Una speranza dietro l'apparente paradosso del filosofo sloveno: l'unica cosa buona di Trump è che la paura che genera può spingere i veri liberali a reinventare una nuova sinistra, come accadde nel secolo scorso.
il Fatto quotidiano online, 30 maggio 2017Ci sono due generalizzazioni sbagliate sulla società di oggi. La prima dice che viviamo in un’epoca di antisemitismo universalizzato: con la sconfitta militare del fascismo, il ruolo un tempo giocato dalla figura antisemita dell’ebreo è ora ricoperto da qualsiasi gruppo straniero che venga percepito come una minaccia all’identità: i latinos, gli africani e soprattutto i musulmani, che oggi nelle società occidentali vengono trattati sempre più come i nuovi “ebrei”.
L’altra generalizzazione scorretta è quella secondo cui la caduta del Muro di Berlino avrebbe portato alla proliferazione di nuovi muri allo scopo di separarci dall’Altro pericoloso (il muro che separa Israele dalla Cisgiordania, il muro in programma tra gli Stati Uniti e il Messico ecc.). Tutto vero, ma esiste una distinzione fondamentale tra i due tipi di muri. Il Muro di Berlino rappresentava la divisione del mondo al tempo della Guerra fredda e, pur essendo percepito come la barriera che teneva isolate le popolazioni degli Stati comunisti “totalitari”, segnalava anche che il capitalismo non era l’unica opzione, che un’alternativa, benché fallita, esisteva. I muri che vediamo levarsi oggi, per converso, sono muri la cui costruzione è stata scatenata dalla caduta dello stesso Muro di Berlino, cioè dalla disintegrazione dell’ordine comunista; essi non rappresentano la divisione tra capitalismo e comunismo, ma quella immanente all’ordine capitalista mondiale.
Gli immigrati musulmani non sono gli ebrei di oggi: essi non sono invisibili, anzi, sono fin troppo visibili; non sono affatto integrati nelle nostre società e nessuno afferma che siano coloro che nell’ombra tirano le fila. Se proprio si vuole scorgere nella loro “invasione dell’Europa” un complotto segreto, allora si deve supporre che dietro ci siano gli ebrei, come afferma un testo apparso poco tempo fa in uno dei principali settimanali di destra sloveni, in cui si può leggere: “George Soros è una delle persone più depravate e pericolose del nostro tempo, responsabile dell’invasione delle orde negroidi e semiti – che, e dunque del crepuscolo dell’Unione europea. […] Essendo un tipico sionista talmudico, egli è un nemico mortale della civiltà occidentale, dello Stato-nazione e dell’uomo bianco europeo”. Il suo scopo sarebbe quello di costruire “una coalizione arcobaleno composta da emarginati sociali come i froci, le femministe, i musulmani e i marxisti che odiano il lavoro”, al fine di attuare “una decostruzione dello Stato-nazionale e trasformare l’Unione europea nella distopia multiculturale degli Stati Uniti d’Europa”. Quali forze dunque si opporrebbero a Soros? “Viktor Orbán e Vladimir Putin sono gli unici politici lungimiranti ad aver compreso appieno le macchinazioni di Soros e ad aver proibito di conseguenza l’attività delle sue organizzazioni”.
Se i Repubblicani radicali non facevano altro che attaccare Obama per il suo atteggiamento fin troppo morbido verso Putin, un atteggiamento che tollerava le aggressioni militari russe (in Georgia, Crimea ecc.), mettendo in questo modo in pericolo gli alleati occidentali in Est Europa, ora i sostenitori di Trump difendono un approccio sempre più accondiscendente verso la Russia. Come si possono unire le due contrapposizioni ideologiche, quella fra il tradizionalismo e il relativismo secolare e quella da cui dipende tutta la legittimità dell’Occidente e della sua “guerra al terrore”, l’opposizione tra i diritti individuali liberaldemocratici e il fondamentalismo religioso incarnato principalmente dall’“islamofascismo”?
Oggi la sinistra liberale e la destra populista sono entrambe bloccate in una politica della paura: paura degli immigrati, delle femministe ecc., o paura dei populisti fondamentalisti e via dicendo. La prima cosa da fare è compiere il passaggio dalla paura all’angoscia. La paura è paura di un oggetto esterno percepito come minaccioso rispetto alla nostra identità, mentre l’angoscia compare quando ci rendiamo conto che nell’identità che vogliamo proteggere dalla minaccia esterna tanto temuta c’è qualcosa che non va. La paura ci spinge ad annientare l’oggetto esterno, mentre l’unico modo per affrontare l’angoscia è trasformare noi stessi.
Le elezioni americane del 2016 sono state il colpo mortale al sogno di Francis Fukuyama, la sconfitta finale della democrazia liberale, e l’unico modo per battere davvero Trump e redimere ciò che vale la pena di salvare nella democrazia liberale è compiere una scissione settaria dal nucleo principale della democrazia liberale – in breve, spostare il peso da Clinton a Bernie Sanders, di modo che le prossime elezioni siano tra lui e Trump.
I punti del programma di questa nuova sinistra sono abbastanza semplici da immaginare. Ovviamente, l’unica reazione possibile al “deficit democratico” del capitalismo mondiale sarebbe dovuta passare per un’entità transnazionale. Non era stato già Kant a riconoscere, più di due secoli fa, il bisogno di un ordine giuridico transnazionale fondato sulla nascente società globale? Questo, però, ci riporta a quella che è verosimilmente la “contraddizione principale” del Nuovo ordine mondiale: l’impossibilità strutturale di trovare un ordine politico globale che corrisponda all’economia capitalista. E se, per ragioni strutturali e non solo per via di limiti empirici, non ci potesse essere una democrazia internazionale o un governo mondiale rappresentativo?
Il problema (l’antinomia) strutturale del capitalismo globale sta nell’impossibilità (e, al contempo, nella necessità) di un ordine sociopolitico che gli sia adeguato: l’economia di mercato non può essere organizzata direttamente come una democrazia liberale globale tramite elezioni universali. Mentre le merci circolano sempre più liberamente, i popoli vengono tenuti separati da nuovi muri. Trump promette la cancellazione dei grandi accordi di libero scambio difesi da Clinton. L’alternativa di sinistra a entrambi dovrebbe consistere in un progetto di nuovi e diversi accordi internazionali: accordi che impongano il controllo delle banche, accordi sugli standard ecologici, sui diritti dei lavoratori, sul servizio sanitario, sulla protezione delle minoranze sessuali ed etniche ecc.
La grande lezione del capitalismo globale è che gli Stati-nazione non possono svolgere il lavoro da soli. Solo una nuova internazionale politica può forse contenere il capitale mondiale. Un vecchio anticomunista di sinistra una volta mi disse che l’unica cosa buona di Stalin era la paura autentica che suscitava nelle potenze occidentali. Lo stesso si può dire di Trump: la cosa buona è che spaventa davvero i liberali. Le potenze occidentali impararono la lezione e si concentrarono in modo autocritico sulle proprie mancanze, sviluppando lo Stato sociale. I liberali di sinistra saranno in grado di fare qualcosa di analogo? Per citare Mao: “Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente”.
La catechesi e l'attualità. «La meritocrazia nel Vangelo la troviamo nella figura del fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo. Lui disprezza il fratello minore e pensa che deve rimanere un fallito perché se lo è meritato; invece il padre pensa che nessun figlio si merita le ghiande dei porci».
Il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2017 (m.p.r.)
È stato un discorso lungo, denso, articolato quello che papa Francesco ha tenuto sabato scorso all’Ilva di Genova, nel corso della sua visita nel capoluogo ligure. Il tema è stato il lavoro e la sciatta sintesi giornalistica ha schiacciato l’intervento del pontefice su un titolo strumentalmente anti-grillino: “Bergoglio contro il reddito di cittadinanza”. Vero. Ma in che contesto?
E qui viene il bello. Perché se i renziani possono rallegrarsi per le parole sul reddito non possono farlo per quelle sugli imprenditori “speculatori” (tra cui tanti amici del Sistema in generale) ma soprattutto per quelle, clamorose, contro la meritocrazia. Ossia il totem degli ultimi vent’anni che ha ridisegnato in peggio il perimetro della sinistra. Così, ancora una volta, il papa argentino si conferma punto di riferimento per coloro che si riconoscono nei valori dell’uguaglianza.
Bergoglio ha svolto un’autentica catechesi: «Un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata ‘meritocrazia’. La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il ‘merito’; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza».
Dopo aver spiegato i danni che provoca il talento considerato come “merito” e non come “dono”, il papa ha concluso: «Una seconda conseguenza è il cambiamento della cultura della povertà. Il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa. Ma questa non è la logica del Vangelo, non è la logica della vita: la meritocrazia nel Vangelo la troviamo invece nella figura del fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo. Lui disprezza il fratello minore e pensa che deve rimanere un fallito perché se lo è meritato; invece il padre pensa che nessun figlio si merita le ghiande dei porci».
«Licenziare, ricattare e delocalizzare è indegno e incostituzionale. Il nuovo capitalismo dà una veste morale alla diseguaglianza e rende il povero "un demeritevole", e quindi un colpevole».
il manifesto, 28 maggio 2017 (m.p.r.)
L’imprenditoria buona che crea lavoro dignitoso e quella «mercenaria» preoccupata solo del profitto. Il lavoro come «riscatto sociale» ma anche come arma di «ricatto». La ferita del lavoro nero, la piaga della disoccupazione. Il falso mito della «meritocrazia» usato come «legittimazione etica della disuguaglianza». Il lavoro «cattivo» che produce armi e violenta la natura.
È stato un discorso a 360 gradi sul tema del lavoro quello che ieri – mentre a Taormina era in corso il G7 su ambiente, economia e migrazioni – papa Francesco, in visita a Genova, ha tenuto all’Ilva di Cornigliano davanti alla folla osannante di operai metalmeccanici, rispondendo alle domande di quattro persone, accuratamente selezionate sulla base del principio dell’interclassismo, pilastro della dottrina sociale della Chiesa: un imprenditore, una sindacalista, un operaio, una disoccupata.
«Non c’è buona economia senza buon imprenditore», ha detto Francesco. Ma «chi pensa di risolvere il problema della sua impresa licenziando la gente, non è un buon imprenditore, è un commerciante, oggi vende la sua gente, domani vende la propria dignità». È uno «speculatore», un «mercenario» che «usa azienda e lavoratori per fare profitto».
«Licenziare, chiudere, spostare l’azienda (delocalizzare, ndr) non gli crea alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto». E «qualche volta – ha proseguito – il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro».
Il papa ha dato ragione alla sindacalista, che ha parlato della necessità di rendere il lavoro «una forma concreta di riscatto sociale», e ha aggiunto il tema del lavoro usato come «ricatto», con un episodio che ha detto essergli stato raccontato da una ragazza a cui era stato proposto un lavoro da 10-11 ore al giorno per 800 euro al mese: «800 soltanto? 11 ore?. E lo speculatore, non era imprenditore, le ha detto: Signorina, guardi dietro di lei la coda: se non le piace, se ne vada. Questo non è riscatto ma ricatto!». Poi il «lavoro in nero», quello dei «caporali», ma anche le forme apparentemente soft: «Un’altra persona mi ha raccontato che ha lavoro, ma da settembre a giugno: viene licenziata a giugno, e ripresa a settembre». Non c’è bisogno di andare nei campi della Puglia, basta entrare in una scuola pubblica per verificare la normalità di tale prassi.
«La mancanza di lavoro è molto più del venir meno di una sorgente di reddito», è assenza di «dignità». Per questo, ha detto il papa, l’obiettivo «non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti! Perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti». Lo afferma il primo articolo della Costituzione italiana, ha ricordato Francesco: «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro». E allora «togliere il lavoro alla gente o sfruttare la gente con lavoro indegno o malpagato, è anticostituzionale».
«Competitività» e «meritocrazia», secondo il papa due «disvalori» da rimuovere. La prima perché mette i lavoratori in guerra gli uni contro gli altri («quando un’impresa crea scientificamente un sistema di incentivi individuali che mettono i lavoratori in competizione fra loro, magari nel breve periodo può ottenere qualche vantaggio, ma finisce presto per minare quel tessuto di fiducia che è l’anima di ogni organizzazione»). Con la seconda, «il nuovo capitalismo dà una veste morale alla diseguaglianza» («se due bambini nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente») e rende il povero «un demeritevole, e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa».
La visita è proseguita in cattedrale, dove ha incontrato i vescovi, i preti, i religiosi e le religiose, poi i giovani al santuario della Madonna della Guardia, dove è tornato sul tema dei migranti: «È normale che il Mediterraneo sia diventato un cimitero? È normale che tanti Paesi, non l’Italia che è tanto generosa, chiudano le porte a questa gente che fugge dalla fame e dalla guerra?». Pranzo con alcuni rifugiati, senza fissa dimora e detenuti, un saluto ai degenti del Gaslini, messa a piazzale Kennedy e, in serata, rientro a Roma.
». il manifesto, 27 maggio 2017 (c.m.c.)
L’ottava edizione dei Dialoghi sull’uomo, il festival di antropologia diretto da Giulia Cogoli (Pistoia 26-28 maggio 2017), ha un titolo lungo: La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità e scambi. Ma va bene così: a costo di sembrare noiosi, vale la pena di insistere su quanto abbiano pesato nella nostra storia gli scambi e i contatti fra popoli diversi. Siamo tutti bastardi, tanto biologicamente quanto culturalmente, ma rischiamo di dimenticarcene a furia di sentir parlare, in televisione, sui giornali e a cena con gli amici, di linee di confine fra chi è (o ci sembra), come noi e chi invece non lo è.
È una storia vecchia: abbiamo bisogno di parole per definire le cose. Ma queste parole, a prenderle troppo sul serio, tracciano linee divisorie nette: fra bianchi e neri, romani e barbari, nord e sud; oppure (ma è lo stesso) fra vegetariani e onnivori, fra credenti e altri credenti, e fra tutti i credenti e atei o agnostici. Ovviamente, le differenze ci sono, sia biologiche sia culturali: e meno male, se no sai che noia. Però ci sono tantissime sfumature, e il linguaggio corrente le trascura; se ce ne dimentichiamo, se le cancelliamo dal nostro mondo mentale, ecco che tutto si appiattisce intorno a noi.
L’operazione comporta dei rischi, e ce l’ha spiegato il premio Nobel Amartya Sen, nel suo Identità e violenza. Un manovale Hutu di Kigali può vedere se stesso solo come Hutu e arrivare a uccidere il suo collega Tutsi, scrive Sen, ma facendolo perde di vista tutto quello che li unisce: essere entrambi abitanti di Kigali, manovali, ruandesi, africani e esseri umani.
L’idea del Festival, allora, è di portare alla luce la ricchissima rete di contaminazioni che hanno fornito tanti elementi in comune sia alle nostre culture, sia (e qui si spiega cosa c’entri la genetica) alla nostra natura biologica: un compito più semplice di quanto si possa immaginare, perché la ricerca ha fatto grandi passi avanti, e oggi comprendiamo bene differenze e somiglianze su cui l’umanità si interroga da sempre. Abbiamo visto, per esempio, che la nostra tendenza a classificare i nostri simili, ad attribuire loro un’etichetta razziale, ci ha impedito per secoli di capire quanto siano piccole le nostre differenze biologiche e come si siano formate.
E così, da quando ci siamo tolti gli appannatissimi occhiali della razza, siamo riusciti a leggere nel nostro DNA un sacco di cose sulla nostra preistoria. Oggi sappiamo molto meglio chi siamo (una specie straordinariamente mescolata, in cui ognuno porta pezzi di DNA di provenienza diversissima) e da dove veniamo (dall’Africa), mentre su dove andiamo, purtroppo, siamo incerti e confusi come sempre. Sappiamo che le differenze fra le varie popolazioni umane sono sfumature, reali ma minuscole, in una tavolozza genetica in cui ognuno è identico al 99,9% a qualunque sconosciuto.
Stiamo studiando come in quell’uno per mille di differenze ci siano i fattori che spiegano le nostre diverse tendenze ad ammalarci e a rispondere al trattamento farmacologico, il che apre grandi prospettive in medicina preventiva. E abbiamo capito che il nostro carattere, le nostre scelte e i nostri gusti c’entrano pochissimo con i nostri geni, e molto invece col complesso di situazioni ed esperienze individuali che riassumiamo nella parola cultura.
C’è un paradosso: mentre la biologia abbandona la visione razziale perché ha capito che ogni gruppo umano comprende individui molto diversi, con caratteristiche che si sono evolute attraverso scambi e commistioni, una visione simile sta affiorando in ambito culturale. E così nascono forme di razzismo più sottili, secondo cui quello che ci separerebbe dagli altri non starebbe magari nei geni, ma nei nostri schemi culturali, che però sarebbero profondamente radicati e sostanzialmente immutabili.
Scontro fra culture, chi non l’ha sentita questa espressione? Col corollario: Non sono razzista, ma santo cielo! questi musulmani sono proprio diversi da noi. Per generare un ampio catalogo dei nuovi razzismi, basta sostituire di volta in volta alla parola “musulmani” l’etichetta di quelli che vorremmo discriminare. Le tre parole-chiave di questa edizione del festival ci ricordano, invece, come le nostre identità siano tutt’altro che immutabili e tutt’altro che impermeabili. Noi speriamo che ragionare insieme sulle nostre migrazioni, sulle nostre differenze e scambi che sempre ci sono stati fra popoli e culture diversi ci aiuti ad affrontare a mente fredda questa difficile fase, in cui nubi di intolleranza sempre più cupe si addensano sul cielo d’Europa.
». il manifesto, 27 maggio 2017 (c.m.c.)
Ora che siamo qui, a chiederci se nelle prossime elezioni politiche – tra quattro o dieci mesi, si vedrà – ci sarà una lista di sinistra sinistra, la prima domanda è: di cosa parliamo quando parliamo di sinistra? Lo dico con un pizzico di incoscienza e un certo sprezzo del pericolo.
L’argomento di solito scatena il fuggi fuggi – nei media mainstream, tra giornaloni e tv – quasi quanto il parlare di legge elettorale. Il tutto viene seppellito da un chissenefrega irrisorio, buttato lì per impedire di vedere qual è la posta in gioco, procedere nella cancellazione dell’opposizione sociale e politica, non solo in Italia ma in Europa. Basta vedere come si commentano le elezioni francesi, o la campagna elettorale di Corbyn. Come se fosse davvero incomprensibile che programmi che si propongono semplici obiettivi di redistribuzione di ricchezza e riequilibrio del welfare possano raccogliere voti.
