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il manifesto,
È sul piatto il Rosatellum 2.0, il nuovo disegno di legge elettorale per Camera e Senato e per l’ennesima volta ci troviamo a discutere degli stessi problemi, 2/3 dei parlamentari nominati, pluricandidature, listini bloccati, escamotage e trucchetti disparati, che solo i più consumati esperti in materia elettorale sono in grado di stanare.

Sembrava potessero bastare i ripetuti appelli del Presidente Mattarella, che parla poco, e proprio per questo andrebbe preso molto seriamente quando lo fa. Si poteva ritenere che fossero sufficienti ben due pronunce della Corte costituzionale che, superando ostacoli di carattere processuale non indifferenti, aveva pronunciato severe censure di sistemi elettorali analogamente caratterizzati dall’intento di frodare l’elettore.

Avrebbe potuto forse dare qualche ulteriore indizio la sonora sconfitta del referendum del 4 dicembre scorso, con cui 19 milioni e mezzo di elettori hanno inteso respingere un progetto di riforma costituzionale, tanto poco chiaro nella sua formulazione e nel suo linguaggio, quanto era macroscopicamente palese la direzione nella quale spingeva le istituzioni. Nulla di tutto ciò è valso ad ottenere l’ascolto e la resipiscenza delle forze politiche che dal 2013 hanno sostenuto i governi che si sono susseguiti, nel mentre cresceva sempre più lo iato tra cittadini e politica.

Quasi qualsiasi sistema elettorale che riportasse ad avere un significato l’esercizio del diritto di voto, senza trucchi e senza inganni, sarebbe bastato.

Certo, in tanti avremmo preferito un sistema proporzionale, che rilanciasse il valore della rappresentanza politica. Ciò anche alla luce del mancato inveramento della «promessa del maggioritario» di produrre un efficiente bipolarismo, dopo tre legislature di Mattarellum che hanno lasciato sul campo le macerie di un sistema politico sempre più frammentato. Ma comunque sarebbe stato già qualcosa avere un sistema elettorale volto a garantire, anzi a ricreare, la defunta rappresentanza politica, riaffermando il principio per cui ci si candida non «per vincere», ma per rappresentare qualcuno, per contribuire a costruire in parlamento uno specchio della società, un luogo in cui si possa costruire un’idea di futuro per questo disastrato paese.

Un sistema elettorale non costruito su misura contro qualcuno, senza i consueti tranelli, e teso a recuperare i caratteri del voto previsti dall’art. 48 Cost.: libero, uguale e segreto (si perché ormai nessuna delle tre caratteristiche si può più ritenere pienamente garantita).

E invece anche stavolta non andrà così. Non so se sia un cieco istinto autodistruttivo, o un’arrogante protervia quella con cui si insiste nel voler trasformare il sistema di traduzione dei voti in seggi in un complicato escamotage per perpetuare il totale sganciamento della classe politica dalla società, per proseguire nella delegittimazione dell’istituzione parlamentare e dei partiti.

Chi insiste nel produrre sistemi elettorali in cui le segreterie di partito nominano larga parte dei parlamentari ha evidentemente perso totalmente il contatto con la realtà del paese, e solo per questo non teme la ormai dilagante rabbia verso la politica e le istituzioni.

Basterebbe salire su un autobus di qualunque città, o passare mezz’ora in una Asl o in una sala d’aspetto di uno dei tanti malandati ospedali italiani, per sentire la rabbia e il disagio che dilagano ovunque.

Non ci sono più argini che tengano questa ira. Si pensa di esorcizzarla identificandola sotto il nome di populismo ed antipolitica, ma il populismo è poi l’unico pane che si continua ad offrire al corpo elettorale, giacché non lo si rappresenta, ma lo si imbonisce e blandisce con oboli, narrazioni e barzellette, riuscendo solo ad esacerbarne il rancore.

Anche di questo discuteremo il 2 ottobre con Azzariti, Carlassare, Pace, Villone, Zagrebelsky nel convegno sulla legge elettorale promosso dal Coordinamento per la Democrazia costituzionale.

L'autore è Professore ordinario di Diritto costituzionale (Università degli studi di Roma Unitelma Sapienza)

Il governo iracheno non dialogherà con il governo regionale curdo (Krg) sui risultati del referendum “incostituzionale” di ieri tenutosi nel nord dell’Iraq. A dirlo è stato ieri il premier iracheno Haider al-Abadi durante un discorso trasmesso dalla tv di stato. “Molti dei problemi della regione curda sono interni, non con Baghdad, e aumenteranno con le richieste di separazione – ha spiegato il primo ministro – I problemi economici e finanziari di cui stanno soffrendo sono il risultato della corruzione e della cattiva amministrazione”.

Al-Abadi si mostra sicuro perché sa di avere molti alleati. Innanzitutto ha il pieno appoggio dei parlamentari iracheni che ieri hanno votato la sua richiesta di dispiegare le truppe “in tutte le zone controllate dopo il 2003 dalla regione autonoma del Kurdistan”. La decisione veniva presa nelle stesse ore in cui alcune unità dell’esercito nazionale partecipavano a esercitazioni congiunte con i turchi al confine con il territorio kurdo-iracheno.

Donne di Suleymaniya testimoniano di aver votato (Reuter)

L’addestramento militare fa il paio con altre decisioni intimidatorie prese da Baghdad: sospensione degli stipendi ai dipendenti pubblici che prendono parte al voto, stop alle compagnie pubbliche che operano nelle aree contese e ordine di cedere al governo centrale il controllo dei valichi di frontiera e dell’aeroporto di Erbil. Scelte che mostrano come le autorità irachene stiano impiegando tutte le misure a loro disposizione per far desistere i “ribelli” curdi.

Oltre al sostegno interno, il premier può poi vantare quello ben più importante in campo internazionale (Usa, Onu e Europa) e regionale (Iran e Turchia). Ieri Teheran ha lanciato un’esercitazione militare al confine, chiuso lo spazio aereo ai voli da Erbil e Suleymaniya e sospeso quelli diretti in territorio kurdo. Un tale embargo potrebbe avere – se reiterato – effetti gravi su una regione di cui l’Iran è primo partner commerciale con 5 miliardi di dollari di scambi annuali.

Durissima la reazione turca: ieri il presidente Erdogan ha minacciato l’invasione del nord dell’Iraq (dove i suoi soldati in realtà già ci sono a sostegno dei peshmerga intorno Mosul) e la sospensione degli affari commerciali in campo energetico tra Ankara e Erbil, in particolare la chiusura dell’oleodotto che collega Kirkuk alla turca Ceyhan.

Misure dure, ma che al momento non fermano il desiderio curdo all’indipendenza. Masoud Barzani, il leader del Krg, ha ribadito in più circostanze che il referendum di ieri non è vincolante e che non porterà all’indipendenza immediata, ma a uno-due anni di negoziati con Baghdad. In ogni caso, ha però precisato, “non torneremo ad una partnership fallimentare con uno Stato teocratico e settario”.

Nella sua ostinazione ad andare avanti nonostante le pressioni politiche, Barzani non è affatto solo. Secondo la Tv Rudaw di stanza a Erbil, ieri l’affluenza alle urne è stata del 78% (poco più di 5 milioni gli aventi diritto al voto) con picchi del 92% nella yazidi Sinjar, l’84% a Erbil e l’80% nella multietnica Kirkuk. Stando ai risultati provvisori diffusi dalla stessa emittente televisiva, il “Sì” è al 93%. In pratica, come era prevedibile, un vero e proprio plebiscito.

Per i curdi del Krg ieri è stata una giornata di festa: con fuochi d’artificio, musica ad alto volume, balli e canti centinaia di persone sventolanti le bandiere curde hanno festeggiato in serata la certa vittoria del Sì.

Bisogna capire solo quanto questi festeggiamenti potranno davvero durare. Nena News

vocidall'estero,

Il CETA, trattato di libero scambio con il Canada, è infine entrato in vigore giovedì 21 settembre, ad eclatante dimostrazione di come gli Stati abbiano rinunciato alla loro sovranità, lasciando spazio ad un nuovo diritto, indipendente dal diritto degli stessi Stati e non soggetto ad alcun controllo democratico.

Il CETA sarebbe, sulla carta, un “trattato di libero scambio”. In realtà però prende di mira le normative non-tariffarie che alcuni Stati potrebbero adottare, in particolare in materia di protezione ambientale. A questo riguardo, c’è da temere che il CETA possa dare l’avvio a una corsa a smantellare le norme di protezione. A ciò si aggiungono i pericoli che scaturiscono dal meccanismo di protezione degli investimenti contenuto nel trattato.

Il CETA crea infatti un sistema di protezione per gli investitori tra l’Unione Europea e il Canada che, grazie all’istituzione di un tribunale arbitrale, permetterà loro di citare in giudizio uno Stato (o a una decisione dell’Unione Europea) nel caso in cui un provvedimento pubblico adottato da tale Stato possa compromettere “le legittime aspettative di guadagno dall’investimento”. In altre parole, la cosiddetta clausola ISDS (o RDIE) è in pratica un meccanismo di protezione dei guadagni futuri. E si tratta di un meccanismo unilaterale: nel quadro di questa disciplina, nessuno Stato può, da parte sua, citare in giudizio un’impresa privata.

È chiaro quindi che il CETA metterà gli investitori in condizione di opporsi ai provvedimenti politici ritenuti contrari ai loro interessi. Questa procedura, che rischia di essere molto dispendiosa per gli Stati, avrà certamente effetti dissuasivi già con una semplice minaccia di processo. Al riguardo, non dimentichiamo che, a seguito della dichiarazione della Dow Chemical di voler portare la causa in tribunale, il Québec fu costretto a fare marcia indietro sul divieto di una sostanza, sospettata di essere cancerogena, contenuta in un diserbante commercializzato da questa impresa.

Vi sono inoltre dubbi in merito alla reciprocità: si fa presto a dire che il trattato apre i mercati canadesi alle imprese europee, tanto più che il mercato dell’Unione Europea è già adesso aperto alle imprese canadesi. Ma basta solo guardare alla sproporzione tra le popolazioni per capire chi ci guadagnerà. Al di là di questo, c’è il problema più ampio del libero scambio, in particolare dell’interpretazione del libero scambio che si evince dal trattato. Al centro si trovano gli interessi delle multinazionali, che di certo non coincidono con quelli dei consumatori né dei lavoratori.

I rischi rappresentati dal CETA riguardano quindi la salute pubblica e, senz’ombra di dubbio, la sovranità. Ma ancora più grave è anche la minaccia posta dal trattato alla democrazia. Al momento della sua votazione finale nel Parlamento Europeo, tra i rappresentanti francesi sono stati quattro i gruppi a votare contro: il Fronte di Sinistra, gli ambientalisti dell’EELV, il Partito Socialista e il Front National. Un’alleanza forse meno anomala di quanto sembri, se si prendono in considerazione i problemi sollevati dal trattato. È indicativo il fatto che sia stato rigettato dalle delegazioni di tre dei cinque paesi fondatori della Comunità Economica Europea, e dalle seconda e terza maggiori economie dell’Eurozona. Ciononostante è stato ratificato dal Parlamento Europeo il 15 febbraio 2017, e deve adesso passare la ratifica dei singoli parlamenti nazionali. Nondimeno, è già considerato parzialmente in vigore prima della ratifica da parte degli organi rappresentativi nazionali.

Il CETA è quindi entrato in vigore provvisoriamente e parzialmente il 21 settembre 2017 per gli aspetti riguardanti le competenze esclusive dell’UE, ad esclusione, per il momento, di certi aspetti di competenza concorrente che necessitano di votazione da parte dei paesi membri dell’UE, in particolare le parti riguardanti i tribunali arbitrali e la proprietà intellettuale. Ma anche così, circa il 90% delle disposizioni dell’accordo vengono già applicate. Ciò rappresenta un grave problema politico di democrazia. Come se non bastasse, anche nel caso in cui un paese dovesse rigettare la ratifica del CETA, quest’ultimo resterebbe comunque in vigore per tre anni. È evidente che è stato fatto di tutto perché il trattato fosse formulato ed applicato al di fuori del controllo della volontà popolare.

In effetti questo non è affatto ciò che normalmente si definirebbe un trattato di “libero scambio”. Si tratta di un trattato il cui scopo è essenzialmente imporre norme decise dalle multinazionali ai singoli parlamenti degli Stati membri dell’Unione Europea. Se ciò che si voleva dare era una dimostrazione della natura profondamente anti-democratica dall’UE, non si poteva certamente fare di meglio.

Ciò pone un problema sia democratico che di legittimità di chi si è fatto fautore del trattato. In Francia uno solo dei candidati alle elezioni presidenziali, Emmanuel Macron, si era dichiarato apertamente a favore del CETA. Anche uno dei suoi principali sostenitori, Jean-Marie Cavada, aveva votato al Parlamento europeo per l’adozione del trattato. Si profila quindi nelle elezioni presidenziali, e non per la prima volta nella nostra storia, il famigerato “partito dall’esterno” che a suo tempo (per l’esattezza il 6 dicembre 1978) era stato denunciato da Jacques Chirac dall’ospedale di Cochin…[1]

Prima della sua nomina a ministro del governo di Edouard Philippe, Nicolas Hulot aveva preso nettamente posizione contro il CETA. La sua permanenza al governo, a queste condizioni, ha il valore di un voltafaccia. Come ministro della Transizione Ambientale (sic), non ha sicuramente finto un certo rammarico lo scorso venerdì mattina su Europe 1. Ha riconosciuto che la commissione di valutazione nominata da Edouard Philippe lo sorso luglio aveva identificato diversi potenziali pericoli contenuti nel trattato. Ma ha anche aggiunto: “…i negoziati erano ormai arrivati a un punto tale che, a meno di non rischiare un incidente diplomatico con il Canada, che certamente vorremmo evitare a tutti i costi, sarebbe stato difficile bloccarne la ratifica”.

Questa è una perfetta descrizione dei meccanismi di irreversibilità deliberatamente incorporati nel trattato. Non dimentichiamo inoltre che, prima di essere nominato ministro della Transizione Ambientale, l’ex-presentatore televisivo aveva più volte dichiarato che il CETA non era “compatibile con il clima”. Si può qui immaginare quanto fosse grande la spada che ha dovuto ingoiare: praticamente una sciabola.

Da parte sua, fin dalla sua elezione Emmanuel Macron si è presentato come difensore allo stesso tempo dell’ecologia e del pianeta riprendendo, capovolgendolo, lo slogan di Donald Trump “Make the Planet Great Again”. Ha spesso ribadito questo concetto, sia alle Nazioni Unite che in occasione del suo viaggio alle Antille dopo l’uragano “Irma”. Ma non si può ignorare che il suo impegno a favore del CETA e la sua sottomissione alle regole dell’Unione Europea, che ha comunque registrato un terribile ritardo sulla questione degli interferenti endocrini, dimostrino come non sia decisamente l’ecologia a motivarlo, e che al massimo questa non sia che un pretesto per una comunicazione di pessimo gusto e di bassa lega.

È dunque necessario avere ben chiare le conseguenze dell’applicazione del CETA, oltre alla minaccia che esso rappresenta per la sovranità nazionale, la democrazia e la sicurezza del paese.

[1] Haegel F., « Mémoire, héritage, filiation : Dire le gaullisme et se dire gaulliste au RPR », Revue française de science politique, vol. 40, no 6,‎ 1990, p. 875

il manifesto

Una cartolina da Roma, entrata ieri, con il voto quasi unanime dell’Assemblea Capitolina, tra le circa 5mila città e Regioni europee che si sono dichiarate con un atto ufficiale «libere dal Ceta». È così che l’Italia dei movimenti che si oppongono alle liberalizzazioni commerciali selvagge, ha salutato l’entrata in vigore provvisoria del trattato Ue-Canada.

«Una buona notizia, perché abolisce il 99% delle tariffe doganali canadesi con picchi in alcuni dei settori di punta del nostro export», rivendica il ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda. Peccato che la sua voce si perda in un coro di contrarietà, a partire da quella della segretaria della Cgil Susanna Camusso che ha invece chiesto al Senato, chiamato alla ratifica del trattato a partire dal 26 settembre prossimo, di fermarsi «e di promuovere i necessari approfondimenti, attendendo la verifica del suo funzionamento provvisorio, che siamo sicuri suggerirà di respingere questo trattato per contribuire a un commercio effettivamente equo e sostenibile».

Il Ceta, infatti, prima di entrare completamente in vigore deve essere votato dai due rami di tutti i Parlamenti dell’Unione perché i movimenti sono riusciti a dimostrare che è un trattato di natura mista: fatto cioè di misure commerciali, decise dall’Europa, ma anche di standard e regole che riguardano l’ambiente, la salute, il lavoro, la qualità di prodotti e servizi che non possono essere affrontati senza il benestare dei Parlamenti nazionali. Il Ceta, infatti, va a costituire una ventina di comitati euro-canadesi, i cui membri verranno decisi senza alcun coinvolgimento di noi cittadini, che su richiesta di imprese delle due parti potranno intervenire in autonomia introducendo cambiamenti nella produzione, distribuzione e progettazione di merci e servizi in modo da renderli più facili da commerciare. Se per questo saranno, però, meno amici dell’ambiente o dei nostri diritti nulla importa. Lo spiega il report curato da Greenpeace insieme all’ong americana Iatp, che punta l’indice contro gli «standard europei sotto attacco».

Se il Ceta entrasse in vigore a pieno titolo, introducendo il sistema di ricorso arbitrale (il cosiddetto Investment Court System o Ics) che consentirà agli investitori di citare quegli Stati le cui regole, a proprio giudizio, siano ingiustificatamente restrittive del commercio, le grandi corporation dell’industria conserviera delle carni, ad esempio, potranno denunciare l’Ue e gli Stati membri per i tentativi di espandere le norme sull’etichettatura di origine. Discorso analogo per la pasta e la volontà dell’Italia di introdurre relativa etichettatura d’origine. Il Canada esporta in Italia grandi quantità di frumento, che poi viene trasformato in pasta. Il presidente di Cereals Canada, Cam Dahl, ha fatto intendere la possibilità di adire le vie legali ancora prima che l’Italia avviasse l’etichettatura d’origine per la pasta, affermando di sperare «che l’Italia non faccia questo passo, ma non potendo saperlo dobbiamo essere preparati, sia per un’azione in seno alla Wto, che per misure nell’ambito del accordo commerciale Canada-Ue». Con l’entrata in vigore del Ceta, quindi, iniziative come questa potrebbero essere perseguite in modo permanente, sia a livello di Ue che di Stati membri.

