto una parola dopo la vittoria del No. Perché?
La campagna elettorale è stata lunga e faticosa. Ora è il tempo della riflessione e di qualche bilancio. Sarebbe insensato accantonare il 4 dicembre come se quel voto non avesse rivelato una realtà più dura di tutti gli slogan.

Che Italia ha incontrato, nei suoi incontri per il No?
Una realtà che non appare nei grandi media: a proposito di post-verità… I tanti che si sono impegnati hanno ricevuto centinaia di inviti da scuole, università, associazioni, circoli d’ogni genere. Soprattutto da giovani, da molti di quelli che alle elezioni politiche si astengono, ma al referendum costituzionale hanno partecipato. Si può pensare che un 20 per cento della grande affluenza sia venuta da lì. E con ciò non voglio certo dire che il No ha vinto per merito dei giuristi e dei professori.

Perché ha vinto il No?
Credo che ci siano molte ragioni e che l’errore del fronte del Sì sia stato di far leva su una sola parola, semplice ma vuota: riforme. Si sono illusi che la figura del presidente del Consiglio e del suo governo fosse attrattiva. Si era pensato a un plebiscito in cui ci si giocava tutto e così, per reazione, si è coalizzato un fronte di partiti, pezzi di partiti e movimenti tenuti insieme dal timore della vittoria totale dell’altro. Ma lo slogan inventato dai ‘comunicatori’ – “è oggi il futuro” – non era un presagio funesto, quasi un insulto, per i tanti che vivono un tragico presente? Non sottovalutiamo poi la pessima qualità della riforma. Spesso è stato sufficiente leggerne qualche brano.

Quella l’abbiamo notata in pochi…
Col senno di poi, trovo stupefacente che molti miei colleghi, politici esperti, uomini di cultura vi abbiano trovato motivi di compiacimento. Ma, forse, non avevano letto il testo. Poi quel 20 per cento di elettori di cui parlavo, e che ottusamente ci s’incaponisce a definire “antipolitici”, hanno colto l’occasione altamente “politica” per alzare la testa in nome della Costituzione. In generale, e più in profondo, credo che molti abbiano colto i veleni contenuti in tutta questa triste vicenda che ci ha tenuti inchiodati per così tanto tempo.

Quali veleni?
Quello oligarchico e quello mercantile, che hanno insospettito molti elettori. Sono stati molti cittadini a domandarsi: ma se, come martella la propaganda del Sì, la “riforma” è solo un aggiustamento tecnico – velocità e semplificazione, peraltro contraddette da norme tanto farraginose – perché mai le grandi oligarchie italiane ed estere si spendono in modo così spasmodico perché sia approvata? Ci dev’essere sotto qualcosa di ben più grosso e, se non ce lo dicono, dobbiamo preoccuparci.

Che c’era sotto?
Il disegno di restringere gli spazi di partecipazione, cioè di democrazia, per dare campo ancor più libero alle oligarchie economico-finanziarie. I cittadini hanno presenti i propri bisogni reali: giustizia sociale e dunque fiscale, uguaglianza di diritti e doveri, attenzione a emarginati e lavoro. E si sono sentiti rispondere: più velocità, più concentrazione del potere, mani più libere per pochi decisori.

Cosa hanno voluto dire i 20 milioni di elettori del No?
Voltiamo pagina dalle politiche neoliberiste e dalla svendita del patrimonio pubblico che monopolizzano il dibattito culturale, accademico, giornalistico e politico da 30 anni e hanno prodotto tanti disastri sociali. Operazione completata con la riforma costituzionale dell’articolo 81, cioè dell’equilibrio di bilancio sotto l’egida della Commissione europea, approvata in fretta e furia sotto il governo Monti da centrodestra e centrosinistra nel silenzio generale. Ecco: proponeteci un’altra politica.

Che c’è di male nell’imporre bilanci in ordine?
L’equilibrio di bilancio comporta di fatto la rinuncia alla politica keynesiana di investimenti pubblici per creare sviluppo e lavoro, cioè la pura e semplice rinuncia alla politica. In nome del primato assoluto dell’economia finanziarizzata. Come in Grecia, dove la democrazia è stata azzerata. Nei miei incontri per il No, ho colto una gran fame di politica, cioè di una sana competizione fra politica ed economia, senza il predominio della seconda sulla prima.

Si spieghi meglio.
Fare politica significa scegliere liberamente tra opzioni: se tutto è obbligato da istituzioni esterne, grandi banche e fondi d’investimento, la politica sparisce. È la dittatura del presente, un presente repulsivo per molte persone. Nella dittatura del presente la politica sparisce e la democrazia diventa una farsa. Le elezioni diventano un intralcio, a meno che le oligarchie non siano sicure del risultato. Il sale della democrazia è l’incertezza del responso popolare. Invece si preferisce uno sciapo regime del consenso.