La cosa bizzarra è che il chissenefrega in Italia percorre anche le sparse sinistre, i movimenti, i singoli ormai privi di legami politici, come se si fosse espresso un medievale giudizio di dio: divisi siamo e divisi dovremo rimanere. Una specie di maledizione, una sorta di condanna per errori insormontabili, impossibili da espiare, tantomeno da perdonare.
Intendiamoci, responsabilità ce ne sono state. Ma sono convinta che il rancore infinito non porta a nuova vita, seppellisce per sempre sotto macerie che rimangono tali. Non mi sembra una responsabilità lieve, per costruire occorre rovesciare il punto di vista – do you remember revolution? – lasciare alle spalle passato, e puntare al futuro.
Il 4 dicembre lo ha detto con chiarezza. In una situazione in cui il voto ha permesso di esprimersi, il popolo ha votato no. Un no che si è visto di recente, sempre in Italia, anche in un altro referendum, che pure aveva quasi l’aspetto di un ricatto, quello dell’Alitalia. Un no sorprendente, tanto è vero che si è detto che era stato sbagliato chiedere il voto. Tanto stupisce che ci siano volontà, desideri, progetti, richieste che non stanno nelle compatibilità prestabilite, nei prezzi scaricati sempre e solo su chi lavora. Certo non tutto il no è di sinistra, sarebbe disonestà intellettuale sostenerlo. Eppure giovani, sud, donne, lì dove si sono espresse le percentuali più alte di no, chiedono a gran voce un cambiamento che solo una sinistra sinistra può portare.
Quindi lavoro, lavoro e ancora lavoro. I lavori frammentati, spezzati, svalorizzati dal Jobs Act – sul quale si è impedito il referendum e che ora si vuole re-introdurre per decreto – lavori che non si dividono più tra fabbrica e fuori, lavori di cura e lavori di produzione. Il neocapitalismo con la sua violenza senza maschere è entrato nella vita quotidiana. Basta vivere, per capirlo, la vita ordinaria, comune. Di chi usa i mezzi di trasporto, si cura con il servizio sanitario pubblico, frequenta le scuole pubbliche, o ci lavora. Di chi non ha vite extra-ordinarie, non può garantirsi servizi speciali e su misura, non può pagare le privatizzazioni. Di chi si vede tagliare compensi, contributi, pensioni. Basta vivere giorno dopo giorno nelle città che si vogliono impossibili, in cui vengono additati “nemici” a cui si vuole togliere umanità, per renderci tutti disumani.
E non sto divagando, parlo di elezioni, di liste e di politica. La sfida del presente richiede nettezza. Dunque niente centrosinistra. Chi continua a proporlo – per esempio Massimo D’Alema intervistato ieri dal Corriere – fa confusione, invece di diminuirla. Non giova alla chiarezza di un campo politico che ha bisogno di slancio, di certezze per cui motivarsi. E dire che ci sono segni evidenti che si può andare in una direzione comune: forze politiche, movimenti, la grande forza che spinto il risultato referendario per la difesa della Costituzione, intellettuali generosi, pronti a spendersi.
Ci vuole coraggio. L’umiltà di sapere che nessuno da solo ha la soluzione, accettare che il nuovo avrà bisogno di raccontarsi anche con facce nuove. Ma non c’è da averne paura. Ci sarà spazio per chiunque avrà filo da tessere. In gioco non è il futuro di piccoli gruppi, la sfida è mantenere nello spazio pubblico la voce dei dimenticati e degli esclusi.
«Verso le elezioni. È destinato al fallimento il disegno tattico e politicistico di una lista autonoma solo come reazione al rifiuto del Pd di allargare a sinistra le alleanze elettorali».
il manifesto, 26 maggio 2017, con postilla
È bene che la riflessione a sinistra salga di qualità. Non è pensabile che il dibattito sulle “fondamenta” si riduca a questioni di schieramento. Un discorso cartesiano sul metodo si impone: la coalizione con il Pd non è il problema principale sul quale acciuffarsi. Prima delle alleanze viene il progetto, cioè l’idea che si coltiva della sinistra nell’Italia e nell’Europa di oggi.
Partire dalle fondamenta dovrebbe significare questo. Interpretare con efficacia la funzione che, in una data congiuntura storico-politica, è necessario svolgere.
In Europa le formazioni del socialismo sono in gravi difficoltà. Alcune sono già scomparse, altre attraversano dilemmi esistenziali profondi. Crescono offerte politiche più radicali, spesso in netta contrapposizione con una sinistra storica ritenuta troppo omologata agli imperativi di un sistema sociale contro cui cresce la rivolta.
In Italia manca un partito del socialismo europeo, essendo la confluenza del Pd nelle sue fila solo un ritrovato tattico. E vuoto è rimasto anche uno spazio più a sinistra paragonabile a quello occupato in Germania, Francia, Spagna. Tra un Pd troppo al centro e con una cultura liberale non riconducibile al socialismo europeo, e un M5S troppo ambiguo per essere percepito come una variante italiana di Podemos, esiste un margine per la costruzione di una più grande aggregazione della sinistra.
L’imperativo è di recuperare una autonomia politica e culturale rispetto al Pd e al M5S. In un quadro politico che pare confermare la propria ossatura tripolare, la sinistra deve uscire dalla coazione ad anteporre la questione delle alleanze (e cedere così al richiamo del voto utile) allo sforzo di precisare il suo ruolo politico-culturale di medio-lungo periodo. Non perché le alleanze siano da escludere (persino Lenin reputava impolitica ogni velleità di escludere per principio le intese e i compromessi). Ma perché non sono il punto di partenza, ma una eventualità da prendere in considerazione solo dopo aver misurato i rapporti di forza.
I rapporti di forza, appunto. Ci sono le condizioni per edificare una sinistra paragonabile alla Linke o alla sinistra francese e spagnola però anche più accorta politicamente e più curiosa nella sua cultura (contano ancora le ceneri di Gramsci?). Occorre una coalizione della sinistra, plurale e non residuale, radicale e però non sterile nel suo minoritarismo. Le fondamenta su cui deve poggiare la ricomposizione della sinistra sono le due grandi fratture che hanno spaccato il Pd e rotto la sua coalizione sociale: il Jobs Act e il plebiscito costituzionale.
Una nuova soggettività politica per decollare prima politicizza le fratture, cioè dà rappresentazione ai movimenti profondi che spostano i consensi perché scaturiti da questioni non effimere, e poi in parlamento si cimenta con i rapporti delle forze emersi dal voto.
Se si giunge a ottobre (o a primavera) con sterili accapigliamenti sulle coalizioni preventive con il Pd, o con repentine intese tra vecchie sigle indotte ad accordarsi solo per lo spavento della clausola di sbarramento, per la sinistra è finita. Serve perciò un salto logico, degno di un pensiero politico egemonico: la priorità è quella di dare espressione politica alle “fondamenta” (rotture su costituzione e lavoro rimaste impresse nelle coscienze collettive).
È destinato al fallimento il disegno tattico e politicistico-razionale di arrendersi a una lista autonoma solo come reazione al rifiuto del Pd di allargare alla sua sinistra le alleanze elettorali. Più che la dimenticanza delle lezioni del passato (l’arcobaleno naufragò come risposta tattica alla vocazione maggioritaria di Veltroni) colpisce la mancata comprensione dell’oggi. È in corso una lunga crisi di sistema che scongela le antiche culture politiche in Europa.
A questo sommovimento epocale occorre fornire una interpretazione politica. I fuoriusciti dal Pd, Si, i comunisti, le liste civiche o rispondono con intelligenza alla emergenza dello scongelamento delle culture politiche europee o precipitano nell’irrilevanza di chi ha il timore di osare nuove cose in tempi di svolta.
postilla
Più che ragionevole domandarsi prima "chi siamo e che vogliamo", e solo dopo "con chi vogliamo lavorare". Poco ragionevole non porre, tra le questioni nodali da affrontare e su cui schierarsi/riconoscersi, quelle planetarie del disastro ambientale e della crescente forbice tra popoli ricchi, o almeno benestanti, e popoli poveri, o addirittura privi di tutto. In una parola, quelli del capitalismo giunto alla sua fase attuale. Hic Rhodus, hic salta. E' su questo punto che è avvenuta la frattura tra il renzismo e la tradizione/posizione del comunismo italiano, da Gramsci e Togliatti a Berlinguer. Dopo di che, una volta definito la "identità", si potrà ragionare sul con chi allearsi per fare qualche passo significativo nelle direzione giusta (e.s)
«Come nel romanzo di Camus, gli europei accettano passivi la distruzione dei propri valori, dalla giustizia sociale al paesaggio, alla democrazia. Se non riconosciamo le rovine, la rinascita sarà impossibile».
il Fatto Quotidiano, 25 maggio 2017 (p.d.)
Liana Milella intervista Gustavo Zagrebelsky. «Intercettazioni, no ai divieti il compito del giornalismo è fare la guardia al potere. Il magistrato cerca le prove, la stampa pubblica le notizie anche quando sono sgradite».
la Repubblica, 21 maggio 2017
«La stampa è, come si usa dire, il quarto potere. La separazione dei poteri porta con sé, come ha scritto Repubblica, la separazione dei doveri. E quindi il magistrato cerca le prove, il giornalista pubblica le notizie». Dice così Vladimiro Zagrebelsky, ex giudice della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.
«Nel tempo la ragion pratica ha prevalso sulla bella metafora del "foro" aperto alla città e anonimi pavimenti hanno sostituito i sampietrini. Da allora la distanza fra la Giustizia e il Paese si è fatta sempre più grande».
il manifesto, 20 maggio 2017 (m.p.r.)
Non tutti sanno che nel suo progetto originario, risalente agli anni ’60, la pavimentazione del Tribunale di Roma, uffici, aule e corridoi, era interamente costituta da «sampietrini», i cubetti di porfido caratteristici delle strade e delle piazze romane. Una scelta, questa, discutibile sotto il profilo pratico ed estetico, ma dotata di una straordinaria potenza evocativa: il luogo della giustizia non è un luogo «separato» dalla città, ma ne rappresenta l’inevitabile continuazione.
Le strade della città entrano all’interno del tribunale che appartiene dunque a tutti i cittadini e non è dominio incontrastato di una magistratura separata e autocratica. Nel tempo la ragion pratica ha prevalso sulla bella metafora del «foro» aperto alla città e anonimi pavimenti hanno sostituito i sampietrini. Da allora la distanza fra la Giustizia e il Paese si è fatta sempre più grande, procedendo di pari passo con l’idea che i tribunali fossero dei «giudici», che i palazzi di giustizia fossero i luoghi nei quali i pubblici ministeri esercitavano il loro potere.
Difficile non pensare a questo percorso, non solo simbolico, che l’idea stessa di giustizia ha disegnato negli ultimi decenni, quando apprendiamo del diniego opposto da alcuni importanti magistrati alla richiesta di poter raccogliere firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere fra magistratura inquirente e giudicante.
A Firenze, in particolare, la presidente della corte di appello e il procuratore generale hanno giustificato la mancata autorizzazione con non meglio precisate ragioni di sicurezza. Ed è difficile immaginare quale pericolo possano costituire un cancelliere dello stesso tribunale, intento ad effettuare l’autentica delle firme di pacifici cittadini, considerato che questi esercitano il loro più naturali diritti politici e quelli la più tipica delle loro funzioni.
Nei nostri Tribunali vi sono banche, uffici postali, cartolerie edicole e librerie, si raggiungono accordi e si firmano contratti, ma non si sottoscrivono leggi che vogliono distinguere le carriere di quel giudice e di quel procuratore generale.
È bizzarro riflettere sulla circostanza che l’iter di raccolta delle firme ha inizio con il deposito formale del testo della legge di riforma di iniziativa popolare proprio all’interno del «Tribunale supremo», in un’aula della Corte di Cassazione, raccogliendo le firme dei promotori, mentre ai cittadini dovrebbe essere preclusa la possibilità di promuovere tale iniziativa in una normale aula di Tribunale.
In ogni altro luogo ma non lì. Resta la sensazione che questa proposta di legge che non fa altro che realizzare un articolo della Costituzione rimasto inattuato, e avvicina il sistema giudiziario italiano a quello degli altri paesi europei cui è del tutto ignota quella «colleganza» fra giudici e pubblici ministeri, in fondo scopra un nervo sensibile dell’ordine giudiziario di questo Paese, da troppo tempo adagiato sull’idea che la giustizia sia una cosa propria della magistratura, una cosa da somministrare paternalisticamente a ignari cittadini, fissata su cardini di potere inamovibili, fondata su principi che le leggi umane non devono e non possono mutare.
la Repubblica, 20 maggio 2017 (c.m.c.)
In origine non esistevano “professioni giuridiche”. Quella che noi chiamiamo “giurisprudenza” non esisteva come entità o funzione autonoma. Un passo determinante verso il diritto come dimensione autonoma della vita sociale è raccontato da Eschilo nella terza parte della saga di Oreste, le Eumenidi, un testo teatrale messo in scena nel 458 a.C.. Vi si racconta la conversione delle Furie o Erinni, forze che avvolgono gli esseri umani e le loro famiglie nella spirale di violenza distruttiva che non si estingue mai e, anzi, si estende di generazione in generazione: conversione in figure benevolenti che giudicano con parole definitive e mettono fine a quella che sarebbe stata, altrimenti, la catena infinita delle vendette.
La dea Atena, protettrice della città, fonda l’Areopago, istituzione perenne e luogo protetto dove si celebrano i riti della giustizia ateniese: «Insensibile al denaro, degno di venerazione, rigido d’animo, desto a vegliare i dormienti, presidio del paese: ecco il consesso che istituisco». Oreste, perseguitato per il matricidio, vi trova il giudizio definitivo che mette fine alla vendetta. Eschilo descrive, dunque, l’inizio di un processo d’individuazione della funzione della giustizia. Ma non è ancora il tempo dei giuristi e della loro scienza.
Il diritto, la giurisprudenza e i giuristi vengono dopo, da Roma. Roma li ha creati e creandoli ha cercato di farne un mondo a parte, con suoi rituali esclusivi, la sua scienza e la coscienza di ceto dei suoi adepti: insomma, ne ha fatto una professione. Come addetti a una professione che oggi definiamo “liberale”, nel senso della sovrana neutralità e superiorità spirituale rispetto alle bassure della vita, ci identifichiamo volentieri con Themis, la dea garante dell’ordine universale che abbraccia tanto gli dei quanto gli uomini o, più spesso, con Dike, sua figlia, la dea garante dell’ordine divino incarnato nelle istituzioni umane.
Dike è raffigurata come vergine saggia, figlia del pudore, nemica della menzogna (Platone, Leggi), pensosa e bella in tutti i sensi. Che i giuristi si considerino adepti di quella divinità, cioè della giustizia ch’essa rappresenta, è forse un atto d’orgoglio ma non è una arbitraria sostituzione o identificazione: tra il diritto e la giustizia c’è un legame intimo, essenziale. Potremmo concepire una sentenza o a una memoria difensiva che non si richiamassero a una qualche concezione della giustizia?
Il diritto, insomma, tende a identificarsi con la giustizia e la giustizia, a sua volta, vuole rappresentarsi per mezzo d’una immagine intramontabile: quella giovane donna che si presenta di solito con gli occhi bendati perché “non guarda in faccia nessuno”, con in una mano la bilancia, come segno d’imparzialità, e con l’altra che brandisce la spada, simbolo della separazione del giusto dall’ingiusto o forse anche della protezione ch’essa offre a chiunque le si rivolge per scampare ai prepotenti. Innanzitutto, colpisce che la giustizia appartenga al mondo femminile. La politica, luogo del potere, è stata per secoli pensata come dominio prevalentemente maschile.
Il Leviatano, l’animale marino scelto da Thomas Hobbes come simbolo del potere sovrano, è rappresentato da una figura imponente che brandisce spada e scettro, i cui elementi semplici sono piccolissimi lillipuziani che, insieme, concorrono a formare il corpo di quell’immane “uomo in grande”. In Il buon Governo di Ambrogio Lorenzetti a Siena, per fare soltanto un altro esempio, sulla destra campeggia la figura del principe governante e, sulla sinistra, la figura della giustizia. Ancora una volta troviamo l’identificazione del potere con il sesso maschile e l’identificazione del diritto e della giustizia con quello femminile.
La separazione dei sessi nell’iconografia politica è rigorosa. D’altro canto, non risultano uomini bendati, con bilancia e spada, e anche in altre culture troviamo sempre figure di donne, come la dea egiziana della giustizia cosmica, Ma’at.
La troviamo perfino nella cultura atzeca, dove la giustizia è rappresentata dalla donna-serpente, collocata subito sotto il re imperatore. La giustizia, nell’immaginazione sociale è dunque dominio femminile, ma la sua “amministrazione” lungo i secoli e dappertutto è stata riservata agli uomini. Come possiamo considerare questa contraddizione? Forse qui possiamo già cogliere un’ambiguità e un primo segno d’ipocrisia. Non di giustizia si tratta realmente, ma di potere (maschile) dissimulato. Perché la dissimulazione? Forse perché ogni società ha bisogno di confidare in una sfera di relazioni scevre dal potere, cioè dalla legge del più forte.
Forse l’archetipo è la vergine dea armata del mito, Pallade Atena. Si deve, tuttavia, fare attenzione agli attributi di quella fanciulla. Ai loro significati immediati – la spada che divide i torti e le ragioni, una volta che la bilancia li ha pesati, e la benda che assicura l’imparzialità tanto della pesa che della divisione – se ne possono accostare altri meno scontati che inducono a pensieri meno consolanti. La spada, infatti, fa pensare anche ad Alessandro Magno che, non riuscendo a sciogliere il nodo da cui sarebbe dipesa la conquista dell’Asia minore – il nodo di Gordio – lo taglia brutalmente.
Altro che le sottigliezze del diritto e l’intrico dei suoi argomenti da dipanare: qui, la spada è un atto di forza che rappresenta l’arroganza di chi non ha tempo da perdere e vuole procedere sulla sua strada. Potrebbe però anche essere rovesciata in simbolo difensivo. Ma potrebbe interpretarsi anche nel senso della pretesa arrogante d’essere riconosciuta come una forza che svolge un compito di natura sovrumana, quasi divina, a somiglianza dell’Arcangelo Michele che impugna la spada in nome di Dio per annientare Satana. Infine, ricordando l’Atena nell’Areopago, potrebbe anche trattarsi dell’arma che protegge il reo dalla furia vendicatrice della folla che punta a entrare nel tribunale per fare giustizia sommaria.