Non è un caso, infatti, che Coldiretti, insieme alle associazioni di consumatori Adusbef, Federconsumatori e Movimento Consumatori, sia tra i principali oppositori del Ceta: «È un regalo alle grandi lobby industriali dell’alimentare che colpisce il vero Made in Italy e favorisce la delocalizzazione, con riflessi pesantissimi sul tema della trasparenza e delle ricadute sanitarie e ambientali», hanno affermato i produttori italiani senza mezzi termini. E insieme alla Campagna Stop Ttip Italia e alle altre organizzazioni è impegnato a mettere sotto pressione scrivendo e raggiungendo su twitter e facebook tutti i senatori italiani perché affidino a un confronto più ampio, e non a una legislatura agli sgoccioli, una decisione responsabile su quale tipo di commercio sia più adatto a difendere i nostri diritti, l’ambiente il lavoro e i legittimi interessi di imprese e cittadini.

Osservatorio Mil€x. (i.b.)

A quanto ammontano le spese militari italiane in un anno, in un giorno, in un’ora? Quanti sono gli effettivi delle nostre Forze Armate? Quanti i comandanti e quanti i comandati? Per acquistare nuovi armamenti (cacciabombardieri, navi militari, blindati e carri armati) quanti miliardi vengono impiegati, ogni anno?

Se non conoscete le risposte il video sottostante, basato sui dati ufficiali elaborati da Osservatorio Mil€x e dai principali centri di ricerca mondiali sulle spese militari, servirà ad esaudire la vostra curiosità. Se invece l’enorme e sbilanciato impatto degli investimenti armati dell’Italia era a voi noto avrete uno strumento in più per diffondere numeri e analisi. In ogni caso, un video da rilanciare!

Noi pensiamo che una valutazione seria ed approfondita della spesa miltiare del nostro Paese sia fondamentale per esercitare un corretto controllo democratico. Una valutazione che non si può condurre senza un lavoro di studio preciso e competente, che necessita tempo e professionalità. Il lavoro che l’Osservatorio Mil€x ha deciso di intraprendere fin dall’inizio e che vi chiediamo di sostenere, per garantirlo anche in futuro. Non è facile occuparsi di questi temi, che per molti dovrebbero continuare a rimanere nascosti, opachi, poco conosciuti. Per qusto motivo abbiamo bisogno del vostro aiuto, possibile anche con il crowdfunding popolare promosso in collaborazione con Banca Etica e Produzioni dal Basso.

Se pensi anche tu che sia fondamentale svelare tutti i segreti delle spese militari italiane è il momento di sostenere Mil€x e tutti i suoi sforzi. Perché nessun altro ti dirà quello che ti diciamo noi, con dati e notizie inedite. E i “soldi armati” continueranno ad essere avvolti da un’opacità inaccettabile.

Vedi qui il video.

Internazionale«Emmanuel Macron ha deciso di farla finita con le protezioni di cui godono i lavoratori francesi. Ma sono conquiste da difendere a ogni costo».

Per le persone comuni le vittorie sono rare. Sempre più rare in questi tempi dominati dal denaro e dagli uomini forti. In Francia, dove mi trovo mentre scrivo queste righe, il presidente Emmanuel Macron ha deciso di farla finita con le protezioni di cui godeva la classe operaia francese. Sono conquiste ottenute a caro prezzo, diritti fondamentali che aiutano i francesi a resistere alle pressioni imposte dal lavoro. Questi diritti comprendono il pagamento degli straordinari e le ferie, due argini contro la pressione esercitata dai datori di lavoro che vogliono incatenare i dipendenti alle loro scrivanie e alle loro macchine.

Macron riceve questi ordini dall’associazione dei datori di lavoro francesi (Medef), che da tempo desidera tagliare i costi derivanti dalla copertura medica e dai sussidi di disoccupazione, distruggere i programmi di tirocinio professionale, i contributi pubblici per l’alloggio e annullare le disposizioni relative al salario minimo. Il Medef si nasconde abilmente dietro a una retorica che esalta il progresso individuale. Non dice, per esempio, di voler tagliare i sussidi di disoccupazione per poter così ridurre i contributi versati. Piuttosto suggerisce che i lavoratori, se smetteranno di contribuire al fondo di sostegno, avranno più denaro a disposizione per i loro consumi individuali. Ma naturalmente questo significa anche che quando saranno disoccupati non esisteranno meccanismi in grado di aiutarli.

Nel progetto di Macron non c’è nessuna volontà di prendere in considerazione le difficoltà delle persone.

Macron, eletto come antidoto al crudele populismo del Front national, ha messo al cuore del suo programma politico la volontà di schiacciare le vite della popolazione francese, in particolare dei lavoratori. Non c’è niente del vecchio liberalismo in Macron, nessun tipo di chiamata patriottica a tutte le classi sociali affinché sacrifichino i loro guadagni per il bene più alto dell’investimento nazionale francese in infrastrutture e sviluppo sociale. Nessun invito alle grandi aziende o alle élite francesi a pagare più tasse o ad accettare minori profitti, nessuna volontà di prendere in considerazione le difficoltà delle persone in un’epoca d’insicurezza economica e caos culturale.

Niente di tutto questo. Il suo programma è scritto da economisti convinti della vecchia idea che la crescita debba farla da padrone assoluto, e che liberare gli istinti animali del capitalismo, facendola finita con le protezioni sociali dei lavoratori, permetterà alla sonnacchiosa economia francese di ripartire di slancio.

Ma è qui che le cose si fanno interessanti. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha osservato più da vicino le riforme di Macron e ha notato che queste non sarebbero in grado di avere un impatto significativo sui tassi di crescita. Farebbero sicuramente crescere il prodotto interno lordo francese (pil) dello 0,4 per cento nel prossimo decennio, ma si tratterebbe di un aumento minuscolo rispetto ai costi sociali che la popolazione dovrebbe affrontare.

Al governo Macron restano altri strumenti, ma i suoi pregiudizi contro i prestiti di stato, alimentati dal Fondo monetario internazionale, gli impediscono di andare in questa direzione. Per esempio, con dei tassi d’interesse effettivi a zero e una bassa inflazione, il governo potrebbe facilmente prendere a prestito del denaro per finanziare gli investimenti e favorire la situazione dell’impiego (visto che i tassi di disoccupazione sfiorano il 10 per cento). Ma il pregiudizio contro l’idea che lo stato s’indebiti per generare crescita economica è così forte che Macron non ha nemmeno preso in considerazione l’idea.

Il conto lo pagano i lavoratori

Ancor più offensivo è sostenere che lo stato francese non possa usare altro denaro per rimpinguare i vuoti bilanci dei programmi sociali per i suoi cittadini. Quasi un decennio fa, durante la crisi finanziaria, lo stato francese si è affrettato a trovare più di 360 miliardi di euro da regalare alle banche private. “Non dobbiamo rinunciare ad alcuna misura in grado di evitare un inasprimento della crisi”, dichiarò all’epoca Nicolas Sarkozy. Ma la crisi dei cittadini francesi non viene affrontata con analoga urgenza. Saranno loro a essere costretti a pagare per sostenere delle istituzioni sociali al collasso, come pensioni e previdenza sociale.

Non c’è posto, nella Francia di Macron, per una discussione sulla stagnazione economica. A pagare il conto saranno chiaramente i lavoratori francesi, ai quali si continueranno a chiedere sacrifici per tenere a galla una nave che va a fondo.

Se le riforme sono state bloccate nel 2016, perché lo stesso non dovrebbe accadere nel 2017.

Nella piccola città della Francia meridionale in cui mi trovo, guidata da una giunta comunista, le persone reagiscono con un’alzata di spalle al corso degli eventi. La speranza diffusa è che le proteste che hanno avuto luogo nelle grandi città, come Parigi, fermeranno Macron. Lo scorso anno centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in Francia per bloccare le riforme proposte dall’allora presidente della repubblica François Hollande. I raduni notturni a place de la République, a Parigi, hanno spinto Hollande a ridimensionare la riforma, di fatto minando la sua carriera politica.

La tentazione di spedire i corpi antisommossa della polizia ai sensi delle leggi sullo stato d’emergenza era forte, ma Hollande ha capito la situazione. Si è ritirato e il suo protetto Macron è salito alla ribalta. Queste alzate di spalla non sono quindi immotivate: se le riforme sono state bloccate nel 2016, perché lo stesso non dovrebbe accadere nel 2017?

Ma oggi la situazione è così spiacevole che Hollande ha criticato Macron per gli “inutili sacrifici” imposti da queste riforme del lavoro.

Alcune persone temono che se Macron e il Medef andranno avanti sulla loro strada, si velocizzerà anche l’impoverimento della popolazione francese e con esso l’ascesa del fascisteggiante Front national. I principali oppositori alla legge sul lavoro non sono il Front national ma il sindacato di sinistra della Cgt e i partiti politici di sinistra. Sono loro ad aver lanciato un appello per la manifestazione del 12 settembre, cui hanno partecipato molte persone, e del prossimo 23 settembre. Anche se la sinistra si è dimostrata efficace nella sua opposizione a queste riforme neoliberiste, non è stata altrettanto capace di trasformare questa opposizione in vantaggi elettorali. Il politico di sinistra Jean-Luc Mélenchon è visto più come un uomo di protesta che di governo. “Mélenchon è in prima fila nelle proteste”, dice Fréderic Dap dell’Istituto francese di opinione pubblica (Ifop), “ma non è visto come un’alternativa concreta” alla presidenza Macron. E questo rappresenta una grande debolezza per la sinistra.

Il partito di Mélenchon dispone di appena 17 parlamentari sui 557 che siedono nel parlamento francese. Possono fare rumore, ma non saranno in grado di definire il futuro corso degli eventi.
Una protesta organizzata da alcuni sindacati francesi contro la riforma del lavoro a Marsiglia, il 12 settembre 2017.

Intanto in India

Nel frattempo a Sijkar, nello stato del Rajastan, i contadini guidati dal movimento All India Kisan Sabha hanno portato avanti un’ininterrotta lotta di 13 giorni contro il governo per ottenere delle riforme fondamentali. È stata una lotta difficile, nella quale repressione poliziesca e indifferenza mediatica hanno cercato di soffocare la volontà dei manifestanti. Ma i contadini hanno vinto. Questi volevano semplicemente che il governo mettesse in pratica le raccomandazioni della commissione Swaminathan, creata per aiutare il governo a evitare ulteriori suicidi di agricoltori (a oggi più di trecentomila tra loro si sono suicidati per motivi direttamente legati alle riforme agricole di natura neoliberista).

Questi agricoltori, che esibivano la bandiera rossa di Kisan Sabha e del movimento comunista, sono ricorsi alla tattica del mahapadav (sit-in) per bloccare le attività del governo e paralizzare lo stato. Il governo non aveva scelta. Non potevano semplicemente uccidere la maggior parte dei contadini. Dovevano negoziare e, dal momento che gli agricoltori sapevano il fatto loro, hanno dovuto cedere alle loro richieste. Kisan Sabha ha suggerito che questa vittoria potrebbe “dare forza a simili lotte nel resto del paese”.

Forse se i lavoratori francesi verranno a conoscenza di questa battaglia e del suo esito positivo, potranno trovare nuove motivazioni per la loro lotta. La cosa potrebbe aiutarli a far capire ai loro dirigenti che nessun paese può crescere cannibalizzando i propri cittadini.

(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sul sito Alternet.

Huffington post,

Leggo oggi sul Corriere della sera che: "Fra un paio di giorni, quando sarà rientrato dalla Palestina, Roberto Speranza convocherà un tavolo con Sinistra Italiana, Pippo Civati e il movimento di Anna Falcone e Tomaso Montanari". Mi sono sempre chiesto se non esista una relazione tra il fatto che la Sinistra sia ridotta ad un fantasma e il fatto che per materializzarla si usi un "tavolo". Ma di certo ogni elettore di buon senso che legga una frase come quella trascritta penserebbe di trovarsi di fronte a liturgie ermetiche e remote, e si allontanerebbe ancora un po' dalla "politica politicata".

Il paradosso di questi immaginari riti segreti è che essi nascondono, nel discorso giornalistico, la realtà concreta di un percorso pubblico, invece sistematicamente ignorato. Qualcuno ha forse letto sul Corriere (o anche altrove, per carità) che migliaia di persone si stanno riunendo, in piazze e teatri di tutta Italia, per discutere di una sinistra che ancora non c'è, ma che sta lentamente prendendo forma? È il percorso partito il 18 giugno dal Teatro Brancaccio (che non è un movimento e non è di qualcuno), e che continua a snodarsi per l'Italia: in tutto ottobre ci saranno assemblee tematiche, e a novembre una grande assemblea romana che restituirà al paese un progetto di inclusione, eguaglianza, giustizia sociale. Un programma che suggerisca come si può attuare la Costituzione.

Chi partecipa a questo percorso? Cittadini senza tessere, singoli membri di associazioni, movimenti, sindacati (dall'Arci a Libera all'Anpi a Libertà e Giustizia alla Cgil e via elencando...), cattolici e laici, e anche ex elettori del Pd e dei Cinque stelle, o astenionisti impenitenti. E poi tanti iscritti (e dirigenti) di Sinistra Italiana, Possibile, Rifondazione, Mdp, l'Altra Europa, Diem e ancora altri partiti o movimenti.

Cosa unisce questo mondo variopinto, che nessun tavolo potrebbe per fortuna contenere? Due semplici cose: la consapevolezza che è necessario invertire drasticamente la rotta del paese; e la volontà di farlo costruendo una nuova sinistra, dal basso. È di questo che si discute, in quelle piazze e in quei teatri, intrecciando il discorso sulle cose, al discorso sul metodo. Inevitabilmente: perché nessun modo vecchio può far nascere una nuova politica capace di rinnovare l'Italia.

È, con ogni evidenza, un percorso culturale e politico di lungo periodo. Ma tutti coloro che partecipano hanno ben chiaro il fatto che non possiamo permetterci che nel prossimo Parlamento tutto questo non sia rappresentato.

Si tratta dunque di provare a costruire anche una lista. E perché ci sia una possibilità di successo, ci vuole una lista unica a sinistra. Ma non una lista arcobaleno fatta sommando sigle a un tavolo, bensì una lista aperta, insieme poltica e civica: costruita un po' come quelle che si sono imposte in tante città italiane. E cioè nelle piazze, nella trasparenza, nella partecipazione.

Come si fa, in pratica? Per esempio con una grande assemblea nazionale, eletta (con un sistema proporzionale: lo stesso che vogliamo per le elezioni politiche) da tutti i cittadini (con tessera e senza tessera) che si riconoscano in questo orizzonte comune. E affidando a questa assemblea tutte le decisioni: programma, liste, nome, della lista, leadership (che io credo debba essere plurale). Senza alcuna imposizione, senza alcuna scelta presa a priori. Tutto il contrario di un tavolo (che infatti nessuno ha convocato, per giovedì o per altre date): il dialogo con Roberto Speranza esiste fin da prima del 18 giugno e prosegue, come quello con tutti i diversi attori di questo processo.

I nodi sono tutti ben noti (in sintesi estrema: sinistra o centrosinistra; Pisapia leader designato o elezione democratica di una leadership; modello coalizione con primarie o modello lista civica dal basso), ed è altrettanto noto che se non si sciolgono non è possibile fare una lista unitaria. Ed è per questo che il dialogo continua, e continuerà: ma senza "tavoli", "convocazioni" e altri riti del passato.

La domanda è una sola. Alle prossime elezioni ci sarà la Destra, il Movimento 5 stelle guidato da Di Maio, e il Pd di Renzi. Vogliamo o no che esista un quarto polo: la Sinistra? Non un "centrosinistra" che denunci fin da quella incomprensibile (quale sarebbe il centro?) etichetta una sua insufficienza, prima culturale e poi politica: ma una Sinistra, anzi la Sinistra, unita e determinata a cambiare il paese.

La risposta di tutti coloro che partecipano al percorso iniziato al Brancaccio è un forte sì. Forte come il no che ha bocciato la riforma costituzionale, riaprendo lo spazio del conflitto sociale, unico motore possibile del cambiamento.

Dunque, chi vuole capire se una nuova sinistra può nascere, deve andare nelle piazze, non aspettare tavoli e convocazioni. Perché, in una nuova politica, il discorso pubblico e il discorso privato sono identici. E perché questa nuova politica non può che nascere dal basso, non dall'alto. Come ha scritto Emilio Lussu: «La Costituzione è cosa morta, se non è animata dalla lotta. E anche quando siamo stanchi e vicini alla sfiducia, non c'è altro su cui fare affidamento. Rimettersi all'alto è capitolazione, sempre».

il manifesto

Centro-sinistra sì, centro-sinistra no, alleanza con il Pd, alternativi al Pd, coalizione con Renzi, mai con l’ex presidente del consiglio, e cosi continuando. La discussione a sinistra, come al solito, è desolatamente appiattita sugli schieramenti.

E naturalmente sulle schermaglie tattiche, sui posizionamenti in vista della campagna elettorale. La vita delle formazioni politiche – chiamiamole così – gira esclusivamente intorno a questo torneo, come squadre di calcio il cui unico compito è di affrontare il campionato. Eppure, basterebbe guardare ai contenuti, alle scelte programmatiche per rendere più chiare e dirimenti le scelte di schieramento.

Consideriamo il programma della manovra economica del governo Gentiloni. A detta dello stesso presidente del consiglio essa è «in linea con quelle che l’hanno preceduta». Ce n’eravamo accorti. Dopo i 18 miliardi e passa di euro generosamente elargiti alle imprese in tre anni dal governo Renzi, ora ci si prepara a replicare un fallimento lungamente sperimentato. Di nuovo agevolazioni fiscali e incentivi a chi assume, di nuovo si pompa l’economia dal lato dell’offerta a suon di denaro sottratto alla fiscalità generale e dunque agli investimenti pubblici.

Sì, certo, nella manovra ci sono le invenzioni clientelari di contorno: l’«assegno di ricollocazione» con cui si cerca di sistemare «attivamente» disoccupati e cassintegrati o il «Reddito di inclusione attiva», con cui si dovrebbe coprire una platea di 1 milione e 800 mila individui con un assegno oscillante tra 190 e 485 euro mensili.