E, dopo il referendum, ecco il governo-fotocopia.
Distinguiamo tra Gentiloni e il suo governo. Il nuovo premier, rispetto al precedente, è una novità: è educato, parla sottovoce, dice cose di buonsenso e appare poco in tv, non spacca l’Italia tra pessimisti (anzi “gufi” e “rosiconi”) e ottimisti, fra conservatori e innovatori a parole. Quando il penultimo premier lo faceva, a reti unificate, il minimo che potevi fare era cambiare canale o spegnere la tv. Ora quella finta contrapposizione è finita. Gentiloni pare dire le cose come stanno o, almeno, non dire le cose come non stanno. E il presidente Mattarella, a Capodanno, ha richiamato l’attenzione su tante cose che non vanno. Uno statista deve dire che il futuro non è oggi, ma va costruito da oggi con enormi sacrifici, e che i sacrifici devono distribuirsi tra coloro che possono sopportarli e, spesso, hanno vissuto finora da parassiti alle spalle degli altri.

Vedo che Renzi lei non lo nomina proprio… E del governo Gentiloni che dice?
È il rifiuto di guardare la realtà, una riprova dell’autoreferenzialità del politicantismo. Quasi uno sberleffo dopo il 4 dicembre. Era troppo sperare che si prendesse atto dell’enorme significato politico del referendum, del colossale voto di sfiducia che l’elettorato ha espresso nei confronti degli autori della tentata “riforma”? Non è una questione personale: saranno tutte ottime persone. Ma è una questione politica. Invece, Maria Elena Boschi, la madrina della “riforma”, è stata promossa in un ruolo-chiave nel governo e la coautrice e relatrice, Anna Finocchiaro, è diventata ministro. Mah! L’unica novità è la ministra dell’Istruzione, subito caduta sul suo titolo di studio. Per il resto, uno scambio di posti. Ma per i nostri politici, forse perché sospettano di contare poco o nulla, chiunque può fare qualunque cosa.

Non hanno capito o fingono di non capire tutti quei No?
Con i sondaggi che danno la fiducia nei partiti avviata verso il sottozero, verrebbe da credere che Dio acceca chi vuol perdere.

Che si voti ora o nel 2018, siamo comunque a fine legislatura.
Lei ne è così sicuro? Io un po’ meno. Si dice che occorre armonizzare le leggi elettorali di Camera e Senato. È giusto. Ma, se non le armonizzano entro il 2018, cioè alla naturale scadenza della legislatura, che succede? Si dirà che, per forza maggiore, per il momento, non si può ancora andare al voto?

Pensa seriamente che potrebbero farlo?
Non mi stupisco più di nulla. La continuità, ribattezzata stabilità, sembra essere diventata la super-norma costituzionale. Il governo Gentiloni non ne è una dimostrazione, in attesa che si ritorni al prima del referendum?

Dicono: non si può votare subito perché il No ha mantenuto il Senato elettivo con una legge elettorale diversa da quella della Camera.
La colpa sarebbe dunque degli elettori? E non di coloro che hanno scritto leggi con la sicumera di chi ha creduto che l’esito scontato del referendum sarebbe stato un bel Sì? Così, la riforma delle Province della legge del 2014 è stata scritta “in attesa della riforma del Titolo V della Costituzione” e l’Italicum è nato sul presupposto dell’abolizione del Senato elettivo. Si può legiferare, tanto più in materia costituzionale, “nell’attesa di…”? Che presunzione! E la colpa sarebbe dei soliti cattivi che deludono le rosee attese… Suvvia…

Napolitano e Mattarella dovevano respingere le due leggi?
Io credo che ci fosse un abbaglio generalizzato: tutti pensavano che le cose sarebbero andate inevitabilmente come poi, invece, non sono andate. Era l’ideologia delle riforme, della volta buona, dell’Italia che riparte, degli italiani in spasmodica attesa da trent’anni… Che cos’è l’ideologia, se non la presunzione di spiegare il mondo a venire tramite le proprie granitiche convinzioni e di tacitare i dissenzienti come eretici? Quelli del No tante volte, in questi due anni perduti, si sono sentiti bollare d’eresia. La verità erano le riforme e i garanti delle istituzioni, se non sono stati essi stessi tra i promotori di quella verità, come il presidente Napolitano, l’hanno probabilmente subita, come il presidente Mattarella, insieme allo stuolo di commentatori e costituzionalisti che non hanno guardato le cose con il distacco che avrebbe fatto vedere loro entrambi i lati delle possibilità. Se lei mi chiede se i garanti avrebbero dovuto aprire gli occhi e moderare l’arroganza e la vanità dei “riformatori”, la risposta è sì. Ora il peccato originale di questa legislatura presenta il conto.

Peccato originale?
Nel 2014, dopo la sentenza della Consulta sul Porcellum che delegittimava il Parlamento, pur lasciandolo provvisoriamente in vita, si sarebbe dovuto, appena possibile, tornare alle urne. Una legge uniforme per le due Camere, allora, c’era: quella uscita dalla sentenza, il cosiddetto “Consultellum”. Ma anche su questo s’è fatto finta di niente, contando sul fatto che i buoni risultati – su tutti la magica riforma costituzionale – avrebbero fatto aggio sul difetto di legittimità originaria, di cui nessuno avrebbe più parlato. Buoni risultati? Il giudizio l’ha appena dato il corpo elettorale.

Cosa si aspetta ora dalla Consulta, che il 24 si pronuncerà sull’Italicum?
Se valgono le ragioni scritte nei precedenti costituzionali, e non ragioni d’altro tipo, pare di capire che è incostituzionale anche l’Italicum: per i capilista bloccati cioè nominati, per il premio abnorme di maggioranza e per la difformità fra il sistema ipermaggioritario della Camera e il Consultellum proporzionale del Senato.

