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«XII edizione del festival Vicino/Lontano, in programma a Udine dal 5 all’8 maggio moltissime saranno le voci che si confronteranno nei “dialoghi sul mondo che cambia”». LaRepubblica, 3 maggio 2016 (c.m.c.)

La vulnerabilità come cifra del nostro tempo. È il tema sotteso agli oltre cento appuntamenti della XII edizione del festival Vicino/Lontano, in programma a Udine dal 5 all’8 maggio. Cuore della rassegna, la consegna del Premio Terzani a Martín Caparrós, che il 7 maggio dialogherà con Loredana Lipperini. Ma moltissime saranno le voci che si confronteranno nei “dialoghi sul mondo che cambia”, a partire dalla lectio magistralis “L’Età dell’incertezza” del direttore di LiMes, Lucio Caracciolo.

Sul rapporto tra mondo islamico e Occidente interverrà il sociologo franco-iraniano Farhad Khosrokhavar, mentre a far luce sul complesso fenomeno migratorio in atto sarà il dibattito che vedrà fra i protagonisti Loris De Filippi, presidente di Medici Senza Frontiere Italia, e il giornalista Domenico Quirico, che a Udine presenterà in anteprima Esodo. Storia del nuovo Millennio. Di immigrazione, tra indifferenza e disinformazione, si parlerà anche con Stefano Allievi, Giampiero Dalla Zuanna e Pierluigi Di Piazza, mentre Roberta Carlini e Alessandro Leogrande analizzeranno l’approccio dei media.

Il potere e le sue menzogne saranno il tema del confronto inaugurale del festival, di cui discuteranno Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia e i giornalisti Andrea Purgatori e Valerio Pellizzari. E in questa prospettiva si colloca anche la lectio sulla tortura proposta dalla filosofa Donatella Di Cesare.

Sul male oscuro della democrazia si confronteranno, invece, l’8 maggio, l’ex direttore di Repubblica, Ezio Mauro, lo storico Guido Crainz e il linguista Raffaele Simone, insieme all’antropologo Nicola Gasbarro. Nel percorso dedicato alla legalità si inscrive anche il format educativo che il 6 maggio vedrà la partecipazione di Domenico Quirico e di Federica Angeli.

Dalla vulnerabilità del sistema alle fragilità del singolo: del reddito di cittadinanza come utopia possibile parlerà Philippe Van Parijs. Di fragilità del sistema economico- finanziario discuteranno gli economisti Giangiacomo Nardozzi e Antonio Massarutto, mentre Riccardo Staglianò e Fabio Chiusi spiegheranno come web e robot stiano impoverendo la classe media.

Il tema della “cura” troverà spazio nell’incontro con Beatrice Bonato, Duccio Demetrio e Vittorio Lingiardi. Mentre il filosofo Pier Aldo Rovatti terrà una lectio sul mettersi in gioco, tema rilanciato da Marcello Fois e Alberto Garlini nel dialogo su soggettività e scrittura creativa. In gioco oggi è anche il ruolo della famiglia e dei genitori, di cui parlerà lo psicanalista Massimo Ammaniti. Non mancherà la riflessione sulla violenza, da quella verbale che corre in Rete - esplorata da Giovanni Ziccardi e Fabio Chiusi - a quella mostrata dall’Isis, di cui dialogheranno Bruno Ballardini e Nicola Strizzolo.

Ma si parlerà anche di violenza esercitata sulle donne, con Chiara Volpato, Filippo Focardi e Igiaba Scego. Moltissimi saranno inoltre gli spettacoli, le mostre e i concerti: il programma completo del festival è disponibile sul sito www. vicinolontano. it

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Corriere della Sera, 1 maggio 2016, con postilla

O sono ciarlatani gli scienziati che studiano la demografia o sono ciarlatani coloro che buttano lì formulette di soluzioni facili facili. «Se il sogno di alcuni si realizzasse, e i Paesi ricchi “blindassero” le loro frontiere», scrivono nel saggio «Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione» (Laterza), Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna citando i dati ufficiali della Population Division delle Nazioni Unite, «nel giro di vent’anni i loro abitanti in età lavorativa passerebbero da 753 a 664 milioni». Ottantanove milioni in meno. Più o meno la popolazione in età lavorativa della Germania e dell’Italia messe insieme.

Nel nostro specifico, «nei prossimi vent’anni, per mantenere costante la popolazione in età lavorativa (20-64), ogni anno dovranno entrare in Italia, a saldo, 325 mila potenziali lavoratori, un numero vicino a quelli effettivamente entrati nel ventennio precedente. Altrimenti, nel giro di appena vent’anni i potenziali lavoratori caleranno da 36 a 29 milioni». Con risultati, dalla produzione industriale all’equilibrio delle pensioni, disastrosi. Vale anche per l’Austria che vuole chiudere il Brennero: senza nuovi immigrati nel 2035 la popolazione in età 20-64 calerebbe lì del 16%: da 5,3 a 4,4 milioni. Con quel che ne consegue. Semplice, barricarsi: ma poi? Chi vuole può pure maledire i tempi, ma poi?

E allora, ringhierà qualcuno, «dobbiamo prenderci tutti quelli che arrivano?». Ma niente affatto. Sarebbe impossibile perfino se, per paradosso, lo accettassimo. Se fossero i Paesi poveri a chiudere di colpo le loro frontiere infatti «nel giro di vent’anni la loro popolazione in età 20-64 aumenterebbe di quasi 850 milioni di unità, ossia più di 42 milioni l’anno». Brividi.

Nessuno ha la formula magica per risolvere questo problema epocale. Nessuno può ricavarla dalla storia. Gli uomini si spostano, come spiega il filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani, «da quasi due milioni di anni». Ma mai prima c’era stato uno tsunami demografico di questo genere.

Questo è il nodo: se possiamo tenere i nervi saldi e prendere atto con realismo della difficoltà di individuare qui e subito soluzioni salvifiche, un po’ come quando la scienza brancola dubbiosa davanti a nuovi virus, è però impossibile rassegnarci a certi andazzi. Di qua il tamponamento quotidiano e affannoso delle sole emergenze con la distribuzione dei profughi a questo o quell’albergatore (magari senza scrupoli) senza un progetto di lungo respiro. Di là i barriti contro gli immigrati in fuga dalla fame o dalle guerre con l’incitamento a fermare l’immensa ondata stendendo reti e filo spinato. E non uno straccio di statista che rassicuri le nostre società spaventate mostrando di essere all’altezza della biblica sfida.

Dice un rapporto Onu che «chi lascia un Paese più povero per uno più ricco vede in media un incremento pari a 15 volte nel reddito e una diminuzione pari a 16 volte nella mortalità infantile»: chiunque di noi, al loro posto, sarebbe disposto a giocarsi la pelle per «catàr fortuna», come dicevano i nostri nonni emigrati veneti. Anche se, Dio non voglia, ci sparassero addosso. Tanto più sapendo che in Europa e in Italia, grazie a una rete familiare e a un welfare che comunque garantisce quel minimo vitale altrove impensabile, c’è ancora spazio per chi è pronto a fare i «ddd jobs», i lavori «dirty, dangerous and demeaning» (sporchi, pericolosi e umilianti) rifiutati da chi si aspettava di meglio.

Non basterebbe neppure una miracolosa accelerazione nel futuro: nella California di Google e della Apple, ricordano ancora Allievi e Dalla Zuanna, «ogni due nuovi posti di lavoro high tech ne vengono generati cinque a bassa professionalità: qualcuno dovrà pure stirare le camicie dei benestanti, curare i loro giardini, prendersi cura dei loro anziani». Altro che i corsi di formazione per baristi acrobatici.

Come ne usciamo? Soluzioni rapide «chiavi in mano», a dispetto di tutti i demagoghi, non ci sono. Ci vorranno tempo, pazienza, fermezza, lungimiranza. Alcune cose tuttavia, nel caos, sono chiare. Primo punto, nessuno, se può vivere dov’è nato, affronta le spese, le fatiche, i rischi e le umiliazioni di certi viaggi: occorre dunque «aiutarli a casa loro» sul serio, non con le ipocrisie, gli oboli (il G8 dell’Aquila diede all’Africa i 13 millesimi dei fondi dati alle banche per la crisi), i doni ai dittatori o la cooperazione internazionale degli anni Ottanta che finì travolta dagli scandali (indimenticabili i silos veronesi sciolti sotto il sole sudanese) dopo che Gianni De Michelis aveva ammesso alla Camera che il 97% dei fondi al Terzo mondo finiva (spesso a trattativa privata) ad aziende italiane che volevano commesse all’estero.

Mai più. Meglio piuttosto cambiare le regole del commercio internazionale che per proteggere lo status quo dell’Occidente inchiodano i Paesi in via di sviluppo a non crescere. Citiamo Kofi Annan: «Gli agricoltori dei Paesi poveri non devono solo competere con le sovvenzioni ai prodotti alimentari d’esportazione, ma devono anche superare grandi ostacoli a livello di importazione. (…) Le tariffe doganali Ue sui prodotti della carne raggiungono punte pari all’826%. Quanto più valore i Paesi in via di sviluppo aggiungono ai loro prodotti, trasformandoli, tanto più aumentano i dazi». Qualche anno dopo, la situazione non è poi diversa.

Secondo: basta coi traffici di armamenti verso Paesi in guerra. Quanti eritrei che arrivano coi barconi scappano da casa loro dopo aver provato sui loro villaggi e le loro famiglie la «bontà» delle armi vendute al regime di Isaias Afewerki anche da aziende italiane ed europee, come dimostrò l’Espresso , nonostante l’embargo? Pretendiamo che restino a casa loro e insieme che si svenino a comprare le nostre armi?

Terzo: parallelamente a un percorso accelerato per mettere gli italiani in condizione di fare più figli sempre più indispensabili, a partire da una ripresa vera del ruolo educativo della scuola anche su questo fronte, è urgente arrivare finalmente alle nuove norme sulla cittadinanza. Forse ci vorranno decenni per realizzare il sogno di Mameli («Di fonderci insieme già l’ora suonò») allargato a tanti nuovi italiani che vogliono sentirsi italiani, ma certo non è facile pretendere che sia un bravo cittadino chi cittadino fatica a diventare.

postilla

La bacchetta magica non ce l'ha nessuno, ma soluzioni ragionevoli certamente. Basterebbe leggere i giornali giusti, o magari seguire il lavoro di Barbara Spinelli al Parlamento europeo. Se conoscessimo l'indirizzo postale di Gianantonio Stella gli invieremmo il libretto (piccolo di dimensioni ma non di sostanza) di Guido Viale, “Rifondare l'Europa insieme a profughi e migranti”.

Sarebbe stato bello se "il giornalista fondato da Scalfari", come lo definí Altan in una memorabile vignetta, avesse iniziato il suo articolo con un'autocritica per aver favorito l'ascesa di Renzi al trono d'Italia. invece.... La Repubblica, 1 maggio 2016
Ci sono molte magagne in Italia e in Europa ed una delle principali, specialmente nel nostro Paese, è l’affievolirsi della democrazia e l’accrescersi della corruzione. Sono due fenomeni diversi ma interconnessi. Per chiarire la natura del primo cito qui un passo del mio libro intitolato “L’allegria, il pianto, la vita”, uscito un paio di anni fa. «La democrazia declina e declina anche la separazione dei poteri costituzionali che Montesquieu mise alla sua base. Da noi quella preoccupante esperienza ebbe inizio nei primi anni Novanta e non si è più fermata. Quel declino ha colpito il potere giudiziario e quello legislativo, rafforzando il potere esecutivo che ormai accentra su di sé la forza del governare con il minor numero di controlli. Il processo è ancora in corso ma un primo obiettivo è già stato realizzato e consiste nel completo stravolgimento della democrazia parlamentare e dei partiti. I partiti sono ormai tutti “liquidi”; riflettono società ed economie altrettanto liquide: un Capo, un gruppo dirigente a lui devoto, un’attenzione particolare ai potenziali elettori, la scomparsa della democrazia politica all’interno dei partiti».

La corruzione diffusa purtroppo in tutte le classi sociali, dai più abbienti al ceto medio fino a quelli sulla soglia della povertà, ha come condizione preliminare il declino della democrazia partecipata. Di fatto è la scomparsa dello Stato come soggetto riconosciuto dai cittadini e quindi la scomparsa, nella coscienza delle persone, del concetto di interesse generale. L’effetto è il sovrastare degli interessi particolari, delle lobby economiche, delle clientele regionali, dei singoli e del loro circondario locale. La corruzione dilaga, le mafie si affermano con le loro regole interne, i loro ricatti, il denaro illegale e gli illegali profitti che se ne ricavano, il mercato nero e il lavoro nero. Il popolo sovrano che dovrebbe essere la fonte dei diritti e dei doveri di tutti, ripone la sua affievolita sovranità nella corruzione. Corrisponde alla conquista d’un appalto, un posto di lavoro, un incarico importante nel mondo impiegatizio o imprenditoriale, si conquista insomma un potere.

Quel potere conquistato con la capacità di corrompere dà a sua volta la possibilità d’esser corrotti. I corruttori diventano corrompibili e viceversa: questa è la società nella quale viviamo. Non solo in Italia e non solo in Europa, ma in tutti i Paesi dell’Occidente. Negli Stati Uniti d’America si toccarono le punte massime nella Chicago del proibizionismo e del gangsterismo, ma c’era già prima ed è continuata dopo. È il vero e più profondo malanno della democrazia, fin dai tempi dell’antica Grecia che è all’origine della nostra civiltà.

L’impero ateniese fu la città della democrazia e contemporaneamente la culla della corruzione, molto più diffusa di quanto non lo fosse a Sparta e a Tebe. E così nella Roma antica, corrotta nelle midolla dai tempi della tarda Repubblica e a quelli dell’Impero.

Accade talvolta che le dittature blocchino la corruzione. Quando il potere politico è interamente nelle mani di pochissimi o addirittura di uno soltanto, la corruzione scompare: il potere assoluto sopprime al tempo stesso la corruzione e la libertà.

Egualmente accade che la corruzione non c’è o è ridotta ai minimi termini quando il popolo è veramente sovrano. In quel caso - purtroppo poco frequente - il massimo della libertà, della separazione dei poteri, delle istituzioni che amministrano l’esercizio dei diritti e dei doveri, dello Stato di cui il popolo sovrano costituisce la base e che persegue l’interesse generale del presente in vista del futuro, della generazione dei padri che godono il presente e operano per le generazioni dei figli e dei nipoti; in quel caso l’onestà la vince. Onestà e libertà rappresentano un binomio che ha illuminato alcuni fasi della storia occidentale ed anche di quella italiana.

Fasi tuttavia assai transitorie, specialmente in Italia e la ragione non è certo di natura antropologica. Gli italiani non sono per natura un popolo di corrotti e di ladri, ma è la nostra storia che ha ridotto a plebe il popolo sovrano. Machiavelli lo teorizzò nei suoi scritti e nel suo “Principe” in modo particolare. Le Signorie erano un covo di intrighi e quindi di corruzione. Per di più lo Stato non esisteva, fummo per secoli servi di potenze straniere che facevano i propri interessi e non certo quelli d’un popolo schiavo.

Ma ci furono anche dei periodi di luce, di lotta per la libertà e per la costruzione dello Stato d’Italia, di assoluta onestà privata e pubblica. Pensate al trio di Mazzini, Cavour, Garibaldi, in dissenso tra loro ma uniti da diverse angolazioni per la libertà e l’indipendenza del nostro Paese. Ed anche alla guerra partigiana e alla Resistenza che coinvolse l’intera Italia centro-settentrionale, dai nuclei combattenti a gran parte del Paese che ad essi faceva da scudo. E così pure, ai tempi della ricostruzione materiale, morale e politica sulle rovine che la sciagurata guerra ci aveva lasciato in eredità.

Conclusione: la corruzione è figlia della scomparsa d’un popolo sovrano e d’una democrazia non partecipata di partiti “liquidi”, dell’affievolimento dell’interesse generale e dello Stato che dovrebbe rappresentarlo e perseguirlo. Questa è la situazione in cui già da molti anni ci troviamo e che con lo scorrere del tempo peggiora. E questa è anche la situazione europea dove i fenomeni deleteri sono per certi aspetti ancor più gravi.

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Domenica scorsa scrissi a lungo sull’Europa “a pezzi”, sul patto di Schengen violato da un numero sempre più esteso di Paesi membri dell’Unione, sulla situazione greca, sulla anomalia sempre più evidente della Turchia di Erdogan con l’Europa democratica e infine sulla Libia, la Tunisia e l’Is che imperversa sempre di più sulla costiera mediterranea e in particolare sulla Cirenaica che ci fronteggia.

Ma dopo appena sette giorni da allora la situazione è ancor più grave e più chiara nella sua gravità: esistono ormai tre diverse Europa che si fronteggiano, alle quali va aggiunto il terrorismo del Califfato, potenziale soprattutto, che aggrava sempre di più i malanni e il solco che divide le tre parti del nostro Continente.

Esistente anzitutto l’anti-Europa: movimento di estrema destra, xenofobo e antidemocratico, con tinte razziste e nazionaliste, sia politicamente sia economicamente. Molti di questi anti-europei vigoreggiano in Paesi dell’Unione che non fanno parte dell’Eurozona, ma alcuni sono nati e stanno costantemente rafforzandosi in Paesi che hanno la moneta comune. Così avviene in Austria, in Danimarca, nei Paesi baltici, nei Balcani.

Alcuni di questi movimenti sono ancora di modeste dimensioni, ma altri, per esempio in Austria, hanno raggiunto dimensioni preoccupanti e alcuni sono addirittura arrivati a raggiungere il primo posto scavalcando i partiti che avevano finora governato. L’esempio più lampante è quello austriaco, ma anche in Francia il lepenismo è il movimento che i sondaggi collocano in prima posizione.

La seconda spaccatura dell’Europa è tra il Nord e il Sud e il suo aspetto più preoccupante è rappresentato dalla Germania. È il Paese egemone dell’Unione e soprattutto dell’Eurozona e finora si era mostrato in equilibrio su alcuni temi fondamentali, a cominciare da quelli dell’immigrazione, della flessibilità adottata dalla Commissione di Bruxelles, sia pure con modalità moderate, e nel rapporto tra la Cancelliera Angela Merkel - ufficialmente sostenitrice del rigore economico - e Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea e fautore d’una politica monetaria espansiva e anti-deflazionistica. In questi ultimi giorni tuttavia la Merkel sembra aver abbandonato il suo equilibrio tra il rigore anche monetario della Bundesbank e la politica espansiva della Bce.

Nei giorni scorsi Weidmann, governatore della Bundesbank, è venuto a Roma con un pretesto privato ma in realtà allo scopo di attaccare scopertamente la politica di Draghi, rendendo pubblico quell’attacco con un’intervista data proprio al nostro giornale. Weidmann non è nuovo a quest’opposizione alla politica di Draghi, gli vota regolarmente contro in tutte le riunioni del Consiglio della Bce di cui la Bundesbank fa naturalmente parte; ma la novità di questa volta è che c’è stata l’approvazione piena delle dichiarazioni di Weidmann da parte del ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble, e nessuna parola di riequilibrio da parte della Merkel. Sarà la necessità di posizionarsi adeguatamente in vista delle prossime elezioni politiche tedesche, con una Cdu minacciata dagli xenofobi antieuropei e anche dall’alleato attuale, la Csu bavarese; ma comunque è un fatto nuovo e fortemente preoccupante questo atteggiamento “separatista” della Germania.

Infine la terza spaccatura europea riguarda la politica estera, la guerra contro l’Is in Siria, l’amicizia senza remore di sorta con la Turchia, l’assoluta “neutralità” nei confronti dell’eventuale intervento europeo sulla situazione libica.

Queste tre spaccature sono micidiali per l’Europa: allontanano il suo rafforzamento istituzionale e quindi rinforzano il nazionalismo dei singoli Paesi membri, anche di quelli che non condividono le posizioni tedesche in tema di rigore economico e proprio per questo svalutano le regole comunitarie contribuendo così da opposte sponde alla disgregazione politica ed anche ideale dell’Europa unita. Sono gli effetti delle democrazie non partecipate, liquide e senza alcun controllo dai diversi poteri costituzionali; è sempre meno esistente la parvenza d’un rafforzamento europeo e le prospettive pessime di questa situazione in una società globale.

Barack Obama ha cercato nel suo viaggio europeo dei giorni scorsi, di patrocinare un radicale mutamento di rotta, ma non sembra sia stato molto ascoltato. L’Europa è a pezzi ma non cerca affatto di ricostruirli. Se continuerà così andrà dritta al cimitero e noi tutti con lei, Germania in testa. “Ave, Caesar, morituri te salutant”.

L'autore di "Vie di fuga"‭ (un ‬saggio su crisi,‭ ‬beni comuni,‭ l‬avoro e democrazia nella prospettiva della decrescita) illustra con parole semplici le vie necessarie e possibili per uscire dalle crisi del pianeta Terra e dell'umanità che lo abita

Il testo riproduce l'intervento dell'autore per un ciclo di incontri promosso dalla Biblioteca comunale di Treviso. Qui il testo integrale con le immagini

Le domande cruciali che da sempre si sono poste le‭ “‬scienze economiche‭” ‬sono:‭ ‬cosa produrre,‭ ‬come,‭ ‬quanto,‭ ‬dove,‭ ‬per chi‭? ‬

Proviamo a dare un ordine coerente a questi quesiti.‭Ma per riuscire a farlo,‭ ‬dobbiamo porci una domanda preliminare:‭ ‬perché produrre‭?