Gocce nel mare della disperazione sociale. Mentre per il Mezzogiorno si pensa addirittura alle «Zone economiche speciali» con facilitazioni fiscali e semplificazioni di procedura per i giovani che avviano imprese e naturalmente per le multinazionali che dovrebbero essere attratte da ulteriori condizioni di favore. Come se non bastassero i bassi salari dei lavoratori italiani e la loro piena disponibilità da parte delle imprese. Evidenti palliativi di sostanza ma che consentono al governo e al Pd una narrazione di impegno sociale elettoralmente utile.

Ora, per cortesia, un po’ di storia. Intanto osserviamo i brillanti risultati, a tutti noti, in termini di occupazione, soprattutto giovanile, tralasciando il processo di precarizzazione che è dilagato nel mondo degli occupati. Questa politica di agevolazione fiscale alle imprese è la vecchia supply-side economics, l’economia del sostegno all’offerta, una invenzione del pensiero neoliberistico. E non esprimiamo una idisioncrasia intellettuale. Parliamo sulla base di prove storiche.

L’amministrazione di G. W. Bush, ad esempio, ha tagliato, in due trance di ben 1025 miliardi di dollari le tasse ai ricchi degli Usa, senza che tanta generosità si traducesse in nessun modo in slancio dell’economia americana. E soprattutto dell’occupazione. I ricchi privati, ha ricordato James Galbraith – che ha ribattezzato la teoria supply-side failure – «hanno risposto punteggiando il paesaggio di case signorili». Hanno cioè investito nella rendita e nel lusso.

Ma questa politica – praticata nel mondo da gran parte dei governi nell’ultimo trentennio – rappresenta uno degli assi strategici, forse il più rilevante e decisivo, che ha condotto alla Grande Crisi del 2008. Essa ha prodotto un gigantesco trasferimento di ricchezza dai ceti popolari alle classi abbienti, ha generato le abissali disuguaglianze che abbiamo sotto gli occhi e che attanagliano nella stagnazione l’economia mondiale. Da noi, per soprammercato, alimenta un enorme debito pubblico.

Continuare su questa linea, come fa oggi il governo Gentiloni, ha delle conseguenze rilevanti. Se i soldi vanno alle imprese scarseggiano per un grande programma di ristrutturazione del territorio, non ci sono per la ricerca e l’Università, per le borse ai giovani bisognosi che rinunciano a proseguire gli studi, non ci sono per i comuni che non riescono a garantire i servizi essenziali, non ci sono per gli investimenti nel nostro Sud.

Il nobel Paul Krugman, nel 1998, sosteneva a proposito della teoria dell’offerta che «Gli errori economici non muoiono mai: nella migliore delle ipotesi, si affievoliscono lentamente». E c’è ovviamente del vero. Ma poiché noi non crediamo, nel nostro caso, nella capacità del nostro ceto politico di elaborare teorie economiche, riteniamo che le opzioni del governo Renzi (Jobs Act, abolizione dell’Imu sulla prima casa, ecc) e quelle attuali di Gentiloni siano una deliberata strategia di classe.

Il Pd ha scelto con piena consapevolezza di insediarsi socialmente, di fondare i propri consensi negli interessi del mondo imprenditoriale e della finanza. Punto.

Tutto il resto è manovra propagandistica per mantenere un po’ di consenso nel vecchio blocco popolare su cui si fondava il Pci. È di questo che si dovrebbe discutere, delle conseguenze di tale strategia per il destino del paese e scegliere da che parte stare.

L'Espresso, « In un mondo in preda a populismi e caos la Merkel si prepara al quarto mandato rassicurando i tedeschi e l'Ue con la "letargocrazia".


Se prestiamo fiducia ai manifesti elettorali attaccati dai silenziosi iscritti dei partiti su ogni superficie libera da Greifswald sino giù a Berchtesgaden, la prossima settimana si dovrebbero tenere nella Repubblica Federale le elezioni per il nuovo Parlamento di Berlino. Una data di cui ci si ricorderà con qualche tecnica mnemonica, dato che nulla lascia presagire che ci attendano elezioni significative o che gettino la politica tedesca, la cancelleria o le prossime coalizioni di governo in acque più agitate. Persino il termine "campagna elettorale" suona come una citazione d'altri tempi. E la parola "decisione" come un ghirigoro su una vecchia carta da parati.

Certo, la televisione, affiancata dagli altri media, fa quel che può per alimentare una certa tensione, e i soliti sospetti si danno il cambio davanti alle telecamere declamando i loro copioni. Ma nel pubblico non c'è nessuno che abbia il sentimento che alle elezioni del 24 settembre vi siano in gioco differenze essenziali. Tutti i segnali danno invece via libera alla continuità. A parte alcuni radicalismi verbali della sinistra estrema o dei Verdi, i portavoce dei partiti fanno a gara per strapparsi di bocca gli argomenti più razionali. E mentre in Francia la politica si ringiovanisce in modo drammatico, negli Stati Uniti ci si concede una stagione nel Caos, in Italia - come al solito - ci si dà all'improvvisazione, in Polonia e Ungheria ci si avventura più a fondo nel tunnel dell'isolamento nazionale, la Germania resta quel che è stata nei decenni scorsi: una Potenza tranquilla.

In questo autunno 2017 la Germania fa tornare in mente la formuletta con cui un tempo alla scuola guida si spiegava una regola decisiva del traffico stradale: "La precedenza spetta a chi si trova sulla rotatoria". Da 12 anni, su tutto il traffico tedesco, domina una Kanzlerin decisa, a quanto pare, a restare nella sua corsia sino al compimento del 16° anno. Nessun osservatore della scena berlinese dubita che il prossimo 24 settembre lei non reclami la precedenza assoluta. L'unica questione aperta è se toccherà ai liberali della Fdp, guidati da Christian Lindner, il loro quasi carismatico capo, formare una nuova coalizione, o se la Kanzlerin dovrà arrangiarsi ancora con i socialdemocratici, seguendo il modello del primo (2005-2009) e del terzo (2013-2017) governo Merkel.

È evidente che una variante "nero-gialla", un governo cioè della Cdu e Fdp, sia politicamente più "interessante" della ripetizione della coalizione "nero-rossa". Ma è proprio la questione di ciò che sia ancora "interessante" nella politica tedesca che si rivela come la croce che non può essere compresa senza il Fattore-Merkel. Rientra nei connotati psico-sociali dell'era Merkel il fatto che la cancelliera abbia estirpato all'elettorato il senso di ciò che è politicamente "interessante" (o di ciò che un tempo si sarebbe forse definito "progressivo"). Già nell'era Adenauer l'Unione cristiano-democratica mieteva successi con lo slogan alquanto filisteo : "Keine Experimente", Nessun esperimento. Una tesi che venne poi ricopiata dal Vaticano e posta a fondamento dei suoi pronunciamenti di etica sessuale. Resta sorprendente che all'inizio del terzo millennio, in un mondo estremamente dinamico, alla Signora Merkel sia riuscito di risvegliare una tendenza avversa agli esperimenti.

Per comprenderne il fenomeno occorre tener presente che la Merkel ha introdotto nel gioco politico alcuni fattori senza i quali non è possibile spiegarne il successo. La Kanzlerin è la prima persona a capo di uno Stato ad essersi servita della forza politica della Noia: una noia che Merkel combina con le sue oscillazioni producendo una miscela alquanto strana di affidabilità e imprevedibilità. A quanto pare è proprio questo curioso legame a convincere la maggioranza dell'elettorato tedesco. Se in Germania si potesse eleggere direttamente il cancelliere infatti, una maggioranza-Merkel sarebbe garantita sino al 2030. Sono i momenti di volatilità nel comportamento della Merkel a dar l'impressione che a Berlino si governi in modo molto deciso. I momenti di noia d'altro lato suscitano l'impressione che non ci si debba preoccupare più del necessario; mentre la naturale resistenza della popolazione alle profonde trasformazioni si rispecchia nell'apparente inerzia del governo di Berlino.

Questo stile di governo della Merkel è già stato definito "Letargocrazia", termine che caratterizza sia la lentezza dei suoi riflessi politici che la mancanza di profilo. "Letargocratico" è l'uso insistente che la Merkel ha fatto dell'arma della Noia, con cui ha indotto una parte consistente dei tedeschi a non interessarsi più di tanto delle questioni politiche. Allo stesso scopo punta anche la calcolata ingenuità della sua lingua che ha bandito ogni accenno di creatività, e ogni prontezza di spirito, dagli affari della politica. Il modo di presentarsi in pubblico della Merkel - i suoi gesti, i vestiti, il taglio dei capelli... - sono tutti elementi di una retorica della modestia. Lei sorride anche a chi è così ingenuo da sottovalutarla. Né è plausibile crederla vanitosa. Persino il suo rivale è pronto a credere che lei non sprechi un istante a chiedersi come apparirà sulla passerella del potere. Anche lo spietato candore con cui sinora ha respinto sullo sfondo tutti i suoi possibili rivali, eguale se uomini o donne, rientra nelle linee della sua letargocrazia.

Ma il suo capolavoro Merkel lo ha realizzato penetrando negli anni nel cuore del territorio del suo avversario per diffondervi la suggestione che siano in realtà i suoi cristiano-democratici i migliori socialdemocratici. Per meglio rendere questo effetto è stata disposta anche ad estraniarsi l'ala destra del partito. Una parte di questi conservatori è poi migrata in un nuovo movimento che, ironicamente, si chiama "Alternativa per la Germania", ma che de facto non offre un'alternativa se non alle frange di destra più frustrate dell'Unione di Cdu e Csu, e a un variegato popolo di falliti, semifalliti e amanti di frasi, gesti e assurdità varie col tricolore "nero-rosso-oro". Di sicuro non è l'emigrazione di questa gente a rubare il sonno alla Merkel: lei sa che con la sua strategia guadagna più voti al centro di quanti ne perda a destra. Con la Merkel, insomma, tramontano per sempre i tempi in cui i Cristiano-democratici fungevano da rifugio d'emergenza a vecchi nazisti o a neo-nazionalisti. E di sicuro la maggior parte dei tedeschi del 2017 non indovina più ciò a cui pensava Franz Joseph Strauß quando (presumibilmente negli anni '70) coniò lo slogan: «Più a destra di noi c'è solo il muro», cioè nessuno.

Per questo negli ultimi tempi il Fenomeno Merkel viene seriamente studiato dalle scienze politiche. Sulla scorta della sua persona una parte di questi teorici indaga la questione della cosiddetta "Egemonia involontaria". In effetti è difficile negare che la Germania, senza davvero averla ambita, si è ritrovata in una posizione egemonica all'interno d'Europa. Da Konrad Adenauer a Willy Brandt, e da Helmut Schmidt sino a Helmut Kohl la costante della politica tedesca stava nel togliere ai vicini europei il timore di una rinnovata Potenza Germania. Da questo punto di vista Angela Merkel è da considerarsi senza dubbio come una fortuna: nella sua personalità non si può trovare assolutamente nulla che rimandi a una nevrosi di stampo nazionalistico. Lei rappresenta anzi l'incarnazione della costante ricerca, libera da ogni megalomania, del compromesso tra gli interessi tedeschi e quelli dei nostri vicini. In questo senso lei è l'anti-Berlusconi, l'anti-Putin, l'anti-Erdogan, l'anti-Kaczynski, l'anti-Orbán e l'anti-Trump in una persona sola. Non occorre essere un fine troubadour per percepire tutto il benefico effetto di questa sua contrapposizione al patologico machismo della politica attuale.

Politologi e strateghi ne presentano d'altra parte un bilancio più critico: per alcuni di loro Angela Merkel riveste un ruolo di primo piano nella storia della depoliticizzazione della politica. Ad alcuni analisti – come Heiner Mühlmann ha evidenziato di recente in un saggio sulle pagine della "Neue Zürcher Zeitung" – il suo Quasi-Matriarcato appare come una mossa fatale di quell'altro metodo che gli analisti chiamano "demobilitazione asimmetrica".

Che essenzialmente consiste nello spruzzare sulla scena politica tanto di quel cloroformio sino a quando la maggior parte della popolazione non sia crollata in uno stato di dormiveglia. La norma ovviamente è di anestetizzare più a lungo possibile specie il campo dell'avversario; e, almeno sotto elezioni, di consentire ai propri seguaci di risvegliarsi più in fretta dei rivali.
Se tutto va secondo i piani, gli ammiratori di Angela Merkel si risveglieranno il 24 settembre abbastanza decloroformizzati per rivotare lei e il suo partito. Gli avversari invece si riprenderanno probabilmente troppo tardi dalla loro anestesia. Tutto fa pensare quindi che presto ne sapremo di più di un quarto governo della Merkel.

Traduzione di Stefano Vastano

Avvenire,

IUS CULTURAE,
CREDERE NELL'ITALIA E NEI SUOI FIGLI.
DIAMO UNA LEGGE A PRESENTE E FUTURO
di Marco Tarquinio

Chi e perché vuol mettere paura agli italiani? Chi e perché prova in tutti i modi a istillarci l’idea che la nostra civiltà non sia più buona né “contagiosa”? Chi e perché vuol farci vivere nella chiusura e nella grettezza, in modo da non generare più figli, né dai nostri lombi né grazie alla nostra cultura e al nostro spirito? Chi vuol convincerci che la cittadinanza sia un immeritato stato di grazia, ereditato come una cosa, e non una conquista e riconquista, fatta di diritti e doveri onorevoli e onorati? La lista potrebbe essere lunga. Ma qui, oggi, comincia e finisce con coloro che avversano la nuova legge sulla cittadinanza, già votata alla Camera e ferma al Senato. E dibattono non per migliorarne questa o quella previsione, ma per impedire del tutto la normativa sullo ius culturae e sullo ius soli temperato (nessuno, cioè, diventerebbe mai italiano per il solo fatto di nascere nel Bel Paese…). Una battaglia condotta, purtroppo, per calcolo politicante, con manifestazioni di aperta xenofobia e rimettendo in circolo pregiudizi colmi di vergognoso e sempre meno celato razzismo.

Eppure quanti sono nati in Italia o in Italia sono arrivati da bambini e pensano e parlano italiano, coloro che crescono e studiano qui, condividendo la nostra cultura e le nostre regole di cittadinanza, assimilando i nostri costumi, e appartengono a famiglie di origine straniera ma residenti in questo nostro Paese con permesso permanente o di lungo periodo (e, dunque, sono figli di persone che qui lavorano, pagano tasse e contributi, e non hanno guai con la giustizia) non sono candidati all’italianità, sono già italiani. Non si tratta di concedere nulla, e tantomeno di regalare qualcosa. Si tratta di riconoscere per legge una realtà, vera, importante e buona. Si tratta di rendersi conto che mantenere in una sorta di limbo un bel pezzo della generazione dei nostri figli è un atto di cecità e di ingiustizia. E che farlo per presunto calcolo politico-elettorale è una piccineria umana, una miseria morale e, insieme, una scelta pratica imprevidente e imprudente.

Lungo questa estate 2017, dopo l’editoriale del 17 luglio scorso intitolato «Questa legge s’ha da fare», dedicato appunto allo ius culturae, questo giornale ha dato il via a una campagna informativa semplice e rigorosa. Mentre tanti politici – e purtroppo anche non pochi (dis)informatori – hanno continuato a diffondere slogan e favole cattive contro i nuovi italiani, noi invece abbiamo dato loro volto, pubblicando ogni giorno per due mesi quelle che, in dialogo con alcuni lettori, ho definito «parole di carne e sangue, di anima e di cuore, di sudore e di intelligenza». Non pure opinioni, ma storie di vita. E cioè attese e speranze, fatiche e impacci, traguardi e ricominciamenti di giovani che sono italiani non per tradizione, ma per formazione, per adesione, per maturata convinzione. Persone con radici familiari, culturali e religiose in Asia, in America, in Africa o in altre porzioni d’Europa eppure partecipi della nostra cultura, perché la vivono e le vivono dentro. Non sono tutti uguali, non tutto è sempre lineare nelle loro vicende, non sono perfetti, ma sono persone perbene come, fino a prova contraria, ogni altro figlio di questa terra e della civiltà dell’incontro che la fa speciale da secoli, anche grazie alla sua sinora aperta e salda identità cristiana.

Sono loro, guardateli, su questa prima pagina piena di facce pulite e vere. Sono loro, anche se qualcuno quelle facce continua a scarabocchiarle e distorcerle per trasformarle in quelle di orchi e mostri e terroristi (che esistono anche nella realtà, ma non sono tutta la realtà). E sono proprio loro a essere tenuti nel limbo di una non riconosciuta cittadinanza – cioè di un non pieno e giusto equilibrio tra diritti e doveri nel far parte di una comunità civile dentro la misura delle sue leggi. Guardateli bene, sono loro. E, nonostante qualcuno – mentendo – gridi il contrario, non sono affatto i migranti dell’ultimo approdo dal mare sulle nostre coste, uomini e donne che portano un’altra croce e ben diverse domande di solidarietà e di giustizia.

Guardateli ancora, sono loro quelli e quelle a cui si vorrebbe dire, e già si dice: “No, tu non sei dei nostri, non ti conosco e non voglio riconoscerti”. Oppure e, per certi versi, è quasi peggio: “Sei dei nostri, è vero; ma non è l’ora di dichiararlo, perché più della tua vita mi interessano le percezioni di altri che di te non si fidano per via della tua pelle, per il Paese dei tuoi genitori o nonni, per la tua maniera di pregare…”. Atteggiamenti e propagande sprezzanti che umiliano la loro italianità, e il legittimo sentimento di appartenenza che ne discende, e che sembrano “strillati” apposta per generare in vecchi e nuovi italiani quei reciproci sentimenti di esclusione e di estraneità che portano a speculari ri-sentimenti. Sguardi cattivi e atti di respingimento e marginalizzazione non generano altro che sofferenza e ostilità, picconano ogni patto civile, minano la solidarietà. Un’imprevidenza incredibile, un’imprudenza grave.

Eppure i nuovi italiani sono e restano parte integrante di una generazione di giovani concittadini che non possiamo permetterci di perdere e disperdere. Sono parte integrante di un patrimonio di umanità, una ricchezza d’Italia. Dipende da noi, anche con una legge giusta e finalmente tempestiva, farli essere e sentire continuatori e interpreti del nostro grande passato e protagonisti del presente e del futuro comuni. Insieme.

JUS CULTURAE. FALSE CREDENZE
E SPECULAZIONI PER FERMARE
LA RIFORMA ATTESA
di Paolo Lambruschi

Le fake news, hanno inquinato anche il dibattito sulla riforma della cittadinanza sulla stampa, in tv e sui social media mescolando i piani. Proviamo a vederne alcune.