La dea bendata tiene nell’altra mano la bilancia. Un primo elemento di riflessione è che non si tratta della stadera, cioè dello strumento a un piatto solo. La giustizia non si avvale di questo strumento di pesatura che darebbe un responso, per così dire, assoluto alla domanda: quanto pesa? Il responso della bilancia, invece, è relativo: la domanda alla quale risponde è: quali ragioni pesano più o meno delle altre, non essendo escluso il caso che si equivalgano. In ogni caso, la bilancia ci dice, realisticamente, che la giustizia possibile nelle aule dei tribunali sta in un rapporto concreto, non in una verità astratta.
In più: dice che anche il piatto della bilancia che pesa meno dell’altro, ciò non di meno, può avere ragioni dalla sua parte: non sufficienti a vincere la causa ma, non per questo indegne d’essere considerate da una “giustizia giusta”. La differenza può stare anche solo nell’inezia d’una piuma, come nella figura della dea Ma’at.
La pesa è l’atto finale di un percorso guidato dalla virtù dell’equilibrio. Si può allora dire che il giudice è un equilibrista? Forse sì. Di sicuro, però, è colui che, volterrianamente, fa suo il motto écraser l’infâme, dove l’infamia è il pregiudizio e il fanatismo, fosse pure il fanatismo della giustizia.
L'appello e i firmatari per la manifestazione del 20 maggio, i commenti di Luca Fazio e Nicola Fratoianni.
il manifesto, 19 maggio 2017
Ci sono soglie che non possono essere superate, pena la perdita di noi stessi. Una di quelle è la soglia che separa l’umano e il disumano. L’affermazione di quella comunità di genere che ci accoglie tutti e ci fa degni di riconoscimento reciproco, o la sua negazione.
Quella soglia viene oggi superata troppo spesso. Lo è con la colpevolizzazione della solidarietà in mare da parte di agenzie europee e di procure italiane.
Con la penalizzazione del precetto evangelico di nutrire gli affamati da parte di pubblici amministratori.
Con l’emanazione di una legislazione nazionale che sostituisce alla guerra alla povertà la guerra contro i poveri. Con la trasformazione dello stesso linguaggio corrente e l’emergere di parole segreganti come “decoro urbano”.
Con la messa in atto di una politica estera volta a creare ai confini d’Europa barriere più feroci degli stessi muri alleandoci con stati canaglia o capi-tribù chiamati a respingere nel deserto chi non vogliamo più soccorrere nel “nostro mare”.
Per questo due settimane fa eravamo in molti a Ventimiglia per dire che punire la solidarietà o impedirne l’esercizio mette in pericolo i principi e i valori minimi di umanità e di civiltà.
Sabato 20 maggio saremo molti di più a Milano per dire, riprendendo il grido della piazza di Barcellona, che l’accoglienza è un dovere.
La manifestazione sarà un gesto di solidarietà, una scelta di campo, una presa di parola contro il rifiuto e il razzismo in qualunque modo si manifestino. Per essere forte e capace di cambiare le politiche del paese quella parola deve essere chiara e coerente.
E deve fissare alcuni punti fermi. Il primo punto fermo - e ci riconosciamo in questo nelle parole del manifesto con cui la manifestazione è stata indetta - è un salto di qualità nella politica che porti «a compiere passi avanti reali, come l’effettivo superamento della legge Bossi-Fini, l’approvazione della legge sulla cittadinanza, la necessità di rafforzare un sistema di accoglienza dei migranti fondato sul coinvolgimento di tutte le comunità e le istituzioni, la trasparenza, la qualità, il sostegno ai soggetti più fragili (i minori, le donne, i vulnerabili), la cultura dei diritti e della responsabilità».
Ma c’è un secondo punto altrettanto decisivo senza il quale la pratica dell’accoglienza è inevitabilmente limitata e la sua proclamazione rischia di essere in gran parte retorica.
Il salto di qualità, la svolta della politica deve intervenire anche con riferimento ai più recenti provvedimenti legislativi (in particolare i decreti Minniti sui richiedenti asilo e sulla sicurezza, recentemente convertiti in legge dal Parlamento) che contraddicono in modo clamoroso lo spirito di accoglienza limitando le garanzie e i diritti per chi è in fuga da guerre e persecuzioni, incentivando risposte alle richieste di soccorso fondate sulla contenzione, creando improprie divisioni tra migranti, trasformando i sindaci in sceriffi e le istituzioni locali in presìdi a tutela degli inclusi contro i più deboli e i marginali.
La “retata” della stazione di Milano di qualche giorno fa, con una inedita esibizione di forza muscolare fino all’uso della polizia a cavallo, è figlia di quella cultura e di quella politica.
Guai a ignorarlo.
Solo con questa consapevolezza e con un impegno conseguente la manifestazione del 20 maggio sarà davvero «contro i muri». In questa prospettiva e con questo spirito vi aderiamo con convinzione e determinazione.
René Dahon (Association Roya citoyenne)
Marco Revelli
(storico e politologo)Cédric Herrou (attivista),
don Luigi Ciotti (presidente Gruppo Abele e Libera)
Alessandra Algostino
(Università di Torino)
MILANO, C'È SPAZIO PER TUTTI NELLA MARCIA PER L'ACCOGLIENZA
«20 maggio. Domani Milano sarà attraversata da migliaia di persone che chiedono (anche al governo) politiche diverse per l'immigrazione. Dopo una lunga trattativa si è arrivati ad un accordo per la composizione del corteo che prevede la presenza, non ai margini, anche dello spezzone "Nessuna persona è illegale". Ieri, intanto, il ministro degli Interni Marco Minniti ha firmato un protocollo in Prefettura che impegna 76 sindaci dell'area milanese ad accogliere i profughi sul territorio».
Settantasei sindaci dell’area metropolitana milanese (su 134) hanno detto sì. Sono disponibili ad accogliere sul territorio gruppi di migranti per un’accoglienza “equilibrata, sostenibile e diffusa” - come dice il ministro degli Interni Marco Minniti. Il protocollo è stato sottoscritto ieri in Prefettura, alla presenza del sindaco di Milano, ed è una mossa che va nella direzione giusta a poche ore dalla manifestazione “per l’accoglienza” che domani riempirà le strade della città.
Il protocollo impegna i sindaci ad accogliere entro il 2017 un numero di richiedenti asilo secondo una ripartizione stabilita in base al numero dei cittadini residenti. Si tratta di tre profughi ogni mille abitanti per un totale di circa cinquemila persone da suddividere tra i Comuni. «E’ un protocollo – ha detto Minniti – che può rappresentare un modello per l’Italia e l’Europa e può servire a superare i centri di accoglienza».
Il sindaco Beppe Sala, che sarà un protagonista della marcia per l’accoglienza di domani, non essendo condizionato più di tanto dalle inadeguatezze del Pd locale e nazionale, non ha perso l’occasione per dispensare buon senso: «Uno che fa il sindaco non può far finta che le cose magicamente si risolvano e girarsi dall’altra parte, non è giusto che ci sia qualcuno che deve fare anche la parte degli altri, perché questo dell’immigrazione è un tema che sarà dominante anche per le prossime decadi».
Nel frattempo la complicata macchina organizzativa della giornata “Insieme senza muri” (appuntamento domani alle 14 in Porta Venezia) ha raggiunto un accordo di massima sulla composizione della piazza. Non è una questione di lana caprina, è il frutto di una lunga trattativa per dare dignità e visibilità politica anche allo spezzone che intende coniugare il generico concetto di “accoglienza” con una decisa critica della legge Minniti-Orlando (associazioni e centri sociali che aderiscono alla piattaforma “Nessuna persona è illegale”). Il loro striscione sarà nelle prime file, appena dopo quello ufficiale - “Insieme senza muri” - e quello di Radio Popolare, che di fatto si è incaricata di trainare un evento concepito con alcune ambiguità che hanno provocato le tradizionali risse a sinistra.
A seguire, sfileranno i migranti, gli amministratori locali, le bande musicali, poi sindacati, Acli, Emergency, Casa della Carità, Legambiente, Arci, lo spezzone “più radicale” con i centri sociali, le associazioni e in fondo i politici. L’ex sindaco Pisapia, esponenti di Mdp, Emma Bonino, Giusi Nicolini, Carlo Petrini, il presidente del Senato Pietro Grasso e (forse) il ministro Maurizio Martina, anche se una rappresentanza governativa potrebbe agitare gli animi. Poi, in piazza del Cannone, musica dal basso e dj set (il Comune non ha sborsato un euro). Si attendono più di diecimila persone. Anche se da una manifestazione nazionale preparata pensando a Barcellona, con più di 500 adesioni e tutta la sinistra più o meno organizzata in piazza, sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più. Comunque vada, sarà un successo.
INSIEME A MILANO, PERCHè NESSUNO è ILLEGALE
di Nicola Fratoianni
È sempre più urgente proporre un punto di vista diverso rispetto al tema dell’accoglienza in Europa. Di fronte ai muri, al veleno della xenofobia e del razzismo iniettato dagli imprenditori della paura nelle vene della società, di fronte alla sordità di gran parte delle istituzioni, bisogna reagire. Per questo la manifestazione di Milano può e deve essere un punto di snodo importante, come lo è stata quella di Barcellona, per questo saremo in piazza. Marciare per l’accoglienza significa, oggi più che mai, marciare per la vita e per la dignità umana.
Non sfuggirà a nessuno, credo, che la condizione dei migranti, oggi più di ieri, è strettamente connessa a quella dei più deboli e dei più poveri che abitano le nostre città, le nostre periferie. È sulla pelle dei più deboli, di qualunque colore sia, che si sta giocando una partita terribile, e che abbiamo il dovere di contrastare se vogliamo anche solo provare a disegnare un mondo diverso.
L’Europa si presenta sempre più come una fortezza, intenta a proteggere i propri confini. Lo fa con Frontex e lo fa con il vergognoso accordo con la Turchia di Erdogan a cui cerca di appaltare controllo e repressione. Oggi l’Italia riproduce lo stesso modello di esternalizzazione firmando accordi con pezzi di governo e tribù libiche. In Italia anni di legislazione fondata sulla cultura del respingimento hanno costruito il terreno su cui sono cresciuti razzismo e intolleranza. L’attacco vergognoso alle Ong che salvano migliaia di vite in mare in uno straordinario sforzo di supplenza rispetto all’assenza di chi, Europa in testa, dovrebbe garantire canali umanitari sicuri ne è una testimonianza evidente.
La Bossi-Fini ha messo un muro sui nostri confini e ha reso il Mediterraneo un cimitero. Il sistema di accoglienza è inceppato e farraginoso, basato più sulla discrezionalità di governo e prefetture, che su una piena consapevolezza e coinvolgimento delle comunità locali. Ma soprattutto resta legato ad una logica emergenziale. Che si riproduce e produce opacità, in un circolo vizioso che non si spezza mai, con le politiche di contrasto alla povertà e alle disuguaglianze ridotte a nulla.
Insieme per ribadire che nessuna persona è illegale. Bisogna chiudere con la stagione in cui scambiamo i sintomi della malattia con la sua cura: se anche per chi ha le sue radici politiche nella sinistra il tema della povertà viene affrontato con le armi del decoro, della presunta sicurezza, dei super poteri ai sindaci come previsto dai pessimi decreti Minniti-Orlando mi pare abbastanza evidente che continueranno a crescere i muri. E con loro continueranno a crescere la paura, il razzismo e la violenza.
Abbiamo bisogno dell’esatto contrario. Facciamolo.
La decisione della Corte di Cassazione sull’obbligo degli stranieri di conformarsi ai nostri valori non è uno specchio di chiarezza. Non soltanto per l’oggetto della sentenza — che pertiene alla restrizione di un diritto fondamentale — ma per il linguaggio usato nella motivazione; un linguaggio che sovrappone piani diversi invece di adottare l’arte della distinzione: “valori” e “diritti”, “valori” e “diritto” sono termini che designano realtà diverse e vi è da chiedersi per quale motivo i giudici abbiano deciso di fare appello, per esempio, a supposti “valori occidentali”, un’espressione a sua volta etnocentrica e ben poco universalista.
Come sappiamo, la decisione è relativa al caso di un cittadino indiano che è stato fermato perché portava con sé il kirpan, il pugnale sacro dei Sikh, con l’imputazione di portare un’arma senza avere il porto d’armi. La persona fermata si è appellata alla libertà religiosa e all’articolo 19 della nostra Costituzione — il kirpan non è un “oggetto” ma “uno dei simboli della religione monoteista Sikh”.
La decisione della Corte sostiene che lo Stato italiano, pur riconoscendo il principio di eguaglianza e della libertá di culto, non riconosce il kirpan come simbolo religioso ma solo e semplicemente come un’arma; pertanto la persona che lo porta con sé deve conformarsi alle norme sulla sicurezza che vigono sul territorio nazionale. La dimensione della lama non lo rende accettabile come un coltellino da boyscout.
Non è la prima volta che la religione Sikh e la legge italiana collidono. Questa religione, fondata nel quindicesimo secolo e soggetta a molte persecuzioni, impone ai fedeli alcuni obblighi nel comportamento e nell’aspetto fisico: per esempio, i maschi non devono tagliarsi i capelli a partire dalla loro maggiore età e devono coprirli con un turbante; devono portare il pettine in segno di pulizia, pantaloni di foggia particolare in segno di castità, e oltre al bracciale d’acciaio anche il pugnale (con una lama fino a ventidue centimentri) alla cintola. Ciascuno di questi “oggetti” è un elemento essenziale per l’identità e la pratica religiosa. In passato anche il turbante aveva creato problemi; nel 1995 il ministero dell’Interno ne ha autorizzato l’uso nelle foto delle carte d’identità. Circa il kirpan, già a partire dal 2005 alcune sentenze lo avevano messo fuori legge provocando ricorsi della comunità Sikh che questa decisione della Suprema Corte dovrebbe risolvere.
La questione ripropone il rapporto tra religione e stato; nei paesi occidentali, fondati sui diritti e la separazione tra religione e autorità civile, ha ricevuto due tipi di risposta, che si riferiscono a due tradizioni genericamente associate a quella anglo-americana e a quella continentale (avvicinabile a quella francese). In India e in Gran Bretagna la legge riconosce il diritto dei Sikh a portare il kirpan in quanto parte della loro identità mentre il divieto violerebbe la libertà religiosa; negli Stati Uniti e in Canada i tribunali hanno stabilito che ogni divieto che impedisca ai Sikh di portare il kirpan viola i diritti ed è incostituzionale. Contrariamente a questo si è letto in questi giorni, non è necessario arrendersi al pluralismo giuridico per far posto ai diritti dei Sikh di portare il kirpan. L’Italia, viene detto, si è schierata con l’altra tradizione, secondo la quale lo Stato non può fare eccezioni alla sua normativa (in questo caso sulle armi) per motivi religiosi. Ma è proprio così?.
L’Italia non ha mai seguito in effetti la linea dello Stato laico, non solo perché la sua Costituzione ha l’articolo 7 che riconosce una religione sopra tutte le altre — una scelta di “valore” che la riforma del Concordato del 1984 non ha rimosso, anche se ne attenua le implicazioni giuridiche.
Alcune decisioni importanti, come quella del crocifisso esposto sui muri delle aule nelle scuole pubbliche, confermano che l’Italia non è proprio uno Stato laico su modello continentale, perché anche se ha cercato di attenuare il legame esclusivo con la chiesa di Roma lo ha fatto abbracciando un metodo che non è di neutralità rispetto alle religioni proprio perché non neutrale rispetto alla religione della larga maggioranza (che è nei fatti parte della cultura della nazione). La sovrapposizione di cultura giuridica e “valori” a cui questa recente sentenza si appella stride quindi con la presunta regola della laicità, alla quale evidentemente ci si appella di preferenza quando si tratta di rapporti con religioni minoritarie.
I “valori” ai quali i giudici fanno riferimento hanno un significato in effetti ideologico e passibile di essere considerato poco laico.In questa sentenza lo stato liberale cerca di essere laico ma lo fa appellandosi a “valori” intrisi di religione (quella maggioritaria). La prova è nella tensione tra l’appello agli articoli 2 e 19 della Costituzione (e poi l’affermazione del limite “costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante”) e la giustificazione di questa restrizione con argomenti sia giuridici che etico- culturali.
Questi ultimi rendono purtroppo l’argomentazione altrettanto identitaria. È questo che si ricava leggendo, da un lato, che “l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine” e, dall’altro, che “è quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale”.
Quale è il “mondo occidentale” non è detto (né potrebbe esserlo senza cadere in una panoplia di assunti ideologici) mentre vi è di che dubitare che tutti gli occidentali abbiano gli stessi valori dei giudici della Corte di Cassazione o che abbiano una visione etica dello stato come questa sentenza sottintende.
Presumibilmente la Corte ha pensato che appellandosi ai “valori” sarebbe riuscita a dare più forza argomentativa alla giustificazione della restrizione dei diritti costituzionali nel caso specifico di un gruppo religioso. Il fatto è che così facendo ha reso la “civiltà giuridica” di riferimento altrettanto “identitaria” della religione di minoranza con il rischio, evidente, di svelare che, in fin dei conti, qui come in altri ambiti relativi ai rapporti pubblici con le minoranze culturali, la questione sembra essere di forza, piuttosto che di diritto: la forza della cultura della maggioranza (e dei suoi valori), appunto.
«Le culture non sono come i semi o gli animali che vanno conservati in nome della biodiversità, se non si incrociano perdono la loro funzione antropologica».
il manifesto, 17 maggio 2017
E così anche la Cassazione ha detto la sua su come debbono comportarsi gli immigrati. Chissà a quale fra i nostri valori si è ispirata. A quelli francesi? a quelli inglesi? Alla «superiore» civiltà?
Diverso l’approccio del Regno Unito: gli inglesi, infatti, non hanno mai ritenuto possibile che neri o gialli potessero diventare come i britannici, per cui – come scrisse Stuart Hall, il grande maestro dei post colonial studies – «hanno garantito la coesistenza fra la Legge indiana e quella di Sua Maestà britannica», lasciando che ciascuno, almeno nel privato, facesse come gli pareva dentro le proprie comunità. Affari di loro selvaggi.
Difficile dire quale delle due posizioni sia più razzista e occidentalocentrica.