Vi è poi una meta-domanda che sovrasta tutte le altre‭ (‬a cui proverò a rispondere alla fine‭)‬:‭ ‬chi è abilitato a dare le risposte a tutte queste domande‭? ‬Ovvero:‭ ‬chi ha l’autorità e il potere di stabilire e decidere‭ ‬con quali modalità produrre,‭ ‬in quali quantità e località,‭ ‬a beneficio di chi ecc.‭ ‬ecc.‭?

Ovvero: chiha l’autorità e il potere di stabilire e decidere con quali modalitàprodurre, in quali quantità e località, a beneficio di chi ecc. ecc.?

1. Perchè produrre?

Perchéprodurre? Perché lavorare? La risposta è facile, persinobanale. Gli esseri umani si attivano per produrre strumenti, oggetti, manufattivari e sistemi organizzativi utili a rispondere a dei loro bisogni e a delle loro esigenze. Quali: soddisfarele necessità primordiali della sussistenza e della sicurezza personale, aumentarele comodità e diminuire le fatiche, dare risposte alle curiosità di conoscenzadei misteri del mondo ed anche cercare di soddisfare i desideri più fantastici.
Quindi, ci si dà da fare, si opera e si lavoraper fare cose utili a se stessi e agli altri. Il lavoro per essere un “buonlavoro” deve soddisfare chi lo compie. Deve far emergere il proprio saper fare,mettere alla prova le proprie attitudini. Allo stesso tempo il lavoro deveessere “vero”, cioè deve produrre concrete utilità. Persino quello menoutilitaristico che si possa immaginare, cioè il lavoro dell’artista, è un attoespressivo che ambisce ad entrare in relazione emozionale con gli spettatori.Il lavoro, al fondo, è sempre un atto di donazione del proprio tempo e delleproprie capacità a favore di chi ne usufruisce. Altrimenti è solo unpassatempo, un impiego per sfaccendati. Ha scritto Claudio Napoleoni: “Il lavoro non è positivo che a unacondizione, cioè che i prodotti siano contemplati e riconosciuti come buoni”(in Pallante, 2016).
In questo modo vi sarete accorti che ho posto,indirettamente e conseguentemente, dei criteri utili a rispondere anche alladomanda di come bisogna produrre e dicosa produrre. Bisogna produrre conmodalità che favoriscano la esplicitazione dell’intelligenza e della creativitàdegli individui che si applicano a quel lavoro. Potremmo così affermare che ilprimo diritto del lavoratore è poter scegliere cosa più gli piace fare. Tutti ilavori che invece svalorizzano chi li compie, che depotenziano i loro personalibagagli psicoattitudinali, che comprimono le loro prestazioni in un mansionariopredeterminato e fuori dal loro controllo, che riducono il lavoratore ad unprestatore d’opera robotizzato… sonoforme di produzione da condannare, disumanizzanti e alienanti.
Allo stesso modo sono riuscito a rispondere anchealla domanda “cosa produrre?”. Bisognaprodurre cose che siano beni, cioè, oggetti, strumenti, sistemi organizzativiche aumentino il benessere delle persone e delle comunità.
2. Quanto, dove, quando produrre?
Ci rimangono i quesiti: quanto, dove, quando produrre. Mentre lasceremo perultima la domanda per chi produrre.
Il lavoro produttivo è sempre una attività diprelievo e trasformazione di materie che si trovano in natura. Lo diceva ancheKarl Marx (che pure ha fondato la sua teoria del valore di scambio sul poteredel capitale): “La natura è la fonte diogni valore d’uso e di essa è fatta la ricchezza reale”. Prima di lui, unodei primi economisti, William Petty (1623-1687) scriveva: “il lavoro è il padre della ricchezza mentre le terre sono la madre”.Chiamateli come volete (terra, capitale naturale, flussi di materia e dienergia, materie prime, risorse naturali, ecosistem services…) si tratta sempredi doni della natura, dell’ecosfera, di Madre Natura, del Creato, di Gaia, diPacha Mama… E la Terra è per definizione limitata, circoscritta, finita. E’ un sistema chiuso per materia e apertoall’energia che riceve dal Sole. Le risorse materiali, gli ettari adisposizione procapite, quindi, si riducono per un effetto a tenaglia: da unaparte, l’aumento della popolazione e, dall’altra, la degradazione dellafunzionalità degli ecosistemi determinata dal rilascio di sostanze inquinantidai processi produttivi e di consumo, dall’eccesso di prelievi e, in generale,dall’aumento della pressione antropica.
[omissis fgure]
Da notare che il “consumo di natura”,calcolato con le tabelle del Phisical imput-output (anche l’Istat staincominciando ad elaborarle) che rivela i consumi mondiali di materie prime,cresce paurosamente smentendo le previsioni di quanti ritenevano che le nuovetecnologie, aumentando l’efficienza dei sistemi produttivi (meno sprechi, piùricicli ecc.), avrebbero “dematerializzato” l’economia, miniaturizzato apparecchie macchinari vari e che, in particolare, le tecnologie elettroniche applicatealla telecomunicazione avrebbero ridotto l’uso della carta e il bisogno di spostaremerci e viaggiatori. Nella realtà, si è verificato il contrario per effetto delnoto paradosso (effetto Rebounding o altrimenti detto “illusione tecnologica”) illustrato già daWilliam S. Jevons nel lontano 1865: Laresa maggiore delle caldaie a vapore fa aumentare la loro utilità, quindi laloro diffusione e i consumi totali di carbone”. Ed è così per ogni cosa: seuso l’automobile di nuova generazione per aumentare i miei spostamentimotorizzati, annullerò i benefici del risparmio di carburante. Se mai fossevero che le nuove marmitte catalitiche riducono l’immissione di polveri sottilié sicuramente vero che l’aumento esponenziale delle automobili in circolazione nelmondo peggiora il bilancio complessivo dell’inquinamento. Ricordo solo che perprodurre un computer servono 15.000 kg di acqua, 250 kg di petrolio, 22 kg disostanze chimiche. Nel mondo ogni anno vengono venduti 150 milioni di computer,mentre vengono prodotti 50 milioni di tonnellate di RAEE (rifiuti elettronici).Un computer d’uso domestico viene dismesso ogni 3-4 anni ed uno ad uso aziendale ogni 12-18 mesi. Solo il 20% vienericiclato.
Indefinitiva il Total Material Requirement (il fabbisogno di materialipro-capite) non fa che aumentare. Secondo dei dati pubblicati da GiorgioNebbia, un cittadino americano “consuma” 85 tonnellate all’anno di materialivari, un tedesco 74, un europeo medio 51, un giapponese 45. Un altro studiocommentato da Gianfranco Bologna (www.materialflows.net)ci dice che dal 1980 al 2008 il consumo mondiale di materie prime (risorsebiotiche, quali biomasse da agricoltura, foreste, pesca, e materiali abiotici,minerali e metalli) è aumentato dell’80% (da 38 a 68 miliardi di tonnellateall’anno). Sono cifre enormi che stanno comportando danni irreversibili eirreparabili al pianeta. Tutti questi materiali prelevati dalla natura ce liritroviamo prima o poi, dopo cicli di utilizzazione più o meno lunghi (life cyclematerials) sotto forma di scarti, residui, rifiuti.
Gli scienziati hanno individuato noveprincipali emergenze planetarie, che sono: l’acidificazione degli oceani, l’utilizzo dell’acqua dolce, la riduzionedella fascia di ozono nella stratosfera, l’utilizzo del suolo fertile, il cambiamentoclimatico, la perdita di biodiversità, il ciclo bio-geo-chimico dell’azoto edel fosforo, l’aereosol atmosferico, gli inquinanti chimici (vedi il PlanetaryBoundariesdi di Johan Rockstrom).
Da una trentina d’anni (con la pubblicazionedel rapporto Bruntland, Our Common Future, del 1987 della Commissionemondiale sull'ambiente e lo sviluppo, WCED) il lemma “sviluppo sostenibile”è diventato d’uso comune. L’idea che ci sta sotto è il decoupling: la possibilità di disaccoppiare crescita economica epressione antropica sugli ecosistemi. Un’equazione che assomiglia a quelladella capra e del cavolo da trasportare in barca e che nessun modello economicosembra ancora essere riuscito a risolvere.
Se tutto ciò nonè solo una trovata per il marketing delle “green technology”, allora il primosenso pratico della sfida della sostenibilità dovrebbe essere quello dellariduzione netta del consumo di natura dentro i limiti della capacità dirigenerazione dei cicli bio-geo-chimici dell’ecosistema planetario. Solo cosìsi preservano le condizioni di abitabilità del pianeta e di sopravvivenza dellegenerazioni future.
E con questoabbiamo risposto anche alla domanda di “quanto produrre”: non si deve prelevarepiù di quanto la Terra non sia capace di metabolizzare, rigenerare, restituire.
3. La questione della sostenibilità

La questionedella sostenibilità non è solo quantitativa. Non si misura solo in tonnellate enon riguarda solo i bilanci di materia ed energetici. Come ci ricorda sempreGiorgio Nebbia: “L’ineguale distribuzionegeografica delle materie prime è alla base di conflitti per conquistare ocontrollare le risorse agricole, le foreste, i minerali e le fonti di energia”(Nebbia, 1998). C’è da rimanere allibiti, quando, ad esempio, nei consessipolitici intergovernativi (ad esempio le Conferenze delle parti sul cambiamentoclimatico) gli esperti attribuiscono ai paesi produttori asiatici laresponsabilità di emettere quote di gas inquinanti che vengono generate per produrre merci che poi vengono comprate eusate dalle popolazioni più ricche nei i paesi più ricchi. Siamo in presenza dinuove forme di colonialismo ipocrita che vengono attuate attraverso ladelocalizzazione di attività industriali obsolete e inquinanti, l’acquisto diterreni fertili (e della relativa acqua incorporata) per ricavarne prodottialimentari da esportazione (land grabbing),lo smaltimento nei paesi più poveri di rifiuti tossici e pericolosi provenientidagli Stati Uniti e dall’Europa (waste dumping),la sottrazione di minerali e metalli rari dai giacimenti dei paesi poveri.
Solo per citarela vicenda più macroscopica voglio ricordare che le guerre in corso in Congoper l’accaparramento del coltan ha provocato 5 milioni di morti. Le apparecchiatureelettroniche che comunemente usiamo (ma anche dispositivi militari e armamenti)non hanno bisogno solo di ferro, plastica e silicio, ma di minerali rari comeil tungsteno, il tantalio e il niobio (coltan), il vanadio, il berilio, il platino, l’oro…Sulle “terre rare” si sta giocando una buona parte della guerra commerciale traStati Uniti ed Europa, da una parte, e Cina dall’altra.
La questionedella sovranità sull’uso delle risorse naturali è quindi centrale per stabilirenon solo quanto produrre, ma anche dove localizzare le produzioni dei beni diconsumo. Le “ragioni di scambio” tra produttori e consumatori – in una economiadi mercato, come vedremo più avanti – sono sempre squilibrate a favore di chi èeconomicamente più forte e in grado di imporre sistemi produttivi a lui piùconvenienti. La asimmetria del potere fondato sul denaro provoca disparità ediseguaglianze di valore attribuito ai vari impieghi di manodopera e dimateriali. Il valore sul “libero mercato” di un quintale di caffè non consentiràmai ai suoi produttori ad eguagliare il prezzo di mercato di un computer o diun’altra qualsiasi mercanzia prodotta nei paesi che detengono tecnologie ecapitali, brevetti e titoli di proprietà. Si generano così divisioni ditipologie di lavoro e stratificazioni di classi sociali tra le varie areegeografiche del mondo a al loro interno. Banalmente, un’ora di lavoro non ha lostesso prezzo per diverse prestazioni e diversi territori. La globalizzazionedei mercati e dei capitali a fronte della inevitabile fissità territorialedelle popolazioni (a meno di non doverle costringere a migrazioni bibliche)provoca disparità e disuguaglianze. Chi ha già riesce ad ottenere sempre dipiù, chi ha meno si impoverisce. Gli studi sulle disuguaglianze sono oramai moltovasti. Economisti come Joseph Stiglitz, Thomas Piketty, Luciano Gallino sonodiventati autori molto popolari.
Questa tendenza alla diseguaglianza puòessere contrastata solo con un processo di ri-territorializzazione delleproduzioni (de-globalizzazione), da una parte, e di introduzione di clausolesociali e ambientali negli scambi internazionali, dall’altra. Sarebbenecessario rendere le diverse aree geografiche del pianeta (bioregioni) e, alloro interno, le comunità locali, sempre più autosufficienti e autonome, menodipendenti da poteri che agiscono fuori dal loro controllo, così l’umanitàintera potrebbe imparare a utilizzare al meglio le risorse disponibili senzaessere costrette ad andare a prenderle altrove (con le buone o con le cattive,con i denari o con gli eserciti). Bisognerebbe immaginare i rapporti commercialiinternazionali impostati sulla base di una effettiva reciproca, paritariautilità..

4. Per chi produrre?

Rimane ora la domanda: per chi produrre? La rispostaè: per tutti coloro che hanno il bisogno di ottenere beni e servizi utili alloro benessere. E’ questa una risposta semplice, apparentemente oggettiva eneutra che però nasconde difficili implicazioni e molte trappole. Vediamonealcune.
Innumerevoli studi di antropologia epsicologia sociale (oltre alle evidenze che ognuno di noi può riscontrare nellavita di tutti i giorni) ci dicono che le esigenze delle persone non solo mutanonel tempo, nei luoghi e nelle culture in cui sono inseriti, ma sono sempresocialmente determinate. Tutti i tentativi di catalogare e gerarchizzare ibisogni secondo un ordine raziocinante predefinito (beni necessari, benifondamentali, beni di largo consumo, beni superflui, beni voluttuari, beni dilusso ecc.) sono naufragati di fronte ai comportamenti “irrazionali” dellepersone che sono spesso determinati da convenzioni e convinzioni preconcette chetravalicano la logica teorica prescritta delle “scienze economiche”; il famoso tipo umano ideale - l’homo oeconomicus - che compra le coseche più gli servono al prezzo minore. Ad esempio, negli anni della crisieconomica è diminuito il consumo di generi alimentari, ma non quello deitelefonini. Vuol dire che l’esigenza di mantenere buone comunicazioni socialiera maggiore di quella di una buona alimentazione. Persino papa Bergoglio pensache la voce di Dio arrivi ai giovani tramite le onde elettromagnetiche deglismartphone! Nei paesi dell’ex Unione Sovietica, dopo il crollo, l’età mediadella vita si è ridotta drasticamente. Segno che le popolazioni tenevano di piùalla libertà che alla propria salute, alla piena occupazione e all’appartamentodi edilizia popolare. E ancora; é esperienza quotidiana constatare che lepersone sono più attente al lato estetico delle cose che comprano che non, adesempio, alla loro durevolezza e praticità. Avete mai provato a camminare suuna scarpa con il tacco a spillo?
Schiere di psicologi ci dicono che i nostristili di vita sono dettati da processi di imitazione, di ricerca diriconoscimento sociale attraverso lo statuse l’esibizione di beni posizionali. La nostra psiche è debole. Siamo invidiosie temiamo il giudizio degli altri più di ogni altra cosa, perché abbiamo pauradell’isolamento, della perdita delle reti di relazioni umane, della solitudine.
Gli addetti al marketing delle imprese sannomolto bene tutto questo. Un loro famoso motto è: “Non vendiamo cose, ma sogni”.Il presupposto fondamentale su cui si basa l’economia di mercato è che idesideri delle persone siano infiniti. Lo definì perfettamente già ThomasHobbes (Leviatano 1651) agli alboridel capitalismo: “La felicità è uncontinuo progredire del desiderio da un oggetto all’altro non essendo ilconseguimento del primo che la via verso il seguente”. Da qui la amara considerazionedi Bauman: “La società dei consumi sifonda sull’insoddisfazione permanente cioè sull’infelicità” (Bauman 2007).E la conclusione lapidaria dell’economista critico Bernard Maris: “Il capitalismo organizza la scarsità, ibisogni e la loro frustrazione” (Maris 2002).
In quest’ottica scopriamo che il sistemaeconomico esistente non è affatto finalizzato a produrre cose necessarie alminor prezzo possibile per renderle accessibili a chi ne ha più bisogno (e menodisponibilità economiche) - come si vorrebbe far credere -, ma alla produzionedi beni e servizi volti a soddisfare il numero sempre crescente dei bisogni diquei consumatori che hanno le maggiori possibilità di solvibilità sul mercato. Ilsistema capitalistico non si propone di produrre per soddisfare le necessità fondamentali, maper aggiungere sempre nuovi bisogni da soddisfare. Ha scritto Nicolas Ridoux: “voler creare un numero illimitato di bisogniper dovere poi soddisfarlo è come inseguire il vento” (Ridoux 2008).Uninseguimento che non finisce mai.
Qui sta l’errore di Keynes (ma anche dei marxistiche, da socialisti o comunisti, si sono trovati a dover governare l’economia)che pensava fosse possibile usare a fin di bene e transitoriamente il sistemadi produzione fondato sull’accumulo del capitale. Prima l’abbondanza (daraggiungere con i cattivi mezzi del capitalismo) poi la giustizia che ciproietterà nel regno delle libertà.
E’ noto che lord Keynes pensava che nel girodi pochi anni (scriveva nel 1930) i suoi nipoti avrebbero avuto vitto, alloggio,vestiario, salute e istruzione con poco sforzo (sarebbero bastate tre ore algiorno di lavoro per produrre tutto questo) grazie, appunto, agli straordinarisviluppi delle tecnologie e della produttività del lavoro. Così si sarebberisolto il problema della “scarsità” che è la ragione stessa dell’esistenza delle“scienze economiche”. Non solo i suoi nipoti, ma anche gli economistiavrebbero, quindi, potuto dedicarsi a lavori più creativi. Ma, scrive Keynes,c’è un prima, un frattempo: “almeno per iprossimi 100 anni dobbiamo pretendere da noi stessi e da chiunque altro che ilbrutto è il bello e il bello è brutto, perché il brutto è utile, mentre ilbello non lo è. Ancora per qualche tempo l’avarizia, l’usura e le misureprotettive devono essere i nostri dei. Perché solo loro possono condurci fuoridal tunnel della necessità economica”. Come scrivono gli Skidelsky, padre economista e figlio filosofo (E e R.Skidelsky 2013), le ragioni del fallimento della profezia di Keynes (pienaoccupazione e riduzione dell’orario del lavoro) non è dipeso da un errore divalutazione sull’aumento della capacità produttiva del sistema capitalistico enemmeno dalla ricchezza monetaria in circolazione - anzi ! -, ma nell’aver sottovalutato la logica intrinsecadi funzionamento del sistema economico capitalistico che si fondasull’accrescimento indefinito e perpetuo della produzione. E’ pericoloso andarea patti con il diavolo! Nel prometterti tutto quello di cui hai necessitàaltera la percezione dei bisognirendendoti insaziabile. Già Epicuro aveva detto: “Niente è sufficiente a colui che il sufficiente non basta”.
Tutto ciòallontana indefinitamente la meta della “soluzione del problema economico dellascarsità”, rende impossibile il raggiungimento del soddisfacimento delle proprienecessità e condanna le persone a vivere in un perenne stato di necessità. L’eradell’abbondanza viene in continuazione posticipata. Le risorse (naturali, diconoscenza, tecnologiche, finanziarie…) sarebbero sufficienti, ma la logica che presiede il loro utilizzo in unasocietà dominata dalle ragioni mercantili non consente che vengano impiegatecon criteri di equità e sostenibilità. Al contrario genera in continuazionescarsità ed esclusione. Una spirale che allarga le distanze tra il verticedegli individui insaziabili e la base degli affamati. Una spirale che trascinal’umanità nella dissipazione insensata delle risorse naturali. Un sistemasociale irrazionale e ingiusto. Che alla lunga non regge né sul piano del banalecalcolo utilitaristico tra costi e benefici, né su quello dell’etica, dellaricerca del bene comune e condiviso.
Le risorse sono limiate, ma non “scarse”. La scarsità è sempre relativa. Égenerata da chi ne fa un uso eccessivo (a beneficio esclusivo), sottraendorisorse ad altri e ingenerando desideri di acquisizione in chi ne è escluso. Setutte le risorse venissero rese accessibili a tutti, basterebbero necessariamentea soddisfare i bisogni di ciascuno. Ognono si farebbe bastare ciò che ha adisposizione. L’economia di mercato e il diritto di proprietà sono le tecnichecon cui si rendere conveniente (in termini monetari) ed esclusivo (stabilendotitoli di proprietà) l’uso delle risorse a favore di pochi.
Ha scritto Gandhi: “La civiltà nel vero senso della parola, non consiste nel moltiplicare ibisogni, ma nel limitarli volontariamente”. Ogni individuo si dovrebbelimitare a possedere, usare e consumare solo quelle cose che anche tutti glialtri esseri umani possono permettersi.
Il problema, quindi, non è produrre sempre dipiù, ma al contrario trovare il modo di contenere, ridurre i nostri infinitidesideri di possesso e dissipazione.
Meglio allorasarebbe cambiare la visione delle cose. Smetterla di pensare al pianeta Terracome ad una matrigna avara (contro cui imprecare e cercare di ottenere sempredi più) e pensarlo invece come una madre nutrice, benefica, i cui doni sonobenedizioni (Illich), da rispettare nei suoi limiti e venerare per la suagenerosità.
Fuori da metafora dovremmo cambiare la teoriaeconomica fondamentale che si basa sul principio di scarsità e sostituirlo conquello del limite. L’assunzione delle condizioni biofisiche di funzionamentodel pianeta come vincoli inviolabili (ecocentrismo) ci deve condurre allaricerca del bastevole e della sufficienza. Cioè della condivisione.
La congiunzione di equità (giustiziadistributiva) e libertà (autonomia di scelte) che la cultura politicaoccidentale non è mai riuscita a realizzare potrebbe invece essere possibileinanellando altri due concetti: sostenibilità e condivisione. Riconoscimentodei limiti delle risorse a disposizione dell’umanità e loro equa messa incomune. Nessun individuo può essere escluso dal beneficiare dei doni dellanatura. Tutti devono essere responsabili del loro uso.
5. hi ha il potere di decidere?

