«Intervista a Tomaso Montanari presidente di Libertà e Giustizia che si schiera coi comitati locali "In Puglia si sta calpestando l’articolo 9 della nostra Costituzione"
». MicroMega online 13 aprile 2017 (c.m.c)
Deluso dal M5S, acerrimo nemico del Pd. Tomaso Montanari – storico dell’arte, paesaggista e professore universitario – dopo aver avuto un ruolo centrale nella campagna per il NO alla riforma costituzionale, è diventato recentemente presidente dell’associazione Libertà e Giustizia. Volto emergente, interpellato anche sul futuro della sinistra nell’ultimo numero di MicroMega, si dice poco interessato alle primarie Pd del prossimo 30 aprile né crede in un ritorno in scena di Matteo Renzi: «È politicamente finito, il suo carburante è esaurito, bruciato, volatilizzato. Nessuno può più credergli, dopo tante balle, false promesse, fanfaronate risibili». Per ultimo, Montanari sta studiando le carte sulla costruzione del gasdotto Tap, dove ha deciso di schierarsi con i comitati locali del NO: «In Puglia si sta calpestando l’articolo 9 della nostra Costituzione».
Montanari, partiamo da qui. Il Tap (Trans Adriatic Pipeline) è la parte finale di un gasdotto di quasi quattromila chilometri che va dall’Azerbaijan all’Italia. Chi è favorevole al tunnel parla di grandi vantaggi per il Paese perché porterebbe 9 miliardi di metri cubi di gas con un impatto ambientale minimo (le proteste sono per 200 ulivi secolari che poi verrebbero ripiantati). Intanto, però, da un’inchiesta dell’Espresso, si evince che dietro l’opera spuntano manager in affari con le cosche, oligarchi russi e casseforti offshore. E’ favorevole nel dire che il problema del Tap non è dato certamente dagli ulivi, ma da chi ci sta mangiando sopra?
Lo sbocco salentino del Tap viene realizzato lì contro il parere del Ministero per i Beni culturali, che mise nero su bianco che «la metodologia sulla base della quale si è pervenuti alla scelta localizzativa ... non appare convincente». Grazie allo Sblocca Italia Renzi-Lupi quel parere si è potuto calpestare, e con esso si è calpestato l’articolo 9 della Costituzione. Questo è il vero problema.
Non rischiamo la sindrome Nimby dove a rimetterci è la collettività nazionale? Se un’opera è di interesse nazionale, non bisogna costruirla, ovviamente rispettando i canoni di trasparenza e azzerando l’impatto ambientale?
Il punto è stabilire cosa sia interesse nazionale, e in quale modo vada realizzato. Si tratta di bilanciare interessi legittimi. Qui non c’è stato alcun bilanciamento. Se avessimo avuto più Nimby – cioè più cittadinanza attiva, più amore per il proprio territorio e più legalità – avremmo un Paese migliore, non peggiore.
È possibile, in Italia, costruire una grande opera infrastrutturale senza il solito malaffare e senza favorire gli interessi delle cricche?
No, non pare possibile. La corruzione è ormai endemica alla forma di governo. Occorre una discontinuità drammatica, occorrono misure draconiane. Come quelle che il M5S ha promesso, ma poi una volta arrivato a prendere Roma non ha per ora realizzato. Un punto essenziale è che l’opera deve servire davvero, e deve avere le carte in regola sul piano legale. Le opere inutili sono criminogene per definizione.
Dopo la sconfitta sulla riforma costituzionale, Matteo Renzi sembrava in assoluto declino, invece con la vittoria alle prossime primarie potrebbe ritornare più forte di prima. Ci crede a questa nuova ondata del renzismo? E, nel caso, come la leggerebbe?
Renzi è finito perché ora tutti sanno che mente sistematicamente e che il suo scopo è il potere personale, non il cambiamento dello stato delle cose. Dopo il 4 dicembre aveva due possibilità: uscire di scena e dimostrare che sapeva fare altro nella vita, o trasformarsi in un politicante da prima repubblica in cerca di poltrona e stipendio. Ha scelto la seconda. Sta irresponsabilmente trascinando il Pd a fondo con sé, in un abbraccio mortale. Se il Pd lo segue, si trasforma definitivamente nel PdR, il Partito di Renzi, e poi finisce. Una fine ben triste.
Che idea si è fatto del caso Consip, dopo che è stato indagato un ufficiale dei Carabinieri per aver falsificato le dichiarazioni su Tiziano Renzi? Si è preso un abbaglio contro di lui?
Mi pare una vicenda allucinante. A cui questa ultima rivelazione aggiunge un carico di angoscia: quali guerre per bande dilaniano lo Stato? In ogni caso, rimane non smentito il quadro di fondo: l’occupazione del potere da parte di un ristretto cerchio di provinciali che ora si lanciano a vicenda accuse gravissime. Era questo la rottamazione, il rinnovamento, il futuro promesso dal grande statista di Rignano sull’Arno? Una domanda che resta, comunque finisca l’inchiesta.
Anche il M5S – nonostante in tutti i sondaggi si attesti come primo partito – vive le sue vicissitudini: a Genova stiamo assistendo al vero volto autoritario e centralistico del MoVimento di Beppe Grillo?
Stanno venendo i nodi al pettine. Io credo che il M5S dovrebbe andare in direzione diametralmente opposta: invece che pretendere un’ortodossia organizzando un’inquisizione, dovrebbe coltivare la forza creativa dell’eresia, del pensiero critico. Dovrebbe candidare anche una quota di cittadini di riconosciuto prestigio locale, portando in Parlamento una fetta di Paese senza rappresentanza. Come Berlinguer con gli indipendenti di Sinistra, con i cattolici del dissenso. Senza chiedere obbedienza. Non si vogliono alleare coi politici? Potrebbero cominciare ad allearsi con i cittadini. E dimostrare di non essere Grillology.
Nel frattempo Berlusconi... Renzi e Grillo stanno rimettendo in gioco il Cavaliere o è fantapolitica?
Bah, mi fa una pena, in versione vegana ad allattare gli agnelli… Non so, la destra moderata è il Pd di Renzi, la destra estrema è la Lega. Dove può stare Berlusconi?
Che ne pensa invece dei movimenti a sinistra? È vero che le è stato proposto un ruolo dirigenziale in Sinistra Italiana?
Credo che Sinistra Italiana e Possibile debbano camminare insieme. In quale direzione? Ci vuole un partito di sinistra di massa. Non riformista, ma radicale. È un cammino lungo, ma chi non parte, non arriva. Io sono un uomo di sinistra, tutto qua.
Insomma, Montanari cosa vuole fare da grande? La vedremo presto in campo (politico)?
La mia vita è la ricerca. Ricerca scientifica, ricerca morale, ricerca politica sono strettamente collegati e sfociano in una pratica intollerabile per il potere: dire la verità. Questo non significa rinunciare a ‘fare politica’. Significa solo ricordare che esistono molti modi per farla: e ricordare che cercare e dire la verità è uno di quelli. È questa, credo, la vera risposta a chi chiede che gli intellettuali facciano politica: e cioè che la fanno già. La fanno prendendo la parola in pubblico: la fanno da cittadini che vivono con pienezza la propria cittadinanza. Dire la verità vuol dire fare politica: «una politica diversa», di cui continuiamo ad avere una vitale necessità. Perché la questione è molto semplice: un futuro diverso dalla continuazione del presente non potrà che essere costruito da una «politica diversa».
E qual è la prossima battaglia che vedrà impegnata “Libertà e Giustizia”?
Abbiamo preso una posizione molto dura sul caso Madia. Credo che dovremo insistere. L’intreccio tra conoscenza, formazione, etica e politica è decisivo. Se vogliamo dare futuro ai nostri ragazzi e alla democrazia dobbiamo affermare che l’onestà intellettuale, il duro lavoro e l’eguaglianza non sono valori disponibili. La razza padrona che trucca le carte è intollerabile e non va tollerata.
Due giornalisti sullo stesso argomento.La conclusione è la stessa: i mass media barano e gonfiano un fenomeno che non c'è. Ma l'uno (Vittorio Emiliani) parla schietto, l'altro (ci perdoni Corrado Augias) è un po' ipocrita e difende la corporazione.
la Repubblica, 12 aprile 2017
Vittorio Emiliani domanda
CARO Augias, i Tg e anche molti quotidiani sono pieni di sangue, omicidi e femminicidi, gente che vuole armarsi. Un quadro che moltiplica per mille le insicurezze. Risponde al vero? No. Gli immigrati residenti sono saliti da 3 a 5,4 milioni nell’ultimo decennio (+83,7%), mentre gli omicidi sono drasticamente diminuiti: da oltre 600 a 438 (-27%). Nel 1991 erano ancora 1.910, la metà attribuita a mafia-camorra-’ndrangheta. In Italia si assassina meno che in Finlandia, Belgio, Grecia, Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Austria e Danimarca. Per non parlare degli Stati Uniti. Siamo alla pari, o leggermente sotto, a Francia, Spagna, Olanda, Germania. Lì i Tg nazionali danno forse notizia di “un nuovo omicidio” in qualche sperduto paese? Da noi sì, e con grande evidenza.
Dal 2010 agli inizi del 2013 (fonte Polizia di Stato), anche le vittime di femminicidio risultano diminuite dell’8,5 %. E per i migranti? Le richieste di asilo da noi risultano pari a meno di 1400 per 1 milione di abitanti, mentre in Ungheria sono oltre 17.500, in Svezia oltre 16.000, in Austria quasi 10.000, in Finlandia 6.000 e in Germania 5.441. Parlare di “invasione” è improprio. Ma perché allora i media ci fanno comparire come un popolo di omicidi, con extra-comunitari pronti ad uccidere, sommersi di rapine, furti e altro?
Corrado Augias risponde
COME diceva mia nonna non si deve fare d’ogni erba un fascio. I titoli dei giornali di destra sono una cosa, quelli degli altri una diversa. Le ragioni sono note, evidente la strumentalità politica: più c’è paura più guadagnano le destre che proliferano sui sentimenti forti: paura e rabbia sociale. Al netto di questa diversità, la stampa dà comunque troppa evidenza ai fatti di sangue? È possibile. Intanto siamo noti nel mondo per essere un popolo molto emotivo, i più cattivi si riferiscono a noi come “i brasiliani d’Europa”. Non è giusto, ma i pregiudizi non vanno tanto per il sottile. Ci sono anche altre ragioni per il fenomeno denunciato nella lettera. I grandi mutamenti in corso hanno colpito nel profondo. Non si tratta soltanto del rapido impoverimento delle classi medie, ma di un insieme di cambiamenti che sta sconvolgendo abitudini consolidate e lo stesso profilo della vita associata soprattutto nelle cittadine e nei paesi.
La paura sociale è come la temperatura, conta non il termometro ma la percezione. Un immigrato pazzo che a Milano uccide i passanti a colpi di mannaia, un pregiudicato serbo che nel ferrarese spara al primo accenno di resistenza a una rapina, scuotono gli animi più di ogni più rassicurante (e veritiera) statistica. Nei giorni scorsi il questore di Milano diceva: gli omicidi sono diminuiti e le richieste di porto d’armi aumentate a dismisura. C’è una logica? Non c’è, nelle reazioni nervose ed emotive la logica non c’è mai. E la stampa che Emiliani mette sotto accusa? A parte gli eccessi strumentali cui accennavo, la stampa un po’ fa il suo mestiere, un po’ - diciamolo - ci marcia. Gli omicidi intimoriscono ma, paradossalmente, attraggono, sono un tema ghiotto. Basta pensare a quanti ne consuma ogni giorno la televisione.
«La costruzione dei muri è una tendenza mondiale consolidata, definirà sempre più le forme di relazione tra i paesi e al loro interno. La maggior parte dei muri costruiti di recente ha un segno comune: servono a proteggere i ricchi dai poveri».
comune.info, 10 aprile 2017 (c.m.c.)
La forma del discorso capitalista di Trump non dovrebbe sorprenderci. La novità è che rende palese ciò che normalmente il capitale occulta, mentre nasconde ciò che di solito viene esibito. Ma non ci sono novità di alcun genere nei fenomeni e nelle tendenze molto generali che affronta.
Il muro è un esempio calzante. Dal 1994 gli Stati Uniti hanno cominciato la costruzione di quello che si suppone li dovrebbe proteggerli dal Messico. Il progetto attuale di rinforzarlo e prolungarlo è soltanto un esempio suggestivo e folle della tendenza a costruire muri difensivi che costituisce una delle condizioni del mondo presente. Fino al 1989, quando cadde il muro di Berlino, c’erano solo 11 muri. Oggi sono 70, alcuni lunghi come quello fra gli Stati Uniti e il Messico: quelli che separano l’India dal Bangladesh e dal Pakistan sono rispettivamente di 3283 e 2900 chilometri. I muri europei sono più corti ma più efficaci. La barriera di sabbia nel Sahara Occidentale è il muro più lungo del mondo, dopo la Grande Muraglia cinese. Il muro più aggressivo e arbitrario è sicuramente quello di Israele. [ma la Grande muraglia è una strada prima di essere un muro- n.d.r]
La costruzione dei muri è una tendenza mondiale consolidata, che adotta diverse modalità fisiche e burocratiche. Definirà sempre più le modalità di relazione tra i paesi e al loro interno; la costruzione di muri all’interno delle città, che è iniziata da tempo, continuerà a estendersi. Certi muri, come quello della Corea o quelli dell’India, sono nati in circostanze particolari. La maggior parte di quelli costruiti di recente, tuttavia, ha un segno comune: si costruisce per proteggere i ricchi dai poveri. Si vorrebbe giustificare quei muri come si trattasse di barriere contro i migranti o protezioni contro il crimine, ma la loro ragion d’essere ha poco a che vedere con quei pretesti.
Negli anni Novanta, l’impoverimento continuo di settori sempre più ampi di popolazione che perdevano il lavoro o vedevano ridursi il salario, accentuò la contrazione dei mercati di prodotti e servizi. Per stimolarli di nuovo, il capitale fece ricorso a un sistema di credito impazzito, che condusse a livelli senza precedenti l’individualismo consumista e narcisistico già sviluppato in precedenza e sfociò nella crisi dell’autunno del 2008.
Anselm Jappe ha analizzato il fenomeno cinque anni fa in Credito a morte: la decomposizione del capitalismo e le voci critiche. Secondo Jappe, la tecnologia sta erodendo la base dell’esistenza stessa del capitalismo, cioè la perpetua trasformazione del lavoro in capitale e del capitale in lavoro: il consumo produttivo di forza lavoro e la valorizzazione del capitale, che definiscono la logica del modo capitalistico di produzione, si trovano in caduta libera verso il nulla come conseguenza inevitabile della trasformazione tecnologica.
Riflettendo su quel limite interno della produzione capitalista, i saggi contenuti nel libro parlano «dell’autodistruzione del capitalismo e del suo scivolamento verso la barbarie», così come delle reazioni ugualmente distruttive e barbare che tale decomposizione suscita. Secondo Jappe, l’evidenza del declino del capitalismo non conferma le critiche dei suoi avversari tradizionali. Al contrario, gli sembra che «gli antagonisti di una volta vadano a braccetto verso la stessa discarica della storia».
E’ necessario porsi per questo la questione dell’emancipazione sociale in un altro modo. Questa osservazione è forse la migliore negli scritti di Jappe, Kurz e Postone. Essi non prendono maggiormente in considerazione questo nuovo cammino verso l’emancipazione, ma dimostrano con chiarezza l’inettitudine dei modi tradizionali di analizzare, criticare e scontrarsi con il capitalismo. La maggior parte delle reazioni di fronte al discorso del capitale nella forma Trump, in Messico come in altre parti del mondo, illustra bene questa inettitudine.
L’altra faccia del muro è, paradossalmente, il “libero commercio”. La sua modalità attuale ha poco a che vedere con la tesi di David Ricardo che lo invocava in nome dei vantaggi comparativi, con il presupposto di una perfetta mobilità di tutti i fattori della produzione. Il suo obiettivo principale oggi è regolare il movimento delle merci e delle persone in funzione delle necessità del capitale. Per questa ragione il muro e il TLCAN (Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord) sono le due parti della tenaglia che definisce la relazione tra gli Stati Uniti e il Messico. Come si è ripetuto per decenni, il TLCAN si è rivelato atroce per la maggioranza dei messicani, particolarmente nelle campagne. Non avremmo mai dovuto sottoscriverlo e da tempo avremmo dovuto abbandonarlo. Invece di approfittare della congiuntura per uscirne, con un gesto dignitoso, le classi politiche messicane si preparano a un nuovo disastroso negoziato che manterrà aperta la via alla barbarie, il che porta a muri e distruzioni.
Messo alle strette, il capitale non può far altro che ricorrere alla spoliazione continua e alla barbara distruzione sociale e della natura. Per questa operazione, ciò che resta della democrazia, quella forma politica del capitalismo, deve essere rimosso: l’unico modo di governare dall’alto, nelle condizioni attuali, è con una combinazione di paura e autoritarismo. E così, in modo cieco e criminale, classi politiche di ogni colore ideologico continuano a condurci verso la barbarie.