E sulla bocciatura del referendum della Cgil sull’abolizione dell’articolo 18?
Da ex giudice costituzionale, ho un obbligo di discrezione. Una sola osservazione: sono sconcertato dal fatto che escano notizie, fondate o infondate che siano, sugli schieramenti con nomi e cognomi formatisi nella camera di consiglio, dove dovrebbe regnare il riserbo assoluto.

Cosa si augura di qui alle elezioni?
Che si ricominci a fare politica, non con manovre di palazzo ma con progetti per l’avvenire che ci facciano uscire da questo tempo esecutivo che ha bandito la politica, se non come mera lotta per l’occupazione dei posti di potere. Tolto di mezzo il referendum, che è stato un fattore di congelamento anche delle idee, mi auguro un periodo di disgelo. Spero che si ricominci a progettare politicamente e, attorno ai progetti, si raccolgano le forze sociali disposte a partecipare. Il Pd, così come è stato negli ultimi tempi, è uno dei problemi. Il congelamento della politica è dipeso anche da quel partito che è apparso finora come incantato o inceppato dal suo presunto salvatore. Mi augurerei una terapia di disincantamento. Si sente l’esigenza di qualcuno che alzi gli occhi e guardi oltre il giorno per giorno.

A modo suo, sta cercando di ristrutturarsi il M5S: codice etico, scouting per la classe dirigente, programma, alleanze in Europa.
Stanno scoprendo la politica, evviva! Spero che si pongano il problema politico delle alleanze. In democrazia, le alleanze e anche i compromessi non sono affatto il demonio. La questione è con chi, a che prezzo e per che cosa. Chi stipula buoni accordi dà il segno della propria forza, più di chi si isola nella propria diversità. Così come è segno di forza dire, nel “codice etico”: non mi affido alla regoletta automatica secondo cui un avviso di garanzia comporta l’allontanamento dal movimento; ma mi assumo la responsabilità di leggere quel che c’è scritto e poi di dire: “Questa condotta è difendibile, faccio quadrato attorno a te; questa invece è indifendibile e ti mando via”. Sui fatti, non sull’avviso in sé. Altrimenti ci si mette alla mercé della denuncia d’un calunniatore o di un avversario, o del ghiribizzo d’un pm.

E la figuraccia in Europa, tra Farage e i Liberali?
Le darei meno peso politico: cattiva gestione d’un problema di tattica parlamentare, che accomuna sempre tutti coloro che stanno in un Parlamento. Sono altri i punti che i 5Stelle devono chiarire.

Per esempio?
Democrazia interna, selezione della classe dirigente, programma, politica estera, immigrazione. Sui migranti, a proposito di rimpatri, Grillo in fondo dice la stessa cosa del governo che veglia sulla nostra sicurezza, secondo la legge. Ma, non esistendo una posizione chiara o chiaramente percepita del M5S, qualunque cosa dica può essere accusato ora di deriva lepenista, ora di lassismo buonista.

I 5Stelle insistono per il referendum sull’euro.
La Costituzione non lo prevede. Ma un referendum informale per dare un’idea di massima degli orientamenti tra i cittadini, non vedo perché non sia possibile. Piuttosto, anche qui, occorre la chiarezza delle posizioni. Uscire dall’euro, come, quando e con quali conseguenze? Contestare l’Europa per distruggerla e tornare alle piccole patrie, o per rifondarla, e come? Tra tutti gli Stati attuali, o solo con il nucleo più omogeneo? E così via.

Se i 5Stelle vincono le elezioni, che succede?
Si farà di tutto per impedirglielo. Anzitutto con una legge elettorale ad hoc: quella proporzionale. Quando il Pd vinse le Europee col 41%, l’Italicum col premio di maggioranza a chi arrivava al 40% era la legge più bella del mondo. Ora che i sondaggi ipotizzano un ballottaggio vinto dal M5S, non va più bene e si vuol buttare via una legge mai usata: roba da perdere la faccia. Non per nulla la Commissione di Venezia e la Corte di Strasburgo nel 2012 (Ekoglasnost contro Bulgaria) hanno detto che non si cambia legge elettorale nell’imminenza delle elezioni. Ma anche qui arriva il conto di troppe miopie.

Quali miopie?
Dal 2013 una classe politica lungimirante avrebbe tentato di parlamentarizzare i 5Stelle. Invece li hanno demonizzati e ostracizzati. E ora non sanno più come neutralizzarli se non col proporzionale, che ci riporterà alle larghe intese Pd-Forza Italia. Nulla di scandaloso di per sé (vedi la grande coalizione tedesca). Ma in Italia il rischio è che sia l’ennesimo traffico di interessi, con fine ultimo di restare comunque a galla.

I 5Stelle non sono pronti per governare. Non le fanno paura?
Chi governa lo decidono gli elettori. Sotto certi aspetti, chiunque disponga del potere dovrebbe fare paura. A parte ciò, come già sta avvenendo dove governano i 5Stelle, le nuove responsabilità impongono loro di cambiare pelle, natura e, spero, anche toni: più oggettività e meno proclami. Se si pensa che il problema sia afferrare il potere, perché poi tutto scorra facilmente, ci si sbaglia di grosso.

