loader
menu
© 2024 Eddyburg
«Roma.Il futuro delle carceri. Mauro Palma, garante dei detenuti interviene nel dibattito». La Repubblica, 30 maggio 2016 (c.m.c.)

«Lei mi chiede se è giusto trasferire le carceri dai centri cittadini alle periferie, come ipotizza il piano del governo. E io le rispondo che prima bisogna chiarire un punto: cosa intendiamo quando parliamo di periferia?».

Cosa intendiamo, professor Mauro Palma? Lo spieghi lei, Garante dei detenuti.
«Le faccio un esempio che non c’entra con il carcere: a Roma c’è il Corviale. Lo progettarono bravi architetti, prevedendo che il terzo piano degli edifici fosse dedicato ai servizi. Andò diversamente, con strutture a una tale distanza dal contesto urbano che persero la loro funzione. Lo spazio non è qualcosa a sé, conta il territorio nel quale collocarlo».

Cosa conta per un carcere in periferia?
«Se quello spazio è concettualmente e strutturalmente vicino al resto del contesto urbano. Pensi a Poggioreale: è al centro, ma è collegato a Napoli peggio di Secondigliano, che invece si trova in periferia. Se mancano i collegamenti, la socialità e l’urbanizzazione dei luoghi, allora non funziona».

Quindi non boccia a priori il piano?

«Il punto è che esistono due strade. La prima è migliorare il patrimonio edilizio esistente. Ci sono direttori di carceri che fanno i salti mortali, in spazi anche piccoli. Oppure si può ragionare partendo da quale esecuzione penale vogliamo».

E dove porta questa strada?

«Si decide di organizzare lo spazio in funzione di un modello che punti a una riduzione della recidiva e a reintegrare i detenuti nel sistema, per una pena non solo afflittiva».

In questo caso come si riorganizzano gli spazi? Faccia qualche esempio.
«Carceri con un lungo corridoio centrale non rispondono a questo modello: così non si risocializzano le persone. Riorganizzerei lo spazio abolendo il concetto di mura di cinta: intorno uffici e servizi, al centro le strutture detentive, in piena sicurezza. Con unità più piccole, aggregate: massimo dieci detenuti, con cucina comune, per favorire la socialità. Vede, questo a Regina Coeli non si può fare».

Immaginiamo che le carceri dei centri storici diventino centri commerciali.
«Mi preoccuperei se lo diventasse Regina Coeli. I luoghi portano una memoria, trasmettono un significato. Questo non significa cedere alla musealizzazione. Ma una volta a Copenaghen ho dormito in un vecchio carcere trasformato in hotel: ho avvertito fastidio».

E allora come li immagina?
«Con una funzione sociale: una parte dedicata all’accoglienza, un’altra riadattata per forme di custodia come la semilibertà».

Se il carcere sparisce dalla vista, si rischia di rimuove l’idea stessa del male?
«Sì, però non accade solo in periferia. Pensi al campo migranti vicino alla stazione Tiburtina. Era al centro, eppure il “rimosso” c’era».

Per concludere: l’importante è che la scelta non sia tra celle sovraffollate al centro e nuove asettiche “cattedrali nel deserto”?
«Esatto. Tra l’altro dico sempre che forse è meglio sentire il rumore dei chiavistelli che non sentire niente, come accade in alcune carceri “tecnologiche” europee. Mi spavento quando sparisce ogni traccia di relazione».

«Il regista vincitore con il fratello dell’Orso d’Oro con un docu-film ambientato in carcere parla del progetto di vendere la prigione romana: “Viverci è impossibile però farne un uso commerciale rappresenterebbe un insulto a chi lì dentro ha sofferto tanto”» Intervista diArianna Finos. La Repubblica, 30 maggio 2016 con postilla

Togliete le carceri dai centri storici, ma non trasformatele in alberghi e centri commerciali». Vittorio ePaolo Taviani, registi, sono in sintonia con il piano del governo, anticipato ieri da Repubblica, che prevede l’abbandono delle strutture storiche di Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale a favore di nuovi penitenziari nelle periferie di Roma, Milano e Napoli, ma a patto che «gli spazi siano destinati al servizio pubblico dei cittadini». Da sempre attivi nelle prigioni, i Taviani hanno vinto l’Orso d’oro alla Berlinale nel 2012 con Cesare deve morire, docu-film sulla messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia.

Vittorio, 86 anni, si è appena ripreso dall’incidente dello scorso ottobre, quando fu investito a un’auto in piazza Venezia. E dice: «Per noi di famiglia, parlo anche per mio fratello Paolo, e per il quartiere il carcere di Regina Coeli fa parte dell’orizzonte dei nostri sentimenti. Da cinquant’anni anni conviviamo con quello che ci arriva da là.

Le famose grida romantiche dall’alto del Gianicolo e dalle sbarre, messaggi d’amore e di sostegno. Può capitare, e questo è terribile, che di notte improvvisamente arrivi una voce singola, disperata: “Qui non posso vivere”. Quando c’è una partita dell’Italia, non abbiamo bisogno di accendere la televisione. Se va bene o va male lo sentiamo dalle grida di orrore o gioia che arrivano da lì dentro».

Diverse sono le condizioni di chi è recluso.
«Lo sappiamo bene. Con “Cesare…” io e Paolo abbiamo vissuto un’esperienza a Rebibbia, che è un carcere buono ma con problemi di sovraffollamento. Ci capitava, prima o durante le riprese, di camminare per questi lunghi corridoi e vedere attraverso le porte semiaperte uomini vecchi e giovani distesi sui letti a castello. Immersi, per ore, in un silenzio di morte. Uno di loro mi disse: “Non mi deve chiamare detenuto, mi chiami il guardatore di soffitti”. In questo senso, in quei luoghi, c’è un nulla che distrugge l’energia della vita. Regina Coeli è molto peggio. Perché almeno il carcere di Rebibbia è stato costruito in modo razionale, nella prigione di Trastevere ho visto celle fatiscenti.

Credo che sia venuto il momento che Regina Coeli scompaia, accompagnato, lo dico, dal dolore di tutti noi che viviamo in questo quartiere. È un pezzo della storia di Roma che si fonde con i rumori della città che gli è intorno. Si perderà tutto, ma ben venga se avverrà a favore di un luogo in campagna, con costruzioni innovative progettate da architetti, sociologi e psicologi affinché si trovi il modo per trasformare la pena in un cammino di riscatto. Vivere là dentro è una condizione inconcepibile per un essere umano. Allora, addio Regina Coeli».

Tra le conseguenze più gravi dell’inadeguatezza delle strutture c’è l’immobilismo dei detenuti.
«Quando i nostri carcerati, attori, uscivano dalle loro celle e venivano per alcune ore da noi, dicevano: “Oggi siamo liberi, ci sentiamo persone. Appena torniamo su, perdiamo l’individualità degli uomini, l’energia della vita”. Ci ha sconvolto il loro dover vivere senza un progetto. Alcuni meravigliosi disperati studiavano, prendevano lauree e diplomi, agganciandosi a qualcosa da costruire».

Con i detenuti del vostro film avete mantenuto un contatto?
«Con i nostri attori abbiamo stabilito un rapporto che oggi, quattro anni dopo il film, è d’amore. Li sento fratelli, vorrei baciarli. Lo scorso marzo ho partecipato a una gara di retorica. Ma questo non cancella l’odio per quel che hanno fatto. Io e Paolo rimaniamo in questa contraddizione.

Ci hanno raccontato cose terribili: “Io ho tre orfani sulla coscienza”, “io ne ho ammazzati venti”. Prima li rifiuti, poi lavorando con loro li vedi tirar fuori il dolore che hanno dentro, senza pudori. Uno ha scritto alla moglie: “Vieni a vedermi quando recito perché mentre recito posso perdonarmi”. Il ricordo più bello è la foto che ciascuno di loro ha voluto fare, al centro, tra me e Paolo, con l’Orso d’oro in mano».

Il carcere è anche luogo di reclutamento per l’estremismo jihadista.

«Questo terribile, spaventoso fanatismo islamico trova proseliti tra chi è in carcere. Se fossi un detenuto penserei: “Sì, ho questa colpa, ma è più grave la violenza che mi fa questo Stato, la tortura che mi infligge giorno e notte”. E qualcuno pensa che sia giusto ribellarsi. E Il carcere diventa scuola di sopraffazione. Ha presente che significa essere stipato in una camerata che dovrebbe essere per tre e invece ci si sta in sette? Un costringimento della mente e del corpo».

Come dovrebbero essere utilizzati gli edifici storici?

«Quando arrivammo qui, mezzo secolo fa, ci dissero che il carcere sarebbe diventato una grande biblioteca nazionale. Una biblioteca, un museo. Queste sono le trasformazioni possibili per una struttura nel cuore della città. Non può diventare un grand hotel, un ipermercato. La nuova destinazione deve diventare un omaggio a chi in quel carcere molto ha sofferto. Un destino commerciale per Regina Coeli mi farebbe orrore e il mio quartiere protesterebbe con tutte le forze».

postilla

Vittorio Taviani ha perfettamente ragione nel merito. Ma si illude se pensa che chi ha avuto la grande idea di "valorizzare" le carceri nei centri storici sia ansioso di individuare e promuovere l'utilizzazione più adeguata alle qualità intrinseche (culturali, artistiche, storiche) di quei manufatti. Così come si illudono quanti credono che padroni del governo in carica e Cassa depositi e prestiti abbiano come obiettivo il miglioramento delle condizioni degli infelici incarcerati. L'unico obiettivo è poter disporre di tanti metri cubi da impiegare un una poderosa speculazione immobiliare.

«Il Garante: “Sì se le nuovi prigioni non sorgono nel nulla”. No di Manconi e Sala, Parisi d’accordo». La Repubblica, 29 maggio 2016, con postilla (c.m.c.)

È ragionevole vendere carceri storiche come San Vittore e Regina Coeli per aprirne di nuove in periferia? Il piano del governo irrompe nella campagna elettorale delle amministrative. E divide. «È un progetto giusto che il Comune deve favorire», si schiera subito il candidato sindaco del centrodestra a Milano, Stefano Parisi. «La mia priorità è di trovare una soluzione per mettere a posto quello già esistente - ribatte il suo avversario di centrosinistra, Giuseppe Sala - Una vendita senza vincoli mi fa veramente paura».

E dubbi arrivano anche da sindacati e associazioni, oltre che da un esperto del dossier carceri come il senatore dem Luigi Manconi: «Le condizioni strutturali di San Vittore e Regina Coeli sono pessime - premette - ma penso che la soluzione debba essere una profonda opera di risanamento, ristrutturazione e manutenzione degli istituti. Spostarli causerebbe gravi difficoltà per chi deve raggiungerli: familiari dei detenuti, avvocati, personale e associazioni».
L’idea dell’esecutivo è di vendere le carceri a Cassa depositi e prestiti, che li destinerà al mercato immobiliare.

Un piano non necessariamente da bocciare, sostiene il Garante dei detenuti Mauro Palma: «Per affrontare il problema della qualità della detenzione, è chiaro che la questione dello spazio non è neutrale. Una riflessione su dove collocare il carcere è dunque ineluttabile. L’importante è mettersi d’accordo sul concetto di periferia: l’istituto deve comunque essere parte della città, collegato strutturalmente e concettualmente. Altrimenti non mi trova d’accordo». Cauto, ma senza entusiasmo è anche il primo cittadino di Napoli, Luigi de Magistris: «In questo paese non abbiamo carceri all’altezza di un paese democratico, si è fatto tanto ma ancora tanto va fatto».

Anche il mondo politico si schiera. D’accordo con il piano governativo è Maurizio Lupi (Ncd): «San Vittore è ormai obsoleto». Contrari invece la berlusconiana Renata Polverini - «vendere Regina Coeli sarebbe un insulto a Roma» - e Daniele Farina di Sinistra Italiana: «È un disegno di tutti i governi di centrodestra».

Marco Cappato, presidente di Radicali italiani, è sulla stessa linea: «La proposta del ministro Orlando sembra più rivolta alla speculazione immobiliare che non a rendere vivibili le carceri, che devono restare dove sono». Non basta insomma spostare gli istituti per migliorare la condizione dei detenuti: «Conosco le difficoltà di alcune carceri storiche - rileva Daniela de Robert, del collegio del Garante dei detenuti - ma per favorire il reinserimento dei detenuti costruisci nuovi istituti fuori dal mondo?».

Non la prende bene neanche un’associazione che si occupa di detenuti come Antigone: «Il rischio è creare carceri-ghetto». Chiude il cerchio sempre Manconi: «Alla resa dei conti, si rischia di produrre un’architettura e un’ingegneria della rimozione del male - questo si pensa essere il contenuto del carcere - allontanandolo dallo sguardo dei cittadini. E dunque provocando un’ulteriore separazione».

postilla

Ciò che molti sembrano non aver compreso, nè i giornalisti nè i loro interlocutori, è che l'obiettivo non è affatto migliorare le condizioni dei carcerati, ma fare (e far fare) lucrosi affari con la speculazione immobiliare. Altrimenti non avrebbero affidato l'impresa alla Cassa depositi e prestiti riformata per raggiungere questo obiettivi (c.m.c.)

«Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale i primi istituti, poi altri nove. Li acquisterebbe la Cassa depositi e prestiti, sarà lei a trattare con i Comuni per ottenere le variazioni urbanistiche e poi a sua volta cedere i palazzi ristrutturati». La Repubblica, 28 maggio 2016, con postilla

Dice Orlando: «Il progetto comincia a prendere forma adesso e dopo le amministrative credo ci saranno anche le condizioni politiche per un confronto con le prossime amministrazioni locali. Non appena i nuovi sindaci si saranno insediati partiranno i colloqui».

Che cosa stanno studiando Orlando e Cdp? Partendo dalle motivazioni e dagli obiettivi. È fin troppo evidente che carceri assai antiche – San Vittore risale al 1879 e allora fu previsto in una zona periferica rispetto al centro di Milano; Regina Coeli era originariamente un convento costruito a metà del 1600 e diventò carcere solo nel 1881; più “moderno” Poggioreale realizzato nel 1914 – non possono rispondere alle attuali esigenze di una corretta detenzione. Nonostante lavori interni e migliorie, che pure ci sono state in questi anni, le mura rimangono quelle. Mura invece molto preziose dal punto di vista urbanistico, perché ormai in zone centrali, tali da consentire una trasformazione e una riutilizzo per altre destinazioni economicamente molto vantaggiose. Una valorizzazione commerciale che va dalle residenze per i privati, agli spazi collettivi, agli alberghi.

Orlando, che ha puntato molto della sua gestione ministeriale sul carcere dal volto umano, sulla “decarcerizzazione” ottenuta con pene alternative alla galera, ha già realizzato l’obiettivo di veder calata la popolazione carceraria e con essa la spina del sovraffollamento, per cui l’Italia ha rischiato una multa molto pesante dalla Corte di Strasburgo. Ma non basta qualche metro in più per ottenere una detenzione effettivamente rieducativa. Per questo servono strutture nuove, spazi per il tempo libero, zone per il lavoro.

Spiega il ministro: «Nuove strutture ci devono consentire di superare l’attuale modello italiano, sui generis a livello europeo, perché segnato dalla dicotomia del dentro-fuori. Il detenuto o sta dentro oppure non ci sta. Non esiste, come in Germania o in Spagna una zona grigia, un carcere cosiddetto “di transizione”, in cui dentro si comincia a scontare una pena dura, ma poi si passa a una pena attenuata, anche lavorando».

E qui l’esigenza di Orlando si può saldare con l’esperienza di Cdp. Il ministero potrebbe cedere le tre strutture. In cambio sottoscriverebbe il contratto per la costruzione di nuove carceri che verrebbero realizzate dalla Cassa e diventerebbero di proprietà del demanio. Cdp – cui andrebbe l’utile della messa sul mercato delle vecchie strutture dopo un’adeguata progettazione d’intesa con i Comuni e la conseguente ristrutturazione – potrebbe occuparsi della manutenzione, sempre sotto il controllo del ministero della Giustizia. Ovviamente tutto questo, dal punto di vista economico, sarebbe possibile perché in cambio la Cassa diventerebbe proprietaria delle carceri storiche.

Un fatto è certo, come dice Orlando, «è del tutto avveniristico in Italia pensare a carceri di proprietà dei privati e gestiti dai privati, come avviene negli Usa, dove il business ha avuto come effetti l’aumento del numero dei detenuti. Io sono contrario alla privatizzazione, credo che ci siano anche dei vincoli costituzionali, l’esecuzione della pena non può essere delegata a un altro soggetto. Nel nostro Paese poi, con la criminalità mafiosa, sarebbe addirittura inquietante ». Conclude Orlando: «Con il regime del 41-bis (il carcere duro per i mafiosi, ndr.) abbiamo riconquistato il carcere, adesso non possiamo rischiare di compromettere la situazione».

postilla
Ecco le parole chiave dell'operazione: «Mura molto preziose dal punto di vista urbanistico, perché ormai in zone centrali, tali da consentire una trasformazione e una riutilizzo per altre destinazioni economicamente molto vantaggiose. Una valorizzazione commerciale che va dalle residenze per i privati, agli spazi collettivi, agli alberghi». Provate a immaginare a quali "spazi collettivi" penserà la Cassa depositi e prestiti; noi che sappiamo guardare nel futuro vi anticipiamo che saranno alberghi, residenze di lusso, a magari qualche lucroso centro commerciale.

Finalmente un articolo che introduce qualche elemento di demistificazione dell'ultimo spot del governicchio totalitario. Distruggono tutto il welfare conquistato in decenni di lotte (assistenza, scuola, sanità, verde e sport ecc.). poi danno un'elemosina. La Repubblica, 17 maggio 2016

MAGARI bastassero le buone intenzioni per risollevare la cronica denatalità italiana. Per riuscirci serve molto di più, a partire da una potenziata capacità di lettura della realtà in mutamento, passando per una maggiore disponibilità a mettere in discussione quello che in passato non ha funzionato, per arrivare ad una più ampia visione e condivisione dell’azione politica.