Si litigano tra loro il controllo relativo che ancora hanno sui dispositivi dell’oppressione e cercano di seminare l’illusione che la sostituzione di coloro che attualmente li guidano possa dar loro un altro senso. Lungi dal condurci all’emancipazione, prendere questa direzione ci condurrebbe ancora più a fondo nella barbarie attuale. Per questo sta diventando chiaro che la nostra speranza non può arrivare dall’alto. E per questa stessa ragione, aumenta ogni giorno il numero di quanti custodiscono questa speranza, perché non si raffreddi, nutrendola dal basso.
Fonte: la Jornada, Traduzione a cura di Camminar Domandando
Incredibile. In questo paese la tolleranza e il rispetto per le religioni diverse da quella dominante non si trovano presso la Corte costituzionale né sulla “libera stampa”, ma nell’editoriale di un giornale diocesano.
La Difesa del popolo, settimanale diocesano di Padova, 11 aprile 2017
Zaia e la maggioranza brindano alla decisione della Corte Costituzionale che ha respinto, dichiarandolo infondato, il ricorso contro la legge recante “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”. Al cui centro, in realtà, vi sono le norme per cui era stata definita a suo tempo "legge anti moschee". Non è discriminatoria, dicono i giudici. Ma è davvero ragionevole?
«E’ un’indiscutibile vittoria. Ancora una volta la correttezza dei principi con cui il Veneto opera e legifera è stata riconosciuta dalla Consulta. Ora mi auguro che questa nuova sentenza induca il Governo ad una minore conflittualità verso il Veneto, che non è il nemico, ma una Regione che conosce la legge e la rispetta». Zaia brinda così alla decisione della Corte costituzionale che ha respinto, dichiarandolo infondato, il ricorso contro la legge recante “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”. Al cui centro, in realtà, vi sono le norme per cui era stata definita a suo tempo "legge anti moschee".
La legge è uscita praticamente indenne dal vaglio dei giudici, a parte la bocciatura di quanto stabilito riguardo l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto. Una decisione definita "sorprendente" da Zaia, che ricorda come il ministro dell’Interno Minniti abbia da poco "sottoscritto un accordo con la comunità islamica moderata italiana che prevede proprio l’uso della nostra lingua nelle moschee”.
Il ricorso del governo puntava a mettere in luce il possibile carattere discrezionale - e dunque discriminatorio - delle scelte dei sindaci in materia di autorizzazioni, ma la Corte Costituzionale non ha ritenuto di intervenire dal momento che la legge prende in considerazione tutte le diverse possibili forme di confessione religiosa, senza introdurre alcuna distinzione in ragione della stipula o meno di un’intesa con lo stato.Anzi, i giudici definiscono “conforme al dettato costituzionale la possibilità che le autorità comp etenti operino ragionevoli differenziazioni” e sottolineano che “si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione”.
Da oggi in poi, dunque, chiunque voglia aprire un nuovo luogo di culto deve stipulare con il sindaco una convenzione che prevede tra l’altro un «impegno fideiussorio adeguato a copertura degli impegni presi».Le nuove «attrezzature religiose» dovranno avere strade di accesso adeguate, opere di urbanizzazione primaria, ampie superfici dedicate a parcheggio, oltre naturalmente a tutti gli standard sanitari minimi.
Non solo: i luoghi di culto e gli annessi potranno sorgere esclusivamente nelle cosiddette zone F dei vecchi piani regolatori, cioè le aree funzionali che i comuni inseriscono a discrezione nei piani urbanistici e che oggi contengono tipicamente ospedali, chiese, impianti sportivi o altro. Per realizzarle dunque sarà determinante la volontà dei sindaci.
Ma che cosa si intende con attrezzature religiose? È presto detto: qualsiasi tipo di struttura che abbia a che fare con una fede religiosa. Il nuovo articolo 31 bis della legge urbanistica regionale non esclude infatti nulla. Ma proprio nulla.
Anzitutto ci sono le chiese, ma anche i sagrati, e poi le abitazioni per i ministri del culto ma anche del personale di servizio (quindi le case delle perpetue e dei sacrestani, se si guarda alla chiesa cattolica). Sono soggetti alla normativa anche gli edifici destinati alla formazione religiosa o ad attività «educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro», compresi oratori e simili senza fini di lucro. E ancora tutti gli edifici sede «di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione».
Ma il passaggio che più ha fatto e sicuramente farà ancora discutere è quello che sottopone alla convenzione anche le aree scoperte «utilizzate per il culto, ancorché saltuario. Se l'obiettivo era quello di impedire per questa via la preghiera del venerdì ai fedeli di religione musulmana o il proliferare di luoghi di culto improvvisati, non sfuggono a nessuno le conseguenze che un'applicazione ferrea della legge potrebbe avere e che all'epoca erano state al centro degli emendamenti e del voto contrario dell'opposizione.Si pensi alla parrocchia che decide di realizzare un campo da gioco in un terreno di proprietà attiguo alla chiesa: il sindaco potrà vietarlo perché le aree in cui sorgono le nostre parrocchie non sono di tipo F. Stesso discorso vale per una comunità che volesse costruire in centro paese una nuova scuola per l’infanzia.
Ma si arriva ai casi assurdi per cui, siccome la legge norma anche gli spazi all’aperto usati saltuariamente per il culto, un gruppo scout dovrà sottostare alla legge urbanistica per le proprie attività.
Per non parlare dei gruppi che si ritrovano a pregare nelle case private: la legge infatti vale anche per tutte le strutture in cui una «comunità di persone in qualsiasi forma costituite» si dedichino «all’esercizio di culto o alla professione religiosa».
Tutto costituzionale - ha deciso la suprema corte - ma non per questo meno preoccupante. E per certi aspetti francamente paradossale.
Il candidato della sinistra alternativa (Jean-Luc Mèlenchon, leader di "Francia ribelle") supera il candidato socialdemocratico e contadi entrare in ballottaggio contro la fascista Le Pen. Le tre ragioni d'un fenomeno sorprendente.
Linkiesta online, 11 aprile 2017
E’ il momento di Jean-Luc Mélenchon. Il candidato della France insoumise, ex ala sinistra del Partito socialista, da cui è uscito nel 2008, sta scalando la classifica delle intenzioni di voto dei francesi. Partito come fanalino di coda dei cosiddetti “grandi” candidati qualche settimana fa, Mélenchon ha prima superato il candidato socialista Benoit Hamon e in questi giorni - stando agli ultimi sondaggi - avrebbe addirittura sopravanzato anche il leader della destra moderata François Fillon (17%), attestandosi al 18%, subito dietro al duo di testa Le Pen/Macron (24%). Un fenomeno definito “sorprendente” dalla stampa e dall’opinione pubblica, ma che si può facilmente riassumere in tre punti.
1) I vasi comunicanti. A voler osservare superficialmente l’evoluzione delle intenzioni di voto, è evidente che la scalata di Mélenchon non ha minimamente intaccato l’elettorato di Marine Le Pen, né quello di Emmanuel Macron - entrambi stabili, in testa, al 24%. Anche Fillon, nonostante le ennesime rivelazioni sull’impiego fittizio della moglie, non si è praticamente mai schiodato dal 17%. L’unico a precipitare nei sondaggi è stato il candidato socialista Hamon, sceso drammaticamente sotto la soglia del 10%. Mélenchon, quindi, avrebbe rubato voti al “collega” di sinistra e non ai suoi autentici avversari ideologici. Pensandoci bene, non è troppo sorprendente. Hamon, infatti, dopo aver vinto a sorpresa le primarie del PS, si è ritrovato isolato all’interno del suo stesso partito. Perfino Manuel Valls, che aveva dichiarato che avrebbe accettato l’esito delle primarie, qualunque esso fosse stato, lo ha abbandonato per Macron, paventando una possibile elezione del Front national. E' ovvio che una parte dell’elettorato di sinistra, quindi, non ritiene più che Hamon possa rappresentare ancora quel “voto utile” per impedire la vittoria delle destre.
2) Largo ai giovani. Nonostante i suoi 65 anni, Mélenchon sembra un ragazzino. L’idea di affidare la gestione della sua campagna elettorale a un gruppo di studenti e militanti poco più che trentenni, sta dando i suoi frutti. Su YouTube, tanto per fare un esempio, i video del candidato della France insoumise fanno regolarmente il botto - il suo canale conta quasi 280mila abbonati. Ma non solo. Anche la scelta di moltiplicare i suoi comizi utilizzando degli ologrammi è stata una scelta vincente: sia perché la stampa ha versato fiumi di inchiostro sull’argomento, sia perché la trovata piace, incuriosisce e fa l’occhiolino ad un pubblico giovane altrimenti sempre più disinteressato nei confronti della politica. E non parliamo neanche del videogioco Fiscal Kombat (CLICCA QUI per giocare), che è diventato un vero e proprio fenomeno mediatico.
3) Dédiabolisation di sinistra. Conosciuto per i suoi toni forti e il suo stile collerico e impertinente, Mélenchon ha intelligentemente cambiato strategia di comunicazione. Già a partire dal primo dibattito televisivo, quello con i cinque “favoriti” all'Eliseo, il candidato della
France insoumise ha deliberatamente deciso di abbassare i toni nel tentativo di prendere le distanze da quella connotazione “estremista” con cui i media e l’opinione pubblica hanno sempre etichettato l’uomo politico e il suo movimento. Basta ascoltarlo per rendersi conto che il suo tono è diventato molto più pacato e solenne e il suo personaggio decisamente più "presidenziabile". Insomma, un’autentica
dédiabolisation - per riprendere il termine con cui ci si riferisce all'operazione messa in atto da Marine Le Pen per rendere più "presentabile" il
Front national - di sinistra.
Secondo alcuni opinionisti, il bacino di elettori alla portata di Mélenchon si sarebbe esaurito e la sua scalata dovrebbe realisticamente fermarsi qui. Eppure, le proiezioni che lo vedrebbero affrontare Marine Le Pen al secondo turno, lo darebbero vincitore. Ecco quindi - contrariamente a ciò che si diceva - un altro elemento che potrebbe spostare ancora più elettori e fare di Mélenchon l’uomo in grado di sconvolgere gli equilibri di un'elezione mai così incerta.
«La crescita di peso della finanza contribuisce alla formazione di poteri del tutto indipendenti dal lavoro vivo e che condizionano il lavoro vivo, cioè la base sociale della sinistra storica». il manifesto,
9 aprile 2017 (c.m.c.)
Crisi della sinistra, ma anche crisi della politica, come ci ha spiegato nei suoi ultimi scritti e nel
Midollo del leone il nostro Alfredo Reichlin e come conferma il fatto che la formazione politica che raccoglie più consenso sia oggi il MoVimento 5 Stelle. Aggiungerei ancora che c’è anche crisi della cultura e della scuola.
La crisi della sinistra non è solo italiana, ma investe tutto il mondo che definiamo occidentale: pensiamo solo agli Usa di Donald Trump. Questa crisi dipende anche da cambiamenti strutturali: innovazioni tecnologiche («la nuova rivoluzione delle macchine»), globalizzazione, finanziarizzazione dell’economia… Tutti mutamenti che hanno seriamente indebolito i lavoratori, quel che una volta chiamavamo classe operaia, proletariato, le innovazioni tecnologiche riducono l’impiego di lavoro vivo.
La globalizzazione tende a formare un proletariato in aree finora sottosviluppate ma crea una forte concorrenza al proletariato storico del nostro Occidente. La crescita di peso della finanza contribuisce alla formazione di poteri del tutto indipendenti dal lavoro vivo e che condizionano – se addirittura non dominano – il lavoro vivo, cioè la base sociale della sinistra storica.
Questo mutamento storico – che io appena accenno – andrebbe studiato e approfondito: siamo in presenza di un nuovo capitalismo (assai diverso e più pesante del neocapitalismo) che va studiato seriamente per individuare anche con che tipo di lotte dobbiamo contrastarlo e se di queste lotte si debbono far carico solo i lavoratori e non anche i cittadini. E ancora: che rivendicazioni mettere in campo?
Centrale mi sembra la riduzione dell’orario di lavoro, con un allargamento del tempo libero che provocherebbe anche una crescita dei consumi. E penso anche che dovremmo prolungare la scuola dell’obbligo : per vivere in questa incombente modernità non basta più la terza media.
Altro tema da affrontare in modo nuovo è la globalizzazione: come i lavoratori super sfruttati del terzo monda debbono entrare in campo, come possiamo coinvolgerli nella, lotta comune?
Dobbiamo capire che siamo a un passaggio d’epoca, direi un po’ come ai tempi di Marx quando il capitalismo diventava realtà e cambiava non solo i modi di produzione, ma anche i modi di vivere degli esseri umani.
Quando scrivo «passaggio d’epoca» vorrei ricordare che il capitalismo fu, certamente, un passaggio d’epoca, ma conservò modi di pensare e valori e anche autori del passato greco-romano, come dire che nella discontinuità c’è sempre anche una continuità, ma questo non ci deve impedire di capire i mutamenti che condizioneranno la vita dei giovani e delle generazioni future.
Non possiamo non tener conto di quel che sta cambiando: dobbiamo studiarlo e sforzarci di capire, sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà.
Una prima ammissione delle colpe degli aguzzini in divisa a Bolzaneto, ma torturare in Italia non è ancora un reato. Articoli di Alberto D'Argenio e Carlo Bonini.
La Repubblica, 7 aprile 2017
L’ITALIA CEDE ALLA CORTE UE
AMMETTE COLPE SU BOLZANETO
E RISARCISCE SEI DELLE VITTIME
di Alberto D’Argenio
«l patteggiamento a Strasburgo: a ciascuna 45mila euro per danni morali l’impegno del governo: subito regole adeguate per colpire gli abusi»
Con 16 anni di ritardo, l’Italia riconosce i propri torti e patteggia a Strasburgo per tentare di scongiurare una condanna per le torture inflitte ai manifestanti del Social Forum nella caserma di Bolzaneto il 21 e 22 luglio del 2001, i giorni terribili del G8 di Genova. Proprio quest’anno l’Italia tornerà ad ospitare un incontro dei leader delle maggiori economie planetarie, il 26 e 27 maggio a Taormina. La notizia del patteggiamento è arrivata ieri, con il governo che ha infine deciso di risarcire alcune delle vittime nel corso di un procedimento di fronte alla Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo: riceveranno 45mila euro ciascuno per indennizzare danni morali, materiali e spese processuali.
I giudici europei così prendono atto della «risoluzione amichevole tra le parti» e chiudono i procedimenti pendenti.
I casi in cui è stato possibile raggiungere il patteggiamento sono sei sui 65 aperti da cittadini italiani e stranieri che avevano fatto ricorso di fronte alla Corte, alla quale aderiscono tutti i 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa, istituzione esterna all’Unione europea che vigila sul rispetto dei diritti fondamentali in tutto il continente. Si tratta di Mauro Alfarano, Alessandra Battista, Marco Bistacchia, Anna De Florio, Gabriella Cinzia Grippaudo e Manuela Tangari. L’avvocato di due dei ricorrenti, Laura Tartarini, però sottolinea che «quella che lo Stato offre è un piccola cifra, ha accettato chi ha necessità economiche e personali, per gli altri il ricorso continua per ottenre la condanna dell’Italia».
Le denunce a Strasburgo sostenevano che lo Stato italiano avesse violato il diritto a non essere sottoposti a maltrattamenti e tortura e denunciavano l’inefficacia dell’inchiesta penale domestica sui fatti di Bolzaneto. Con l’accordo, si legge nelle due distinte decisioni della Corte, il governo afferma di aver «riconosciuto i casi di maltrattamento simili a quelli subiti dagli interessati a Bolzaneto come anche l’assenza di leggi adeguate ». Questo il dato politico, l’aver ammesso abusi e torture nei giorni del G8.
Così l’esecutivo italiano ora si impegna ad adottare le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre indagini efficaci e l’introduzione di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura. Nell’accordo il governo si impegna anche a «predisporre corsi di formazione specifici sul rispetto dei diritti umani per le forze dell’ordine».In cambio del risarcimento di 45mila euro dal canto loro i ricorrenti rinunciano a ogni altra rivendicazione nei confronti dell’Italia per i fatti all’origine del loro ricorso.
Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nelle carceri, sottolinea l’importanza che finalmente dopo 16 anni il governo riconosca che «a Bolzaneto si è trattato di tortura: a 30 anni dalla convenzione Onu il governo si è impegnato ad introdurre il reato di tortura, impegno che – auspica - va rispettato subito».
IPOCRISIE, VETI ERICATTI QUELLA LEGGE IMPOSSIBILE SUL REATO DI TORTURA di Carlo Bonini
«Da 28 anni il nostro Paese attende la norma che l’Europa ci impone di introdurre Ecco perché finora è rimasta lettera morta»
Di fronte alla Corte Europea dei diritti umani, l’Italia riconosce che, nel luglio del 2001, nei giorni del G8 di Genova, le violenze inflitte ad innocenti trattenuti nella caserma della polizia stradale di Bolzaneto furono tortura. Che quegli abusi fisici e psicologici meritino per questo un risarcimento delle vittime che chiami le cose con il loro nome. Tortura, appunto. È un’ammissione dovuta, e tuttavia tardiva e penosa per la vergogna che ne è il presupposto. L’ingiustificabile assenza nel nostro ordinamento di una norma che preveda e punisca il reato di tortura. E per la cui introduzione nel nostro sistema penale, l’Italia, ventotto anni fa, si era solennemente impegnata, sottoscrivendo prima e recependo poi la “Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”. Salvo farne, da allora, lettera morta.