Veniamo finalmente alla meta-domanda che mi ero posto all’inizio: chi ha il potere di decidere cosa produrre, per chi, dove, quantoecc. ecc.?
Come noto, grosso modo, due scuole di pensieroe d’azione si sono confrontate nella storia contemporanea. Ma nessuna delle dueha funzionato in modo soddisfacente.
Il liberismo e il socialismo (con tutte legradualità e le reciproche contaminazioni immaginabili e possibili: tra cui“l’economia sociale di mercato”, che vorrebbe moderare i due sistemi, e il“capital-comunismo” della Cina che invece esaspera il peggio dei due sistemi).Gli uni pensano che il gioco dei liberi mercati sia in grado di trovare l’equilibriodinamico tra la domanda e l’offerta di beni e servizi tale da soddisfare leesigenze di ogni individuo (lavoro in cambio di consumi). Gli altri pensanoinvece che tale equilibrio (piena occupazione e soddisfacimento delle necessitàessenziali) possa realizzarsi solo attraverso una procedimento (più o menodemocratico, più o meno partecipato politicamente) di pianificazione (più omeno centralizzata, più o meno decentralizzata).
Tra i primi troviamo i tecnocrati dellaespertocrazia come Mario Draghi, chepensa che la cosa migliore sia affidare l’economia ad un “pilota automatico”(programmato dalle autorità monetarie, ovviamente!). Tra i secondi ci sono i professionisti della politica che credono inuna capacità del sistema dei partiti di svolgere una funzione super partes al servizio dell’interessegenerale.
Le differenze tra i due sistemi non sono dipoco conto, ma non nella cosa essenziale: tutti e due i modelli e tutte leesperienze storiche che si sono fin qui verificate ritengono che lo scopoessenziale della cooperazione sociale tra le persone debba essere quello di accrescerein definitivamente la produzione di beni e servizi. Le differenze sono sullemodalità, non sull’obiettivo. I primi pensano che lo sforzo delle istituzionidebba essere quello di far funzionare nel modo più libero e automaticopossibile la “mano invisibile” che regola il bilanciamento della domanda edell’offerta. I secondi pensano che “gli spiriti animali” assetati di ricchezzache muovono le attività produttive debbano essere contenuti e guidati da maniforti e ben visibili delle istituzioni pubbliche dello stato.
Ma tutti e due pensano che si debba aumentare all’infinitol’efficienza, il rendimento, la convenienza, l’utilità del sistema economicoproduttivo. La partita doppia (il calcolo dei costi e dei ricavi, del dare edell’avere) è la forma mentis e il modus operandi che domina gli agenti tantodelle imprese quanto delle istituzioni pubbliche. Le altre cose che danno unsenso alla vita (il giusto, il bene, il bello; ovvero: la qualità dellerelazioni umane che si instaurano tra le persone, la solidarietà, l’aiutoreciproco, l’affettività, l’altruismo…) sono messe in secondo, terzo, quarto piano.Salvo poi, quando scoppia una crisi economica imprevista, sentirci dire chealla base di tutto ci sono “fattori esterni irrazionali” (che ovviamente nondipendono dagli economisti) che fanno cadere la “fiducia” degli operatorieconomici, provocano “panico” nei risparmiatori, “impigriscono” i giovani e così via psicoanalizzando il disagio sociale.
Alain Caillé ha detto che la società è stataridotta ad una orribile macchina per produrre”. L’economia è un procedimento che ha adisposizione una strumentazione (il denaro, le tecnologie ecc.) e undispositivo giuridico (le leggi, le istituzioni ecc.) che servono a ridurreogni cosa reale (res) ad un valoremonetario astratto (pecunia). Daibeni alle merci. Economia e denaro sono diventati la stessa cosa. L’economia siè ridotta ad occuparsi del denaro (da dove viene generato, come gira e comerigira…) e induce a pensare che con il denaro si possa ottenere ogni cosa. Ilpotere del denaro è diventato assoluto, supera ogni altro potere.
Bisogna allora pensare di cambiare in radiceil modo di pensare l’economia (oikos-nomos,le buone regole della dimora, che oggi è diventata il mondo intero) e inserirlanel sistema etico. Ripensare l’economia come una scienza morale. Quantomenosarebbe opportuno relativizzarla, metterla in relazione con le altre dimensionidel vivere umano.
Chi può compiere questa rivoluzione culturale?Castoriadis diceva che servirebbe una “rotturadell’ordine simbolico e fattuale”. Non c’è scampo, non c’è scorciatoia. Ilsoggetto del cambiamento siamo ognunodi noi. Sono le convinzioni morali profonde delle persone che devono spingercia comportamenti individuali responsabili e solidali, a trovare forme sempre piùdiffuse, pervasive, decentrate di comunità capaci di autosostenersi e di autogovernarsi.Bisognerebbe avere in testa un’idea di individuo, di comunità locali e diistituzioni sociali organizzate sui principi dell’eco-municipalismo.
Transitare da comportamenti ispirati allacompetizione e alla rivalità ad altri fondati sulla condivisione e sullareciprocità; dal dominio sui processi naturali alla loro cura; dall’egoismoalla solidarietà sociale cooperante e alla messa in comune delle ricchezze prodottesocialmente; dall’eccesso alla sobrietà; dal riduzionismo pseudo scientificodei “saperi esatti”, alla complessitàdei sistemi trans-disciplinari e olistici; dall’economia del massimo rendimentoad una del massimo risparmio, del riutilizzo, del riciclo; da un’economia deisoldi, del consumo e del debito alla bio-economia e al buon vivere. La felicità è una buonarelazione con l’ambiente e gli altri esseri umani.
Zigmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza 2007
Paolo Cacciari, , Marotta & Cafiero 2014
Ivan Illich, Bisogni, in Dizionario dellosviluppo, Edizioni Gruppo Abele 1998
Tim Jakson,Prosperità senza crescita, Edizioni Ambiente 2011
Roberto Mancini, Ripensare la sostenibilità, Franco Angeli, 2015
Bernard Maris, Antimanuale di economia, Marco Tropea2003
Giorgio Nebbia, La violenza delle merci, www.fondazionemicheletti.it,1998
Maurizio Pallante, Destra e sinistra addio. Per una declinazione dell’uguaglianza,2016
Nicolas Ridoux , La decrescita per tutti, Jaca Book 2008
E. e R. Skidelsky, Quanto è abbastanza, Mondadori, 2013

"Il reddito di base è uno strumento contro i ricatti del lavoro povero. Ai giovani e ai 40enni bisogna dare un orizzonte temporale per pensarsi e fare progetti. Investiranno energie per cambiare questo mondo"».

Il manifesto, 1 maggio 2016 (c.m.c.)

Chiara Saraceno, sociologa e autrice del libro Il lavoro non basta (Feltrinelli) ha raccontato di essere stata pagata con un voucher per una lezione. «Credevo di essere un’eccezione, ma ho scoperto di non essere l’unica tra chi fa ricerca – afferma – Non ho certo il profilo di chi lavora con i voucher. Quando è successo ero già in pensione. Il voucher non è solo una forma leggera di lavoro nero, ma è anche una forma di elusione fiscale non voluta dal lavoratore. Legalmente il denaro guadagnato con i voucher è esente da tasse e quindi è conveniente. Il dramma è che questo strumento è diventato la nuova frontiera del lavoro, non solo a tempo, ma precarissimo.

Non era stato pensato così all’epoca della riforma Biagi. Allora c’era la positiva intenzione di fare emergere il lavoro nero e assegnare un minimo di contributi ai lavoratori molto occasionali. Il caso classico è la studentessa che fa la baby sitter o chi fa il commesso fa il commesso nei negozi per poche ore. Oggi invece è diventato una forma per passare al nero al grigio. Al datore di lavoro può convenire pagare un po’ in voucher, un po’ in nero. Se in un cantiere c’è un incidente, può sempre dire che quel giorno l’incidentato lavorava con il voucher. Pensato per essere usato per picchi produttivi, questo buono viene usato per pagare normalmente”.

La tracciabilità dei voucher proposta dal governo contrasterà questo fenomeno?
Non credo. Con la tracciabilità si dovrà dichiarare in anticipo per chi e per quante ore è stato usato. Ma questo non esclude che poi ci sia il nero: che si dichiari cioè di avere pagato con voucher per duemila euro per un tot di numero di ore. Il lavoratore potrà essere costretto a lavorarne altrettanto in nero. È importante che si facciano più controlli. Il sindacato dovrebbe essere molto più attento. I voucheristi sono molto ricattabili. Se denunciano, nessuno li riassume.

Il voucher inaugura una nuova epoca del precariato?
La diffusione abnorme di questa forma di pagamento tutto sommato marginale è dovuta alla capacità dei datori di lavoro di sfruttare ogni possibilità dei contratti per fregare i lavoratori. Non vale per tutti naturalmente. Accadde lo stesso con i cocopro. Il progetto in questione è diventato il fine, e non la causa, per fare questi contratti. Risultato: esistono persone che hanno lavorato con un cocopro per anni. Soprattutto per lo Stato italiano. Oppure nei consultori dove si può avere lo psicologo solo se ci si inventa un progetto. Questo progetto serve a giustificare un lavoro di routine.

È passato del tempo dalla riforma dei contratti a termine, un aspetto non molto citato del Jobs Act. Qual è il bilancio?
È assolutamente contraddittorio rispetto al contratto a tutele crescenti. Un lavoratore può essere contrattualizzato a termine e rinnovato fino a cinque volte. Resterà sempre precario con il terrore che non sia rinnovato. Se è fortunato può avere un contratto a tutele crescenti dove continuerà a essere precario. Questo diventa un periodo di prova allungato smisuratamente fino a otto anni. Il lavoro diventa una corsa ad ostacoli, senza contare che è molto più facile licenziare oggi.

La maggioranza dell’occupazione prodotta è data dal rinnovo dei contratti e riguarda gli over 50. Come si spiega questo andamento?
Da anni tutti gli interventi sul lavoro insistono sul lato dell’offerta per rendere i lavoratori più flessibili e meno costosi. In italia abbiamo il problema opposto: quello della domanda di lavoro e imprese non competitive che non sono in grado di stare sul mercato internazionale e non investono su quello nazionale. I governi potranno tagliare il costo della forza-lavoro perché un’impresa assuma. Ma se non c’è una vera ripresa e le imprese non diventano più efficienti, questo non avverrà.

La politica del governo Renzi va in questa direzione?
Assolutamente no, Sostengono che dipende dal mercato e che la politica non c’entra nulla. Hanno erogato miliardi di incentivi alle imprese a fondo perduto, senza chiedere una contropartita in nuova occupazione.

Che cos’è il lavoro povero oggi?
Ci sono due tipi di lavoro povero. I voucheristi e chi prende un salario molto al di sotto del salario minimo sono lavoratori poveri su base individuale. Poi ci sono i lavoratori poveri su base familiare. L’Italia è uno dei paesi in cui questo fenomeno è più diffuso. La quota di famiglia monoreddito è molto elevata, non c’è sostegno all’occupazione femminile, in particolare per le donne con meno istruzione e carichi familiari pesanti, non esistono servizi né trasferimenti adeguati e universali per il costo dei figli. Dal sistema sono esclusi anche gli autonomi poveri e i disoccupati di lungo periodo. E pensare che i fondi del bonus sugli 80 euro potevano servire per una seria riforma. Solo con quelli del bonus bebé si poteva sottrarre dalla povertà un’ampia quota di famiglie.

Il presidente dell’Inps Tito Boeri sostiene che chi è nato negli anni Ottanta lavorerà fino a 75 anni e avrà una pensione minima. Che mondo ci aspetta?
Ho simpatia per Boeri e concordo con le sue paure. Mi preoccupa di più un’altra parte del suo discorso: il poco reddito che hanno i giovani oggi. È vero che non matureranno i contributi per la pensione, ma non hanno un reddito sufficiente per fare la loro vita oggi, per farsi una famiglia se vogliono. Se li mettessimo nelle condizioni di una vita decente, creando un orizzonte temporale per pensarsi e fare progetti, forse la situazione migliorerà. “. Se invece li costringiamo a inseguire spezzoni di lavoro e terrorizzandoli dicendo che non avranno una pensione, mi sembra che sprecheranno le loro energie. Mi preoccupa questo perché anch’io ho figli che hanno già questa carriera frammentata alle spalle. Oltre ai giovani ci sono anche i 40enni.

È sempre convinta che la soluzione sia il reddito minimo?
Sto diventando più radicale. Il lavoro buono per tutti non è dietro l’angolo, forse bisognerà cominciare a pensare a una garanzia di reddito di base universale che si può dare sotto forma di imposta negativa, una misura che in Italia non esiste ancora, si rende conto? Il reddito potrebbe essere uno degli strumenti per non essere ricattati e inventarsi cose che noi anziani non abbiamo ancora pensato. Per quanto riguarda le pensioni è chiaro che prima o poi si dovrà pensare a una pensione di base. È dalla riforma Dini del 1995 che si sa come sarebbe andata a finire la flessibilità. E’ stata fatta una riforma fordista mentre il mercato del lavoro cambiava in tutt’altro senso. Già allora si sapeva che una quota di persone non avrebbero mai maturato la storia contributiva per avere una pensione decente.

Perché non è stato fatto nulla da allora per rimediare?

La preoccupazione era di mettere in sicurezza il sistema senza pensare a cosa sarebbe successo dopo. Adesso è evidente, molto evidente. Non è proprio possibile pensare che un muratore, un camionista, una maestra lavorino fino a 75 anni. Sono fantasie. Le diseguaglianze iniziano ad affermarsi nelle speranze di vita: tanto più si lavorerà peggio, prima si morirà. Un tempo lavorare fino a 75 anni era considerato un privilegio. Nella mia generazione questo valeva per i professori universitari, i giudici, i vescovi o i medici. Non era un obbligo, anzi gli altri che andavano in pensione a 60 anni avrebbero voluto lavorare di più. È vero che la vita si è allungata, ma il corpo non è più la cosa che era prima. La resistenza fisica, e la lucidità si appannano. Dagli anni Settanta in poi, il rischio povertà tra gli anziani è andato diminuendo. Hanno iniziato a lavorare di più, ad avere storie contributive continuative, sono stati tutelati meglio dal sistema previdenziale che si è rafforzato in tutto il mondo. Oggi ci stiamo nuovamente avviando verso una condizione dove una quota di anziani sarà di nuovo a rischio povertà, mentre sta aumentando la povertà dei minori e delle famiglie con minori. Questo problema non lo si può risolvere restando più a lungo al lavoro. Con le carriere interrotte e i salari bassi nessuno riuscirà a farsi una pensione decente. E non riuscirà ad avere i fondi per una pensione integrativa. Ai voucheristi come si fa a dire di farsi una pensione integrativa, se non sono sicuri di avere un lavoro domani? Dovranno risparmiare per l’oggi e non avranno risorse da investire per il domani

« ». Il manifesto,

Il flop del Jobs Act del governo Renzi non è il semplice effetto di un obiettivo mancato. Il continuo maneggio di dati e cifre poi contraddette dai fatti, non serve a nascondere un fallimento inaspettato. Esso è funzionale a politiche di riduzione dei diritti del lavoro che, invece, si vogliono spacciare per provvedimenti innovativi e capaci di creare nuovo lavoro.

Il «contratto a tutele crescenti», perno del Jobs Act, si basa su una stridente contraddizione. Da un lato, lo Stato eroga contributi alle imprese perché stipulino contratti a tempo indeterminato, modificando quelli a termine già esistenti o per i neoassunti. Dall’altro, si ammette la libertà di licenziare i lavoratori in qualsiasi momento e con qualunque motivazione. Il che rappresenta il massimo della precarietà. Infatti, si sta verificando che i nuovi contratti crescono in misura strettamente dipendente dai contributi versati agli imprenditori, mentre continuano a crescere i lavori precari.

A cominciare da quelli part time (presenti anche nei nuovi contratti) fino al dilagare delle forme di massima precarietà come quella del ticket-lavoro, che nel primo bimestre di quest’anno è aumentata del 45% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (per un totale di 19,6 milioni di voucher). In realtà si tratta di una sostanziale subordinazione delle politiche del lavoro ai dettami del neoliberismo imperante. Ed ha ragione Renzi a dirsi erede di Blair o a sottolineare la connessione tra i suoi provvedimenti e quelli propugnati dalla commissione Hartz nella Germania di Schröder. Sono stati, infatti, proprio loro e gli altri becchini di quel che restava della socialdemocrazia europea a piegare le politiche del lavoro alle esigenze del neoliberismo imperante.

La svolta conservatrice è stata battezzata con l’ingannevole definizione di «politiche attive del lavoro». Tale definizione ricorre nelle controriforme del lavoro introdotte nei maggiori paesi europei dalla fine degli anni ’90 ad oggi.
La prima, varata da Blair nel 1998, si proponeva di ridurre i diritti dei lavoratori e le prestazioni di welfare ad essi connesse. Secondo lui, i cittadini dovevano uscire dalla «dipendenza e pigrizia» determinate dai provvedimenti di assistenza sociale e diventare responsabili del proprio destino ricercando attivamente un lavoro.

La motivazione era la stessa sostenuta dalla Thatcher e da Reagan. In realtà, i provvedimenti previsti avevano lo scopo di spingere i cittadini ad accettare un lavoro qualsiasi, anche pesante e malpagato. In questo modo si tagliavano drasticamente le spese sociali e si favoriva la competizione al ribasso nel mercato del lavoro. Lo stesso principio è stato adottato dalla commissione Hartz istituita in Germania nel 2002. Anche il governo del socialista Jospin in Francia, che, pure, è stato più avveduto nella revisione del sistema di welfare, si è conformato al paradigma delle «politiche attive del lavoro» promulgando, nel 2002, provvedimenti affatto simili a quelli adottati in Gran Bretagna e Germania.

In Italia, misure analoghe hanno trovato facile sponda nel liberismo populista dei governi Berlusconi. Né sono state efficacemente osteggiate dalle coalizioni di centro sinistra, peraltro caratterizzate da paralizzanti tensioni interne. Il sempre più accentuato spostamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, dovuto alle strategie economiche e politiche neoliberiste, ha trovato rispondenza in altri due obiettivi complementari al precedente e perseguiti con pari tenacia.

Il primo riguarda la sempre maggiore libertà di licenziamento accordata agli imprenditori e praticabile per semplice convenienza economica. In Gran Bretagna il terreno già arato in questo senso dai governi Thatcher e Major ha reso più agevole a Blair superare i vincoli normativi. In Germania, dove essi erano più rigidi, sono stati aggirati nella pratica e con la tolleranza del governo. In Francia e in Italia la resistenza sindacale è stata più tenace su questo punto, anche se gli imprenditori si sono valsi della più ampia e crescente flessibilità nelle norme e tipologie contrattuali, con la conseguente proliferazione delle forme di lavoro precario.

L’altro obiettivo riguarda l’incoraggiamento dato alla contrattazione aziendale rispetto a quella nazionale. Perseguito per prima da Margaret Thatcher, esso è stato riaffermato, in completa continuità, dal New Labour di Blair. Anche in questo caso l’intento è quello di indebolire la capacità contrattuale di lavoratori e sindacati. Peraltro, il perseguimento di tali obiettivi non è disgiungibile dalla parallela opera di decostruzione dello Stato sociale. Infatti, i provvedimenti citati sono stati regolarmente accompagnati, in tutti i paesi cui ci siamo riferiti, da drastici ridimensionamenti delle pensioni, da tempo sganciate dal reddito raggiunto in età lavorativa.

Parallelamente, sono stati fatti tagli sempre più impietosi ai sistemi sanitari. In questo e altri settori sono stati adottati criteri di gestione quasi-market, ovvero ancorati a budget prefissati. Le varie forme di assistenza sono state limitate ai «realmente bisognosi» sulla base di ristretti accertamenti dei mezzi. Mentre l’intero sistema è stato contrassegnato da privatizzazioni crescenti e da assicurazioni private, specie in ambito pensionistico e sanitario. Tutto ciò non ha fatto altro che ridurre il salario reale e con esso i margini di una sia pur minima redistribuzione della ricchezza. Sull’altro versante, invece, è stata costante la riduzione della tassazione sulle imprese e i redditi, con chiaro vantaggio dei più alti.