Sabato scorso il ministro Costa, intervenendo ad un convegno del Forum delle associazioni familiari, aveva mostrato grande apertura verso il “fattore famiglia”, una misura ispirata al “quoziente familiare” francese che mira a rendere più equo il sistema fiscale riducendo il costo dei figli a carico. Il giorno dopo il ministro Lorenzin ha rilanciato in tutt’altra direzione con il bonus bebè, presentato come principale soluzione al crac demografico. Il ministro Padoan, come raccontano le cronache, sembra sia rimasto tiepido. Palazzo Chigi ha successivamente precisato che il bonus è in realtà solo una delle misure prese in esame. Come indica anche il rapporto del think tank Volta, si dovrebbe partire da un organico ripensamento degli strumenti di welfare.

Questa vicenda, mostra come il tema demografico sia sentito nella sua urgenza, ma mette anche in luce tutti i limiti della politica nel dare una risposta all’altezza della sfida. È giusto preoccuparsi. La popolazione italiana è come un edificio sul vertice del quale aggiungiamo continuamente nuovi piani, per il fatto che si vive sempre più a lungo, ma con parte inferiore e fondamenta sempre più fragili, per l’erosione prodotta dalle nascite. È però sbagliato trattare i temi demografici con la logica dell’emergenza, siano essi l’immigrazione, l’invecchiamento o le trasformazioni familiari. Un figlio, in particolare, è un’assunzione di impegno a lungo termine. Per mettere in campo politiche efficaci è allora necessario prima di tutto far chiarezza sui meccanismi che frenano o favoriscono tale scelta e sulla capacità dei vari strumenti di policy di intervenire con successo su tali meccanismi.

Questo è ancor più vero oggi. Nelle società moderne avanzate “l’onere della prova” delle decisioni riproduttive si è invertito. Se in passato l’atteggiamento di base era quello di avere figli e per non averne si doveva operare una scelta esplicita, da qualche decennio la condizione di partenza è invece l’assenza di figli, che rimane tale se non si attiva una scelta deliberata sostenuta da condizioni positive. Di conseguenza, se un Paese vuole ridurre le nascite, non è necessario che disincentivi le persone a fare figli, è sufficiente non favorire il crearsi e consolidarsi di condizioni adatte. Viceversa, se si considera auspicabile che la maggior parte delle persone non rinunci a realizzare il numero di figli desiderato è necessario mettere in campo azioni ad esplicito e solido supporto di tutto il processo decisionale. In primo luogo, il desiderio deve poter trasformarsi in vero progetto di vita. Tale progetto deve poi poter trovare possibilità di effettiva e concreta realizzazione. Infine, è necessario che vi sia la ragionevole aspettativa di un successo nell’esito finale. Tutte queste fasi sono oggi entrate in crisi. Le difficoltà legate alla continuità di reddito e all’accesso alla casa hanno fatto crollare la fecondità degli under 30 su valori tra i più bassi in Europa. L’età tardiva del primo figlio e l’eccesso di complicazioni nella conciliazione tra famiglia e lavoro frenano poi la possibilità di andar oltre.

Il bonus bebè non sembra in grado di intervenire efficacemente su nessuno di questi meccanismi. Per come è configurato più che favorire la natalità può essere utile come contrasto al rischio di povertà, particolarmente alto in Italia per le famiglie con oltre due figli. Indicare obiettivi chiari e misurabili, oltre a dar conto dell’impatto del bonus precedente prima di rilanciare nella stessa direzione, aiuterebbe a capire se al di là delle buone intenzioni c’è davvero un serio impegno della politica a restituire fiducia e vitalità al Paese.

Alessandro Rosina è docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano e curatore del “ Rapporto giovani 2016” dell’Istituto Toniolo Twitter: @ AleRosina68

« La protesta della campagna "Roma non si vende" si è trasformata nella proposta "Decide la città": una carta dei diritti in dieci punti che sarà sottoposta ai candidati sindaci sabato 14 maggio». Il manifesto, 6 maggio 2016 (c.m.c.)

Quelli di «Decide Roma» sono gli unici oggi a riuscire nell’impresa impossibile: manifestare a Roma con 20 mila persone. È successo il 19 marzo scorso e questo resterà un evento nella campagna elettorale più deprimente della storia della Capitale. Da mesi c’è un tam tam in città: 860 spazi (centri sociali, atelier, associazioni) rischiano lo sgombero.
L’altra faccia di Mafia Capitale
Il pericolo riguarda Esc, Auro e Marco o la Torre, palestre popolari come quella di San Lorenzo e associazioni come «Il Grande Cocomero», il centro riabilitativo di neuropsichiatria infantile protagonista dell’omonimo film di Francesca Archibugi. Così è nata la campagna «Roma non si vende» che ha l’obiettivo di ripensare gli spazi pubblici e i beni comuni in una città dove la giunta dei commissari guidata dal prefetto Tronca ha dato attuazione alla delibera 140 voluta dal sindaco defenestrato Ignazio Marino. Reti sociali, solidali e di prossimità saranno messe sul mercato immobiliare. L’obiettivo, stando al Documento Unico di Programmazione (Dup) approvato da Tronca, è quello di incassare 15 milioni di euro all’anno per i prossimi tre. Un modo per fare cassa nella città da 12 miliardi di euro di debito.

Il costo sociale di questa operazione è immenso: destrutturazione capillare delle reti associative, culturali, dell’autogestione che a Roma rappresentano un’eccezione. In passato, la prima giunta Rutelli cercò – inutilmente – di mettere ordine con la «delibera 26»: canone «sociale» e regolarizzazione delle occupazioni in città. Oggi si chiedono gli arretrati a prezzi di mercato, ignorando gli accordi precedenti: alla Torre 6 milioni di euro, al grande Cocomero 116 mila euro.

È l’altra faccia di Mafia Capitale: con la scusa del caso «affittopoli», del ritorno alla legalità, per cancellare la stagione degli «affidamenti diretti» che tanti guai e corruttele ha portato, si è scelto un rimedio peggiore del male: il bando che favorisce la privatizzazione delle politiche sociali e la vendita del patrimonio pubblico. La campagna «Roma non si vende» è cresciuta, si è coalizzata e ha maturato una discreta fiducia in se stessa. Qualche risultato lo ha raggiunto: gli sgomberi sembrano essere stati messi in stand-by. Nel frattempo la protesta è passata alla proposta. Da settimane ci sono assemblee nei quartieri della Capitale dove si sta scrivendo la «Carta di Roma Comune» in dieci punti.

Una carta in dieci punti
Il principio è chiaro: il patrimonio pubblico non è alienabile e a Roma devono tornare in vigore i principi della carta costituzionale stabiliti negli articoli 42-45: quelli che parlano di «finalizzazione sociale della proprietà», di «socializzazione dei beni produttivi e dei servizi di interesse generale» e di «tutela della cooperazione mutualistica». Nella carta si parla, inoltre, di «autogoverno».

Singolare esperienza di diritto dal basso, nato dall’incontro tra docenti, attivisti, ricercatori precari e abitanti dei quartieri, la carta di Roma Comune conta almeno su un precedente: lo statuto della fondazione del teatro Valle Bene Comune. Elavborata nel corso delle assemblee nel teatro occupato tra il 2011 e il 2013 e in una consultazione online, oggi è un’esperienza che ha sedimentato alcuni argomenti-chiave e una serie di argomenti decisivi.

Nel testo di “Roma Comune” si parla di diritto sorgivo: “Il diritto non è solo quello prodotto dall’autorità dello Stato. Il diritto nasce dalle pratiche, dalle convenzioni, dalle consuetudini, dagli usi. Questo diritto sorgivo reclama un riconoscimento da parte delle istituzioni, ma è già diritto, prima di questo riconoscimento. Nessuno potrà più cancellarlo”.

I nuovi corpi intermedi
Il riconoscimento di questo diritto rappresenta un problema politico e genera un conflitto. Questo, in fondo, è un problema ordinario nel diritto: l’istituzionalizzazione di un processo o una pratica, di un’invenzione normativa o di un comportamento diffuso investe ad esempio il riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali, in particolare il loro diritto ad amarsi e unirsi in matrimonio. Nella carta romana il diritto vivente viene declinato in tutti i campi della vita sociale e dei servizi pubblici: acqua, mobilità, istruzione, cultura, casa, governo e amministrazione della città, partecipazione ai processi decisionali.Si parla di beni comuni urbani: “Gli spazi sociali, le associazioni virtuose, i centri culturali, le fabbriche riconvertire e le nuove esperienze di lavoro cooperativo, quei “corpi intermedi” e quelle forme di democrazia popolare che si oppongono allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”.
Essere autonomi, oggi
Il valore fondamentale evocato è quello dell’autonomia: “Significa “darsi le regole da sé”. Ma autonomia è anche apertura della singola entità o comunità autonoma alla relazione con l’altro. Per questa ragione, prima di ogni delibera o regolamento imposti dall’alto, hanno priorità e precedenza le scritture collettive dei singoli statuti di autogoverno”.

Di questa visione coraggiosa, e senz’altro innovativa rispetto a un dibattito stagnante e a dir poco mediocre, si possono rintracciare l’origine in alcuni passaggi degli ultimi libri di Stefano Rodotà, Il diritto ad avere diritti o Diritto d’amore. Anche in questo caso si ragiona sul concetto di autonomia e sull’incontro con i movimento sociali.

L’incontro con i movimenti serve al diritto per «conoscere se stesso, il proprio limite, l’illegittimità di ogni sua pretesa di impadronirsi della vita – scrive Rodotà -. Emerge così uno spazio di non diritto nel quale il diritto non può entrare e di cui deve farsi tutore, non con un ruolo paternalistico, ma con distanza e rispetto». Dal punto di vista dei movimenti, il diritto serve a riconoscere e a coltivare una tensione nel darsi regole che possono cambiare, seguendo una geometria delle passioni interna alle relazioni tra il soggetto e la sua vita.

La “Soluzione ponte”
Concetti lontani anni luce dallo stato di eccezione in vigore in città e dall’autoritarismo della «democrazia decidente» renzian-craxiana. Gli attivisti della campagna hanno invitato i candidati sindaci della Capitale a un incontro sabato 14 maggio a San Lorenzo. In quella sede sottoporranno l’ingegnosa proposta di una «soluzione ponte» per l’affidamento in custodia temporanea di tutti gli spazi del patrimonio pubblico presenti in città.

Il testo, scritto in punta di diritto, propone di ricomprendere tutte le realtà che “svolgono comprovate attività socialmente utili di interesse cittadino o municipale” in un nuovo elenco. Tale elenco sarà un supporto utile per definire il “Regolamento sulla gestione del patrimonio” e ristabilire il criterio per l’accesso alla disponibilità dei beni pubblici e di interesse sociale”. Alla base c’è un altro principio costituzionale, quello della sussidiarietà orizzontale stabilito dall’articolo 118 che favorisce “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singolie associati”.

Ancora un volta, si cerca un rapporto virtuoso tra i movimenti sociali e Costituzione, il testo che è stato cambiato dalla riforma renziana per un buon terzo. Ma questa è un’altra storia.

Un significativo episodio di lotta per la riconquista della città: atti di resistenza contro la gentrificazione e contro l'appropriazione mercsntile di un'arte pensata e realizzata per tutti. Articoli di A. Di Genova,A. Del Lago, G. Stinco, R. Ciccarelli e un filmato di Wu Ming. Il manifesto, 13 marzo 2016

QUELLO DI BLU
È UN GESTO POLITICO
di Arianna di Genova

La street art nasce in strada, è pubblica, democratica, allegra, provocatoria, ribelle, clandestina, fruibile in ogni momento senza bisogno di pagare nessun biglietto «d’entrata». A volte, anzi spesso, è pure anonima. È questo, d’altronde, il suo Dna.

Un murales è di tutti, della città stessa, neanche dei proprietari delle mura e dei palazzi dove appare. Un graffito poi non è un affresco medievale che va conservato altrove per evitare che l’umidità mangi e polverizzi il colore. Esporlo nei musei significa negare la sua stessa storia e renderlo esangue, normalizzare la sua dirompenza delle origini. E tirarlo via dai muri, dalle periferie anche degradate dove è nato (non a caso) è una sottrazione indebita nei confronti di una comunità che può goderne ogni giorno.

Il gesto di Blu è politico, si fa così la politica vera: richiama alle origini di una forma d’arte e neguna qualsiasi appropriazione altrui. E cosa dire poi dell’ipocrisia dei vari governi? Che prima condannano un writer per atti vandalici e, secondo convenienza, trasformano quegli stessi atti vandalici in capolavori, da far circolare nel mercato. È importante che l’azione radicale e dolorosa di Blu venga seguita anche da altri street artisti. Sarebbe una lezione di civiltà per tutti.


BOLOGNA
SEMPRE MENO ROSSA
E SENZA BLU
di Giovanni Stinco
Lo street artist cancella le sue opere dai muri di Bologna. Una protesta contro una mostra in cui verranno esposti disegnai staccati dai muri delle case. «Così si privatizza l’arte»

«A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà più finché i magnati magneranno. Per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi». Non scrive o aggiunge altro lo street artist Blu, che ieri ha cancellato tutte le sue opere in città. Conosciuto e celebrato in tutto il mondo, Blu aveva già in passato cancellato una sua opera a Berlino, ma questa volta l’azione è stata sistematica. Sotto le Due Torri ogni traccia dell’artista è stata fatta scomparire da decine di attivisti e volontari, organizzati in squadre e armati di rulli, spatole e martelli.

L’ultima pennellata di grigio alla sua opera forse più conosciuta in città, il grande murales sulla facciata del centro sociale Xm24, è stata data nel pomeriggio. E così in poche ora l’epico affresco dal sapore tolkeniano è sparito, sparite le bici della Critical mass, gli attivisti, i contadini armati di zappe e gli studenti del book bloc che si scontravano alle porte di Bologna con bottegai, politici corrotti, banchieri e poliziotti a cavallo di draghi. Tutto è stato ricoperto da uno strato di vernice grigia. Resta solamente, e non è un caso, il frammento di città in fiamme col Cassero di Porta Santo Stefano, la sede dei collettivi punk e lgbt di Atlantide sgomberati nell’ottobre 2015 per volontà del sindaco Merola.

Le spiegazioni di un’azione così eclatante Blu le affida al collettivo di scrittori Wu Ming. «Il 18 marzo – si legge sul sito del collettivo – si inaugura a Bologna la mostra Street Art. Banksy & Co. Tra le opere esposte ce ne saranno alcune staccate dai muri della città, con l’obiettivo dichiarato di ’salvarle dalla demolizione e preservarle dall’ingiuria del tempo’, trasformandole in pezzi da museo». Una mostra che nasce per volontà di uno dei potenti per eccellenza della città, l’ex rettore ed ex numero uno della Fondazione Carisbo Fabio Roversi Monaco. «Ho un’età venerabile e non penso di poter fare molte altre cose, voglio salvare i graffitti dall’abbandono e dalla distruzione», aveva spiegato il diretto interessato.

«Non stupisce – si legge sul sito dei Wu Ming – che ci sia l’ex-presidente della più potente Fondazione bancaria cittadina dietro l’ennesima privatizzazione di un pezzo di città. Questa mostra sdogana e imbelletta l’accaparramento dei disegni degli street artist, con grande gioia dei collezionisti senza scrupoli e dei commercianti di opere rubate alle strade. Non stupisce che sia l’amico del centrodestra e del centrosinistra a pretendere di ricomporre le contraddizioni di una città che da un lato criminalizza i graffiti, processa writer sedicenni, invoca il decoro urbano, mentre dall’altra si autocelebra come culla della street art e pretende di recuperarla per il mercato dell’arte. Tutto questo meritava una risposta». E la risposta è arrivata «per sottrazione», perché «di fronte alla tracotanza da governatore coloniale, di chi si sente libero di prendere perfino i disegni dai muri, non resta che fare sparire i disegni» e «rendere impossibile l’accaparramento».

Così è sparito il murales dell’Xm24, sotto gli occhi spesso increduli dei passanti. Se le squadre di cancellatori hanno deciso di non rilasciare dichiarazioni lasciando parlare i fatti, c’è stato chi ha discusso lungamente con amici e sconosciuti incontrati sul posto. «Mi chiedo se quell’opera sia ancora nella disponibilità dell’artista, una volta che la regali alla città poi puoi decidere di cancellarla?», si è chiesta una signora dispiaciuta per quel che stava accadendo. Poi i tanti solidali con l’operazione: «Blu ha fatto la cosa giusta, adesso nei musei ci mettano questo bel muro grigio».