Ancora nel maggio del 2014, in un magnifico libro (Gridavano e piangevano, Einaudi), Roberto Settembre, magistrato mite e giudice a latere della Corte di appello di Genova che giudicò i fatti e le responsabilità della Bolzaneto, ricordando il suo tormento di quei giorni, scriveva: «Ero di fronte a un evento non solo di dimensioni macroscopiche, ma di una particolare qualità: centinaia di cittadini non solo erano stati privati della libertà, non solo erano stati lesi nella loro incolumità fisica e psicologica. Erano stati vittime di comportamenti tesi a far sorgere sentimenti di paura, di angoscia, di inferiorità in grado di umiliarli così profondamente da ledere la dignità umana». Violenze per le quali lui, il giudice, non aveva uno strumento di legge proprio. Il reato di tortura.
Per non dire del Comitato dei ministri del Consiglio di Europa, che, nel marzo scorso, dopo una sentenza di due anni prima della Corte europea, intimava al nostro Paese di «introdurre, senza più attendere, i reati di tortura e trattamenti degradanti, assicurando che siano sanzionati adeguatamente e gli autori non restino più impuniti». Parole che non hanno increspato le acque limacciose di un Parlamento dove, nell’autunno scorso, in Senato, è silenziosamente affondato anche l’ultimo disgraziato disegno di legge che avrebbe dovuto allinearci agli standard normativi di rispetto dei diritti umani in vigore nelle altre democrazie occidentali.
In questa vergogna tutta italiana, come documentano gli atti parlamentari del dibattito che ha accompagnato l’ultimo tentativo abortito di introduzione del reato di tortura, c’è tutta la debolezza e ipocrisia di una classe politica, di maggioranza e di opposizione,incapace di sottrarsi all’intollerabile ricatto di settori, per altro minoritari, delle forze dell’ordine che nel reato di tortura sostengono si nasconda un formidabile strumento di vendetta nelle mani di chi delinque. È infatti accaduto che, nell’ultimo percorso parlamentare, che ha interessato prima il Senato, quindi la Camera, e nuovamente il Senato, una norma di agevole scrittura, necessaria a definire un comportamento proprio di un pubblico ufficiale (dal momento che è proprio questa qualità di chi esercita violenza che pone la vittima in una condizione di oggettiva sudditanza, fisica e psicologica rendendo l’abuso nei suoi confronti di particolare gravità) sia diventata prima “reato generico” e quindi oggetto di un singolare quanto capzioso dibattito. Che ha prima stabilito che per configurare una tortura si debba essere in presenza non di una semplice «violenza» (singolare), ma di «violenze» (plurale). E, quindi, che queste debbano essere «reiterate». Come se una violenza in un’unica soluzione sia troppo poco. Per giunta, che, in caso di abusi psicologici, la sopraffazione emotiva, per essere riconosciuta come tortura, debba avere caratteristiche particolari e «clinicamente accertabili».
Per altro, nel frenetico lavoro di depotenziamento del reato di tortura e del disegno di legge che lo istituiva, il Senato era riuscito anche a immaginare che, a dispetto del suo carattere di crimine contro l’umanità — e dunque in quanto tale non soggetto ad estinzione — nella sua declinazione italiana, la tortura fosse “prescrivibile”. Come una rissa al semaforo. Troppo. Persino per gli alfieri di un compromesso quale che fosse. Abbastanza, come detto, per avviare su un binario morto anche questo ennesimo tentativo in ventotto anni.
Nel patteggiamento di fronte alla Corte Europea, l’Italia torna ora con il governo Gentiloni a promettere ciò che non è stata capace di mantenere in ventotto anni e fino all’autunno scorso, assicurando, per altro, che lo sforzo sarà anche quello di una «formazione » permanente e «specifica» delle nostre forze dell’ordine «al rispetto dei diritti umani». Si vedrà.
Ma per capire l’aria che tira, e la qualità del dibattito parlamentare, è sufficiente registrare l’immediata risposta di Elvira Savino, capogruppo di Forza Italia in Commissione Politiche della Ue alla Camera e una carriera politica nata dall’amicizia con Giampaolo Tarantini e Sabina Began, i buttadentro delle cene eleganti dell’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi. «I corsi di formazione delle forze dell’ordine sono una vergogna».
«Quando l’instabilità della vita è strutturale, la fermezza dello spirito raggiunge vette impensate». Postfazione di
Utopie della vita quotidiana di Luigi Zoja Conversazione con Lucilio Santoni. comune-info, 3 aprile 2017 (c.m.c.)
Cosa vuol dire possedere una vita improntata alle utopie quotidiane, quelle che ogni giorno impediscono la catastrofe e, goccia dopo goccia, scavano la pietra dell’indifferenza e della meschinità? Quelle utopie permettono, altresì, di vergognarsi piuttosto che di indignarsi. Spingono ad ammirare più che a voler essere ammirati.Credo che alla base di tutto ci sia una passione per la fragilità, cioè per la poesia delle cose. Un’aderenza alle esperienze più autentiche, come l’avventura, il corpo, l’amore, lo sguardo.
Una ricerca spinta nei luoghi più nascosti e assorti, dove c’è senso di provvisorietà, di passaggio, pieni di gente che cammina e arriva ben oltre la meta che si era prefissata. Con la pace nel cuore e l’inquietudine nella mente. La gioia di avere un porto verso cui navigare e la tristezza di non raggiungerlo mai. Fare piazza pulita delle certezze da quattro soldi, dell’arroganza e dell’altruismo a buon mercato. E arrivare, invece, a quel pozzo profondissimo dove il denaro, il potere, la forza, la moda, la retorica, si liquefanno per lasciare spazio a un fiume di domande che, solo, può rendere la terra un luogo ospitale e il vicino un essere attraente del quale si desidera l’amicizia. Abbandonare la frenesia del fare per concedere terreno alla cortesia, alla gentilezza, alle parole dolci e agli sguardi scrupolosi.
Non c’è bisogno di capipopolo, di opinionisti, di dirigenti, di burocrati, di presidenti. C’è bisogno di chi ama la vita, di chi si fa cambiare la pur amata vita da un libro, di chi guarda i gatti negli occhi e vi si riconosce, di chi contempla il creato e nulla gli chiede. C’è bisogno di riconoscere che quel che conta davvero è avere un domani ricco di una teoria lunghissima e dolcissima di strette di mano. Il vero peccato mortale non è quello di commettere il male: è quello di non riconoscere il bene, cioè non riconoscere il valore delle donne e degli uomini che valgono, che sono più avanti di noi sulla strada della vita buona.
L’evanescenza della quotidianità ansiogena può essere riscattata, l’angustia del miserabile muoversi solo per interesse privato può essere dimenticata, osando confrontarsi con i grandi temi della vita, affondando la ricerca nell’intensità spirituale, lasciando che il cuore s’immerga nel mare dell’infinito. Allora le giornate potranno riempirsi di quelle utopie che Luigi Zoja chiamerebbe minimaliste. I piccoli gesti quotidiani non saranno più destituiti di senso, anzi, si configureranno come aperture verso frontiere di libertà. Le parole, poche e misurate, ci condurranno all’ultimo respiro, col senso della pace, della terra e dell’armonia. Ci chiuderemo in casa e scoperchieremo il tetto per guardare il cielo.
Sottrarsi all’opinione comune, tacere quando gli altri parlano e gridare quando gli altri tacciono; incamminarsi su sentieri impervi e solitari, schivando l’abusivismo della modernità, arrivando all’unica patria possibile: quella di chi sa di essere gettato sulla terra, con radici deboli e spesso marce, eppure desideroso di dare frutti commestibili per tutti. Tali frutti nascono solo su piante consapevoli di avere come padri una stirpe di nomadi, stranieri, spaesati, esiliati, maestri dell’interrogazione, dello stupore dell’ospitalità, del distacco dalla normalità.
Ed essi crescono tra gli anfratti, le crepe, i terreni sconnessi, tra lingue minoritarie, dai suoni rudi, tra dialetti incomprensibili, parlati da viandanti, da furibondi e da contemplativi, che abitano case dalle finestre rotte e con porte fuori dai gangheri. Quando l’instabilità della vita è strutturale, la fermezza dello spirito raggiunge vette impensate. E allora non importa se intorno ci sarà poca gente, ci saranno erbacce e tuguri, animali randagi e negozi chiusi, scuole cadenti e spiagge deserte. In quei luoghi potremo comunque frugare per cercare la vita: nella disperazione la speranza, nella solitudine una promessa.
Luigi Zoja ama l’America Latina. Un suo grande figlio, Leonardo Boff, ama parlare di “intelligenza spirituale”, unica facoltà che possa sposare il Cielo con la Terra. Vale a dire: agire nel quotidiano come se ci si stesse misurando con l’assoluto. Camminare nelle strade di tutti i giorni cercando di riconoscere le farfalle che mettono le ali ai piedi. Scrutare bagliori di umanità mescolati a scintille di desiderio; sporcarsi con il fango mentre si è intenti a lanciare pensieri nello stagno del futuro. In definitiva: amare incessantemente, perché la vita è l’incessante.
Dal bar degli utopisti ognuno può guardare il cielo, la patria fatta di nuvole, che si disperdono e ricompongono, cancellano le forme eppure rimandano all’azzurro. Chi in quel bar decide di passare un minuto o una vita per costruire un bel sogno, decide di impegnarsi nelle cose di ogni giorno, fra gli amici e gli stranieri, per andare verso il futuro, quel futuro per il quale prova nostalgia.

la Repubblica, 3 aprile 2017 (c.m.c.)
Non è tutto immobile sotto il cielo riformista. Anzi. Il Pd sarà pure indietro nei sondaggi, porta al voto metà degli iscritti. Ma bisogna riconoscere che il dibattito fra i candidati copre un ventaglio di visioni ideali, e opzioni strategiche, che di per sé rappresenta una bella novità per la sinistra italiana: Renzi liberal-democratico che guarda a Macron, Orlando social-democratico rivolto a Martin Schulz, Emiliano che sembra prendere a riferimento i movimenti del Sud Europa, da Podemos a Syriza. Peccato per gli scissionisti, verrebbe da dire, si sono persi il meglio.
E tuttavia, rispetto a quei modelli, i nostri leader sembrano figli di un dio minore. Tutti e tre azzoppati in qualche modo. Per la Francia Macron incarna il nuovo (anche se è stato ministro dell’Economia), un’opzione liberale che la sinistra d’Oltralpe non ha mai conosciuto. Renzi l’Italia l’ha governata per tre anni: ha dispiegato un’azione riformatrice ampia e ambiziosa, ma non priva di tratti demagogici, e non è riuscito a tirar fuori il Paese dal declino; per giunta le riforme su cui maggiormente puntava sono state bocciate dagli elettori.
Anche se ha stravinto nei circoli, rispetto a Macron incarna qualcosa di già visto e già sentito. E uno sguardo alla sua mozione conferma quest’impressione: non ci sono novità dirompenti, se non un tentativo di inseguire i Cinque Stelle sui temi dell’identità nazionale o sul reddito di cittadinanza. Persino nella narrazione personale si avverte un po’ di stanchezza (il frequente richiamo alle cicatrici). E in quanto alle linee di continuità con il passato, dalla politica fiscale alla riforma amministrativa fino agli interventi per la scuola, dovrebbe spiegare l’ex premier perché dovrebbe riuscirgli di correggere domani — in uno scenario che si può immaginare assai più complicato — quel che non è riuscito a fare bene ieri.
Rispetto ai grandi movimenti popolari di Grecia e Spagna, che pure hanno contribuito a rinnovare la sinistra e a frenare — per davvero — il populismo di destra, a Emiliano manca la spinta della base. La sua è la mossa di un politico navigato, presidente di Regione, che dall’alto fiuta uno spazio di consenso: ma non incontra i movimenti, che da tempo guardano altrove. E non li incontra anche perché difetta pure, ammettiamolo, di credibilità personale: non intende rinunciare al posto sicuro di magistrato, come dovrebbe (il Csm ha aperto un fascicolo); dà l’impressione di lanciarsi con la rete di salvataggio e forzando pure un po’ le regole. Non proprio un buon viatico, per chi si erge a difensore della moralità pubblica.
Ma neppure Orlando ha la forza di Martin Schulz. Non tanto per demeriti, quanto per ragioni oggettive. Schulz si candida a correggere la politica di austerità della Merkel: quando propone un grande piano di ammodernamento infrastrutturale della Germania, si può ragionevolmente pensare che, se vincerà, manterrà la promessa. Orlando presenta una piattaforma socialdemocratica molto simile, probabilmente utile all’Italia: portare l’alta velocità al Sud, ad esempio; o interventi contro la povertà più incisivi di quelli pensati da Renzi (e comunque meglio calibrati delle proposte pentastellate). E tuttavia, non sappiamo se vi saranno soldi in cassa. Forse no, se da qui a un anno Draghi deciderà di rialzare i tassi. O magari sì, se in Germania dovesse vincere Schulz. Ma nessuno dei due scenari dipende da noi. Nell’attuale incertezza, i programmi di spesa — di tutti e tre i candidati — sono scritti sull’acqua. Meglio concentrarsi su altri interventi, ugualmente importanti per dare un senso della direzione di marcia, ma a costo zero. Sui temi europei Renzi e Orlando paiono in realtà equivalenti, al di là di qualche accento, come pure sulla formazione della classe dirigente (e questo è un miglioramento per Renzi).
Spetta però a Orlando la proposta più interessante per contrastare il declino: una «Iri della conoscenza», cioè un’agenzia sul modello tedesco che, mettendo a sistema le esperienze a oggi disperse, favorisca il trasferimento di ricerca e innovazione al mondo delle imprese, e promuova lo sviluppo di una cultura tecnologica in Italia. Può essere una buona idea, per un Paese che ha disperato bisogno di specializzarsi in settori più innovativi, se vuole mantenere i livelli di prosperità raggiunti.
Contrasta con una diffusa retorica, di matrice grillina o leghista ma che qua e là affiora anche nella mozione di Renzi, a favore di settori tradizionali e a più basso reddito, o di una vaga quanto mitologica genialità italica. La proposta è stata accolta da unanime disinteresse: forse il deficit, culturale e di classe dirigente, del nostro Paese va ben oltre il dibattito interno al Pd.
».
il manifesto, 2 aprile 2017 (c.m.c.)
La sicurezza non è di sinistra caro ministro Minniti. La sicurezza non è neanche di destra. Comunque non è questo il terreno su cui ragionare. Le Corti Supreme, italiana, tedesca, statunitense, ma anche la Corte europea dei diritti umani, hanno affermato come sia improprio un bilanciamento tra sicurezza e libertà.
La dignità umana, quale fondamento di tutti i diritti umani, è la chiave di soluzione di questa opposizione tra istanze di sicurezza e di libertà. Libertà, fraternità, uguaglianza, dignità umana, al limite felicità: sono queste le premesse fondative del vivere sociale. La sicurezza è l’esito naturale del pieno soddisfacimento dei diritti individuali, sia quelli sociali ed economici che quelli civili e politici. Il grande studioso Alessandro Baratta, i cui scritti sono certo che il Ministro Minniti ben conosce, affermava che al diritto alla sicurezza vada contrapposta la sicurezza dei diritti. L’indivisibilità e l’interdipendenza dei diritti umani non è soltanto un quadro teorico di riferimento ma è un programma di governo, anche in questi tempi difficili.
Ma sono veramente difficili questi tempi dal punto di vista della sicurezza? La sicurezza, vorrei ricordare al ministro degli Interni e a chiunque legifera senza tenere conto di dati veri e di statistiche vere, è comunque qualcosa di ben diverso dalla percezione di insicurezza.
Prima vicenda. Ristoratore spara al ladro che entra nel suo esercizio commerciale e lo uccide. Parte un dibattito folle intorno alla legittima difesa, causa scriminante prevista nel codice penale. Non ci interessano le strumentalizzazioni e le magliette di Salvini, scontate nella loro cattiveria. Ci interessa il dibattito più ampio, quello avvenuto sui media e nelle aule parlamentari. Va ricordato che la legittima difesa era sufficientemente ben definita nel codice Rocco di era fascista. La legittima difesa ha quale presupposto il principio sacrosanto di proporzionalità tra azione e reazione. La destra al governo, Lega compresa, modificò l’articolo 52 del codice penale nel 2006 poco prima delle elezioni che perderà. Venne così allargata la possibilità di reazione legittima ai casi di pericolo di aggressione. Oggi non si vede che altro possa fare il legislatore se non liberalizzare l’omicidio.