In questo quadro di generale contrazione delle politiche sociali, il perseguimento dei tre obiettivi principali che hanno caratterizzato la legislazione sul lavoro ha avuto effetti sociali sempre più pesanti. Ed essi hanno caratterizzato in modo, se possibile, ancor più determinato i provvedimenti successivi alla crisi del 2008. Oggi, le misure di Cameron, il Jobs Act di Renzi, come la Loi Travail proposta dal governo francese rappresentano una sorta di completamento di un lungo percorso che ha contribuito non poco all’aumento delle diseguaglianze sociali. Tuttavia, il nuovo indirizzo dato al Labour Party da Jeremy Corbyn e la forte resistenza che sta incontrando la legge proposta dal governo francese mostrano che cambiamenti di rotta sono possibili, oltre che necessari.

«». LaRepubblica, 1 maggio 2016 (c.m.c.)

La campagna elettorale per il referendum costituzionale, già cominciata da tempo, ha avuto una forte e prevedibile accelerazione dopo i risultati del referendum sulle trivelle. E dalle polemiche e dai conflitti di questi giorni già vengono indicazioni che consentono di avanzare ipotesi sui caratteri che assumerà la campagna elettorale e sugli effetti che via via si produrranno nel sistema politico-istituzionale.

Si deve partire da una constatazione. I referendum sono un gioco a somma zero, un sì contro un no, un vincitore e un vinto, e quindi il conflitto è nella loro stessa natura. Fatta questa ovvia constatazione, si tratta poi di stabilire per ciascun referendum come si strutturi concretamente il conflitto, con quali caratteristiche e intorno a che cosa. E, facendo questo, si scopre che i referendum possono incidere sul funzionamento del sistema politico al di là della conferma o dell’abrogazione di una legge. Più d’una volta, negli anni passati, si è ritenuto che un voto referendario potesse avere un effetto destabilizzante del sistema politico al punto tale che, pur di evitarlo, in alcuni casi si è preferito sciogliere le Camere.

Considerando le ultime vicende, i critici dell’utilità del voto sulle trivelle hanno insistito sul fatto che ben cinque dei sei quesiti predisposti dalle regioni avevano trovato una risposta positiva da parte del governo, sì che non valeva più la pena di andare a votare su un caso residuale. Valutazioni a parte su questo giudizio, questa vicenda mostra come una semplice richiesta referendaria possa modificare l’agenda politica, stabilire priorità. Inoltre, la mobilitazione sociale necessaria già al momento della raccolta delle firme può dare origine ad un vero e proprio movimento, a forme di intervento alle quali i cittadini ricorrono quando appaiono chiusi gli altri canali di partecipazione politica.

Questo sfaccettarsi delle funzioni del referendum diviene ancor più evidente se si considera l’imminente referendum costituzionale. All’abituale polarizzazione referendaria, infatti, si è questa volta aggiunta una chiara personalizzazione del voto perché, con l’annunciata decisione di dimettersi in caso di bocciatura della riforma, il presidente del Consiglio ha ormai trasformato l’occasione referendaria in un vero e proprio voto di fiducia.

Si può dire, ed è stato detto, che un governo, se attribuisce una particolare importanza ad alcuni suoi provvedimenti, ben può ritenere che la loro cancellazione impedisca la prosecuzione della sua azione, annunciando preventivamente ai cittadini questa sua intenzione. Ma questo referendum non riguarda l’indirizzo politico di maggioranza bensì, come è giusto dire, una massiccia riscrittura delle regole del gioco, con una modifica della forma di governo e del contesto democratico definito dalla Costituzione. Lo ha messo in evidenza efficacemente Romano Prodi, ricordando che «le riforme costituzionali debbono durare molto e non possono essere mirate solo all’interesse di chi possiede la maggioranza del momento».

Il riferimento ai soli interessi della maggioranza è, alla lettera, quello che si trova nelle pagine di Hans Kelsen dedicate alla virtù fondativa del «compromesso », dove si sottolinea che esso «fa parte della natura stessa della democrazia » e consiste, in primo luogo, nel risolvere «un conflitto mediante una norma che non è totalmente conforme agli interessi di una parte, né totalmente contraria agli interessi dell’altra». Chi ha memoria della nostra storia costituzionale, cosa ben diversa dai troppi richiami sgangherati ai lavori dell’Assemblea costituente fatti in questo periodo, ricorda che di un “compromesso costituzionale” si è molto parlato, anche con toni critici, ma in definitiva riconoscendo la saggezza politica dei costituenti che, attraverso un confronto serrato, erano giunti a sintesi assai elevate, garantendo l’alta qualità della Costituzione.

Si dice che bisogna discutere nel merito la riforma sottoposta al voto. Ma non vi è merito più importante e ineludibile della valutazione della logica che la ha guidata e di quale risultato, in termini di democrazia, sia stato raggiunto. È bene ricordare, allora, che nel corso dell’iter parlamentare, e in particolare in occasione delle audizioni di molti studiosi, proprio sul punto centrale della nuova disciplina del Senato vi erano state proposte assai circostanziate di modelli che avrebbero evitato non solo il pasticcio attuale, ma avrebbero consentito una soluzione davvero innovativa, con effetti di seria semplificazione e mantenimento di equilibri costituzionali che, soprattutto se si tiene conto dell’intreccio con la nuova legge elettorale, vengono invece pregiudicati. Il buon “compromesso democratico” è lontano, e di questo si dovrà discutere.

Ma il riferimento alla democrazia torna, in maniera ancor più impegnativa, quando si constata che siamo di fronte al passaggio da una democrazia rappresentativa ad una democrazia d’investitura, dunque ad un mutamento della forma di governo. Ancora una ineludibile questione di merito, se appena si considera che la sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato il “Porcellum” è sostanzialmente fondata sulla constatazione che non veniva garantita proprio la rappresentanza dei cittadini. E questo non è tema che riguarda il passato, perché la Corte costituzionale dovrà occuparsi della legittimità dell’Italicum, contestata con argomenti che sottolineano come anche questa nuova legge elettorale sia viziata da un deficit di rappresentanza (e contro l’Italicum si stanno anche raccogliendo le firme per un referendum abrogativo).

Vero è che ad ottobre non si voterà sulla legge elettorale. Ma è evidente che la discussione investirà anche questo aspetto della strategia istituzionale del governo, come peraltro sta già avvenendo, perché la stessa riforma costituzionale evoca il tema del potere dei cittadini con le nuove norme sui referendum e sulla iniziativa legislativa popolare, in sé deboli e comunque inadeguate per costituire un contrappeso ad un accentramento del potere che mette la maggioranza nella condizione di poter vanificare le iniziative popolari (altra cosa è la democrazia partecipativa considerata anche nella dimensione digitale).

Giustificato con l’argomento della semplificazione delle procedure di decisione (realizzata invece in forme confuse e contraddittorie), il moto ascendente del potere, la sua concentrazione in poche mani pongono chiaramente una questione di democrazia, già evidente in alcune inquietanti prassi dell’attuale governo, o per meglio dire del presidente del Consiglio. Il giudizio degli elettori riguarderà inevitabilmente tutti questi aspetti della questione, che oggi si presenta con i tratti di una democrazia messa sotto tutela.

Diventa fondamentale, allora, il contesto nel quale si svolgerà la campagna elettorale. Uno storico come Emilio Gentile ha appena pubblicato un libro dal titolo “Il capo e la folla”, che riprende un tema trattato nel 1895 da Gustave Le Bon, analizzando “la psicologia delle folle”. La ricostruzione dei rapporti tra il leader e le masse, la personalizzazione del potere ci portano ai giorni nostri, che conoscono il pieno dispiegarsi di quella che Abramo Lincoln chiamò la “democrazia recitativa”. Varrà la pena di tornare su questo tema. Ma, considerando la campagna elettorale, bisognerà garantire subito che la “recita” non sia riservata ad un numero ristretto di personaggi. Questo chiama in causa particolarmente la televisione pubblica, ma implica una responsabilità dell’intero sistema informativo. Una questione di democrazia, che si aggiunge alle altre appena ricordate.

"La fame" (Einaudi, La Repubblica.it, 30 aprile 2016 (p.d.)

Che colossale abbuffata di ipocrisia si consuma intorno alla fame. Prima l’hanno ribattezzata "insicurezza alimentare", come se depotenziarla linguisticamente la rendesse meno micidiale. Poi hanno truccato le statistiche, per vantare inesistenti progressi in questa lotta che è di Sisifo solo per il sostanziale disinteresse di chi la combatte. Intanto i misteri abbondano: produciamo cibo per dodici miliardi di persone e tuttavia quasi un miliardo su sette di quelle che abitano sulla terra non ha di che riempire il piatto. La scomoda verità è che chi fa la fame oggi non lo deve tanto alla povertà propria quanto alla ricchezza altrui. Succede perché i due terzi di aiuti all’India vanno a finire nelle tasche dei funzionari corrotti. O perché la stessa percentuale dei soldi stanziati dagli Stati Uniti in realtà resta a ingrassare l’economia americana. O perché la Monsanto ha messo in piedi uno schema ricattatorio per lucrare sui semi. O perché i derivati sul grano valgono cinquanta volte di più della produzione del grano e questa e altre speculazioni hanno fatto triplicare il prezzo dei cereali, rendendoli proibitivi per chi ne aveva un bisogno vitale.

Tutto questo, assai genericamente, lo sappiamo. Salvo poi dimenticarlo il giorno dopo. È un meccanismo di difesa normale quello di scrollarsi di dosso fardelli insopportabili per continuare a vivere. Sino a quando non arriva qualcuno che ci rispiega tutto a un livello di risoluzione inedito, offrendo il contesto storico che ci ha portati sin qui, e la storia prende un senso nuovo, più nitido e urgente. È successo per la camorra con Roberto Saviano. Succede per (Einaudi, pp. 722, euro 26, traduzione Rolla, Cavarero, Niola) con Martín Caparrós, un cinquantottenne giornalista e romanziere argentino con dei baffi a manubrio che lo fanno assomigliare a un domatore di leoni. Nel suo libro monumentale, frutto di cinque anni di studio robusto e viaggi in alcuni dei Paesi più disperati del Pianeta, compie una specie di ambiziosissima cronaca di milioni di morti annunciate. Intervallando i capitoli con delle specie di vox pop, discorsi veri o verosimili che la gente pronuncia sulla mancanza di cibo, per poi ripetere come un mantra: «Come cazzo facciamo a vivere sapendo tutto questo?».

Ho incontrato Caparrós, fresco vincitore del Premio letterario internazionale Tiziano Terzani 2016, quando è stato ospite del Festival Letteratura di Mantova. Aveva presentato il libro nella Basilica Palatina di Santa Barbara che aveva fatto quasi venir giù con un paio di bordate sul suo connazionale Papa Francesco («Cosa potrebbe fare contro la fame? Dimettersi») e su Madre Teresa («Ha fondato circa cinquecento conventi in cento Paesi e non ha mai aperto una vera clinica a Calcutta»). Noi però ci siamo incontrati al primo piano del trecentesco Palazzo Castiglioni, in un salottino così bello, con un vassoio di uva così succosa, inneschi ideali per una serie di sensi di colpa rispetto al tema da affrontare.

Tanto per non chiamarci fuori dalla catena delle responsabilità, ho iniziato la conversazione leggendogli una sua frase sulla nostra categoria: «Sono morti che non finiscono sui giornali. Non sarebbe possibile: farebbero collassare i giornali». La fame, ho azzardato, avrebbe bisogno di un miglior ufficio stampa? «Intanto è il problema altrui per antonomasia. Non è mai direttamente nostro. Non siamo mai noi – noi che ci preoccupiamo dell’ecosistema, dei diritti sessuali, della libertà d’espressione, della pace in Medio Oriente – a soffrirne. Perché dovrebbe importarcene? Se ne avessi il potere, però, pubblicherei una storia di fame al giorno. Anche non lunga, e soprattutto non astratta, ma con un nome e un volto. Guardate cosa è successo con la foto del piccolo Aylan, trovato morto su una spiaggia turca mentre cercava rifugio in Europa. Sono convinto che lo stesso potrebbe accadere parlando di affamati, piuttosto che di fame».

Esattamente ciò che lui fa lungo settecento pagine. Il libro inizia in Niger, dove ogni donna ha in media sette figli (il tasso di fertilità più alto al mondo) e dove uno su sette muore prima di compiere cinque anni. È lì che domanda alla trentenne Aisha: se avesse potuto chiedere quello che voleva, qualunque cosa, a un mago capace di dargliela, che cosa gli avrebbe chiesto? E lei gli risponde: una vacca. Il cronista non ci crede: «Ma davvero? Guarda che puoi chiedere qualsiasi cosa». Al che l’intervistata rilancia: «Due vacche. Con una ci sfameremo noi, con l’altra produrrei cose da vendere e non avrei fame mai più».

Una vacca, per la cronaca, costa l’equivalente di 500 dollari. Il perimetro estremo dei sogni di questi esseri umani non si spinge oltre il valore di una bici elettrica. La parte terribile è che uno su mille li corona. Forse. Ma questo non è affatto, sia chiaro, un libro lacrimevole. È un trattato sulle umane contraddizioni intorno al tema più frusto, globale e ritualizzato che esista. Così eroso da parole vuote che anche a Miss Venezuela, quando viene laureata Miss Mondo, viene spontaneo dire che il suo augurio principale è proprio «combattere la fame nel mondo» (che è sempre meglio di aspirare, come ha fatto l’incauta omologa italiana, di vivere durante la seconda guerra mondiale per vedere l’effetto che fa).

Il possente racconto si snoda intorno ad alcune date chiave. La prima: anni 80. «È allora che si impone il cosiddetto Washington Consensus con cui la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale convincono, a forza di minacce riguardo i loro debiti esteri, la maggior parte dei governi africani a ridurre l’ingerenza statale su vari settori, a partire dall’agricoltura. In caso di raccolti scarsi o carestie, i ministeri competenti non avrebbero più potuto combatterle sovvenzionando alcuni alimenti oppure regolando i prezzi per legge». Senza queste ragionevoli armi in Niger, negli anni successivi, migliaia di persone che avrebbero potuto essere salvate morirono di fame. Una circostanza che, col tempo, avrebbe sgretolato il consenso. «Al punto che più tardi la stessa Banca mondiale avrebbe affermato che i sussidi all’agricoltura servono quattro volte tanto rispetto a ogni altro sussidio nella riduzione della fame. Ma tra il 1980 e il 2010 la proporzione degli aiuti internazionali all’Africa destinati all’agricoltura passò dal 17 al 3 per cento».

La sagra delle parole vuote, dalle bellezze in bikini ai funzionari internazionali in grisaglia, impazza tragicomica. Con un’aggravante specifica e particolarmente odiosa che a Caparrós non sfugge: «Mentre dicevano all’Africa che era peccato farlo, Stati Uniti ed Europa sovvenzionavano i loro agricoltori con circa 300 miliardi di dollari l’anno. Le vacche europee sono le creature con la maggiore sicurezza alimentare del Pianeta. Per loro si spendono circa 2,70 dollari al giorno. Perciò quando a un leader contadino di Vidarbha domandarono quale fosse il sogno dell’agricoltore indiano, questi rispose: “Il sogno dell’agricoltore indiano è reincarnarsi in una vacca europea”».

Un’altra data importante, e ancora più vaga, è quella in cui il mondo ha cominciato a essere in grado di produrre cibo per tutti. Parla Caparrós: «Mi sono fatto l’idea che succeda a cavallo tra anni 80 e 90, ma mi piacerebbe che gli storici raccogliessero la sfida per una datazione accurata. Oggi viviamo nel paradosso che produciamo cibo per 12 miliardi di persone eppure quasi un miliardo è ancora denutrito. Dove vanno a finire i sei miliardi mancanti? Nei Paesi ricchi il 30-40 per cento lo buttiamo. Poi ci sono altri sprechi, tipo che per produrre un chilo di salmone in allevamento servono otto chili di altri pesci che lui si mangia. Quindi il cibo c’è, ma è distribuito molto iniquamente. Per consentire a noi di sbafarci un salmone o una bistecca serve che qualcuno che potrebbe mangiare altro non lo faccia. L’aveva già fatto notare l’attivista Lester Brown ogni volta che gli domandavano quanta gente è in grado di nutrire il nostro Pianeta: "Se tutti mangiassimo come gli americani, che ingurgitano tra gli 800 e i 1.000 chili di cereali a testa l’anno, soprattutto attraverso le carni prodotte con quei cereali, il raccolto mondiale di cereali potrebbe nutrire 2,5 miliardi di persone. Se tutti mangiassimo come gli italiani, che consumano due volte meno carne, si potrebbero nutrire 5 miliardi di persone. Se tutti seguissimo la dieta vegetariana degli indiani potremmo nutrire 10 miliardi di persone". Quindi dipende. Fuor di dubbio sono invece gli enormi passi avanti fatti nella produzione alimentare a partire dagli anni 60, quando il biologo Norman Borlaug scoprì, tra l’altro, un gene che faceva contrarre lo stelo del grano. Lo stelo più corto e più spesso consentiva alla pianta di sopportare molti più chicchi. In poco tempo la resa di ogni appezzamento si triplicò o quadruplicò».

La stessa idea, applicata al riso, risparmiò milioni di vite umane in India, dove lo scienziato americano venne chiamato come consulente del governo alla vigilia di una carestia imponente. Genetica, chimica, tecnologia sotto forma di fertilizzanti e nuovi sistemi di irrigazione moltiplicarono i raccolti. Per questo Caparrós si arrabbia per certe posizioni che trova un po’ caricaturali, alla Vandana Shiva, sulla difesa della via naturale all’agricoltura: «Da diecimila anni l’agricoltura è una lotta contro la natura, perché non prenda il sopravvento, per sviluppare le astuzie di scegliere la pianta che resiste meglio delle altre e così via».

Il tentativo di fare della natura una religione è tanto antico quanto pericoloso. L’autore cita la seguente frase: «L’uomo che tenta di ribellarsi alla ferrea logica della natura è coinvolto nella lotta contro i fondamenti cui deve la sua stessa esistenza come uomo, perciò la sua azione contro la natura lo porta inevitabilmente alla rovina» (lo scriveva Adolf Hitler in Mein Kampf, ma avrebbe potuto tranquillamente copiarlo-incollarlo un benintenzionato fricchettone dei tempi nostri).

Il problema, dunque, non sono affatto gli ogm che possono aiutare e molto nella lotta contro la fame, ma il loro sfruttamento economico. Il fatto che la Monsanto controlli il 90 per cento dei semi transgenici e che sia nella condizione di dettare condizioni capestro ai contadini che vogliono usarli. In questo schema, spiega lo scrittore porteño, il progresso tecnologico non è un tentativo di migliorare la vita, ma di fare in modo che alcuni accumulino più ricchezza: «Si tratta, dunque, di inventare un modo per impossessarsi di questi nuovi ritrovati: di individuare azioni politiche per mettere le nuove tecnologie al servizio di molti».

L’ultima data è l’unica precisa: 1991. Fu in quell’anno che Goldman Sachs decise che «il nostro pane quotidiano sarebbe potuto diventare un ottimo investimento». I loro quant ruppero l’ultimo tabù creando una specie di paniere finanziario che riproduceva l’andamento delle principali materie prime alimentari. Nacque così il Goldman Sachs Commodity Index e la gente cominciò a comprare le sue azioni. Nel 2003 gli investimenti valevano circa 13 miliardi di dollari. Nel 2008 invece 317. E i prezzi, sia dei titoli che dei cereali sottostanti (i due terzi delle nostre calorie provengono da riso, mais e grano), in quella sorta di profezia autoavverante che è il mercato, salirono alle stelle. I fortunati azionisti festeggiavano a ostriche preferendo non rendersi conto che quegli aumenti significavano la contestuale condanna a morte per milioni di persone meno fortunate per cui anche la palla di miglio era di colpo diventata una chimera.

Nell’ultimo anno i prezzi dei cereali sono scesi di parecchio. C’entra il rallentamento dell’economia cinese e soprattutto la caduta del prezzo del petrolio, grazie al fracking e altre variabili, che serve per far funzionare i trattori. «La cosa mostruosa» aggiunge Caparrós «è che, sebbene siano arrivati a costare anche la metà di soli pochi anni fa, nei Paesi poveri questa riduzione non si è vista. Si è misteriosamente fermata prima del livello dei consumatori».

Tra le tantissime cose che non sapevo prima di leggere questo librorientra anche l’andamento del numero dei denutriti nel tempo. Nel senso: ero convinto che si riducessero di anno in anno. È vero il contrario. Nel 1970 si calcolava che fossero 90 milioni solo in Africa, nel 2010 oltre 400 milioni. Come se non bastasse nel 1990 la Fao rinnega il metodo statistico usato sin lì e, rifacendo i calcoli, sostiene che gli affamati del '70 nel mondo non erano 460 milioni ma 941 milioni. «La cosa permetteva di affermare che i 786 milioni di quel momento, il 1990, non significavano un aumento della fame ma una diminuzione: 155 milioni di affamati in meno, un grande risultato». Totò e Peppino al Palazzo di Vetro.