Di sicuro l’azione di Blu, allo stesso tempo performance e atto politico, è stata uno schiaffo alla mostra e nello stesso un modo di ricordare che la street art per sua natura è mutevole come lo è il panorama urbano, e non si fa ingabbiare nelle sale di un museo. «Un atto forte che farà riaprire il dibattito in una città che però ora si ritrova più povera», dice a caldo l’assessore alla cultura Davide Conte. Quel che è certo è che la politica locale non potrà più dirsi orgogliosa, come spesso ha fatto, per le opere che hanno fatto parlare di Bologna in tutto il mondo. Tenta di restare sopra le parti il sindaco, secondo cui «le scelte che riguardano l’arte non possono essere divise a priori tra giuste e sbagliate. Cercare la ragione e il torto in questi casi è un esercizio inutile e non mi interessa schierarmi con nessuno».
La risposta alla mostra sulla Street Art non ha riguardato solo il murales di Xm 24. In via Capo di Lucca sono spariti gli inquietanti animali che Ericailcane, Dem e Will Barras realizzarono nel 2009 per sostenere l’occupazione dell’ormai defunto collettivo universitario Bartleby. Sparito anche l’elefante giallo dipinto da Blu in via Zanardi, all’interno degli spazi allora occupati nel 2008 dai militanti del collettivo Crash. Proprio in via Zanardi tre militanti di Crash sono stati identificati e denunciati per invasione di terreni e imbrattamento mentre stavano cancellando l’opera di Blu. Secco il commento del collettivo: «Quanto sa essere sciocco il potere quando ci si impegna? Con questa ci conquistiamo la denuncia più stravagante e imbecille dell’anno».
BLU RIVOLTA
di Alessandro Dal Lago

Blu a Bologna. Cancellando le sue opere, Blu ha risposto che la città appartiene anche e soprattutto agli artisti e ai soggetti anonimi che modificano l’estetica urbana indipendentemente dal profitto, dal potere e dalle burocrazie urbane
Dietro il conflitto sulle opere di Blu a Bologna c’è un problema enorme, che non riguarda soltanto il writing o la street art, ma l’estetica urbana come fatto politico e oggetto di scontro sociale. Anzi, il diritto di espressione, artistica e non, contrapposto alla cultura degli assessori e al gigantismo spesso trombonesco e manipolatorio degli eventi sponsorizzati. Da un anno circa sui muri delle città tedesche si può leggere la scritta: Wem gehört die Stadt? («A chi appartiene la città»?).

Ai grandi interessi immobiliari? Alle amministrazioni elette magari da maggioranza di sinistra –e immediatamente impegnate a ripulire le città in nome del decoro urbano, come a Milano? Alle associazioni dei commercianti che cacciano gli ambulanti dai marciapiedi? Alle banche che deturpano le facciate di palazzi quattrocenteschi con insegne enormi? O magari ad associazioni di maggiorenti o critici che fiutano l’affare dei graffiti?

Cancellando le sue opere, Blu ha risposto che la città appartiene anche e soprattutto agli artisti e ai soggetti anonimi che modificano l’estetica urbana indipendentemente dal profitto, dal potere e dalle burocrazie urbane. E poiché le ha realizzate lui, a suo rischio e pericolo, è suo pieno diritto impedire che finiscano nelle mani di qualche mercante che sa guardare al di là del proprio naso. L’aspetto inquietante – agli occhi dei poteri locali – dell’arte di strada (graffiti, murali, stencil ecc.) è che non è in vendita, che la sua grazia risiede nella gratuità, e persino nel gioco a rimpiattino dei writer con le autorità e la polizia, che inevitabilmente li scambiano per teppisti, trattandoli di conseguenza. Miseria delle categorie ingessate del controllo sociale che vede infrazioni, deturpamenti e violazioni dei codici in un gesto, il dono di un’opera alla città, che evade dalla cultura del profitto. Così Blu può essere denunciato per aver realizzato un graffito oppure per averlo cancellato.

Un’altra writer di fama mondiale, ALICè, è condannata a 800 Euro di multa per un’opera murale che altrove sarebbe vanto di una città. E così via, in una sequela di schizofrenie giudiziarie, corteggiamenti estetici, burocratismi comunali, strepitii di risibili associazioni anti-graffiti, che spediscono ragazzini innocenti a imbiancare i muri – salvo scoprire che magari quello che ricoprono potrebbe valere milioni, come è avvenuto al celebre Banksy.

Che poi un writer come Blu esponga alla Tate, come ipocritamente gli ha rinfacciato qualcuno, non cambia la sostanza del problema. E non solo perché sono fatti suoi. Da che parte si sta? Da quella di chi deturpa per mesi la facciata di una cattedrale con una pubblicità di dieci metri per dieci? O da quella di chi dice la sua, con una bomboletta, sull’ordine che ci circonda?
Ma forse è più onesto chi reprime i writer apertamente, alla luce del sole, di chi strappa un’opera al suo luogo naturale, l’aria aperta, per trascinarla nell’aria stantia di un museo.


BLU, LA RIVOLTA CONTRO
LE CITTÀ ZOMBIE
di Roberto Ciccarelli

Street art. Ritratto di un artista anonimo conosciuto da Los Angeles a Berlino. La battaglia contro la gentrificazione e il diritto alla città. Quelle di Blu non sono «opere», ma atti di cittadinanza: popolano lo spazio, creano immaginario, fanno movimento. La storia di Kreuzberg, quando decise con Lutz Henke di cancellare i murali visitati in processione dai turisti-hipster

Di sé, Blu, non parla. Parlano le sue opere super-iconiche, affreschi colossali, concepiti per proteggere da uno sgombero l’ex magazzino dell’Aeronautica militare in via del Porto Fluviale a Roma, occupato da 450 persone in emergenza abitativa o l’ex mercato ortofrutticolo occupato dal centro sociale Xm24 a Bologna, una delle opere cancellate ieri per protestare contro la mostra «Street Art. Banksy & Co» dove Blu è stato esposto. E museificato nel mercato dell’arte che ha coniato un termine specifico, «muralismo», per indicare una pratica pacificata, una professione rispettabile.

I suoi sono invece atti di cittadinanza, non opere da esporre in vetrina, quelle di un museo o sulla superficie legalmente autorizzata. L’ultima moda della «gentrificazione»: decorare lo spazio urbano come un salotto con le foto di famiglia in cornici argentate.

Blu rivolta Bologna

Tre le righe dedicate sul suo sito da Blu agli organizzatori della mostra: «A Bologna non c’è più Blu e non ci sarà più finché i magnati magneranno per ringraziamenti o lamentele sapete a chi rivolgervi». Laconico, questo è lo stile dell’artista nato a Senigallia, cresciuto artisticamente a Bologna, street artist di fama mondiale.

La cancellazione dei murali bolognesi non va intesa solo come una difesa dell’indipendenza dell’artista o una protesta contro la riduzione della street art a arte decorativa. Ieri si è risvegliato un conflitto sociale sul futuro delle città. Era tutto rappresentato nel murale all’Xm24 che, ormai postuma, è diventata famosa.

Rappresentava il colossale scontro tra la città opulenta contro la città che lotta contro l’ingiustizia. Le munizioni: da un lato, enormi tranci di mortadella; dall’altro, cocomeri e zucche. L’affresco di una guerra contadina, una jacquerie combattuta con armi alimentari. Uno scontro epico, chiaramente dualistico, dal sapore tolkeniano. Si guerreggia per conquistare un anello, posto al centro dell’affresco. A Blu non manca l’umorismo.

Le parti in gioco sono chiare: da un lato c’è l’ideologia del decoro urbano che trasforma i quartieri in salotti ed eventifici; dall’altro lato, i movimenti sociali dal G8 di Genova ai No Tav; il gigantesco biker che schiaccia le automobili a Lambrate, la battaglia quotidiana contro la gentrificazione e per l’autorecupero urbano.

Wu Ming racconta Blu. #OccupyMordor


Berlino, la città dei non-morti

Non è la prima volta che questo artista anonimo decide di cancellare un’opera, trasformandola in evento di un arte che concepisce come politica. Lutz Henke, co-autore nel 2008 del secondo muro in Cuvrystrasse a Kreuzberg, ha raccontato come un murales può diventare un’attrazione turistica contro lo stesso parere degli artisti.

È successo a Berlino dove l’affresco del manager con i polsi incatenati che mostrano un orologio d’oro e quello delle figure rovesciate che si smascherano sono diventate l’attrazione della città «povera e sexy» visitata da torme di turisti e hipster. Lo scontro sociale è diventato un’estetica della resistenza per le campagne di marketing territoriale.

Blu e Henke hanno deciso di cancellare gli affreschi, oggi sostituiti da un altro con un gigantesco dito medio: «Fuck You Gentrification». «Senza volerlo – ha scritto Henke in un’articolo sul Guardian nel 2014 – abbiamo creato una rappresentazione visiva ideale per una città che offre spazi giganteschi abbandonati per una vita a basso costo e una sperimentazione creativa tra le rovine della sua storia. Gli artisti scoprono di essere i loro principali nemici». Il vicinato protestò contro il turismo che è il primo passo della gentrificazione.

Gli artisti capirono: «Berlino ha bisogno del suo brand artistico per restare attraente, tende a rianimare la creatività che disperde, producendo una città non morta». Henke parla di una «zombificazione» che rischia di trasformare Berlino in una città riverniciata.

Il punto è un altro: «Reclaim your city», rivendica la tua città.L’evocazione di un diritto alla città era scritta a caratteri cubitali accanto a una delle teste delle sagome in Cuvrystrasse. Non lasciare, invece, senza risposte la domanda che molte volte è stata ripetuta in questi anni: «Chi governa questa città? Di chi credi che sia?»

Un’arte fugace

Ieri abbiamo compreso che la duplicazione di un’opera di Blu in una mostra a Bologna rischia di negare il senso di un altro spazio vissuto e recuperato, fuori dal suo centro-vetrina. La cancellazione è un atto che rafforza la funzione sociale di un intervento artistico sulla città, lì dove altre forme di azione politica si rivelano poco efficaci.

«Sin dal primo momento i murali di Blu sono destinati a scomparire – sostiene Henke – è la natura della street art occupare spazio per celebrare la sua incertezza, cosciente della sua esistenza fugace». È anche accaduto che un’opera di Blu sia stata cancellata dal suo committente.

È accaduto al museo d’arte contemporanea di Los Angeles – il Moca – nel 2010. Il direttore Jeffrey Deitch non gradì il pezzo pacifista che rappresentava le bare dei soldati caduti in una guerra americana rivestite di dollari e non con la bandiera Usa. Vicino al museo c’era un ospedale per veterani di guerra e un monumenti ai caduti nippo-americani.

La reazione di Blu fu determinata, ma serena. Parlò di «censura» e disse: «Mi capita spesso di dipingere soggetti forti – scrisse Blu – ma lascio sempre l’interpretazione aperta allo spettatore. La reazione delle persone è la cosa più interessante. Alcuni veterani hanno gradito il murale, trovandolo veritiero. La mia posizione è fare un passo indietro e guardare le reazioni».

Blu: street art globale

Sul sito del manifessto trovare altri filmati e immagini che non sappiamo inserire qui. Chi si contenta gode, e chi vuole godere di piu si abbona al manifesto online.

«Aravena viene da un mondo in cui «si lavora con scarsità di mezzi e non si può fare quel che si vuole, ma bisogna sempre spiegare perché lo si fa. È un importante filtro contro l’arbitrarietà.Vivere e lavorare in città che si espandono slums dopo slums, deve aiutare a cercare soluzioni, progetti, dispositivi fisici che attenuino la sofferenza». La Repubblica, 23 febbraio 2016



Venezia. È una Biennale che non espone. Propone domande e fa sfilare esperimenti e soluzioni possibili. È la Biennale architettura firmata da Alejandro Aravena, la quindicesima della serie. Durerà sei mesi, dalla fine di maggio alla fine di novembre e non sarà una rassegna di soluzioni formali prodotte da architetti e destinate ad architetti. «Dalla corte degli architetti al pubblico», sintetizza Paolo Baratta, presidente della Biennale. Cambia lo statuto. Da una disciplina che ambisce a realizzare oggetti singoli, stupefacenti e spiazzanti, a un’altra che si misura con una quindicina di espressioni chiave. Fra le altre: disuguaglianze, periferie, disastri naturali, emergenza abitativa, migrazioni, trasporto pubblico, spreco... Sono le questioni che da una quindicina d’anni impegnano Aravena. Cileno, quarantanove anni, camicia bianca fuori dai pantaloni, capigliatura arruffata ma con cura, Aravena viene da un mondo in cui «si lavora con scarsità di mezzi e non si può fare quel che si vuole, ma bisogna sempre spiegare perché lo si fa».

E aggiunge: «È un importante filtro contro l’arbitrarietà». Ma vivere e lavorare in città che si espandono slums dopo slums, deve aiutare a cercare soluzioni, progetti, dispositivi fisici che attenuino la sofferenza. E ad essi Aravena dedica gli sforzi che lo hanno portato, nel gennaio scorso, a vincere il premio Pritzker, il nobel dell’architettura, completando con il proprio nome una galleria di luccicanti archistar. Anche qui un cambio di statuto.

Reporting from the front - questo il titolo della prossima Biennale - chiama a raccolta una novantina di espositori, un terzo dei quali sotto i quarant’anni. Mostreranno come hanno interpretato le espressioni chiave indicate da Aravena. Non ci sono immagini che anticipino i progetti. Salvo una, introduttiva: una foto scattata da Bruce Chatwin che ritrae un’archeologa tedesca, Maria Reiche, sopra una scala d’alluminio che osserva i tracciati di pietre del deserto peruviano di Nazca raffiguranti uccelli, giaguari, alberi e fiori. Spiega Aravena: «Nessuno di noi stando a terra vede altro che pietre, ma da lassù le figure appaiono evidenti: ecco cosa chiediamo a chi espone alla Biennale, chiediamo di fornire proposte, interpretazioni che non riusciamo a percepire ». Saranno presenti molti giovani (fra i quali anche il gruppo inglese Assemble e l’indiana Anupama Kundoo) e anche i più smaglianti Peter Zumthor, David Chipperfield, Herzog & de Meuron, Kazuyo Sejima, Kengo Kuma, Norman Foster, Rem Koolhaas, Richard Rogers, Eduardo Souto de Moura, Tadao Ando e poi Renzo Piano con il gruppo G124, i giovani professionisti che Piano finanzia con lo stipendio di senatore a vita.

Una concessione allo star system?
«No - replica Aravena - non tutto delle cose che questi progettisti realizzano c’interessa, ma perché non mettere a disposizione la loro creatività quando si confronta con i temi che abbiamo scelto?».

E il pensiero corre a Piano e al lavoro nelle periferie di alcune città italiane. Le periferie sono il suo humus culturale. Le periferie di una città e anche la periferia latinoamericana.
«Vivere ai margini rispetto ai grandi flussi consente di non avere un padre da uccidere, un’ombra che sovrasta ogni passo. Però incombe il rischio di accettare tutto quel che arriva da fuori senza dare valore a ciò che è più prossimo. Il luogo di margine impone di essere molto informati su quel che accade al centro del mondo e contemporaneamente di capire le pratiche virtuose che lì e non altrove si attuano. La periferia non è il luogo dove il mondo finisce, diceva Iosif Brodskij».

L’altra costrizione da cui proviene la sua architettura è la dittatura di Augusto Pinochet.
«L’ho vissuta da studente universitario, quando si forma il carattere e si è ribelli per natura. Noi dovevamo essere doppiamente ribelli».

Una volta laureato, è venuto in Italia. Perché?
«Sono venuto a Venezia. Era il 1992. Volevo conoscere le architetture che avevo studiato solo in fotografia. Volevo andare alle fonti. Camminavo per le calli e misuravo edifici. E la stessa curiosità mi ha spinto in Sicilia e in Puglia».

Quindi è tornato in Cile.
«Sì e ho iniziato a lavorare. Ma ho incontrato solo clienti orribili. Per due anni ho lasciato i tavoli da disegno e ho fatto il barista. Poi di nuovo la passione mi ha catturato. Ma stavolta la direzione di marcia era tutt’altra. All’inizio del Duemila ho fondato Elemental, uno studio dedicato all’edilizia sociale. Il primo progetto rilevante è un complesso per un centinaio di famiglie a Iquique. La dotazione pubblica copriva spese per 7.200 dollari. Trecento dovevano metterli le famiglie. Si poteva fare solo una piccola, disagiata e miserevole abitazione. Invece abbiamo progettato metà di un appartamento, l’altra metà era a carico dei residenti. Quando ho vinto il Pritzker è venuta a trovarmi una donna che era stata fra le prime abitanti di Iquique. Mi ha raccontato che alcuni di loro avevano venduto. Ho chiesto a quanto. A sessantacinquemila dollari, mi ha risposto».

Che seguito ha avuto quell’esperienza?

«Quel progetto, che risale al 2003, è stato replicato decine e decine di volte. L’ultimo risale al 2010 ed è stato realizzato a Constitucion, dopo il terribile tsunami. Non venne fornito solo un alloggio, venne data l’occasione per generare una ricchezza che avrebbe consentito ai figli di quei pionieri di studiare e di avviare un’attività. Iquique è l’esempio di un luogo che produce comunità, lo spazio pubblico è curato come un bene prezioso che dà altro valore alle case. Elemento centrale è stata la partecipazione: tante domande, tanti bisogni espressi e un architetto che con carta e matita offre una sintesi».

Quali altri strumenti ha l’architettura per attenuare le disuguaglianze?
«Può progettare un buon sistema di trasporto pubblico. L’America Latina mostra esperimenti encomiabili. A Bogotà e a Medellín si è drasticamente ridotto il tasso di criminalità giovanile perché le immense favelas sono state meglio collegate fra loro e con il centro da sistemi di funicolari e di tram. Quel che genera i conflitti e la rabbia non è la povertà in sé quanto la disuguaglianza. La povertà è ridotta nel mondo, è peggiorata la disuguaglianza. La redistribuzione non basta a colmarla. Perché sia efficace ci vuole molto tempo. La città offre occasioni per diminuire le disuguaglianze se fornisce un trasporto pubblico efficiente e di qualità. Come l’investimento in spazio pubblico. Sono interventi in cui l’architettura ha un ruolo decisivo».
L’OPERA
Qui accanto l’Innovation Center dell’Università Cattolica di Santiago del Cile realizzato da Alejandro Aravena ( nella foto in alto)
Una sacrosanta risposta alla proposta del ministro renziano ai beni e alle attività culutrali di tagliare i monumenti dalle città e dai territori mercificandoli: "Quod non fecit Bondi fecit Franceschini". La Repubblica, 24 gennaio 2016
La domanda: ci conviene mettere a biglietto tutto il Patrimonio storico e artistico della Nazione?(articolo 9 della Costituzione) é saggio far pagare chi desidera andare a deporre una rosa sulla tomba di Raffaello, o un pensiero su quella di Vittorio Emanuele II, entrambi sepolti nel Pantheon di Roma, che contemporaneamente un monumento archeologico, una chiesa consacrata, un sacrario civile? La modernizzazione comporta necessariamente biglietterie all’ingresso di tutte le chiese storiche, dei conventi, delle biblioteche, degli archivi, degli ospedali monumentali, e domani magari alle porte di intere città, come Venezia?