La complessità del problema non va sottovalutata, perché fra l’altro tratta del rapporto fra diritto al rispetto della diversità e libertà di scelta culturale (delicato soprattutto per le donne), che rischiano di restare imprigionate nel ghetto della loro identità originaria. Questione non semplice e infatti ha prodotto anche – aihmé – qualche invocazione in favore di crociate per andare a liberare dal burka le donne afgane, con l’aiuto dei bombardieri Nato. Con lo straordinario effetto di aver moltiplicato bombe e burka.
Peccato che quando, nel 2005, l’Unesco, dopo anni di travaglio, varò finalmente la Convenzione sulla Diversità Culturale (con 197 voti a favore e i soliti 2 contro, quelli degli Stati uniti e di Israele) del problema si discusse invece pochissimo, e tutti si sentirono autorizzati a definirsi buoni perché plaudirono alla decisione Unesco. Senza rendersi conto che quella Convenzione toccava questioni di fondo, imponeva di ripensare la logica omogeinizzatrice propria agli stati nazionali, il concetto stesso di cittadinanza. Così come imponeva un mutamento delle politiche culturali pubbliche.
I sindaci più democratici si impegnarono, divisi in due categorie: quelli che si sono rivolti agli immigrati dicendogli con generosità che anche se “di colore”, visto che sono esseri umani, possono ambire a diventare come noi; e quelli che, al contrario, più generosi, hanno allestito spazi – per moschee o altro – affinché ciascuno possa coltivare a fini di autoconsumo la propria cultura. Per facilitare è stata creata la figura del mediatore culturale. Che ha il compito di spiegare ai nuovi arrivati cosa è l’Europa, mai agli europei cosa siano le storie e le culture dei paesi di chi arriva. A buon diritto definitivamente etichettati, anziché come “nuovi europei”,come “extracomunitari”. Così facendo crescere un sistema di ghetti incomunicanti, che non possono che stimolare il peggior integralismo identitario.
Non è possibile suonare le trombe per salutare l’avvento della globalizzazione e poi coltivare le ossessioni securitarie di chi vorrebbe blindare le proprie comunità nel terrore che possano essere dissolte; bisogna prendere atto che il transculturale – che era proprio alle società prenazionali greche ebraiche ottomane, non è più il passato ma il nostro futuro. La «figura diasporica» – per citare ancora una volta Stuart Hall – «non è più minoritaria, sta diventando l’anticipazione della modernità avanzata », un processo facilitato dalle nuove tecnologie che rendono oggi ancor più difficile l’assimilazione degli immigrati.
Perché i telefonini gli consentono di conservare il rapporto persino con la nonna lasciata nel deserto; ognuno guarda, grazie al satellitare, la tv di casa propria e non quella della nazione d’arrivo; i voli low cost gli consentono di tornare nel villaggio natio non solo al momento della morte. E per di più, non avendo più lo stesso stato d’origine il prestigio del tempo della lotta anticoloniale, il legame è oggi più che altro con reti tribali, espressione di identità frammentate che si sincronizzano su una informalità globale che produce culture disinbedded dai sistemi sociali. Bisogna procedere dunque in modo nuovo, sapendo che le culture (e i comportamenti che queste ispirano) non sono come i semi o gli animali che vanno conservati come sono in nome della biodiversità, perdono la loro funzione antropologica se non sono dinamiche, se non si incrociano e innestano reciprocamente.
Ma perché questo avvenga bisogna innanzitutto smetterla di pretendere che la civiltà occidentale rappresenti “l’universale”, il punto più alto della civilizzazione, che i “selvaggi” debbono impegnarsi a raggiungere. L’universale è un bell’obiettivo, ma solo a condizione che si inneschi un lungo processo dialogico, cui tutti contribuiscano. Altrimenti avremo solo jihad. (Se tenete conto che l’85% delle informazioni che il mondo riceve provengono dall’occidente vi rendete conto quanto scarso sia il contributo degli altri).
La nostra civiltà è certo migliore di quella saudita. Per via delle rivoluzioni che abbiamo avuto la fortuna di poter partorire. Ma sarebbe ora di smetterla di rimproverare i popoli che non hanno avuto modo di farle. È accaduto perché noi con il colonialismo glielo abbiamo reso quasi impossibile. (Prima di invocare la rivoluzione francese ricordiamoci sempre che non toccò la schiavitù).
il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2017 (i.b.)
Il titolo, purtroppo, non è uno scherzo, ma è quello che sta avvenendo in Regione Lombardia.
Per ora riguarda una sola Regione ma, se dovesse realizzarsi, è probabile che in pochi anni troverà estimatori anche in molte altre parti d’Italia. E’ una vicenda (volutamente) complicata ma proverò a spiegarla nel modo più semplice possibile, convinto che ognuno abbia diritto di essere pienamente informato su quello che riguarda il presente e il futuro della sua salute.
Con due delibere, la n. 6164 del 3 gennaio e la n. 6551 del 4 maggio 2017, la giunta regionale lombarda, senza nemmeno una discussione in Consiglio regionale, sta modificando totalmente l’assistenza sanitaria in Lombardia e cancellando alcuni dei pilastri fondativi della legge di riforma sanitaria la n. 833 del ’78.
La non costituzionalità di tali delibere è stata sollevata attraverso un ricorso al Tar dall’Unione Medici Italiani ed un altro ricorso è in arrivo da Medicina Democratica. Gli Ordini dei medici di Milano e della Lombardia sono insorti: la giunta regionale si è limitata ad inserire qualche modifica di facciata proseguendo a vele spiegate verso una terza delibera attuativa attesa in questi giorni.
La vicenda riguarda, secondo le stime della Regione, circa 3.350.000 cittadini “pazienti cronici e fragili” che sono stati suddivisi in tre livelli a seconda della gravità della loro condizione clinica. Costoro riceveranno in autunno una lettera attraverso la quale la Regione li inviterà a scegliersi un “gestore” (la delibera usa proprio questo termine) al quale affidare, attraverso un “Patto di Cura”, un atto formale con validità giuridica, la gestione della propria salute. Il gestore potrà essere loro consigliato dal medico di base o scelto autonomamente da uno specifico elenco.
Il gestore, seguendo gli indirizzi dettati dalla Regione, predisporrà il Piano di Assistenza Individuale (Pai) prevedendo le visite, gli esami e gli interventi ritenuti da lui necessari; “il medico di medicina generale (Mmg) può eventualmente integrare il Pai, provvedendo a darne informativa al Gestore, ma non modificarlo essendo il Pai in capo al Gestore”.
La Regione ha individuato 65 malattie, per le quali ha stabilito un corrispettivo economico da attribuire al gestore a secondo della patologia presentata da ogni persona da lui gestita. Se il gestore riuscirà a spendere meno della cifra attribuitagli dalla Regione potrà mantenere per sé una quota dell’avanzo, eventualmente da condividere con il Mmg che ha creato il contatto. Il gestore non deve per forza essere un medico, può essere un ente anche privato e deve avere una precisa conformazione giuridica e societaria e può gestire fino a… 200.000 persone.
E’ facile immaginare che nelle scelte dei gestori conterà maggiormente il possibile guadagno piuttosto che la piena tutela della salute del paziente, il quale potrà cambiare gestore ma solo dopo un anno. Scomparirà ogni personalizzazione del percorso terapeutico e ogni rapporto personale tipico della relazione con il medico curante. Per una società che gestirà 100/200.000 Pai (Piani di Assistenza) ogni cittadino è un numero asettico potenziale produttore di guadagno.
Il Mmg viene quindi privato di qualunque ruolo, sostituito da un manager e da una società; ed è questa una delle ragioni che ha fatto scendere sul piede di guerra i camici bianchi. Se avesse potuto la Lombardia avrebbe cancellato la figura dei Mmg, ma per ora una Regione non può modificare i pilastri di una legge nazionale come la legge 833. Ma all’orizzonte c’è il referendum sull’autonomia regionale voluto dal presidente leghista, un referendum consultivo ma che verrà fortemente enfatizzato. Ci sentiremo dire che l’autonomia da Roma permetterà di rendere pienamente operativa questa “eccellente riforma regionale”. Di bufale sulla sanità ne abbiamo già sentite molte, da Renzi alla Lorenzin e questa non sarà l’ultima.
Una “legge eccezionale”, sosterrà la Regione, perché eviterà che cittadini malati, in maggioranza anziani, debbano impazzire con le ricette, le telefonate interminabili ai centralini regionali per fissare le visite, le code agli sportelli, le liste di attesa ecc. ecc.
La Regione Lombardia non dirà che tutti questi disagi sono stati costruiti ad arte, prima da Roberto Formigoni e poi da Roberto Maroni, per spingere i cittadini verso la sanità privata che li aspetta con gioia per lucrare ulteriormente sulla loro pelle. Se il Tar non cancellerà queste delibere e se le organizzazione della società civile non si ribelleranno è forte il rischio che molti nostri concittadini accetteranno quasi con riconoscenza il piano della Regione; salvo poi accorgersi che ad essere trascurata sarà proprio la loro salute. Ma allora sarà troppo tardi.
Scritto in collaborazione con Albarosa Raimondi, medico, esperta in organizzazione sanitaria
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cambiailmondo, 14 maggio 2017 (c.m.c)
L’orizzonte culturale in cui viviamo. E’ diffusa nell’immaginario collettivo l’idea che la nostra epoca è caratterizzata dalla “globalizzazione”, ma si tratta di una idea ancora confusa e imprecisa, alla quale, tuttavia, si attribuisce un senso di necessarietà e quasi di fatalismo: essa è concepita come un “dato” indiscutibile intorno al quale dovrebbe ridisegnarsi la nuova struttura dell’economia e, in ultima analisi, delle società nelle quali viviamo. Vedremo tra poco di cosa in realtà si tratta.
Ma intanto appare utile precisare che molti neoliberisti sostenitori della globalizzazione sono ora scettici sui suoi vantaggi e che lo stesso premio Nobel per l’economia, Stiglitz1 , uno dei primi sostenitori di questa nuova visione del mondo, ha riveduto e capovolto il suo pensiero, ponendo bene in chiaro che la globalizzazione è stata considerata in una prospettiva errata e che i danni sociali ed economici che questa ha prodotto, specie sotto il profilo della “disoccupazione”, sono pesanti e insostenibili per lo stesso nostro vivere civile.
Il problema è talmente grave ed importante che deve essere studiato nelle sue radici: si tratta in effetti di porre come oggetto di riflessione un vero e proprio “cambiamento epocale”, che ha travolto il nostro tradizionale modo di pensare e ci ha proiettati in una direzione tutt’altro che definita.
La facilità delle telecomunicazioni, degli spostamenti da un luogo ad un altro, dell’essere informati in tempo reale di qualsiasi cosa accada anche nei posti più remoti del mondo, hanno offuscato lo stesso concetto di “confine”, che sinora aveva costituito, per così dire, anche lo spazio di dominio dei nostri convincimenti e delle nostre aspirazioni, per cui lo stato d’animo oggi imperante è quello di un totale “smarrimento”, nel quale tutto appare possibile e nel contempo difficile da raggiungere, poiché se è vero che la tecnologia ha fatto passi da giganti e l’orizzonte del sapere umano si è profondamente allargato, è anche vero che il nostro campo di affermazione rimane limitato dalle nostre reali capacità.
A questo punto, sembra che l’uomo si sia ripiegato su se medesimo e che, preso atto della propria incapacità di governare se stesso e ciò che lo circonda, cominci a disinteressarsi anche del quotidiano, di quanto accade in politica, nell’economia e nel sociale, ritenendo che il bello e il buono coincida con il “nuovo”, anche se questo nuovo appare, ad una attenta riflessione, come un scatola vuota, che lascia, ovviamente, il vuoto in chi la percepisce.
E’ per questo che in filosofia si parla di “pensiero debole”, in diritto si parla di “diritto debole” e nelle comunicazioni prevale, per così dire, la “rappresentazione debole”, declinato poi in “teatrino”, quando si parla di politica. In sostanza, assistiamo ad una “fuga dal concreto verso l’astratto” e persino in economia, la più concreta delle realtà, si è tramutato lo “scambio reale di beni e servizi” in “scommesse” che comportano per il vincitore l’acquisto, non di un bene reale, ma di taluni diritti astratti, che altro non sono, come ricorda il Gallino, delle “promesse di beni”.
Basti pensare alla “cartolarizzazione dei diritti di credito”, alla “cartolarizzazione degli immobili pubblici da vendere”, ai “derivati”, ai “project bond” e al tre simili fantasticherie, delle quali in seguito parleremo. In questo strato di cose, è ovvio che si dilegua lo stesso “concetto di Stato” e che al posto dello Stato assume sempre maggiore potere la “finanza”, e cioè le “multinazionali”, che sovente provengono dalla “fusione” di più imprese, e le “banche”, le quali si sono quasi completamente sostituite allo Stato nella “creazione del danaro dal nulla”.
La prospettiva è, così, quella di un mondo nel quale la “sovranità” spetta al “mercato”, cioè all’azione delle summenzionate multinazionali e banche, mentre principio costituzionale inderogabile diventa Il “pareggio di bilancio” e l’uomo, se non riesce ad essere “auto imprenditore”, non può altrimenti essere concepito se non come “uomo merce”, il cui lavoro, ovviamente, deve costare il minimo possibile, con buona pace di quanto dispongono i vigenti articoli 4, 36 e 38 della Costituzione. (…)
».
il manifesto 13 maggio 2017 (c.m.c.)
«Oggi sinistra è il nome che diamo alle nostre anime belle». Così scriveva Guido Mazzoni dopo l’elezione di Trump, sul sito Le parole e le cose: un lucido saggio, cui affiancherei Populismo 2.0 di Marco Revelli e La lotta di classe dopo la lotta di classe di Luciano Gallino.
Vere e proprie bussole per orientarsi in un mondo in cui la razionalità non è più in grado di comprendere la realtà (altroché l’hegeliano «il proprio tempo compreso con il pensiero»…). “Destra” e “sinistra” in senso lato possono rimandare a due costanti antropologiche diversamente declinate nei secoli: attenzione a conservare le tradizioni versus aspirazione al cambiamento, affermazione di libertà individuale versus realizzazione di rapporti sociali equi.
Nell’accezione politica hanno invece una storia più recente, dall’Illuminismo in poi: il termine stesso “sinistra” nasce con la Rivoluzione francese. Ed è collegato a un’altra idea, nata con la concezione ebraico-cristiana del tempo, cioè l’idea di una storia lineare e progressiva, tuttora prevalente nel senso comune. Per di più capitalisticamente identificata con l’idea di sviluppo.
Però, come diceva Nicola Chiaromonte, «la storia muta ma non cambia» e i ciclici corsi e ricorsi storici, sempre diversi ma sempre uguali, nella fase del declino non salvano dalla barbarie. Nel II secolo Roma contava 1.200.000 abitanti, nel 1527 solo 50.000… Mi sembra che il mondo occidentale sia caduto in una di quelle catastrofi periodiche che segnano il passaggio da un’epoca all’altra: solo che oggi tutto è a livello planetario.
La fantasmagorica crescita della tecnica ci ha fatto smarrire il senso del limite, della realtà e dei rapporti umani. L’unico spazio pubblico rimasto è quello solitario dello schermo del computer e dei narcistici social network, che tutto sono salvo che sociali. I grandi temi della controcultura degli anni Sessanta e Settanta -l’autorealizzazione, l’abolizione dei divieti, l’emancipazione da vincoli secolari quando non millenari, l’appagamento dei desideri come diritto e valore rivoluzionario o comunque politico – negli anni sono diventati la bandiera ideologica e l’alibi dell’élite al potere oggi in Occidente, pantografata da Martin Scorsese in The Wolf of Wall Street.
Ma già Simone Weil ammoniva: «Nella natura delle cose non è possibile alcuno sviluppo illimitato. Il mondo riposa del tutto sulla misura e l’equilibrio. La stessa cosa accade nella città». Cioè nel sociale e nel politico. Ma inutile farsi illusioni: i due campi (che non vanno confusi) sono devastati dalla selvaggia globalizzazione neoliberista, o comunque la si voglia chiamare (per un approfondito chiarimento della questione, che non è solo nominalistica, rinvio a Il rovescio della libertà, di Massimo De Carolis).
Le tradizionali culture politiche, gli stessi storici contenitori politici sono ormai improponibili, e non solo perché il collasso interno li ha resi irriconoscibili: tutta la recente storia del Pd è esemplare e, come anche i vari tentativi di creare un’alternativa a sinistra, denuncia l’esaurimento di quel modello.
Il sociale è frantumato e sfibrato dall’impoverimento crescente, dalla disoccupazione giovanile, dalla crisi, lucidamente perseguita con baldo entusiasmo anche dai partiti sedicenti di sinistra, del sistema di garanzie del Welfare, bollato oggi come “stato assistenziale”. Dall’abolizione di ogni organismo intermedio tra società e Stato. E dall’ immigrazione dei dannati della terra e di chi cerca di salvarsi dalle nostre guerre.
Di questo sfrangiamento è causa anche la chiusura delle grandi fabbriche e la conseguente disseminazione della forza operaia, ormai disgregata, sotto ricatto e senza uno spazio collettivo che non era solo di lavoro ma pure di dibattito, di lotta e di mobilitazione, anche nella sua proiezione nella città.
E forse ancor più angoscia l’anestetizzazione verso la sofferenza degli altri: si comincia da qui e si arriva in fretta, ci stiamo arrivando, in molti paesi europei e della Nato (Turchia, anche coi nostri soldi) ci siamo già arrivati, ai campi di concentramento. Edith Bruck, in una recente intervista, si domanda: «Che cosa deve ancora succedere?». Guardando le foto dei cadaveri galleggianti sul mare non ci dice più nulla la tremenda constatazione di Simone Weil: «C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno»?
Alle svolte epocali della storia non si sfugge. Però, come recita un detto friulano citato spesso da Claudio Magris, morir si deve, morir bisogna, mostrar il cul senza vergogna. Allora forse si può resistere comunque, con approcci nuovi o ripresi dalla tradizione libertaria socialista e anarchica, ma anche dal comunitarismo americano, alla Christopher Lasch, un conservatore di sinistra, autore tra l’altro di un profetico saggio sul narcisismo.
Ma senza andar troppo lontano si potrebbero rileggere Gobetti e Gramsci. Soprattutto avendo sempre come base programmatica l’attuazione della nostra Costituzione. In fin dei conti gli italiani si sono risvegliati in massa dalla loro apparente apatia solo nel 2006 e nel 2016 per rifiutare stravolgimenti della Carta. E lascia esterrefatti che il ceto politico in toto non abbia tenuto conto della formidabile mobilitazione, soprattutto giovanile, del dicembre scorso: un ulteriore sintomo dello stato comatoso dei nostri partiti e del nostro parlamento.