Avremmo auspicato che per la nostra sicurezza il Ministro avesse con nettezza interrotto questo dibattito affermando in modo categorico quanto segue: a) vanno cestinate tutte le proposte di modifica ulteriore della legittima difesa compresa quella in discussione del suo collega di partito Ermini che vuole allargare l’area della non responsabilità a ogni caso in cui si spara e ammazza «per errore di percezione a causa di turbamento psichico»; b) nel nome della sicurezza meno armi girano meglio è per tutti, ristoratori compresi. È compito del decisore politico con chiarezza e onestà intellettuale decostruire le paure e non assecondarle o alimentarle in modo strumentale e pericoloso; c) spetta allo Stato il monopolio della forza.
Nell’ultimo Rapporto sulla criminalità del Ministero degli Interni si legge che in Italia vi è stato un calo incredibile degli omicidi. Nel 1991 erano stati ben 1901. Tre omicidi ogni 100 mila abitanti. Nel 2015 sono stati 469, ovvero 0,8 ogni 100 mila abitanti. Lo stesso ministero degli Interni in modo onesto rileva che il top degli omicidi in Italia è stato nel 2013 a causa dei 366 immigrati morti in mare nel naufragio di quel tragico 3 ottobre. Dunque la vera emergenza sicurezza è quella legata alla vita dei migranti in mare, affrontata invece con norme di tutt’altro respiro dal ministro Minniti ovvero con la detenzione per stranieri irregolari e colpendo quelli che chiedono elemosina. In conclusione nessun attore istituzionale ricorda all’opinione pubblica che gli omicidi sono in calo e che negli Usa, dove si può comprare un’arma al supermercato e si può sparare facilmente, il tasso di omicidi è ben sei volte superiore a quello italiano.
Seconda vicenda. Un gruppo di ragazzi ammazza brutalmente un coetaneo ad Alatri. Si minacciano vendette, si intimidiscono gli avvocati difensori tanto da indurli a lasciare l’incarico. Si da la colpa al Gip che aveva scarcerato uno dei presunti responsabili per altri fatti legati alla violazione delle norme sulle sostanze stupefacenti. Quel giudice in realtà aveva semplicemente e giustamente rispettato la legge. In questa vicenda tragica avremmo voluto che il ministro degli Interni avesse detto che: a) la legge sulle droghe è già fin troppo severa visto che un terzo dei detenuti in Italia è composto da persone che l’hanno violata; b) la custodia cautelare deve essere eccezionale; c) farsi vendetta da soli è brutale; d) chi minaccia un avvocato deve essere severamente perseguito; e) la difesa è un diritto sacrosanto; f) ad Alatri è scoppiata una grande questione sociale, esito di disastri prodotti anche da una progressiva dismissione pedagogica da parte delle nostre agenzie educative, compresi i partiti.
In questi giorni i talk show della Rai, di Mediaset e La7 si sono scatenati nel dare parola a finti esperti, urlatori professionisti, giornalisti che non conoscono la legge e le statistiche, demagoghi che ci fanno credere che viviamo in un paese invaso da criminali, spesso stranieri. Così abbiamo sentito dire da Gianluigi Nuzzi a Piazzapulita, a proposito dell’omicidio di Alatri, che a Tirana a 18 anni ti regalano una pistola. Bah!!!! Che c’entra Tirana con i ragazzi italiani accusati dell’assassinio? Sarà vero che a Tirana regalano la pistola? O è più vero che la pistola ti viene regalata nella provincia americana. Il conduttore di Piazzapulita (un titolo che non aiuta a rasserenare gli animi e a infondere dolcezza nella società) non fa fact checking ma lascia parlare Nuzzi come se fosse un esperto di politiche criminali.
Infine quando un magistrato come Angelo Mascolo di Treviso afferma (sempre che sia vero che lo abbia detto) che lo Stato non c’è più, e che lui darebbe la pistola pure a sua figlia, perché di fronte a una così grave delegittimazione delle forze di Polizia e della sicurezza il ministro Minniti non ha chiesto al suo collega Orlando di mandare gli ispettori in quel Tribunale affinché quel giudice sia sanzionato disciplinarmente?
«il manifesto
Cosa c’è di così drammaticamente ripugnante nell’assassinio del ragazzo ventenne di Alatri davanti una discoteca? Questa volta non si tratta dell’ennesimo caso di femminicidio cui la cronaca nera ci ha (ahimé!) «abituati».
La vittima è un uomo, anzi un poco più di adolescente che ha avuto il torto (se così si può chiamare) di reagire a qualche strattone, a qualche sopruso davanti (la motivazione originaria non è ancora chiara) il bancone del bar della discoteca, mentre era in compagnia della sua ragazza.
La disputa o l’offesa che sia, sarebbe dovuta concludersi al più con qualche spintonata e invece c’è stato il morto, per di più massacrato da un branco (così si chiama oggi a dimostrazione del deficit di umanità) di altri giovani ragazzi. L’indignazione è scontata, come l’annunciata fiaccolata; lo è meno l’omertà dei cittadini (almeno sul primo momento), o il desiderio di vendetta. È facile indignarsi, chiedere che vengano inflitte pene esemplari ai mascalzoni di turno, ancorché noti teppisti in libera circolazione considerata la precedente condanna di uno di loro.
Più difficile è capire da quale immensa frustrazione è scaturita quella rabbia cieca e assassina. Deve essere stata, per quei ragazzi del branco, una giornata «eroica», l’eroismo dell’indecenza: «gliel’ha abbiamo fatta pagare a quello; adesso il paese sa chi siamo!»
Il branco ha avuto il suo giorno di gloria che ha riscattato serate e serate di «sbatti il muretto», di canne, di alcol, di noia, come capita di vedere, di venerdì e sabato notte, passando veloci in auto per le grandi città: capannelli di ragazzi davanti ai bar, centinaia quasi, col bicchiere in mano a parlare, di che? Ecco il punto! Non ne sappiamo niente (ma non per questo vogliamo assolvere i violenti addossando le colpe alla società). Ma questa violenza diffusa, fattasi molecolare, ci interroga al di là del drammatico episodio di cronaca nera.
Non sappiamo come ragiona una persona giovane che non trova lavoro; non sappiamo cosa passa per la testa di un ragazzo cui è stato rubato il futuro e per quanto si darà da fare, non troverà mai un lavoro decente, avrà difficoltà a formare una famiglia e gli sarà negato anche il desiderare di fare figli.
Noi non lo sappiamo, perché le nostre raffinate analisi politiche non raggiungono questo mondo di disperazione, di totale deprivazione di tutto, perfino dei desideri. E così è caccia all’albanese di turno, o, come in questo caso, allo sventurato bravo ragazzo che ha protestato al bar per quello che riteneva uno sgarbo, e che ancora pensava di far valere le sue ragioni e non mostrarsi codardo davanti alla sua giovane compagna (e almeno questa volta non sarebbe questione di possesso, semmai di antica galanteria maschile).
C’è qualcosa di più profondo che non una semplice manifestazione della «peggio gioventù», che chiama in causa noi adulti. Che cosa passa per la testa di ragazzi che hanno rinunciato a studiare e a trovare lavoro? Il Sig. Poletti ha fatto la sua analisi politica da gran sindacalista che è stato: andassero a giocare a calcetto o a cercare lavoro all’estero. O si massacrassero tra loro questi inutili giovani cui nessuno desta attenzione: vite da scarto come chiamava Bauman queste figure invisibili prodotte dalla barbarie neoliberista e dalla sua ideologia della totale libertà senza limiti. Come quella di massacrare per gioco, o per vincere la noia, o per esibire un trofeo, una giovane vita appena ventenne.
Noi non abbiamo la più pallida idea di come si possa pensare e agire in una simile disperazione fatta ancora più cieca da una mancanza di cultura che possa fornire almeno qualche protezione dallo scatto di ferocia. Perché queste vite precarie sono anche afone, incapaci di esprimere il loro dolore, le loro sofferenze, i loro sentimenti. Ci stiamo abituando a tutto in questa epoca di grande realismo: è reale vedere mogli, amanti e compagne sgozzate da compagni gelosi e invidiosi, è reale contare, ogni giorno – spietata statistica -, le vittime di quei disperati che attraversano il Mediterraneo. E reale vuol dire normale: tutto ciò che accade è reale e tutto ciò che è reale è anche normale.
Sembra che il sindaco di Alatri abbia dichiarato alla televisione di non sapere dell’esistenza di quel locale nel suo paese; un paese di 29.000 abitanti, mica una metropoli. Anche questo è normale: che un sindaco di un piccolo comune ignori l’esistenza di una discoteca nella sua comunità.
Ma è poi una comunità questa? Perché se la tragedia arriva anche in questi piccoli paesi dove pensavamo che lo spirito di vicinato, quello di comunità, li mettesse al riparo dalla violenza della grande città, luoghi dove queste cose non sarebbero potute mai accadere, allora c’è qualcosa che non va nel clima del Paese fattosi incattivito, imbarbarito. E una fiaccolata non basta a dare risposta, tantomeno un desiderio collettivo di vendetta.
«Che cosa accade quando l’identità non è solo memoria del passato e specchio del presente, ma anticipazione di un futuro attraverso processi che prescindono dall’autonomia e dall’intenzionalità della persona interessata?».
la Repubblica, 31 marzo 2017, con postilla
Quando arrivano notizie che possono riguardare direttamente o indirettamente le nostre informazioni personali, dovremmo ormai sapere che non si tratta mai di vicende di poco conto, e che non basta considerarle solo dal punto di vista, pur rilevante, della privacy.
Così è per il recentissimo voto con il quale il Congresso americano ha ridotto in maniera radicale la tutela delle persone in relazione al trattamento dei loro dati, che ora possono essere raccolti, elaborati e fatti circolare senza che sia necessario ottenere preventivamente il consenso dell’interessato. Una decisione che ha provocato molte reazioni, che tuttavia non sono sufficienti per fugare le preoccupazioni per il futuro e che, comunque, non può essere sottovalutata limitandosi a sottolineare che la situazione italiana si colloca in un contesto, quello europeo, che si distingue da quello americano proprio per quanto riguarda gli strumenti di tutela di cui gli interessati possono servirsi.
È vero che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea considera la tutela dei dati personali come un diritto fondamentale, collocandolo nella parte da essa dedicata alla libertà. E che si insiste nell’affermare che «noi siamo le nostre informazioni». Ma questi riconoscimenti, in sé assai importanti, non sono sufficienti. Bisogna prendere le mosse dai mutamenti determinati dal fatto che la persona e il suo corpo sono ormai entrati a far parte della dimensione digitale, sì che proprio il corpo si presenta come un oggetto perennemente connesso per le informazioni che continuamente produce e trasmette.
Così non si determina soltanto una diversa percezione della stessa fisicità, ma diventano possibili anche violazioni gravi della libertà e della dignità della persona, se l’utilizzazione di informazioni altrui avviene senza specifiche e adeguate regole e tutele di cui gli interessati possono direttamente servirsi.
Chi può possedere e utilizzare legittimamente le informazioni? Il solo interessato o chiunque sia in condizione di servirsene? Un interrogativo, questo, che finisce con il riguardare la stessa libera costruzione della personalità, alla quale si riferiscono esplicitamente il paragrafo 2 della Costituzione tedesca e l’articolo 2 della Costituzione italiana e che per la sua ineliminabile attitudine dinamica certamente non può essere amputata del futuro, sottratta al potere individuale, mettendo così in discussione gli stessi principi fondativi dell’ordine costituzionale, in primo luogo quelli di dignità e autodeterminazione.
Arriviamo così ad alcune domande più puntuali, che rendono immediatamente percepibili le diverse questioni da affrontare. Che cosa accade quando un ininterrotto fluire di informazioni fa sì che l’identità sia sempre più spesso costruita e “posseduta” da altri? Che cosa è divenuta l’identità dopo il passaggio dal Web 1.0 al Web 2.0, dove la persona è immersa nelle reti sociali? Che cosa sta diventando l’identità nell’età del Web 3.0, di quell’”Internet delle cose” che si accinge non solo a moltiplicare la produzione e l’utilizzazione delle informazioni, ma sprigiona una capacità trasformativa del modo in cui essa è costruita? E che cosa accade quando l’identità non è solo memoria del passato e specchio del presente, ma anticipazione di un futuro attraverso processi che prescindono dall’autonomia e dall’intenzionalità della persona interessata?
Vi è un punto comune a tutte queste domande, che può essere sintetizzato ricorrendo ad un altro interrogativo: chi possiede o può possedere i nostri dati? Interrogativo che investe l’intera discussione sull’identità nei tempi moderni, e richiama l’attenzione sulle diverse modalità attraverso le quali si manifesta il tema della sua costruzione e gestione. Il punto estremo di questo processo può essere così rappresentato: l’identità si separa dalla consapevolezza e dall’intenzionalità della persona alla quale è riferita. L’identità si fa “oggettiva”, in qualche modo si spersonalizza?
Emerge una tensione tra costruzione/appropriazione dell’identità da parte di soggetti diversi dalla persona interessata e crescenti opportunità/bisogno di “mettere in scena” se stessi. Le implicazioni istituzionali di questa tensione sono evidenti. Dove si colloca il baricentro della garanzia giuridica, quale è il criterio di bilanciamento tra interessi/ diritti in conflitto? L’identificazione concreta di questi interessi e diritti si è venuta progressivamente complicando.
Il saldo punto d’avvio è stato rappresentato dal riconoscimento alla persona del diritto fondamentale «di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica» (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, articolo 8.2).
Si può dire che il passaggio dei dati personali nel potere/disponibilità di altri, in forme legittime, non ha come conseguenza l’esclusione della persona interessata. E non siamo di fronte soltanto ad un diritto di conoscenza, ma pure di controllo, nell’ambito di una situazione complessa che può essere definita anche come “cultura del disvelamento”.
Si realizza così una distribuzione di poteri, alcuni dei quali consentono alla persona interessata di intervenire attivamente nella gestione del bene costituito dai suoi dati in particolare grazie allo strumento della “rettifica”, la cui concreta operatività è stata ampliata non solo da interventi legislativi, ma soprattutto da prassi interpretative che l’hanno collocata in una dimensione che non riguarda la sola eliminazione di errori.
Muovendo da queste prime acquisizioni, si può ben dire che il tema della libera costruzione della personalità eccede la sola questione della identità. Se si riprende l’espressione “messa in scena”, non si può considerarla soltanto dal punto di vista della corretta rappresentazione pubblica della persona interessata, sia da parte degli altri soggetti che fanno circolare le sue informazioni, sia dal punto di vista del difficile e controverso diritto alla piena autorappresentazione. Con un ulteriore interrogativo sullo sfondo: quale rapporto tra sfera pubblica e sfera privata si determina per effetto di questi mutamenti?
postilla
Vance Packard, autore de I persuasori occulti (1957) è il sociologo americano che più chiaramente illustrò il nuovo potere della produzione di merci (delle grandi aziende capitalistiche) di manipolare i cervelli attraverso la pubblicità (e non solo) in modo di far nascere delle persone, ridotte a "consumatori", il desiderio di determinate merci. Il controllo dei dati personale è un ottimo strumento per potenziare la possibilità delle grandi imprese di inculcare nuovi desideri, bisogni, pulsioni nelle "teste impagliate" Vedi il poema di Thomas S. Eliot, Siamo gli uomini vuoti.

« la Repubblica
Vi è una parola — “schiavitù” — che troppe volte viene pronunciata di questi tempi con imperdonabile leggerezza. Ma questo non avviene solo perché ad essa si ricorre anche in maniera impropria o enfatica. Accade piuttosto perché all’uso di quella parola, che solitamente accompagna la descrizione di casi davvero drammatici, raramente poi seguono tutte quelle indicazioni e quei comportamenti che sarebbe ragionevole attendersi come una dovuta reazione individuale, e soprattutto sociale, a situazioni giustamente presentate come intollerabili, in contrasto evidente con principi e diritti fondativi dei nostri sistemi sociali e istituzionali.
E, così facendo, si corre il rischio di far apparire il parlar di schiavitù piuttosto come un modo troppo facile per attirare l’attenzione, per fare scandalo a buon mercato, gettando sulla realtà uno sguardo che rischia di mettere insieme situazioni assai diverse e così banalizza quelle più gravi, facendole anche percepire come se si trattasse di fenomeni che, nel loro complesso, accompagnano fatalmente la vita sociale e che, per questa ragione, dovrebbero essere ordinariamente accettati.
A questa semplificazione pericolosa bisogna sfuggire. E questa è la ragione per cui, scrivendo nel 2000 la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si volle che quell’antica parola comparisse nel suo articolo 5, mostrando così una consapevolezza culturale e una capacità di guardare lontano che impongono ancor oggi di fare riferimento ad un principio esplicito che impedisca di considerare il ricorso alla schiavitù come se si trattasse di una scelta da valutare solo dal punto di vista dell’opportunità politica, mentre invece si tratta della violazione radicale di un principio dal quale nessun sistema democratico può impunemente separarsi.
Ma è realistico discutere oggi di schiavitù come questione sociale e istituzionale? La risposta può darla qualsiasi spettatore abituale della televisione, al quale quasi ogni giorno vengono presentati programmi che mostrano proprio situazioni in cui vi è un uso oppressivo del potere che nega alle persone non solo diritti, ma la loro stessa umanità. Migranti e appartenenti a minoranze discriminate testimoniano più di altri questa situazione. Non sono più cittadini, non sono neppure sudditi, ad essi viene negata l’appartenenza stessa all’umanità. E l’Unione europea manca alla promessa solennemente fatta nel Preambolo della sua Carta dei diritti fondamentali, dove si afferma che appunto l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”.