Il M5S ha difeso la Costituzione dalla “riforma” , ma vuole il vincolo di mandato contro i voltagabbana, che ora vengono multati.

C’è una soluzione più semplice e costituzionale: il parlamentare è libero di cambiare partito e anche di votare come vuole, in dissenso dal suo gruppo. Ma, se lascia la maggioranza con cui è stato eletto per passare all’opposizione, o viceversa (caso molto più frequente), subito dopo deve decadere da parlamentare: perché ha tradito i propri elettori e ha stravolto il senso politico della sua elezione.

Lei vive a Torino: che gliene pare di Chiara Appendino?
Non l’ho votata, perciò posso dire in totale libertà che è una felice sorpresa. Ha detto che non tutto quel che s’è fatto prima è da buttare: ecco la forza della continuità. È più fortunata di Virginia Raggi, che a Roma ha trovato una situazione infinitamente più compromessa: lì è difficile salvare qualcosa del passato. Ma vedo che, ai 5Stelle in generale e alla Raggi in particolare, non si perdonano molte cose che si perdonano agli altri. Due pesi e due misure.

Anche a giornali e tv si perdonano bugie e falsità, mentre per il Web s’è perfino coniato il neologismo della “post-verità”.
Come se, prima del Web, l’informazione fosse il regno della verità! Da sempre la menzogna è un’arma del potere, lo teorizzava già Machiavelli. Il che non significa che la si debba accettare. Anzi, occorre combatterla, perché la verità è, invece, l’arma dei senza potere contro i prepotenti. La Verità non esiste, ma la verità sì. Almeno sui dati e sui fatti oggettivi. Poi le interpretazioni sono libere.

Si dice che il successo di Trump, della Brexit e dei 5Stelle contro gli establishment è colpa delle fake news sul Web.
Troppo facile. Le bufale del Web sono così dozzinali che chi ha un minimo di conoscenza può facilmente respingerle, perché quella è una comunicazione orizzontale: verità e bugie, spesso anonime o firmate da ignoti, non hanno autorevolezza e si elidono reciprocamente. Invece la somma delle bugie o delle reticenze diffuse dalla stampa e dalle tv sono firmate, dunque più autorevoli, ergo meno smentibili, perché quella è una comunicazione verticale. Occorrerebbe bloccare gli interventi anonimi sul Web, così sarebbe più facile distinguere chi è credibile e chi no. Se poi qualcuno diffama, si creino procedure giudiziarie rapide. La difesa della reputazione delle vittime è inconciliabile con i tempi lunghi. Ma le fake news diffuse per turbare l’ordine pubblico sono già ora materia penale. Per il resto, questa storia della post-verità mi pare un discorso falso: come se, prima, non esistesse e vivessimo nel paradiso della verità.

Che intende dire?
Da quando gli elettori disobbediscono regolarmente agli establishment, questi cercano scuse per giustificare le proprie sconfitte e per mettere le mani sull’unico medium che ancora non controllano: la Rete. Si sentono voci autorevoli domandare: ma non vorremo mica far votare gli ignoranti, anzi i “populisti”? Se lo chiedeva già Gramsci: è giusto che il voto di Benedetto Croce valga quanto quello di un pastore transumante del Gennargentu? La risposta, di Gramsci ieri e di ogni democratico oggi, è semplice: se il pastore vota senza consapevolezze, è colpa di chi l’ha lasciato nell’ignoranza; e se tanta gente vota a casaccio, è perché la politica non gli ha fornito motivazioni adeguate. Questi signori pensino a come hanno ridotto la scuola, la cultura e l’informazione: altro che il Web!

Grazie, professore.

jam session senza nostalgia. Il crollo del Muro di Berlino sancisce la fine di un’epoca. Sull’eredità di quelle maccerie c’è ancora molto da indagare .Il fallimento del socialismo reale non coincide con il venir meno della necessità politica «del movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti». il manifesto supplemento-comunismo 1917- 2017, 12 gennaio 2017 (c.m.c.)

Per un giornale che come il nostro ( ormai unico in Italia e raro nel mondo) si ostina a definirsi«quotidiano comunista», un grande convegno internazionale proprio a Roma che rilancia l’attualità dell’aggettivo,è buona cosa. Si terrà, iniziando niente di meno che nei locali della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, e proseguendo anche in altre sedi (il Cinema Palazzo e EscAtelier), dal 18 al 22 gennaio.

«Un’idea di comunismo» era stato il nome delle analoghe precedenti edizioni, pensate sopratutto da AlainBadiou e Slavoj Zizek: quella di Londra del 2009, poi di Berlino, di New York, di Seul. Questa di Roma è però speciale e infatti si chiama «Comunismo 17», perché sarà il primo evento di un centenario importante: quello della Rivoluzione d’ottobre. E già questo pone un primo interrogativo e non di poco conto: quando parliamo di comunismo in che rapporto lo poniamo con quella vicenda?