I dubbi sono leciti. Perchè così facendo rischieremmo di spingere ancor di più l’economia culturale verso la passività della rendita.

Forse sarebbe preferibile fare esattamente il contrario, rendendo gratuito l’accesso ai grandi musei statali. Nel 2013 il gettito di questi ultimi è stato pari a 125.826.333 euro, ma allo Stato ne sono arrivati 104.333.063 (la differenza è andata agli oligopolisti delle concessioni): che è il costo di un singolo bombardiere F35. Il presidente del Consiglio ha giustamente detto di voler allineare la spesa militare e quella culturale: con meno di un terzo di quanto destinato all’assegno indiscriminato per il consumo culturale dei neo diciottenni, potremmo far entrare tutti gratis nei nostri musei. E l’economia indotta da un aumento del movimento dei cittadini verso il patrimonio darebbe frutti, anche fiscali, assai superiori al gettito dei biglietti.

Ma, soprattutto, nel nostro Paese come in nessun altro, il patrimonio culturale è fuso con lo spazio pubblico. Non c’è un vero confine tra il Pantheon e la sua piazza, ed eè vitale che si possa continuare a varcare liberamente quella porta bronzea: anche solo per continuare a passeggiare al coperto, anche solo per cinque minuti. Dobbiamo poter respirare liberamente la nostra storia: non possiamo spezzare questa quotidiana intimità diventando clienti anche nel cuore della nostra casa.

È difficile capirlo in un momento in cui l’unica bussola delle riforme dei Beni culturali, che si accavallano senza il tempo per valutarle, sembra l’espansione della valorizzazione, a spese della tutela e dell’educazione. Ma in gioco c’è l’idea stessa di cittadinanza: rendere più difficile l’accesso dei cittadini a un monumento identitario significa in qualche modo annullarne la forza.

Quando Urbano VIII Barberini portò via il bronzo dal tetto del Pantheon per farci cannoni (1625), disse che era “un tesoro nascosto, senza utile e senza uso”. Il popolo di Roma, visceralmente legato al monumento, si oppose alla messa a reddito, esclamando che quel che non fecero i barbari, avevano fatto i Barberini. Credo che oggi ci convenga pensare non come il papa, ma come il popolo: che g

Tra "devono" e "possono":ecco la differenza. «Secondo la norma varata dal governo, nel 2016 e 2017 tutta la liquidità incassata dagli enti locali attraverso gli oneri di urbanizzazione potrà essere spesa al di fuori dell’ambito di intervento edilizio relativo». Sbilanciamoci.info, 18 gennaio 2016

All’interno della legge “omnibus” di Stabilità, il governo Renzi si è occupato del tema degli oneri di urbanizzazione e del loro utilizzo da parte dei nostri Comuni. Il 31 dicembre scadeva l’ennesima proroga e ci attendevamo un decreto che andasse, finalmente, ad annullare la possibilità di destinare le somme versate da chi realizza un intervento edilizio per sostenere la spesa corrente delle magre casse comunali (anzichè essere correttamente riservate alle sole effettive opere di urbanizzazione). Il Governo ci ha regalato una bizzarra “polpetta avvelenata” da cui traiamo la consapevolezza che gli oneri di urbanizzazione non potranno più essere utilizzati per la “spesa corrente” del Comune, ma solo per “spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per le spese di progettazione delle opere pubbliche”.

Sembrerebbe la norma che tutti desideravamo. Ma, a ben leggere il testo della legge di Stabilità, la nostra gioia dura pochi istanti, in virtù anche di questa affermazione, discretamente sibillina, presente all’interno dei suoi 999 commi (ci riferiamo al comma 737 dell’art. 1 della L. 28/12/2015 n. 208): “… possono essere utilizzati per una quota pari al 100 % per le spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per le spese di progettazione delle opere pubbliche”.

La nuova disposizione prevede, insomma, che i proventi “possano essere utilizzati”, ma non necessariamente che “debbono essere utilizzati” per gli scopi indicati.

In parole semplici, significa che lo Stato centrale ha deciso di non decidere e di lasciare ai Comuni il potere di stabilire come e dove utilizzare i denari freschi che chi intende costruire verserà nelle casse comunali. Fino, addirittura, al 100 % della somma incassata con gli oneri di urbanizzazione mentre, attualmente, vi era un limite al 75% del totale, che per i due terzi (il 50% del totale) potevano coprire in maniera indistinta le spese correnti del Comune e per il restante 25% le spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale.

In virtù di questa decisione, nel 2016 e 2017 tutta la liquidità incassata dagli enti locali attraverso gli oneri di urbanizzazione potrà quindi essere spesa al di fuori dell’ambito di intervento edilizio relativo.

Facile prevedere che un nuovo quartiere, una nuova lottizzazione, un nuovo centro residenziale non vedranno interventi da parte dei Comuni, poiché le somme incassate potranno essere utilizzate per altro, anche se non più per il funzionamento dell’intera macchina comunale (ad esempio stipendi e servizi primari ai cittadini).

Per “l\e spese di progettazione delle opere pubbliche“, invece, sì! Dunque in maniera diretta per la realizzazione di infrastrutture, nuovi interventi sulla viabilità, tangenziali e chi più ne ha più ne metta.

Il Sole 24 Ore” così commenta: «Di certo non sarà difficile trovare la richiesta corrispondenza tra entrate e uscite, perché sotto la voce “manutenzioni del patrimonio” vi può rientrare pressoché tutto, dall’illuminazione pubblica all’edilizia scolastica, dagli automezzi agli edifici in genere»

Resta per noi positivo, certamente, il fatto che gli Enti locali non potranno più finanziare l’intera “macchina comunale” con il denaro fresco incassato attraverso gli oneri di urbanizzazione. Ma lo spazio decisionale lasciato ora in mano ai Comuni è pericoloso, sbagliato, pura eutanasia. Che provocherà enormi guai e non intacca il vero nodo del problema: il flusso di cassa fa (ancora e sempre) “gola” ai Comuni, che continueranno ad essere “costretti” a svendere ulteriori porzioni di territorio libero pur di finanziarsi. E gli enormi stock di edifici vuoti, sfitti, non utilizzati resteranno – immobili … – a puntellare le nostre sempre più desolate città.

Nei prossimi anni, quindi, sarà ancora più necessario che in ogni Comune i cittadini si impegnino a “decifrare” i bilanci consuntivi e previsionali del loro ente locale e ingaggino una concreta battaglia o una vera alleanza finalizzata ad azzerare preventivamente costi inutili, sprechi, disutilità, proponendo alternative.

Il nostro tossicodipendente ci aveva giurato che quello di ieri sarebbe stato il suo ultimo “buco”. In realtà ha solo smesso di prepararsi la siringa con la sua solita “roba”, sostituendola con un’altra sostanza. Probabilmente ancora più micidiale.

Il pusher è sempre lo stesso: lo Stato/Parlamento che mette a disposizione del tossicodipendente (il nostro Comune) norme che gli consentono di drogarsi ed acquistare la “roba” (risorse finanziarie da mettere in circolo per alimentare e sostenere la spesa corrente, svendendo il territorio …).
E il Comune ha ora una nuova norma dietro cui salvaguardarsi per evitare guai.

(Per chi volesse conoscere un po’ meglio la “storia” dell’utilizzo degli oneri di urbanizzazione, rimandiamo a questa sintetica traccia:http://www.altritasti.it/index.php/archivio/ambiente-e-territori-mainmenu-45/1257-le-casse-dei-comuni-gli-oneri-di-urbanizzazione-e-la-legge-bucalossi).

Intervista con Salvatore Settis di Valentina Porcheddu. «Si spazia dai benidel demanio in offerta alle ricostruzioni di Palmira in Trafalgar Square, a Londra.“Il rischio delle vendite? È che si pensi che lo Stato stia battendo in ritirata”». Il manifesto, 12 gennaio 2016 (m.p.r.)

È stato annunciato in questi giorni sulla stampa l’accordo per il riuso di beni pubblici mirato alla valorizzazione turistico-culturale e sottoscritto tra il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio, il ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini, assieme al Presidente Anas Gianni Vittorio Armani e al Direttore dell’Agenzia del Demanio Roberto Reggi. Il programma di riqualificazione riguarda, oltre le 1.244 Case Cantoniere che l’Anas possiede su tutto il territorio nazionale, anche immobili di particolare interesse situati in prossimità di circuiti quali la Via Francigena o l’Appia antica. In attesa di poter valutare se il «formidabile brand» delle Case Cantoniere – così lo definisce Franceschini – si rivelerà una reale opportunità di sviluppo sociale, economico e culturale, ne abbiamo parlato con Salvatore Settis. L’archeologo e storico dell’arte, ex direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, ha partecipato l’8 gennaio a Roma ad un incontro a Palazzo Altemps per la presentazione del libro Villes en ruine: images, mémoires, métamorphoses (Éditions Hazan 2015), curato dallo stesso Settis e Monica Preti.


Centinaia di beni del demanio verranno progressivamente messi in vendita. Pensa che nell’elenco degli immobili possano esser inclusi anche edifici di valore storico artistico?
Moltissimi monumenti e persino giganteschi musei come la Galleria Doria Pamphili a Roma, sono già in mano ai privati. Occorrerà valutare di volta in volta se la privatizzazione può avere un effetto positivo sulla destinazione d’uso di un determinato edificio. Il Palazzo Serra di Cassano - uno dei palazzi più insigni della città di Napoli - deve la sua sopravvivenza all’Istituto di Studi Filosofici fondato da Gerardo Marotta, un istituto benemerito la cui presenza virtuosa ha dato negli ultimi dieci anni al palazzo Serra di Cassano una nuova funzione. Il rischio che c’è dietro a quest’operazione, lanciandola nel modo in cui è stato fatto, è che si radichi nell’opinione pubblica l’idea che lo Stato è in ritirata e che via via tutto quello che è pubblico possa diventare privato. Non credo che questa sia l’intenzione attuale di chi governa il demanio ma andrebbe precisato che mentre alcuni edifici possono essere dati in concessione con determinate regole, la gran parte degli edifici di proprietà pubblica devono restare tali e essere impiegati per il pubblico bene.
Il progetto lanciato dall’Agenzia del Demanio partirà dalle case cantoniere. Come reputa il loro uso a scopo turistico?
Avendo ormai perso la loro funzione, la trasformazione delle Case Cantoniere in infrastrutture di servizio o agriturismi, non può che esser positiva. D’altra parte, non possiamo immaginare che ognuna di esse diventi un museo, perché l’Italia ridotta a museo muore.
Così come gli stessi musei possono morire. Con la mostra «Serial Classic» - una delle dodici mostre del 2015 da ricordare secondo Forbes - allestita alla Fondazione Prada di Milano, lei ha dimostrato che l’arte antica è in grado di dialogare con l’arte contemporanea e, in un certo senso, anche con la moda. Iniziative meno raffinate della rassegna che ha curato con Anna Anguissola rischiano però, di far prevalere la creazione contemporanea, arrivando a snaturare l’opera antica. Qual è il confine da non superare per mantenere saldo il valore dell’arte del passato pur facendola rivivere nelle diverse forme del presente?
Le mostre di arte antica devono essere rigorosamente scientifiche, devono saper parlare agli specialisti e avere inoltre una capacità narrativa che si rivolge a un pubblico più ampio. Nella mostra Serial Classic ho cercato di seguire questi princìpi che per me sono regola assoluta. L’esposizione non aveva nulla a che vedere con la moda se non per il fatto che la Fondazione Prada esiste perché esiste la ditta Prada. Non sarebbe mai venuto in mente a me o a Miuccia Prada di realizzare una sfilata di moda in mezzo alle statue classiche. La rassegna ha riscosso successo perché le opere esposte sono state cucite fra loro secondo un filo narrativo intriso di storia e non solo di un’ammirazione iconica per una bellezza astratta.
A proposito di «bellezza iconica», in una recente campagna pubblicitaria sul web, divinità e personaggi mitologici rappresentati nei fregi del Partenone sono diventati «modelli» per Gucci. Lo considera un abuso?
Purché non danneggino le opere, non considero gravi questo genere di pratiche. Ma certamente non è questo il modo per dare all’arte antica un ruolo nella cultura contemporanea. Le opere d’arte, antiche o contemporanee, sono una sfida a capire e a pensare. Il compito dello storico o del curatore è di aiutare a raggiungere quest’obiettivo e non di incuriosire con delle stravaganze. Mettere dei boa di piume - com’è accaduto per i Bronzi di Riace fotografati da Gerald Bruneau al Museo di Reggio Calabria - attorno a una statua antica lo trovo frivolo, inutile e stolto.
Nel libro Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace (Donzelli 2015), ha usato i bronzi di Riace come paradigma dell’incapacità degli operatori culturali - primi fra tutti gli archeologi - a valorizzare le opere antiche inserendole in contesti che producano emozioni e, allo stesso tempo, consapevolezze. Anche gli ultimi grandi progetti pompeiani sembrano dimostrare che l’apparenza conti sempre più dei contenuti, tanto che il sito campano si è trasformato in scenografia per tribune politiche mentre altrove imperversano degrado e indifferenza. Come uscire da questo impasse che caratterizza tutto il patrimonio italiano, dalla gestione dei siti a quella dei musei?
Il caso di Pompei è emblematico. È chiaro che non si può risistemare un sito di enorme importanza e dimensioni in poco tempo ed è ovvio che man mano che si procede con i lavori ci siano delle inaugurazioni. Come diceva Ennio Flaiano, l’Italia è il paese delle inaugurazioni e succede che le autostrade siciliane - inaugurate sei volte - siano ancora chiuse. È inoltre una pessima abitudine della politica usare ogni circostanza per delle photo opportunities. Io credo che la vera sfida del progetto Pompei - ma ciò compete non tanto ai politici quanto al Soprintendente, che d’altra parte è archeologo di vaglia - sia di far capire che l’obiettivo a cui si mira è il restauro dell’intera città. Soltanto rendendo fruibile un pezzo di città e non un numero limitato di domus fotogeniche, si potrà contrastare il sospetto che i grandi progetti a Pompei siano un’operazione di facciata.
Come possono convivere il piano estetico e il piano della politica?
La tendenza a estetizzare l’arte antica o le rovine può indurre a vedere la bellezza anche nella distruzione. Qualcuno arrivò persino a considerare il crollo delle Torri Gemelle come una performance di terribile bellezza. Estetizzare la distruzione e, in generale, l’arte antica significa rinunciare alla responsabilità. Bisogna intendere la funzione intimamente politica dell’arte e delle immagini non nel senso del significato che la parola politica ha finito per assumere e dunque del mestiere di chi siede alla camera o al senato o nei governi regionali, ma intendendo la politica secondo la sua etimologia e genealogia culturale vale a dire il discorso dei cittadini all’interno della polis.
Non c’è nulla di più politico della rovina perché essa esprime una tensione fra chi l’ha voluta e chi l’ha fatta, fra chi ha voluto il monumento intero e chi l’ha distrutto. Un uso politico della rovina e dell’arte - ciò che ho tentato di evidenziare nella mostra Serial Classic - vuol dire collegare la percezione della rovina a un orizzonte di cittadinanza e diritti. Non farlo e trasformare tutto in icona, si tratti dei Bronzi di Riace o delle rovine di Palmira, vuol dire rinunciare alla responsabilità intellettuale sia dello specialista che del cittadino.
A Trafalgar Square verrà esposta una copia della porta del Tempio di Bêl di Palmira, l’unico elemento architettonico che ha resistito all’esplosione. Diverse università al mondo hanno progetti di restituzione in 3d della Città carovaniera e non è escluso che un giorno i monumenti distrutti dall’Isis vengano ricostruiti «in situ». È questo un modo «lecito» o utile per perpetuare una memoria o si tratta di una sorta di giustificazione, un modo per dire che tutto è ripetibile? Insomma, il «falso» può colmare la nostalgia e la perdita?
Credo che nulla possa sostituire un monumento importante che è andato perduto. A volte, però, ricostruirlo nel luogo in cui è stato distrutto ha un valore, per così dire, contestuale. Il campanile di San Marco a Venezia cadde nel 1902 senza fare vittime. Dopo una lunga discussione fu deciso di ricostruirlo com’era e dov’era non tanto per il campanile stesso ma perché l’immagine della piazza San Marco aveva bisogno di quell’elemento. Un altro esempio, che si avvicina maggiormente al caso di Palmira, è il ponte della Santa Trinità a Firenze, abbattuto durante la seconda guerra mondiale. Anche in questa circostanza, il ponte venne ricostruito non tanto per la sua architettura - per quanto essa fosse particolarmente sofisticata - ma piuttosto per ricucire il legame con la città. Riproporre un pezzo di Palmira a Trafalgar Square la vedo come un’installazione artistica e simbolica, una dichiarazione di principio che condanna la distruzione ma non pretende di sostituire l’originale.

«Beni comuni. Parte la svendita del patrimonio immobiliare statale tramite i nuovi vertici della Cassa depositi e prestiti. Senza patrimonio un popolo perde la sovranità: allo scellerato disegno del governo è ora di opporre un progetto di pari sistematicità che metta al centro dell’agenda politica la difesa dei beni pubblici». Il manifesto, 10 gennaio 2016

Per acquistare a poco prezzo il patrimonio immobiliare della Grecia i circoli finanziari europei hanno imposto il durissimo intervento del governo europeo e della Bce che ha condizionato i prestiti necessari alla sopravvivenza di centinaia di migliaia di famiglie greche alla vendita di immobili e infrastrutture per un valore di 50 miliardi di euro. In Italia è sufficiente l’azione di Renzi e del fidato Padoan.