Effetto calamita. È stato detto che la legge in discussione – che prevede l’introduzione dello ius soli temperato e dello ius culturae – qualora approvata provocherebbe un aumento degli sbarchi attirando torme di disperati e soprattutto di donne in procinto di partorire. Ma la legge arenatasi al Senato non prevede alcun diritto incondizionato alla cittadinanza a chi nasce sul suolo italiano. Colpa in verità anche della politica e di chi abbrevia il dispositivo chiamandolo ius soli come se questo fosse "puro", all’americana. La riforma prevede invece che vi sia uno ius soli temperato applicato a chi nasce in Italia figlio di almeno un genitore regolarmente residente e con permesso di soggiorno di lungo periodo (in Italia da almeno 5 anni). Lo ius culturae inoltre assegna la cittadinanza ai minori non nati in Italia, ma che vi sono arrivati entro i 12 anni di età a patto che vi compiano un intero ciclo di studi e almeno cinque anni sui banchi di scuola. Il provvedimento riguarda l’immigrazione stabile, regolare e stabilizzata. Restano esclusi quindi i richiedenti asilo e protezione umanitaria e chi ha un soggiorno di breve periodo.

Italiani veri mai. Tradotto Il senso è: essere figli di regolari lungo soggiornanti e compiere un ciclo scolastico non basta a rendere cittadini. Questo significa mettere in discussione anzitutto la scuola che non sarebbe in grado di integrare i nuovi arrivati insegnando loro i valori della Costituzione. La realtà di tutti i giorni pare ben diversa. E tra i Paesi europei partner e concorrenti le regole non sono più severe. In Francia, che adotta lo ius soli, ogni bambino nato sul territorio da genitori stranieri diventa francese al compimento di 18 anni se ha vissuto stabilmente nel Paese per almeno 5 anni e se dimostra di condividerne cultura e valori. In Germania diventa cittadino senza presentare domanda chi vi nasce a patto che almeno uno dei genitori risieda regolarmente nel Paese da minimo 8 anni. In Spagna, paladina dello ius sanguinis, per diventare suddito di re Felipe a chi vi nasce, se figlio di stranieri, occorrono dieci anni di residenza.

Sicurezza in pericolo. I cani sciolti dello stato islamico che hanno colpito in Europa in questi ultimi anni erano spesso immigrati di seconda generazione divenuti cittadini. Ma stiamo parlando di Paesi con un passato coloniale ben più lungo e articolato del nostro e quindi con rapporti diversi con un’immigrazione molto più vecchia e che hanno scelto modalità evidentemente sbagliate di integrazione lasciando crescere ghetti fuori controllo sorti nei decenni scorsi. Il problema è il legame tra terrorismo e mancata integrazione, la cittadinanza non c’entra.

Neo italiani in massa. Ci sarà un impatto, ma in prospettiva. Il provvedimento riguarda potenzialmente circa 800mila persone, dei quali 600mila circa alunni delle scuole italiane. Poi, secondo l’elaborazione della Fondazione Leone Moressa su dati Istat e Miur, saranno naturalizzati quasi 60mila nuovi italiani ogni anno. Diventerà italiano un minore su otto. Per contro la popolazione residente attesa per l’Italia secondo previsioni Istat calerà di 2,1 milioni di residenti nel 2045 e di 7 milioni nel 2065. Quadro che avrebbe parziale sollievo dalle naturalizzazioni e da altre migrazioni.

Invasione islamica. Sempre la laicissima Fondazione Moressa stima che due nuovi italiani su tre saranno cristiani.

Cittadinanza obbligata. L’acquisto della cittadinanza italiana continuerà a non essere automatico, ma a realizzarsi con una dichiarazione di volontà espressa o da parte di un genitore entro il compimento della maggiore età o dallo stesso soggetto entro i 20 anni. Il giovane può dunque rinunciarvi.

La riforma non cambia nulla. Le storie che abbiamo raccontato in questi ultimi due mesi rivelano che in molti casi invece la burocrazia italiana e quella del Paese di origine ostacolano l’iter per presentare la domanda in tempi utili e rallentano la risposta. Se la riforma muore, i semi-cittadini continueranno a restare in un inutile limbo.


Siamo ancora ben lontani dal riconoscere a chi è nato in un sito di avere in quel sito la propria patria, e godere degli stessi diritti degli altri. Siamo ben lontani dal riconoscere la diversità delle culture una ricchezza. Per godere della legge occorre soddisfare una serie di condizioni che a me, a te, a lui e a lei che siamo nati e registrati qui non sono richiesti. Se si è stranieri (cioè nati da genitori non italiani) bisogna aver frequentato per almeno 5 anni una scuola italiana. Devi essere stato promosso. La domanda deve essere presentata d un genitore che non sia un “clandestino” né un senza casa.

il manifesto

Ho una profonda stima per la persona e il lavoro di Luigi Manconi. Nel suo bellissimo Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica egli scrive: «Tra le molte contraddizioni della mia azione politica, una appare forse come più stridente. Ovvero che faccio quello che faccio e penso quello che penso, pur rimanendo nel Pd … Per ora penso che vi sia ancora spazio per condurre conflitti interni e per utilizzare proficuamente la forza, le risorse e la platea di un “partito largo”». «Per ora», scriveva Manconi in un libro uscito nel marzo 2016.

Un anno e mezzo dopo, dopo la repressione securitaria attuata da Marco Minniti, perfino Gad Lerner, per Manconi una sorta di «fratello minore» ha infine restituito la tessera del Pd, scrivendo che «l’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza costituisce per me un ostacolo non più sormontabile».

Una decisione soffertissima, a giudicare dal fatto che solo poche settimane prima lo stesso Lerner aveva proposto ad Andrea Orlando un doppio tesseramento Pd-Campo Progressista. Per Manconi questo ostacolo è, evidentemente, ancora sormontabile.

Non gli sono certo meno grato per le sue solitarie, cruciali battaglie, ma non riesco a capire come una scelta personalissima, provvisoria e sofferta come questa (una scelta che divide anche chi ha percorso insieme una vita intera) possa trasformarsi in un programma politico su cui chiedere il consenso di milioni di cittadini. Già, perché Campo Progressista è nato proprio con questo fine: andare al governo con il Pd, nella speranza di condizionarlo un po’. È questo l’unico significato possibile della formula taumaturgica del «centrosinistra»: perché senza Pd non esiste centro cui connettersi. E, d’altra parte, Giuliano Pisapia continua onestamente a dirlo, nonostante le aspirazioni e le dichiarazioni contrarie dei suoi compagni di viaggio.

Ebbene: come molti altri, credo che questo progetto appartenga al passato. Non dico che non mi impegnerei per qualcosa del genere: ma nemmeno lo voterei.

Perché il Pd ha avuto un ruolo decisivo nella costruzione dello stato delle cose: l’Italia così com’è è in larga parte opera sua. Oggi il Pd fa, platealmente, politiche di destra: sui migranti, i poveri, i marginali fa perfino politiche di destra non democratica. Come ha detto Lerner, ora è questione di diritti umani.

Il Pd ha rieletto Renzi trionfalmente, e l’opposizione interna è politicamente irrilevante. I flussi elettorali del 4 dicembre scorso dimostrano che l’85 % di chi vota Pd ha scelto il Sì. Non una colpa, ovviamente, ma il segno chiarissimo di una mutazione politica e culturale: la resa allo stato delle cose. L’abbandono dell’idea stessa di conflitto sociale.

Ora, è possibile che se continuerà a votare solo il 50% degli italiani – o se, come tutto lascia intendere, l’affluenza diminuirà ancora – una sinistra radicale alternativa al Pd (prima, durante e dopo il voto) abbia poco spazio.

Ma se questa sinistra fosse capace di essere unita, e soprattutto si impegnasse a costruire un progetto credibile di Paese giusto, inclusivo ed eguale: allora un’altra parte degli italiani tornerebbe a votare e a votarla, riaprendo un conflitto, e dunque spalancando un finestra sul futuro. E il cinico tavolo dei commentatori salterebbe in un minuto. Non è un’utopia: è successo il 4 dicembre.

Il percorso partito dal Brancaccio si sta snodando per le cento città di Italia, e presto potrà proporre un progetto di Paese: per capire cosa intendiamo dire quando diciamo «invertire la rotta». Alle assemblee partecipano compagni di SI, Possibile, Rifondazione ma anche di Mdp, oltre a quelli che si erano impegnati in molti dei progetti falliti e a tanti cittadini politicamente apolidi (tra cui cattolici che pensano che il Vangelo indichi una strada radicale e non «centrista» nel senso di «moderata»).

Ciò che accomuna tutte le persone che partecipano a questo percorso è la volontà di costruire tutti insieme una lista unica, attraverso un vero processo di partecipazione popolare: senza primogeniture; senza leader designati in anticipo; con il chiaro impegno di essere alternativi al Pd prima, durante e dopo il voto.

Non è un obiettivo impossibile, ma ogni giorno consumato in incomprensibili riunioni politiciste è un giorno sottratto alla costruzione di una sinistra di popolo capace di parlare all’altra metà degli italiani. Una sinistra che (come in altri paesi d’Europa) può diventare capace di vincere: se vincere significa saper cambiare la realtà, e non farsene cambiare.

sbilanciamoci.info,


Industria 4.0 e la Storia
Il capitalismo è una particolare organizzazione della società; questa (società) evolve e cambia nel tempo perché con il passare “del tempo” muta la domanda, il salario di sussistenza, la tecnica e, infine, il contenuto del capitale e del lavoro. Sebbene Industria 4.0 possa sembrare qualcosa di inedito e paradigmatico, la storia del capitale e dello sviluppo ci ricordano che “Non è quello che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavoro umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro”(Marx [1]). Più in particolare, “La borghesia non potrebbe sopravvivere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque i rapporti sociali”.

Sebbene l’elenco delle potenziali innovazioni afferenti a Industria 4.0 sembrino rivoluzionarie, queste lo sono nella misura in cui adottano tecniche che nella classificazione (aggiornata [3]) di Freeman e Soete (1997) precedono il paradigma della Green Economy che, nel silenzio più assordante, sembra scomparsa dal dibattito economico e politico. Quindi, non proprio tecniche che modificano il paradigma tecno-economico nel senso stretto del termine. Semmai, sorprende l’enfasi posta da alcuni commentatori che assegnano a Industria 4.0 questa categorizzazione. Infatti, le tecniche legate a Industria 4.0 non delineano un mutamento sostanziale della domanda e dell’offerta come e quanto potrebbe la Green Economy, ovvero non consentono di sviluppare quelle che Leon P. (1965) chiamava tecniche superiori di produzione. In altri termini, la crescita del reddito che da un lato comprime taluni tipi di consumo primario, dall’altro ne espande altri tipi, così che in definitiva l’effetto di composizione dinamica delle due forze risulta in realtà positivo. In ultima analisi, il mutamento qualitativo che attraversa la domanda nella componente di consumo si estende alla componente di investimento, influenzando il processo di cambiamento della struttura produttiva (e dunque dell’offerta e della domanda di lavoro). Industria 4.0, al massimo, permetterà di integrare informatica, servizi e manifattura, ma siamo pur sempre all’interno di un paradigma che non consente di accrescere il valore e il lavoro come e quanto altri paradigmi sono riusciti a realizzare nella storia. È cambiata la geografia del lavoro, ma il numero di occupati è costantemente aumentato, nonostante tra il 1980-2015 si sia dispiegata la più importante rivoluzione tecnologica che il capitalismo abbia mai sperimentato.
La tecnica è un prodotto sociale
Innanzitutto è necessario ricordare che il progresso tecnico si diffonde in modo disomogeneo nei diversi settori produttivi, mentre gli effetti sulla produttività non sempre si manifestano là dove esso si genera. E’ quello che in molti non hanno esitato a definire con grande enfasi il “paradosso della produttività”, proprio quando negli anni ’90 la precedente rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict) andava alimentando straordinarie aspettative. Al netto della teoria della compensazione (D. Ricardo), il tema dell’innovazione è soggetto a gravi errori di valutazione: in troppi indagano la tecnica come se fosse un fenomeno di pura conoscenza, dimenticando che la società cambia assieme alla tecnica, modificando il paradigma di accumulazione; quando si passa da un paradigma a un altro, non sappiamo come i settori produttivi coinvolti reagiranno. Cosa accadrà nei settori maturi e/o emergenti? Sebbene i settori maturi saranno investiti da un cambio di paradigma senza precedenti storici, la dimensione e la grandezza degli oligopoli suggerisce prudenza nella valutazione dell’impatto delle macchine sul lavoro. Più che un effetto sostituzione di lavoro per mezzo di macchine, probabilmente ci sarà un effetto sostituzione di lavoro a basso contenuto conoscitivo con un lavoro a maggiore conoscenza.
La combinazione tra ridisegno dei vecchi settori e la nascita di nuovi settori produttivi delinea un nuovo modello di produzione e/o sviluppo. Evidentemente non discutiamo di trasferimento tecnologico e/o innovazione. C’è differenza tra innovazione tecnologica, con il tempo sempre più programmabile (Ferrari, 2014), e paradigma produttivo. Il limite della discussione relativa a Industria 4.0 è nella sottovalutazione del paradigma, che non può essere ridotto all’integrazione tra industria e servizi, con l’effetto di alimentare e probabilmente sostenere una discussione bipolare tra chi sostiene che Industria 4.0 è una grande occasione per rilanciare il sistema economico, e chi intravvede nel progetto il rischio di una sostituzione di lavoro umano con le macchine.
Industria 4.0 e la fuga dalla ragione
World Economic Forum (WEF) e Mckinsey (Mc) informano che Industria 4.0 e le macchine coinvolgeranno alcune tipologie di lavoro; senza usare i toni di WEF e Mc, oppure l’indagine conoscitiva della Commissione Industria della Camera del 2016 (G. Epifani), è il caso di ricordare che questa è storia e non solo fattibilità tecnica. L’implementazione di queste tecniche è 1) soggetta a molte e spesso incalcolabili variabili; 2) hanno diversi gradi e livelli di realizzazione. In particolare, il documento della Commissione Industria analizza solo le tecnologie della comunicazione ovunque queste abbiano un ruolo, dalle comunicazioni interne alle stesse macchine meccaniche o elettroniche, tra operatori, all’interno dell’impresa, tra imprese ecc. In definitiva, il progetto Industria 4.0 identifica come “quarta rivoluzione industriale” l’utilizzo di macchine intelligenti, interconnesse e collegate a internet. Non sono necessarie competenze specialistiche per sapere che lo sviluppo delle conoscenze scientifiche costituisce un bagaglio accumulato, con un potenziale ancora tutto da scoprire anche dal punto di vista di una prospettiva applicativa. Sebbene industria 4.0 del Governo, alla fine, prenda atto dei limiti della propria analisi quando individua come “tecnologie abilitanti” solo quelle che hanno una caratteristica informatica, l’aspetto più preoccupante è legato alla accettazione da parte di tutti i commentatori della narrazione veicolata dalla pubblicistica.
Se consideriamo l’attuale (vecchio) paradigma, il saldo tra nuovo lavoro e vecchio lavoro è certamente negativo, ma il capitale evolve e cambia assieme alla società; il sistema economico non rimane mai uguale a stesso; cambiano le consuetudini e le abitudini. L’emergere di una nuova classe media modifica i consumi (legge di Engel). WEF, Mc, Commissione Industria della Camera non conoscono gli effetti sui consumi legati alla crescita del reddito. Il processo è, quindi, bidirezionale e non unidirezionale. In altri termini, la politica economica e industriale hanno un ruolo fondamentale. La robotica è solo un pezzo del paradigma. L’innovazione cambia la struttura e non è riconducibile a una sola impresa, sebbene tenda a concentrarsi in alcuni settori. Per queste ragioni il modello neoclassico di produzione equi-proporzionale non rappresenta la realtà, e nemmeno vi si avvicina. Viviamo una grande transizione dall’esito incerto.
Capire in quale direzione andrà l’occupazione rispetto allo sviluppo delle nuove tecniche-tecnologie, richiede, piuttosto, una più attenta valutazione di come evolveranno le nuove “catene di creazione del valore”, sia all’interno delle singole economie, sia a livello mondiale, data l’importanza che hanno assunto i processi di delocalizzazione produttiva. Ciò, significherà considerare in che misura, ad esempio, lo sviluppo interno all’industria si rifletterà su un aumento dei servizi ad alta qualificazione – fenomeno già ampiamente riscontrato nelle economie in cui la presenza di un manifatturiero ad “alta intensità tecnologica” è relativamente più elevata – dando luogo ad un aumento complessivo dell’occupazione e del reddito e, in ultimo, della domanda di nuovi beni e servizi. Questo processo potrebbe investire anche i paesi di più recente industrializzazione, verso i quali nel ventennio passato si sono diretti ingenti flussi di investimenti delle economie occidentali per sfruttare – là dove possibile – il minore costo del lavoro. La spinta propulsiva registrata dal reddito di tali paesi si è tradotta, infatti, negli ultimi anni in autonoma capacità di investimento che, guidata per lo più dall’intervento pubblico, ha favorito l’aumento della spesa in ricerca e promosso lo sviluppo di produzioni ad alta intensità tecnologica, dando vita a ulteriori incrementi di reddito e a nuovi flussi di investimento verso il “Nord” del mondo.
L’accelerata diffusione dei robot nei paesi emergenti sembra dunque concludere una fase importante di un processo di industrializzazione concentratosi finora su attività ad alta intensità di manodopera, che hanno assorbito la delocalizzazione produttiva attuata dalle economie avanzate. La vera sfida che ci troveremo di fronte nei prossimi anni riguarderà sempre di più il confronto tra aree del mondo che si sono avvicinate – come puntualmente confermano i dati sulla distribuzione del reddito –, portando le prospettive dello sviluppo globale sul terreno della produzione di nuove conoscenze e di nuovi beni e servizi.
Se consideriamo l’aumento delle vendite di robot e come questo si è distribuito nell’economia mondiale, e quali sono ad oggi gli effetti più macroscopici rilevati sull’occupazione, risultano evidenti almeno due fatti. Il primo riguarda il forte contributo che all’aumento di tali vendite hanno fornito i maggiori paesi di più recente industrializzazione (soprattutto in Asia, con in testa la Cina), caratterizzati da una minore densità di robot (ossia da un minore rapporto tra numero di robot e addetti nell’industria); il secondo investe il rapporto tra livello di qualificazione dell’offerta di lavoro e dinamica del processo di robotizzazione. Si vede così che la maggiore spinta verso la robotizzazione registrata nelle economie di nuova industrializzazione ha dato luogo a una progressiva sostituzione di forza lavoro relativamente meno qualificata, presente ancora in misura assai consistente nel tessuto produttivo.
Indiscutibilmente per l’Italia sarebbe comunque una rivoluzione, ritardata comunque di almeno 15 anni. Sostenere che un sistema è integrato vuol dire che ogni fase è governata, ma non è il caso di andare oltre al governo del processo produttivo. Le innovazioni legate alla biotecnologia, alla farmaceutica, nuovi materiali, ecc. hanno un peso e un ruolo che travalicano il peso e il ruolo delle così dette innovazioni legate a Industria 4.0.
L’Italia non trova politiche diverse
L’effetto principale della diffusione delle tecniche interessate da Industria 4.0 sarà, per l’Italia, una crescita delle importazioni delle stesse. Infatti, questi beni saranno prodotti da chi possiede un vero sistema di innovazione tecnologica. L’esigenza di una politica industriale che sappia correggere il nostro declino non è nemmeno stata abbozzata. Inoltre, Industria 4.0 non è il programma di un paese che deve cambiare la propria struttura produttiva, piuttosto la “trovata” pubblicistica di una parte della classe dirigente per evitare di realizzare investimenti pubblici necessari per piegare la produzione italiana verso beni e servizi a maggiore contenuto tecnologico che sono, per lo più, legate alla Green Economy. I tagli alla ricerca e sviluppo, alla scuola, all’università, purtroppo, condurranno il paese a subire il paradigma della Green Economy che gli altri Paesi cominciano a delineare.
Inizierei a discutere di politica industriale e su come possiamo essere protagonisti della necessaria trasformazione industriale, invece che ragionare sugli effetti “potenziali” di Industria 4.0 sul vecchio modello di produzione. Dobbiamo ragionare in termini di nuova domanda e quindi di nuova offerta. Diversamente l’Italia può solo perdere posti di lavoro.