Non sono questioni lontane da noi. In Puglia, nella regione dalla quale giunse l’alfiere del moderno sindacalismo, Giuseppe Di Vittorio, è morta di fatica una bracciante, Paola Clemente, così come è accaduto ad altri che lavoravano senza regole e senza garanzie. Questi casi concreti non solo consentono alla discussione di sfuggire ad ogni rischio di astrattezza, ma la fanno divenire una riflessione obbligata sulla condizione umana, come ha voluto la Costituzione con molti e precisi riferimenti.
Non ricorderemo mai abbastanza quel che è scritto nel suo articolo 36. «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Ho sottolineato tre parole di questo articolo, perché mostrano con straordinaria evidenza il senso attribuito al lavoro nel sistema costituzionale, come misura d’ogni azione privata o pubblica, come riferimento necessario per la libera costruzione della personalità, per quel “pieno sviluppo della persona umana” di cui si parla esplicitamente nell’articolo 3. Altrimenti, dall’esistenza libera e dignitosa si rischia di passare ad una sorta di “grado zero” dell’esistenza, alla retribuzione come mera soglia di sopravvivenza, come garanzia solo del “salario minimo biologico”, del “minimo vitale”.
Ha colto bene questo punto Susanna Camusso con la decisa opposizione della Cgil ai voucher, alla spersonalizzazione del lavoro, allo scarto così determinato tra retribuzione e persona/lavoro. Ed aveva altrettanto opportunamente proposto un referendum perché, trattandosi di una questione che tocca tutti i cittadini, era giusto che proprio tutti potessero responsabilmente dire la loro. Ma il governo è intervenuto con un decreto che, cancellando i voucher, evita il voto referendario, una via istituzionale che ormai troppi temono, parlando di una rischiosa contrapposizione tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, oggi enfatizzata anche per sottrarsi ad un tema istituzionale ormai ineludibile, quello della presenza di un popolo “legislatore”, che ha segnato in modo decisivo le dinamiche politico- istituzionali dell’ultimo periodo.
Tutto questo è avvenuto grazie anche al diffondersi di forme organizzative che, come ha dimostrato l’influenza dei “comitati per il No” nell’opposizione alle modifiche della Costituzione, sottolineano come anche nel nostro sistema possano assumere rilevanza decisiva gruppi o movimenti finalizzati al raggiungimento di un singolo, specifico obiettivo. Aprendo, però, un ulteriore problema: quello del futuro di questi movimenti una volta realizzato l’obiettivo per il quale erano stati costituiti. Problema che in questo momento stanno affrontando proprio i nostri “comitati per il No”.
Considerando come essi abbiano assunto come saldo punto di riferimento il rispetto della Costituzione e dei suoi principi, si può ritenere che una loro coerente proiezione verso il futuro debba tener ferma questa ragione d’origine. Non poche, infatti, sono in questo momento le questioni difficili e controverse proprio nella dimensione costituzionale.
Tra queste si possono qui ricordare almeno quelle derivanti dalla frettolosa modifica dell’articolo 81, con i conseguenti vincoli per l’azione pubblica in materia economica. Poiché non è formalmente possibile agire per una modifica referendaria, trattandosi di una norma costituzionale, la riflessione culturale e la progettazione politico- istituzionale dovrebbero mantenere vivo il tema e le questioni di principio che esso solleva, considerando piuttosto il contesto nel quale l’articolo 81 è collocato e agendo sulle norme ordinarie ad esso strettamente collegate in modo da ridurre almeno gli effetti negativi del mutamento.
L’azione dei comitati, in definitiva, può concretarsi in una sorta di “accerchiamento” di quell’articolo, confermando anche in questo modo l’efficacia concreta della loro presenza.
«I greci avevano “paidéia”, i romani “pietas”, gli illuministi “diritti”: è sempre il linguaggio la culla del cambiamento. Nel linguaggio resiste la culla del cambiamento e l’antidoto a Babele. Da “armonia” a “silenzio” così guariremo da Babele».
la Repubblica, 29 marzo 2017 (c.m.c.)
Le parole possono essere tante cose: parole di verità o di menzogna; parole che accendono o che spengono; di assoluzione e di condanna; parole che vivificano o che uccidono; che aprono o che chiudono; lievi come carezze o pesanti come pietre. Mai come in questo tempo l’umanità ha parlato: chiacchiere, giornali, radio e televisione, cellulari, web. La parola è il mezzo non unico ma certamente principale della comunicazione. Che cosa dobbiamo intendere per comunicazione? Non voglio fare dell’etimologia, se non per sottolineare che essa ha significato il passaggio da uno a un altro non di parole, ma di cose, per farle diventare “comuni”. Comunicazione significa fare comunanza di oggetti, proprietà, pensieri, informazioni, esperienze, sentimenti, conoscenze del più vario genere.
Con le parole non solo si comunica, ma anche ci si scomunica; non solo si passano verità, ma anche inganni; non solo ci si gratifica l’uno con l’altro, ma ci si denigra anche. Munifico è colui che è prodigo di doni, doni che possono essere buoni e cattivi, come i doni avvelenati. Ma il munus che sta nella comunicazione è anche compito, responsabilità. La società è un insieme di munera reciproci. A tutto questo servono le parole, quando non sono vuote parole. Teniamo dunque ben fermo questo concetto: le parole della comunicazione sono parole di reciprocità, reciprocità di doni e di responsabilità.
Ogni società in ogni sua epoca ha le sue parole-chiave. Nella Grecia classica era paidéia, l’educazione dell’uomo bello e buono a cui si collegavano il coraggio, l’abilità ginnica, la formazione filosofica e musicale, ecc. Nella Roma repubblicana la parola era, per l’appunto, res publica, cosa di tutti sostenuta dal consenso di tutti e finalizzata al bene di tutti. Nella Roma imperiale, era invece la secondo l’ideale che Virgilio associò alla virtù del “pio Enea” per alludere, adulandolo, a Ottaviano Augusto.
Nel Medio Evo, la vita si svolgeva intorno alla salus animarum, alla caccia agli eretici e alla crociata contro gli infedeli. Nella società feudale, le parole erano fedeltà e onore: fedeltà nei confronti del principe cui si doveva riconoscenza per i benefici ricevuti e onore nei confronti del ceto cui si apparteneva. Il Rinascimento scoprì la humanitas.
Gli uomini delle rivoluzioni promosse dai lumi della ragione, alla fine del ’700, scaldavano i propri cuori quando nominavano la umanità, con i suoi diritti imprescrittibili. L’epoca dei “risorgimenti” dell’Ottocento (tra cui il nostro Risorgimento) si è nutrita a sazietà della parola Nazione e della sua potenza. Poi, a missione compiuta, furono il progresso e la modernità, le parole mitiche su cui tutte le altre si orientavano, come aghi magnetici attratti da quest’unico polo.
Veniamo alle parole che usiamo oggi. Si può dire che siano “comunicative”? Se teniamo presente quanto detto sopra circa la doppia valenza della comunicazione: il dono scambievole e la responsabilità reciproca, altrettanto certamente dobbiamo riconoscere che le nostre parole non sono “comunicative”. Al contrario: sono dissociative.
Sono parole circondate da un ideologico alone positivo. Chi direbbe male di innovazione, riforme, sviluppo, crescita, competitività, eccellenza, meritocrazia, successo, e, sopra ogni cosa, business? Ma, ognuna di queste parole ha il suo contrario che condanna all’emarginazione, all’irrilevanza, al rifiuto, all’umiliazione, all’oblio. Per non soccombere tu, deve soccombere qualcun altro. È la legge della concorrenza elevata alla massima potenza. Si vince o si perde la partita della vita rispetto a che cosa? Nelle società competitive si vince o si perde per desiderio di ricchezza, di potere e di fama: tre beni distinti ma collegati che, anzi, si alimentano l’uno con l’altro come una trinità.
La ricchezza, il potere e la fama non sono affatto mali in sé. Ma essi si danno spinte reciproche e contribuiscono, ciascuno per la sua parte, alla smodatezza, all’eccesso, alla sregolatezza. Sulla ricchezza e sul potere così tante teorie, dottrine, ideologie politiche sono state prodotte che non se ne può nemmeno fare cenno. La fama, invece, è rimasta piuttosto in ombra... La si relega tra le innocenti, magari ridicole, aspirazioni degli animi vanesi.
Eppure, anch’essa è oggetto d’impetuosi desideri e pulsioni e, come la proprietà e il potere, modella potentemente le relazioni sociali. Essa, infatti, distribuisce biasimo e lode, alza e abbassa nella considerazione sociale. Vale per la fama la stessa cosa che vale per la ricchezza e per il potere: appropriazione dalla parte degli uni comporta privazioni dalla parte degli altri.
Il veleno non sono in sé i beni materiali, il potere e la fama. Il veleno è l’ingordigia. L’ingordigia è mossa dalla legge dell’auto-accrescimento progressivo. Non può arrestarsi da sé perché contraddirebbe la sua natura. Più si ha, più si arraffa. Denaro, potere e fama sono forze travolgenti che crescono crescendo e, alla fine, non lasciano scampo. All’inizio, si opera per possederli. Alla fine, se ne è posseduti.
Eppure, di una parola da fuori, di una parola eccentrica, c’è bisogno; c’è straordinariamente bisogno nel tempo in cui il darsi da fare stando dentro accresce il disagio. Quella che non c’è non è la parola che mette ogni cosa a posto, rincuorante e incoraggiante; la parola pacificatrice e illuminante; la parola sulla quale si possano raccogliere le forze con unità d’intenti; la parola che sia segno d’orientamento per uscire dal labirinto in cui ci troviamo che, eufemisticamente, possiamo chiamare il malessere della nostra civiltà. Il silenzio.
Nel tempo del frastuono, le energie interiori necessarie contro imbonitori e inquisitori le troviamo facendo silenzio. Solo in silenzio possiamo pensare noi stessi per noi stessi, condizione per poterci poi pensare consapevolmente in relazione agli altri. Il conosci te stesso che campeggiava sul frontone del tempio di Apollo è la formula pregnante della scomposizione-ricomposizione del sé. È il leopardiano «infinito silenzio», dove dolce è «il naufragar». Tutto questo, al di là delle fumisterie filosofiche e degli incantamenti mistici, può esistere. Basta saperlo cogliere.
La solitudine. Solitudine e silenzio si richiamano reciprocamente. L’isolarsi, anche stando in mezzo alla compagnia di altri, è un’esperienza che tutti abbiamo fatto, quando siamo presi da un pensiero. Sembra talora indifferenza o aristocratica sufficienza, onde il richiamo “democratico”: ritorna tra noi. La solitudine è una ricerca d’equilibrio tra questi due opposti richiami, ugualmente vitali: essere tra sé e sé ed “essere tra noi”. Essere solo tra noi, significa perdere se stessi; essere solo se stessi è paranoia, presunzione e narcisismo, i disturbi della psiche che Dostoevskij, più di centocinquanta anni fa, ha descritto ne Il sosia: un racconto che, se letto, con gli occhi dei frequentatori odierni dei social network, ha il carattere della profezia.
Anche per la solitudine, si deve ripetere ciò che s’è detto per il silenzio. Non è l’obiettivo finale. Se tale fosse, sarebbe desolazione mortifera. È il punto iniziale da cui può scaturire una vita sociale feconda.
Il buio. Se è condizione d’arrivo, il buio evoca l’idea del vuoto, della sventura, delle tenebre. Ma, la luce riluce soltanto a partire dal buio. Lux lucet in tenebris. Se dunque la luce è bene, lo è anche allo stesso modo il buio che rende possibile la luce. Che si possa vedere solo nel rapporto tra luce e non luce, tra luce e ombre, lo dice splendidamente il mito platonico della caverna.
Che sia qui la parola che non c’è ma che cerchiamo, nel silenzio, nella solitudine e nell’ombra delle promesse di libertà? Che si nasconda qui la parola con la quale possiamo vedere i guasti del mondo, resistere alle parole di Babele, aprirci alle incognite della libertà, cercare uscite d’emergenza?
Che la parola che racchiude un tale programma di affrancamento possa essere “armonia”? L’armonia è la giusta collocazione reciproca tra parti diverse. In che cosa consista questa giustezza non sapremmo dire facilmente in positivo. Certamente, però, sappiamo che non ha nulla a che fare con la babele che dovremmo avere davanti agli occhi.
*Il testo di Gustavo Zagrebelsky che qui pubblichiamo è una sintesi della sua lectio alla Biennale Democrazia, la manifestazione culturale da lui presieduta e intitolata in questa edizione “Uscite di emergenza”, in programma da oggi a domenica 2 aprile.
Quando Enrico Rossi ha annunciato la sua discesa in campo per contendere a Renzi il ruolo di segretario del Pd siamo stati in molti a chiederci in nome di quali valori e di quali programmi il Presidente della Regione Toscana entrasse nella competizione. Ma anche dopo la sua uscita dal Partito democratico insieme a Bersani e D’Alema, non abbiamo avuto risposte, salvo le dichiarazioni di volersi collocare più “a sinistra” di quanto finora praticato dal Pd.
Una sinistra che tuttavia non emerge nel dibattito e nelle esternazioni degli scissionisti e dei compagni critici ma rimasti nel partito; si parla infatti di possibili alleanze, di schieramenti, di opzioni sulla legislatura e sulla legge elettorale, di prese di distanza dai vari giudicati e pregiudicati. Con la conseguenza di fare sorgere il dubbio che più che una critica da sinistra della politica del Pd renziano, pesino i posizionamenti, i rapporti di potere e le carriere politiche dei vari protagonisti.
Tutt’al più, a essere benevoli, sembra che Rossi, quando parla di “sinistra” guardi all’Italia del passato, alle lotte operaie degli anni ’60 e 70 e non compia – lui come gli altri – il tentativo di comprendere come siano cambiate le condizioni del pianeta, l’economia mondiale e la società italiana; e quali siano le sfide che la sinistra deve affrontare nel mondo dei Trump e della destra di ritorno, con i suoi carichi di xenofobia e isolazionismo; in un mondo in cui la disoccupazione è diventata un fatto strutturale, ancor più nell’Italia che arranca dietro agli altri paesi europei.
Basterebbe, invece di avere gli occhi puntati sul palazzo, prestare attenzione ai movimenti, ai comitati, alle associazioni, ai cittadini che hanno detto no nel referendum, per comprendere cosa significhi una politica di sinistra e all’altezza delle sfide.
Due discriminanti: da un punto di vista generale, una sinistra moderna non può che essere ambientalista; anzi “neoambientalista” – come ha più volte sostenuto Alberto Asor Rosa - intendendo con il prefisso “neo” che occorre superare le politiche che mirano alla mera sostenibilità delle risorse. Nell’opzione neoambientalista l’ambiente è non è un qualcosa cui contemperare le politiche di sviluppo, ma è esso stesso al centro di uno sviluppo qualitativamente diverso. In quest’ottica, paesaggio e ambiente non sono soggetti passivi, vincoli da rispettare, ma soggetti attivi di un’economia basata sull’intelligenza, la conoscenza, la ricerca, l’innovazione tecnologica.
Questa opzione comporta (è il secondo punto) che la scelta di sinistra implichi la rottura con il “cartello” delle grandi opere inutili. E’ ormai chiaro come, cambiando i governi - da Berlusconi a Renzi e Gentiloni con vari passaggi di mano - rimanga tuttavia saldo il partito delle grandi opere, l’unico che non teme la fuga degli iscritti; il partito che condizionando le politiche economiche, la distribuzione delle risorse finanziarie, il bilancio dello Stato, costituisce un potente freno allo sviluppo economico, oltre che causa delle crescenti diseguaglianze reddituali.
Si tratta di un blocco che vede solidali politici, mediatori, lobbisti, grandi imprese di costruzioni e banche erogatrici di crediti garantiti dallo Stato; un cartello che alimenta la corruzione pervasiva del sistema politico e della casta, mentre allo stesso tempo è un macigno che ostacola la crescita, perché destina gran parte degli investimenti pubblici a settori ultra maturi e con una bassissima componente occupazionale, sottraendoli alle componenti innovative dell’economia, quelle che creano ricchezza immateriale e danno possibilità di lavoro qualificato ai giovani ora costretti a cercarlo all’estero - il flusso migratorio che più di ogni altro dovrebbe preoccupare i nostri ministri.
E’ questa inversione di rotta ciò che chiedono, dal basso, i comitati, le associazioni, i cittadini. Invece, finora Rossi si è mosso esattamente nella stessa direzione del partito che ha abbandonato, sostenendo in Toscana le imprese più inutili, dannose e dispendiose, tra cui spicca il sottoattraversamento di Firenze da parte dell’alta velocità, il nuovo aeroporto, l’autostrada tirrenica, addirittura paragonata alla “strada dell’uomo” e opposta alla “strada dell’asino”, infelice citazione di Le Corbusier. Si obietta che Rossi finora non poteva fare altrimenti, perché condizionato dal partito di Renzi.