Venerdì sono circolate le anticipazioni della grande svendita del patrimonio di tutti gli italiani e non è certo un caso che sia stato il giornale di casa, L’Unità, a darne con grande risalto l’annuncio. Erano due decenni che i governi di centro-destra avevano tentato la vendita del patrimonio degli italiani ma senza grandi successi.

Dopo le prime leggi di alienazione approvate anche dal centro-sinistra (l’intera vicenda era stata denunciata già dal 2002 da Salvatore Settis nel volume Italia spa edito da Einaudi), il primo tentativo operativo risale al 2004, quando si affidò alla società Investire immobiliare 394 immobili dello Stato poi passati a Blackstone.

Nel 2007 si tentò con la Scip 2, la società veicolo creata dal ministro Tremonti. All’epoca, anche per il contrasto con le Fondazioni bancarie, non si raggiunsero gli equilibri economici e finanziari e la Scip 2 concluse la sua azione con un forte deficit. Né migliore fortuna ebbe l’altra società di valorizzazione immobiliare, Fintecna.

I fallimenti portarono Tremonti alla costruzione nel 2009 di una nuova società: la Sgr investimenti, nata all’interno della Cassa depositi e prestiti, alla cui direzione mise un suo fedelissimo, Massimo Verazzani, che appena un anno prima era stato nominato commissario straordinario per risanare il deficit di bilancio di Roma.

Anni di sperimentazioni sono serviti per mettere a punto il sistema di vendita e indubbiamente il Renzi sindaco di Firenze è stato l’uomo che con più lucidità ha portato avanti in sede locale il disegno ideato per l’intero paese.

Proprio quando sta per concludere l’offensiva contro Enrico Letta, Renzi rischia grosso. A dicembre 2013 il debito accumulato dal comune di Firenze supera i limiti del patto di stabilità imposti dal governo Monti e solo un provvidenziale aiuto da Cassa depositi e prestiti al cui vertice sedeva ancora Franco Bassanini riesce ad evitargli l’onta del default: la Cdp acquista attraverso il Fondo investimenti per la valorizzazione Plus per 23 milioni di euro il Teatro comunale che il sindaco aveva inutilmente tentato di vendere già dal 2009 ad un valore molto maggiore: 44,5 milioni. Dall’anno seguente il teatro viene inserito nella lista dei beni immobiliari pubblici da vendere e chissà quando troverà un acquirente: con queste spericolate operazioni, dunque, lo Stato si indebita dilapidando contemporaneamente il patrimonio pubblico.

La Firenze renziana diventa la città che persegue con disinvoltura la svendita sistematica del patrimonio immobiliare pubblico: il comune come agente di speculazione immobiliare. Sotto la guida del nuovo sindaco Nardella, ma il lavoro era iniziato sotto il suo predecessore, viene reso pubblico il dossier Florence city of the opportunities, una gigantesca apertura al mercato immobiliare internazionale. Il dossier comprende 47 schede di compendi immobiliari privati e 12 pubblici di straordinario valore storico e che negli anni passati erano stati recuperati in modo straordinario, come nel caso dell’ex carcere delle Murate.

Il sindaco di Firenze aveva dunque le carte in regola per diventare il «sindaco d’Italia» e condurre finalmente in porto la svendita immobiliare. L’annuncio era stato preparato da due provvedimenti coerenti con quella finalità.

Il primo era arrivato con lo Sblocca Italia, all’interno del quale (articolo 10) sono state create le condizioni per il sistematico intervento di Cassa depositi e prestiti nell’acquisto e valorizzazione degli immobili da dismettere. Insomma, la positiva esperienza della vendita del teatro comunale ha contribuito a costruire un veicolo molto più potente ed efficace di quelli dei governi di centro-destra.

Il secondo provvedimento riguarda la campagna di occupazione del potere: nel luglio dello scorso anno vengono indicati i nuovi vertici di Cassa depositi e prestiti. In cima alla piramide viene nominato Claudio Costamagna, ex banchiere Goldman Sachs e attuale presidente di Salini-Impregilo. Amministratore delegato diventa Fabio Gallia che ricopriva identico ruolo nella Banca nazionale del lavoro.

E visto che il mercato immobiliare langue, meglio aiutarlo con l’ulteriore deregulation. L’articolo 26 dello Sblocca Italia prevede la variante urbanistica automatica per tutti i progetti che riguardano gli edifici pubblici. In particolare il comma 8 prevede che una parte della valorizzazione immobiliare ottenuta attraverso la variante urbanistica venga attribuita alle amministrazioni locali che hanno costruito il provvedimento di alienazione. È lo stesso meccanismo di incentivazione alla vendita che era stato inserito in molti provvedimenti legislativi da Giulio Tremonti.

Si chiariscono dunque sempre meglio i motivi che hanno portato alla repentina scalata al potere di Renzi e i motivi strutturali di tale disegno. Verremo inondati dai soliti annunci trionfali, si dirà che i proventi della vendita serviranno per trovare risorse per il rilancio dell’economia. Saranno i soliti annunci privi di fondamento: i valori immobiliari sono ai minimi storici dell’ultimo ventennio e la vendita servirà solo a soddisfare gli appetiti degli investitori internazionali o a creare un indebitamento futuro come dimostra il caso del Teatro comunale di Firenze.

L’insigne giurista Paolo Maddalena ha di recente scritto Il territorio bene comune degli italiani (2013 Donzelli) in cui si sostiene lucidamente che senza patrimonio un popolo perde la sovranità: allo scellerato disegno del governo è ora di opporre un progetto di pari sistematicità che metta al centro dell’agenda politica la difesa dei beni pubblici.

Occhi potenti, periscopi di stomachi voraci, puntati sulle aree dismesse dal pubblico (cioè dai cittadini) per fini di lucro. La chiameranno “rigenerazione urbana". Il Fatto Quotidiano, blog “cittadinanzattiva”, 23 dicembre 2015

Nell’articolo La città rinasce sui binari dismessi di Alessandro Arona, pubblicato su Il Sole 24 Ore si affronta il tema del recupero e valorizzazione di suoli urbani non più utilizzati. Il punto di partenza è che esistono 6,6 milioni di metri quadrati di “aree o strutture ferroviarie dismesse pronte alla riqualificazione urbana, senza consumo di nuovo suolo” corrispondenti ad aree delle ferrovie dello Stato che oggi risultano in stato di sotto utilizzazione o di abbandono e che sono “quasi sempre centralissime” nelle grandi aree urbane del Paese.

I meccanismi utilizzati per la trasformazione di queste aree (aree non utilizzate = edilizia; aree centrali = elevati profitti) afferiscono un po’ troppo al solo sistema economico marginalizzando così il più profondo interesse culturale, ambientale e sociale che è alla base di una qualificazione degli insediamenti.

Partiamo dall’inizio. Le ferrovie dello Stato sono un soggetto pubblico a cui in passato è stato affidato il compito di creare, implementare e gestire la rete e il trasporto su rotaie. A un certo punto, con una scelta aziendale precisa e perseguita coerentemente negli anni, le Ferrovie si sono disinteressate al trasporto merci (che è molto più basso in Italia che in gran parte dei Paesi europei) e si sono concentrate sul trasporto passeggeri privilegiando alcune e più trafficate linee.

Questo fatto, unito all’evoluzione delle tecnologie, ha fatto sì che molti magazzini, molte aree di stoccaggio, dei materiali e dei treni merci, molte aree di manutenzione e di riparazione e molte aree connesse al funzionamento delle stazioni passeggeri e merci siano state abbandonate. Allora la prima domanda che ci si pone è: le aree, essendo state destinate alla mobilità su ferro e sapendo quanto tale mobilità sia meno inquinante di quella su gomma, al di là delle scelte dell’”azienda ferrovie”, possono rappresentare una potenzialità per la mobilità merci su ferro? Possono essere utilizzate per supportare i viaggi di piccola media percorrenza? Potremmo investire su esse per praticare sistemi di mobilità più consone, ad esempio, alla soluzione dei problemi climatici che ci attanagliano? In sintesi possono essere in qualche maniera collegate alla mobilità delle persone e delle merci (interscambio o altro), ragione prima della loro destinazione d’uso?

Può essere di sì o può essere di no. Se fosse sì, forse si potrebbe riflettere e, al di là della necessità di pareggio di bilancio di una azienda, trovare altre soluzioni. Se fosse no, perché il futuro di queste aree dovrebbe essere di interesse delle Ferrovie che hanno come obiettivo non la speculazione immobiliare ma il trasporto pubblico?

Le Ferrovie che non servono per la mobilità dovrebbero essere restituite alla comunità, avendo loro avuto una concessione finalizzata a un uso specifico molto lontano dagli interessi specifici di una società come Sistemi Urbani (gruppo Fs) a cui è demandato il compito di fare fruttare tali aree.

Con un’impostazione così limitata i risultati non possono che essere asserviti a finalità immobiliari estranee all’interesse comune come sono stati i grattacieli a Porta Nuova a Milano o la stazione Tiburtina a Roma, interventi pesanti che hanno in un caso ridefinito il paesaggio urbano della città e nell’altro prodotto altre cubature inutilizzate, lontani dalle esigenze dei cittadini e dai caratteri dei luoghi (e ambedue oggi per gran parte di proprietà di banche). Ma è questo il prezzo che bisogna pagare per non occupare altro suolo? O forse sarebbe più interessante verificare l’esistenza diinteressi comuni per quelle aree, aprendo ad una verifica non esclusivamente economica della “riqualificazione”?

«Nell’area protetta dei Monti della Laga che punta al riconoscimento dell’Unesco, scontro tra interessi e modi opposti di pensare la natura». Il manifesto, 19 dicembre 2015

Da un lato i lavoratori della montagna, dall’altro le associazioni ecologiste. In mezzo il Gran Sasso. È, sì, uno scontro di interessi, quello che oppone - in sintesi - il comitato #SaveGranSasso - nato a L’Aquila per chiedere la riperimetrazione dei Siti di Interesse Comunitario (Sic) e delle Zone di Protezione Speciale (Zps) del Parco nazionale dei Monti della Laga - al cartello di associazioni ecologiste «EmergenzAmbiente Abruzzo» (appoggiato dal Prc) che combatte per andare nella direzione opposta e si oppone alla costruzione di nuovi impianti di risalita e seggiovie nelle aree tutelate.

Ma è anche un conflitto tra due modi opposti di pensare la montagna e la salvaguardia della natura, tra chi mette al primo posto la protezione delle specie animali e vegetali perfino a costo di creare zone off limits all’uomo, e chi crede che invece al centro delle politiche ambientaliste debbano comunque essere messe prima le persone, con i loro bisogni e i loro desideri, come sostengono molti operatori del settore ma anche alcuni amanti degli sport d’alta quota.

L’associazione giovanile «GranSassoAnnoZero», per esempio, preme per il finanziamento di progetti che promuovano la «cultura del free-ride in sicurezza, sci alpinismo, snowpark, bikepark, sci da fondo, parapendio, arrampicata, trekking», ecc. Ma anche una pista di downhill può cozzare contro i vincoli di una zona Sic.

È una diatriba che si ripete da anni e che divide tante comunità montane, dalle Alpi alla Sicilia, a Livigno come sui Colli Berici, nel Parco del Pollino come in Abruzzo. Non solo a L’Aquila, dunque, dove comunque la battaglia, almeno per il momento, è stata vinta dagli ambientalisti, dall’Ente parco e dal gruppo consiliare di Rifondazione comunista perché a bocciare il progetto comunale di costruzione di una nuova seggiovia in località le Fontari - prima opera di un Piano d’Area più ampio che prevede in futuro impianti di risalita à gogo per un costo complessivo di circa 40 milioni di euro - è arrivato all’inizio di dicembre il no del Comitato regionale per la Valutazione di impatto ambientale. Il nuovo tracciato, che è lungo il doppio di quello che si vorrebbe sostituire e finisce in una delle zone tutelate, è stato giudicato «insostenibile» nell’impatto con un territorio annoverato tra i bacini di maggiore biodiversità d’Europa.

Ma la bocciatura era nell’aria e la petizione lanciata su AVAAZ​.org dal consigliere Prc Enrico Perilli che, al contrario del comitato «#SaveGranSasso», chiede di salvare le zone Sic e Zps e propone piuttosto di «puntare sul turismo sostenibile» per rilanciare l’economia locale, ha raggiunto ormai la quota di 10 mila firme. Tutto questo, aggiunto alla minaccia del Prc di uscire dalla giunta di Massimo Cialente, ha convinto i «pro» a trattare con i «contro».

L’accordo raggiunto, con la mediazione del vicepresidente della Regione Giovanni Lolli, prevede innanzitutto l’impegno del centrosinistra a mantenere immutati i confini del parco e dei suoi vincoli, con buona pace dei «falchi no Sic». Comune e Regione finanzieranno inoltre, con una parte dei fondi destinati alla ricostruzione post terremoto, una serie di interventi di rinaturalizzazione del territorio e di promozione di una vera cultura montana nella comunità aquilana. Dove, a dire il vero, colate di cemento e mega opere sono quasi sempre state, nell’accezione comune, sinonimo di sviluppo.

E così, al posto di impianti di risalita inutili (quelli esistenti funzionano al massimo 40 giorni l’anno e nel Piano d’area sono previsti alcuni che dovrebbero arrivare solo a quota 1.400 metri. Ma anche in Trentino, se non fosse per gli aiuti regionali, molti impianti avrebbero già chiuso per fallimento) si è deciso di ristrutturare i rifugi ad alta quota e quelli pastorali abbandonati, ammodernare le strutture turistiche esistenti, smantellare i vecchi impianti in disuso, realizzare e sistemare una rete articolata di sentieri per escursioni giornaliere e trekking di lunga durata, anche su terreno innevato.

Per un piano d’area molto più ambizioso di quello supportato dai maestri di sci locali: far riconoscere dall’Unesco il Gran Sasso come Patrimonio mondiale dell’umanità.

Ogni giorno in ogni città d’Italia avvengono operazioni immobiliari sul patrimonio pubblico che costituiscono rapine ai danni dei cittadini italiani. Mi viene in mente …(continua la lettura)

Ogni giorno in ogni città d’Italia avvengono operazioni immobiliari sul patrimonio pubblico che costituiscono rapine ai danni dei cittadini italiani. Mi viene in mente in mente una filastrocca degli anni 60:

Prima classe, il passeggero è un miliardario forestiero.
Italia bella, io comperare. Quanti dollari costare?
Ma il ferroviere, pronto e cortese:
Noi non vendiamo il nostro Paese

È una delle Filastrocche in cielo e in terra di Gianni Rodari. Altri tempi, altre fiabe. Ora il nostro Paese è stato ampiamente svenduto, assieme al ferroviere cortese, ma i mezzi di propaganda del potere ci esortano a fare di più. Così, mentre ogni giorno il bollettino delle svendite si allunga con nuovi elenchi di palazzi e stazioni, caserme e scuole, ospedali e prigioni, musei e fari, isole e parchi, che vengono sottratti ai cittadini per essere trasformati in albergo o attrazione turistica e ceduti agli investitori immobiliari, alcuni intellettuali in servizio di complemento si adoperano per convincerci che “la nostra eccellenza sta nella cultura/turismo”… il “turismo è la nuova industria mondiale”.

Di questa pattuglia fa parte Lorenzo Salvia che, con il suo libro Resort Italia, sottotitolo Come diventare il villaggio turistico del mondo e uscire dalla crisi, pubblicato da Marsilio, casa editrice della famiglia De Michelis, intende spiegarci che “il turismo è la salvezza dell’Italia”.

A questo scopo, dalla prima all’ultima riga, ci martella con affermazioni perentorie: «dobbiamo renderci conto che la nuova divisione globale del lavoro impone che ogni paese si debba specializzare in qualcosa, per noi è il turismo» … «il turismo è l’unica industria italiana a prova di Cina e delocalizzazione»… «il turismo è il migliore degli export possibili». In realtà, vari episodi, come la recente cessione da parte della Cassa Depositi e Prestiti degli edifici della Zecca e del Poligrafico di Roma ad investitori cinesi, dimostrerebbero il contrario, ma Salvia non ha dubbi sulla validità della lista di quelle che considera le «occasioni perse» e delle proposte per il futuro.

Tra gli errori del passato, segnala il «non aver fatto Disneyland a Bagnoli, non aver trasformato la Sardegna nei Caraibi d’Europa, non aver costruito sufficienti campi da golf in Sicilia». Ogni singola vicenda viene liquidata con poche battute. Per quanto riguarda la Sicilia, ad esempio, Salvia si/ci chiede «è più intelligente, verrebbe da dire di sinistra, aprire in Sicilia un campo da golf che attirerebbe turisti americani e cinesi oppure tenere in piedi per anni la cassa integrazione della Fiat di Termini Imerese?». Oltre che il discutibile modo di presentare le due scelte, come fossero alternative, colpisce il disinteresse dell’autore per il fatto che un campo da golf consuma in media 2000 metri cubi d’acqua a giorno, l’equivalente di un paese di 8000 persone.

Che preoccupazioni ambientali e sociali non rientrino nelle sue priorità emerge ancor più chiaramente dalle proposte per il futuro, per la cui realizzazione, ci ammonisce, bisogna innanzitutto «liberarsi della retorica del bene comune e della maledizione dei coccetti, a causa della quale il solito reperto che spunta fuori dagli scavi… blocca un cantiere per anni». Tra le misure operative compare, ovviamente, «la concessione ai privati di alcuni monumenti» che potrebbe dare allo stato le risorse per «investire in un grande progetto di restauro, magari installandovi una scultura moderna, di cento piazze”, che rappresentano “quel misto di composizione scenografica e centro della vita quotidiana cosi tipico del nostro paese e cosi apprezzato all’estero”. Salvia suggerisce anche di mettere negli aeroporti e nelle stazioni qualche pezzo dei musei locali e renderli visibili subito dopo il check in, «sarebbe il modo migliore per dare il benvenuto a chi arriva nel paese della cultura e dell’arte». Per quanto riguarda le città in genere, poi, raccomanda di considerarle come «i capannoni della nuova industria» e di «fare come a Londra dove i vecchi quartieri operai grazie agli investimenti privati attirano persone nuove».