Bibliografia
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World Economic Forum (2016), The Future of Jobs, Employment, Skills and workforce Strategy for the Fourth Industrial Revolution, Global Challenge Insight Report.

Note
[1] La citazione di Marx è tratta da Rosenberg (2001), p. 64.

[2] La citazione di W. E. G. Salter è tratta da Rosenberg (2001), p. 34.

[3] Romano R. e Lucarelli S., 2018, Squilibrio, ed. Ediesse, Roma. Libro di prossima pubblicazione.

[4] Il valore aggiunto derivante dai prodotti ad altro contenuto tecnologico è cresciuto esponenzialmente, collocandosi tra il 40 e il 50% di quello aggregato. Se guardiamo all’Italia comprendo il disagio, ma l’Italia non è un buon indicatore per valutare il progresso tecnico.

il Fatto Quotidiano

“Questo sarebbe il tempo giusto per un nuovo Marx, ma il pensiero non si coltiva in serra e la storia non coincide con la nostra biografia. Avremmo bisogno di uomini che stiano un gradino più in alto del resto della società e invece ci ritroviamo a essere governati con gente che è risucchiata nel gorgo della stupidità. Come si può pensare alla rivoluzione – qualunque tipo o modello di riforma strutturale dell’esistente – se il nostro sguardo sul mondo è destinato per tutto il giorno unicamente alle variazioni sul display del nostro telefonino?”.
Era il 1867 quando fu pubblicato il Libro I del Capitale di Karl Marx. Centocinquanta anni fa il filosofo di Treviri mandò alle stampe il volume che avrebbe promosso, sostenuto e accompagnato passioni e reazioni, condotto in piazza milioni di persone, trasformando il senso del giusto e dell’ingiusto. E Aldo Masullo, classe 1923, massimo studioso delle differenze tra idealismo e materialismo, ha attraversato il secolo scorso leggendo e rileggendo Marx per i suoi studenti.
“Un’opera immensa. Ha annunciato il nuovo mondo. Ha spiegato e anticipato i caratteri del mondo borghese, del principio del tutti almeno formalmente uguali, della statuizione che ciascuno, indifferentemente dalla condizione sociale, è pari all’altro. Si usciva dal feudalesimo, dalla vita legata dallo status: feudatario, vassallo, plebeo. Grazie a lui si apre il mondo moderno, si afferma il principio della uguaglianza astratta. Sia che tu sia dritto o gobbo, intelligente o stupido, avrai da pagare le stesse mie tasse”.
Marx sembra Dio.
“L’enormità del suo pensiero non è sempre valutabile positivamente. Perché tutto ciò che è enorme straripa di fronte alle necessità dell’uomo. La storia che noi viviamo è sempre più grande della nostra condizione”.
Era troppo avanti?
“Sì, potremmo dire con un linguaggio attuale che ha esondato un po’”.
Non c’è dubbio però che grazie a lui il lavoro non è divenuto solo merce da vendere ma anche un valore da difendere.
“Quanto è stata grande e rivoluzionaria questa consapevolezza? Quanto ha fatto Marx perché fosse contrastato il principio secondo il quale lavoratore vende forza lavoro e il capitalista lo compra. Il teorema per cui tutto si può comprare e tutto si può vendere. E infatti oggi si vende anche la dignità. Tutto ha un prezzo: nelle democrazie fragili sudamericane o in quelle africane non c’è giudice che non si possa comprare, non c’è sentenza che non si possa addolcire”.
Lei parla dell’oggi, come se i progressi del secolo scorso non fossero serviti a niente. Tutto regredisce, si torna indietro.
“No. Ricordi che la storia è dinamica, è movimento e non coincide con il tempo che viviamo. La grandezza di Marx è stata quella di aver aiutato l’umanità almeno a ricercare forme nuove di vita, a conquistare spazi in cui la dignità e la libertà acquisissero un senso diverso e nuovo”.
Il comunismo relegò in gattabuia le libertà e costrinse milioni di persone a una vita di stenti.
“Parlo dei diritti conquistati durante le grandi lotte sociali nell’Occidente libero e democratico. Grazie a quella spinta teorica siamo giunti allo sciopero, che è un diritto diverso dalla rivoluzione o dalla sovversione. Si stabilisce attraverso delle regole la possibilità del massimo conflitto col massimo rispetto della legge. È una cosa enorme”.
Perché oggi sembra tutto così lontano, così perduto? Non ha più senso parlare di lotta di classe, fa sorridere solo immaginarla possibile. E i diritti regrediscono, il lavoro torna a essere merce, quindi ad avere un prezzo senza nessun valore.
“Quando si hanno trasformazioni degli assetti sociali così cruente, quando la classe dirigente si connette fino a divenire satellite del potere finanziario, il capitale, o meglio i capitalisti, non trovano più conveniente investire nella capacità produttiva, ma investono nel circuito finanziario globale. La moneta produce moneta e tutto si concentra nello sviluppo di tecnologie che riducano la necessità dell’apporto della forza lavoro. Piano piano il lavoro manuale viene dismesso, poi anche quello intellettuale non creativo”.
L’operaio come una escrescenza sociale.
“Bauman parla di scarto. Divengono elementi di scarto. Certo, non succederà che finiremo di morire di fame ma si ridurrà il prezzo e il valore del lavoro. Si entra nel campo della misericordia, della pietas”.
Il declino inarrestabile.
“Lei si fa condizionare dall’angoscia dell’attualità che non trova risposte. Ma i tempi della storia non corrispondono a quelli della cronaca. E se, come abbiamo detto e ripetuto, la storia è movimento, le crisi recessive sono parti di quel movimento”.
Quindi cosa resta del grande Marx, solo cenere?
“Il suo pensiero ha costruito il mondo nuovo, il mondo moderno che abbiamo conosciuto. La regressione civile ed economica che stiamo vivendo non può in ogni caso sospendere i caratteri fondativi della natura umana, l’elementarietà dell’uomo con i suoi bisogni indefettibili e irrinunciabili. È certo che l’uomo continuerà a mangiare, a sperare, a fare l’amore”.
Non ci sono più i pensatori di una volta.
“È la constatazione di una povertà generale e trasversale. Non è solo la classe dirigente del nostro Paese, è l’autorità che ha perso ogni distintivo di capacità di guardare oltre. Alzi lo sguardo e cosa vedi? Cordate di leader collegati a cordate di multinazionali, in una cointeressenza tra funzione di governo e speculazione finanziaria che erode spazi di libertà, di avanzamento professionale e culturale. C’è poi una parte del mondo soggiogata dal circuito malefico dell’industria delle armi che la priva – è il caso dell’Africa e dell’Oriente – di ogni dignità e la costringe a una migrazione senza diritti”.
Ma abbiamo detto che l’uomo spera.
“Questo è il tempo della stupidità al potere. La storia ci dirà quanto avrà resistito”.

il manifesto

È senza fine, lo strazio della violenza contro le donne. Ieri Lucio Marzo, 17 anni, ha confessato di avere ucciso Noemi Durini, 16 anni, scomparsa dal 3 settembre. E ha portato i carabinieri nel luogo dove ne aveva nascosto il corpo, sotto alcuni massi. Sempre ieri, è stato denunciato un tentativo di stupro sulle scale del Campidoglio, a Roma. L’aggressore sarebbe un israeliano. La notte precedente ancora a Roma lo stupro di una ragazza finlandese, da un ragazzo del Bangladesh.

Di qualche giorno fa la denuncia delle ragazze americane a Firenze, appena prima la giovane donna polacca stuprata a Rimini. Lo strazio è infinito, mille connessioni che si allargano come onde, dal punto in cui è stata esercitata la violenza. Avranno conseguenze nelle vite di tutte le persone coinvolte. Penso ai genitori di Noemi, alla madre, che non è riuscita a convincerla che quel ragazzo era violento. Non è servita neanche la denuncia che aveva presentato per ottenere l’allontanamento di quel ragazzo dalla figlia, non era stato preso nessun provvedimento.

Le adolescenti sfidano i genitori, la madre in special modo, come fare a proteggerle senza renderle prigioniere? È una domanda che non ha facili risposte. O meglio. Non le ha oggi. Oggi che le ragazze sono libere, nei paesi come nelle metropoli. Oggi che i divieti e le proibizioni non sono più la regola condivisa.

E la libertà – delle donne, delle ragazze – è il punto geometrico del conflitto. La solidarietà, perfino il dolore, sono pieni di ombre, di dubbi. Perché quelle ragazze sono in giro di notte? Perché si fidano di chiunque? Perché si permettono di andare in giro come se fossero dei ragazzi, dei maschi? Si ipotizza che Noemi sia stata uccisa al culmine di una lite.

Sulla sua pagina facebook l’ultimo post fa pensare. L’immagine è il viso di una donna malmenata, a cui qualcuno tappa la bocca. Il testo comincia cosi: «non è amore se ti fa male». Su instagram il profilo è più esplicito: «Il giorno che alzerai le mani ad una donna, quello sarà il giorno in cui ufficialmente non sarai più un uomo». Aveva capito? È stata punita perché voleva la libertà? Un’azione diretta, un atto di guerriglia individuale, lo definisco. Come lo stupro, le aggressioni sessuali. Tentativi di sottomissione, per mantenere l’ordine patriarcale. Contro tutte queste donne che si permettono di aggirarsi libere per il mondo. E per questo è così difficile ascoltarne la voce, a parte la retorica della vittima, che si rivela sempre più finta. Non è solo l’antico gioco delle donne perbene messe contro quelle per male. Il conflitto è a tutto campo, nelle vite private come nello spazio pubblico, nelle forme inedite della vendetta. Anche nella scena mediatica. Che non vuole lasciare la parola alle donne, alla loro visione.

Quel grande interprete del sentimento medio che è Bruno Vespa l’ha detto senza esitazione a Porta a Porta: «La prima vittima è l’Arma». Il corpo delle donne rimane un pretesto. Usato contro i migranti, per legittimare il razzismo. Occultato di fronte alla “grande onta” della perdita di onore maschile. Eppure le femministe lo dicono da sempre. La violenza, lo stupro sono compiuti da uomini. Giovanissimi e anziani, di qualunque nazionalità, colore, religione. Qualunque divisa indossino. Oggi è tempo di dire di nuovo che le donne sono, siamo, libere. Che stiamo nel mondo. Perché non tornare nelle strade di notte, insieme?

Su

la Repubblica del 12 settembre è apparsa una lunga lettera di Matteo Renzi in risposta alle critiche di Walter Veltroni rivolte a una sinistra sorda e muta sui problemi dell’ambiente... (segue)

Su la Repubblica del 12 settembre è apparsa una lunga lettera di Matteo Renzi in risposta alle critiche di Walter Veltroni rivolte a una sinistra sorda e muta sui problemi dell’ambiente. Lo scritto merita di essere raccontato perché, proprio nella rivendicazione di presunti meriti ambientali, rende palese l’idea di ambiente che ha il segretario del Pd e consente di misurarne l’arretratezza intellettuale oltre che politica.

L’incipit ha una natura retorica e consiste nell’auto-presentazione, o meglio, nella auto-rappresentazione: Renzi amico di Hollande e di Obama, operoso insieme ai capi di stato che la pensano come lui, ferito da Trump. Prosegue il canovaccio con la magnificazione dell’opera del sindaco di Firenze “che ha chiuso al traffico la struggente bellezza dell’area del Duomo” insieme ad altri provvedimenti ecologici e depurativi. La retorica introduttiva si conclude con una captatio benevolentiae: “da sindaco del partito democratico, nel mio piccolo, ho fatto questo; e molti altri sindaci hanno fatto più di me, meglio di me.”; aggiungendo, senza ironia, che “i sindaci del Pd fanno di questo partito oggettivamente il più grande partito ambientalista d’Italia”.

Fin qui l’auto-rappresentazione di un uomo che dà del tu ai potenti ma sa anche occuparsi di questioni pratiche, non importa se apparentemente piccole.

Il secondo passo è lo sciorinamento di tutte le azioni che il governo Renzi o il Pd al governo hanno fatto a favore dell’ambiente: dalla lotta all’abusivismo di Caldoro, (ma non a quello di De Luca e di tanti sindaci Pd “oggettivamente ambientalisti”) alla nuova legge contro i reati ambientali: dai ben 1334 cantieri del progetto Italia Sicura (partito nel 2014 per prevenire il dissesto idrogeologico, se ne sono visti i risultati!), allo SbloccaItalia che “ha riaperto i cantieri immaginati 50 anni fa” (si spera aggiornandoli). Il tutto in una elencazione senza alcun nesso che faccia intravvedere una politica di qualche coerenza e respiro.

Arriva poi il piatto forte che manderà in brodo di giuggiole gli ambientalisti. Enel ed Eni sono incaricati di una nuova missione per la crescita delle energie rinnovabili. La missione implica trivellare l’Adriatico e sfruttare la geotermia dell’Amiata, tutte operazioni notoriamente ad alto contenuto ambientale - ma questo è sottinteso. Sempre elencando, diventano un successo l’Ilva e Bagnoli di cui sarebbero già iniziati i lavori (per ora c’è solo un accordo, certo non merito del Pd renziano).

Infine, c’è la cura del ferro, concordata tra Galletti e Del Rio. Di cui - Renzi non lo dice - quella più micidiale è riservata proprio a Firenze, con il dissennato progetto di sottoattraversamento per la Tav e una stazione sotterranea destinata a una manciata di viaggiatori per giustificare miliardi di spesa; tanto con qualche cantiere e qualche centinaio di milioni in più si può sempre rimediare ai futuri dissesti. Naturalmente, tutte queste belle cose possono essere fatte se la burocrazia non intralcia, (si intende con la pretesa del rispetto delle leggi, dei vincoli paesaggistici, dei piani regolatori, ecc.). Conclusione: chi non è d’accordo strizza l’occhio a Trump, chi è d’accordo venga a darci una mano.

La “risposta” di Renzi, oltre a essere farcita dei soliti annunci scambiati come fatti realizzati, è interessante perché mostra, senza alcun infingimento, l’idea che il segretario del Pd ha del mondo che ci circonda, della natura, di tutto ciò che riduttivamente chiamiamo ambiente, per non parlare di territorio e paesaggio bellamente ignorati. L’ambiente è per Renzi, una serie di criticità che devono essere rimediate, qualche volte prevenute. Renzi, il Pd, e purtroppo gran parte della sinistra con lui, non riflettono sull’idea di sviluppo e sulle scelte di governo che stanno a monte dei disastri ambientali.

Dopo la crisi del 2008, tutti i governi italiani, hanno in ogni modo cercato di stimolare una ripresa economica affidata al finanziamento e alla realizzazione di grandi infrastrutture, non importa se inutili e dannose per ambiente, territorio e paesaggio, non importa se con scarsissimo valore aggiunto (cioè, con pochi posti di lavoro, per lo più di bassa qualificazione). Per contro sono state neglette ricerca, università e cultura, il trinomio che altrove assicura una ripresa economica e uno sviluppo durevole - rispettoso dell’ambiente all’altezza dei tempi. E peggio sta facendo Gentiloni, letteralmente ostaggio delle lobby di Confindustria e delle banche che fanno e disfanno le leggi a loro piacimento: ne è prova l’infame Decreto legislativo 104, recentemente approvato, che rende la valutazione di impatto ambiente un affare contrattato tra imprese e governo. Stupisce, perciò, che Renzi si sia dimenticato di annoverare il Decreto tra i meriti ambientali suoi e del Pd.

il manifesto, 10 settembre 2017, con riferimenti

L’inchiesta sulla rivoluzione d’ottobre, donata dal manifesto, fa bella mostra di sé nelle 33 tavole giganti che abbelliscono gli spazi della festa nazionale di Rifondazione comunista. I giardini dell’Obihall sono affollatissimi, almeno mezzo migliaio di donne e uomini di ogni età riempiono il ristorante e il contiguo spazio dibattiti, dove questa sera si parla di «Sinistra: come, dove e quando». Ci sono Tomaso Montanari, che appena due giorni prima ha catalizzato l’attenzione di trecento attivisti fiorentini nel suo giro d’Italia organizzato per dare fondamenta all’appello del Brancaccio. Poi Paolo Berdini, Chiara Giunti dell’Altra Europa e, naturalmente il padrone di casa Maurizio Acerbo con Nicola Fratoianni.

Il popolo della sinistra c’è. A 200 metri di distanza, alla festa Mdp, ci sono in contemporanea Pippo Civati e Arturo Scotto, Antonio Floridia e Daniela Lastri. Quello che ancora manca è la chiarezza, osserva Francesca Fornario che tiene le fila dell’incontro: «Alla sinistra del Pd c’è ua discussione surreale: c’è Rifondazione che attende Sinistra italiana, che a sua volta attende Mdp, che a sua volta attende Pisapia che attende il Pd. Sembra di essere alla fiera dell’est…».