In questa opera mondo c’è così tanta roba che si rischia di perdersi. Caparrós ha un occhio aguzzo per le disuguaglianze. Mette a confronto un ettaro americano, che produce fino a 2.000 tonnellate di cereali, con un ettaro del Sahel, che ne produce a stento uno, poco meno di quanto faceva un contadino della Roma antica. Oppure denuncia la contraddizione interna indiana, decimo Paese più ricco del mondo e primo per denutriti, che ogni tanto prova a mettere sul problemino delle goffe pezze simil-etiche («Pensano di avere scelto di essere vegetariani»). La verità è che siamo tanto più umani quanto più siamo sazi. E siamo tanto più umani quanto minore è il tempo che dobbiamo dedicare a saziarci (quasi tutto per gli animali, circa una settimana all’anno per i norvegesi: l’autore lo chiama «grado di umanizzazione»).

Omero usava "mangiatori di pane" come sinonimo per uomini. La fame è anche una delle ragioni principali che spiegano la differenza tra gli 82 anni di aspettativa di vita di un italiano contro i 41 di un mozambicano o dei 38 di uno zambiano. Eppure quelle vite dimezzate avranno un senso, nel grande schema delle cose, se Franklin Delano Roosevelt aveva ragione a dire che «gli uomini bisognosi non sono uomini liberi. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature».

Da allora il criterio per definire la classe media (che anche da noi si sta riducendo) è sempre stato che essa spende, in cibo, meno di un terzo dei propri introiti. Gli chiedo, nei tanti gironi di privazione che ha visitato, cosa l’abbia colpito di più. «Sono così tante che non sempre do la stessa risposta. Oggi mi viene in mente quella donna del Bangladesh che faceva bollire delle pietre in un marmitta per dare l’illusione ai figli che c’era qualcosa da mangiare. Così drammatico, e così inutile. Una metafora tra tante degli inganni che si accettano».

E quindi, alla fine, come cavolo facciamo a vivere sapendo tutto questo?Ci pensa un po’, si liscia il baffo e con tutto il coraggio del domatore di leoni dice: «Illudendoci di fare, ognuno per la sua parte, qualcosa che riduca il problema. Anche se servirà a poco o a nulla. Anche se, come mi hanno spiegato dei ragazzi di Medici senza frontiere, è come sperare di fermare un’emorragia femorale con un cerotto. Eppure quel cerotto ce lo mettono. Sempre. Giorno dopo giorno. Così dobbiamo fare noi. Non tanto per l’etica del risultato, ma per la necessità che sentiamo di farlo. La storia ci ha abituati alle sorprese. Perché dovremmo escludere di averne delle belle anche qui?». Già, perché. Sbaglia ancora, sbaglia meglio è l’esergo beckettiano del libro. Il finale è aperto. Mai come questa volta tutti possono contribuire a scriverlo.


Articoli di Riccardo Chiari e Francesco Ditaranto

Il manifesto, 30aprile 2016


A PISA IL MANGANELLO DAY
di Riccardo Chiari

“Che strana questa brillante modernità renziana. Si parla tanto di internet e innovazione, poi si continua ad usare il vecchio manganello”. Il commento di Tommaso Fattori fotografa bene quanto accaduto per ore nel lungo viale che costeggia il Cnr, con le ripetute, violente cariche della celere ai danni di un corteo di protesta organizzato nell’Internet day. A Pisa era arrivata la ministra Giannini, ospite del Centro nazionale ricerche per una iniziativa in ricordo del primo collegamento internet partito qui trent’anni fa. Mentre Matteo Renzi, che pure era annunciato, era rimasto a Roma. In sua assenza, l’ospite d’onore della giornata è stato, appunto, il manganello.

Il corteo, autorizzato, era partito pochi minuti dopo le 10 da piazza XX Settembre. In testa gli studenti medi e universitari, e fra il migliaio abbondante di manifestanti il comitato locale “Vittime del salvabanche”, altri comitati cittadini come quello del popolare Quartiere Cep, delegati e simpatizzanti dei sindacati di base Usb e Cobas, e attivisti delle variegate realtà della sinistra pisana. “Vogliamo arrivare al Cnr – raccontavano i manifestanti – è un pezzo della nostra città e della nostra storia. Ci devono ascoltare”.In realtà tutta l’area intorno al Cnr era stata considerata come “zona rossa”, e naturalmente l’accesso al Centro era stato vietato a chiunque avesse, anche solo lontanamente, l’idea di contestare il governo. Intanto lungo il tragitto i manifestanti scandivano slogan ed esponevano striscioni, fra questi spiccava: “Non accettiamo che Renzi festeggi il paese dove 6 milioni di persone vivono nella povertà”.

Una volta arrivato alla rotonda fra via Luzzato e via Volpi, con alle spalle i giardini pubblici, il corteo è stato bloccato dalla celere in assetto antisommossa. “Andate ad arrestate il Pd campano – hanno reagito i manifestanti – non i lavoratori”. E dopo alcuni lanci di uova e ortaggi è bastato che un uomo si staccasse dal corteo, per spingere lo scudo di plexiglass di un agente, per far partire le prime cariche. Molto violente.

Grazie a internet, le immagini girate dagli smartphone dei manifestanti e dalle telecamere dei videoreporter sono andate in tempo reale in rete. Comprese quelle girate da un giovane videocronista del gruppo Espresso-Repubblica, manganellato al volto mentre stava riprendendo. “Sono state almeno tre cariche a freddo – riepilogava Sebastian Parenti del comitato Quartiere Cep a Rai News 24 – anche a gente anziana. Hanno colpito indistintamente tutti, mentre stavo alzando un ragazzo da terra mi sono venuti addosso in cinque e mi hanno trascinato via”.

Un altro manifestante segnalava l’assenza del presidente del consiglio: “Ha paura. Avrebbe dovuto essere qui in un evento che celebrava la rete, quando la rete è proprio il nemico giurato di Renzi, che scappa. Il ‘Ciaone’ degli esponenti del Pd lo rispediamo al mittente. Ciaone Renzi, che ormai non si presenta a interventi pubblici”. Nel mentre, con il corteo rimasto fermo nei giardini sempre fronteggiato da alcune decine di agenti, venivano curati alcuni ragazzi feriti alla testa dalle manganellate.

Nonostante il tentativo di accreditare ai manifestanti la responsabilità delle cariche, l’Associazione stampa toscana e il Gruppo cronisti toscani hanno denunciato: “Siamo consapevoli dei rischi, anche fisici, che si corrono seguendo gli avvenimenti di cronaca. Ma ci rivolgiamo anche alle forze dell’ordine, chiedendo quantomeno attenzione e tutela per chi si trova sul posto a svolgere la propria attività professionale”. Tira le somme Fattori, consigliere regionale di Toscana a Sinistra: “Dice Renzi che si tratta di scontri ‘incomprensibili’ e in effetti sono incomprensibili. Il fatto è che Renzi deve chiederne conto ai responsabili del disordine pubblico, dato che una ragione per manganellare i manifestanti proprio non c’era”.
NO AL CORTE DI LOTTA STUDENTESCA A MATERA

NEL GIORNO DELLA FESTA DEI LAVORATORI
di Francesco Ditaranto

Salvo ripensamenti dell’ultimo minuto, al momento improbabili, da parte delle autorità, il 1° maggio la città di Matera sarà teatro della sfilata di Lotta Studentesca, costola giovanile del movimento d’estrema destra Forza Nuova.

La notizia ha cominciato a circolare sui social network nei giorni scorsi, scatenando un’aspra polemica nella città lucana. In poche ore, è stata lanciata una petizione online per ottenere che la manifestazione fosse vietata. Per i cittadini che, a vario titolo, sotto l’insegna Matera Antifascista e non solo, stanno chiedendo di bloccare l’iniziativa, si tratta di un’intollerabile provocazione di matrice neo-fascista. Matera non è soltanto la capitale europea della cultura 2019, dunque una grandissima vetrina mediatica, ma rappresenta la prima testimonianza nel Mezzogiorno di sollevazione contro gli occupanti nazisti. Quella insurrezione, avvenuta il 21 settembre del ’43, valse alla città il conferimento della Medaglia d’Argento al Valore Militare. E come ogni anno, lo scorso 25 aprile, le autorità locali hanno ribadito quale fondamentale importanza abbia la Resistenza nella cultura democratica della città.

Eppure, nelle ore seguenti alla celebrazione ufficiale della Liberazione, si è consumato un corto circuito politico. La minoranza di centrosinistra ha presentato, in Consiglio Comunale, un ordine del giorno che stigmatizzava l’ipotesi di un corteo dell’estrema destra, e chiedeva al sindaco De Ruggieri di adoperarsi con le autorità competenti per scongiurare lo svolgimento di una manifestazione incompatibile con i valori della Festa dei Lavoratori. L’ordine del giorno, però, non è stato votato perché mancava il numero legale. Ma nella maggioranza (particolarmente composita per sensibilità e percorsi politici) c’è chi non ci sta.

I consiglieri che si richiamano a una tradizione di sinistra e sindacale, hanno ribadito nuovamente, nelle ultime ore, la necessità di dare priorità al valore del 1° maggio, quando in questione ci sono principi universalmente riconosciuti e costitutivi della democrazia repubblicana. Facile leggere, tra le righe, un invito, innanzitutto al sindaco, ad assumersi le sue responsabilità.

Dal primo cittadino, tuttavia, è giunta una risposta che appare vaga ai più, nella quale si conciliano i riferimenti all’importanza delle lotte dei lavoratori con quelli al diritto a manifestare come elemento imprescindibile della nostra Costituzione. Questo richiamo al diritto di esprimere le proprie opinioni, riferiscono quanti hanno partecipato giovedì a un sit-in sotto la Prefettura, ricevuti poi in delegazione proprio dal Prefetto, sarebbe all’origine della decisione di permettere lo svolgimento della sfilata, che si terrà abbastanza lontano dal centro città.

Antifascisti e sindacati celebreranno, invece, la Festa dei Lavoratori con un concerto in una piazza del centro storico. In un clima teso, questa mattina si dovrebbe tenere una seduta del Consiglio Comunale, che in molti sperano possa produrre, finalmente, una presa di posizione ufficiale alla vigilia della sfilata dell’estrema destra.
Riferimenti
Mario Scelba è stato Ministro dell'interno negli anni della più dura repressione delle lotte operaie e contadine. Una sintesi dell'attivita reazionaria ed anticostituzionali di Scelba
è offerta da Wikipedia

«Mentre al Brennero e su altri confini si alzano vergognose barriere, la Ue con il Migration compact cerca di spostare fuori dalle proprie frontiere controlli e concessione dei permessi per i profughi. Puntando sugli aiuti allo sviluppo. Che rischiano di finanziare governi autoritari e non fermano i flussi migratori».

Lavoce.info, newsletter 29 aprile 2016 (m.p.r.)


Il governo italiano ha preso l’iniziativa in Europa sul controverso tema delle migrazioni e dell’asilo, presentando un progetto, nelle intenzioni ambizioso anche se nei dettagli ancora molto vago, il . I commenti si sono appuntati quasi tutti sulle reazioni tedesche e sulla questione del finanziamento del programma, trascurando i contenuti o lasciando trasparire un consenso di fondo.

L’intento è chiaro e va nella direzione del senso comune: affidare ad altri i controlli, accogliere chi ne ha il diritto al di fuori dell’Europa, preservare l’Unione da scomodi obblighi umanitari, evitando i deplorevoli rimbalzi dei profughi all’interno dell’Unione Europea. Non per nulla, il modello a cui il testo s’ispira è quello del controverso accordo con la Turchia.
Il testo inizia parlando di un’Europa posta di fronte a fenomeni migratori “crescenti” e “senza precedenti”, in contrasto con dichiarazioni assai più pacate rilasciate anche nel recente passato dal presidente del Consiglio. Va ricordato ancora una volta: le migrazioni nell’Ue sono nel complesso stazionarie, intorno ai 51 milioni di persone compresi i 17 milioni di migranti intraeuropei, su circa 500 milioni di abitanti (Dossier immigrazione 2015). È aumentato soltanto il contingente molto più modesto, ma ingombrante, dei richiedenti asilo: 628mila domande nel 2014, comunque non molti rispetto ai numeri di Turchia, Libano, Giordania. L’86 per cento dei rifugiati mondiali continua a trovare scampo in paesi del cosiddetto Terzo Mondo.
Malgrado l’esordio, il assume una posizione meno rigida rispetto all’Agenda europea di un anno fa su un punto importante: l’apertura a nuovi ingressi legali in Europa anche per motivi di lavoro, in modo da offrire un’alternativa credibile agli arrivi illegali. Per il resto, tuttavia, i termini ricorrenti sono controllo dei confini, sicurezza, gestione dei flussi, rimpatri. Parole come diritti umani, protezione dei rifugiati sono pressoché assenti.
Il testo parla di gestione dell’asilo in loco secondo standard internazionali, ma evita di porre alcune serie questioni: come possono offrire una protezione umanitaria adeguata ai rifugiati stranieri paesi che non riescono a offrirla ai propri cittadini? E se lo faranno, grazie ai finanziamenti dell’Ue, come potranno controllare il risentimento di cittadini che riceveranno servizi assai più poveri di quelli forniti ai rifugiati? E come controlleranno i richiedenti asilo denegati, che prevedibilmente cercheranno di sottrarsi alle espulsioni?

Aiuto allo sviluppo o alla repressione?

Altri problemi riguardano le promesse di aiuto allo sviluppo. Sono sostanzialmente due. Il primo è il rischio di finanziare i governi autoritari e bellicosi che sono all’origine dei flussi di rifugiati, o comunque gravemente condizionati da corruzione e inefficienza. Il dubbio è che si intenda finanziare la repressione delle migrazioni e del diritto di asilo, più che lo sviluppo: una repressione più facile da attuare lontano dalle telecamere europee, dal controllo delle organizzazioni umanitarie e dai sussulti di umanità delle opinioni pubbliche occidentali.

Il secondo problema consiste nell’erronea persuasione che i migranti arrivino dai paesi più poveri e che lo sviluppo possa fermarli. È vero il contrario: le migrazioni sono processi selettivi, partono coloro che dispongono di risorse. Con lo sviluppo, aumentano le persone che trovano accesso al capitale economico, culturale e sociale necessario per partire. In una prima, non breve, fase, lo sviluppo quindi fa crescere e non diminuire il numero dei migranti. Solo nel lungo periodo si riducono le nuove partenze.
La promozione dello sviluppo è un obiettivo nobile, ma combinata con le pretese di controllo delle migrazioni finisce in un corto circuito. Del resto, nel mondo sanno bene che le rimesse degli emigranti forniscono aiuti ben più consistenti e tangibili delle promesse dei governi occidentali: le previsioni della Banca mondiale per il 2016 parlano di 610 miliardi di dollari inviati verso i paesi in via di sviluppo. La rincorsa del Migration compact sarà ardua.

Mentre da una parte si tortura e si uccide, dall'altre si balbetta e si accetta ogni inominia per non perdere affari d'oro. Forse perché Giulio era un ricercatore innocente e non un assassino in uniforme. Articoli di Eleonora Martini e Luigi Manconi. Il Manifesto, 30 aprile 2016

GENTILONI BALBETTA,
IL CAIRO MORDE

di Eleonora Martini

La chiama «collaborazione assolutamente inadeguata», il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ma dalle autorità egiziane, ben lungi da ammettere la sistematica violazione dei diritti umani in patria, continua ad arrivare solo qualcosa di più simile ad una sfacciata provocazione.

Probabilmente il titolare della Farnesina pronunciando queste parole ieri non si riferiva all’ultima sfida lanciata dal vicepresidente della Camera dei rappresentanti del Cairo, Soliman Wahdan, che ha rinverdito la falsa pista di Giulio Regeni spia dell’intelligence, arrivando perfino a paventare «enormi problemi» con l’Italia se ciò risultasse vero. Né di certo alle invettive dell’ex ministro dell’Interno Mohamed Ibrahim Yossef che ieri ha di nuovo rilanciato la tesi del complotto «criminale». E neppure alle richieste fin troppo propagandate dal ministero degli Esteri egiziano di fare altrettanta chiarezza su casi di cittadini scomparsi o morti in circostanze da chiarire a Roma, a Chicago e, ultimo, lunedì scorso a Londra, come risposta esplicita alle pressioni esercitate anche dal governo britannico e da quello americano sul caso Regeni.

Però non può essere sfuggito, al ministro Gentiloni, che uno dei capi di imputazione addossati ad Ahmed Abdallah, il consulente della famiglia Regeni arrestato il 24 aprile scorso, è di «leader di gruppo terroristico», un reato per il quale rischia la pena di morte.

Difficile dunque capire a cosa si riferisca l’esponente del governo Renzi quando parlando aRadio 1 ieri mattina ha confermato «la nostra pressione e la nostra ricerca di verità» sul caso Regeni anche se «purtroppo l’Italia ancora non ha avuto risposte soddisfacenti» dal Cairo. Per Gentiloni aver richiamato per consultazione l’ambasciatore Maurizio Massari dall’8 aprile scorso è stato già «un gesto molto forte nei rapporti tra Stati». Ora il governo attende solo di vedere i «risultati» dei «nuovi contatti tra le procure», dopo che il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone «ha inviato una nuova rogatoria in Egitto». Sia chiaro, precisa il ministro: «Se qualcuno immaginava che il trascorrere del tempo avrebbe diminuito l’attenzione dell’Italia, per noi il ritorno alla normalità delle relazioni dipende solo da una collaborazione seria che continuiamo ad esercitare anche con altre forme una pressione diplomatica perché si arrivi alla verità, ma sappiamo che non sarà facile».

Il capo della Farnesina riferisce ancora di aver «parlato della questione anche a Lussemburgo», riscontrando durante la riunione dei ministri degli Esteri europei «una consapevolezza generale del fatto che si sia trattato di un caso gravissimo, anche per le modalità terribili in cui è avvenuto». Ma nelle parole di Gentiloni si percepisce la preoccupazione del governo Renzi di perdere nuove opportunità per una partnership privilegiata con il regime di Al Sisi: «Non siamo ingenui – ha ammesso il ministro – sappiamo che in questo raffreddamento delle relazioni tra Italia ed Egitto ci sarà qualcuno che cercherà di inserirsi per conquistare relazioni privilegiate nei rapporti con il Cairo». Anche se, ha concluso, «non possiamo essere mossi in modo prevalente da questo».

Molto meno cauto, il discorso pronunciato davanti alle telecamere di un’emittente privata cairota, la Ten Tv, dal vicepresidente della Camera egiziano: «L’omicidio di Regeni rappresenta un incidente isolato ed è stupido accusare il governo di aver avuto un ruolo in questo crimine – ha detto Soliman Wahdan – L’Egitto è uno stato di diritto e lavorerà per trovare i responsabili e giudicarli. Se però fosse dimostrato che Regeni era una spia si creerebbe un problema enorme tra l’Egitto e l’Italia. La fiducia tra i due paesi verrebbe meno».

Secondo l’Agenzia Nova, la seconda carica del Parlamento egiziano ha poi ripetuto la versione ufficiale egiziana paragonando l’omicidio Regeni a quello del procuratore generale Barakat, come «già in passato avevano fatto sia il presidente Abdel Fatah al Sisi che il ministro dell’interno Shoukry», riferisce l’agenzia stampa internazionale. «Per il nostro procuratore generale Nabil Sadeq, Regeni non è meno importante del martire Hesham Barakat – ha affermato il vicepresidente della Camera Wahdan – Anche se Barakat è stato ucciso in un attacco terroristico, dopo 7 mesi abbiamo trovato i colpevoli. Le indagini richiedono tempo. La delegazione che si è recata in Italia per fare il punto sulle indagini ha fatto il suo dovere, nonostante le accuse al governo egiziano».

E invece per le opposizioni italiane è ormai “time out“: l’«attenzione» assicurata dal ministro Gentiloni, dicono, va sostituita con azioni concrete. Secondo Nicola Fratoianni, Sinistra Italiana, «forse è arrivato il momento di dichiarare l’Egitto “Paese non sicuro” soprattutto se, come sta accadendo, si inasprisce ancor di più la repressione del regime di Al Sisi nei confronti degli attivisti egiziani per i diritti umani». Per i deputati della commissione Esteri del M5S, «il governo deve attuare, ora più che mai, un immediato embargo di armi e di ogni materiale che possa essere utilizzato dal Paese per la sua repressione interna, come previsto da una decisione del Consiglio dell’Unione europea dell’agosto 2013 e come richiesto con vari atti presentati alla Camera».

NE UCCIDE PIU' L'EUFEMISMO
CHE LA SPADA

di Luigi Manconi

Siamo in molti – persone pacate, razionali e fin moderate – a chiederci: ma che cosa si sta aspettando? Che cosa sta aspettando l’Italia per far sentire la propria voce e tutta la propria determinazione alle riluttanti, e sempre più ostili, autorità egiziane? Dopo il richiamo dell’ambasciatore italiano al Cairo – provvedimento significativo, anche se assunto in ritardo – si è parlato insistentemente di «nuove misure allo studio». Ma finora, di quelle possibili misure, non si è colta alcuna traccia.

E proprio ieri il ministro degli Affari esteri, Paolo Gentiloni, ha pronunciato parole che non possono in alcun modo rassicurare. Certo, ha dichiarato la propria «insoddisfazione» ma – per definire l’atteggiamento delle istituzioni egiziane – ha utilizzato la seguente formula: «collaborazione assolutamente inadeguata». Ora, qui siamo incondizionatamente disponibili ad assecondare l’arte della parafrasi fino alle sue più esauste espressioni, ma le parole sopportano una deformazione eufemistica che pure ha un suo limite. E chiamare inadeguato un atteggiamento, quello del regime egiziano, che è decisamente oltraggioso, mi sembra davvero troppo. Tanto più che il ministro Gentiloni sembra seriamente impegnato nel tentativo di trovare una soluzione e qualche mossa opportuna, l’ha pur fatta.