Ma oraè libero, anzi, si èliberato. Ci attendiamo comportamenti conseguenti se vuole inaugurare una nuovapolitica di sinistra. A meno che, come non ci auguriamo, non sia tutto unaquestione di posizionamenti, carriere e rapporti di potere.
«Un percorso di letture sulla storia europea e sulle sue esperienze dell’estremo, dalla Shoah in poi. Antisemitismo, trincee, recinzioni: una tragica linea che va verso la negazione della vita. Genealogia di un dispositivo di potere che ha la capacità di proiettare sul presente elementi importanti di comprensione delle forme di potere contemporanee».
ilmanifesto, 26 marzo 2017
L’idea di recinzione si incontra con quella di confine che, a sua volta, rimanda a quella di contenimento. In un moderno Stato nazionale contenere implica il selezionare: qualcosa ma, anche e soprattutto, chi possa essere parte della comunità (di popolo, di stirpe, di razza, di «destino»), idea competitiva, nella moderna esperienza della politica, a quella di cittadinanza. Allora, il primo punto da cui partire è la ristampa, arricchita di nuovi suggerimenti di lettura, di un volume di Olivier Razac, Storia politica del filo spinato. Genealogia di un dispositivo di potere (ombre corte, pp. 158, euro 14). L’autore, maître de conférences in filosofia presso l’Università di Grenoble, ricostruisce letteralmente il reticolo storico del reticolato. Il filo spinato, infatti, non è solo uno strumento materiale per spezzare, dividere, infine separare per sempre i corpi ma anche un dispositivo simbolico che ha un fortissimo impatto sulle coscienze dei contemporanei.
NEL MEDESIMO TEMPO delimita il campo della protezione da quello del rifiuto, l’habitat di ciò che va tutelato dal contesto di quanto deve essere annientato.
Il filo spinato non vale solo per quanti sono trattenuti dentro gli spazi da esso rigidamente contrassegnati ma anche e soprattutto per coloro che lo osservano da fuori, celebrandone in tale modo la sua invalicabilità. Non è quindi un caso se esso compaia, sinistramente, in tre catastrofi della contemporaneità, quasi a volerne definire i lineamenti di fondo: i processi di colonizzazione dello spazio americano, a partire dal superamento della frontiera orientale; la parossistica recinzione dell’interminabile teoria di trincee, disegnata sui campi di battaglia immobili della Prima guerra mondiale; la tragica linea di delimitazione dei campi di concentramento e di sterminio nazisti. La questione alla quale il filo spinato rimanda da subito è la rottura della linea di continuità, nel diritto alla vita, tra ciò che è considerato umano e quanto, invece, viene ridotto a mero oggetto animato. Olivier Razac ci restituisce quindi il nesso tra controllo dello spazio attraverso la sua interruzione e il legame tra discontinuità e reificazione dell’umanità.
Un percorso parallelo è quello svolto da Götz Aly in Zavorre. Storia dell’Aktion T4: l’«eutanasia» nella Germania nazista, 1939-1945 (Einaudi, Torino 2017, pp. 261, euro 30), laddove la «selezione» delle vite «non degne di essere vissute» è ricostruita dall’autore, docente al Fritz Bauer Institut dell’Università di Francoforte, come percorso di ingegneria sociale e, nel medesimo tempo, manifestazione di rimozione della responsabilità all’atto stesso della sua esecuzione.
L’ASSASSINIO SISTEMATICO di duecentomila cittadini tedeschi, considerati un peso per lo Stato tedesco, perlopiù in ragione della loro condizione psichica, ritenuta irrecuperabile, fu parte integrante del percorso di disintegrazione della varietà umana che stava al nocciolo del progetto nazista. Aly ne ricostruisce i diversi passaggi: l’impostazione politica del «problema» del trattamento degli «incurabili», la dimensione burocratica dell’azione, l’intervento sistematico degli ordini professionali e della sanità pubblica, l’opera di comunicazione con le famiglie, la feroce e infelice dialettica tra abbandono, indifferenza, rimozione ma anche il fatalismo e il pudore che connotarono una parte dei congiunti, le famiglie, in generale il pubblico tedesco. Tra il 1939 e il 1945 una macchina di distruzione collettiva operò attivamente in tal senso, colpendo non solo le vittime ma adoperandosi in un complesso processo di desensibilizzazione e anestetizzazione collettiva.
A VOLERE RIBADIRE un principio fondamentale nella fascistizzazione delle società, dove la repressione e poi l’annientamento delle minoranze, ricondotte in questo caso alla condizione di minorati irrecuperabili, viene pensata e organizzata come strumento riordinativo della maggioranza, quella composta dai «sani». Questi ultimi non sono tali solo perché esenti da degenerazioni ereditarie o da patologie ritenute incurabili, esclusivo onere economico per la collettività, ma per la loro totale adesione ad un corpo collettivo, quello della nazione intesa come comunità di stirpe. Il dispositivo ideologico che sovraintendeva all’Azione T4 era solo uno degli anelli terminali di un ampio processo di radicalizzazione dell’azione biopolitica, portata ai suoi estremi risultati. E ne costituiva quindi la vera essenza.
All’autore non interessa la denuncia morale in sé ma la ricostruzione dei meccanismi che facevano parte di una macchina sterminazionista nel quale l’omicidio di massa veniva presentato dalle autorità pubbliche in quanto atto di «misericordia», coniugato alla necessaria «selezione» dei caratteri positivi della collettività. In altre parole, la morte dell’impuro, e del degenerato, come garanzia di vita dei «migliori».
Aly ci restituisce uno spaccato sia del sistema criminale di Stato sia del mondo delle vittime, molto presenti all’interno delle pagine del suo libro. Si concentra invece sull’ideologia antiebraica il volume di Steven Beller dedicato a L’antisemitismo (il Mulino, pp. 150, euro 13,50). Lo studioso, già Fellow del Peterhouse College di Cambridge e culturalmente attivo nel mondo anglosassone, si cimenta nel lavoro di definire e circoscrivere la cogenza interpretativa, e la funzionalità analitica, delle riflessioni sull’antisemitismo in età contemporanea.
CIÒ FACENDO, davanti alla messe gigantesca di studi così come ai diversi indirizzi interpretativi, Beller cerca di trovare una linea di equilibrio che storicizzi il pregiudizio antisemitico. Il problema, per qualsiasi studioso, al giorno d’oggi, non è infatti il difetto ma, piuttosto, l’eccesso di stimoli euristici. Non di meno, una questione di fondo è se l’esito sterminazionista sia stato in qualche modo già configurato, o comunque implicato, dalle forme precedenti di avversione antigiudaica oppure costituisca una frattura a sé, in quanto tale propria del Novecento.
Le riflessioni dell’autore non offrono risposte conclusive, assestandosi semmai sul versante della rassegna dei diversi contributi. Al riguardo la silloge delle sue riflessioni si raccoglie nell’affermazione per cui: «l’antisemitismo non è più un fenomeno isolato ma piuttosto è sostanzialmente una forma estrema di pensiero esclusivista moderno, con una logica condivisa da fondamentalismi e nazionalismi ».
Per integrare queste e altre considerazioni è anche utile un non meno recente volume del sociologo francese Pierre-André Taguieff, anch’esso intitolato L’antisemitismo (Raffaello Cortina, pp. 139, euro 13). Infine, Luca Peloso, studioso di filosofia, con L’esperienza dell’estremo. Vita e pensiero nei campi di concentramento (ombre corte, pp. 172, euro 15), lavorando sulla comparazione tra Lager nazisti e Gulag staliniani cerca di coinvolgere la riflessione filosofica nell’indagine storica e sociologica.
PIÙ CHE UN INTENTO storiografico l’autore in questo caso cerca di soddisfare alcune esigenze che hanno ad oggetto la narrabilità della prigionia in quelle condizioni estreme, soprattutto se dalla sua memoria derivano esigenze sia di comunicazione pubblica che di pedagogia civile.
La sfida, che rimanda direttamente all’oggi, e quindi ai sistemi analogici che adottiamo nell’interpretare quei passati non meno che alle categorie di razionalizzazione alle quali facciamo ricorso per ricondurre a senso ciò che altrimenti rischia di rimanere un’infinita insensatezza, invita alla rilettura dell’esperienza concentrazionaria attraverso diverse angolazioni disciplinari. Dalle quali, ancora una volta, ne deriva per il lettore il senso della incompiutezza, trattandosi di una storia che letteralmente precipita nel vuoto.
«Se davvero vuole sconfiggere il fenomeno del caporalato, e cancellare le immagini della manodopera sfruttata nei campi di pomodori o intorno agli alberi di arance, l’Italia deve mettere al bando le aste “al doppio ribasso».
Altreconomia online, 27 marzo 2017 (c.m.c.)
Terra! e FLAI Cgil scrivono al ministro dell’Agricoltura per chiedere un intervento in grado di fermare le aste “al doppio ribasso”, attraverso le quali vengono stabiliti i prezzi offerti alla grande distribuzione organizzata. La ricerca di fornitori sempre più a buon mercato rende difficile, se non impossibile, la tutela dei diritti nei campi.Se davvero vuole sconfiggere il fenomeno del caporalato, e cancellare le immagini della manodopera sfruttata nei campi di pomodori o intorno agli alberi di arance, l’Italia deve mettere al bando le aste “al doppio ribasso”, uno dei meccanismi utilizzati dalla grande distribuzione organizzata per scegliere i proprio fornitori.
La dinamica è semplice: la GDO fa sedere attorno a una piattaforma virtuale i propri fornitori chiedendo loro di avanzare un’offerta per una grande quantità di un certo prodotto; sulla base dell’offerta più bassa la GDO convoca successivamente una seconda asta on line che in poche ore chiama i partecipanti a rilanciare, con un evidente paradosso, per ribassare ulteriormente il prezzo di vendita di quel prodotto.
Per questo, secondo Terra! e daSud -promotrici della campagna #filieraSporca- e il sindacato FLAI della Cgil, «sebbene si presuma che questi meccanismi consentano al distributore di mantenere bassi i prezzi al consumo, risulta evidente che un sistema simile produce delle sofferenze economiche, scaricate sui fornitori e da questi ultimi sul settore produttivo e conseguentemente sui lavoratori». Questo scrivono, in una lettera inviata il 22 marzo al ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, Ivana Galli -della FLAI- e Fabio Ciconte -direttore di Terra!-.
Lo stesso Martina, infatti, nelle ultime settimane ha mostrato apertura nei confronti delle criticità che la campagna #filierasporca ha fatto emergere, a partire dalla pubblicazione del suo ultimo rapporto sulla filiera del pomodoro. E così le organizzazioni chiedono al ministro, tra i promotori della legge contro il caporalato, uno sforzo in più, per intervenire con «misure legislative volte a cancellare la pratica delle aste elettroniche inverse (così si chiama tecnicamente il meccanismo del doppio ribasso, ndr) nell’acquisto dei prodotti alimentari».
«Meccanismi come il sottocosto e le aste on line distruggono l’intera filiera dell’agricoltura, perché alterano alla base i rapporti tra grande distribuzione e consumatore, facendo pagare il costo più elevato all’ambiente e ai produttori, oltre ad aggravare le condizioni di sfruttamento dei lavoratori e il caporalato» ha spiegato Fabio Ciconte di Terra!, nel lanciare la campagna #ASTEnetevi.
FLAI Cgil e Terra! hanno scritto anche ad Auchan Italia, Carrefour Italia, Conad, Coop Italia, Crai, Despar, Esselunga, Eurospin, Interdis, Lidl Italia, Gruppo Pam Panorama, Selex, Sigma, Sisa, Sma Italia.
Sono i principali marchi della grande distribuzione presenti nel nostro Paese, e in molti casi fanno parte anche di importanti «centrali d’acquisto internazionali», che hanno sede fuori dall’Italia e fanno uso del meccanismo delle aste al doppio ribasso.
Queste centrali d’acquisto rappresentano una forma di cooperazione tra soggetti apparentemente concorrenti -i giganti della GDO-, e hanno l’obiettivo principale di accrescere il potere esercitato dai compratori sul mercato.
Secondo un recente report pubblicato da SOMO -centro olandese di ricerca sulle multinazionali- le maggiori centrali d’acquisto sarebbero in grado di spuntare dai fornitori ribassi ulteriori fino al 10% rispetto a quelli che potrebbe contrattare il singolo gruppo. Tra i marchi italiani, fanno parte di una delle maggiori centrali d’acquisto Coop Italia (il “gruppo d’acquisto” si chiama Coopernic, ha sede in Germania ed opera in 21 Paesi), Conad (fa parte di Alidis, che ha sede in Svizzera ed opera in 8 Paesi), mentre BIGS è la centrale d’acquisto che agisce in 11 Paesi europei per i licenziatari del marchio SPAR (Despar, in Italia).
SOMO ha riscontrato l’assenza di codici etici -in merito tanto a variabili di carattere sociale che ambientale- da parte delle prime cinque centrali d’acquisto europee, che hanno come clienti circa 35 marchi, per un fatturato complessivo di 600 miliardi di euro. La forza di questi soggetti, poi, non è solo quella contrattuale: alcuni fornitori, intervistati da SOMO, preferirebbero non dover collaborare con le centrali d’acquisto internazionali, per non offrire informazioni “sensibili” (come quelle relative ai loro costi) che saranno sicuramente condivise anche con le catene della grande distribuzione.

«Scritto il manifesto
Sembrano passati secoli, eppure sono passati solo cinquant’anni dal 1967, quando è stata pubblicata l’enciclica Populorum progressio, scritta da Paolo VI.
Tempestosi e ricchi di speranze quegli anni sessanta del Novecento; si erano da poco conclusi i lavori del Concilio Vaticano II che aveva aperto al mondo le porte della chiesa cattolica; era ancora vivo il ricordo della crisi dei missili a Cuba, quando il confronto fra Stati uniti e Unione sovietica con le loro bombe termonucleari, aveva fatto sentire il mondo sull’orlo di una catastrofe; i paesi coloniali stavano lentamente e faticosamente procedendo sulla via dell’indipendenza, sempre sotto l’ombra delle multinazionali straniere attente a non mollare i loro privilegi di sfruttamento delle preziose materie prime; la miseria della crescente popolazione dei paesi del terzo mondo chiedeva giustizia davanti alla sfacciata opulenza consumistica dei paesi capitalistici del primo mondo; nel primo mondo studenti e operai chiedevano leggi per un ambiente migliore, per salari più equi, per il divieto degli esperimenti nucleari.
In questa atmosfera il malinconico Paolo VI aveva alzata la voce parlando di nuove strade per lo sviluppo. Progressio, ben diverso dalla crescita delle merci e del denaro, la divinità delle economie capitalistiche.
L’enciclica sullo sviluppo dei popoli diceva bene che «il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo non consiste nel solo aumento dei beni prodotti né nella sola ricerca del profitto e del predominio economico; non basta promuovere la tecnica perché la Terra diventi più umana da abitare; economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all’uomo che esse devono servire».
La Populorum progressio metteva in discussione lo stesso diritto umano al «possesso» dei campi, dei minerali, dell’acqua, degli alberi, degli animali, che non sono di una singola persona o di un singolo paese, ma «di Dio», beni comuni come ripete papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’ e continuamente.
L’enciclica Populorum progressio indica diritti e doveri dei popoli della Terra divisi nelle due grandi «classi» dei ricchi e dei poveri, ben riconoscibili anche oggi: i ricchi, talvolta sfacciatamente ricchi, dei paesi industriali ma anche quelli che, nei paesi poveri, accumulano grandi ricchezze alle spese dei loro concittadini; i poveri che affollano i paesi arretrati, ma anche quelli, spesso invisibili, che affollano le strade delle dei paesi opulenti, all’ombra degli svettanti grattacieli e delle botteghe sfavillanti.
La Populorum progressio fu letta poco volentieri quando fu pubblicata e da allora è stata quasi dimenticata benché le sue analisi dei grandi problemi mondiali siano rimaste attualissime.
I popoli a cui l’enciclica si rivolge sono, allora come oggi, quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione «verso la meta di un pieno rigoglio».
L’enciclica denuncia il malaugurato (dice proprio così) sistema che considera il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. E condanna l’abuso di un liberalismo che si manifesta come «imperialismo internazionale del denaro».
In quegli anni sessanta era vivace il dibattito sulla «esplosione» della popolazione, in rapida crescita specialmente nei paesi poveri, e la domanda di un controllo della popolazione, resa possibile dall’invenzione «della pillola», aveva posto i cattolici di fronte a contraddizioni. Paolo VI ricorda che spetta ai genitori di decidere, con piena cognizione di causa, sul numero dei loro figli, prendendo le loro «responsabilità davanti a Dio, davanti a se stessi, davanti ai figli che già hanno messo al mondo, e davanti alla comunità alla quale appartengono». Il tema della «paternità responsabile» sarebbe stato ripreso nel 1968 dallo stesso Paolo VI nella controversa enciclica Humanae vitae e, più recentemente, da papa Francesco che ha detto che per essere buoni cattolici non è necessario essere come conigli.