Fornario coglie nel segno: «È vero, la sinistra unita si doveva fare prima, siamo in ritardo – le risponde Maurizio Acerbo – ma fare la sinistra non è come inventare una nuova marca di detersivo da vendere. È mettere insieme tutti quelli che in questi anni si sono opposti alle politiche neoliberiste, e alle guerre. Minoritari? Lo dicono a quelli che fanno seguire alle parole i fatti, che dicono cose nette, chiare. Come Sanders, come Corbyn, che sono stati efficaci perché sono credibili. Mentre noi, con tutto il rispetto, non possiamo mettere alla nostra testa chi le guerre le ha fatte, e continua perfino a difenderle. La sinistra è stata sconfitta nella società perché è stata troppo politicante».

Il segretario del Prc, nel merito, ribadisce la bontà del decalogo del Brancaccio. E così fa Nicola Fratoianni, che però segnala ad Acerbo: «Chi ha oggi vent’anni non ricorda il Kosovo. Invece ricorda benissimo il pareggio di bilancio in Costituzione, e Bersani in tv che prende le distanze da Corbyn. Un Corbyn, o un Iglesias o un Mélenchon, che però noi non abbiamo».

Qui il segretario di Sinistra italiana pone il tema della leadership: «Si deve costruire, perché la politica è dinamica». Poi, alla domanda di Fornario se non abbia il timore che i voti si elidano di fronte a un generico rassemblement alla sinistra del Pd, Fratoianni ammette: «È possibile. Per questo dobbiamo guardare al terreno delle proposte politiche. Se non costruiamo un progetto che dia risposte all’idea che abbiamo di questo paese nei prossimi vent’anni, non andiamo lontano. Sto girando l’Italia e tanti mi dicono: ‘Dateci la possibilità di votarvi’».

Da dove passa la conquista del consenso? Dalla ribadita – e meritoria – indisponibilità ad ammorbidire il senso politico del decalogo del Brancaccio (Acerbo); ma anche dalla faticosa riconquista di una egemonia socioculturale, che faccia massa critica e impedisca al paese di scivolare ancor di più a destra (Fratoianni). Nel mezzo Tomaso Montanari, a cercare un equilibrio non facile: «Al Brancaccio c’era anche D’Alema, e gli abbiamo detto in faccia quello che pensiamo sulla guerra del Kosovo. Poi gli abbiamo detto anche “guardiamo avanti, è essenziale che si possa costruire un’alleanza che si presenti con un volto solo, e che sia radicale”. Perché se ci impantaniamo con il passato, e cediamo a questo istinto che pure è forte anche per me, rischiamo di non dare risposte ai giovani che sono andati a votare per la prima volta il 4 dicembre, e che per i prossimi vent’anni si aspettano dalla sinistra risposte politiche opposte a quelle degli ultimi vent’anni. Perché se penso al nostro presidente regionale Rossi sull’aeroporto intercontinentale che vogliono fare a Peretola…».

Un tema caldissimo qui a Firenze. Così come sono sempre caldissimi i temi dei beni comuni a partire dall’acqua, rimarcati da Chiara Giunti, e dei servizi pubblici «che devono essere, appunto, pubblici» evocati da Paolo Berdini. Temi di sinistra.

Riferimenti
Sul tema della "Sinistra" c'è una ricca cartella in eddyburg, precisamente qui. Ma vi raccomandiamo di leggere anche l'articolo dedicato, appunto, a La parola "Sinistra". E magari siete d'accordo anche voi (e.s.)

«Tra i frutti della risposta emotiva al declino della democrazia dei partiti vi è il Vaffa Day, il movimento dei cittadini al quale Beppe Grillo ha dato voce - gentismo invece che partitismo».

la Repubblica, 10 settembre 2017 (c.m.c)

La democrazia senza partiti e contro i partiti è stata negli ultimi tre decenni la risposta, non soltanto emotiva, alla caduta della democrazia dei partiti nella polvere della corruzione, portata in tribunale per aver mercanteggiato con i soldi pubblici il sostegno di privati potenti e gruppi di potere. I partiti hanno gestito le istituzioni e la macchina elettorale, come si supponeva che dovessero fare — ma lo hanno fatto non per perseguire obiettivi di interesse generale e tra loro alternanti, ma per mantenere la posizione dentro le istituzioni. Tra i frutti della risposta emotiva al declino della democrazia dei partiti vi è il Vaffa Day, il movimento dei cittadini al quale Beppe Grillo ha dato voce - gentismo invece che partitismo.

Ma la ruggine contro la democrazia dei partiti precede di molto il fatidico 1992. Nasce insieme alla repubblica dei partiti, in Assemblea Costituente c’erano anche i rappresentanti dell’Uomo Qualunque, il movimento-partito di Guglielmo Giannini, anch’esso con un’ideologica gentista e anti-partitista, liberale e anti-statalista, orientata a destra. Molte pulsioni dell’uomoqualunquismo sono ricomparsi nel Vaffa Day. Ma l’antipartitismo ebbe anche propaggini più a sinistra; per esempio con una visione comunitaria di democrazia che doveva unire competenza e partecipazione, creare un ordine sociale strutturato per gruppi di funzioni complementari invece che per individui. Simile a questo fu il sogno di Adriano Olivetti di una “democrazia senza partiti”, dal quale emerse il co-fondatore del M5S, Gianroberto Casaleggio.

La sua impronta sul movimento è ben espressa nel volume pubblicato insieme a Beppe Grillo, Siamo in guerra, dove si profetizza una visione di “mondo nuovo” fatto di connettività, senza partiti e possibilmente senza istituzioni statali perché senza un “dentro” e un “fuori”. La totalità della Rete come preambolo di una società totale tecnocratica e senza più parzialità partigiane: il mito di una società coesa e integrata per autonoma cogestione — un mito libertario e tuttavia non individualista; organico ma senza gerarchie. Questo doveva essere il progetto del non-partito M5S.

Scriveva Norberto Bobbio che i critici della rappresentanza politica sono anche critici della democrazia dei partiti. Il loro sogno è di avere una rappresentanza diretta o una delega con mandato imperativo (come propose appunto Grillo nel 2013, quando il suo gruppo portò un esercito di rappresentanti in Parlamento), così da togliere libertà agli eletti e superare la detestata divisione “dentro/fuori”. Ma quale sarebbe l’esito di questo mito totalizzante? L’esito sarebbe una democrazia di partiti personali, ammoniva Bobbio, in cui i signori Bianchi o Rossi chiedono voti in nome di quel che dicono e sono. Votandoli, tuttavia, si finirà per dar vita veramente a un Parlamento di plenipotenziari che faranno quel che vorranno poiché loro saranno il partito, decidendo senza limiti l’azione legislativa e di governo. Al di fuori di una piccola città-Stato, la democrazia senza partiti è un tremendo sistema di potere che possiamo chiamare “rappresentativo patrimoniale”, un termine che è un ossimoro, poiché la rappresentanza moderna è stata la pietra tombale del patrimonialismo.

Eppure, la storia è capace di darci ossimori e sorprese. E a leggere Supernova di Nicola Biondo e Marco Canestrari si ha il timore di trovarsi di fronte a una forma di potere davvero inedita e molto inquietante. Il libro parla del M5S nell’età di Luigi Di Maio come la chiusura del cerchio: la trasformazione da puro movimento anti-partito a movimento di qualcuno, del leader designato Di Maio. “A quel punto il Movimento non sarà altro che lui”. Proprio come aveva paventato Bobbio riflettendo sull’ondata di anti- partitismo, allora solo all’inizio.

La transizione assai veloce dal “movimento di tutti” al “partito di qualcuno”, dal gentismo al personalismo senza contrappesi (poiché la Rete stessa è stata esautorata) ci conferma la grande diffidenza che dobbiamo nutrire nei confronti della propaganda anti-partitica. I partiti- associazione, con statuti pubblici (possibilmente attenti a trovare contrappesi al potere del leader nel potere degli iscritti e di organi collegiali di discussione e decisione), sono una garanzia e un baluardo contro i partiti- di-qualcuno, anche quando il qualcuno non è un ricco uomo d’affari. Quel che appare dalle trasformazioni del M5S è che il “capitale” del consenso-via-audience può generare una versione post- moderna di patrimonialismo: dove il patrimonio è l’assenza di struttura e la presenza differita via Rete di un pubblico indefinito.

«Intorno al corpo di donne violentate si combatte una guerra che in realtà non le riguarda e non le ascolta. Nelle relazioni tra uomini e donne persiste un’asimmetria che ci si ostina a non vedere. Sono gli uomini a violentare le donne».

il manifesto, 9 settembre 2017

Da una parte l’istituzione per eccellenza, l’arma dei carabinieri, dall’altra due ragazze americane, tra i fumi dell’alcool e della cannabis. Molto chiaro il retropensiero neanche tanto nascosto delle cronache di ieri: si può credere a due così? L’accusa di stupro non sarà stata tutta un’invenzione? E così la macchina dello scandalo mediatico non si è messa in moto subito, qui non c’erano «le nostre donne da difendere». Una nota del Dipartimento di Stato Usa cambia registro: «Prendiamo queste accuse molto seriamente, i nostri uffici all’estero sono sempre pronti ad assistere cittadini Usa vittime di crimini», l’atteggiamento è cambiato.

Le due giovani donne, hanno 21 anni, sono sotto shock. La loro versione dei fatti, in interrogatori separati e ripetuti, sono coerenti.

La gazzella dei carabinieri che le ha accompagnate a casa, in via Tornabuoni nel pieno centro di Firenze, è stata ferma 20 minuti sotto il palazzo, come confermato da telecamere di controllo. I due ora sono indagati per violenza sessuale, la stessa ministra della difesa Roberta Pinotti dice che c’è qualche fondamento. Si aspettano i risultati delle analisi del Dna. Loro, le ragazze, ora sono in una casa protetta, secondo la procedura del «codice rosa» che si è attivato subito, al momento della loro denuncia, la mattina del 7 settembre.

La gravità del fatto si commenta da sola. Due militari in servizio, sarebbe un abuso di autorità gravissimo. Se non ci si può fidare di chi dovrebbe proteggerti non c’è scampo. Per questo va detto e ripetuto il punto di vista che le donne, i femminismi, hanno conquistato per tutte e tutti. E che andrebbe condiviso con fermezza: uno stupro è uno stupro è uno stupro. A prescindere da relazioni affettive, familiari, etnie, colori, divise. È la violenza di uomini contro donne. Se l’accusa verrà confermata, come è possibile che due carabinieri in servizio, rispettivamente di 45 e 28 anni, abusino di due ragazze e pensino di potersela cavare? Forse perché le credevano così sbronze da non essere abbastanza lucide per ricordare e denunciare? O speravano che la divisa li avrebbe garantiti?

Sono giorni accesi. Basta pensare a tutto il clamore montato, anche con invenzioni, intorno allo strupro di gruppo di Rimini, Intorno al corpo di donne violentate si combatte una guerra che in realtà non le riguarda e non le ascolta. Nelle relazioni tra uomini e donne persiste un’asimmetria che ci si ostina a non vedere. Sono gli uomini a violentare le donne. Di questo bisognerebbe parlare, gli uomini per primi.

».

la Repubblica, 8 settembre 2017 (c.m.c)

Il ruolo dei Parlamenti nel combattere le disuguaglianze e nel costruire società inclusive” è uno dei tre temi che verranno affrontati al G7 dei Parlamenti che si incontrerà oggi e domani tra Roma e Napoli. Gli altri due sono i rapporti con i cittadini e l’ambiente. Pur senza sopravvalutare la portata di incontri che hanno, nel migliore dei casi, una valenza più simbolica che altro, è interessante che i rappresentanti dei parlamenti dei paesi più sviluppati, inclusa l’Italia che li ospita, si pongano un tema che fino a non molto tempo fa era considerato fuori moda, oltre che troppo connotato come “di sinistra”.

Rimesso con forza all’attenzione anche dagli ultimi rapporti Ocse, soprattutto a seguito degli effetti asimmetrici della crisi, esso è entrato nel dibattito e nell’agenda politica. Le disuguaglianze di reddito, infatti, sono aumentate in quasi tutti i paesi e ancor più quelle nella ricchezza, con l’Italia che si trova nel gruppo dei paesi con maggiore disuguaglianza, benché sotto gli Stati Uniti e il Regno Unito, ma sopra Francia e Germania. A complicare la questione, per l’Italia, sta il fatto che il tasso di disuguaglianza è più alto nelle regioni più povere, nel Mezzogiorno, a conferma che vi è un nesso, come sottolinea anche l’Ocse, non solo tra disuguaglianza e povertà, ma anche tra disuguaglianza e difficoltà nello sviluppo.

Le disuguaglianze non riguardano, per altro, solo quelle nel reddito e nella ricchezza, ma la divisione del lavoro e delle opportunità tra uomini e donne, le chances di mobilità sociale, di sviluppo e valorizzazione del proprio capitale umano e di partecipazione sociale, tra persone di diversa origine sociale. Per non parlare delle disuguaglianze tra aree geografiche del mondo che, insieme alle guerre e alle dittature, sono all’origine di gran parte dei fenomeni migratori.

Se vi è consenso ormai abbastanza diffuso che le disuguaglianze possano costituire un problema per la tenuta e lo sviluppo di una società, il dissenso si sposta sulle cause e anche sul tipo di disuguaglianze che sono percepite, appunto, come problema e, di conseguenza, come oggetto di possibili policy. Gran parte del successo dei populismi si basa sulla individuazione di un particolare tipo di disuguaglianza, o di relazione tra diseguali, con una dicotomizzazione netta tra “noi” e “loro”, che si tratti di autoctoni delle fasce di popolazione più marginalizzate contro gli immigrati, dei giovani contro i vecchi, dei “cittadini” contro i “politici”, dei “poveri” contro “i ricchi”, dei paesi mediterranei contro il nord Europa (e viceversa).

Queste dicotomizzazioni aiutano a raccogliere consensi, ma non a effettuare analisi adeguate della situazione, quindi a sviluppare quelle politiche integrate e di largo raggio che sole possono contribuire a ridurre le disuguaglianze, non solo ingiuste, ma inefficienti dal punto di vista dello sviluppo e del ben-essere collettivo. Si tratta, necessariamente, di un mix di politiche redistributive, che proteggano dagli effetti della disuguaglianza, e di politiche pre-distributive, che intervengano sui vincoli alla formazione e valorizzazione del capitale umano (fin da bambini), che rimuovano gli ostacoli alla partecipazione, che intervengano a impedire la formazione di rendite monopolistiche nel mercato.

È qui che si definisce, a mio parere, il ruolo dei parlamenti, se si pongono il compito del contrasto alle disuguaglianze. Proprio perché sono l’arena in cui si confrontano interessi diversi, hanno, avrebbero, un’opportunità unica di costruire un discorso pubblico e una azione legislativa non polarizzate/polarizzanti, e neppure frammentate per accontentare questo o quel gruppo, ma sistematiche e inclusive. Ove il termine “inclusive” dovrebbe significare politiche, e leggi, che si coordinano nell’obiettivo di contrastare le disuguaglianze, definendo chiaramente interconnessioni, ma anche priorità e gradualità, al fine di rafforzarsi reciprocamente, ma anche di non contraddirsi e creare nuove forme di disuguaglianza - una eventualità ricorrente, ahimè, in molte politiche italiane.

Questo compito di coordinamento delle politiche e di monitoraggio delle conseguenze delle proprie decisioni dovrebbe essere fatto proprio dai parlamenti anche in un’ottica internazionale. Mi rendo conto che si tratta di un auspicio ingenuo, specie in questo periodo dove tornano i nazionalismi e i muri. Ma è una questione che non può essere elusa se si vogliono davvero contrastare le disuguaglianze.

« la Repubblica, 6 settembre 2017 (c.m.c)

Tra le sfide più ardue che gravano sui governi democratici di società multietniche vi è quella di riuscire a tenere insieme la richiesta di libertà con la richiesta di sicurezza, perché la prima tende a essere aperta e inclusiva (con ambizioni ideali universalistiche) mentre la seconda è escludente (arrivando anche a propagandare deliri nazionalisti). Il bisogno di mantenere alta la fiducia della maggioranza, spinge spesso i governi a mostrare più volentieri i muscoli. Ma nei casi delle società multietniche, la regola più coraggiosa e lungimirante (e in questo senso, la più prudente) è quella che sa ispirare politiche che limitino l’insicurezza senza deragliare dal binario delle libertà civili e dell’inclusione.

Una strada in questa direzione è quella che mostra la vicinanza delle istituzioni a chi è culturalmente vulnerabile; dare sicurezza comporta mostrare anche la faccia della prossimità, non soltanto quella della coercizione. Questa strategia si adatta a tutti i Paesi democratici multietnici, all’Italia in particolare, la cui politica della sicurezza deve saper guardare oltre le decisioni emergenziali sulle frontiere. Come interagire con i “diversi” che abitano nel Paese? Come possono le istituzioni democratiche far sentire la loro vicinanza a chi è oggetto di discrimazione? E come può la maggioranza culturale riuscire a comprendere che questo è nel suo stesso interesse?

Un tentativo di dare risposta a questa domanda è suggerito dalla pubblicità a tappeto che compare nei vagoni della metropolitana di New York e con la quale il governatore Andrew Cuomo annuncia un numero verde collegato al Dipartimento dei diritti umani per denunciare casi di discriminazione, subita o di cui si è stati testimoni. Il programma fa parte di un progetto inaugurato lo scorso anno con l’intento di dare a coloro che subiscono discriminazione una qualche certezza di ascolto, il senso di non essere soli contro un nemico coriaceo e contagioso come il pregiudizio. Il programma si affianca a un altro in funzione da anni sulla denuncia di casi di violenza, di stupro e di persecuzione o stalking. Questo nuovo servizio si concentra sulla discriminazione verbale o gestuale; ed è nato in coincidenza con la campagna elettorale di Donald Trump che ha marcato un’eccezionale impennata nell’uso esplicito di linguaggio discriminatorio, una pratica che sta avvelenando la sfera pubblica in questa società multirazziale, e però anche razzista in diverse parti del Paese e fasce della popolazione.