Si tratta di un problema che ha a lungo travagliato il movimento operaio e però è vero che negli ultimi decenni, dopo la fine dell’Urss, è stato rimosso, difficile rintracciare un interesse per il tema nelle generazioni maturate in questo secolo, facilmente reclutate dal pensiero dominante: che si sia trattato soltanto di un altro, forse il principale, orrore del XX secolo. La giudiziosa espressione usata da Berlnguer nel 1981, al momento della definitiva rottura con il Pcus l’ottobre ha perso la sua spinta propulsiva ma guai se non ci fosse stato ha finito, nel migliore dei casi, come sappiamo, per esser memorizzata solo a metà. ( Per la verità il ’17 è anniversario - 150 anni - anche del primo volume del Capitale, altro evento su cui chi si definisce comunista farebbe bene a meditare).

È singolare che sebbene tutt’ora si sia in (relativamente) tanti a definirci comunisti, il concetto sia sempre rimasto nebuloso. Oggi, per fortuna, si è imparato a declinarlo al plurale; e già questo aiuta. Ma non basta. Perché ci definiamo tali?

L’indeterminatezza del termine è antica, anzi originaria. Marx infatti non si è mai sognato di indicare un preciso modello di società comunista se non attraverso qualche idilliaca immaginazione di come avrebbe potuto essere la vita una volta sconfitta l’alienazione del lavoro. E proprio lui, così severo con i pasticcieri dell’avvenire, si lascia andare, nell’ Ideologia tedesca, a dire: «quel che vogliamo è un mondo dove sia possibile per tutti far crescere i bambini, arredare la casa, intrattenere gli ospiti, cucinare buoni pasti, fare e ascoltare musica».

In effetti sebbene un po’ troppo familista non è male come obiettivo. Giustamente Herbert Marcuse aveva conferito indirettamente al progetto una sua concretezza politica con le parole dette, nell’euforia del ’68: che l’evoluzione della società contemporanea, la dinamica della produttività, ha privato la nozione di utopia del suo carattere irrealistico. Se non si possono ottenere le cose che si vogliono, non è perché è impossibile, ma solo perché sono bloccate dai rapporti sociali di produzione del capitalismo.

Basta farli saltare, dunque. Sul perché non ci siamo ancora riusciti in realtà da tempo si è discusso poco, e temo non se ne discuterà molto nemmeno nella prossima conferenza romana: la riflessione critica e l’analisi storica sembrano essere oggi le più mortificate fra le attività cui i comunisti si sono dedicati, sebbene sia Marx che Lenin ci avessero abituato al contrario.

Perché credo che se dobbiamo indicare il senso vero della parola comunismo, fra i molti che possono esserle conferiti, il più appropriato resti quello usato da Marx stesso: «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti»; e dunque conta l’esperienza storica, quella che ha coinvolto milioni di persone nel tentativo di uscire dal sistema capitalista e dalle sue miserie; quella che ha governato, nel bene e nel male, i più grandi paesi della terra, il fenomeno che ha forse più di ogni altro segnato l’intero secolo scorso. Un grande processo rivoluzionario, poi degenerato e sconfitto.

Su questo, prioritariamente, credo occorrerebbe riflettere seriamente tutti. È comunque merito del convegno in preparazione aver rilanciato l’ipotesi comunista, aver sdoganato il termine, contro la vulgata che ha finito negli ultimi decenni per relegarlo ad una variante del totalitarismo, un cumulo di macerie.

A renderlo di nuovo attuale sono stati i tempi più recenti, che hanno riportato all’odg in forma macroscopica i peccati del capitalismo, dimostrando la sua incapacità di garantire le condizioni minime di sopravvivenza per milioni di umani. E hanno al tempio stesso reso più limpido il messaggio originario di Marx che si è sempre distinto da ogni altra critica «progressista» perché ispirato dall’idea che era necessario trasformare non solo il titolo di proprietà da privato a pubblico, ma l’insieme dei rapporti sociali, i valori individuali e collettivi, che la posta in gioco era insomma una vera rifondazione sociale (che è poi la distinzione fra riformismo e rivoluzione) Ma «la maturità del comunismo», come noi de il manifesto nelle famose nostre tesi del 1970 indicammo come il nocciolo di quanto si manifestava nel nuovo movimento di critica della modernità capitalista, non va scambiato per attualità politica (anche allora ci fu chi lo interpretò in questi termini ).

Dal ’68 un tempo epocale è comunque passato: e per chi crede, come io credo, che non possa esserci un movimento capace di cambiare lo stato di cose presenti senza un soggetto collettivo e la capacità della politica di rappresentarlo coerentemente; che pensa che il drammatico impoverimento della democrazia non sia liberazione da una gabbia filistea ma il logorarsi del terreno più favorevole allo sviluppo di un lungo processo sociale, di cose da ripensare ce ne sono non poche.

Conquistare la società ancor prima del potere statale questo è stato il comunismo italiano, forse l’esperienza più ricca ancorché così travisata dalla sinistra anglosassone implica una riflessione innanzitutto sulla attuale frantumazione sociale, determinata dalle nuove forme del lavoro, così come dalle diversificazioni culturali indotte dai processi di individualizzazione che essa ha indotto. Non sarà il capitalismo nel suo divenire che produrrà di per sé il suo becchino. Meno che mai. Proprio questa frantumazione, l’aggiungersi di contraddizioni diverse da quella capitale lavoro, rendono la costruzione del soggetto collettivo ancor più difficile, meno spontanea, più bisognosa di una mediazione politica alta.