Il progresso dei popoli è ostacolato anche dallo «scandalo intollerabile di ogni estenuante corsa agli armamenti», una corsa che si è aggravata in tutto il mezzo secolo successivo con la diffusione di costosissime e sempre più devastanti armi nucleari, oggi nelle mani di ben nove paesi, oltre che di armi convenzionali.
In mezzo secolo è cambiata la geografia politica; un mondo capitalistico egoista e invecchiato deve fare i conti con vivaci e affollati paesi emergenti, pieni di contraddizioni, e con una folla di poverissimi.
I poveri di cui l’enciclica auspicava il progresso, nel frattempo cresciuti di numero, sono quelli che oggi si affacciano alle porte dell’Europa per sfuggire a miseria, guerre fratricide, oppressione imperialista, per sfuggire alla sete e alle alluvioni, alla fame e all’ignoranza, quelli che i paesi cristiani non esitano a rispedire in campi di concentramento africani pur di non incrinare il loro benessere, magari dopo avere strizzato la vita e salute degli immigrati nei nostri campi. I pontefici dicano pure quello che vogliono; le cose serie sono i propri interessi e commerci.
Eppure è fra i poveri disperati e arrabbiati che trova facile ascolto l’invito alla violenza e al terrorismo; noi crediamo che la sicurezza dei nostri negozi e affari si difenda con altre truppe super-armate, con sistemi elettronici che si rivelano fragili e violabili, e invece l’unica ricetta, anche se scomoda, per rendere la terra meno violenta e più «adatta da abitare», sarebbe la giustizia.
il manifesto, 23 marzo 2017
Aldo Bonomi mi propone di rimettere in gioco il mio
Non ti riconosco, dichiarazione di smarrimento espressa in forma affermativa. E di virarla, per così dire, in forma interrogativa: come provare a conoscere il nostro tempo, fattosi appunto irriconoscibile?
Ricostruisce anche, in quel suo articolo, il nostro “camminare domandando” fuori dalle mura sicure del fordismo verso i territori magmatici del post-fordismo. E racconta la fatica di Sisifo di seguire il movimento altalenante della scomposizione e della ricomposizione di quasi tutto, soggetti storici, equilibri territoriali, comparti produttivi e riproduttivi, forme della rappresentanza e della rappresentazione… Con in testa la consapevolezza (l’idea, l’utopia?) che lasciate alle spalle le fabbriche in rovina – gli antichi punti focali di un conflitto fondativo e in fondo costituente – si trattasse, per chi non volesse arrendersi, di “fare società”. Parla, infine, di “sociologia delle macerie”, per dare un nome, sintetico, al nostro “lavoro intellettuale”.
Mette in fila tutto questo, Aldo, e ogni passaggio non è solo un pezzo di un’autobiografia collettiva rivisitato. E’ anche una sfida al nostro dispositivo conoscitivo: un colpo di piccone, un tassello dopo l’altro, a un “paradigma” che forse non richiede solo di essere aggiornato, ma sostituito perché, appunto, “falsificato” (ossia, rivelato fallace alla prova dello sguardo).
Prendiamo la questione della scomposizione e della ricomposizione.
Forse quel ciclo non è affatto “eterno”. Forse alla scomposizione non segue più una ri-composizione, ma solo la decomposizione. Forse la distruzione creatrice di schumpeteriana memoria, creatrice non è più. Si limita a distruggere e basta. L’Italia, dobbiamo ben dircelo, ha mancato il passaggio dall’età industriale a quella successiva. Non ha più un vero apparato industriale (ce l’ha spiegato Gallino più di dieci anni fa), non ha ancora (e non avrà mai) una vera economia dei servizi, se non a microscopiche macchie di leopardo.
Quello che osserviamo scrutando “il sociale” sono appunto macerie. Ma il resto dell’Occidente, pur mascherandole meglio, non è un esempio di salute. L’Europa sta su nelle sue aree centrali ridistribuendo alla rovescia le risorse – dal basso verso l’alto, dalle periferie ai centri – ma non ne crea di nuove, portatrici di futuro… E negli Usa, l’abbiamo visto quale sia il peso delle macerie delle infinite heartlands rispetto alle sottili fasce a scorrimento veloce delle aree costiere, in occasione dell’elezione di Trump… Per questo concludevo l’introduzione del mio libro citando Libeskind secondo cui essere consapevoli di essere parte di una fine è già un inizio…
Oppure prendiamo il progetto sintetizzato nella formula “fare società”. Doveva segnare l’avvento della figura del “Volontario” come nuovo produttore di buone pratiche e di alternative all’esistente, in sostituzione dell’obsoleto “Militante” ottocentesco. Favorire forme ardite di Communitas virtuosa nel quadro di un umanesimo rigenerato.
Non è andata così. All’inverso.
Non voglio fare di ogni erba un fascio. Men che meno insistere sulle piaghe più evidenti di quel “mondo”: le “Misericordie” impiegate come polizia interna prima nei Cie e poi negli Hotspot, guardiani di un’umanità dolente e vessata, testimoni reticenti e a volte complici delle vessazioni; le cooperative sociali costituite a copertura di attività criminali dei nuovi schiavisti, a far mercato dei corpi migranti… Non voglio parlare di questi casi di aperto tradimento della mission del Volontariato.
Voglio parlare dei suoi settori “sani”, che lavorano non solo nella legalità ma per la legalità e la solidarietà, ridotti tuttavia a sbiadite controfigure. Tritati nel meccanismo del mercato, spesso sviliti nella logica degli appalti che li costringe alla concorrenza reciproca, al mors tua vita mea, alle scelte al ribasso pur di aggiudicarsi i servizi che in un paese civile spetterebbero all’ente pubblico. E comunque costretti all’irrilevanza nel campo delle decisioni che contano. Oggetti e ornamenti delle retoriche politiche.
In questo contesto, la nostra “sociologia delle macerie” non può che disvelare ciò che trova: macerie, appunto. Senza un punto archimedico su cui poggiare, la sociologia non può che rimanere meramente – inerzialmente – descrittiva. E quel punto archimedico non può che essere, per una sociologia che voglia essere anche performativa – che non rinunci cioè a essere, per dirla ancora con Gallino, pensiero critico -, il “conflitto”. L’apertura di linee di frattura mobilitanti. Forme della resistenza e del rifiuto d’obbedienza ai dispositivi della sottomissione e dell’espropriazione.
O meglio, la domanda (le domande) sul conflitto (sui conflitti): sul come, il dove, il chi e soprattutto il perché di esso (anzi di essi, al plurale). Perché, nonostante la moltiplicazione del disagio e del degrado sociale, questa assenza di protesta stabile e dispiegata, che non sia la forma delegante e sfregiata del voto cosiddetto “populista”? L’unico che sembra – sembra, appunto! – far paura ai nuovi padroni del vapore transnazionale o ai loro (provvisori) ceti politici.
E poi, dove puntare lo sguardo per tentare almeno d’intravvedere l’embrione di una linea di faglia che si allarga? Un tempo si disse “ai cancelli!”, perché era lì, sulle catene di montaggio, che il lavoro vivo resisteva al comando incorporato nella “tecnologia di concatenamento” che l’incatenava. Poi si disse “fuori!”, negli spazi prima periferici della fabbrica diffusa dove il produrre s’impastava col territorio e le sue reti di prossimità.
Ma oggi? dove ci si batte? per contendere brandelli di autonomia, individuale o di gruppo, al comando altrui (perché, continuo testardamente a pensarlo, è questa, dell’autonomia, la radice creatrice in ogni autentico conflitto sociale).
Chi lo fa? Gli ambulanti nei mercati rionale condannati all’estinzione dalla “direttiva Bolkenstein”? I taxisti in rivolta contro il grande fratello incistato nell’App di Uber? O i futuri schiavi del dispotismo di quello stesso algoritmo, destinatari delle contumelie dei taxisti? O i nuovi agricoltori impegnati nella difesa delle qualità organolettiche dei propri prodotti contro la standardizzazione uniformante e immiserente dell’agricoltura chimica? O i residenti-resistenti portatori di una coscienza di luogo nel tempo del predominio sradicante dei flussi (penso naturalmente ai valsusini, ma non solo)? O i pochi restanti e i sempre più numerosi ritornanti alle terre dell’abbandono…
Lo so, nessuno di questi ha la “bella centralità” del conflitto di un tempo. Tutti soffrono di una qualche ambiguità. Ma per chi come noi ha fatto dell’interrogazione sul sociale il proprio mestiere è lì che si deve guardare.
E’ quello il nostro “orto di Candide”, sapendo che rinchiudersi nel proprio orto non va bene, ma restare senza orto vorrebbe dire consegnarsi al mercato.
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. il manifesto, 22 marzo 2017 (c.m.c.)
La crisi politica, che segna l’Europa a sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, non è semplice da interpretare per la sua sovrapposizione di contraddizioni interne ed esterne.
Il contributo europeo alla popolazione e all’economia mondiali è in calo.
E l’Europa deve ridefinire il suo ruolo di fronte all’ascesa di nuove potenze e di fronte alla crisi climatica globale. L’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti e la Brexit forniscono un nuovo sistema di coordinate.
La crisi è anche interna. Dopo due decenni di riforme economiche neoliberiste e di austerità, che hanno distrutto le prospettive future di quasi un’intera generazione di giovani, soprattutto nell’Europa meridionale, sarebbe necessario un piano di ricostruzione sociale in Europa. Ma questa visione non si è fatta strada ai vertici dell’Unione Europea, come ad esempio lascia intendere il Libro Bianco sul futuro della Ue, pubblicato all’inizio di marzo.
Si è forse trattato, di fronte a molti e indistricabili problemi, di una mossa intelligente il fatto che il Presidente della Commissione europea, J.C. Juncker, non abbia presentato una proposta politica coerente, ma quattro scenari di una futura integrazione europea: «Business as usual», lo smantellamento della Ue in una zona di libero scambio, la concentrazione della Ue su alcune politiche chiave, una Ue fondata su specifici accordi o l’estensione dell Ue verso una completa unione economica, finanziaria e fiscale.
I popoli europei stanno voltando le spalle in misura preoccupante all’integrazione europea, come lo stesso Juncker è costretto ad ammettere. Tuttavia, ciò ha portato solo in casi eccezionali, in particolare nel Sud, a un rafforzamento della sinistra. La regola sembra piuttosto essere che le persone traducono la loro insoddisfazione e la paura del futuro in crescente razzismo e nazionalismo. Si può dunque interpretare il Libro Bianco anche come un tentativo della «grande coalizione» formata da democristiani, socialdemocratici e liberali, di assumere una posizione difensiva contro la destra populista. Può questa tener testa alla pressione del nazionalismo?
Althusser insegna a trovare l’essenziale in ciò che non viene dichiarato. La principale omissione nel Libro Bianco è l’assenza di qualsiasi riferimento ai Trattati esistenti della UE. Questa riluttanza potrebbe essere la – del tutto realistica – valutazione per cui, nel quadro degli attuali rapporti, non sia praticabile alcun cambiamento della struttura giuridica fondamentale. Ma ciò significa che per l’Unione Europea si prospetta più un «qualcosa in più del solito» che una «grande riforma». Più efficiente, più rapida, certo. Ma questo non è affatto sufficiente per trovare una via d’uscita dalla crisi.
Le società europee sono sbilanciate. Comprendere ciò significa riconoscere che il compromesso durato finora, che ha sostenuto le società europee e la Ue, con Welfare state, alta occupazione e miglioramento del tenore di vita per molti, è stato rotto dalle classi dominanti sotto il segno del neoliberismo. Il risultato consiste nella disoccupazione di massa che minaccia soprattutto l’Europa meridionale e orientale, nell’abbandono di una generazione perduta e nel mettere i popoli europei l’uno contro l’altro e contro il resto del mondo. La crescita delle destre radicali non è la causa della disintegrazione dell’Europa, bensì una delle sue conseguenze.
L’Unione Europea si è dimostrata negli ultimi decenni sorda alle preoccupazioni e alle sofferenze delle sue cittadine e dei suoi cittadini. Si è sentito dire molte volte che l’Europa deve cambiare rotta. Al cuore della crisi politica europea si trova la mancanza di una vera democrazia, che può contare su sempre meno persone in grado di influenzarne lo sviluppo in senso democratico. La seconda, stridente omissione nei futuri scenari della Commissione Europea, è la realistica definizione del principale deficit nella costruzione europea, la mancanza di una democrazia reale. Ma la prosecuzione e il rafforzamento del precedente federalismo autoritario non possono certo essere considerati la via d’uscita dalla crisi di fiducia tra cittadini e Unione europea.
Mai nella storia la democrazia è stata gentilmente concessa dalle élite dominanti. Essa è stata sempre conquistata da movimenti di massa in processi rivoluzionari. L’Europa ha bisogno di un movimento rivoluzionario di massa, democratico o la sua integrazione pacifica rischia di fallire una seconda volta.
Il Libro Bianco, pubblicato dalla Commissione europea per l’anniversario dei Trattati di Roma, ha deluso molti che attendevano un cambiamento economico e sociale della Ue introdotto «dall’alto». Esso non migliorerà le condizioni delle donne e degli uomini che vivono nell’Unione europea e dipendono dalla vendita del proprio lavoro. Ed esso non presenta ai popoli europei nessuno di quei cambiamenti istituzionali, che potrebbero combinare, in prospettiva, autodeterminazione e democrazia transnazionale.
Mossa intelligente o no, il dibattito sul futuro dell’Europa è aperto. Vi sarà qualche possibilità di successo se sarà un dibattito in cui le popolazioni europee, i sindacati, i movimenti sociali e le forze politiche assumeranno l’Europa come «comune».
* Walter Baier è direttore della rete transnazionale Transform!Europe.
Traduzione dal tedesco di Beppe Caccia
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la Repubblica, 21 marzo 2017 (c.m.c.)
I signori della paura segnano le generazioni. Dimmi chi ti ha spaventato e ti dirò quanti anni hai. Per gli italiani nati fino agli anni Settanta il terrorismo ha il volto mascherato dei rapitori di Aldo Moro in via Fani, la faccia dei brigatisti in gabbia che rivendicano gli omicidi durante i processi, i sacchi di sabbia con i nidi di mitragliatrice ai posti di blocco nei centri storici di Roma, Milano, Torino, Genova. Per gli europei più giovani il terrore è raccontato dai cadaveri ai tavolini dei bar, dalle stragi ai concerti e sui lungomare, dai volti esaltati dei giovani soldati del califfato che rivendicano su Youtube gli omicidi che stanno per compiere. Per gli abitanti di Aleppo e delle tante aree del mondo sotto le bombe il terrorismo ha la stessa faccia della guerra e per distinguere l’uno dall’altra bisogna attendere la fine del conflitto e il racconto del vincitore.
L’uscita di emergenza dal terrorismo italiano degli anni Settanta costò centinaia di morti, famiglie distrutte, ma fu trovata. La vera discussione di allora fu per molti aspetti la stessa di oggi: si deve sospendere la democrazia per difendersi da chi l’attacca? Nonostante le tentazioni di destra e di sinistra per varare leggi da stato di polizia, si può dire che l’Italia sconfisse il terrorismo seguendo il principio per cui la democrazia si difende con la democrazia, perché sospendere il nostro sistema di garanzie rappresenta la prima vittoria per chi lo sta attaccando.
L’Europa e, più in generale l’Occidente, possono sperare nel 2017 di seguire la stessa strada? Il terrorismo che dice di ispirarsi a una religione si può combattere con le stesse armi che funzionarono contro il terrorismo ideologico di quarant’anni fa?
Strenuo oppositore delle legislazioni eccezionali, il politologo francese Bernard Manin ne parlerà domenica 2 aprile a Biennale Democrazia, con il direttore di Repubblica Mario Calabresi. Essere contrari alle leggi eccezionali in un Paese che continua a rimanere nel mirino dei terroristi e che ha istituito lo stato di emergenza fin dal 2015 non è facile. Manin spiegherà il suo punto di vista. Il dilemma è quello tra sicurezza e libertà anche se è tutto da dimostrare l’assunto per cui alzando muri ai confini e aumentando i controlli di polizia si sia davvero più sicuri.
Di quel dilemma parlano i giuristi Mauro Barberis e Geminello Preterossi coordinati il 30 marzo da Pier Paolo Portinaro. Una terza via tra chiudersi nel castello e lasciare totale libertà anche ai nemici è probabilmente quella che a livello internazionale ha tradizionalmente perseguito l’Italia. Ma anche in questo campo, ha segnalato più volte il capo della Procura di Torino, Armando Spataro, manca un coordinamento europeo tra intelligence, lacuna drammaticamente emersa anche dopo i recenti attentati. Spataro ne parla con l’inviato del Corriere della Sera Giovanni Bianconi. «Non è solo una questione di sicurezza ma di cultura», dice Christiane Taubira, ex ministra della giustizia in Francia con i governi Ayrault e Valls. Proprio la sua opposizione alle misure antiterrorismo varate dopo le stragi l’ha indotta a dimettersi dall’incarico. Venerdì 31 marzo racconterà il suo scomodo punto di vista.
Per combattere il terrore dei nostri giorni è indispensabile capire da dove nasce. Ed è questo un altro dei punti di discussione nell’Occidente. Non è irrilevante sapere se tutto parte da una radicalizzazione delle correnti più estreme dell’Islam o se, al contrario, è stata la voglia di rivolte radicali a trovare nel Corano la scusa per darsi una struttura culturale e religiosa di sostegno.