Tre sono le figure che nel messaggio pubblicitario indicano le identità potenzialmente oggetto di discriminazione: un uomo asiatico, una donna velata e una donna con il casco da operaio. In altre parole, le identità nazionali, quelle religiose, quelle di genere, e quelle associate alla classe lavoratrice. L’inserto pubblicitario suggerisce due interessanti piste interpretative. La prima riguarda le minoranze vulnerabili: che non sono solo quelle identitarie, come la religiosa e l’etnica, ma ora anche quella socio- economica. La classe e il genere insieme sono indicative del fatto che il lavoro dipendente e operaio è esposto alla discriminazione sia da parte di altri gruppi sociali sia da parte dei lavoratori stessi tra di loro. La seconda pista di lettura è che lo stato o la pubblica amministrazione vogliono essere percepiti vicini a coloro che hanno meno protezione sociale, economica e culturale; vogliono essere visti come un punto di riferimento che non rimane indifferente di fronte ad azioni che non sono direttamente violente e punibili.

Comportamenti che feriscono o umiliano, con gesti e parole, non sono necessariamente oggetto del codice penale. Tuttavia possono e devono trovare ascolto da parte delle autorità. Il razzismo verbale è l’uso del linguaggio con lo scopo esplicito di offendere, sminuire, avvilire in pubblico, davanti agli altri, per raccogliere consenso e ampliare l’audience a favore della discriminazione. Il razzismo può essere meglio combattuto prevenendo la sua radicalizzazione tramite il discorso — di qui l’importanza di abituare i cittadini a pensare che le istituzioni debbano presiedere a una comunità aperta, occuparsi delle forme della comunicazione dei e tra i cittadini. Lo spazio pubblico è un bene di tutti.

L’annuncio pubblicitario del governatore Cuomo può essere letto e recepito come il segno che l’autorità è consapevole di dover svolgere una funzione non soltanto repressiva, ma anche di attenzione e di vicinanza. La logica di questa politica dell’attenzione è di intervenire disincentivando, di indurre indirettamente comportamenti decenti. È prevedibile che molti nel vecchio continente, e nel nostro Paese, storcano il naso per quel che con disprezzo viene classificato “politically correct”. Tuttavia le società multietniche devono riuscire (è nel loro interesse che riescano) a strategizzare regole di comportamento e di uso del linguaggio capaci di delineare uno spazio pubblico nel quale persone diverse siano e si sentano libere di interagire in tranquillità. L’escalation della violenza verbale (oltre che fisica) nel nostro Paese dimostra quanto urgente sia questo lavoro di manutenzione dello spazio pubblico.

«Il brano è tratto da

Retrotopia, l’ultimo libro di Zygmunt Bauman il quale sostiene che nella società contemporanea l’utopia guarda a un passato che consideriamo più rassicurante». Robinson/la Repubblica, 3 settembre 2017 (c.m.c)


«L’utopia di Tommaso Moro di instaurare “il Cielo sulla Terra” non esiste più perché il futuro, troppo incerto e spaventoso, è considerato inaffidabile e ingestibile. Così, mentre prende piede l’individualismo che cancella il senso di comunità, il passato si trasforma in una condizione rassicurante e nell’unica prospettiva accettabile»

Zygmunt Bauman, Retrotopia, Laterza, (traduzione di Marco Cupellaro), in uscita il 7 settembre,

Ecco - per chi le avesse dimenticate - le parole con cui all’inizio degli anni Quaranta Walter Benjamin, nelle Tesi di filosofia della storia, commentava l’Angelus Novus - da lui ribattezzato “ angelo della storia” - dipinto nel 1920 da Paul Klee: «L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».

A quasi un secolo da quella lettura, di imperscrutabile e incomparabile profondità, a guardar bene l’opera di Klee si scorge di nuovo l’angelo della storia ad ali spiegate. Ma ciò che forse colpisce di più l’osservatore è il cambio di rotta, come se quell’angelo fosse colto nel bel mezzo di un’inversione di marcia: il volto dal passato si rivolge al futuro, le ali vengono respinte dalla tempesta che, stavolta, spira dall’inferno del futuro ( immaginato, previsto e temuto prima ancora che accada) verso il paradiso del passato (un passato probabilmente solo raffigurato a posteriori, dopo averlo perduto e visto andare in rovina). Ma le ali dell’angelo sono schiacciate, adesso come allora, con una violenza tale “ che egli non può più chiuderle”. La possibile conclusione è che in quel disegno il passato e il futuro sono colti mentre si scambiano i rispettivi vizi e virtù registrati da Klee — come ci spiega Benjamin — un secolo fa. Tocca ora al futuro, deprecato perché inaffidabile e ingestibile, finire alla gogna ed essere contabilizzato come voce passiva, mentre il passato viene spostato tra i crediti e rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui la scelta è libera e le speranze non sono ancora screditate.

La nostalgia — dice Svetlana Boym, docente di Letterature slave e comparate a Harvard — «è un sentimento di perdita e spaesamento, ma è anche una storia d’amore con la propria fantasia». Nel Seicento la nostalgia era considerata una malattia da cui si poteva guarire: per curarla i medici svizzeri, ad esempio, raccomandavano oppio, sanguisughe e una gita in montagna; ma « nel ventunesimo secolo quella lieve indisposizione si è trasformata in una condizione insanabile. Il ventesimo secolo, iniziato con un’utopia futurista, si è chiuso con la nostalgia». Boym conclude diagnosticando « un’epidemia globale di nostalgia« e avverte: « Il pericolo della nostalgia è che tende a confondere la casa vera con quella immaginaria » . […] Cinquecento anni dopo che Tommaso Moro diede il nome di Utopia al millenario sogno umano di tornare in paradiso o di instaurare il Cielo sulla Terra, l’ennesima triade hegeliana formata da una doppia negazione si avvia a completare il proprio giro.

A partire da Moro, le aspettative di felicità dell’uomo sono state sempre legate a un determinato topos ( un luogo stabilito, una polis, una grande città, uno Stato sovrano, tutti retti da un sovrano saggio e benevolo): ma una volta sganciate e slegate da qualsiasi topos, individualizzate, privatizzate e personalizzate (“ subappaltate” ai singoli esseri umani che le portano con sé come le chiocciole la propria casetta), adesso tocca a loro essere negate da ciò che avevano coraggiosamente e quasi vittoriosamente cercato di negare.

Dalla doppia negazione dell’utopia in stile Tommaso Moro ( prima negata e poi risorta) affiorano oggi “ retrotopie”: visioni situate nel passato perduto/ rubato/ abbandonato ma non ancora morto, e non — come la loro progenitrice due volte rimossa — legate al futuro non ancora nato, quindi inesistente […] La privatizzazione/ individualizzazione dell’idea di “ progresso” e degli sforzi per migliorare costantemente l’esistenza fu offerta dai governanti, e accolta da gran parte dei governati, come una liberazione che poneva fine ai severi obblighi della sottomissione e della disciplina, in cambio della rinuncia ai servizi sociali e alla protezione dello Stato.

Per tante persone — sempre di più — quella liberazione si rivelò una fortuna e insieme una disgrazia, o forse una fortuna adulterata da una dose notevole e crescente di disgrazia. Ai disagi dei vincoli subentrarono — non meno umilianti, spaventosi e gravosi — i rischi, che inevitabilmente finirono per saturare quella condizione di autonomia imposta per decreto. Se la paura di non dare un contributo ( con le sanzioni che ciò comportava) poteva essere tenuta a bada dal conformismo e dall’obbedienza che fino a ieri imperavano al posto dove oggi vige l’autonomia, a quella paura è subentrato il terrore, non meno straziante, di risultare inadeguati.

Mentre le vecchie paure scivolavano lentamente nell’oblio e le nuove si ingigantivano e si intensificavano, promozione e declassamento, progresso e arretramento si scambiavano le parti — e si moltiplicavano sempre più gli individui che, come pedine su una scacchiera, erano ( o si sentivano) condannati alla sconfitta. Ecco così spiegata la nuova inversione di rotta del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici: le speranze di miglioramento, a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reinvestite nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità.

Un simile dietrofront trasforma il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, in sede di incubi: dal terrore di perdere il lavoro e lo status sociale che esso conferisce, a quello di vedersi “ riprendere” la casa e le cose di una vita, di rimanere impotenti a guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio benessere- prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di mercato. La via del futuro somiglia stranamente a un percorso di corruzione e degenerazione. Il cammino a ritroso, verso il passato, si trasforma perciò in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente. Gli effetti di un simile cambiamento […] si vedono e si toccano a tutti i livelli della convivenza sociale, nella nascente visione del mondo e nelle strategie di vita che tale visione insinua e prepara.

Il fenomeno che definisco “ retrotopia” deriva dalla negazione della negazione dell’utopia, che con il lascito di Tommaso Moro ha in comune il riferimento a un topos di sovranità territoriale: l’idea saldamente radicata di offrire, e possibilmente garantire, un minimo accettabile di stabilità, e quindi un grado soddisfacente di fiducia in sé stessi. Al tempo stesso, la retrotopia si discosta dall’eredità di Moro in quanto approva, fa proprie e assimila le contribuzioni/ correzioni apportate dal suo precedessore immediato, che aveva rimpiazzato l’idea di “ perfezione assoluta” con l’assunto di non- definitività e di endemico dinamismo dell’ordine delle cose, ammettendo in tal modo la possibilità ( e desiderabilità) di una infinita successione di cambiamenti ulteriori, che l’originaria idea di utopia delegittimava e precludeva a priori.

Fedele allo spirito dell’utopia, la retrotopia è spronata dalla speranza di riconciliare finalmente la sicurezza con la libertà: impresa mai tentata — e, in ogni caso, mai realizzata — né dalla visione originaria né dalla sua prima negazione. […] Le più significative tendenze di “ ritorno al futuro” che si riscontrano in questa incipiente fase “ retropica” della storia dell’utopia […] ovviamente, non rappresentano un ritorno diretto e immediato a una modalità di vita praticata in passato: sarebbe semplicemente impossibile, come ha ben dimostrato Ernest Gellner. Essi rappresentano invece — per richiamare la distinzione concettuale proposta da Derrida — tentativi consapevoli di iterazione ( e non reiterazione) dello status quo che esisteva, o si immagina esistesse, prima della seconda negazione, sulla base di un’immagine in ogni caso riciclata e modificata significativamente attraverso un processo di memorizzazione selettiva strettamente intrecciata all’oblio selettivo.

Come che sia, nel tracciare la strada che porta a Retrotopia, i principali punti di riferimento sono gli aspetti veri o presunti del passato che, pur avendo dato buoni risultati, sarebbero stati inopportunamente abbandonati o irresponsabilmente mandati in rovina. Per collocare nella giusta prospettiva l’innamoramento retrotopico per il passato, è opportuno premettere un altro avvertimento. Boym nota che un’epidemia di nostalgia “ spesso segue le rivoluzioni”, e saggiamente aggiunge che nel caso della Rivoluzione francese del 1789 « non fu solamente l’ancien régime a produrre la rivoluzione, ma anche la rivoluzione, per certi versi, a produrre l’ancien régime, dandogli una forma, un senso di compiutezza e un alone di rispettabilità».

Fu invece il crollo del comunismo a far nascere l’idea che gli ultimi decenni dell’impero sovietico fossero stati “ un’età dell’oro di stabilità, forza e normalità, che è l’immagine oggi prevalente in Russia”. In altri termini, ciò a cui di solito “ torniamo” nei nostri sogni nostalgici non è il passato “ in quanto tale” — wie es ist eigentlich gewesen, com’è stato davvero — , quel passato che Leopold von Ranke raccomandava di recuperare e rappresentare ( come diversi storici hanno cercato di fare, con scarsi consensi). […] Ci sono buone ragioni per ipotizzare che l’avvento del World Wide Web e di Internet abbia segnato il declino dei “ Ministeri della Verità”, ma non certo il tramonto della “ politica della memoria storica”, di cui ha semmai moltiplicato le possibilità di applicazione, reso infinitamente più accessibili gli strumenti per praticarla e potenzialmente spinto all’estremo le conseguenze.

In ogni caso, la scomparsa dei “Ministeri della Verità” (ossia del monopolio incontrastato dell’autorità costituita sulle sentenze in materia di veridicità) non ha certo spianato la strada ai messaggi inviati alla coscienza pubblica da chi per mestiere ricerca e comunica la “verità dei fatti”, ma ha semmai reso quella strada ancora più accidentata, tortuosa, infida e incerta.

I paradossi della storia che solo pochi scrutatori delle anime possono forse comprendere: come mai un popolo così multietnico e così abuso all'emigrazioni è così xenofobo e razzista?

il manifesto, 3 settembre 2017

Ci aveva già provato la Lega Nord, anni fa. Forse la reazione, culturale e politica, dell’Italia democratica fu troppo debole, allora. Ci riprova ora uno dei tanti gruppuscoli neofascisti, quello probabilmente di maggior capacità di mobilitazione, nel silenzio pavido degli uni e nella oggettiva complicità degli altri – quella cospicua parte del popolo italiano che ha già introiettato la paura dell’immigrato.

Alludo al manifesto che Forza Nuova ha lanciato per accendere italiani e italiane di sacro fuoco etnico-nazionale, ricorrendo a un prodotto propagandistico del peggior periodo della nostra storia, quello della Repubblica Sociale Italiana: un manifesto murale, diffuso anche sulla stampa di regime, che mostrava un «negro» che ghermisce una donna bianca, e il testo recitava: «Difendila dai nuovi invasori» e poi, in piccolo: «Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia». Gli invasori erano, nel ’44 i soldati degli eserciti alleati, in quello che fu l’anno dello sbarco ad Anzio e in Sicilia, e la crisi del fascismo, succube del nazismo hitleriano, appariva ormai irreversibile. Il manifesto era firmato da un disegnatore sperimentato, Gino Boccasile, l’inventore della Signorina Grandi Firme, efficacissimo illustratore delle copertine della Domenica del Corriere, poi firmatario del Manifesto della razza, infine, appunto, convinto aderente alla Rsi.

Forza Nuova, riproponendo l’icona del negro stupratore di bianche fanciulle, nella Rete (ma si annuncia anche, pare, la stampa murale in grande formato), aggiunge un commento per così dire esemplare, dal punto di vista dell’uso politico della storia, una storia naturalmente manipolata, ignorata, o rovesciata. Si legge infatti: «Le violenze dell’epoca del manifesto a cui ci siamo ispirati furono contestualizzate all’interno della sconfitta che chiamarono "liberazione", quelle di questi anni e di questi giorni le occultano spudoratamente, tacendo il fatto che sono attuate da nuovi invasori a cui paghiamo vitto, alloggio, bollette, schede telefoniche, cellulari e sigarette. I nuovi barbari sono peggiori di quelli del ’43-45, oggi come allora fiancheggiati dai traditori della Patria».

Difficile sintetizzare meglio la morale politica del fascismo, e mostrarne l’eterno ritorno, per così dire, sotto le mutevoli vicende di nazioni e popoli. Difficile esplicitare in così poche parole una mentalità, ahinoi sempre più diffusa, che fondandosi su false informazioni, o su vere e proprie menzogne, gioca sulla ingannevole contrapposizione «noi/loro», accettandola supinamente. Il «successo» del post (oltre 10 mila like in poche ore) è una riprova in tal senso, ma ancor più lo è la gran massa dei commenti, un osceno florilegio del peggior razzismo cosciente o più spesso inconsapevole, un buco nero in cui annega ogni residuo di intelligenza. «L’emergenza» denunciata ogni giorno da un intero ceto politico, o quasi, non è quella dei migranti, ma quella degli stolti e degli ignoranti. La strada è lunga e in salita.

L'ideologia del colonialismo perdura e continua a trovare accoliti, e le storie di sopraffazione si ripetono senza un analisi critica e una condanna degli errori fatti,

Internazionale, 31 agosto 2017, con postilla (i.b.)

Si è scritto molto sulla foto di Angelo Carconi che ritrae un poliziotto che accarezza una ragazza eritrea durante lo sgombero con gli idranti di piazza Indipendenza, a Roma. Lo sguardo tra i due ci parla di una relazione complicata (ambigua, coloniale, violenta) cominciata verso la fine del diciannovesimo secolo e mai terminata. Tracce di questa storia sono ancora presenti nel quartiere dove è avvenuto lo sgombero, tra piazza Indipendenza e la stazione Termini. Qui si sono intrecciate la storia delle prime migrazioni dal Corno d’Africa e la storia del colonialismo italiano.

Negli anni settanta del secolo scorso il Corno d’Africa era in fiamme. Si scappava dalle dittature. I somali scappavano da Siad Barre, gli etiopici-eritrei dal sanguinario Menghistu Hailè Mariàm. Le terre del corno si tingevano di sangue e l’Italia, di cui molti conoscevano già la cultura, fu considerata naturale terra d’approdo. L’Italia infatti – anche dopo la fine del colonialismo storico – ha avuto su quelle terre una forte influenza ideologica. Basti pensare che fino al 1974 le scuole in Somalia erano italiane, perché dire Italia era come dire Europa. E anche ad Asmara, in Eritrea, portare i figli alla scuola italiana era non solo prestigioso per le famiglie, ma anche una chiave d’ingresso (almeno molti lo speravano) assicurata per il futuro.

Italiani d’Africa
Quindi, nonostante le brutture del colonialismo, l’Italia e il Corno d’Africa rimasero in qualche modo in una relazione ambigua. Perché anche se il colonialismo era finito, non era terminato il modo coloniale di relazionarsi. Gli italiani in quei paesi (ci andavano per lavoro) facevano sempre i padroni, insidiavano sempre le donne – “le belle abbissine”, “le faccette nere” – e andavano a caccia, fingendosi un po’ dei vecchi coloni. Dall’altro lato somali ed eritrei (e in misura molto minore gli etiopici) sognavano quell’Italia di cui conoscevano a memoria tutte le canzoni.

Gianni Morandi andava per la maggiore, ma anche Rita Pavone, Peppino di Capri, Mina e successivamente (ma erano già gli anni ottanta) i Ricchi e Poveri o Umberto Tozzi. Uno dei più famosi hotel di Mogadiscio, l’Uruba, per concludere le sue serate danzanti metteva su una serie di lenti e tutti sapevano che quando scattava Ciao di Pupo era l’ora di ritirarsi, il momento di rubare un bacio alla propria bella.

Il Corno d’Africa sognava l’Italia, la considerava la quintessenza della modernità, perché dopo la guerra molti (l’imperatore d’Etiopia per primo, grazie alla realpolitik) preferirono non rivangare quei cattivi ricordi di stragi, eccidi, uso di gas e andare avanti. Quindi basta con il generale Rodolfo Graziani e la sua violenza, meglio ballare sulle note di Adriano Celentano e dei suoi 24.000 mila baci.