Molte altre perle di saggezza vengono sciorinate nel volume, inclusa l’idea di portare l’alta velocità in Sicilia, dopo di che, «si potrebbe ripensare al ponte sullo stretto come infrastruttura strategica e come attrazione turistica». Il capitolo dedicato a Roma è incentrato sull’idea di trasformare il lungo Tevere in uno «waterfront del divertimento», costruire un collegamento via acqua con le spiagge, consentendo così di «cominciare a prendere il sole appena saliti a bordo», e creare una Disneyland ispirata all’antica Roma a Ostia. Sembra di rivedere la scena del film Suburra nella quale il boss Samurai annuncia a Numero 8 che Ostia diventerà il waterfront di Roma. «Pensa», gli dice, «prova a pensare. Sforzati di elevarti dal marciapiede». Ma Numero 8 non capisce. «Uoter de che?» chiede e Samurai deve spiegargli: «casinò, alberghi, ristoranti, palestre, yacht, negozi. Questo significa waterfront, sottocorticale che non sei altro».

Forse “sottocorticali” siamo anche noi che non abbiamo ancora capito che dobbiamo «riconvertire al turismo tutta la nostra economia dalla scuola agli uffici pubblici, dagli aeroporti al cinema». Nessun settore e nessuna attività, infatti, sfugge all’afflato riformatore di Salvia, la cui visione della scuola e della sua utilità sembra uscire dalla bocca del ministro Poletti/Crozza. Così, per darci la prova dello scollamento tra istruzione e mondo del lavoro, ci informa che il mestiere che ha avuto l’aumento maggiore di addetti è «l’istruttore di ginnastica da spiaggia, il cui numero dal 2008 a oggi è cresciuto di 3360 volte».

Il libro è stato recensito con entusiasmo sulla stampa nazionale. Tra gli altri, Gian Antonio Stella gli ha dedicato un pezzo dal titolo “Bell’Italia delle occasioni perse”. A tratti è una lettura godibile. Purtroppo, però, molte di quelle che sembrano battute di spirito riproducono esattamente i programmi e le azioni dei governi nazionali e delle amministrazioni locali che fanno o procacciano affari grazie al Resort Italia, programmi e azioni che possono far rimpiangere perfino il gerarca fascista Achille Starace quando dichiarava «non permetteremo che facciate dell’Italia un paese di albergatori e camerieri».

Riferimenti:
Sulla mercificazione della «città antica attuata tramite la svendita del patrimonio edilizio pubblico e l’abdicazione al controllo della trasformazione di quello privato» si veda di Ilaria Agostini Firenze. Città merce o città felice?. Su quel che accade a Venezia la cronaca di Enrico Tantucci Tris di palazzi in vendita a Cassa depositi e prestiti

Anche a Venezia la CDP continua l'acquisizione di immobili per "valorizzare"il patrimonio pubblico per farne in gran parte alberghi. E' improbabile l'interesse pubblico di queste speculazioni rese possibili con il risparmio postale di milioni di italiani. La Nuova Venezia, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)

Continua in città lo «shopping» immobiliare di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) in città e questa volta con un «tris» di edifici comunali che saranno ceduti entro l’anno. La Cdp Investimenti è infatti tornata alla carica per Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo, per i quali aveva già trattato con il commissario straordinario Vittorio Zappalorto, che aveva ritenuto l’offerta complessiva di 16 milioni e 900 mila euro per i due palazzi troppo bassa, rinunciando alla vendita. Ora l’offerta per i due palazzi è salita a 20 milioni di euro complessivi e il Comune è pronto ad accettare, tanto da aver già inserito i due immobili nel piano delle alienazioni approvato il 19 novembre.

Per Palazzo Diedo, ex sede della procura della Pretura, c’è già il cambio di destinazione d’uso e il permesso di costruire appena approvato, secondo un progetto già presentato da EstCapital quando il palazzo faceva ancora parte del Fondo Immobiliare Città di Venezia da cui poi è stato sganciato. Un progetto che prevede la creazione di servizi igienici e magazzini al piano terra, funzionali al ristorante che si prevede di realizzare al piano ammezzato dell’edificio, mentre il primo e secondo piano saranno riservati a negozi e l’ultimo piano a due appartamenti. Ma a Palazzo Diedo e a Palazzo Gradenigo si aggiunge un terzo edificio comunale che sarebbe ceduto alla Cassa Depositi e Prestiti, che l’ha richiesto: è Palazzo Donà, in Campo Santa Maria Formosa, attuale sede della Direzione Politiche sociali, partecipative e dell’accoglienza e del servizio sociale della Municipalità, oltre che dell’archivio della Procura della Repubblica. Il Comune è pronto a cedere Palazzo Donà e a spostare in altre sedi gli uffici che ospita.
Sbarcata negli ultimi anni in laguna, la società del Ministero dell'Economia sta conducendo una serie di operazioni immobiliari mirate. Si è cominciato con l'acquisto dal Comune dell'ex Ospedale al Mare del Lido. Poi è toccato al fabbricato delle ex Carceri di San Severo a Castello, costruite dagli Austriaci all'inizio dell'Ottocento, anch'esso acquisito dalla Cassa che - con il suo Fondo strategico italiano - ha stipulato un accordo di investimento con il Gruppo Rocco Forte Hotels, che prevede l'ingresso del Fondo nel capitale del gruppo alberghiero inglese guidato dall'imprenditore di origine italiana, per un piano si sviluppo incentrato sull'Italia, di cui proprio Venezia dovrebbe essere uno dei capisaldi. Un altro immobile su cui la Cassa pensa di investire sarebbe l'isola di Sant'Angelo delle Polveri, lungo il canale Contorta-Sant'Angelo, che ha acquistato lo scorso anno. La Cassa ha acquistato anche l'ex Casotto Capogruppo di San Pietro in Volta e ha messo le mani anche sull'isola di San Giacomo in Paludo. Ha acquistato a prezzo di saldo dalla Regione il settecentesco Palazzo Manfrin sul rio di Cannaregio (stimato 16 milioni e mezzo di euro e venduto a 10).
Riferimenti
A Firenze come in tante altre città succede lo stesso: di Ilaria Agostini Firenze. Città merce o città felice?

Fa un grande effetto leggere la lista di beni pubblici che stanno per essere venduti. A Firenze come in tante altre città. Perunaltracitta.org, 28 novembre 2015

Se si escludono il tunnel TAV, la costruzione del nuovo aeroporto che punta dritto sulla cupola del Brunelleschi, il metrò sotto piazza del Duomo, i parcheggi interrati nel centro antico, la principale emergenza fiorentina resta, senza ombra di dubbio, la mercificazione della città antica attuata tramite la svendita del patrimonio edilizio pubblico e l’abdicazione al controllo della trasformazione di quello privato. Grazie anche a un piano strutturale deprivato a bella posta di una qualsiasi parvenza di significato pianificatorio.

Abbiamo già avuto modo di commentare l’inqualificabile attività del sindaco-agente del real estate quando il “Renzi in sedicesimo” batteva le fiere internazionali della speculazione finanziario-immobiliare per promuovere la vendita di edifici cittadini pubblici e privati. Attività nelle quali – come prevede lo “Sblocca Italia” (art. 26, comma 8) che trasforma gli enti pubblici in agenti immobiliari – il Comune avrà il suo tornaconto economico in percentuale sul prezzo di vendita degli immobili.

Dei 59 immobili elencati nella brochure propagandistica del sindaco, alcuni sono stati venduti. Cominciamo da qui.

Il Teatro Comunale dal luglio 2015 è di proprietà della Nikila Invest che ha acquistato il teatro per circa 25 milioni dalla Cassa depositi e prestiti Spa, la quale a sua volta aveva rilevato l’edificio da Palazzo Vecchio per 23 milioni di euro (molti meno rispetto ai 44,5 milioni di valutazione del 2009): nel 2013, il provvidenziale acquisto, avvenuto poche ore prima della chiusura dei bilanci comunali, permise a Renzi di non sforare il patto di stabilità. Al posto del teatro, 120 appartamenti di lusso («stile Fifth Avenue») a 8.000 euro al mq (di cui sessanta «residenze “servite”, con maggiordomo e assistenza stile hotel»). Il progetto è di Marco Casamonti, architetto dal problematico rapporto con la Magistratura (attualmente condannato in appello nell’ambito dell’inchiesta su Castello).

Il palazzo Vivarelli Colonna (4.400 mq), sede dell’Assessorato alla cultura, ha la stessa sorte. La Cassa depositi e prestiti versa 12 milioni di euro nelle casse di Nardella, «che – scrive il Corriere – potrà così contare su una solida stampella per far tornare il bilancio falcidiato dai tagli statali». La CDP sarebbe ora in trattativa per la vendita ad una società che ha l’obiettivo di realizzarvi un hotel di lusso. Tanto per cambiare.

Mentre questo scritto va in “stampa”, apprendiamo che anche i 2.500 mq di palazzo Demidoff, in via San Niccolò, sono stati venduti dall’Azienda Pubblica di Servizi Montedomini, con un ribasso che si aggira intorno al 40%. L’acquirente, Amarante, ne prevede la «commercializzazione – in vendita o affitto – di altissimo livello».

Tra gli edifici in cerca di un nuovo padrone spicca, per la qualità e la sua vicinanza con Palazzo Vecchio, il convento dei Filippini in piazza San Firenze: l’ ex Tribunale è ceduto per 29 anni – come stabilito da una delibera di giunta del 6 luglio 2015 – alla Fondazione Franco Zeffirelli per un “Centro internazionale di formazione per le arti e dello spettacolo”, «scuola di eccellenza aperta agli studenti di tutto il mondo».

La villa di Rusciano, 5.400 mq, sull’arco collinare a sud della città, oggi sede dell’Assessorato all’ambiente, è una villa rinascimentale brunelleschiana. Il complesso di Rusciano fu donato al Comune nel 1977 con vincolo di assistenza ai giovani, che il Comune, con eccessiva disinvoltura, ha stravolto in turistico-ricettivo. Per l’inosservanza del vincolo, il Cantiere Beni Comuni Q3 ha presentato un esposto alla Magistratura (il parco invece resta pubblico anche grazie alle osservazioni di perUnaltracittà al Ru).

La Manifattura tabacchi (88.687 mq), proprietà Fintecna e CDP, è in vendita con annessa variante adottata nel 2014 malgrado l’opposizione del comitato per la sua tutela. La variante prevede un paio di torri alte 53 metri, in deroga al regolamento edilizio. Merita ricordare in proposito un disarmante processo partecipativo che lasciava alla cittadinanza la scelta tra due torri da 23 piani o tre torri da 17 piani. La variante prevede 700 appartamenti. Il teatro Puccini, attivo sull'area, diventa centro congressi.

Il cosiddetto Palazzo del sonno: 21.000 mq di fronte al polo fieristico della Fortezza, oggi avviato alla ristrutturazione, anche cementizia (e qui si aprirebbe un capitolo che rimandiamo a un’altra occasione). Si tratta di un boccone prelibato per “The Student Hotel”, giovane società olandese che avrebbe inventato l’«ospitalità ibrida»: compresenza di albergo e di residenze per studenti. L’acquisizione dell’edificio sarebbe stata realizzata in collaborazione con Invest in Tuscany, il sito della Regione «che aiuta a investire in Toscana». Architetto: Casamonti.

Ex caserma in costa San Giorgio: dal “Corriere fiorentino” del 5 settembre 2015: «appena arriverà il nulla osta dalla soprintendenza partiranno i cantieri per realizzare un hotel a 5 stelle con 6o camere, centro benessere e un grande parcheggio per gli ospiti. Alfredo Lowenstein, imprenditore americano di origine argentina, vi investirà 40 milioni». Il Lowenstein lo conosciamo già come investitore a Cafaggiòlo. Si servirebbe dell’architetto Casamonti.

Anche il Monte dei Pegni di via Palazzuolo si trasforma in hotel a cinque stelle da 100 camere, grazie a pregresse manovre della giunta Domenici e malgrado gli esposti in Procura di perUnaltracittà. L’immobile da 10.000 metri quadrati, è ora in mano a una società del colosso alberghiero Accor (lo stesso che ha appena aperto l’hotel nell’ex cinema Apollo di via Nazionale). Come indennizzo della concessione del cambio di destinazione d’uso, il Comune riceve 900.000 euro di “compensazione”: la stessa cifra la ricava dall’apertura del negozio di computer in piazza della Repubblica. Si tratta, afferma la stampa, della seconda volta che il Comune «monetizza al massimo la svolta resa possibile grazie alle nuove norme» (cfr. l’art. 25.2.4 delle NTA del RU e la delibera della Giunta comunale n. 127 del 10/05/2013 “Opere di urbanizzazione realizzate dai privati a scomputo degli oneri. Aggiornamento dei criteri e nuovi indirizzi per la stesura di una bozza di convenzione”).

Ci troviamo insomma di fronte alla monetizzazione del cambio di destinazione d’uso (ovvero degli standard urbanistici): tutto può farsi, basta pagare.

Tra le aree in vendita, anche luoghi di lunghe vertenze come il Panificio militare e il Meccanotessile, oggi entrambi “impantanati”: non se conoscono pubblicamente gli sviluppi.

Nel solo centro antico, il patrimonio immobiliare in via di trasformazione è immenso; patrimonio che, osso della società civile e speranza per la sua rifondazione civile, è costituito da edifici i quali anziché essere resi «socialmente disponibili», sono destinati o alla speculazione tout court o ad usi esclusivi pur pubblici (tra cui l’ennesimo museo etc.). Tra i maggiori, in vendita o di imminente passaggio tra enti (ad es. dal Ministero della difesa al Comune), bisogna ricordare almeno:

- l’ex Borsa merci in via Por Santa Maria e l’ex cinema Capitol alla loggia del Grano, che la Camera di Commercio intende vendere con base d’offerta, rispettivamente: 60 e 18,7 milioni di euro con vantaggi particolari nel caso di doppio acquisto... (cfr. “Corriere fiorentino”, 13 novembre 2015);
- in vendita pure l’intero complesso delle Murate (23.500 mq);
- le poste di Michelucci (11.700 mq);
- la Cassa di Risparmio (19.000 mq) all’ombra della cupola del Brunelleschi, valorizzati dalla previsione di un parcheggio interrato (cui si oppone il comitato per Piazza Brunelleschi...). Il complesso è stato comprato dal Tom Barrack – noto per l’investimento in Costa Smeralda – a capo della Colony Capital (Colony Capital: il nome non lascia spazio a dubbi né sulle finalità né sui metodi). Barrack trasformerà l’isolato in nome di: «lusso al posto del trading»;

- Sant’Orsola, di proprietà della Provincia (17.500 mq);
- Palazzo Portinari ex Banca toscana sul Corso (13.000 mq per 44 appartamenti e 47 posti auto interrati);
- la Scuola allievi sottoufficiali nel convento di Santa Maria Novella;
- la Corte d’assise in via Cavour, progettata da Bernardo Buontalenti;
- il Distretto militare nel convento di Santo Spirito;
- l’ex Ospedale militare in via San Gallo (16.200 mq);
- il Tribunale per i minori in via della Scala;
- l’Accademia di Sanità militare in via Tripoli;
- la Scuola di Sanità militare nell’ex convento del Maglio;
- il convento di Monte Oliveto sulla collina di Bellosguardo;
- il Nuovo Conventino;
- la Caserma Cavalli in piazza del Carmine;
- la Dogana in via Valfonda;
- la Caserma Baldissera;
- la Rotonda di Brunelleschi e il contiguo convento;
- il Teatro Nazionale e il Supercinema in via de’ Cerchi-Cimatori;
- il Teatro Niccolini in via Ricasoli;
- il cinema Eolo (per il quale il si ventila l’ipotesi della trasformazione in parcheggio-silos, in pieno centro);
- l’ospedale di San Bonifazio, sede della Questura, messo all’asta da Nardella, ora in veste di presidente della Città metropolitana.

Ultima arrivata in ordine di tempo, la Leopolda: 7,2 milioni di euro, superficie commerciale di 5.200 mq, emblema del nuovo corso politico, ma ora anche del vecchio sistema per far cassa.

L’articolo è la (quasi fedele) trascrizione dell’intervento all’assemblea della ReTe dei comitati per difesa del territorio tenutasi a Firenze il 14 novembre 2015. Ringrazio Maurizio Da Re per l’indispensabile collaborazione

Le strategie politiche dell'estrema destra italiana, per raccogliere consenso su temi tradizionali come la sicurezza fai da te, in fondo si legano perfettamente con l'idea di città reazionaria e privatizzata tanto in voga nel mondo. Today, 30 novembre 2015

Alle prossime elezioni comunali di Milano, un partito di destra presenterà tra i candidati di punta per il consiglio il pensionato sessantacinquenne diventato improvvisamente famoso per aver ucciso un intruso nella sua casa, in un centro suburbano ai margini dell'area metropolitana. Certo, non c'è nulla di nuovo nell'uso strumentale della notorietà a scopi politici, come succede ad esempio con personaggi dello spettacolo, ma la questione oggi assume un particolare valore simbolico per il modello di convivenza civile e urbano che sottende. E non mancano precise coerenze di tipo urbanistico, anche se la cosa può apparire a prima vista strana e addirittura forzata. Proviamo a guardare, da questo punto di vista, anche solo a due degli ultimissimi casi di sparatorie casalinghe con morti in villetta, a pochi giorni e pochi chilometri l'uno dall'altro.