Tutte cose che si possono fare, naturalmente. Ha ragione il filosofo francese Alain Badiou quando dice che la scienza ci insegna che un successo è sempre preceduto da tanti fallimenti, perché questa è la ricerca. Sono anche convinta che il famoso sarto di Ulm, assunto da Bertold Brecht come apologo del comunismo, si è sì schiantato gettandosi dal campanile per dimostrare che l’uomo poteva volare, ma poi l’uomo ha effettivamente volato.

Per ora, dunque, ci siamo schiantati, ma in futuro ce la possiamo fare anche noi. Dubito però che saremo molto convincenti se non sapremo dire ai nostri compagni di avventura di quali attrezzi avremo bisogno per non subire la stessa sorte del sarto.

Che ci si debba impegnare, evitando di farsi paralizzare da TINA (there is no alternative) il mostro del XXI secolo è fuori discussione. Resto convinta di quanto diceva Sartre: «se l’ipotesi comunista non è valida, significa che l’umanità non è diversa dalle formiche».

«Il diritto del lavoro è parte integrante dei diritti di seconda generazione, e questi sono cresciuti con la consapevolezza dei soggetti interessati, nella misura in cui il mercato da solo non può regolare tutti i fenomeni sociali». il manifesto, 12 gennaio 2017 (c.m.c.)

Forse è possibile scrivere un nuovo pezzo di Storia con i referendum sul lavoro, nonostante la Consulta abbia ridotto l’effetto dei referendum sul lavoro.

Infatti, i diritti e le tutele sono legate alla Storia, più precisamente alle rivendicazioni e alle lotte dei soggetti sociali. Rimane la proposta di legge della Carta dei diritti che non è meno importante del referendum sull’Art. 18. Sebbene le libertà civili siano iscritte nelle costituzioni, è il caso di ricordare che queste libertà sono figlie della maturità del movimento dei lavoratori salariati.

Se consideriamo l’evoluzione dello Stato liberale, possiamo ben comprendere questo processo. Ricordo l’importante contributo offerto dall’economia pubblica e dall’economia del benessere. Il così detto Stato liberale, infatti, nel tempo (Storia) ha fatto propri i diritti di «II generazione, mentre l’economia mista è (era) l’approdo naturale per chiunque volesse coniugare mercato e diritti.

Bobbio è il maestro indiscusso della classificazione dei diritti sociali di seconda generazione. Si tratta di diritti il cui nucleo centrale è rappresentato dalla richiesta dei cittadini allo Stato di godere di beni e servizi sociali tramite tassazione (necessariamente elevata in tutti gli stati sociali). Il diritto, quindi, evolve fino a contemplare figure e oggetti che con il passare del tempo diventano sempre più stringenti. Bobbio ricorda che la crescita del diritto è figlia della maggiore consapevolezza delle persone e delle associazioni (sociali). Lo stesso approccio vale per i diritti del lavoro di II generazione, ancorché condizionati dalla vulgata liberista che intende ripristinare, come fondamento delle relazioni sociali, il solo diritto di prima generazione (proprietà).

Chi si ostina a reclamare la libertà dell’individuo, in realtà reclama la libertà delle imprese, dimenticando che financo l’Europa (Trattato di Lisbona) pone dei vincoli all’individuo. Il diritto del lavoro è parte integrante dei diritti di seconda generazione, e questi sono cresciuti con la consapevolezza dei soggetti interessati, nella misura in cui il mercato da solo non può regolare tutti i fenomeni sociali.

Gli standards Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro) relativi al diritto del lavoro – l’Italia ha sottoscritto tutte o quasi tutte le sue convenzioni – chiariscono che il lavoro deve essere decente e produttivo, e deve essere svolto in condizioni di libertà, equità, sicurezza e dignità. L’Ilo pone anche dei vincoli che i detrattori dei referendum rimuovono con troppa semplicità: la stabilità del posto di lavoro, salari dignitosi, libertà sindacali, contrattazione collettiva e, in particolare, nessuna discriminazione di razza, colore, sesso, religione o idee politiche.

Il tema della democrazia nei luoghi di lavoro non evapora con la sentenza della Consulta. Deve essere la politica a trovare una soluzione a questo tema. Infatti, il concetto di Mercato del Lavoro è soggetto a forte critica. Esistono due tipi di approcci: economico e sociologico. Riprendendo Solow, «esiste nelle scienze economiche un’importante tradizione, attualmente dominante, soprattutto in macroeconomia, secondo la quale il mercato del lavoro è, da tutti i punti di vista, eguale a qualunque altro mercato.

Ma, tra economisti, non è per nulla ovvio che il lavoro sia un bene sufficientemente differente dai carciofi e dagli appartamenti da affittare, tale da richiedere un differente metodo di analisi». Non dobbiamo mai dimenticare che il contratto tra datore e prestatore di lavoro non è uguale ai normali rapporti tra contraenti, avendo un contenuto e una ratio speciale, derogatoria, perché le due parti in causa sono, per definizione, in posizione di disparità sostanziale.