Ma sembra anche risentire di una sorta di complesso di inferiorità che, tradizionalmente, la nostra politica estera ha rivelato di fronte a congiunture particolarmente drammatiche e a conflitti che tendevano a farsi più acuti. In altre parole, il governo italiano temporeggia, differisce, esita. E, in un gioco geopolitico tanto complesso e delicato, rischia non solo di lasciare l’iniziativa al regime di Al Sisi, ma anche di concedergli un tempo eccessivo per decidere le proprie mosse, modificarle, adattarle all’evolversi delle circostanze. E, invece, palesemente non c’è tempo da perdere.

Da settimane più voci sostengono la necessità di fare pressione su alcune essenziali leve economico- commerciali all’interno del sistema dei rapporti tra Italia e Egitto. Mi limito qui a considerare una sola di tali leve: quella relativa ai flussi turistici. Nonostante il notevole calo registrato negli ultimi anni, questo settore rappresenta tutt’ora una percentuale assai elevata (non lontana dal 13%) del prodotto interno lordo. L’ipotesi di ricorrere a questo strumento democratico di pressione e a questo esercizio di forza rigorosamente non bellica, costituisce il senso di un appello che oltre 100 europarlamentari hanno indirizzato all’Alto rappresentate per gli affari esteri dell’Unione europea, Federica Mogherini (ed è possibile aderire scrivendo a: abuondiritto@abuondiritto.it) . Ma è un’opinione che si va largamente diffondendo: un osservatore equilibrato come Lucio Caracciolo ha dichiarato opportuno che il governo «sconsigli formalmente agli italiani il turismo in Egitto».

E in senso analogo si sono pronunciati autorevoli columnist di giornali stranieri; ed è di qualche giorno fa la decisione dell’Associazione italiana per il turismo responsabile (Aitr) di sospendere le proprie attività verso l’Egitto. Insomma, rappresentanti istituzionali e studiosi, associazioni e soggetti organizzati della vita collettiva, si orientano verso un obiettivo capace di rispondere alla necessità di interferire proficuamente nel complesso di relazioni tra l’Europa e l’Egitto. Si afferma l’idea che l’Egitto vada dichiarato un paese non sicuro perché non lo è stato per Giulio e potrebbe non esserlo per i tanti turisti, lavoratori, studenti e ricercatori europei che vi si recheranno in futuro.

E perché non lo è, in questo momento, per centinaia e centinaia di egiziani reclusi, per coloro che sono stati rapiti e sottoposti a torture e sevizie, per quanti sono spariti per poi essere ritrovati cadaveri. E ogni giorno al quadro, già gravemente compromesso, si aggiungono ulteriori elementi, a cominciare dai recentissimi arresti di massa di giornalisti e militanti politici. Pensiamo a quanta angoscia può aver provocato ai genitori e ai legali di Regeni la notizia dell’incarcerazione per promozione del terrorismo di Ahmed Abdallah, attivista per i diritti umani, e prezioso interlocutore di Amnesty international e dei familiari di Giulio Regeni.

Ebbene, questa esibita brutalità della repressione di stato, sembra contenere un messaggio di sfida nei confronti di quanti, non solo in Italia, denunciano la pesantissima torsione dispotica che il regime va rapidamente assumendo. Una sfida cui il governo italiano non può che rispondere con atti formali sempre più determinati, altrimenti si rischia di rimanere inevitabilmente subalterni alle scelte di Al Sisi. A quasi tre settimane dal richiamo in patria dell’ambasciatore italiano in Egitto, infatti, e in assenza di alcuna rilevante novità sul caso, il nostro governo non può che dichiarare l’Egitto paese non sicuro, con tutto ciò che questa decisione comporta.

Anche perché suona stridente fin quasi a manifestare un’offensiva insensibilità, certo non consapevole, che sul sito Viaggiare sicuri della Farnesina, nella sezione sicurezza, è come se la morte di Giulio Regeni non solo non risulti registrata, ma è come non fosse mai avvenuta. Vi si legge, infatti, che «in considerazione del deterioramento della generale situazione di sicurezza nel Paese» si consiglia di «di evitare i viaggi non indispensabili in Egitto in località diverse dai resort sul Mar Rosso e dalle aree turistiche dell’Alto Egitto e di quelle del Mar Mediterraneo» e si raccomanda la massima prudenza dato il clima di «instabilità e turbolenza che spesso sfocia in turbative per la sicurezza e in azioni ostili anche di stampo terroristico». Ancora una volta: ne uccide più l’eufemismo che la spada.

«Il passo che per secoli non era stato frontiera riscoprì la vita nel dopoguerra. Poi venne la stagione dei camion e quella dei transiti, di merci e di esseri umani, quando non si immaginava il ritorno delle barriere».

LaRepubblica, 30 aprile 2016 (c.m.c.)

Grüne Karte, chiedevano a mio padre. Dal finestrino della Giardinetta lui mostrava la carta verde dell’assicurazione e la Grenzpolizei gli faceva segno di passare. Dal sedile posteriore (avevo dieci anni) vedevo soltanto il cinturone di cuoio dell’agente e le ruvide braghe in lana cotta verde marcio. Si consumava così, con un frettoloso controllo di documenti, il passaggio al Brennerpass, alla fine degli anni Cinquanta. Con un brivido quasi afrodisiaco, si andava oltre, a comprare speck affumicato alla macelleria di Alois Flickinger, a Gries, un borgo di trenta case con campanile aguzzo. E poi Schüttelbrot, rhum, pane nero, mentine bianche. L’Austria per me aveva il profumo di quelle mentine. Con la stessa euforia, i “tedeschi” si calavano su Vipiteno (Sterzing) a fare incetta di bambole, gondolette di legno e vino da osteria nell’inverosimile bazar di Maria Bernmeister. Per loro l’Italia era odore di ragù e finanzieri meridionali gesticolanti. Arrivavano in sidecar o vecchi Maggiolino con gli occhi felici del nordico che entra nel Paese dei limoni.

La guerra era finita da non molto e uno su dieci di loro aveva una gamba sola o portava altri segni di invalidità. Gli attentati che nel nome della Heimat tiravano giù i tralicci del Sudtirolo non disturbavano gli affari dei bottegai sui due lati del passo. Per via dell’antiterrorismo, la frontiera era pattugliata dall’esercito, ma per noi il passaggio era una festa. Mio padre era ufficiale dell’Esercito e nelle settimane di ferie — d’estate o in inverno — soggiornava spesso con la famiglia negli alberghi militari, sistemati, lì come a Tarvisio, in ex caserme austroungariche. A Colle Isarco (Gossensass) fiumi di alpini uscivano con i muli in una scia di escrementi e anche in vacanza i militari di carriera vivevano un clima eccitante da Fortezza Bastiani. Certo, si andava a fare la spesa «di là», ma egualmente quella presenza armata era vissuta come necessaria per pattugliare il sacro spartiacque della Patria.

A pochi sembrava importare che per secoli il Brennero non fosse mai stato frontiera e che fino al novembre 1918 l’Austria avesse avuto il confine sul Garda. Brennero era il mio mondo e io lo vivevo inconsapevole di tutto. Del dramma delle opzioni e dei treni di ebrei che meno di quindici anni prima erano passati di lì diretti ad Auschwitz. Mia mamma mi aveva conciato con braghe corte di cuoio alla tirolese e un cappello da alpino verde scuro con penna di gallo e una quantità di stemmi colorati acquistati sui passi, dalla Svizzera alle Giulie. Andavo in gita al rifugio “Bicchiere” in fondo alla Val di Fleres, senza sapere che quel nome era la ridicola traduzione di Becker Hütte, e ogni domenica alle dieci aspettavo con ansia la banda degli Schützen ignaro del messaggio identitario implicito in quei tamburi e delle mie stesse radici (sono triestino) mitteleuropee.

I treni funzionavano meglio di oggi che c’è l’Europa unita. Lo scalo ferroviario del Brennero era un mondo. Locomotori esausti dopo la lunga salita da Fortezza. L’incontro con i rocciosi macchinisti delle Österreichische Bundesbahnen. Le case dei ferrovieri, personaggi mitici che mi portavano a funghi e sapevano come sconfinare senza farsi beccare dalla polizia, per mettere le mani sui porcini appena nati sotto il tappeto d’aghi degli abeti austriaci.
Un muratore enorme di nome Andreas Untertoller mi prendeva sulle ginocchia e mi parlava in un misto affascinante di tedesco e italiano. Il Brennero era il luogo dell’incontro e dello scambio.

Poi venne la stagione dei camion. I tubi di scarico annerivano la neve da novembre a marzo. Certe volte la fila cominciava a Mules, 25 chilometri prima. Il terrorismo era finito, a Bolzano si era instaurata una tesa non-belligeranza fra italiani e tirolesi, e io continuavo a sconfinare in allegria, stavolta con gli sci, per montagne intatte, senza impianti. A furia di soggiorni militari, avevo imparato ogni segreto delle valli. Le conoscevo meglio dei finanzieri. Si saliva con le pelli di foca per scendere a Obergurgl o raggiungere la Nürnberger Hütte in Stubaital. Chissà quante volte sarò passato sopra la mummia di Ötzi, padre di tutti i contrabbandieri, ancora sepolta nella neve. Imparai il tedesco in ospedale, a Vipiteno, dopo essermi rotto una gamba in un canalone. Sempre lì, sotto il Brennero.

La stagione dei nuovi muri era ancora lontana. L’Europa viveva la sua primavera, il confine non poteva che aprirsi di più, il Brennero era diventato una formalità. Nel luglio del 1989 sul treno per Innsbruck incontrai un viennese di nome Jozsef Barna, nato in Ungheria, dalla quale era scappato dopo la repressione sovietica del 1956.

Era un’altra storia di frontiera. Mi raccontò la sua fuga, la sua vita di immigrato che ce la fa. Guardò gli abeti in corsa fuori dal finestrino e disse: «La patria è quella che ti nutre, e io ho considerato subito l’Austria la mia nuova patria. Sono diventato austriaco. I nuovi immigrati non sono più così. Restano estranei». Pochi giorni prima la cortina di ferro era stata smantellata dai soldati ungheresi sulla stessa frontiera che lui aveva attraversato rischiando la pelle. Eppure il signor Barna era inquieto.

Con la guerra dei Balcani la macchina delle fughe si rimise in moto, e per il Brennerpass cominciarono a transitare bosniaci, kosovari, serbi. Molti si erano fermati in Italia, ma il sogno della maggioranza era il mondo tedesco. L’Austria fece il suo dovere, assorbì anche i ceceni in fuga dalla repressione di Putin. Per i nuovo arrivati era una pacchia. Assistenza statale, 2mila euro per le famiglie con tre figli, appartamento sovvenzionato. Lo slogan del sindaco di Vienna era « Humanität und Ordung »,umanità e ordine. Ma qualcosa nel meccanismo cominciava a incepparsi. La piccola Austria entrava in Schengen ma rischiava di non reggere all’urto. E l’inquietudine si trasformava in voti per i populisti di Jörg Haider.

Oggi il sistema scolastico di mezza Austria è collassato. Il 40 per cento dei bambini, immigrati o profughi, parla un tedesco che sarebbe inascoltabile al vecchio Jozsef. I nuovi arrivati sono osteggiati dagli immigrati di vecchia data, che spesso votano populista. Certe comunità, come i 30mila ceceni della Capitale, sono impossibili da integrare. Molti di essi vanno a combattere in Siria godendo dell’aiuto finanziario dello Stato austriaco. In alcuni quartieri si parla tutto meno che tedesco. Circolano bande divise per etnie; ceceni e afghani si affrontano col coltello. Il numero delle donne velate aumenta. Una femmina europea sola in certi quartieri ha problemi a entrare in un bar.

Dopo aver passato centinaia di volte questa frontiera, scusate se non me la sento di accusare l’Austria di troppa chiusura. Se Vienna ha sbagliato, è per troppa apertura. E noi Italiani — bravi a salvar vite ma meno bravi a integrare — dovremmo avere l’onestà di dire che questa grande fuga verso il Nord ci fa anche un po’ di comodo. Povero vecchio Brennero, non ti riconosco più. Troppa pressione. Ormai sono due anni che, quando prendo il mio treno transalpino per Monaco, vedo salire a bordo la polizia austriaca già a Rovereto, insieme a quella italiana. Questo già prima del clamoroso gesto di benvenuto di Angela Merkel nei confronti dei siriani.

Oggi, questa nuova barriera che nella primavera del 2016 taglia non solo l’Europa ma lo stesso Tirolo in due parti, fa assai più male del vecchio confine con la sbarra bianco-rossa. Oggi che sul confine ci somigliamo più di prima, oggi che dalle due parti governano lo stesso Globale, lo stesso spaesamento, le stesse tempeste finanziarie e migratorie, proprio oggi — in Austria come in Italia — sento diffondersi la pericolosa illusione che «chiudersi è meglio», alla maniera balcanica. E allora sento che c’era forse più Europa al tempo dei passaporti e della Grüne Karte.

Un esempio soft e un esempio hard con cui si guarda all'evento biblico dell'esodo dai paesi della miseria e del terrore: soggetti pericolosi per la "nostra" salute e per la "nostra" sicurezza, non uomini, donne e bambini che, come tutti, meritano d'essere difesi e curati.

Il Manifesto, 30 aprile 2016


UNA TESSERA SANITARIA
TRACCERA' I MIGRANTI

«Partiamo con il progetto tessere sanitarie ai migranti», ha annunciato la ministra della salute, Beatrice Lorenzin. La tessera – simile a una smartcard, con i dati sulla salute della persona, ma anche un software statistico che grazie a un algoritmo consentirà al medico in tempi stretti di valutare il rischio che un migrante ha di sviluppare particolari malattie infettive, fino a visite mirate per la determinazione dell’età dei ragazzi non accompagnati – rientra nel progetto Ue «Care», con l’Italia capofila con l’Istituto Nazionale Salute, Migrazioni e povertà (Inmp), e sarà consegnata da luglio negli Hotspot di Lampedusa e Trapani, oltre che in quelli degli altri paesi coinvolti (Grecia, Malta, Croazia, Slovenia).

«Tracceremo lo stato di salute di ogni singolo migrante che entra in Europa e garantiremo, allo stesso tempo, anche una maggiore sicurezza perché si introdurrà un elemento di tracciabilità delle persone in entrata», dice Lorenzin.

I migranti al di sotto dei 18 anni rappresentano circa il 30% degli arrivi. Molti di loro non sono accompagnati, capire quanti anni hanno gli adolescenti non è sempre facile.

«Fino ad oggi – spiega Gianfranco Costanzo, dell’Inmp, coordinatore del progetto Care – abbiamo utilizzato la radiografia del polso. Il nostro ministero della Salute ha messo a punto un metodo olistico multidisciplinare, approvato dalla Conferenza delle Regioni, che prevede una visita del pediatra auxologo e quella di un pediatra dell’età evolutiva. La loro valutazione incrociata, senza necessità di radiografie, permette una valutazione molto più precisa», aggiunge il coordinatore sottolineando che il progetto complessivo «è stato sviluppato per la tutela della salute del migrante. Un’attività che, se efficace, ha come conseguenza anche una maggiore tutela della salute della comunità di accoglienza», conclude Costanzo.
UN PIANO UE PER FERMARE I MIGRANTI.
CON «MISURE DRASTICHE»

L’Ue, in accordo con il nuovo governo libico sostenuto dall’Onu, sta preparando un piano per impedire «con misure drastiche» il flusso estivo di profughi dal Nord Africa attraverso la rotta mediterranea. Tra le misure, oltre alla creazione di «centri temporanei di raccolta per profughi e migranti» sul suolo libico, si menziona l’ipotesi di «aree di carcerazione». Lo rivela Der Spiegel online che ha visionato un documento di 17 pagine elaborato dal servizio europeo per l’azione esterna che sostiene l’attività dell’Alto rappresentante Ue. Sui centri raccolta e campi di detenzione, gli esperti Ue sottolineano la necessità di trattare con dignità e rispetto dei diritti dell’uomo i migranti e di prestare attenzione alle condizioni speciali di bambini e donne. Sul piano operativo si prospettano aiuti nella formazione di una guardia costiera e di una marina libica attraverso il supporto della missione marina antiscafisti Ue Sofia e nella costruzione delle infrastrutture di polizia e giustizia. Il documento evidenzia inoltre le difficoltà di individuare al momento interlocutori libici sicuri.

«L’Ue ha più volte detto di essere pronta a sostenere il governo libico in un certo numero di settori, incluso l’aiuto umanitario, la migrazione, la sicurezza. È stato ribadito anche all’ultimo consiglio Esteri. Il lavoro preparatorio è in atto, in particolare per sostenere la gestione delle frontiere, lottare contro la migrazione irregolare ed i trafficanti», così un portavoce dell’Unione europea, dopo la pubblicazione di Der Spiegel. «Il rispetto per i più alti standard dei diritti umani e delle leggi internazionali è al centro del nostro lavoro. E questo è il principale obiettivo del nostro lavoro preparatorio: dare sostegno alle autorità libiche affinché assicurino che la gestione di migranti e profughi in Libia sia in linea con questi standard, per assicurare loro condizioni dignitose – afferma il portavoce -. Continueremo a lavorare in stretto coordinamento con l’Unhcr e l’Oim per aiutare nella gestione dei flussi di migranti e richiedenti asilo».

e o tra forza lavoro occupata e forza lavoro disperata. Il manifesto, 30aprile 2016

È denso e tagliente l’ultimo libro di Gigi Roggero, . Note su soggettività e composizione di classe (DeriveApprodi, pp. 213, euro 13). Ed è attraversato dalla ricerca di quello sguardo, di quella linea di condotta, di quel grimaldello di cui il militante ha bisogno per agire nel tempo presente della lotta di classe. La lotta tra un capitale pervasivo nelle forme del suo sfruttamento e una classe che appare e scompare nelle forme della sua soggettività, del suo rifiuto, dei suoi desideri, della sua vita. Nelle forme, soprattutto, della sua scomposizione. Un capitale che, per distruggere l’autonomia della classe operaia fordista, si è trasformato in «capitale-crisi», incapace di innescare nuovi cicli di sviluppo perché privo della sua più grande forza produttiva, la classe operaia stessa. «Perché la classe operaia può essere autonoma, il capitale no: strutturalmente dipende dal proprio nemico. La crisi è esattamente questa nemesi storica». Con esiti che si riverberano, lacerandolo, all’interno del pensiero critico con, da un lato «una mitologica composizione di classe senza operaismo, dall’altro un mitologico operaismo senza composizione di classe».

Inevitabile, nella ricerca di Roggero, interrogarsi sul passaggio storicamente determinato dall’operaio massa all’operaio sociale e da quest’ultimo al lavoratore cognitivo, un passaggio non solo tecnico, determinato dalla composizione organica del capitale e dalle forme dell’organizzazione dei processi produttivi, ma anche politico, che rimanda alle forme della sua organizzazione, della costruzione di processi di lotta, di «controsoggettività», di strategie, cioè di anticipazioni. Il che significa ripercorrere in modo genealogico il concetto di composizione di classe, cioè tentare di rispondere, e sempre di nuovo rispondere, alla domanda posta da Marx: che cosa costituisce una classe? «La classe – in senso marxiano, dunque forte – non è una questione di stratificazione, ma di contrapposizione». Nelle parole di Mario Tronti: non c’è classe senza lotta di classe. Classe significa antagonismo di classe, quell’antagonismo che portò alla giornata lavorativa normale e che da allora ha segnato i tempi della nostra civilizzazione.

Se composizione tecnica e politica della classe si intrecciano continuamente, non per questo le due composizioni si specchiano l’una nell’altra. Ad essere decisiva nella composizione di classe, più che la coscienza astratta di classe, è la soggettività, e più ancora la controsoggettività. «Solo nelle strade insanguinate di Pietroburgo gli operai sono diventati classe», solo seguendo la misteriosa curva della retta di Lenin si può deviare, interrompere e rovesciare lo sviluppo del capitale. Qui il problema non è solo quello della soggettività costituente della composizione di classe, bensì anche quello dell’autonomia operaia e della sua organizzazione, della sua direzione politica, del partito. Il leninismo di Gigi Roggero è tutto dentro questi rapporti. Ed è la parte più difficile della riflessione di Roggero: come arrivare prima, per evitare di non arrivare proprio. Come risolvere la risposta che Romano Alquati, suo vero maestro, diede alla domanda se gli operaisti si aspettassero Piazza Statuto e l’espolosione delle lotte: «Noi non ce l’aspettavamo, però l’abbiamo organizzata».

Coerentemente con la sua esperienza militante, Roggero identifica, senza pretesa d’esausitività, due luoghi da cui ripartire per sciogliere il nodo dell’anticipazione delle lotte e della scommessa militante dentro la composizione di classe: la logistica e l’università, luoghi in cui la «cognitivizzazione» e la banalizzazione del lavoro si intrecciano, determinando ambiti di soggettivazione e di possibile ricomposizione. La scommessa militante è quella del passaggio dall’operaio cognitivo di mestiere all’operaio cognitivo di massa: «Pensiamo che un nuovo discorso di autonomia operaia debba oggi ripartire da qui», che da qui si possa rompere la dicotomia tra accelerazione del futuro e ritorno al passato.