In un caso, ancora in corso di accertamento da parte della magistratura, c'è stata una difesa diciamo così preventiva, ovvero il padrone di casa avrebbe sparato al ladro senza troppe storie, rivendicando in sostanza l'autodifesa fai da te, e conquistandosi così quella proposta di rappresentanza politica. In un secondo caso, c'è la storia di una rapina con sequestro, dai presupposti senz'altro più drammatici, le minacce col coltello, l'affrontarsi diretto, e poi le dichiarazioni per nulla compiaciute del traumatizzato sparatore. Insomma due casi molto diversi, unificati però dal tipo di ambiente urbano-sociale che gli fa da sfondo: il suburbio metropolitano di casette con giardino, da sempre teatro di queste vicende perché luogo in fondo paradigmatico di uno stile di vita. Quando mai la cronaca ci racconta di cose del genere in città? Certo anche nelle strade urbane non mancano di sicuro fatti di sangue e violenza, rapine, morti ammazzati, ma pare chiaro a tutti che l'irruzione di banditi giù per lo scivolo della tavernetta o appena oltre il cancello del giardino con la madonnina di Lourdes, richiama quei luoghi fatti di stradine, percorse quasi sempre solo dalle auto, deserte salvo il rientro dei ragazzini da scuola o l'uscita per il giretto del cane.

Sono anche, come ci raccontano infiniti studi internazionali, i luoghi simbolo e sostanza dei partiti di destra e del loro consenso: il culto del privato e della famiglia, della proprietà, il lieve disprezzo verso tutto ciò che è pubblico e collettivo, l'identità relativamente chiusa sul locale, sulla fascia economica, sulla conoscenza diretta. Ed è, anche, questo sprezzo di tutto ciò che è pubblico e collettivo, la base fondante della città terzo millennio della destra, la sua urbanistica fatta di enormi progetti di trasformazione privati, concepiti in fondo col medesimo schema del quartiere di villette, salvo metterci delle torri residenziali di lusso progettate da qualche archistar, e un'opera d'arte postmoderna invece della madonnina nella sua grotta di cemento. Nelle finte piazze privatizzate di questi quartieri, invece del giustiziere suburbano fai-da-te, ci saranno magari (come già ci raccontano attente osservatrici come Anna Minton o Saskia Sassen) le guardie armate pagate dal condominio, o dall'associazione commercianti. Che magari saranno un po' più professionali nello sparare a vista, o magari nel non sparare affatto perché prevenire è meglio che curare. Ma il trasloco dell'ambiente suburbano in città, a costruirsi uno zoccolo duro di consenso di destra ed espellere il resto, usa queste strategie.

Pistola Due: un giustiziere immerso nel verde :: Blog su Today
Su La città Conquistatrice una serie di articoli dedicati al tema dello Spazio Pubblico e dei suoi rischi di estinzione

Potrebbe interessarti:http://www.today.it/blog/millennio-urbano/pistola-due-un-giustiziere-immerso-nel-verde.html
Seguici su Facebook:http://www.facebook.com/pages/Todayit/335145169857930

Pistola Due: un giustiziere immerso nel verde :: Blog su Today
Su La città Conquistatrice una serie di articoli dedicati al tema dello Spazio Pubblico e dei suoi rischi di estinzione

Su Eddyburg l'ultimo contributo di Saskia Sassen dedicato ai grandi progetti di privatizzazione urbana nel mondo


Potrebbe interessarti:http://www.today.it/blog/millennio-urbano/pistola-due-un-giustiziere-immerso-nel-verde.html
Seguici su Facebook:http://www.facebook.com/pages/Todayit/335145169857930

«Avviata la procedura che tiene presente la complessità di gestione Fs e la necessità di aumentare gli obblighi di servizio pubblico, esordisce Delrio. Però coi tagli degli ultimi anni, il servizio ha sofferto: sacrificati pendolari e lunghe percorrenze». Il manifesto, 24 novembre 2015 (m.p.r.)

Roma. Il governo mette in vendita il 40% delle Ferrovie: la privatizzazione, che segue quella di Poste e precede quella di Enav, è stata decisa ieri dal consiglio dei ministri, che ha varato un Dpcm ora atteso alle camere. Il provvedimento è stato illustrato dal ministro dei Trasporti Graziano Delrio, e ha subito suscitato le preoccupazioni dei sindacati e dei partiti di opposizione, con alcune perplessità espresse anche da componenti del Pd. Non è ancora pienamente chiaro - nonostante le rassicurazioni offerte da Delrio - il destino di Rfi (la rete), che il governo punta comunque a scorporare (e quindi almeno in parte a quotare?), mentre l’indebolimento del pubblico fa temere per i già disastratissimi servizi pendolari.

«Viene avviata la procedura che tiene presente la complessità della gestione delle Fs e la necessità di aumentare gli obblighi di servizio pubblico», ha esordito Delrio. Va detto però che con i tagli degli ultimi anni, il servizio pubblico ha al contrario sofferto: sacrificati i pendolari e le lunghe percorrenze (basti pensare ai treni notte), la gran parte degli investimenti si sono diretti invece verso i convogli ad alta velocità e con biglietti piuttosto cari per i viaggiatori. «L’alienazione di Ferrovie non potrà andare oltre il 40% - ha spiegato Delrio - È un avvio di percorso che tiene presenti alcune questioni: l’infrastruttura ferroviaria dovrà rimanere pubblica, dovrà essere garantito l’accesso a tutti in maniera uguale». «Nel processo parziale di privatizzazione di Fs si manterrà un'attenzione particolare all'azionariato diffuso e alla partecipazione dei dipendenti del gruppo Ferrovie dello Stato, gruppo che produrrà anche quest'anno ottimi risultati».
Il valore stimato dell’azienda è di 45 miliardi di euro, e i proventi della privatizzazione dovrebbero andare a coprire il debito pubblico. Non è ancora chiaro, però, quanto punti a incassare il governo: Palazzo Chigi in una nota ha spiegato infatti che la privatizzazione «potrà procedere in più fasi» e alla richiesta di una cifra attesa, Delrio ha risposto con un ermetico: «Adesso ci penseremo». I conti dell’azienda, d’altro canto, ultimamente vanno piuttosto bene: nel 2014, il gruppo Ferrovie dello Stato ha realizzato quasi 8,4 miliardi di ricavi operativi (303 milioni il risultato netto). Il 2015 appare promettente: nel primo semestre i ricavi hanno sfiorato i 4,2 miliardi di euro, mentre l’utile è aumentato del 2,5% rispetto allo stesso periodo del 2014, raggiungendo i 292 milioni.
Un’azienda "risanata" dopo svariati anni di debito, che però adesso, almeno a sentire i più critici, potrebbe esporsi a un pericolo di «svendita» delle proprie azioni. È ad esempio il timore di Franco Nasso, segretario della Filt Cgil: «Da quanto si può capire dagli annunci - dice - la privatizzazione non darà risorse al trasporto regionale, anzi finirà per limitare fortemente la capacità industriale di Trenitalia, limitandosi a fare un incasso dalla vendita che, viste le condizioni e la fretta, potrebbe sostanzialmente consistere in una svendita». Secondo la Cgil c’è «un problema di mancata corrispondenza tra le aspettative degli utenti del trasporto regionale e il servizio offerto. Le ragioni sono dovute principalmente ai tagli operati da tutti gli ultimi governi su questo fondamentale servizio universale che, per essere erogato, ha bisogno del contributo pubblico». E abbiamo tutti sotto gli occhi le immagini (alcuni lo vivono sulla propria pelle) di treni congelati in inverno e simili a saune in estate; la folla e i ritardi, i bagni in condizioni pietose.
«Questa privatizzazione acefala è una stupidaggine gigantesca che farà solo danni al Paese, ai cittadini italiani e ai lavoratori delle Ferrovie. Non abbiamo elementi di chiarezza e il ministro non ha ritenuto di spiegarci nulla nonostante le reiterate richieste di incontro», rincara il segretario Fit Cisl Giovanni Luciano. «Siamo d’accordo su massimo il 40% delle quote e l’azionariato diffuso compresi i dipendenti. Per il resto pensiamo che, laddove non vi siano chiarimenti, occorrerà mobilitarsi». «Privatizzazione sbagliata, mera operazione di cassa», taglia netto anche la Uiltrasporti. Nel Pd è Marco Filippi, capogruppo in Commissione Lavori pubblici del Senato, a chiedere che «si eviti che la vendita sia solo un’operazione economico/finanziaria».
Contro «la svendita del patrimonio dello Stato per tappare i buchi del bilancio» si pronuncia il M5S, che chiede al contrario di «potenziare il trasporto pubblico locale». Disco rosso anche da Stefano Fassina, di Sinistra italiana: «La privatizzazione di Fs vuol dire ulteriore drammatico disinvestimento e peggioramento per i servizi di trasporto per i pendolari. Noi ci opporremo». In uscita, infine, gli attuali vertici, divisi proprio sulla privatizzazione: l’amministratore delegato Michele Mario Elia difende l’unicità del gruppo, mentre il presidente Marcello Messori è favorevole allo scorporo di Rfi. Tra i successori in pole, Renato Mazzoncini, ad di Busitalia.

Come osserva uno studio internazionale: le spinte neoliberiste al ridimensionamento delle libertà collettive in nome della sicurezza sono assurde e pericolose, già di per sé significano solo sostituire una violenza all'altra. La Città Conquistatrice, 19 novembre 2015

Se si guardano certi quadri urbani, anche piuttosto famosi, di epoca pre-industriale, si notano con più o meno evidenza comparire nell'immancabile striscia di campagna o foresta fuori le mura alcune presenze inquietanti. A volte in forma di vaghe ombre o semplici nubi minacciose all'orizzonte, a volte coi tratti più espliciti di una scura sinistra sagoma a fare capolino da un masso o da un albero, sono parte della natura nemica chiusa fuori dalle fortificazioni, reale o immaginaria, belva o poltergeist che sia. Da una certa prospettiva, la vera differenza di questo ambiente urbano rispetto al castello o alla corte rurale, sta nell'articolazione e ampiezza dei suoi spazi pubblici e collettivi, ben più ricchi e aperti delle stanze illuminate dal camino, o del falò sull'aia, attorno a cui si radunano le popolazioni rurali per scacciare gli incubi della notte. Ma come ci insegnano sia certe travolgenti fiction gotiche, che i serissimi ma egualmente affascinanti racconti di storici alla Jacques Le Goff, anche dentro le mura urbane culla di civismo cultura tolleranza, fucina di lumi e luminarie fisiche e mentali, non mancano certo in agguato oscure presenze, infiltrate dalla selva o di produzione propria. Ancora qui, la grossa differenza con la campagna sta nel metodo di lotta basato sull'assimilazione anziché sull'esclusione.

Il bar di Guerre Stellari

La città è il luogo della differenza, dell'individuo che pur confuso tra la folla non è mai folla, anzi la sua individualità ne viene enfatizzata, non sminuita. Differenza a volte significa anche devianza in senso antisociale, però soltanto in casi estremi ha davvero senso ricorrere alla repressione: il più delle volte basta lo stesso ambiente urbano a digerire e rendere assimilabile qualunque comportamento, traducendolo in conflitto, innovazione, progresso. Non a caso uno dei maggiori sociologi urbani del '900, William Whyte, nei suoi primissimi studi sullo scontro fra etica protestante individualista, ed etica sociale tendenzialmente massificante, individuava certe caratteristiche spaziali come molto favorevoli all'una e di ostacolo all'altra. E in ricerche successive sullo spazio pubblico continuava a sottolineare quanto una adeguata disponibilità di luoghi di incontro e intreccio di vari soggetti e comportamenti fosse la soluzione generalizzata alla sicurezza, garantita anche per la quota restante da quelli che Jane Jacobs (in prima battuta sua creatura) chiamava «occhi sulla strada». Quindi ciò su cui chiunque si avvicini al problema in buona fede concorda, è che l'antidoto alla criminalità, ai portati peggiori della devianza, all'insicurezza reale (su quella percepita lasciamo sfogare ansiosi e destrorsi), è più spazio pubblico, non meno spazio pubblico.

Quantità, qualità, spazio, tempo

Quanto spazio pubblico non si calcola certo solo al metro quadro, anche se come insegnano certe subdole politiche conservatrici il criterio di un tanto al chilo non va mai abbandonato. Quindi più parchi, più marciapiedi, piazze, slarghi accessibili, portici, atrii, arretramenti di edifici eccetera. Ma anche più varietà e qualità, mescolanza di usi, magari un po' di confusione che non fa male anzi aiuta. Poi cala la sera, e tutto cambia, rispuntano le ombre …. No che non deve essere così! Ce lo ricorda quella classicissima canzone di Petula Clark, Downtown, quando dice: «Just listen to the music of the traffic in the city, and linger on the sidewalks where the neon signs are pretty». Una scena che si svolge evidentemente di notte, in un ambiente che forse oggi chiameremmo di movida, o su una strada dello shopping, ma può anche essere un giardino, il piazzale della stazione: vogliamo tutti che la città sia efficiente, deve esserlo, è uno dei suoi ruoli, ma chi ci sta e ci va vuole, pretende, qualcosa di diverso, vagamente deviante, trasgressivo (si fa per dire), molto poco fantozziano. Oggi certo economicismo contabile moralista ci vorrebbe tutti a casa a guardare il telegiornale appena finisce l'orario di lavoro da travet: non è una violenza peggiore di un'aggressione in un vicolo buio? Reagiamo, rivendichiamo il diritto alla città naturalmente senza trasformarla in un pentolone ribollente, a tutto c'è un limite, ma non facciamolo fissare al moralizzatore di passaggio.

Riferimenti:

Marion Roberts, Economie della notte metropolitana
William H. Whyte, Indesiderabili
Bradley L Garrett, Cities at night: why our right to use public spaces after dark is under threat, The Guardian, 19 novembre 2015
Perché inseguire un'idea esclusivamente tecnologica di "smart city" non ha alcun senso, se tutti i settori municipali non collaborano fattivamente alla costruzione di spazi pubblici di qualità adeguati ai nuovi stili di vita e lavoro urbani. Today, 28 settembre 2015

La questione aperta dalla truffa emissioni della Volkswagen, riporta in primo piano i problemi della mobilità sostenibile, e degli spazi entro cui è possibile organizzare nuovi stili di vita e lavoro. A questo primo aspetto se ne somma un altro apparentemente indipendente, quando con la recente presentazione del cosiddetto iPadPro, la Apple di Cupertino riprova l'ormai usuale strategia di largo respiro inaugurata dal fondatore Steve Jobs: non inseguire i bisogni consapevoli del consumatore, ma in una specie di logica fantascientifica al contrario inventarne di nuovi sulla base di scenari futuribili. Nel caso specifico del nuovo trabiccolo, questi scenari futuribili altro non sono che certi sviluppi sociologici e urbani in parte già delineati negli studi di Richard Florida con la sua «creative class», soprattutto negli sviluppi pratici così come si iniziano a intravedere nei tanti quartieri che amministrazioni in cerca di spunti per le riqualificazioni promuovono ormai a man bassa. Per adesso prevale il modello capitalista-esclusivo, ovvero ciò che offre il convento del puro mercato: le aree dismesse o degradate sono invase da costruttori archistar e immobiliaristi, schizzano in alto i valori delle case, ma in cambio si realizzano zone a funzioni miste qualificate, e soprattutto molto post-moderne nella sostanza: appartamenti relativamente piccoli destinati a giovani o a stili di vita giovanili, alta densità di innovazioni tecnologiche a partire dal wireless ad alta capacità, forte mescolanza degli spazi residenziali, commerciali, per il tempo libero e il lavoro.

Nella logica di puro mercato con cui vengono al momento gestite oggi la maggior parte delle operazioni (per esempio promosse dalla vecchia amministrazione Bloomberg a New York), accade che essendo la «creative class» solo in minima parte composta da veri giovani prodigio, che guadagnano come un pascià prima dei trent'anni, si ricorra all'espediente del microappartamento, 20-30 metri quadrati a cui adattarsi, ma economicamente accessibili, sapendo però che l'offerta vera urbana si arricchisce degli spazi condivisi e pubblici del quartiere, in una logica ben diversa dal suburbio privatizzato delle villette. È qui che si dispiega la potenza ergonomica dell'iPadPro, fortissimo quanto a portabilità per funzioni eminentemente lavorative, inaccessibili allo smartphone e anche ai tablet attuali. Ma appunto a questa estrema portabilità deve corrispondere una ampia e diffusa disponibilità di spazi pubblici attrezzati a svolgere il compito. Cosa vuol dire spazi pubblici attrezzati? Ecco, qui si intrecciano in modo interessante molte questioni del tutto aperte nel dibattito internazionale e locale sulla cosiddetta «smart city», che ci fanno capire quanto lontani dalla realtà possano essere certi nostri amministratori convinti che basti l'approccio tecnologico a risolvere tutto.

Recentemente, per questioni del tutto personali legate alla connettività e alle tariffe degli operatori mobili (a cui ci obbliga tra l'altro la scarsa disponibilità sul territorio di reti wireless ad accesso gratuito), ho provato a sperimentare brevemente di persona il divario, attuale e potenziale, fra gli scenari socio-spaziali delineati dalla Apple col suo nuovo prodotto, e lo stato dell'arte di una città relativamente moderna e internazionale come Milano, che da qualche anno ha iniziato a dotarsi di una propria rete wireless. Quale rapporto c'è, in altre parole, fra lo spazio fisico dei quartieri e la teorica disponibilità tecnica della connessione? Spiace dire che pare non ne esista nessuno, se non quello del tutto casuale determinato dalla collocazione degli impianti «dove c'è la gente», ovvero ogni tanto si, ogni tanto no, vicino o dentro a qualche spazio pubblico. La cui qualità però sembra del tutto indipendente e slegata rispetto alla nuova infrastruttura, praticamente come se i distributori di benzina fossero lontani dalle strade, difficili da raggiungere con vari ghirigori, e poi le pompe fossero piazzate qui e là senza un piazzale, il pagamento fosse laborioso salvo buona volontà del gestore, eccetera eccetera.