Così ci stiamo giocando le nuove generazioni. Cominciamo allora a rompere l’uniformità con le differenze, a disseminare ovunque sia possibile forme di contropotere organizzato (produttive, distributive, ecologiche, ambientali, di resistenza passiva) e cercare di collegarle tra loro per integrazioni successive.
E soprattutto dovremmo tutti recuperare la dimensione dell’alterità. Ricordandoci che adempiere gli obblighi verso gli altri è socialmente più fecondo che rivendicare un diritto. Come scriveva Anna Maria Ortese «La vita di un paese non è fattibile senza un impegno morale – oh, assai prima che politico».
«"Attualità del paradosso: si cancellano le differenze e crescono le disuguaglianze; il mondo è ogni giorno più uniforme e più disuguale". Un estratto del testo che l'antropologo francese ha dedicato al festival
Vicino/lontano di Udine, che verrà letto domenica 14 maggio». il manifesto 13 maggio 2017 (c.m.c.)
Da dove viene il malessere che caratterizza tutti i dibattiti sulla cultura e l’identità? Un paradosso è evidente: il mondo globalizzato è anche il mondo della più grande differenza, dove crescono la circolazione, la comunicazione e il consumo. Eppure coloro che circolano non consumano e non comunicano nelle stesse proporzioni e condizioni. Di qui l’attualità del paradosso: si cancellano le differenze e crescono le disuguaglianze; il mondo è ogni giorno più uniforme e più disuguale. Le conseguenze sono almeno due.
Da un lato, su scala mondiale, l’esterno, anche quello di cui si nutre l’interno, è in via di sparizione e la distinzione interno-esterno perde la sua pertinenza. Si delineano tre tendenze che costituiscono, a diverso titolo, una minaccia o una costrizione per la vita culturale: la globalizzazione imperiale, quella «scoppiata» e la globalizzazione mediatica.
La globalizzazione imperiale è quella che tentano di immaginare gli Stati Uniti, la potenza dominante, o almeno certi suoi rappresentanti. Tutto avviene come se, in assenza di un esterno e di un’alterità radicale le diverse culture nazionali trovassero nuova linfa all’interno, riscoprendo le tradizioni che le ideologie nazionali del secolo scorso avevano cancellato: si riscoprono le regioni, le minoranze, i piccoli paesi.
Gli antropologi americani «postmoderni» hanno sviluppato da questo punto di vista una teoria sottile che chiamerei «globalizzazione scoppiata», attirando l’attenzione sulla diversità rivendicata del mondo. Ma sarebbe senza dubbio un’illusione vedere in queste rivendicazioni il principio, l’espressione e la promessa di uno scambio futuro e di un rinnovamento prossimo delle culture. È necessario infatti né sottostimare il carattere stereotipato delle rivendicazioni particolari, né la loro integrazione nel sistema di comunicazione mondiale.
La globalizzazione scoppiata corrisponde a un momento della storia del pianeta dominato dal mondialismo economico e tecnologico: quest’ultimo si adatta bene ai particolarismi culturali, specialmente se non si occupano del campo del consumo e delle regole del mercato.
Il lavoro tipico di quella mediatica è, invece, la spettacolarizzazione delle differenze e, al limite, il loro consumo. Prima di tutto il consumo turistico: il candomblé brasiliano, gli accampamenti yanomami, i guerrieri masaï fanno parte dei programmi turistici europei e del consumo televisivo, cinematografico e fotografico. Tutto rende problematico lo statuto dell’avvenimento, fino a concepirlo e a metterlo in scena solo per la televisione.
Prendere coscienza delle gravi disuguaglianze che pesano sul destino del mondo che verrà, denunciare le illusioni di una vita che si arrende alle tecnologie della comunicazione, inquietarsi per le condizioni con le quali il riferimento planetario si impone a tutte le società e a tutte le culture del mondo, non è voler ignorare il carattere ineluttabile della mondializzazione, e ancora meno rifiutare le chances offerte, in molti campi, dallo sviluppo delle tecnologie. Aprirsi al futuro oggi significa aggiungere al patrimonio culturale e alla cultura di ogni essere umano l’esperienza delle tecnologie della comunicazione e un massimo di conoscenze scientifiche: una conoscenza generale dei problemi.
Ogni riflessione sulla cultura di domani dovrà tener conto di due ostacoli fondamentali: il fossato, l’abisso, che si allargano sempre più tra i più ricchi e i più poveri, tra coloro che avranno accesso alla cultura e coloro che non l’avranno. Il secondo ostacolo potrebbe contribuire allo sviluppo del primo: l’invenzione delle immagini e il rischio che essa comporta di farci prendere lucciole per lanterne, dei simulacri per realtà.
Marx diceva che dietro i rapporti tra le cose ci sono i rapporti tra gli uomini: questo è ancora più vero per le immagini. L’individuo da un lato, il pianeta dall’altro: e dall’uno all’altro una molteplicità di relazioni non riducibili allo scambio di informazioni permesso o imposto dalle tecnologie della comunicazione. Su scala globale la diversità necessaria al dinamismo culturale si confonderà forse un giorno con quella di miliardi di individui che, ciascuno per la propria parte, sono e saranno ancora di più nel futuro un mondo e una cultura. Così, a differenza delle altre, l’utopia di oggi ha trovato il suo luogo: il pianeta.
il manifesto 12 maggio 2017 (c.m.c.)
«O ci liberiamo dall’idea occidentale di umano o non sopravviveremo a lungo». Sono piuttosto netti Deborah Danowski ed Eduardo Viveiros De Castro, entrambi ricercatori presso il Conselho Nacional de Desenvolvimento Cientifico e Tecnologico, in Brasile. L’intenzione non è quella di fare dell’allarmismo o di alimentare un orizzonte squisitamente teorico postumano, già tanto frequentato. Hanno un’aria pacifica e la voce di entrambi si fonde in un’articolazione filosofico-antropologica che precisano da diversi anni.
Hanno scritto Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine (Nottetempo, pp. 320, euro 17, traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri). Le formazioni sono diverse (Danowski insegna filosofia alla Pontificia Universidade Catolica di Rio de Janeiro, mentre Eduardo Viveiros De Castro antropologia sociale presso il Museo Nacional dell’Universidad Federale) eppure, nella strana alchimia della relazione, in questi anni si sono esercitati a pensare insieme in un confronto serrato proprio con quella domanda che dà il titolo al libro, pubblicato in Brasile tre anni fa e che, nell’edizione italiana, ha una introduzione aggiornata.
Il titolo che avete scelto per il vostro denso volume è una domanda che preferite mantenere «radicalmente aperta». A parte quello a venire, viviamo o no nel migliore dei mondi possibili?
Questo è l’unico mondo che abbiamo, non ne esistono di infiniti. Detto questo, è impossibile essere ottimisti al modo in cui lo era Leibniz, del resto lui aveva come garante Dio e non poteva certo immaginare ci saremo trovati in questo stato di cose: la crisi climatica e più in generale ecologica, per esempio. A Leibniz dedichiamo una nota del libro ma la prospettiva non può più essere orientata verso un perfezionamento storico, quel migliore dei mondi possibili ipotizzato dal filosofo è come se fosse all’apice di un’immagine piramidale, non sappiamo quale sia il peggiore ma esiste un collasso che non possiamo più ignorare.
«Ci troviamo in un momento descritto con maggiore efficacia dalla visione termodinamica, o forse – ancora più precisamente – dall’entropia, a livello sociale, politico, economico e della stessa condizione del pianeta».
Vi concentrate sull’idea di «fine». Conclusione singolare, biologica, e al contempo di tutte le cose. In che modo l’avete declinata?
«Esistono molti tipi di «fine» e una costellazione di autori che ne danno interpretazioni diverse. Per esempio c’è la fine assoluta di cui abbiamo rappresentazione visiva nel film Melancholia di Lars Von Trier. Poi c’è quella metafisica alla Nihil Unbound di Ray Brassier (che viene collocato insieme a Iain H. Grant, Graham Harman, Levy Bryan sotto l’etichetta di «realismo speculativo»); quindi dal momento che tra circa tre miliardi di anni il nostro mondo finirà, tanto vale considerarci già morti da un punto di vista metafisico. In questa tesi la morte è considerata una verità ontologica. La posizione tanatologica prevede una forma di nichilismo attivo perché la consapevolezza della ineluttabilità della morte come destino universale è una acquisizione della intellegibilità delle cose. Non c’è un Dio. Nulla di esterno ci salverà e dobbiamo accettarlo.
«Non siamo profeti dell’Apocalisse, ci sono molti modi diversi di intendere la parola «mondo» e la parola «fine». Fine della specie, fine del cosmo, della civiltà, del capitalismo. Ci sono molti mondi che possono finire e alcuni di essi sarebbe bene che finissero. A un certo punto sarà importante che anche la nostra specie scompaia, i tempi medi di sopravvivenza di ogni specie sono di 2 milioni di anni, la nostra esiste da 200mila anni ma niente ci garantisce l’ulteriore tempo che potremmo avere a disposizione».
Il problema risiede nel dispositivo escludente di una specie che vorrebbe dettare le regole anche per le altre?
«Ciò che ci preoccupa è la fine di questo mondo, forse la nostra specie continuerà ma non i nostri modi di vita. Non dimentichiamo che i nostri corpi, per il 90%, sono costituiti da altre specie. Dobbiamo imparare a stare al mondo in una modalità non essenzialista, abbandonando l’eccezionalismo. Siamo aperti al flusso della materia e della vita, in questo senso siamo integrati all’esistente restando una configurazione momentanea di questo flusso.
Anche l’arroganza antropocentrica ha un suo posto nel ragionamento che avanzate…
La domanda infatti non è se esista o meno un mondo a venire ma se esista vivibile per tutti i viventi, umani e non umani, compresa la parte migliore dell’umanità che certo non siamo noi considerato quel che abbiamo fatto al pianeta».
L’umano che arriverà verosimilmente non sarà maschio, né bianco, forse sarà una donna o chissà. Convocate anche l’impegnativa categoria di «popolo a venire». Da chi si compone?
«Per noi non è un insieme di individui e non è neppure un concetto che riguarda solo gli esseri umani, l’espressione è più complessa ed estesa. È qualcosa di collettivo che non esclude le altre specie. Come ci sono diversi tipi di popolo ci sono numerose pluralità di popolazioni. Spesso c’è un popolo indicato sommariamente come specie umana oppure come categoria politica, pensiamo alla classe operaia, intesa – nella sua universalità – come tratto caratteristico dell’immaginario di sinistra. Per noi invece il popolo non può che nominarsi al plurale, come molteplicità di umani e non umani.
Ogni popolo è connotato da orientamenti che rispondono alle parzialità di ciascuno di essi, pensiamo alle comunità lgbqt, ma anche alle battaglie come per esempio quelle delle donne, alle comunità nere, ma gli esempi sono molti».
«Il nostro presente – scrivete – è l’Antropocene; questo è il nostro tempo. Ma tale tempo presente si rivela essere un presente senza avvenire, un presente passivo». Un tempo fuori sesto che è oltre la distopia e che ha superato la fantascienza. Oltre a descrivere uno scenario di profonda angoscia, quale è il dato di esperienza quotidiana che può aiutarci a non rimanere schiacciati dalle gabbie teoriche?
«Ci sono molti popoli che ci restituiscono esperienze dirette di modi di vivere diversi; cioè non c’è qualcosa da inventare ma qualcosa da osservare, questi popoli vivono fuori della società industrializzata e portano da anni esperienze importanti. Per esempio nelle zone semi-aride nella parte nord-est del Brasile ci sono popolazioni che vivendo in un clima ostile si sono ingegnate con tecnologie. La loro esistenza è già una forma di resistenza all’invasione che prevedrebbe la cosiddetta civilizzazione. I popoli sono molti e le forme di vita escogitate sono altrettante. Non possiamo aspettarci soluzioni istituzionali anche se la grandezza dei problemi è tale che in certi casi dobbiamo di necessità fare riferimento a questo genere di mediazioni. Non è però questo il punto di leva: le forme istituzionali, i grandi organismi internazionali hanno dei limiti che non possiamo ignorare. Dobbiamo osservare meglio e volgerci verso chi ha già sperimentato quella che sarà l’esperienza universale del «mondo diminuito» in cui sopravvivere sarà un compito difficile.»
». la Repubblica, 12 maggio 2017 (c.m.c)
Tra una settimana, il 19 maggio, gli iraniani eleggeranno un nuovo Presidente. Hassan Rouhani ha buone probabilità di venire rieletto, ma i conservatori, e in prima linea i pasdaran, le Guardie rivoluzionarie, cercano di riprendersi il potere che per quattro anni è stato in mano a un moderato. Hanno messo in campo due sfidanti che promettono di creare 5 milioni di posti di lavoro e triplicare i sussidi ai poveri. Il punto debole per Rouhani è infatti l’economia, perché il miracolo economico che gli iraniani si aspettavano dopo l’accordo nucleare non c’è stato. Le società straniere non investono perché temono che Trump e i tribunali americani puniranno anche in futuro chi fa affari con l’Iran.
Quanto contano le elezioni se l’Iran è una teocrazia dove la Guida Suprema, l’Ayatollah Khamenei, ha l’ultima parola su tutto? Molto, perché il regime iraniano non è monolitico come spesso si crede. Religiosi, militari e burocrati si dividono in fondamentalisti, conservatori, moderati e riformatori e molto cambia nella politica estera come in quella culturale e sociale a seconda del gruppo che prevale. La presidenza Ahmadinejad aveva isolato l’Iran, il moderato Rouhani è riuscito a riportarlo nel consesso internazionale.
Le elezioni del 19 maggio presentano inoltre due novità che si possono definire storiche: innanzi tutto per la prima volta nella storia della Repubblica islamica alle elezioni amministrative, che si tengono parallelamente alle presidenziali, hanno presentato la loro candidatura donne che appartengono a quella borghesia che da quarant’anni si era ritirata in una specie di emigrazione interna, vivendo un po’ in Europa e un po’ nei quartieri alti di Teheran. Professioniste che non hanno mai indossato un chador e che hanno votato sì e no una volta in vita loro per il riformatore Khatami, quando tutto il Paese sperò nelle riforme. La seconda novità è che il Consiglio dei Guardiani, l’organo ultraconservatore che ha il potere di ammettere o bocciare i candidati, le abbia accettate.
Certamente l’ombra di Trump spinge tutti a non prendere rischi e a optare per la stabilità. Ma al di là di questo è significativo che il Consiglio dei Guardiani si sia arreso ai tempi, perché l’Iran è oggi un altro Paese rispetto a quello che era dieci o quindici anni fa. Le leggi possono essere rimaste le stesse perché i fondamentalisti hanno impedito ai riformatori di cambiarle, ma trasgredire le regole qui è un fenomeno di massa. I comportamenti quotidiani dei normali cittadini hanno profondamente trasformato il Paese. E in un certo senso, per quanto assurdo possa sembrare, questo ha contribuito alla stabilità della Repubblica islamica.
Sono i giovani e soprattutto le donne le protagoniste del cambiamento. Le donne iraniane hanno fatto la loro rivoluzione e si sono servite perfino del chador, che in Occidente viene visto come il simbolo dell’oppressione, per uscire di casa, studiare e entrare nel mondo del lavoro.
Abbiamo ascoltato le loro voci.
TEHERAN La Scuola di Musica è di fronte alla Vahdat Hall, il teatro dell’Opera. Ragazze con la tipica mise delle studentesse, spolverini stretti e foulard neri entrano e escono trasportando violoncelli, violini , strumenti a fiato. Trentotto anni fa l’ayatollah Khomeini, il fondatore della Repubblica Islamica, bandì ogni genere di musica, che considerava parte di quell’intossicazione da Occidente contro cui erano insorti i rivoluzionari. Trasportare un violino o un oboe fu vietato in Iran, era come trasportare un’arma. Oggi non è più così, sebbene il divieto, come altri fissati al tempo della rivoluzione, non sia mai stato formalmente abolito. Quando un concerto viene trasmesso in tv, gli operatori televisivi fanno attenzione a non filmare gli strumenti, la faccia di chi suona sì, magari anche le mani, ma lo strumento no, non si sa mai.
Sono già le otto di sera e Kimia non smette di fare domande in questa master class speciale che la Fondazione Roudahy e il ministero della Cultura islamica offrono agli studenti di musica grazie ad un accordo con Roma, con la World Youth Orchestra del direttore Damiano Giuranna, Santa Cecilia e la Sapienza che prevede scambi, formazione, concerti congiunti. A luglio ci sarà un concerto con musicisti e cori dei due Paesi, e l’ambizioso progetto è di suonare due nuove composizioni di musica sacra, una iraniana e una italiana, ma scambiando i testi religiosi. Il compositore italiano userà il Corano, quello iraniano la Bibbia. La musica contro i pregiudizi.
Kimia suona l’oboe nella Tehran Symphony, è la migliore del gruppo che segue la master class di Francesco De Rosa, primo oboe di Santa Cecilia, ma vuole diventare ancora più brava. Vorrebbe anche avere un nuovo strumento, che non si può permettere. « Ne ho comprato uno di seconda mano, che ha almeno trent’anni e mentre i violini migliorano invecchiando - sospira -, i legni ahimé peggiorano». Vorrebbe imparare il concerto per oboe di Mozart ma per questo mese (le master class avvengono una volta al mese) il maestro le assegna una serie di esercizi da ripetere un’ora al giorno. « Quando la tecnica è sotto controllo il cuore batte da solo, senza bisogno di un pacemaker», le dice il maestro.
Kimia aveva la passione della musica fin da ragazzina. «Mio padre compone musica per matrimoni e altre cerimonie pubbliche » . Kimia aveva cominciato con il violino ma è mancina e nessun insegnante aveva ritenuto di potersi occupare di lei. Poi aveva sentito un oboe ed era rimasta affascinata, quello sarebbe stato il suo strumento. Ha venticinque anni, vive a Teheran da sola, dà lezioni di musica per mantenersi ed è felice di avere per la prima volta maestri di fama internazionale. Non smetterebbe mai di imparare. Il suo sogno è di poter suonare una volta in una delle grandi orchestre del mondo. Già suonare con la World Youth Symphony le è sembrato miracoloso.