Ecco perché il diritto del lavoro si configura come diritto «diseguale», cioè tendente a riportare un minimo di equilibrio tra parti dotate di diverso potere. Il diritto del lavoro non ha come finalità primaria la crescita. Può favorirla alla sola condizione di riequilibrare il rapporto di forza tra questi e il datore di lavoro.

La politica, dopo la sentenza, deve ri-costituire la base del nostro ordinamento giuridico (si vedano, tra gli altri, gli artt. 1, 2, 3 e 4 della Costituzione), così come i fondamenti della società civile. Nessuno pensi di avere scampato un pericolo.

«La buona politica deve essere sempre in tensione fortissima con una visione del mondo. I tecnici sono utili ma non sufficienti: in politica non basta riparare il rubinetto come fa un bravo idraulico».

Il Fatto quotidiano, 11 gennaio 2017

In un’epoca che premia i politici che parlano di pancia e alla pancia, Giuseppe Laterza sembra fuori fase. Dire che “la cultura ci rende cittadini migliori” non garantisce popolarità. Proprio per questo è da lui che bisogna partire per capire dove si può trovare una classe dirigente per questo Paese. Alla fine la crisi della politica sta tutta lì: la parabola del renzismo è stata così rapida perché si reggeva sui compagni di scuola di Matteo Renzi. A Roma il Movimento 5 Stelle arranca soprattutto perché privo di un personale politico all’altezza delle sfide che ha davanti. Le elezioni non sono lontane e bisogna rispondere in fretta a una domanda: come si trova una classe dirigente adeguata?

Giuseppe Laterza, la caduta di Matteo Renzi e del suo Giglio Magico, poi le disavventure dei Cinque Stelle a Roma e Bruxelles sembrano avere un tratto in comune: c’è il potere, ma non la classe dirigente per amministrarlo.
«Oggi la politica è spesso ridotta a mera comunicazione, oppure a competenza. Se è così, il massimo che si può sperare è di ritrovarsi con un sindaco iperbolico come Luigi De Magistris o ‘pragmatico’ come Giuseppe Sala. Ma la buona politica deve essere sempre in tensione fortissima con una visione del mondo. I tecnici sono utili ma non sufficienti: in politica non basta riparare il rubinetto come fa un bravo idraulico, bisogna definire i propri valori di riferimento».

Se non basta la competenza, la risposta è la cultura?
«Non ci si può fermare ai trattati di management o ai manuali fai da te. Chi ha le responsabilità della classe dirigente deve leggere anche Zygmunt Bauman e Amartya Sen, Tony Atkinson e Tony Judt. La cultura è dubbio metodico, ti spinge a mettere tutto in questione continuamente, così si prendono anche meno cantonate. Questa è la cultura che manca alla nostra classe dirigente».

Bauman e Amartya Sen insegnano a governare Roma?
«Se sei un grande amministratore delegato o il direttore di un ospedale, sono proprio quelle letture non direttamente legate alla tua competenza che si rivelano essenziali per compiere le scelte importanti. Altrimenti non c’è differenza con l’idraulico. Purtroppo, i nostri manager leggono poco, quasi solo fiction».

Primo punto: più libri.
«Piero Calamandrei, in un articolo del 1953 sul Ponte scriveva che ‘tutte le società sono di élite, anche la democrazia, che però a differenza delle altre deve essere aperta, contendibile, tutti i governati che ne hanno la capacità devono poter diventare governanti’. Capacità morali, tecniche e intellettuali che si iniziano a sperimentare a scuola, come ripeté per tutta la vita Tullio De Mauro».

Anche se in Italia i lettori sono pochi rispetto a Germania o Svezia, di gente con alti consumi culturali ce n’è parecchia.
«Sono i 2-3 milioni di persone che si informano, vanno a teatro e alle mostre, i giovani che trovi a migliaia negli incontri del Festival di Internazionale a Ferrara. Ma i loro numeri di telefono non sono in quella rubrica di 4-5.000 cellulari in perenne contatto tra loro per gestire il potere. Questa di cui parlo, è una élite potenziale che non coincide (se non in minima parte) con i parlamentari, con gli amministratori pubblici ma neanche con i manager privati».

E quindi?
«Bisogna che si faccia sentire, che prenda il potere. Il primo punto è riconoscere la propria esistenza, smettere di piangersi addosso. Finora ci siamo detti ‘siamo pochi, non contiamo niente’. Non è vero. In tutti i Paesi c’è una minoranza che guida la maggioranza. Questa élite può essere aperta o chiusa: l’élite chiusa si illude di stare in un fortilizio che invece è pieno di crepe ormai evidenti a tutti. E in Italia è rassicurata da una casta giornalistica, che spesso non conosce altro che il linguaggio della politica italiana e che insorge invece contro Vivendi dimenticando Alitalia, con opinionisti muti di fronte al tentativo di trattare Mediaset come patrimonio nazionale».

Pensa a qualche forma di mobilitazione come i girotondi negli anni di Berlusconi?
«Il mio compito non è certo quello di organizzare i girotondi, ma credo che le idee debbano passare anche attraverso la politica e la rappresentanza. Ci sono persone che hanno provato a farsi sentire nella politica italiana ma sono rimaste ai margini. Possono ancora essere protagoniste, con il sostegno della società civile: la stampa, le case editrici, le infinite associazioni, incluse quelle di categoria che hanno grandissime responsabilità nell’aver avanzato soprattutto ragioni di corporativismo. La leadership deve venire da tanti punti della società».