La politica è quella attività che mette in gioco i termini reali del potere nella società. Roggero lo fa ritornando ai princìpi, prendendo per mano o per i capelli, Marx, Lenin, l’operaismo e lo stesso Lukács. E lo fa dall’interno della crisi del capitalismo, ponendosi la domanda di quale possa essere il nostro uso della crisi, della crisi come macchina capitalistica. Una macchina che esclude includendo, che mette la vita al lavoro senza con questo riuscire a sussumere completamente la soggettività come possibilità di ricomposizione di classe. «La tendenza è reale, la sua realizzazione no», ed è in questo scarto che si forma e agisce il militante, cercando di abbattere la separazione tra produzione di sapere e produzione di organizzazione, facendo cioè conricerca. Agendo cioè dall’interno della composizione di classe per deviare lo sviluppo capitalistico facendo emergere controsoggettività.

Ma chi è il militante? È un soggetto che produce continuamente il «noi» e il «loro», che separa per ricomporre la propria parte. C’è qualcosa di sacrificale in questa definizione del militante che per Roggero non ha nulla a che fare con la privazione, ma molto con «la disciplina della passione sovversiva». Con l’agire dentro e contro la storia, non seguendo lo spirito del tempo, ma aggredendolo.

».

LaRepubblica, 29 aprile 2016 (c.m.c.)

La prima leggendaria schedina della Sisal è datata 5 maggio 1946: nel 2016 ne ricorre il settantesimo anniversario. Nell’idea di un concorso a pronostici, l’Italia in macerie cercava di scommettere sul suo futuro, e al tempo stesso raccoglieva fondi per rimettersi in piedi. Agli albori della sua storia, la schedina conteneva sul retro un riquadro sul quale scrivere i propri dati, e fra essi compariva immancabile la dicitura “professione”. Sappiamo così che il signor Pietro Aleotti da Treviso, vincitore di 64 milioni nella primavera del 1947, era artigiano del legno (pare costruisse bare).

E così, fra i più famosi vincitori, Giovanni Mannu era un minatore sardo, Giovanni Cappello un ferroviere, mentre il fortunato che nel 1977 superò l’asticella favolosa del miliardo era un semplice impiegato. Ma come investivano i soldi della vincita questi invidiatissimi italiani? Credo che la risposta possa darci da riflettere. Fino almeno a tutti gli anni Settanta, la domanda «che cosa farebbe se vincesse un miliardo? » vedeva concordare gli intervistati su poche risposte eguali: la maggioranza «si metterebbe in proprio», «cambierebbe lavoro», oppure «aprirebbe un’attività».

Significa che per alcune decine di anni la gran parte degli italiani ha escluso di volersi astenere da un’attività lavorativa, anche nel remoto caso di trovarsi all’improvviso milionaria. Il mestiere – scritto sul retro della schedina stessa, come un sigillo da cui non prescindere – era insomma un crisma comunque inscalfibile, un momento essenziale per l’essere sociale di un cittadino, tanto più in un’Italia costituzionalmente fondata sul lavoro, dove la quasi maggioranza, nel segreto del voto, metteva la sua ics su una falce e su un martello.

Oggi i nostri Gratta e vinci, eredi morali e sostanziali del Totocalcio, portano perfino nei titoli un sapore radicalmente diverso come “Turista per sempre”, “Caraibi”, “Pazzi per lo shopping”. Davanti a quell’antica religione del lavoro, sembra quasi una bestemmia. E se rivolgiamo ai nostri contemporanei la stessa domanda di quel vecchio sondaggio, è incredibile come sia spazzato via ogni riferimento al mondo del lavoro: la prima aspirazione di una megavincita oggi è proprio il licenziarsi, prologo al successivo «vivere di rendita », «viaggiare», «comprare immobili », e via dicendo.

Quella che un tempo sarebbe stata ragione di scomunica (ecclesiastica, certo, ma anche sociale), oggi è un’ambizione collettiva. Percepita come sinonimo ora di «sforzo inutile», ora di «ingiustizia sociale», ora di «mal digerita sottomissione», ora di «confronto impari con la tecnica», la parola «lavoro» porta su di sé tutti i graffi di un’epoca confusa. Idolatrato dai nostri nonni e castamente amato dai nostri padri, oggi il lavoro ha finito da tempo di essere un luogo di aspettative o di conferme, caricandosi di tutte le possibili inquietudini di una suprema incognita.

Lontana anni luce l’oasi di un mestiere sicuro, e svanito l’approdo assolato del posto fisso, l’occupazione è diventata essa stessa un miraggio, indipendentemente dal suo essere organica a un progetto di vita. E se la percentuale di adolescenti che indicano un “mestiere dei sogni” va rapidamente crollando, ancora più illuminante è la quantità di loro che aspirano a carriere da calciatori o da veline, entrambi concepiti come emblema di arricchimento facile e di immediata riconoscibilità pubblica.

E siamo giunti con questo al paradosso che in una Repubblica costituzionalmente «fondata sul lavoro », assistiamo a una contrapposizione fra il lavoro stesso e i diritti del lavoratore, in molti casi considerati ormai accessori: si preferisce semmai lavorare senza sicurezza e senza prevenzione pur di non restare a casa. La regressione civile che questo ingenera è quanto mai evidente, cosicché il lavoro non solo non redime più l’uomo, ma di fatto lo getta in una spietata plaza de toros, in cui si festeggia chi sopravvive.

L’ultimo caso che io ricordi è quello di una cava vicino Palermo, dove un dipendente appena licenziato ha ucciso il proprietario e il capocantiere, spiegando il gesto con un laconico «Mi hanno tolto il lavoro», frase che suonerebbe paradossale se non ci chiedessimo subito «Quale lavoro gli hanno tolto?». E la risposta, evidentemente, è che non si tratta di difendere un lavoro, ma uno stipendio. La novità è che in tempi di crisi si è disposti a uccidere per non perderlo. Ecco allora che il risultato è clamoroso: il lavoro, pietra miliare di ogni società organizzata, diviene per noi il motore scatenante di una riemersa paura ancestrale, il terrore di essere sopraffatti dai nostri simili. Leggendo i media è infatti evidente come oggi il lavoro crei spesso divisioni frontali: giovani contro anziani, autoctoni contro immigrati, precari contro stabilizzati.

La ricerca di un lavoro è divenuta competizione per la sopravvivenza, con le implicazioni drammatiche che ciò comporta. Ed è inquietante – ma paradigmatica – la situazione dell’Ilva di Taranto, difesa a oltranza da folle di lavoratori, all’insegna del motto «Uccide, certo, ma ci dà da vivere». Figlia di un momento storico rimasto senza bussola, la parola “lavoro” rimbalza sulle nostre bocche come farebbe lo sporadico frammento di un ricordo dentro una generale amnesia. Sentiamo che aveva un senso, che rappresentava molto di più di ciò che noi oggi le attribuiamo. Forse percepiamo perfino un vago sentore di origini preziose, e intuiamo un brillare lontano. Ma è solo l’eco di un discorso andato. Forse un giorno, richiudendo l’ombrello dopo la lunga pioggia, ne riannoderemo fra le pozzanghere il senso.

». LaRepubblica, 29 aprile 2016 (c.m.c.)

La svolta arriva nella notte. Quando Silvio Berlusconi, sbarcato a Roma per cercare di sedare l’ennesima rivolta interna a Forza Italia, convoca Guido Bertolaso a palazzo Grazioli per comunicargli il suo fine corsa. Troppe le gaffe, disastrosi i sondaggi: tutti concordi nel condannare gli azzurri a morte certa, nella capitale e non solo. Continuare a insistere sull’ex capo della Protezione civile sarebbe stato un suicidio. Mr emergenze prova a resistere, in fondo gli era già accaduto di incontrare “Silvio” per valutare il ritiro, ma quando capisce che è tutto inutile, pone un’unica condizione: che almeno si viri su Alfio Marchini, mai sulla “traditrice” Meloni. Esattamente ciò che l’ex Cavaliere voleva.

E così di buon mattino Berlusconi si predispone al suo ultimo colpo di scena. Prima convoca l’imprenditore del cuore, il simbolo della sua lista; con lui sigla l’intesa; insieme chiamano Storace per chiedergli di essere della partita; quindi, a cose fatte, riunisce i maggiorenti azzurri. Facendo diramare una nota in cui si spiega che «per vincere occorre una proposta unitaria delle forze moderate e liberali, con un forte spirito civico», per cui «con il dottor Bertolaso abbiamo deciso di fare nostra la candidatura dell’ingegner Alfio Marchini», che tra l’altro «non è una scelta nuova. Era la nostra prima opzione, caduta per i veti posti da un alleato della coalizione».

Parole chiare, che rendono l’onore delle armi all’uomo rimasto stritolato nella guerra fratricida in atto nel centrodestra (malinconico il twitt diffuso in serata, con foto di lui in Africa: «Resto in panchina ma a disposizione della mia città»); ricompattano una Fi sull’orlo della scissione; rilanciano il sogno di un grande centro che metta all’angolo l’ala lepenista di Meloni e Salvini. E infatti, come per incanto, la polifonia azzurra diventa coro. Intonato da Paolo Romani, capo della fronda del Nord: «Berlusconi si conferma leader e guida dell’intero centrodestra». Finanche Gianfranco Fini si complimenta per «aver reso possibile a Roma un‘alternativa alla sinistra che non sia né populista né demagogica».

Chi non la prende bene è Giorgia Meloni: «Fi sceglie di convergere sul candidato di Alfano, Casini e di quell’ex centrodestra che ama governare con Renzi. Vogliono aiutare il Pd ad arrivare al ballottaggio nella città in cui il premier è più in difficoltà. È il pattone del Nazareno ». A risponderle ci pensa Storace, pure lui in procinto di sostenere Marchini: «Ora ritirati e riuniamo la coalizione come a Milano. Altrimenti sei tu che aiuti Renzi». A godere è il candidato dem Roberto Giachetti: «Io non temo nessuno, sono consapevole della mia forza».

«». LaRepubblica, 29 aprile 2016 (c.m.c.)

In principio fu una manciata di volantini gettati sul volto dei poliziotti, in via Frascati a Prato. Gli autori di quel gesto provocatorio, due giovani operai tessili, avevano un’unica finalità: essere denunciati per aver infranto una legge del codice penale fascista, l’articolo 113 che vietata il volantinaggio senza autorizzazione. Era il dicembre del 1955. Il pretore di Prato, un siciliano trentacinquenne molto combattivo, non aspettava altro che trovarsi davanti i due imputati, Enzo Catani e Sergio Masi, per chiedere il pronunciamento della neonata Corte Costituzionale: poteva ancora valere, in un regime democratico, quella vecchia legge varata dal fascismo? Avvocati dei due operai, Giuliano Vassalli, Vezio Crisafulli e Massimo Severo Giannini, ossia il meglio della cultura giuridica del dopoguerra. Il nome del procuratore? Antonino Caponnetto.

Molti anni dopo, in occasione del sessantesimo anniversario della Corte Costituzionale - l’organo di garanzia che giudica la legittimità costituzionale delle leggi e degli atti di Stato e Regioni lo storico Maurizio Fioravanti rivela un capitolo poco noto: la prima seduta pubblica della Consulta, il 23 aprile del 1956, riguardò un episodio sapientemente organizzato da un gruppo di giuristi per dare avvio allo smantellamento della legislazione fascista. Perché allora era in gioco non soltanto la costituzionalità di quell’articolo 113, che certo limitava la libertà di opinione. Ma era in gioco una questione molto più importante, ossia la facoltà della Consulta di giudicare le leggi varate del regime di Mussolini.

E fu quella prima storica sentenza — su richiesta di Caponnetto — a dare inizio alla demolizione dell’impalcatura giuridica del fascismo.La Consulta e la vita degli italiani. Basterebbe il principio della storia per illuminare il rapporto profondo tra la Corte e i diritti dei cittadini nei campi più diversi dell’esistenza, nelle relazioni sentimentali come nella fecondazione assistita, nel sostegno ai disabili e negli assegni di invalidità riconosciuti anche agli immigrati, nelle abitudini quotidiane che riguardano l’autovelox o la casa. Le sentenze di questi ultimi quattro decenni hanno anticipato o assecondato i movimenti della società italiana, talvolta svolgendo un ruolo di supplenza rispetto al legislatore. Però questo fondamentale ruolo pubblico viene largamente ignorato.

Da queste premesse è partito Giuliano Amato per promuovere un incontro con Mario Calabresi, Luciano Fontana e Alessandro Barbano — direttori di Repubblica, Corriere della Sera e Mattino — insieme alla presidente della Rai Monica Maggioni. Come fare per comunicare di più e meglio con l’opinione pubblica? Dai direttori dei quotidiani è arrivato un suggerimento: per far crescere la percezione della Corte sono necessarie chiarezza, trasparenza e tempestività. «Potrebbe essere utile l’analogia con la Corte suprema americana », ha suggerito Mario Calabresi. «Pur nella diversità del ruolo, i pronunciamenti delle due corti investono direttamente la vita dei cittadini. Negli Stati Uniti le decisioni vengono precedute da un dibattito tra giuristi e studiosi che crea una grande aspettativa. E il calendario degli appuntamenti decisivi viene pubblicizzato con cura.

Da noi si fa più fatica a stare dietro alle sentenze: spesso arrivano tardi rispetto ai tempi di chiusura del giornale. E l’eccesso di tecnicalità non aiuta: la corte dovrebbe avere la pazienza di spiegare in tre punti chiari la sostanza dei propri pronunciamenti». Luciano Fontana insiste sulla trasparenza dei meccanismi di decisione: «Sarebbe importante conoscere le varie posizioni e anche le ragioni dei dissenzienti».

L’altro grande tema che attraversa la discussione è il rapporto tra Corte Costituzionale e politica, avendo spesso la Consulta esercitato “un ruolo di correzione “ rispetto al legislatore carente. L’elenco delle sentenze anticipatrici è sterminato, molte riguardano i diritti delle donne e degli omosessuali. Alcune vengono ricordate dalla Maggioni, dal riconoscimento della «natura discriminatoria della punizione del solo adulterio femminile» (1968) alla «illegittimità della sanzione penale prevista per il medico che procura aborto a una donna consenziente» (1975).

Risalgono agli anni Ottanta le sentenze sui diritti dei conviventi, di fatto equiparati a quelli dei coniugi. Ed è stata sempre la Corte nel 2010 a riconoscere alle unioni gay «il diritto di vivere una condizione di coppia, con connessi diritti e doveri» (ma non il matrimonio). E infine la legge 40 sulla fecondazione assistita: la Consulta ne ha eliminato le misure più restrittive, aprendo all’eterologa e sopprimendo il limite di tre embrioni. «È questo un caso in cui non c’è stata discussione», ha commentato Amato. «O, come avrebbe detto Crisafulli, la decisione era “a rime obbligate”». Nessun dubbio, in sostanza: come quella prima storica sentenza di sessant’anni fa.

« .»Tiscali.it, 26aprile 2016 (c.m.c.)

Antonio Gramsci senza pace. Dopo la polemica parlamentare che ha accompagnato il riconoscimento di "Casa Gramsci" di Ghilarza, in Sardegna, quale "monumento nazionale", ecco che un altro motivo di discussione intorno alla figura del grande pensatore sorge a Torino. Il filosofo e politico sardo - tra i più studiati al mondo - nella città piemontese risiedette per i suoi studi superiori e universitari e lì ebbe inizio la sua importante esperienza politica. La casa dove visse per lungo tempo, in ristrettezze economiche ben descritte nelle sue biografie, potrebbe diventare una casa museo. Ma nelle camere dove il giovane pensatore alloggiò, studiò, elaborando teorie rivoluzionarie, e patì il freddo sono oggi adibite ad albergo. "Solo la deriva culturale e politica", scrive Massimo Novelli sul Fatto Quotidiano, "ha fatto sì che un'istituzione della sinistra come la Fondazione piemontese Antonio Gramsci, possa considerare un 'nuovo luogo della cultura' una sorta di negozietto neppure troppo visibile, come luogo Gramsciano".
Un hotel dove Gramsci si formò
La futura sede della Fondazione si trova tra via Maria Vittoria e via San Massimo, nel retro dell'hotel di proprietà della NH spagnola. Che per gentile concessione permette ai promotori, che ben si accontentano loro malgrado di santificare all'illustre ex inquilino niente meno che un sottoscala.
La "casa gramsciana"
Lo spazio angusto e nascosto rispetto ai flussi culturali cittadini verrà inaugurato domani, giorno in cui ricorre la morte dell'autore dei "Quaderni dal carcere" (1891-1937). In uno spazio ristretto Gramsci e la sua rivoluzione passata per la fondazione del Partito comunista italiano e pubblicazioni quale L'Ordine Nuovo, L'Unità e i già citati "Quaderni", per citarne alcuni, appare oggi relegato negli scaffali polverosi del piccolo locale come pezzo d'antiquariato, scrive ancora il Fatto. Ciò che uno dei più grandi intellettuali italiani produsse, anche a costo del terribile carcere fascista - il confino a Ustica, la prigione di San Vittore, di Regina Coeli e infine di Turi - che gli costò la salute e poi la vita, sembra non trovino pace nemmeno oggi.
Gramsci tra i più studiati al mondo
E, oltre al danno la beffa: fu solo per la sollevazione popolare che lo stesso hotel non prese il nome di "Gramsci", semmai oltraggio peggiore si potesse pensare. Ma la memoria si sa è labile, quella italiana lo è ancora di più: Gramsci con tutte le sue lucide e rivoluzionarie intuizioni resta tra i più studiati intellettuali del mondo, del quale non fa parte con ogni evidenza l'Italia.
«Siria. Oltre 30 i morti nel raid aereo attribuito all'aviazione governativa. Damasco nega e denuncia le cannonate dei ribelli che, sempre ad Aleppo, hanno ucciso una decina di civili».

Il manifesto, 29 aprile 2016 (p.d.)

L’escalation di questi ultimi giorni è sfociata ieri ad Aleppo una delle pagine più insanguinate della guerra civile siriana. Nel giro di poche ore 40 civili sono stati uccisi da bombardamenti governativi e tiri delle forze ribelli. Almeno 30 sono morti in violento raid aereo, attribuito da più parti all’aviazione governativa, che ha colpito un ospedale da campo gestito da Medici Senza Frontiere e dalla Croce Rossa Internazionale. Poco dopo altri 10 civili sono caduti sotto il fuoco delle formazioni ribelli che combattono contro Damasco. Tutte vittime innocenti del fallimento del cessate il fuoco cominciato a fine febbraio e che ha regalato alla popolazione siriana un breve periodo di calma relativa. La ripresa, negli ultimi giorni, dei combattimenti è stata spiegata in modo superficiale, come risultato del rafforzamento del presidente Bashar Assad che, grazie ai successi ottenuti dal suo esercito, avrebbe scelto la forza e non il negoziato con le opposizioni. Il quadro è più complesso. Anche ribelli e jihadisti hanno violato la tregua più volte per consolidare le loro posizioni sul terreno e rispondere all’accerchiamento da parte dell’esercito che ora controlla buona parte dell’area intorno ad Aleppo.
Le immagini messe in rete da giornalisti e attivisti locali e mandate in onda dalle tv di tutto il mondo, mostravano ieri scene di rovine, di soccorritori avvolti da una polvere densa che estraevano dalle macerie i corpi delle vittime, tra le urla di disperazione di parenti e sopravvissuti. Tanti i feriti portati via con mezzi di fortuna. Le bombe hanno colpito in particolare l’ospedale al Quds e alcune abitazioni vicine, nel quartiere di Sukkari che si trova nella parte di Aleppo sotto il controllo delle milizie ribelli e jihadiste. Tra i morti ci sono 14 medici e pazienti, tra i quali l’ultimo pediatra rimasto in quella parte della città, il dottor Wassim Maaz. Medici senza Frontiere ha condannato l’attacco che ha distrutto un ospedale che era anche il principale centro pediatrico dell’area. «Dov’è l’indignazione di chi ha il potere e il dovere di fermare questo massacro?… A rafforzare questa tragedia si aggiunge la dedizione e l’impegno dello staff dell’ospedale, che lavorava in condizioni inimmaginabili, senza mai vacillare, dall’inizio di questo sanguinoso conflitto», ha detto Muskilda Zancada, capomissione di Msf in Siria. L’ospedale al Quds, dotato di 34 posti letto, forniva servizi di pronto soccorso, cure ostetriche, terapia intensiva; aveva una sala operatoria, un ambulatorio e un reparto di degenza e vi lavoravano a tempo pieno 8 medici e 28 infermieri. Forte la condanna della Croce Rossa Internazionale (Cicr): «L’attacco contro l’ospedale Quds è inaccettabile e purtroppo non è la prima volta che servizi medici salvavita sono colpiti», ha commentato con amarezza Marianne Gasser, capo della missione del Cicr in Siria, «esortiamo tutte le parti a risparmiare i civili, a non colpire gli ospedali…Nel caso contrario, Aleppo sarà spinta sull’orlo del disastro umanitario».