Lo testimonia un rapido sopralluogo sia nelle zone dei quartieri servite dalla rete comunale, sia in quei vagheggiati «poli di eccellenza urbana» delle cosiddette Isole Digitali varate qualche anno fa con un certo clamore mediatico, e di cui era forse lecito aspettarsi qualche evoluzione oltre il puro simbolo di efficienza. Immaginiamoci un rappresentante di questa classe creativa di massa, ovvero una evoluzione dei tanti che già oggi si improvvisano postazioni di lavoro dagli abitacoli di auto o furgoni, alla ricerca di un ufficio pop-up nella metropoli. Scoprirebbe che lavorare col suo iPadPro o modello analogo della concorrenza, nelle strade e nelle piazze così come sono non-attrezzate oggi, è pressoché impossibile. Indipendentemente dalla qualità tecnica della connessione, e anche indipendentemente dalla sua diffusa disponibilità, anche là dove il collegamento risulta facile, immediato, stabile, è l'ambiente urbano a presentare le più vistose carenze diciamo così ergonomiche: mancano posti a sedere (o mancano del tutto, o sono così pochi da non andare oltre il simbolico), non c'è alcuna cura nel definire spazi dotati di qualche carattere o intimità, schermati dal traffico, dal rumore, dall'inquinamento nel senso superficiale di fumi fastidiosi, e via dicendo. In altre parole, la famosa immagine del giovane professionista che guadagna digitando dal bordo della piscina resta solo una caricatura pubblicitaria, se proviamo a proiettare l'idea sul territorio e la società locale. Chi lavora sul serio in trasferta, è ancora costretto a cercarsi il classico rifugio dell'ufficio, per quanto improvvisato in una stanza d'albergo, in un atrio commerciale, o nell'anticamera di qualche posto dove ha un appuntamento. Campi nomadi digitali, frutto di una specie di post-urbanistica del disprezzo, o più probabilmente di pura trascuratezza, e mancata collaborazione tra settori municipali. Speriamo che se ne accorgano, prima o poi: il post-industriale non è solo chiacchiere e distintivo.

Su La Città Conquistatrice anche un racconto più articolato del rapporto fra spazi metropolitani e nuove professioni: Startupper metropolitani assortiti

La sempiterna «questione periferie», mai seriamente affrontata con strumenti adeguati, produce reazioni spontanee di alcuni abitanti, che si prestano solo a tristi e inutili strumentalizzazioni. Today, blog Città Conquistatrice, 21 settembre 2015

Sarà la vaga eco della questione rifugiati vaganti per l'Eurasia, sarà l'avvicinarsi della prossima scadenza amministrativa in tante situazioni chiave per gli equilibri nazionali, ma pare si stiano moltiplicando le iniziative locali dei soliti mai placati «cittadini per l'ordine». Anche i più placidi e miti candidati e rappresentanti del popolo, più o meno tirati per la giacchetta da comitati o consulenti elettorali, non mancano di scimmiottare pateticamente qualche accenno di muso duro da Ispettore Callaghan, mettendo la solita «sicurezza percepita» in primo piano negli slogan programmatici e nelle dichiarazioni alla stampa. Forse però, la cosa da percepire prima della sicurezza percepita sarebbe la realtà, dai dati statistici sui reati (la quantità, la qualità, la localizzazione) a ciò che davvero inquieta i cittadini dei quartieri nelle loro esperienze quotidiane di fruizione dello spazio urbano. E distinguere così con chiarezza quanto appartiene propriamente alla sfera poliziesco-giudiziaria, da quanto invece riguarda altri interventi, o informazione, o prevenzione o altro. La politica, la società nel suo insieme, gli organi di informazione, proprio quello dovrebbero fare, e invece si intorbidano le acque, a volte per pura trascuratezza.

Un caso recente, piccolo piccolo ma emblematico, è quello di un incidente stradale avvenuto a Milano alcune sere fa. Un'auto accelera al semaforo giallo, una bambina qualche passo più avanti della mamma che aveva già iniziato ad attraversare viene travolta, carambola sul cofano, la macchina sbanda ma sgommando si allontana nella notte. Per la cronaca siamo in piena sindrome da caccia al pirata, e gli articoli successivi si concentreranno sulla cittadinanza (straniera) di tutti i protagonisti, macchine intestate a prestanome, alloggi occupati abusivamente, analisi della polizia scientifica per inchiodare i responsabili. Il pubblico, così come guidato da questa narrazione, guarda orripilato il dito, sentendosi oppresso da incombente pericolo (tutti travolti da un'auto guidata da criminale venuto dallo spazio esterno), ma non vede la luna. Che in questo caso, tornando dalle vertigini iperboliche dei bassifondi urbani in superficie, sta semplicemente nell'idiozia di quel semaforo in cui è avvenuto il misfatto, che non è il primo, né il più grave, e non sarà neppure l'ultimo se continuiamo a guardare altrove, e ad agire solo altrove. Insomma oltre ai poliziotti agli investigatori e ai magistrati ci vorrebbero degli ottimi geometri per risistemare l'incrocio: poi, solo poi ed eventualmente, ragioniamo anche su immigrati, assegnazione di alloggi popolari, permessi di soggiorno. Perché quelle cose in sé con quell'incidente c'entrano poco.

E la stessa cosa poi si può dire con la gran massa delle cose sventolate da ronde e comitati di «cittadini per l'ordine» di solito messi in piedi da qualche politicante per raccogliere consensi di bassa lega, soffiando sul fuoco di paure ataviche vagamente suscitate dal nuovo, da ciò che non si conosce, dall'inusuale, o dal semplice disordine. Perché indubbiamente di disordine e confusione ce ne sono in abbondanza nelle nostre città: dal punto di vista delle forme di convivenza, dell'uso degli spazi collettivi e dei servizi, degli stili di vita e abitudini che confliggono. Ma resta da chiedersi perché mai ad esempio l'orribile degrado indotto dalla cosiddetta «movida» susciti reazioni del tutto diverse, da cose microscopiche come un paio di disgraziati senza casa che parcheggiano un camper nell'angolo del piazzale del mercato, magari stendendo i panni tra un albero e l'altro. Intendiamoci: in entrambi i casi il degrado, nel senso di sottrazione di spazio e tempo all'uso corrente della città da parte degli abitanti, esiste, è innegabile, ma perché i ragazzotti urlanti, i deejay fracassoni, gli ettolitri di birra e montagne di spazzatura non generano la «emergenza sicurezza» di qualche povero sfigato accampato in un angolo? Bisognerebbe chiederlo a quelli delle ronde a caccia di consensi elettorali, che di sicuro non ci risponderebbero se non urlando anche contro di noi. Perché davvero stavolta, per usare una frase fatta: «il problema è un altro». Sono loro, il problema.

p.s. Il consigliere comunale di Milano ed esperto di sicurezza urbana Gabriele Ghezzi, mi scrive rivendicando il copyright del titolo «Una Ronda non fa Primavera», nel suo programma elettorale di qualche anno fa, copyright che riconosco senza alcun problema, per carità. Sul sito La Città Conquistatrice numerosi articoli trattano criticamente il tema della Sicurezza Urbana

Siamo nell’epoca dell’opera d’arte infinitamente riproducibile e fruibile con infiniti supporti tecnici: ha qualche senso che una squallida lobby di speculatori (e decisori analfabeti) voglia compiere l’ennesimo passo verso la privatizzazione di tutto quanto? Corriere della Sera, 4 luglio 2015, postilla (f.b.)

Una monumentale sciocchezza. Come definire, altrimenti, la proposta di vietare la condivisione delle fotografie di celebri edifici e opere d’arte, in nome della protezione del diritto d’autore? È difficile crederci, ma di questo discuterà il Parlamento europeo il 9 luglio, in seduta plenaria. Come si è arrivati a questa delicata follia? Un’eurodeputata tedesca, Julia Reda, chiedeva che la «libertà di panorama» fosse sancita ufficialmente dalla Ue. Ma un eurodeputato francese, Jean-Maria Cavada, ha proposto un emendamento che prevede l’autorizzazione del titolare dei diritti d’autore, in caso di utilizzo commerciale della riproduzione. E i tre gruppi principali (socialisti, popolari, liberali), in commissione, l’hanno sostenuto.

Oggi la «libertà di panorama» esiste in molte parti d’Europa. Non in Italia, però: il codice Urbani (2004) impone autorizzazioni sui beni culturali storici. Non in Francia: fotografare la Torre Eiffel di notte pare sia vietato (informare legioni di innamorati e battaglioni di turisti giapponesi). Ma scattare una foto-ricordo sul decumano di Expo, e caricarla sul profilo Facebook? Potrebbe violare il diritto d’autore di qualche dozzina d’architetti. Per pubblicare un’immagine di Buckingham Palace su Instagram dovremo scrivere alla Regina Elisabetta? L’Europarlamento voterà solo un documento d’indirizzo. Ma come siamo finiti qui? Semplice: affrontiamo problemi nuovi con strumenti vecchi.

«Riproduzione di opere d’arte» è un termine che profuma di pellicole, riviste ed enciclopedie; mentre oggi ognuno di noi viaggia con una formidabile fotocamera digitale dentro il telefono. «Utilizzo commerciale dell’immagine» presuppone qualcuno che vende e qualcuno che compra. Facebook, Google & C. non vendono e non comprano: fanno soldi su tutti e su tutto (è diverso). Il Parlamento si appresta a votare, quindi, una misura antistorica, inapplicabile e — diciamolo — ridicola. Come reagire? Semplice. Smettiamo d’andare nelle grandi capitali. Rinunciamo a visitare le città d’arte. Basta fotografie davanti ai monumenti e con lo sfondo dei grattacieli. Tempo una settimana, e verranno a chiedercelo in ginocchio. Tornate! Fotografate! Renzo Piano, Richard Rogers, Norman Foster, siete persone di buon senso: avanti, battete un colpo. Eiffel, Bernini e Vespasiano non lo possono più fare.

postilla

Quante volte qualcuno fra chi legge, proprio per intricate questioni di copyright poste da un editore o da una redazione, ha per così dire tagliato la testa al toro pescando uno scatto proprio dall’hard disk, o addirittura da una bustina di plastica di vecchie stampe a colori, via scanner? Ma non è certo finita qui, perché tutto il nuovo valore d’uso sociale dello spazio pubblico, oggi, si accoppia proprio alla sua libera disponibilità virtuale anche in quanto immagine, oltre che luogo virtualmente condiviso con chi si collega a noi solo attraverso reti immateriali. Coglie benissimo il senso generale di questa stupida e autoritaria spinta lobbistica, l’Autore dell’articolo, quando parla sostanzialmente di spazio collettivo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, totalmente ribaltata dal nuovi strumenti di comunicazione. E sbaglia di grosso chi crede davvero che il tentativo di «uniformare le normative sui diritti di immagine», come ci spiegano saccenti alcuni personaggi (e come è anche circolato sui social network in risposta alla petizione), abbia qualche senso. Certo, le vecchie normative sull’uso commerciale di alcune riproduzioni qualche senso ce l’avevano, ma non è sicuramente piallando in malafede tutto secondo quegli arcaici criteri che si vada da qualche parte. Basta pensare cosa è accaduto in tempi recentissimi alle riproduzioni di suoni, su cui si continuano a combattere battaglie analoghe, per capire che è proprio l’idea di spazio pubblico liberamente disponibile, ad essere in gioco e non certo qualche raro «diritto d’artista» profumato di lastre, acidi, inchiostri, tanto vintage quanto il cervello di chi non ha proprio colto la posta in gioco (f.b.)

Relazione di Stefano Boato all’incontro "La presa di Venezia. Discussione sulla svendita del patrimonio immobiliare pubblico e sui modi per contrastarla". Venezia 12 maggio 2015


La vendita e la concessione d’uso ai privati dei beni pubblici in Italia e in Comune di Venezia è molto aumentata dal 2.000 ad oggi e sta avendo un’ulteriore accelerazione dalle recenti leggi sulle sdemanializzazioni e dagli atti amministrativi già avviati a realizzazione come si può rilevare dalla cartografia e dagli elenchi, pur ancora parziali e non completi, che presentiamo. Le problematiche e le polemiche che all’inizio sembravano riguardare solo casi sporadici e che ancor oggi restano confinate ad un ristretto ambito di “addetti ai lavori”, hanno quindi un urgente bisogno di allargare la consapevolezza, l’informazione, la discussione alla comunità. Solo una vera partecipazione dell’intera popolazione può mettere sotto controllo questo processo sempre più accentuato e grave, e i singoli atti non possono più essere affrontati solo con affrettate polemiche specifiche, difficilmente documentate all’ultimo momento. Innanzitutto, eliminata ogni vendita ai privati di beni pubblici, anche ogni ipotesi di concessione va subordinata alla verifica di non bisogno del bene per usi sociali di qualsiasi tipo.

Le stime del valore degli immobili degli ultimi anni sono sempre più inadeguate e totalmente sbilanciate a favore degli interessi privati; dalle stime dell’inizio anni 2.000 del parco pubblico di via Pio X° in pieno centro storico a Mestre ceduto ai privati e raso al suolo per far costruire un condominio, alle recenti stime relative al valore del Fondaco dei Tedeschi a Rialto o delle Procuratie Vecchie in piazza S.Marco a Venezia. Le stime non possono più essere delegate alle sole strutture interne del Comune o alla consulenza di studi professionali privati, occorre imporre sempre la verifica con stime di altre strutture pubbliche terze esterne, e nel margine di incertezza si devono imporre i maggiori valori nell’interesse pubblico.

Le aree e gli edifici dei servizi pubblici vigenti, faticosamente conquistati negli anni, devono essere mantenuti e non rimossi addirittura anche con l’avvallo degli uffici urbanistica che li giudicano superflui o superiori alle necessità (Fondaco dei Tedeschi, Giardino delle Vergini, Villa Heriot, Procuratie Vecchie a Venezia; aree centrali di Mestre e Marghera cedute o riallocate ai margini esterni della città).

Le norme edilizie ed urbanistiche vigenti devono essere rispettate, e non evase con deroghe avvallate dalle strutture tecniche comunali e con formali delibere politico-amministrative che dichiarano inesistenti e fantasiosi interessi pubblici non specificati e valutati in base a principi espliciti. Queste deroghe comunque non debbono più essere deliberate con Accordi di Programma tra il Sindaco o un suo delegato e altri rappresentanti pubblici e privati, obbligando così il Consiglio Comunale ad un avvallo a posteriori di fatto obbligato.

Le disinvolte delibere di cambio d’uso, passando di solito da funzioni residenziali o di servizio a funzioni terziarie o turistiche (sino ad oggi anche rimuovendo vigenti vincoli a standard di servizio pubblico) non vanno nell’interesse della vivibilità della città ma dei profitti e delle rendite dei privati e creano un valore aggiunto dell’immobile che almeno deve essere stimato e valutato in modo controllato e corrisposto in misura prevalente all’Amministrazione Pubblica (Beneficio Pubblico tendenzialmente pari al 66 %, mai comunque inferiore al 51%).

Le nuove funzioni private autorizzate non devono occupare i pochi spazi centrali a servizi rimasti disponibili in centro città (sia a Venezia che in terraferma). In ogni caso comunque gli standard di servizio vanno attuati integralmente rispettando le norme e cedendo integralmente le aree o gli spazi dovuti. A Venezia in particolare l’obbligo di legge deve comunque essere rispettato recuperando le aree o i volumi di servizio (vedi evasione dell’obbligo di legge per il Fondaco dei Tedeschi).

Le aree a verde pubblico vanno comunque mantenute, rispettate o attuate (e non devastate per l’obbligo privato di drenaggio delle acque nelle nuove edificazioni (obbligo per la cosiddetta “invarianza idraulica”). Si può invece cominciare a sperimentare la sostituzione degli standard a parcheggi con la realizzazione (a parità di valore) di infrastrutture per la mobilità pedonale (Plan Pieton) , piste ciclabili, trasporti pubblici.

Nel caso in cui si intenda dare in concessione per un certo numero di anni un bene, non già vincolato a servizio pubblico, la concessione deve avvenire sulla base di un bando e/o gara pubblica in coerenza ai piani, progetti e programmi vigenti o preliminarmente deliberati, precisando le condizioni d‘uso in modo rigoroso e controllabile; se non rispettata la concessione dev’essere automaticamente revocata; vedi le concessioni a di parti dell’Arsenale al Consorzio Venezia Nuova e alla Biennale anche recenti (prevenendo ed esautorando gli organi democratici di imminente elezione) di spazi ulteriori ai già moltissimi concessi (Sale d’Armi nord e sud) o vincolati a verde pubblico (Giardino delle Vergini).

Gli oneri di urbanizzazione, cioè le risorse per la realizzazione della qualità degli insediamenti urbani (prescritte fin dal 1977 dalla legge Bucalossi –Testo Unico per l’Edilizia n.10) non devono essere più dirottati per le spese ordinarie dei bilanci comunali (incentivando così anche le edificazionie le cementificazioni inutili); cominciò a consentirlo il governo Amato nel 2001 e ora i Commissari prefettizi di Venezia Zappalorto e Tatò propongono l’integrale deroga dalla destinazione di legge per la qualità urbana e il loro uso per spese ordinarie correnti.

Le strutture dell’amministrazione devono essere adeguate ai compiti per una efficace tutela e attuazione degli interessi pubblici e i piani e i progetti devono essere sottoposti ai pareri della Commissione di Salvaguardia in attuazione alle Leggi Speciali vigenti (il Comune di Venezia è l’unico dei nove comuni di gronda che non invia le documentazioni per i pareri di legge).

Per la vivibilità e la socialità della città, occorre che la comunità urbana si riappropri delle decisioni e del controllo sull’uso dei beni e degli spazi pubblici.

© 2024 Eddyburg