Qual è il suo ruolo di editore?
«Diffondere le buone idee e farle diventare senso comune. Lo si può fare con i libri ma anche in tanti altri modi, online e offline, ad esempio nei festival come in quello del diritto di Stefano Rodotà o dell’Economia di Tito Boeri o con le lezioni di storia. Pensi all’idea di società liquida di Bauman che dai suoi libri è diventata senso comune, fino al punto che ormai la si cita (anche a sproposito) indipendentemente dall’autore. Quest’anno vorrei organizzare incontri con i lettori forti ma anche con professionisti, imprenditori, commercianti. Per convincerli che investire in cultura cambia un Paese: dove si leggono più libri si fa più raccolta differenziata e prevenzione sanitaria…»

C’è una responsabilità di questa classe dirigente potenziale nel non aver accompagnato l’ascesa dei M5S, lasciando in balia della propria inesperienza?
L’establishment intellettuale ha bollato i Cinque Stelle con il marchio dell’infamia. E questo è un atteggiamento sbagliato. Come ha scritto ieri Travaglio, a Torino la società civile ha cooperato con Chiara Appendino e questo mi sembra un bene. Io posso essere del tutto in disaccordo con quanto dice Grillo, ma non posso ignorare che i suoi elettori, secondo i dati raccolti da Ilvo Diamanti nel libro Salto nel voto sono i più giovani, professionalmente attrezzati e scolarizzati.

Se il M5S fallisce, cosa c’è dopo Grillo?«Grillo non ha mai detto a nessuno di sfasciare le vetrine. Ma non è detto che non si arrivi a quello, quando il sentimento di esclusione raggiungerà il punto di non ritorno. Ma non succederà se sapremo fare la rivoluzione pacifica della cultura».

Ciò che siamo, ciò che non siamo, ciascuno di noi e tutti insieme. Un testo in ricordo del grande pensatore scomparso.

la Repubblica, 10 gennaio 2017

«Testo tratto da In Praise of Literature (“ Elogio della letteratura”), firmato da Zygmunt Bauman con Riccardo Mazzeo, edito da Polity Press, e che uscirà in Italia da Einaudi Traduzione di Anna Bissanti».

Che si tratti di Katy Perry o di Marcel Proust o Lacan che hanno qualcosa di importante da dire sulle premesse inconsce della loro consapevolezza - o di voi e di me; a prescindere da ciò che noi tutti e ognuno di noi veda, pensi di vedere o creda di stare vedendo, e a prescindere da qualsiasi nostro comportamento conseguente, ogni cosa è sempre intessuta in un discorso.

Di fatto, noi mangiamo discorsi, beviamo discorsi, guardiamo discorsi. Il discorso è ciò di cui siamo fatti. Ed è a causa del discorso e della sua intrinseca necessità di dover guardare al di là dei confini che esso impone alla propria libertà che il nostro stare-al-mondo è un processo di perpetuo divenire - eterno e infinito. Il divenire insieme, il mescolarci, l’essere intrinsecamente, inseparabilmente intrecciati e avvinti, condividendo i nostri rispettivi successi e insuccessi, congiunti gli uni agli altri nel bene e nel male, dal momento del nostro simultaneo concepimento finché morte non ci separi...

Ciò che chiamiamo “realtà” quando cadiamo in uno stato d’animo filosofico, o “dati di fatto” quando seguiamo le opinioni correnti, sono entrambi intessuti di parole. Commentando nel suo libro Un incontro la storia di un vecchio di Juan Goytisolo, Milan Kundera fa notare che la biografia - qualsiasi biografia che tenti di essere ciò che il suo nome suggerisce che debba essere - altro non è che una logica artificiale, artefatta, imposta retroattivamente a una successione poco precisa e incoerente di immagini, sovraccarica di spezzoni di ricordi.

Kundera conclude che, in netta contrapposizione con gli assunti del buonsenso, il passato condivide col futuro l’insanabile flagello dell’irrealtà. Eppure, proprio questa irrealtà è l’unica realtà che dobbiamo afferrare e possedere, «vivendo nel discorso come pesci nell’acqua». Questa realtà irreale, fin troppo irreale, la chiamiamo “esperienza”. Ci sforziamo di penetrare attraverso il muro fatto di parole. Paradossalmente, però, quel muro è l’interpretazione.

L’interpretazione è sempre un atto di re-interpretazione; la reinterpretazione è sempre una testa di ponte verso un’altra reinterpretazione. Quella che chiamiamo a priori e anche a posteriori “realtà” può arrivare a noi soltanto nell’involucro delle pre-interpretazioni. Una realtà “cruda”, “pura” e “assoluta” — di fatto non deformata — è un fantasma.

Eppure utile, almeno finché sarà per noi una sorta di stella di Betlemme che, sistematicamente irritata dall’accecante imperfezione del linguaggio, ci indica comunque la strada verso la perfezione linguistica e così, o almeno si spera, verso la verità. La destinazione prescelta potrebbe essere irraggiungibile. La sua visione, però, ci sprona, ci induce a metterci in cammino e a continuare a camminare.

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