La prima ipotesi, quella dell’Islam che si radicalizza e arriva a conquistare le nostre città, come ideale prosecuzione della guerra santa per estendere il Califfato oltre la penisola arabica, è forse la spiegazione più rassicurante per l’Occidente. E per questo suona incompleta. La storia sociale delle banlieues parigine racconta che, almeno in quei luoghi, la rivolta sociale ha preceduto e di molto la radicalizzazione islamista. Come se l’integralismo religioso rappresentasse l’ultima àncora a cui attaccare la rabbia sociale dopo che la politica francese di destra e di sinistra l’aveva catalogata come una rivolta marginale: «Racaille», plebaglia, aveva esclamato il ministro degli interni dell’epoca, Nicolas Sarkozy. Era il 26 ottobre 2005.
Oggi che la “racaille” alimenta i campi di addestramento per foreing fighters in Siria rispondere alla domanda: «Come si diventa terroristi?» è fondamentale. L’inviata di guerra Francesca Borri, il sociologo Stefano Allievi e lo scrittore Giuseppe Catozzella ne parlano il 31 marzo coordinati da Renzo Guolo. Sperando di trovare un’uscita di emergenza dalla logica dello scontro tra civiltà che ha ormai ruotato di novanta gradi il suo asse e oggi si combatte esplicitamente tra Nord e Sud del mondo.
«Decreto sicurezza. Dietro il provvedimento, l'idea che la marginalità sociale presente nello spazio pubblico deturpi il decoro». il manifesto
, 17 marzo 2017 (c.m.c.)
Il decreto Minniti, approvato ieri alla Camera e che di qui a breve sarà convertito in legge, propone un’idea di sicurezza secondo cui la marginalità sociale presente nello spazio pubblico deturpa il «decoro», disturba la «quiete pubblica» e attenta alla «moralità».
Di conseguenza, contro elemosinanti, clochard, venditori abusivi e consimili si decide di abbattere una scure di sanzioni molto aspre. Il provvedimento rilancia lo spirito del decreto Maroni del 2008, quando in nome di una guerra senza quartiere ai marginali d’ogni risma si tirarono fuori i sindaci sceriffi. Come già all’epoca, si agisce con decreto, ritenendo che sussistano i requisiti di necessità e urgenza. Al contempo però, con una certa schizofrenia governativa, lo stesso ministro Minniti, rispondendo al question time della Camera, dichiarava ieri un calo del 9,4% dei reati nel corso dell’ultimo anno. Tuttavia, aggiungeva il ministro, la percezione di insicurezza è aumentata. È alla percezione, ovvero alla pancia del paese, che risponde questo decreto. Il governo volta così le spalle al garantismo e prende la strada del populismo penale.
Come già per il decreto Maroni, è verosimile che la Corte Costituzionale dichiari illegittime numerose parti del provvedimento. Alcuni punti sono in effetti particolarmente critici: il potere dei sindaci, benché più contingentato di allora, appare ancora troppo ampio; e il cosiddetto Daspo cittadino prevede disuguaglianze nel trattamento. In sostanza il decreto dice, all’articolo 13, che il questore – il questore, si badi bene, e non il giudice – può vietare l’accesso a una serie di luoghi pubblici a chi negli ultimi tre anni è stato condannato, anche con sentenza non definitiva, per spaccio; e si sa che spaccio è una categoria giuridica che nella realtà comprende molti semplici consumatori.
Qualora questo divieto fosse infranto, si potrebbero comminare multe che vanno dai 10 ai 40mila euro. Poi magari si verrà assolti in terzo grado, ma le sanzioni per essere andati laddove non si poteva e quando non si poteva resteranno sul groppone del malcapitato.
Tutto ciò avviene a pochi giorni di distanza da una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, la sentenza Italia c. De Tommaso, che raccomanda al nostro paese di far uso un cauto delle cosiddette misure di prevenzione, essendo queste degli strumenti che limitano la libertà di movimento in assenza di un controllo giurisdizionale. Il governo invece, ne ha allargato il campo d’applicazione.
Il decreto, fra le tante cose, prevede che vengano multati e allontanati anche coloro che impediscono la libera fruizione delle stazioni, ovvero barboni e senzatetto, che proprio nelle stazioni usano chiedere l’elemosina e ripararsi dalle intemperie, poiché lì circola tanta gente e si può racimolare qualche soldo in più. Per questi si prevedono multe dai 100 ai 300 euro, che com’è noto non verranno mai pagate. Laddove poi queste persone non ottemperino all’ordine dell’autorità, come farebbe un barbone cacciato dalla stazione il giorno prima e tornatoci quello dopo, secondo l’articolo 650 del codice penale potrebbero essere portate in carcere.
Sulla scia di una cultura forcaiola propria della Lega, che infatti in commissione ha applaudito il decreto, il governo sembra mandare un messaggio alle forze dell’ordine, incoraggiandole ad adottare un approccio repressivo nei confronti di categorie già vulnerabili, ora anche indesiderabili.
Pochi giorni fa l’associazione Antigone ha incontrato nel carcere di Regina Coeli un detenuto ghanese che prima di finire dietro le sbarre dormiva all’addiaccio, anzi sotto il tetto della stazione. Due agenti delle forze dell’ordine sono andati a dirgli di andar via, e di fronte al suo rifiuto hanno buttato la sua coperta nel cestino; coperta che il ragazzo in questione è andato a prendere, e che gli agenti hanno nuovamente buttato via. Fino a quando, alla quarta volta, il ragazzo è stato portato in carcere per resistenza a pubblico ufficiale.
Ora, a nostro avviso, l’azione di chi sta al governo, e a volte si dice pure garantista e nemico dei populismi di ogni sorta, dovrebbe essere portatrice di messaggi d’altro tipo, e dar vita a provvedimenti motivati da ben altre urgenze, come ad esempio l’emergenza integrazione.
* Associazione Antigone

« esce rassicurata dal voto olandese. Ma non del tutto». la Repubblica,
La diga olandese ha funzionato. Ha tenuto. La temuta ondata populista, islamofoba ed euroscettica, non si è abbattuta sui Paesi Bassi, rimasti fedeli alla tradizione cosmopolita e permissiva. I partiti democratici hanno conquistato la stragrande maggioranza dei 150 seggi del Parlamento. Ma la viscerale avversione per lo straniero non è stata estirpata del tutto dal voto di ieri.
Serpeggia nelle vecchie Province Unite, come nel resto dell’Europa. Il sentimento xenofobo non ha prevalso, ma non è diminuito. Anzi è cresciuto, sia pure leggermente e non come sperava Geert Wilders. Il quale sarà deluso dopo le tante promesse dei sondaggi. Il tribuno xenofobo avrà più deputati, 19 invece di 15. Il suo partito (della Libertà) ne ha guadagnati un numero troppo sparuto per alimentare sogni di governo. Il suo avversario, il liberal-consevatore, Mark Rutte, lo ha sconfitto perché il suo partito sarà più presente in Parlamento. Ma dei 41 seggi che aveva nella precedente assemblea ne ha conservati soltanto 31. La distanza tra Rutte e Wilders si è accorciata.
Wilders non parteciperà comunque al futuro governo, poiché nessuno lo vuole come partner, dovrà accontentarsi di vantare un più consistente numero di elettori. Non un successo, dunque, ma una speranza rivelatasi un’illusione. Per l’Olanda europeista è invece un segno di stabilità, perché i partiti che la difendono possono creare un loro governo. L’avanzata della sinistra ecologista contrapposta al modesto risultato dell’estrema destra è stato un fatto rilevante per l’Olanda e per l’Europa. Come è stata importante la grande affluenza, l’82 per cento, che non ha favorito come si pensava l’estrema destra.
Il biondo Geert Wilders, che nasconde sotto la capigliatura tinta i lineamenti ereditati da un’ascendenza indonesiana (da cui non sono escluse tracce musulmane) ha conservato, anzi rafforzato una base da cui difendere quella che chiama l’identità europea e cristiana. I forse vaghi legami con l’Asia non appartengono più alla sua memoria. L’Olanda è ospitale con gli uomini e con le idee. Ha accolto la Ragione: quando era perseguitata altrove. Le eccentricità non la turbano. La posizione di Wilders andrebbe riconosciuta come una libertà, se chi l’incarna non volesse chiudere le moschee, proibire il Corano e non chiamasse “canaglie “ gli immigrati marocchini.
Sull’elezione di ieri ha pesato la controversia tra l’Aia e Ankara. Il presidente turco prepara per il sedici aprile un referendum che dovrebbe conferirgli più poteri, e per questo ha bisogno anche dei suffragi dei turchi residenti all’estero. A questo fine ha mandato dei suoi ministri a tenere comizi nelle comunità turche in Europa. Il premier Mark Rutte ha impedito agli inviati di Erdogan di adempiere alla loro missione. Gli ha chiuso la porta in faccia. E Ankara ha reagito con una collera tale da far apparire il governo olandese un difensore della inviolabilità nazionale di fronte alla prepotenza dei turchi. Rutte ha svolto un compito gradito agli elettori sensibili ai richiami islamofobi di Wilders. Ed è probabile che gli abbia sottratto dei consensi.
L’ Europa esce rassicurata dal voto olandese. Ma non del tutto. L’ elezione di ieri ha rinviato la partita ai prossimi appuntamenti. Il populismo non è dilagato nelle pettinate pianure strappate al mare per ospitarvi quanto di meglio la nostra civiltà europea abbia saputo dare. Ma l’elezione di metà marzo ha rivelato quanto esso sia radicato in un paese in cui tanti profughi hanno trovato una patria. L’affluenza alle urne, a Rotterdam, a Amsterdam, all’Aia, a Utrecht, nella ricamata Delft, doveva darci un segnale. Dopo un 2016 con forti accenti populisti, prima la Brexit e poi l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca, volevamo sapere quel che ci riserva l’anno in corso, durante il quale sono in programma elezioni sia in Francia sia in Germania. La Francia vota tra poco più di un mese e le elezioni olandesi dovevano servire per misurare il livello populista in Europa. Ma Parigi non è l’Aia. Né è Berlino. L’esperienza populista continua.

». la Repubblica, 16 marzo 2017 (c.m.c.)
Il filosofo tedesco Jürgen Habermas intervistato sul nuovo MicroMega invita la sinistra europea a ripartire riscoprendo le battaglie delle origini.
Dopo il 1989 si è parlato di una “fine della storia” nella democrazia e nell’economia di mercato, oggi assistiamo a un nuovo fenomeno: l’emergere – da Putin ed Erdogan fino a Donald Trump – di forme di leadership populiste e autoritarie.
È ormai evidente che una nuova “internazionale autoritaria” riesce a determinare sempre di più il discorso pubblico. Aveva ragione allora il suo coetaneo Ralf Dahrendorf quando prevedeva un XXI secolo sotto il segno dell’autoritarismo? Si può o si deve già parlare di una svolta dei tempi?
«Quando, dopo la svolta dell’89-90, Fukuyama riprese lo slogan della “post
storia” – che originariamente era legato a un feroce conservatorismo – questa sua reinterpretazione del concetto dava espressione al miope trionfalismo di élite occidentali che si affidavano alla fede liberale nell’armonia prestabilita tra democrazia ed economia di mercato. Questi due elementi plasmano la dinamica della modernizzazione sociale, ma sono connessi a imperativi funzionali che tendono continuamente a entrare in conflitto.
Solo grazie a uno Stato democratico degno di questo nome è stato possibile conseguire un equilibrio tra crescita capitalistica e partecipazione della popolazione alla crescita media di economie altamente produttive: una partecipazione, questa, che veniva accettata, anche se solo in parte, in quanto socialmente equa. Storicamente, tuttavia, questo bilanciamento, che solo può giustificare il nome di “democrazia capitalistica”, è stato più l’eccezione che la regola. Già solo per questo si capisce come l’idea che il “sogno americano” si potesse consolidare su scala globale non fosse che un’illusione.
Oggi destano preoccupazione il nuovo disordine mondiale e l’impotenza degli Stati Uniti e dell’Europa di fronte ai crescenti conflitti internazionali, e logorano i nostri nervi la catastrofe umanitaria in Siria o nel Sudan del Sud e gli atti terroristici di matrice islamista. E tuttavia, nella costellazione evocata nella domanda, non riesco a scorgere una tendenza unitaria diretta verso un nuovo autoritarismo: solo diverse cause strutturali e molte casualità. L’elemento unificante è il nazionalismo, che nel frattempo però abbiamo anche a casa nostra. Anche prima di Putin ed Erdogan, la Russia e la Turchia non erano certo “democrazie ineccepibili”. Con una politica occidentale solo un po’ più accorta forse avremmo potuto impostare relazioni diverse con questi paesi: saremmo forse riusciti a rafforzare anche le forze liberali presenti nelle popolazioni di questi paesi».
Non si sopravvalutano così retrospettivamente le possibilità che erano in mano all’Occidente?
«Chiaramente per l’Occidente, già solo a causa dei suoi interessi divergenti, non era facile confrontarsi, in modo razionale e nel momento opportuno, con le pretese geopolitiche della retrocessa superpotenza russa oppure con le aspettative di politica europea dell’irascibile governo turco. Molto diversa è invece la situazione per quanto riguarda l’egomane Trump, un caso significativo per l’intero Occidente. Con la sua disastrosa campagna elettorale Trump ha portato alle estreme conseguenze una polarizzazione che i repubblicani, a tavolino e in modo sempre più sfacciato, hanno alimentato fin dagli anni Novanta; lo ha fatto però in una forma tale da far sì che questo stesso movimento alla fine sfuggisse totalmente di mano al Grand Old Party, che è pur sempre il partito di Abraham Lincoln.
Questa mobilitazione del risentimento ha espresso anche le tensioni sociali che attraversano una superpotenza politicamente ed economicamente in declino. Ciò che trovo inquietante, quindi, non è tanto il nuovo modello di un’internazionale autoritaria, a cui si faceva riferimento nella domanda, quanto la destabilizzazione politica in tutti i nostri paesi occidentali. Nel valutare il passo indietro degli Stati Uniti dal ruolo di gendarmi globali sempre pronti a intervenire, non dobbiamo perdere di vista qual è il contesto strutturale in cui ciò avviene, contesto che concerne anche l’Europa.
La globalizzazione economica, messa in moto negli anni Settanta da Washington con la sua agenda politica neoliberista, ha avuto come conseguenza un declino relativo dell’Occidente su scala globale rispetto alla Cina e agli altri paesi Brics in ascesa. Le nostre società devono elaborare la percezione di questo declino globale e insieme a ciò la complessità sempre più esplosiva della nostra vita quotidiana, connessa agli sviluppi tecnologici. Le reazioni nazionalistiche si rafforzano negli strati sociali che non traggono alcun beneficio – o non ne traggono abbastanza – dall’aumento del benessere medio delle nostre economie».
Stiamo assistendo a una sorta di processo di irrazionalizzazione politica dell’Occidente? C’è una parte della sinistra che ormai si professa a favore di un populismo di sinistra come reazione al populismo di destra.
«Prima di reagire in modo puramente tattico bisogna sciogliere un enigma: come è stato possibile giungere a una situazione nella quale il populismo di destra sottrae alla sinistra i suoi stessi temi?».
Quale dovrebbe essere allora la risposta di sinistra alla sfida della destra?
«Ci si deve chiedere perché i partiti di sinistra non vogliono porsi alla guida di una lotta decisa contro la disuguaglianza sociale, che faccia leva su forme di coordinamento internazionale capaci di addomesticare i mercati non regolati. A mio avviso, infatti, l’unica alternativa ragionevole tanto allo status quo del capitalismo finanziario selvaggio quanto al programma del recupero di una presunta sovranità dello Stato nazionale, che in realtà è già erosa da tempo, è una cooperazione sovranazionale capace di dare una forma politica socialmente accettabile alla globalizzazione economica. L’Unione europea una volta mirava a questo – l’Unione politica europea potrebbe ancora esserlo».
Oggi tuttavia sembra essere persino peggio del populismo di destra in sé il “pericolo di contagio” del populismo nel sistema dei partiti tradizionali, in tutta Europa.
«L’errore dei vecchi partiti consiste nel riconoscere il fronte che definisce il populismo di destra: ossia “Noi” contro il sistema. Solo una marginalizzazione tematica potrebbe togliere l’acqua al mulino del populismo di destra. Si dovrebbero quindi rendere di nuovo riconoscibili le opposizioni politiche, nonché la contrapposizione tra il cosmopolitismo di sinistra – “liberale” in senso culturale e politico – e il tanfo etnonazionalistico della critica di destra alla globalizzazione. In breve: la polarizzazione politica dovrebbe cristallizzarsi di nuovo tra i vecchi partiti attorno a opposizioni reali. I partiti che riservano attenzione al populismo di destra, piuttosto che disprezzarlo, non possono aspettarsi poi che sia la società civile a mettere al bando slogan e violenze di destra ».
Traduzione di Giorgio Fazio L’intervista è tratta da Blätter für deutsche und internationale Politik, le domande sono della redazione
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