Ma il passato se non lo rielabori ti arriva addosso come un boomerang. E se ne accorsero i primi emigranti somali ed eritrei che si trovavano negli anni settanta a passare proprio a piazza Indipendenza il tempo libero. Molte donne lavoravano come colf, ma c’era chi studiava, chi sperava in un futuro migliore. L’Italia non era quella terra del bello che avevano sognato. Niente Gianni Morandi o Adriano Celentano. Era un paese polveroso pieno di problemi, denso di pericoli (c’era il terrorismo) quasi quanto la terra d’origine. E non è un caso che fu proprio in quel momento che il passato coloniale riemerse con tutta la sua ferocia, con le sue idee di razza inferiore e razza superiore, con gli stereotipi di questi neri pigri, di queste nere da mangiare in un sol boccone (spopolavano allora i film sexy con l’eritrea Zeudy Araya). Fu in quel momento che il razzismo colpì con ferocia quei primi migranti.

Fu allora, esattamente nel 1979, che il somalo Ahmed Ali Giama fu bruciato vivo per scherzo da quattro ragazzi italiani annoiati sotto il portico di via della Pace. Il povero Ahmed era reo di essere povero ed essere nero. E lo stesso succederà negli anni ottanta, nel 1985 ad Udine, a Giacomo Valent, figlio di un italiano e di una somala, massacrato dai suoi compagni di scuola con 63 coltellate perché nero, benestante e di una famiglia cosmopolita. Si odiava il ricco come il povero se era nero.

Ed ecco che tutta la propaganda sul Corno d’Africa, sui perfidi abissini, di mussoliniana memoria, fece di nuovo capolino sia nelle chiacchiere in famiglia sia nei discorsi pubblici. C’era diffidenza verso questi migranti dalla pelle scura, verso i loro primi figli. Sguardi cattivi, non solo curiosi. E lì ci fu la delusione di molti somali e molti eritrei. Come racconta bene Garane Garane in un libro ormai mitico per gli studiosi postcoloniali, Il latte è buono, il protagonista del romanzo, Gashan, subisce al controllo passaporti il primo colpo:

«Il passaporto per cortesia…
Passaporto? Perché?, chiese Gashan con l’aria incredula.
Perché? Ma siamo in un altro paese. Ci saranno passaporti da voi? O mi sbaglio, disse con stizza il poliziotto.
Sono somalo. Non mi ha riconosciuto?»

Ecco quel “non mi ha riconosciuto” è il segno di una fratellanza mancata. Gashan sa tutto dell’Italia. Ha studiato l’italiano a scuola, ha mangiato i dolci italiani al Hazan vicino alla casa d’Italia dove il pasticcere è italiano, conosce la musica, conosce il cinema, sa cose dell’Italia che nemmeno l’Italia sa di se stessa. Gashan si sente tradito dall’ignoranza dell’Italia su di lui. E via via che il romanzo procede e capisce che nessuno lo conosce, né tantomeno conosce la Somalia, la sua delusione diventa sconcerto. Gashan si sente straniero proprio in quell’Italia che sentiva come casa. L’unico che lo riconosce è la statua di Giulio Cesare ai Fori imperiali, e solo a lui Gashan apre il cuore. Solo le tracce di marmo, solo le tracce nell’architettura conoscono ancora il suo nome. La fredda statua gli dà quell’asilo che l’Italia gli nega.

Lo stesso di fatto è successo con lo sgombero di via Curtatone. Lo sgombero sarebbe stato grave anche se si fosse trattato di romeni, nigeriani, maliani, bengalesi. Ma il fatto che si trattasse di eritrei lo ha reso più grave ai miei occhi. Se gli eritrei, che sono stati i primi a venire in questo paese, ancora si dibattono tra occupazioni e razzismo, come pensiamo di risolvere il problema di tutti gli altri? Vuol dire che c’è una dissociazione con la propria storia. Una volontà di vivere in perenne emergenza. E dire che basterebbe solo fare pochi passi da piazza Indipendenza verso la stazione Termini per capire quanto profonda sia questa relazione.

Piazza dei Cinquecento, Roma, 1950 circa

Piazza dei Cinquecento, la piazza della stazione, è dedicata ai caduti italiani della battaglia di Dogali, una delle più grandi sconfitte militari che l’Italia abbia subìto in Africa insieme alla battaglia di Adua. Una sconfitta militare che costò caro all’Italia in termini di caduti e di consenso nel paese. Su Dogali gli italiani si divisero e molti si chiesero come mai proprio loro che si erano liberati da poco dal giogo coloniale austriaco ora volevano far subire la stessa sorte a degli africani che nemmeno conoscevano e con cui non c’era nessuna inimicizia.

Quei primi vagiti di colonialismo, voluto da politici e ufficiali (non dal popolo), furono fallimentari e ce lo illustra molto bene lo storico Angelo del Boca nel suo volume dedicato agli italiani in Africa Orientale. Del Boca in particolare spiega che a Dogali la battaglia fu una sconfitta perché gli ufficiali sottovalutarono di fatto il nemico, in quanto africano. Un ammasso di errori di strategia, di pressappochismo, di arroganza e di pensiero razzista portarono a un eccidio. Uno dei fatti che mi ha sempre colpito della battaglia in questione è che, all’interno di una cornice militare, tra eritrei-etiopici e italiani si siano consumate vendette private.

Sempre Del Boca ci riferisce che mentre infuriava la battaglia alcuni italiani si sentirono chiamare per nome da alcuni soldati nemici. Erano gli eritrei che a Massaua lavoravano nei magazzini e negli opifici italiani. E che nei loro luoghi di lavoro erano stati umiliati e picchiati. Ogni volta che passo attraverso la stazione Termini penso che quella piazza è stata dedicata non solo a una battaglia persa, ma a un modo di procedere (tutto made in Italy) fallimentare nelle relazioni con l’altro.

Una storia mai finita

Certo potrei dirvi che la storia coloniale è stata rimossa e finirla qui. Ma il punto non è solo la rimozione (che c’è), ma anche la mancata rielaborazione di cosa stiamo stati insieme nel bene e nel male. Italia ed Eritrea, Italia e Somalia, Italia ed Etiopia, Italia e Libia non si sono mai guardati davvero in faccia e nelle relazioni (parlando dei potenti) c’è un ambiguo proseguimento di vecchi schemi. Una “fratellanza” sbandierata per poi poter fare affari con dittatori feroci (lo vediamo nella gestione della questione migranti con il generale libico Haftar) o per sversare rifiuti tossici in terre un tempo incontaminate. Elvira Frosini e Daniele Timpano nel loro spettacolo dedicato al colonialismo italiano Acqua di colonia dicono non a caso che “qualche affaruccio lo abbiamo combinato pure dopo”, cioè dopo il colonialismo, ed ecco elencati Enrico Mattei e Ilaria Alpi, gli affari sporchi che nel tempo hanno legato Italia e Africa. Come se questo maledetto colonialismo in verità non fosse mai finito.

C’è una mancata rielaborazione. Una mancata decolonizzazione. Un mancato guardarsi negli occhi e raccontarsi. Forse per questo quella foto mi ha colpito. Mi sono astratta e ho cercato di capire se prima o poi nel futuro ci sarà un vero riconoscimento reciproco. E guardando la donna, il suo pianto così dignitoso, ho pensato a un altro eritreo, Zerai Deres. Di lui circola una foto in rete: ha bei riccioli, baffetti ben curati. Una giacca elegante, uno sguardo fiero. Durante il fascismo, almeno secondo le fonti eritree-etiopiche, quest’uomo si rese protagonista di un atto d’insubordinazione contro il fascismo in pieno centro di Roma, zona stazione Termini, presso la stele di Dogali. Zerai Deres probabilmente era uno degli interpreti degli internati etiopici che per rappresaglia furono incarcerati dopo l’attentato al generale Rodolfo Graziani del 1937.

Stele di Dogali, Roma, luglio 2014

Il 13 giugno 1938 Zerai Deres si trovava nei pressi del monumento dei caduti di Dogali e guardando negli occhi il leone di Giuda (simbolo dell’Etiopia, trafugato dal fascismo e messo davanti alla stele, restituito all’Etiopia nel 1970 grazie ad Aldo Moro) cominciò a sentire nel petto una rabbia che lo portò prima a inneggiare all’imperatore Hailé Sellasié, poi a inveire contro l’Italia e il fascismo, e infine a colpire con una sciabola quanti più italiani possibile, ferendone alcuni. Qui la storia si fa nebulosa. Zerai Deres era un patriota? O il suo gesto era dettato da questioni personali? Davvero ci fu un atto d’insubordinazione al fascismo nella città di Roma e non ci è stato tramandato nulla?

La donna con le sue lacrime così dignitose mi ha ricordato quel Zerai Deres che si perde tra storia e leggenda. Anche la zona di Roma è più o meno la stessa. Piazza Indipendenza non è tanto lontana da dove si trova la stele di Dogali. Ed ecco che lo spazio tra il poliziotto e la ragazza diventa qualcosa di veramente importante. Lì dentro c’è un vuoto di senso che dobbiamo colmare. Ci si guarda negli occhi, certo, ma ci si riconosce? E questo forse quello che dovremmo fare nel prossimo futuro: riconoscerci come parte di una stessa storia.

postilla
E' difficile affrontare la decolonizzazione, senza cadere nel neocolonialismo, se di quel periodo non si ammettono e condannano gli errori e gli orrori commessi nel nome di una presunta superiorità culturale. Rimangono ancora troppi coloro che considerano quel capitolo della nostra storia un passato glorioso e che oggi ne condividono ancora i valori e gli ideali.

A questo proposito, mi torna in mente l'articolo di Carlo Gubitosa, qui sotto riportato, a commento della vignetta di Spataro su Montanelli. Lo stesso Montanelli, giornalista e intelletuale di grande autorevolezza, ricordava con compiacenza la sua esperienza coloniale, che includeva anche l'acquisto acquisto a Sangareti di una dodicenne "assieme a un cavallo e un fucile, tutto a 500 lire". (i.b.)

L'espresso, 10 Luglio 2013

IL FUMETTISTA, MONTANELLI, LA "MOGLIE BAMBINA" INERITREA E L'AMORE COME REATO PENALE NEL FASCISMO

Carlo Gubitosa

E' incredibile quante cose si imparano con una vignetta, soprattutto se arriva da qualcuno che sa rovistare nelle pieghe della storia. E' quello che ha fatto il fumettista Alessio Spataro tuffandosi di testa nell'archivio Youtube della Rai per una "anticommemorazione" illustrata di Indro Montanelli, di cui tra pochi giorni ricorre l'anniversario della morte.

L'oggetto della contestazione e' un episodio della vita di Montanelli gia' noto ma non notorio, pubblico ma non troppo pubblicizzato, una "non-notizia" che personalmente ignoravo, rimasta ai margini del dibattito pubblico su questa icona del giornalismo: l'"acquisto" di una moglie dodicenne (piu' precisamente una "madama") durante la stagione del colonialismo fascista in Eritrea.

Correva l'anno 1936, e quella che sarebbe diventata una delle penne piu' prestigiose d'Italia scriveva nel numero di gennaio del periodico "Civilta' Fascista" un articolo in cui si sosteneva che "non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà".

Ma evidentemente non tutti i tipi di "fraternizzazione" erano sgraditi a Montanelli, come ha raccontato il diretto interessato in una intervista rilasciata a Enzo Biagi per la Rai nel 1982: "aveva dodici anni, ma non mi prendere per un Girolimoni, a dodici anni quelle li' erano gia' donne. L'avevo comprata a Saganeiti assieme a un cavallo e un fucile, tutto a 500 lire. (...) Era un animalino docile, io gli (sic) misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi insieme alle mogli degli altri ascari".

L'episodio era gia' stato rievocato in precedenza nel 1969, durante il programma di Gianni Bisiach "L'ora della verita'", in cui Montanelli ha descritto la sua esperienza coloniale: "Pare che avessi scelto bene - racconto' Montanelli - era una bellissima ragazza, Milena, di dodici anni. Scusate, ma in Africa e' un'altra cosa. Cosi' l'avevo regolarmente sposata, nel senso che l'avevo comprata dal padre. (...) Mi ha accompagnato assieme alle mogli dei miei ascari (...) non e' che seguivano la banda, ma ogni quindici giorni ci raggiungevano (...) e arrivava anche questa mia moglie, con la cesta in testa, che mi portava la biancheria pulita. (...) non c'e' stata nessuna violenza, le ragazze in Abissinia si sposano a dodici anni".

Un episodio che getta una pesante ombra sulla memoria del giornalista, ma al tempo stesso permette di fare luce su pagine oscure della nostra storia, che vanno ben oltre quella compravendita di una bambina dodicenne troppo giovane per fare da moglie a chicchessia.

L'occasione per approfondire il clima dell'epoca e' stata la polemica innescata dalla rievocazione di Spataro, dove il fronte degli indignati per quell'azione intrisa di colonialismo e in odore di pedofilia si e' scontrato con la frangia giustificazionista del "cosi' fan tutti" (o perlomeno cosi' facevano tutti all'epoca di quei fatti).

Ma siamo sicuri che fossero proprio tutti a fare cosi'? Sembra di no, visto che dalla nebbia cibernetica dei ricordi, oltre alla moglie bambina di Montanelli (abbandonata al suo Tucul e al suo destino quando il giornalista e' rientrato in Italia) e' emersa tra una replica e l'altra anche la storia dell'"imputato Seneca", l'uomo che ha sfidato per amore le leggi razziali in base alle quali era proibito elevare al rango di moglie vera e propria una "madama" acquistata per i soggiorni nelle colonie.

Il "madamato", infatti, non era un vero e proprio matrimonio con parita' di diritti e doveri, ma una forma di "contratto sociale" segnata dal dominio autoritario del colonizzatore sull'indigeno, dell'uomo sulla donna, dell'adulto sul bambino, del libero sul prigioniero, del ricco sul povero, del forte sul debole. E alla fine avevi qualcosa che era meno di una moglie e poco piu' che una schiava.

Era importante fare in modo che queste relazioni di dominio con le "belle abissine" non sconfinassero mai nel terreno dei sentimenti, e per questo nel Regio Decreto 740 del 19 aprile 1937, dal titolo eloquente "Sanzioni per rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi", si era stabilito che "il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d'indole coniugale con persona suddita dell'Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell'Africa Orientale Italiana è punito con la reclusione da uno a cinque anni".

La ragione di questo divieto alle "relazioni d'indole coniugale" l'ha spiegata Gianluca Gabrielli in un articolo del 2012 pubblicato sulla Rivista dell'Associazione Nazionale degli antropologi culturali:

La legge contro le unioni miste - scrive Gabrielli - vuole punire esemplarmente gli italiani che mostrano di non aver rispettato il codice di comportamento "razziale" dei dominatori. Il dispositivo quindi non è stato varato per colpire direttamente la donna africana, non è lei da educare in senso razzista. È l'italiano che interessa, che deve mantenere una distanza evidente e ostentare superiorità con le popolazioni del luogo, perché la distanza e la superiorità assicurano il dominio.

Ed e' per questo che tra i "capi d'accusa" a carico di Seneca vengono elencati normalissimi gesti di premura verso una compagna, tra cui la colpa "di aver preso con sé un'indigena, di averla portata con sé nei vari trasferimenti, di volerle bene, di averla fatta sempre mangiare e dormire con sé, di avere consumato con essa tutti i suoi risparmi, di avere fatto regali ad essa e alla di lei madre, di averle fatto cure alle ovaie perché potesse avere un figlio, di avere preso un'indigena al suo servizio, di avere preparato una lettera a S.M. il Re Imperatore per ottenere l'autorizzazione a sposare l'indigena o almeno a convivere con lei". Gesti che diventano crimini perche' l'oggetto di queste attenzioni e' un'africana, un'inferiore, un "suddito".

Sfogarsi nelle trasferte comprandosi le "madame" andava bene, ma nella sentenza che condanna Seneca si afferma che "in questo caso, non è il bianco che ambisce sessualmente la venere nera e la tiene a parte per tranquillità di contatti agevoli e sani, ma è l'animo dell'italiano che si è turbato ond'è tutto dedito alla fanciulla nera sì da elevarla al rango di compagna di vita e partecipe d'ogni atteggiamento anche non sessuale della propria vita".

E quando si passa dalle "ambizioni sessuali" ai "turbamenti dell'anima", aggiungendo la sfrontatezza di voler elevare la "fanciulla nera" al ruolo di "compagna di vita" anche fuori dal letto, non c'e' perdono possibile per la cultura fascista. Per i giudici che hanno condannato l'imputato Seneca quella donna non era rimasta un puro oggetto sessuale per "contatti agevoli e sani", ma c'era il rischio che potesse diventare non solo oggetto di affetti, ma anche moglie e cittadina dell'impero, e tutto questo per il colonizzatore e' una sciagura da evitare a tutti i costi.

Per smentire il "cosi' fan tutti" associato alla sottomissione delle donne, all'acquisto di minorenni, alla pratica del "madamato" basta una semplice controprova che sgretola in un attimo quel "tutti" cosi' perentorio. E pur essendo cosa comune a quei tempi comprare persone di cui disporre liberamente, e avere rapporti sessuali con dodicenni, c'e' sempre in ogni epoca della storia qualche "imputato Seneca" che spinge la civilta' lontano dalla barbarie.

E' a questa gente che dobbiamo guardare, e non alla morale corrente: ne' a quella in vigore al tempo delle "madame" dodicenni, ne' a quella attualmente in voga nella nostra epoca di "utilizzatori finali" di diciassettenni.

Ricostruire l'"acquisto" di Montanelli e il contesto in cui e' maturato, assieme all'esperienza speculare di Seneca che cercava una compagna di vita e non una "madama a tempo", potra' sembrare una inutile riesumazione di fatti gia' noti, o una mancanza di rispetto verso una firma storica del giornalismo italiano.

Resto comunque persuaso che il recupero della memoria storica, l'analisi critica dei dati di realta' e i racconti fatti senza piaggeria faranno contento il Montanelli giornalista ovunque egli si trovi, anche a costo di lasciare un po' amareggiato il Montanelli colonialista e acquirente di dodicenni, e i suoi fan talmente appassionati e devoti da perdonargli qualsiasi errore di gioventu', anche il piu' abominevole.

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