La Scuola di Musica, il solo conservatorio statale di Teheran, è sopravvissuta a tutte le intemperie degli anni post- rivoluzione continuando a funzionare, seppure in sordina. E tre anni fa dopo decenni di chiusura ha riaperto i battenti anche la Tehran Symphony. L’arte di rompere silenziosamente le regole in Iran è un fenomeno di massa, che in nessun altro Paese raggiunge queste dimensioni, e per quanto possa sembrare assurdo contribuisce alla stabilità della Repubblica islamica. Come se ci fosse una tregua silenziosa tra governanti e governati: voi non ci date fastidio e noi non vi rendiamo la vita difficile quanto potremmo. Chi paragona l’Iran a quello degli anni dopo la rivoluzione vede un altro Paese, e i cambiamenti che in quasi quarant’anni l’hanno trasformato non sono dovuti a movimenti politici o a battaglie dell’opposizione, ma ai semplici comportamenti quotidiani dei normali cittadini, soprattutto giovani e ancora di più donne.
Le donne hanno fatto la loro rivoluzione, usando a loro vantaggio perfino i divieti che la rivoluzione, a sorpresa, teneva in serbo per loro. Per esempio il chador, che in occidente è diventato il simbolo dell’oppressione femminile. Non si capisce da noi che le donne iraniane invece sono riuscite a volgerlo a loro favore, perché se ne sono servite per uscire di casa, studiare e entrare nel mondo del lavoro svolgendo attività che un tempo erano loro inaccessibili. Eppure ogni volta che c’è qualche gara internazionale in Iran, l’ultima è stata per esempio un torneo di scacchi, c’è qualche competitrice che rifiuta di metter piede in Iran per dare l’esempio di non sottostare “ all’oppressione”. « Ma è proprio il contrario di quello che serve a noi - dice Kimia -. Io spero che in futuro, con o senza foulard, la riapertura al mondo cominciata con Rouhani continui».
Le parabole dei Pasdaran
Alla fine, come sostiene Kimia, il regime si è adeguato ai cambiamenti. Anni fa le parabole sui tetti delle case venivano regolarmente confiscati dai basiji – e regolarmente ricomprati dagli utenti (si diceva li importassero gli stessi pasdaran che ordinavano il sequestro). Oggi non si sente più parlare di sequestri, né di portoni tenuti accuratamente chiusi, né di basiji che approfittano di una porta momentaneamente lasciata aperta per correre sul tetto a requisire gli impianti satellitari. Tre quarti della popolazione le possiede.
Lo stesso vale per il sesso fuori del matrimonio: è proibito e punito con pene molto severe, ma ormai non c’è famiglia a Teheran dove un figlio o una figlia non convivano con un compagno o una compagna, senza essere sposati. Li chiamano matrimoni bianchi, perché i conviventi non hanno stampigliato sulle loro carte d’identità l’avvenuto matrimonio. Altrettanto si può dire per l’alcol, che ognuno può farsi recapitare a casa con una telefonata, o dei codici di vestiario, che ogni ragazza interpreta a modo suo, oppure dei cani, considerati non islamici ma che tutti portano a passeggio senza conseguenze.
I comportamenti quotidiani collettivi hanno cambiato il Paese, anche se le leggi non sono cambiate. Una ragione è anche che il regime non è monolitico, tutt’altro. Ha molte voci, spesso cacofoniche. Religiosi, militari e burocrati si dividono tra fondamentalisti, conservatori, moderati e riformatori. E sebbene la parola definitiva spetti agli organi religiosi, e in particolare alla Guida Suprema, molto cambia della politica estera, sociale e culturale a seconda della fazione che prevale in quel momento. Alle elezioni del prossimo 19 maggio gli ultraconservatori cercheranno di riprendersi il potere che per quattro anni è stato in mano ad un presidente moderato, Hassan Rouhani.
L’accordo tacito tra governanti e governati vale finché uno sguardo esterno non lo nota. Quando questo accade il regime, per non apparire debole, applica all’improvviso leggi dimenticate da anni. Così il giornale femminile
fu chiuso per mesi un anno fa perché parlò dei matrimoni bianchi. E può accadere che finisca in carcere a lungo un giovane utente di Facebook.
Non fa nulla se un account Facebook ce l’hanno anche le massime autorità del Paese, tra cui il presidente e la stessa Guida Suprema Khamenei. Perché
Facebook insieme con altri social media resta proibito e accessibile solo attraverso un vpn che aggira il filtro statale che lo blocca.
Quanto il regime si stia adeguando si è visto anche in questi giorni preelettorali (insieme alle presidenziali si vota per i municipi). Il Consiglio dei Guardiani, l’organo più conservatore del regime, che prima d’ora non ha mai ammesso la candidatura dei kheyr-e khodi, coloro che sono fuori dal sistema (a fronte dei khodi che ne fanno parte), ha lasciato passare attraverso le sue fitte maglie candidati finora impensabili, borghesi che pur restando in Iran sono vissuti in una specie di emigrazione interna. Come l’architetta urbanista Taraneh Yalda. O attiviste sociali come Amene Shirafkan e Leila Arshad. Oppure giovani che anni fa erano stati arrestati perché attivisti studenteschi, come Abdollah Momeni.
La borghesia senza chador
«Perché dovremmo continuare a lasciare che gente molto meno preparata di noi decida le sorti di questa città?», dice Taraneh Yalda, laureata in architettura a Parigi, urbanista, autrice per il Comune di un molto lodato master plan per il riassetto dei quartieri più poveri del sud di Teheran, che però è rimasto sulla carta. La novità delle prossime elezioni è anche che donne borghesi come Taraneh, che avranno votato sì e no due volte in vita loro, la prima per Khatami nel 1997 e la seconda per Rouhani quattro anni fa, abbiano deciso di candidarsi. Jeans e maglietta scura, Taraneh si muove svelta in quello che chiama divertita il suo quartier generale, mentre mi fa vedere una foto del figlio entomologo che ha vinto una borsa di studio negli Stati Uniti, offre ai visitatori un tè con un pane speciale che fa solo una pasticceria qui vicina, e posa per le foto che dovrà postare sul suo sito elettorale. La campagna elettorale viene fatta esclusivamente su internet.
Il suo quartier generale è nel centro popolare e commerciale della capitale, sulla via Jomhuri. «Copri di più i capelli», le raccomanda il fotografo. Ma lei obietta: « No, io sono così » . Non credo che abbia mai indossato un chador. Appartiene a quella borghesia iraniana benestante che aveva fatto la rivoluzione quando nessuno si aspettava che finisse con una teocrazia e poi è sempre rimasta esterna alla Repubblica islamica, vivendo un po’ nella diaspora e un po’ nei quartier alti di Teheran Nord, attingendo ai beni di famiglia e a qualche prestazione professionale. Certamente l’arrivo di Trump e le sue minacce di rivedere l’accordo nucleare spingono tutti – regime e outsider - a non prendere rischi, a consolidare il più possibile la stabilità di cui gode l’Iran in mezzo a un Medio Oriente dilaniato.
Una rielezione di Rouhani appare per questo il risultato più auspicabile. Alla popolazione, per quanto delusa di non aver visto dopo la cancellazione delle sanzioni l’atteso miracolo economico. E probabilmente anche ai massimi vertici, il cui cuore batte per il candidato conservatore Ebrahim Raisi ( un religioso nominato l’anno scorso da Khamenei alla guida della potente Fondazione Astan-eQods di Mashhad). L’unico a uscire dal coro generale della prudenza è stato l’ex presidente Ahmadinejad che si è candidato nonostante i “ consigli” di Khamenei e in una conferenza stampa ha accusato il Leader di aver voluto lui il pugno di ferro contro l’onda verde del 2009. Ha ancora un certo seguito, avendo distribuito largamente sussidi a gente che non aveva mai visto vero denaro, e si aspettava forse una protesta da parte loro. Ma nessuno ha raccolto la provocazione.
« È incredibile, non ho più trovato nessuno. Tutti miei vecchi amici sono partiti. I miei coetanei, compagni di studi, tutti emigrati » dice Arianne Nassir, trentaquattro anni, tornata a Teheran dopo un lungo periodo passato in Italia. Molti giovani iraniani, soprattutto a Teheran, dopo le manifestazioni del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad, non ebbero scelta: o la prigione o l’esilio. «Ho solo nuovi amici, che sono molto diversi da quelli che avevo – dice Arianne -. Si occupano solo di telefoni, di computer e di vestiti. Guai a mettersi sempre lo stesso vestito! Le ragazze spendono in vestiti e creme di bellezza tutti i soldi che hanno. Io non ero abituata così. Ci stiamo allineando a modi di vivere che già mi sembravano vacui in Italia».
D’inverno i giovani si ritrovano a sciare, d’estate nelle gallerie. Qualche volta al cinema, al teatro, a un concerto. «Ma si parla poco, diversamente dagli anni quando son partita» dice Arianne. «E la novità sono i nuovi ricchi, i rich kids che sono davvero come si vedono nelle caricature. I genitori hanno fatto una barca di soldi, pensano solo alla macchina, una Porsche, una Maserati è tutto quello che vogliono dalla vita. E i più ricchi, naturalmente, anche la casa. Hanno abitazioni dorate, marmi dappertutto » . Sono però più liberi di come eravamo noi, racconta. « La maggior parte convive. Alcuni con il consenso delle famiglie, altri in aperto contrasto con loro. E tra di loro ci sono molti figli e figlie di ayatollah e esponenti di spicco del regime » .
In Italia Arianne viveva in una città ligure, dove aveva anche trovato un lavoro che le piaceva, come istitutrice in un asilo, ma si è sempre sentita straniera. Ora è ritornata a Teheran, dove abita il padre, professore universitario, perché in Italia, se non hai conoscenze sei emarginata, dice. Anche a Teheran è così, anzi molto di più, ma lei lì confida nelle conoscenze paterne. Per il momento fa diversi lavori, tutti sottopagati: assistente per la campagna elettorale di una candidata, e collaboratrice in un progetto governativo per la promozione dei giovani talenti ( il ministero della cultura islamica sotto Rouhani punta molto alla promozione di giovani artisti iraniani). Spera però, vista la sua ottima conoscenza di diverse lingue, di poter aspirare presto a un lavoro interessante e pagato bene. Ogni giorno fa domande e colloqui di lavoro. A Teheran molte società internazionali hanno già aperto uffici ma, finché avranno paura che il governo Trump o i tribunali americani puniscano chi fa affari con l’Iran, nessuno investe. Né assume dipendenti.
Il tabù della droga
L’assenza di investimenti stranieri è l’accusa principale da cui deve difendersi il presidente Rouhani nei dibattiti elettorali: l’economia non è ripartita dopo la cancellazione delle sanzioni, la disoccupazione giovanile sfiora il 40 per cento, per ora sono arrivati solo beni di consumo per i ricchi che a loro volta hanno paura d’investire ma non sanno come spendere i soldi se non comprando appunto macchine di lusso o costosi profumi. Così Rouhani viene accusato dagli avversari di aver ceduto all’Occidente in cambio di una bottiglia d’acqua di colonia.
Leila Arshad ha avuto tanti fastidi con le autorità per le sue attività di operatrice sociale che è riluttante a parlare di sé anche ora che si è candidata al municipio di Teheran. Deve incontrare ancora tante resistenze, se una lezione che doveva tenere al Politecnico Amir Kabir è stata cancellata, e solo con un’ora di ritardo Leila ha potuto convincere i dirigenti del Politecnico a lasciarla parlare. Arshad fin dagli anni 90 era stata la prima a sollevare il problema dei bambini abbandonati per strada e a chiedere al governo di far qualcosa per loro. Dieci anni fa ha fondato una organizzazione non governativa che opera in uno dei quartieri più poveri e desolati di Teheran Sud. In mezzo a un terreno polveroso la casa circondata da una ringhiera di metallo ospita donne con un terribile segreto. Sono donne drogate, un numero che cresce ogni giorno. Per gli uomini qualche istituzione che si prende cura di loro c’è, ma per le donne l’uso della droga è talmente tabù che né loro ne parlano né se ne può parlare in pubblico.
Quando Leila aprì l’istituto la polizia agiva solo arrestandole e le famiglie avrebbero preferito saperle morte. La svolta è avvenuta quando Teheran rischiò un’epidemia di Aids. «A quel punto - dice Leila - anche le autorità hanno cominciato ad ammettere che la dipendenza è una malattia, non un crimine » . Ma l’argomento resta così sensibile che comunque Leila mi chiede di evitare di menzionare il nome della clinica. Ancora oggi si legge sui giornali conservatori che la dipendenza delle donne dalla droga è un trucco dei nemici per attaccare «i valori islamici delle famiglie iraniane».
Le stime più contenute, quelle interne dell’ Iran’sDrug Control che sono molto inferiori a quelle internazionali, parlano di 3 milioni di drogati su 76 milioni di abitanti di cui un terzo donne. Alla clinica avevano cominciato distribuendo metadone, ma le ragazze venivano arrestate quando uscivano e dopo mesi di prigione tornavano a casa in condizioni peggiori di prima. Così Arshad ha cambiato strategia e nella clinica si occupano solo di chi ha già fatto il passo della disintossicazione: per aiutarle a restare pulite, trovare qualche lavoro, e dare assistenza ai figli. L’oppio e l’eroina afgani passano dall’Iran per raggiungere i mercati globali.
Sotto gli occhi della Nato la coltivazione dell’oppio in Afghanistan è decuplicata in questi anni, raggiungendo vette mai sfiorate prima. Così in Iran trovi la droga dappertutto, costa poco, te la offrono perfino nei saloni di bellezza. Gli uomini trovano sempre qualcuno che gli propone di vendere droga in cambio di una dose. Sono loro i primi a drogarsi, di solito, poi spingono le donne a farlo, mogli e figlie, perché poi le faranno prostituire per avere la droga assicurata.
Mentre io e Leila parliamo bussa un bambino con la madre, sono venuti a salutare. Una storia terribile: lei aveva partorito nel parco e voleva vendere il bambino per procurarsi la droga. Anche nel suo caso era stato il marito a dargliela, poi erano andati ognuno per la propria strada. Loro l’hanno salvata, ha seguito il programma di riabilitazione, imparato un mestiere ed è andata a cercare il marito per convincerlo a smettere e c’è riuscita. E il marito per riconoscenza ha adottato il bambino che non era suo. Ora lavorano entrambi per Medici senza Frontiere. Una storia a lieto fine, ci sono voluti otto anni.
All'inizio non era così
Maryam Khanon ha 45 anni, tre figlie, due sposate e con gravi problemi come lei. Si alza alle cinque, va a lavorare al Centro Nord, fa servizio da diverse famiglie, non finisce mai prima delle dieci di sera. Poi riprende una serie di taxi collettivi, perché a quell’ora di autobus non ce ne sono più e torna a casa. E la mattina dopo ricomincia. Il marito è drogato, per guadagnare qualcosa è andato in Afghanistan con degli amici a procurarsi la droga e poi è rimasto inchiodato. Maryam si è rifiutata di prenderla, lui è andato via di casa, torna ogni due, tre mesi a farsi dare un po’ di soldi. Una delle figlie sposate è nella stessa sua situazione. Ma forse la figlia divorzierà. La droga è condizione sufficiente per pretendere il divorzio e tenersi i figli. Maryam invece, alla signora per cui lavora e che la spinge a divorziare anche lei invece di mantenere un marito come il suo, risponde di no. Per lei il divorzio è una cosa brutta. E una donna divorziata non vale più nulla.
La confessione di Susan è venata dalla tristezza ma anche dall’orgoglio. « Mi sento a volte come Don Chisciotte, soffro di nostalgia, la mia è la generazione che ha creduto nella rivoluzione, ma mia figlia pensa che abbiamo sprecato la nostra gioventù. Nei sui occhi leggo un velo di rimprovero o di compatimento, mentre noi eravamo orgogliosi di aver preso parte a una rivoluzione che è stata una delle grandi insurrezioni della storia del ventesimo secolo, un grande movimento popolare e non sanguinoso. Poi fu ridotto a movimento esclusivamente religioso, ma all’inizio non era così ».
Con Susan Shariati ci incontriamo sempre nello stesso caffè di fronte a casa sua, dentro il parco di una vecchia villa che ospita il museo del cinema. Susan Shariati è tornata in Iran dall’esilio parigino alla fine degli anni 90, insieme con la madre e le sorelle. Una delle strade principali di Teheran è intitolata a suo padre, Ali Shariati: un lungo viale che attraversa la città da Sud a Nord, e c’è anche un piccolo museo nella casa dove la famiglia aveva abitato mentre Shariati si nascondeva o era nelle prigioni dello scià. Si potrebbe perciò immaginare che il filosofo, considerato l’ispiratore dei rivoluzionari del 1979, sia tenuto in grande considerazione dal regime, ma l’apparenza inganna, come spesso accade per tante cose in Iran. Per il regime, Shariati è un intellettuale scomodo. I suoi libri sono stati a lungo vietati, in particolare “Religione contro la religione”. «Shariati era un intellettuale degli anni Sessanta - dice Susan -. Troppo anticlericale per piacere al regime.
Oggi i giovani hanno ricominciato a leggerlo, soprattutto gli scritti letterari, i romanzi, meno quelli di carattere saggistico». Era un umanista che mette l’uomo al centro del suo pensiero. Un religioso la cui idea di Dio è spirituale e non temporale, era contrario al velayat-e faqih, l’autorità del Giurista Supremo instaurata da Khomeini. Prima di Khomeini gli sciiti avevano sempre creduto che in assenza del Tredicesimo Imam - il Mahdi, che alla fine dei tempi riapparirà nel mondo a portare il bene - il clero doveva limitarsi alle mansioni di proteggere il popolo e salvaguardare la fede, senza partecipare direttamente agli affari dello Stato. Questa dottrina “quietista” fu rovesciata da Khomeini che dall’esilio di Najaf, dopo essere stato cacciato dallo scià per le sue attività politiche, teorizzò il governo diretto del clero.
Socialisti timorosi di Dio
È vestita come se fosse a Parigi, un impermeabile chiaro, pantaloni e un foulard in testa. Delle tre sorelle, Susan è quella che si è presa l’incarico di rivedere e pubblicare tutti gli scritti del padre. « Shariati ha parlato per primo di politicizzazione della religione, ma se si guarda che cosa è diventato oggi l’Islam politico si capisce quanto fosse diversa la sua visione del mondo. Spiritualità, uguaglianza, libertà erano i tre pilastri del suo umanismo islamico radicale, tutto il contrario di quello che oggi è l’Islam politico». Di formazione marxista, Shariati criticò anche la democrazia liberale: senza uguaglianza sociale non è che demagogia, scrisse. Già il nonno, un seguace di Mossadeq, aveva cresciuto a Mashhad una generazione di antimonarchici, «socialisti timorosi di Dio» li definiva.
Essere di sinistra è una tradizione di famiglia. Anche per Ali Shariati la religione doveva lottare contro l’oppressione e le disuguaglianze nella società e liberarsi dall’osservanza pedissequa della tradizione. Si può rompere la forma per mantenere il contenuto, diceva, tutto il contrario di chi obbliga la società a seguire alla lettera la sharia. «La ribellione era per lui il perno della libertà di scelta. Mi ribello dunque sono. Come per Camus».Susan insegna storia. «La generazione di questi ventenni – dice guardando le ragazze e i giovani che affollano il caffè – è la terza generazione dopo la rivoluzione, ha una mentalità completamente diversa dalla nostra. La mia è una generazione politica, nostalgica della politica; quella dei miei figli è antipolitica, loro non capiscono quale senso abbia avuto una lotta che ha finito per limitare la loro libertà. I ventenni sono al di fuori della politica. Vivono come vogliono e pensano che prima o poi la politica si adeguerà».
I giovani vanno a votare, quando ci vanno, ma solo per evitare il male peggiore. Votarono per Rouhani nel 2013. Il 19 maggio lo rivoteranno, anche se nei social media l’eroe del momento è il vicepresidente Jahangiri, che è stato presentato dai moderati solo per avere un’alternativa nel caso che Rouhani venisse rifiutato dal Consiglio dei Guardiani. Nei dibattiti elettorali televisivi si è guadagnato un grande seguito per il suo coraggio. «Io sono un riformatore » ha detto senza giri di parole, e se si pensa che il riferimento principale dei riformatori, l’ex presidente Khatami, non deve essere nemmeno nominato in pubblico, Jahangiri ha dimostrato una capacità di rischiare che ha suscitato ammirazione.
Il caffè della Casa del Cinema è un posto per giovani, come i tanti caffè di Teheran spuntati come funghi negli ultimi anni. Le ragazze si conoscono e si salutano con particolare calore, come se non si vedessero da tempo o fossero appena sfuggite, fuori, a una vita ostile da cui non è facile mettersi in salvo. Lo stesso sentimento che si ritrova al teatro. Anche il teatro è frequentato esclusivamente da giovani che sembrano liberarsi in quelle sale buie delle strettoie delle proprie vite, vedendole rappresentate.
A Teheran ci sono almeno una ventina di teatri privati, allestiti negli appartamenti trasformati in associazioni o club. Plateau, li chiamano, memori che il francese era stato un tempo la lingua franca dell’aristocrazia. Con un’amica vado a vedere Bipedar, orfano, un lavoro teatrale che in queste settimane ha grande successo e che si tiene al Teatro Comunale, il più importante della città, anche se in una piccola sala. È recitato da attori di primissimo ordine, tutti maschi, anche nelle parti femminili, perché ci sono troppi momenti di contatto e il codice iraniano non permette che uomini e donne si tocchino in pubblico. È tratto da un antica favola iraniana su un lupo e una capra, molto più complicata di quella di Esopo. Qui la capra sposa il lupo per vedere di fermare i suoi tentativi di divorare i suoi figli capretti, ma alla fine il lupo mangia l’erba e i capretti diventano carnivori. Metafore sempre più prossime alla vita reale. Di tutte le arti il teatro è per gli iraniani allo stesso tempo quella più vicina e quella più distante, perché mette in scena la vita in un Paese dove la vita viene messa in scena ogni giorno. Il regime tiene tutto sotto controllo, anche se negli ultimi anni è diventato molto più liberale. E in fondo che l’Iran sia ammirato nel mondo oltre che per la cultura millenaria per le sue prove di modernità fa piacere anche ai vertici della Repubblica islamica.
La mia amica è una che riesce – ce ne sono pochi - a mantenere un equilibro tra la propria libertà e gli arbitrii del regime. Si attiene alle regole e pretende che il regime si comporti con lei con altrettanta lealtà. Non sempre ci riesce ma spesso sì. Antonia Shoraka, questo il suo nome, ha fatto il liceo negli anni Ottanta ovvero subito dopo la rivoluzione islamica e nel pieno della guerra con l’Iraq. Un periodo che lei chiama «oscuro per via della guerra, delle sanzioni, della mancanza di generi alimentari e per la chiusura culturale » . « Mi ricordo – dice - che era rigorosamente proibito guardare film occidentali e le videocassette venivano piratate. Io e le mie compagne di scuola se ce ne prestavano alcune, dovevamo nasconderle addosso perché all’ingresso del liceo facevano l’ispezione corporale. Nascondere una cassetta era un grande rischio perché se fossi stata scoperta con una videocassetta tra la schiena e la cintura dei pantaloni, rischiavo di essere privata della possibilità di entrare all’università dopo la maturità. Il criterio di ammissione era l’idoneità morale ed era la preside del liceo a confermarla. E non l’avrebbe mai fatto se avesse scoperto la cassetta. Le ispezioni non venivano fatte solo per scoprire le videocassette, ma anche perché all’epoca erano ancora attivi gruppi dell’opposizione armati come il MKO e i paramilitari comunisti che facevano saltare in aria un obiettivo un giorno sì e uno no, perciò all’entrata delle scuole e degli uffici governativi i controlli erano severi per vedere se non entrassero armi o anche solo volantini anti regime. Nemico, doshman, era la parola che risuonava più spesso nell’au-
la». Antonia ricorda anche le gite scolastiche al Behesht-e Zahra, il cimitero , chiamato Paradiso di Zahra, dove seppellivano i martiri, i caduti in guerra. Le scolaresche venivano fatte scendere una ad una nelle tombe vuote, per provare che cosa significa l’estasi del martirio.
« Secondo me - dice Antonia -, una delle maggiori difficoltà’ dell’Iran di oggi è l’incapacità di una gestione sistematica. Solo così si potrebbe salvare il paese dalla dispersione delle energie e dei beni materiali. Finché non ci saranno le persone giuste nei posti cruciali, veramente esperte, e finché non ci sarà un sistema di controlli veramente efficace e capace di punire i corrotti e i trasgressori, domineranno coloro che hanno più influenza, non importa quanto incapaci, e i loro protetti, e tutti continueranno ad aggirare la legge senza risponderne». Ma Antonia ha speranza nelle donne e nei giovani. « Più si va avanti più la gente prende coscienza dei propri diritti e sopratutto impara come muoversi in un sistema dove un no non e’ mai un vero no come nemmeno un sì è mai un vero sì». Questa è la regola che la guida. È diventata di recente capo del dipartimento di italianistica dell’università Azad, ha un ufficio di traduzioni legali, e lavora come critico cinematografico, scrivendo recensioni sul cinema iraniano su giornali e riviste come
e
Shargh.
Se tenesse a pieno tempo l’ufficio di traduzioni legali guadagnerebbe meglio, ma le si ottunderebbe il cervello, dice. E per questo preferisce fare il critico, che del resto fa molto bene. «Mi piace partecipare a dialoghi alla televisione o alla radio per aver modo di scambiare idee con i nostri registi che in questo momento rispecchiano nel modo più sensibile la situazione del nostro Paese. E anche parlare nei centri culturali dove ci sono i giovani. Solo così si può capire l’Iran, vivendolo tra la gente».
La stella del cinema
Al centro culturale di Araf Baran brilla una stella. È l’attrice Fatemeh Motamed Arya, che gli amici chiamano Simin. Presenta il suo ultimo film premiato al festival Fajr, Abijan. Un nome femminile. È la storia di una donna che si dipana in una grande casa durante la guerra. Gli otto anni della terribile guerra contro Saddam Hussein continuano ad essere una fonte importante per il cinema iraniano. Abijan vive in una di quelle vecchie famiglie patriarcali iraniane fatte di fratelli, cugini, zii che litigano, si disputano, amoreggiano. Lei, che è stata lasciata dal marito per un’altra moglie più giovane, ha un grande dolore, quello del figlio al fronte di cui da tempo non si hanno notizie. Abijan rifiuta l’idea che il figlio sia morto. La scena più bella del film è quando la donna legge il suo nome sulla lista dei prigionieri di Saddam – il figlio è vivo anche se privo di una gamba -, e comincia a danzare con questo foglio in mano, arrivando fin nel cortile.
Acclamatissima, amatissima, conosciutissima, Simin ha un carisma, una luminosità ineguagliati. «Non avrei mai potuto dire di no a un film che lancia un messaggio contro la guerra, non solo la guerra contro l’Iraq di allora ma tutte le guerre. Il mondo dovrebbe vergognarsi oggi della guerra in Siria come avrebbe dovuto vergognarsi allora della guerra voluta da Saddam, invece di appoggiarlo ». Simin ha sempre detto quello che pensava, sempre impegnata, per la pace e per le riforme nella Repubblica islamica, attaccata per strada dai basiji li ha sempre affrontati con coraggio e cercando di parlare con loro, di convincerli che la verità non è una sola e la violenza non è la soluzione. Dopo il 2009, quando aveva fatto lo spot elettorale per Moussavi, Ahmadinejad le fece togliere il passaporto e le fu vietato di lavorare nel cinema. Furono anni difficili ma lei non si arrese e con un piccolo gruppo si mise a recitare Madre Coraggio in un teatrino di Teheran.
«Anche le giovani donne di oggi dimostrano coraggio», mi dice. Con noi c’è una giovane scrittrice, Nasim Marashi, nata nel 1984, il cui primo libro ( tradotto in italiano da Parisa Nazari per Ponte 33) ha avuto un successo straordinario alla Fiera del Libro che si è chiusa in questi giorni, e dove l’Italia era il primo Paese occidentale ad essere ospite d’onore. Payizfasl- e akhar- e salast, L’autunno è l’ultima stagione dell’anno, è il titolo del libro, premiato con il più importante premio letterario iraniano. Racconta di tre donne, Leila, Shabane e Roja, tre ragazze che hanno grandi aspettative rispetto alla vita ma devono fare i conti con gli ostacoli che la vita presenta. Leila, che ha un matrimonio felice, viene però abbandonata dal marito quando questi decide di proseguire gli studi all’estero e lei invece non se la sente di lasciare l’Iran. Laureata in ingegneria, non vuole continuare quella professione perché ama scrivere, e comincia a lavorare per diversi giornali.
Quando tutti saranno costretti a chiudere, durante la repressione del 2009, la sua vita è distrutta. Shabanè ha un fratello handicappato di cui si prende cura, Roja mette tutto l’impegno che può per ottenere un visto e studiare in Francia, nonostante debba lasciare sola a Teheran la madre vedova. Non dorme la notte per essere alle quattro di mattina a fare la fila davanti al consolato francese. Ma arrivano i disordini del 2009 e non otterrà il visto. «Tutte e tre sono parte di me», mi spiega Nasim. Anche lei è laureata in ingegneria, anche lei ha chiesto un visto per Parigi, anche lei sognava di lasciare la vita vecchia per quella nuova. Ma il diritto alla felicità è un diritto che si paga caro. Nasim è però ottimista sul futuro: « Il futuro come lo vogliamo si sta realizzando» ha detto al pubblico che la stava ascoltando. Erano quasi tutti ragazzi.
il manifesto 12 maggio 2017 (c.m.c.)
Il bello (si fa per dire) arriva ora. Consegnate ai presidenti di Camera e Senato le firme della petizione “Restituire la sovranità agli elettori”, il lavoro del Comitato per il No e del Comitato contro l’Italicum è tutt’altro che finito. Anzi, si può dire che comincia adesso e non saranno rose e fiori: la strada per arrivare ad una legge elettorale democratica e coerente con i principi costituzionali – che metta gli elettori in grado di eleggere un parlamento realmente rappresentativo e restituire credibilità alle istituzioni – resta irta di ostacoli.
Dopo le primarie del Pd – che anziché portare chiarezza come molti speravano e altrettanti millantavano, stanno aggiungendo confusione a confusione – le cosiddette trattative per arrivare ad un testo base per il lavoro della Commissione competente alla Camera sembrano piuttosto mercanteggiamenti da suk: l’offerta cambia a seconda dell’interlocutore, a conferma che la proposta renziana del modello tedesco era solo una boutade.
E pazienza se si sta parlando della legge elettorale, cioè la regola fondamentale della democrazia: non è all’orizzonte una visione complessiva e di lungo periodo su che tipo di parlamento (e dunque di istituzioni) si vuole. Ma questo è anche un modo per tenersi le mani libere e prendere tempo dicendo tutto e il contrario di tutto (dicesi menare il can per l’aia) e magari dimostrare che l’accordo tra i partiti è impossibile, quindi tanto vale andare a votare a ottobre.
Ecco perché è vietato abbassare la guardia e i Comitati proseguiranno il loro lavoro di monitoraggio cercando di mantenere alta nell’opinione pubblica l’attenzione a ciò che avviene nelle aule parlamentari. La settimana scorsa si è svolto un primo appuntamento importante: un convegno nel corso del quale i Comitati si sono confrontati con le forze politiche, quelle che hanno aderito alla campagna per il no nel referendum costituzionale. Nell’incontro, i Comitati hanno ribadito gli argomenti e le ragioni che hanno sostenuto la petizione sulla legge elettorale da ultimo presentata ai presidenti di Camera e Senato.
È stata rivolta alle forze politiche intervenute una forte sollecitazione a impegnarsi soprattutto per una legge di impianto proporzionale che favorisca la piena rappresentatività delle assemblee elettive e che riconosca la libertà degli elettori di scegliere i propri rappresentanti cancellando il voto bloccato sui capilista. È stata sottolineata la inaccettabilità di ipotesi, pur emerse nel dibattito di questi giorni, come l’abbassamento della soglia del premio di maggioranza (o comunque la conferma del premio) o il rifiuto di aprire alle coalizioni. Ipotesi che andrebbero soprattutto a danno delle forze politiche minori. I direttivi hanno confermato il proprio perdurante impegno per una legge elettorale pienamente conforme alla lettera e allo spirito della Costituzione, di cui il paese ha estremo bisogno.
Per meglio portare avanti questo impegno, i Comitati hanno anche deciso di riorganizzarsi. La riunione congiunta dei direttivi di giovedì scorso ha avviato il percorso di unificazione delle due associazioni che sarà sancita solo dopo l’assemblea nazionale dei comitati territoriali (prevista a metà giugno) con le modifiche statutarie necessarie. Nella riunione, i direttivi hanno concentrato la loro attenzione proprio sulla legge elettorale, partendo dagli incontri con i presidenti di Camera e Senato, cui sono seguiti quelli con i presidenti delle Commissioni Affari costituzionali dei due rami del parlamento.
È stato inoltre deciso di formare due gruppi di lavoro per seguire passo passo l’iter della legge elettorale prima alla Camera poi al Senato, ipotizzando anche un rilancio della raccolta delle firme e la possibilità di organizzare iniziative e manifestazioni durante l’iter della legge elettorale. Perché le proposte in campo sembrano voler ripetere gli errori di Porcellum e Italicum: tre leggi elettorali incostituzionali una di seguito all’altra rappresenterebbero davvero un non invidiabile primato europeo.
La grande regressione». la Repubblica, 11 maggio 2017 (c.m.c)
Essere uno stato, piccolo o grande non importa, vuole sempre dire una cosa molto semplice: avere sovranità territoriale, ossia la capacità di agire all’interno dei propri confini in base alla volontà di chi abita nel proprio territorio, senza rispondere agli ordini di qualcun altro. Dopo un’epoca in cui i vicinati si sono fusi o sono stati percepiti come destinati a fondersi in unità più grandi chiamate stati-nazione (con in agguato la prospettiva di un’unificazione e di un’omogeneizzazione della cultura, della legge, della politica e della vita umane in un futuro che, se non era immediato, sarebbe senza dubbio giunto), dopo la lunga guerra dichiarata dai grandi ai piccoli, dallo stato al locale e al “parrocchiale”, entriamo ora nell’epoca della “sussidiarizzazione”, in cui gli stati non vedono l’ora di scaricare i propri doveri, le proprie responsabilità e - grazie alla globalizzazione
e alla nascente situazione cosmopolitica - il compito ingrato di riportare il caos all’ordine, mentre le vecchie località e i vecchi comuni serrano i ranghi per assumersi queste responsabilità e battersi per qualcosa in più.
L’indicatore più vistoso, carico di conflitto e potenzialmente esplosivo del momento presente e la volontà di rinunciare alla visione kantiana di una futura Burgerliche Vereinigung der Menschheit, un’unificazione civile dell’umanità, che coincide con la realtà della globalizzazione avanzata e imperante della finanza, dell’industria, del commercio, dell’informazione e di ogni forma di violazione della legge.
A cio si associa il confronto di uno spirito e di un sentimento klein aber mein (“piccolo, ma mio”) con il dato di una condizione esistenziale sempre più cosmopolita. In seguito alla globalizzazione e alla divisione dei poteri politici che ne deriva, infatti, gli stati si stanno trasformando in vicinati piuttosto grandi, compressi all’interno di confini permeabili, tracciati in modo vago e difesi in modo inefficiente. Nel mentre, i vicinati di una volta - considerati sul punto di essere cestinati dalla storia, insieme a tutti gli altri pouvoirs intermediaires — lottano per assumere il ruolo di “piccoli stati”, sfruttando al meglio cio che rimane delle politiche quasi-locali e dell’inalienabile prerogativa monopolista, un tempo gelosamente custodita dallo stato, di dividere “noi” da “loro” (e viceversa). Il “progresso”, per questi piccoli stati, si riduce a un “ritorno alle tribù”.
In un territorio popolato da tribù, le parti in conflitto evitano e rinunciano senza esitazione a convincersi e a convertirsi a vicenda; l’inferiorità di un membro — di un membro qualsiasi — di una tribù straniera è e deve restare una debolezza predestinata, eterna e incurabile, o almeno deve essere vista e trattata come tale. L’inferiorità dell’altra tribù è la sua condizione permanente e irreparabile, il suo stigma indelebile destinato a vincere ogni tentativo di riabilitazione.
Una volta che la divisione tra “noi” e “loro” è stata istituita secondo queste regole, lo scopo di ogni incontro fra gli antagonisti non è più lo stemperamento, ma la ricerca o la creazione di ulteriori prove del fatto che qualsiasi stemperamento è irragionevole e fuori questione. Preoccupati di non svegliare il can che dorme e di evitare le sventure, i membri delle tribù bloccate nel circolo di superiorità/inferiorità non si parlano ma si ignorano. Per coloro che risiedono (o sono stati esiliati) nelle zone grigie di frontiera, la condizione di «essere sconosciuti e dunque minacciosi» e l’effetto della loro intrinseca o ipotetica resistenza o sottrazione alle categorie cognitive utilizzate come pilastri dell’“ordine” e della “stabilità”.
Il loro peccato capitale o il loro crimine imperdonabile consiste nell’essere la causa di una difficoltà mentale e pragmatica, derivata dalla confusione comportamentale che essi non possono non produrre (qui si può pensare a Ludwig Wittgenstein, che faceva consistere il comprendere nel sapere come andare avanti). Inoltre, questo peccato incontra ostacoli formidabili nella sua redenzione, per via del “nostro” testardo rifiuto di instaurare con “loro” un dialogo teso ad affrontare e a superare l’iniziale impossibilità della comprensione. L’assegnamento alle zone grigie è un processo autoalimentantesi messo in moto e intensificato dal venir meno o, meglio, dal rifiuto a priori della comunicazione.
Elevare la difficoltà della comprensione al rango di un’istanza o di un dovere morale imposto da Dio o dalla storia è, dopotutto, la prima causa e uno stimolo fondamentale alla definizione e al rafforzamento dei confini che “ci” separano da “loro”, anche se non su base esclusivamente etnica o religiosa, e della funzione fondamentale a cui devono assolvere. Come interfaccia tra i due contendenti, la zona grigia dell’ambiguità e dell’ambivalenza rappresenta inevitabilmente il territorio principale — e troppo spesso unico — su cui si proiettano le implacabili ostilità e si combattono le battaglie tra “noi” e “loro”.
Ritirando nel 2016 il premio Carlo Magno, papa Francesco — forse l’unica figura pubblica dotata di autorità planetaria ad aver avuto il coraggio e la determinazione di scavare le radici profonde del male, della confusione e dell’impotenza attuali e di metterle in mostra — ha dichiarato: «Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere “una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro”, portando avanti “la ricerca di consenso e di accordi, senza pero separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni” ( Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione».
Subito dopo, papa Francesco aggiunge una frase che contiene un altro messaggio strettamente connesso alla cultura del dialogo, come sua autentica conditio sine qua non: «Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i percorsi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà a inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui le stiamo abituando». Ponendo una cultura del dialogo come compito educativo e chiamando noi al ruolo di insegnanti, egli afferma senza ambiguità che i problemi che oggi ci affliggono sono destinati a durare ancora a lungo — problemi che cerchiamo invano di risolvere nei modi a cui siamo abituati, ma per i quali la cultura del dialogo ha una chance di trovare soluzioni più umane (e, auspicabilmente, più efficaci).
Un vecchio proverbio cinese, ancora molto attuale, invita chi di noi è preoccupato per l’anno a venire a seminare grano e chi invece si preoccupa per i prossimi cento anni a educare le persone. I problemi che abbiamo di fronte non ammettono bacchette magiche e scorciatoie, ma richiedono niente meno che un’altra rivoluzione culturale. In tal senso, essi impongono una riflessione e una pianificazione sul lungo periodo, due arti purtroppo dimenticate e raramente messe in pratica in questi tempi affrettati vissuti sotto la tirannia del momento. Abbiamo bisogno di recuperare e di riapprendere queste arti. Per farlo, serviranno menti lucide, nervi d’acciaio e molto coraggio. Soprattutto, servirà un’autentica visione globale a lungo termine — e tanta pazienza.
Traduzione di Pietro Terzi
Israele Stato-nazione. La legge è il corollario di una graduale distruzione del tessuto democratico della società israeliana. Legalizza la «caratteristica nazionale dello Stato di Israele come diritto speciale del popolo ebraico», il che significa disattendere o negare i diritti civili di tutti quelli che ebrei non sono».
il manifesto, 10 maggio 2017
Alla proposta di legge del governo israeliano che sancirebbe una forma sottile di apartheid, l’opinione pubblica internazionale ha reagito in modo debole, senza allarmarsi troppo per il fatto che la vita in Israele è già diventata un’abitudine costante alla discriminazione e al razzismo.
La legge proposta dal deputato Avi Dichter del Likud, fatta propria domenica scorsa dal Comitato ministeriale per la legislazione e che è in via di esame alla Knesset, è chiamata «Legge della nazione». Dichter, in passato comandante dello Shin Bet (i servizi segreti), aveva già proposto la legge in precedenza, come deputato di Kadima, quando la formazione era guidata da Tsipi Livni.
La legge si riferisce a questioni ben note. Nel 1948 l’Onu sancì la creazione di uno Stato ebraico. L’olocausto era recente e ben presente negli animi, e molti dei caduti nella guerra di indipendenza erano persone sopravvissute ai campi di sterminio. La dichiarazione di indipendenza che assicurava un rifugio affidabile a tutti gli ebrei garantiva al tempo stesso eguaglianza e democrazia per tutti gli abitanti del paese, indipendentemente dall’origine e dalla religione di appartenenza.
Negli ultimi anni l’erosione della democrazia – ricordiamo la solfa continua dell’«unica democrazia del Medio Oriente» – ha avuto una netta accelerazione. Giorno dopo giorno, si è inasprita la guerra contro le organizzazioni israeliane impegnate sul fronte dei diritti umani e della democrazia, e contrarie all’occupazione.
Le decisioni contro questi gruppi aumentano e in alcuni casi non hanno solo l’appoggio della coalizione di fondamentalisti religiosi e fascisti; anche gli opportunisti di «centro» come Lapid e parte dei laburisti si accodano all’isteria anti-araba e anti-islamica. Ormai sono tutti terroristi che ci minacciano.
Ma la guerra contro il diritto democratico e la delegittimazione dell’opposizione di quei pochi israeliani che tuttora fanno ascoltare la propria voce si rafforzano quando si tratta di palestinesi, in Israele o nei territori occupati.
La legge approvata pochi mesi fa dal Parlamento – in attesa di convalida della Corte suprema – ha stabilito la legittimità del furto delle terre palestinesi.Per dirla in modo semplice e secondo la terminologia «legale», è ora possibile confiscare terre palestinesi, anche se sono state erroneamente occupate da coloni se l’occupante dimostra di averne in qualche modo bisogno. Il procuratore generale si è opposto al governo perché ritiene che questa legge non sia costituzionale; il governo sarà difeso da un noto e stimato avvocato…che si costruisce senza permesso una nuova casa nei territori occupati!
La nuova legge proposta dal governo è semplicemente un prologo: non si tratta solo dei cittadini palestinesi di Israele, l’obiettivo reale del governo è il sistema da imporre nei territori occupati da Israele. L’annessione dei territori, auspicata dalla destra radicale, aggiungerebbe alla popolazione dello Stato ebraico milioni di palestinesi ai quali, visto il razzismo imperante, sarebbe impossibile accordare uguali diritti.
L’apartheid di fatto diventerà, con la nuova legge, un apartheid di diritto. Non si tratta di un semplice cambiamento legale o della questione delle lingue ufficiali.
Questo è importante, ma perfino secondario rispetto alla questione essenziale: Israele, che discrimina in molti modi i propri cittadini di nazionalità palestinese e assoggetta milioni di altri palestinesi a un’occupazione violenta, ufficializzerà questa situazione.
Per riassumere: l’80% degli israeliani saranno cittadini privilegiati in uno Stato «democratico», il restante 20% saranno cittadini «accettati per necessità», milioni di altri saranno i nuovi soggetti dell’apartheid nelle sue attuali manifestazioni, pseudodemocratiche.
La «legge della nazione» non è solo l’apartheid in Israele; è il velato annuncio della costruzione legale che faciliterà l’annessione dei territori occupati nel 1967 e distruggerà le poche possibilità ancora esistenti di arrivare a un accordo di pace israelo-palestinese.
Ecco una vera e propria confessione pubblica, che sonda l’opinione della comunità internazionale. Il mondo ha accettato tante nostre violenze perché siamo «vittime del terrorismo»; vedremo ora come tratterà questa confessione di discriminazione ufficiale e «legale». Un preludio dell’annessione dei territori occupati.
«Le vecchie culture politiche appaiono abbandonate dai loro referenti sociali: sono percepite come omologate alle forme dominanti del capitalismo. La crisi dell’età della globalizzazione spalanca uno spazio per culture capaci di reinventare le forme di allargamento della democrazia, di partecipazione, di potere sociale.».
il manifesto, 9 maggio 2017
La destra in America, con Trump, ha giocato la briscola buttando sul tavolo la risposta conservatrice alla grande crisi del 2007. Con il suo immaginario politicamente scorretto, il comandante supremo dai capelli arancioni, ha strapazzato l’alternativa tecnocratica, che i poteri della finanza avevano fabbricato attorno alla candidatura di Clinton.
Una destra populista e protezionista avrebbe sfondato anche in Francia se però non avesse assunto il volto, ancora imbarazzante dopo il secolo breve, di una fascista al potere. Canterà pure la Marsigliese, ma Le Pen figlia evoca, non meno del padre vecchio camerata, un fantasma troppo oscuro per essere ospitato all’Eliseo. Le alchimie delle istituzioni della Quinta Repubblica hanno consentito la rivincita dei poteri forti della finanza e dei media che hanno investito tanto su un loro cavallo di scuderia che con appena il 23% acciuffa il potere.
Quello che la piccola rivoluzione passiva francese dice è che anche oltralpe si svolge il duello tra l’élite del denaro e della politica, che inventa novità cosmetiche per non perire, e le destre che agitano il codice del populismo, con gli immigrati come nemici concreti ma fasulli costruiti per sfondare. Gli stessi conservatori inglesi cavalcano l’euroscetticismo per riassorbire il dissenso dei ceti popolari. Riescono così a sgonfiare le nuove destre protezioniste, ma al caro prezzo dell’uscita dall’Unione europea. Per non parlare dello spettro della disgregazione del regno che si agita sotto le minacce scozzesi di devoluzione.
Con la prima grande contrazione sistemica del capitalismo globale si è aperta una generale crisi di rappresentanza. Cadono nel loro rendimento i regimi presidenziali, si inceppano i meccanismi maggioritari, si sgretolano i pilastri bipartitici, con buona pace dei profeti della democrazia decidente. Le destre, per resistere agli eventi, si convertono da inflessibili apostoli del liberismo della deregulation (l’asse Reagan-Tatcher) in profeti armati del protezionismo a suon di legge e ordine (l’asse Trump-May). Questo miracolo, che a intermittenza si ripete, è il punto di forza della destra. A sinistra i partiti non paiono troppo credibili quando accennano alla capriola che dalla febbre del liberismo (Cinton-Blair-Schroeder) li conduce a cavalcare le domande securitarie (liberi pistoleri di notte, esercizi repressivi con il decreto Minniti di giorno).
Quello che anche la Francia rivela è che la destra non è indebolita dalla crisi. Ad essere travolti dalle macerie del capitalismo in contrazione, sono i partiti riformisti, quelli di destra hanno mille vite. Escono disarcionati in Grecia, in Francia, in Spagna i partiti socialisti. Credevano di aver congelato i comportamenti elettorali arroccandosi come cartelli inamovibili di un’alternanza statica entro un sistema fermo alla venerazione delle divinità del mercato, che si è convertito in un produttore di diseguaglianza crescente. Le vecchie culture politiche appaiono esangui e abbandonate dai loro referenti sociali: sono percepite come omologate alle forme dominanti del capitalismo che ordina precarietà e incertezza. Solo il bistrattato Corbyn sprigiona simboli e sfide che alimentano qualche sogno di rottura.
La grande crisi sistemica dell’età della globalizzazione spalanca uno spazio per culture capaci di reinventare le forme di allargamento della democrazia, di partecipazione, di potere sociale.
Una nuova sinistra deve ricominciare dalla sua capacità più vecchia e perduta: la critica del potere astratto dello Stato rappresentativo e la contestazione delle alienazioni sociali connesse al dominio del capitale. È terminata la stagione della politica riformista subalterna al capitale e disponibile solo a gestire un movimento minore, determinato dai marginali spostamenti al centro, con la cattura del mitico elettore mediano soddisfatto delle promesse di consumo e di mobilità sociale.
Solo una sinistra di classe (nella analisi delle potenze del modo di produzione) e di popolo (nella proposta politica di un immaginario egemonico, aggregante e aperto alle differenze, alle culture) può sparigliare il duello fasullo tra una nuova destra che manda alla casa Bianca un capitalista e il nichilismo del denaro che invia un suo rappresentante all’Eliseo. Non ci sono altre maniere per arrestare il trionfo della post-democrazia ovunque En Marche.
A volte ci vengono in mente idee che ci sembrano tanto ovvie da non meritare d’essere dette, né tantomeno scritte e addirittura pubblicate. Poi ci accorgiamo che saranno pure ovvie secondo il nostro giudizio, ma sono talmente controcorrente che i casi sono due: o siamo fuori di testa noi, oppure lo sono tantissimi altri. Ecco due esempi, due eventi, che in questi giorni sono all’attenzione dei media: le ONG complici degli scafisti, l’ampliamento della legittima difesa.
Noi la vediamo così. Milioni di persone (uomini, donne, bambini, vecchi e giovani, soli o in famiglie o in gruppi di vicini) fuggono da carestie, miseria, oppressioni, catastrofi: tutte condizioni che i paesi del Primo mondo hanno contribuito a provocare, come è dimostrato da rapporti e documenti noti a chiunque voglia sapere. Questo fiume di persone, chiamiamoli “fuggitivi”, appartengono alla stessa razza cui apparteniamo Albert Einstein e tutti noi. Essi sono respinti alle frontiere dei paesi ove sono diretti: là dove c’è un maggior benessere (in gran parte pagato dal loro malessere). Trovano sul loro cammino barriere d’ogni tipo: muri, fili spinati, arnesi ancora più ingegnosi e devastanti, truppe armate, e via enumerando.
Ma i fuggitivi incontrano anche alcune persone, mosse non dalla carità ma dalla voglia di guadagnare (come del resto le nostre riverite banche), che si offrono di trasportare i fuggitivi, in carovane guidate dove è possibile, su camion sovraccarichi nei deserti, con scafi più o meno malandati quando si tratta di attraversare barriere d’acqua, come il nostro Mediterraneo. Chiamiamoli “trafficanti” in termini dispregiativi.
Dall’altro lato delle barriere c’è qualche gruppo di persone (chiamiamoli “volenterosi”) che, a differenza dei loro governi e dei loro giornalisti mainstream, si rendono conto che quei miserabili, parte della loro stessa razza sebbene spesso di diverso colore, hanno il pieno diritto di fuggire e di approdare su terre meno infernali di quelle da cui fuggono. Questi volenterosi, raccolti in organizzazioni non governative (poiché i governi sono impegnati a costruire barriere e recinti), raccolgono fondi, offrono gratis il loro lavoro e partono per incontrare i fuggitivi e portarli in salvo.
Dove possono raccoglierli? È evidente, lì dove i primi traghettatori, gli ignobili (come le banche) “trafficanti”, li hanno lasciati: in mare. Ma le persone non sono di sughero, quindi non galleggiano. Non sarebbe allora del tutto normale che i volenterosi si accordassero con i trafficanti per scambiarsi non la “merce”, ma i “beni “costituiti dai membri di quella umanità fuggiasca?
Non sappiamo se, nella realtà, i volenterosi delle Ong lo facciano oppure no. Ma ci sembrerebbe del tutto naturale che lo facessero. E se la legge non lo consente, allora pensiamo che andrebbe cambiata la legge, non la realtà. O meglio ancora, che andrebbero realizzati, da parte degli stati, corridoi protetti e attrezzati per consentire ai fuggitivi di raggiungere i loro obiettivi. Sono anni che alcuni saggi lo propongono, testardamente inascoltati.
2. Pena di morte e legittima difesa.
In molti paesi la pena di morte per delitti gravi è ancor oggi consentita. Eccone alcuni: USA, Grenada, Bielorussia, Cina, Giappone, Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Egitto, Arabia Saudita, India, Indonesia. In tutto sono una cinquantina. Tra essi nessun paese europeo, salvo la Bielorussia. In alcuni paesi dell’Europa (come l’Italia, la Germania, la Francia) era consentita fino agli ultimi decenni del secolo scorso, ma sempre soltanto per reati gravi e dopo regolare processo. Non ci risulta che in nessun paese d’Europa, e in quasi nessuna delle altre regioni del mondo, sia ammessa la pena di morte per i ladri, o presunti tali.
In Italia sì. Governo e parlamento stanno cincischiando e battibeccando sul “come” (non sul “se”) introdurre nei nostri codici una norma che consenta a chiunque di “difendersi” con le armi contro chiunque si introduca nella sua abitazione con atteggiamento minaccioso verso le persone o “le cose”.
A noi sembra che una decisione in questo senso altro non sia che decretare che è consentito a privati cittadini di esercitare la pena di morte senza un regolare processo, senza una causa grave, e senza subire alcuna punizione. Non sappiamo a quale età barbarica si debba risalire per trovare qualcosa di simile, e non ci sembra che la discussione che si sta svolgendo tra deputati e senatori abbia turbato l’opinione pubblica quanto il fatto richiederebbe. Tutti d’accordo gli italiani?
Forse l’impiego quotidiano della violenza delle “autorità”, nazionali e locali, nelle strade e nelle piazze (contro i migranti, contro i poveri, contro chi celebra riti diversi dai nostri, contro gli straccioni, contro i diversi), forse la dilagante ossessione per la “sicurezza” e la “decenza”, forse l’abitudine alla repressione preventiva di qualsiasi dissenso che non sia stato previamente “autorizzato” dalla questura ha talmente assuefatto i nostri connazionali che nessuno si rende conto dell’orrore di questa forma di “legittima difesa”. Oppure, ancora una volta, siamo noi fuori di testa, perché ci sembra stravagante ciò che per tutti è ovvio.
Venezia, 7 maggio 2017
Riferimenti
Sulle caratteristiche, le ragioni e le responsabilità della questione "migranti" invitiamo a leggere, su eddyburg, almeno i seguenti documenti: Eddytoriale n. 169, l'articolo di Ilaria Boniburini I dannati della terra, gli articoli di Guido Viale Perchè i migranti sono la soluzione e Il secolo dei rifugiati ambientali , Barbara Spinelli Il secolo deirifugiati ambientali?. Un'intera cartella abbiamo dedicato al tema Accoglienza Italia