L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), vicino all’opposizione anti Bashar Assad, sostiene che 139 civili sarebbero morti sotto le bombe sganciate da elicotteri e caccia governativi negli ultimi sei giorni. E tra i morti si conterebbero 23 tra bambini e adolescenti e 15 donne. Per Anas al-Abdeh, capo della Coalizione Nazionale dell’opposizione siriana, parte di questi morti sarebbero stati causati da raid dell’aviazione russa che, a suo dire, ha colpito Aleppo assieme ai caccia governativi. Una versione smentita con forza dal ministero della difesa russo che ha chiamato in causa le forze aeree della Coalizione anti-Isis guidata dagli Usa. «Secondo i dati in nostro possesso – ha comunicato il ministero russo – la sera del 27 aprile nello spazio aereo di Aleppo per la prima volta dopo un lungo intervallo ha operato un aereo di uno dei paesi della cosiddetta coalizione anti-Isis». Anche Damasco respinge le accuse e nega di aver bombardato l’ospedale al Quds. «Queste notizie – ha scritto l’agenzia statale Sana – intendono coprire i crimini commessi dai terroristi contro la popolazione» mentre «almeno nove civili sono stati uccisi e decine feriti da bombardamenti dei terroristi con razzi e da spari di cecchini» contro la parte di Aleppo che è sotto il controllo governativo. Damasco ha anche denunciato l’ingresso nel nord del Paese di 150 soldati americani, prima parte di un contingente di 250 militari che Barack Obama aveva detto di voler inviare in Siria. «È un chiaro atto di aggressione» ha protestato il ministero degli esteri.

La strada della guerra totale è di nuovo aperta e poco potrà fare l’inviato speciale dell’Onu, Staffan de Mistura, che la prossima settimana incontrerà a Mosca il capo della diplomazia russa Serghiei Lavrov per discutere di negoziati in cui nessun siriano pro o anti Assad crede. E crescono le pressioni sul presidente siriano, che a maggio dovrebbe nominare un nuovo governo, al quale Londra, Parigi, Washington e altre capitali occidentali chiedono di nuovo di farsi da parte.

Esistono muri che non sono fatti di mattoni o filo spinato. «Berlino anticipa Londra: lavoratori dell’Ue discriminati».

Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2016 (p.d.)

La porta aperta dalla trattativa tra Gran Bretagna e Unione Europea è stata imboccata per prima dalla Germania: i lavoratori comunitari, infatti, saranno discriminati rispetto ai colleghi tedeschi nell’accesso ai sussidi sociali. La ministro del Lavoro Andrea Nahles - che, per quanto vale, è socialdemocratica, il lato sinistro della Grande Coalizione - ha annunciato ieri che in tempi brevi porterà in Consiglio dei ministri una proposta sul tema: “Lo avevamo annunciato a dicembre”, ha spiegato, per colmare “le lacune interpretative” sull’accesso agli aiuti dello Stato nati dalla sentenza di una Corte sociale federale. I giudici, infatti, avevano stabilito che i cittadini dell’Unione che cercano lavoro in Germania possono accedere ai sussidi (ma non a quello di disoccupazione) dopo sei mesi di permanenza nel Paese: la sentenza aveva preoccupato assai le istituzioni locali, Comuni in testa, che temevano per la tenuta dei loro bilanci. Niente paura: interviene il governo, che fa pure un passo più in là.

In futuro, secondo il progetto del ministro Nahles, i cittadini comunitari saranno esclusi dalle prestazioni garantite dal cosiddetto pacchetto “Harz-IV”- le riforme del lavoro approvate dai governi Schroeder e Merkel - che include peraltro il sussidio di disoccupazione. Niente aiuti sociali poi (supporto per l’affitto, l’asilo dei figli e quant’altro) se non hanno un lavoro in Germania e non hanno maturato il diritto all’assicurazione sociale, che si acquisisce dopo 5 anni di lavoro senza aiuti dallo Stato. La cosa non è senza effetti in particolare nel sistema tedesco: il pacchetto di “aiuti” contenuto nel pacchetto Hartz, infatti, serve a controbilanciare gli effetti di una riforma del lavoro particolarmente penalizzante per i lavoratori.

Si rivolge, in particolare, ai cosiddetti mini-jobber, persone che pur lavorando - e costando quasi nulla in tasse alle imprese - non possono mettere in tasca 900 euro al mese: l’impresa può così abbassare il costo del lavoro, ma il dipendente rischia di fare la fame, soprattutto perché questo genere di mini-lavori sono spesso discontinui. E qui arrivano i sussidi: non solo quello di disoccupazione (equivalente alla nostra Naspi e che vale 391 euro al mese), a anche il sostegno alle spese di affitto, per i figli o i famliari a carico, eccetera fino a colmare la distanza col reddito considerato minimo (un po’meno di 1.500 euro). Può sembrare un’ottima cosa, ma questo sistema è in sostanza un enorme aiuto di Stato alle imprese (per abbassare il costo del lavoro) mascherato da welfare.

I benefici concessi ai lavoratori comunitari nel progetto Nahles, alla fine, sono condizionati a durata e resistenza nel mercato del lavoro tedesco e a una sorta di primo soccorso: un sostegno all’arrivo, che non potrà superare le quattro settimane, per coprire vitto e alloggio. Porte a perte per chi se ne vuole andare: un prestito per quelli che vogliono tornare nei Paesi d’origine.

La platea interessata non è affatto piccola. Secondo l’Agenzia federale del lavoro, riportava ieri l’A ns a, sono 440.000 i cittadini dell’Unione europea che ricevono al momento in Germania prestazioni sociali dallo Stato (su un totale di sei milioni di percettori): in numeri assoluti, il gruppo più esteso è costituito dai polacchi (92.000) seguiti da italiani (71.000), bulgari (70.000), rumeni (57.000) e greci (46.000). In termini percentuali, rispetto alle presenze in Germania, ai primi posti ci sono bulgari e rumeni.

L’idea del governo tedesco è di bloccare quei migranti interni all’Unione europea che si muovono - ha sostenuto la ministro tedesca - solo per beneficiare del welfare tedesco: questa pratica va fermata, disse, per salvare il sistema. Se il progetto è questo, però, si va parecchio più in là del tentativo di fermare “l’emigrazione del sussidio”e si introduce una discriminazione piena tra lavoratori tedeschi e lavoratori di altri stati Ue: il significato dell’Unione europea come viene raccontata - fratellanza, solidarietà, etc - corrisponde sempre meno al suo effettivo dispiegarsi nella vita dei suoi cittadini.

Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2016 (p.d.)

Anche quest’anno la Banca d’Italia ha deciso di pagare un generoso dividendo alle banche titolari delle sue quote (che sono in gran parte anche quelle su cui vigila): 340 milioni di euro, come nel 2014, “considerata la sostanziale stabilità del risultato del 2015”, un utile netto di 2,8 miliardi. Allo Stato, che non è proprietario ma ha diritto ai proventi dell’attività della Banca centrale, spettano 2,2 miliardi a fronte di 1,9 dello scorso anno. Sono le decisioni dell’assemblea dei soci della Banca d’Italia, comunicate ieri.

Nel gennaio 2014, il Parlamento ha convertito in legge il decreto Imu-Bankitalia, la rivalutazione delle quote del capitale di via Nazionale (tassata per fare un po’di cassa subito) inserita in un provvedimento che bloccava l’Imu sulla prima casa. La rivalutazione si accompagnava a una modifica del criterio di calcolo dei dividendi.

L’opposizione in Parlamento (M5S) e molti economisti avevano denunciato quel provvedimento come un grande favore alle banche titolari delle quote di Bankitalia, bisognose di risorse. “Nessun regalo alle banche”, aveva promesso il governatore Ignazio Visco. I numeri sono questi: prima del decreto Imu-Bankitalia le banche azioniste ricevevano da via Nazionale dividendi tra i 50 e i 70 milioni all’anno, dopo la rivalutazione delle quote hanno avuto 380 milioni nel 2014, 340 nel 2015 e altri 340 nel 2016.

C’è tempo fino alla fine dell’anno per le grandi banche azioniste (Intesa e Unicredit) per finire di cedere le proprie quote in eccesso rispetto al limite del 3 per cento del capitale: per ora è passato di mano il 12 per cento del capitale. Ad aumentare la propria quota sono stati soprattutto gli “istituti di previdenza e assicurazione (dal 5,7 al 17,3%)”. Cioè l’Inps. Tradotto: le banche hanno preso i dividendi e altri soldi pubblici in cambio delle quote in eccesso.

«"Rischio e previsione" di Francesco Sylos-Labini per Laterza. L’uso dei modelli matematici per spiegare i fatti economici ha avuto una sconfessione nel 2008. Eppure tutto procede come se nulla fosse accaduto». Il manifesto, 29aprile 2016 (c.m.c.)

A scrivere «non tutto quel che conta può essere contato» fu il sociologo William Bruce Cameron. La citazione però ha iniziato a circolare quando fu attribuita (erroneamente) ad Albert Einstein. Evidentemente, che uno studioso di scienze umane diffidi dei numeri non fa abbastanza notizia: ci vuole, se non proprio Einstein, uno scienziato abbastanza «hard» che sappia diffidare del diluvio di cifre dispensate dai media su qualunque argomento, dalla borsa al meteo. Fa dunque al caso nostro il volume Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi appena pubblicato da Laterza (pp. 246, euro 24). Lo ha scritto Francesco Sylos-Labini, fisico teorico al Centro Studi Enrico Fermi e fondatore del sito www.roars.it, frequentata rivista online dedicata all’analisi delle politiche della ricerca.

Epidemie sovrastimate

Per «ascoltare la scienza» basta rimpinzarsi di grafici e dati? C’è in effetti chi, come il «guru» informatico ed ex-direttore di Wired Phil Anderson, ritiene che il metodo scientifico sia stato reso obsoleto dai big data – l’enorme mole di dati originata dalle molte attività di monitoraggio ambientale e dei comportamenti sociali. Per studiare un fenomeno come la diffusione di un’epidemia nella popolazione, non c’è bisogno di esperti che elaborino modelli da verificare con i dati, sostiene Anderson. Basta studiare le correlazioni statistiche, cioè la coincidenza tra eventi di cui non si conosce la relazione causa-effetto, per formulare previsioni accettabili.

Purtroppo, non funziona. L’algoritmo Google Flu Trends, messo a punto per anticipare la diffusione dell’epidemia influenzale e le necessarie contromisure, in passato ha sovrastimato il numero di casi reali di infezione del 50% e oggi ha cessato di pubblicare le sue stime. È il rischio che si corre quando «si fa uso di dati non strutturati», cioè non «prodotti appositamente per un certo scopo ma raccolti con strumenti automatici dalla rete». Ma ascoltare la scienza non significa semplicemente accumulare un sacco di dati. Se poi abbiamo a che fare con fenomeni complessi, come quelli che Sylos-Labini studia quotidianamente, l’impossibilità di prevederne l’evoluzione è ineliminabile.

Frustrazione da dati

I terremoti e il tempo meteorologico sono due esempi di scuola: le previsioni che se ne possono trarre hanno un valore statistico limitato. La sproporzione tra la mole di dati e capacità predittiva è spesso frustrante e acquista crescente importanza la comunicazione di questi dati, soprattutto se implica decisioni politiche nel campo energetico o della protezione civile. Occorre dunque «sapere a cosa serve una particolare previsione per meglio rispondere ai bisogni degli utenti». Tutte informazioni che i dati, da soli, non ci dicono.

Ma se le scienze naturali si sono almeno interrogate sui limiti della nostra capacità di effettuare previsioni a partire da dati empirici, non altrettanto si può dire per le scienze sociali. Anzi, avverte Sylos-Labini, nel caso dell’economia cifre e formule sono usati soprattutto per avvalorare tesi politiche, più che per comprendere lo stato dei mercati e dei loro protagonisti. Lo dimostra la perdurante incapacità degli economisti più blasonati nel prevedere le crisi economiche sistemiche. «L’impatto sull’economia più generale e sui mercati finanziari dei problemi nel mercato supbrime probabilmente sembra essere contenuto», disse nel 2007 l’allora presidente della Banca Centrale americana Alan Greenspan.

Non si è fatto un gran passo avanti da quando Irving Fischer dichiarò «I prezzi delle azioni hanno raggiunto quello che sembra essere un elevato livello permanente», tre giorni prima del crollo del 1929. Al cuore di questo insuccesso c’è la scuola economica neoclassica, basata sulla tesi che un mercato raggiunga spontaneamente un punto di equilibrio, in presenza di attori economici razionali, indipendenti ed egoisti. Il prestigio intellettuale della teoria neoclassica è stata accresciuta da un formalismo matematico rigoroso. Tuttavia, uno dei suoi testi sacri, i Fondamenti dell’analisi economica di Paul Samuelson, consiste in «oltre 400 pagine fitte di formule matematiche» in cui «non vi è menzione di alcun dato empirico».

«L’economia neoclassica, a differenza della fisica, non ha raggiunto attraverso l’uso della matematica alcuna spiegazione precisa o previsione di successo», dice Sylos-Labini. L’abbondanza di cifre e formule, dunque, non è un antidoto contro la crisi, ma rischia di diventarne un presupposto. Essa ha fornito «la giustificazione alla massiccia deregolamentazione finanziaria negli anni Ottanta e Novanta». Il predominio dell’economia neoclassica non è dunque dovuto ad un pugno di economisti fortunati, ma ad una lenta costruzione di egemonia sui media e nelle istituzioni accademiche anglosassoni, in cui il pluralismo delle scuole di pensiero economico è scoraggiato.

La stessa deriva rischia di allargarsi ad altri campi della scienza. Anche in Europa si è diffusa la passione per le classifiche universitarie, alla ricerca delle «Harvard» nostrane. Eppure, i punteggi assegnati agli atenei spesso mescolano pere con patate: che senso ha confrontare università d’élite statunitensi in cui si spendono 100 mila euro a studente, e le cui rette rappresentano una bolla finanziaria prossima allo scoppio, con gli atenei europei, in cui si investe dieci o venti volte di meno? Alla rincorsa di questa «eccellenza», anche in Europa i finanziamenti pubblici sono stati concentrati su pochi ambiti di ricerca.

La biodiversità della ricerca

La storia della scienza, tuttavia, insegna che le scoperte importanti sono spesso impreviste, frutto di un brodo di coltura più che di un investimento mirato. Invece, legioni di giovani ricercatori spendono gran parte del loro tempo a redigere progetti che hanno sempre meno possibilità di essere finanziati. Ciò sta riducendo anche da noi la biodiversità dell’attività di ricerca. Proprio quando i dati, a saperli leggere, suggerirebbero il contrario a chi detta le politiche della ricerca. «La flessibilità e l’adattabilità, derivanti da una maggiore diversificazione, sono gli elementi essenziali della competitività». La scienza può allora dirci molto sulla crisi. A patto di saperne ascoltare tutte le voci.

«Nel nuovo romanzo "Qualcosa, là fuori", edito da Guanda, Bruno Arpaia immagina un continente desertificato e profughi in marcia verso una Scandinavia blindata».

Corriere della Sera, 29 aprile 2016 (c.m.c.)

Imagine all the people, sharing all the world — cantava Lennon nel 1971 — You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one . Era vero, non era il solo: cantava il futuro di pace e condivisione che una generazione sognava. Ci sono epoche che sognano un futuro migliore, altre che dal futuro sono spaventate. Pochi anni prima delle note magiche di Lennon il mondo ha vissuto l’incubo dell’imminenza della catastrofe nucleare.

Lo ricorda bene Isabel Allende nell’incipit del suo libro di memorie: «Ho trascorso la maggior parte della mia giovinezza in attesa che qualcuno, premendo distrattamente un bottone, facesse esplodere le bombe atomiche e saltare in aria il pianeta. Nessuno sperava di vivere a lungo...». L’umanità guarda al futuro in modo alterno, ora con speranza ora con timore.

E oggi? Oggi i sogni di costruire un mondo più giusto ed equilibrato sembrano lontani, e si riaffaccia l’incubo: il pianeta si scalda, le specie viventi si stanno decimando, forse andiamo verso una catastrofe.

Sono esagerati speranze e timori dell’umanità? Io non lo credo. Non sono esagerate le speranze. Non tutte le utopie si realizzano ma nel corso del Settecento e dell’Ottocento, per citare un solo esempio fra tanti, la forza di immaginare un mondo diverso ha veramente cambiato la faccia del pianeta, ha rovesciato privilegi secolari, abolito la schiavitù, dato vita dignitosa a milioni di miserabili, diffuso la democrazia, portato alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, tolto le donne, metà del mondo, dalla sottomissione necessaria. Quanto c’è di buono nel mondo di oggi è il prodotto di giovani che sognavano un mondo migliore, e i sogni possono ancora cambiare il mondo.

Ma non sono esagerati neanche i timori. Le civiltà finiscono, spesso in devastazione, il più delle volte per guerre o catastrofi ecologiche. Dello splendore dei regni Maya non restano che rovine fra la foresta. Roma aveva un milione mezzo di abitanti sotto gli Antonini, ridotti fino a 50 mila nei secoli successivi. Delle grandi biblioteche del mondo mediterraneo antico non ci resta che qualche libro, a testimoniare un sapere gettato via. Il rischio della catastrofe atomica è stato realmente sfiorato, e forse evitato solo grazie al sangue freddo e alla lucidità di alcuni — come i Kennedy e Krusciov, o il colonnello Stanislav Petrov che violando il protocollo ha evitato per un nulla l’apocalisse.

Ma se il disastro atomico è stato (per ora) evitato, è anche per le innumerevoli voci che si sono levate alte e chiare in quegli anni da quartieri diversi della società: scienziati e poeti, religiosi e hippy, urlando che l’umanità stava facendo una follia nell’appoggiarsi su un equilibrio così instabile e rischioso. Ricordate Gregory Corso letto in Italia da Gassman? «Io ti canto Bomba Prodigalità della Morte Giubileo della Morte...». Molte voci, spaventate e spaventose, accorate, profondamente ragionevoli, hanno contribuito a fare nascere la consapevolezza del rischio tremendamente reale della catastrofe atomica, e spingere la politica a compiere passi importanti per ridurlo.

Siamo in una situazione simile. Non abbiamo certezze, ma il rischio di una catastrofe ecologica per il riscaldamento globale è vero e forte. I nuovi dati che arrivano non fanno che confermarlo. Come ai tempi della Bomba , le menti più aperte si stanno adoperando per avvertire il mondo di prenderlo sul serio, ciascuno con le sue armi: gli scienziati studiando, i politici più avveduti cercando consensi anche per decisioni che costano, e, ancora un volta, gli artisti più illuminati dandoci le parole per dire.

Per questo ho letto con disperazione mista a speranza il nuovo romanzo che Bruno Arpaia ha dato in questi giorni alle stampe con Guanda: Qualcosa, là fuori , un libro intenso e coinvolgente centrato sul rischio della catastrofe ecologica davanti a noi. Il romanzo è ambientato nel futuro prossimo, al momento in cui il disastro del riscaldamento del pianeta esplode con tutta la sua forza. Il racconto viaggia su due linee parallele, come spesso i libri di Arpaia, e su due tempi diversi. Nel primo c’è un giovane al tempo della vita che si apre e delle discussioni con gli amici sui problemi climatici. Nel secondo seguiamo lo stesso personaggio, molti anni dopo, nel corso di un dantesco attraversamento di un’Europa devastata dalla siccità, senza più ordine né legge, dove sopravvivono fra la violenza bande di disperati. Una carovana di profughi, armata di fucili e disperazione, cerca di raggiungere le regioni scandinave, risparmiate dal riscaldamento globale, rinchiuse in una gigantesca fortezza, che combattono per tenere fuori i profughi. La magia della scrittura di Arpaia è nella descrizione dell’orrore di questo viaggio della disperazione lungo strade dell’Europa verso le porte chiuse della Scandinavia, orrore che ci sembra assurdo e implausibile, fino al momento in cui ci rendiamo conto che è solo la descrizione di eventi già in corso: lungo strade dell’Africa verso le porte chiuse dell’Europa.

La scrittura di Arpaia ha la dote di penetrare e ricreare mondi, e in tutti i suoi libri gioca un ruolo strano e ambiguo il tempo, come se Arpaia fosse costantemente all’inseguimento del suo mistero. I romanzi precedenti riportavano in vita momenti passati dell’ultima grande tragedia europea ( L’angelo della storia ), del recente passato italiano ( Il passato davanti a noi ), o il mondo attuale a me caro della fisica ( L’energia del vuoto ). In Qualcosa, là fuori protagonista è il futuro; ma non è un romanzo di fantascienza né di fantasia: nello stile di Arpaia, è costruito su uno studio approfondito della letteratura scientifica. Che ci dice che allo stato attuale delle conoscenze questo orrore è lo scenario probabile, se non facciamo abbastanza per evitarlo. Ma la differenza d’impatto fra le aride cifre degli scienziati e la vivida realtà descritta da un scrittore di qualità è enorme. È per questo che il libro dovrebbe secondo me essere letto da molti, perché chiunque possa decifrare con chiarezza cosa significhino gli allarmi dei rapporti sul clima.

Perché come la Bomba di Corso suonava come una ballata pazza, e invece era una chiamata alle armi contro la follia, così Qualcosa, là fuori non è una profezia cupa, è un grido di allarme. Per questo si apre con le lunghe discussioni sul clima fra cinici e allarmisti. L’obiettivo del crudo realismo del racconto è contribuire a non farlo diventare reale. Ci sono passi che si possono fare per allontanare il rischio. Il mondo non ne sta facendo abbastanza. L’Italia li faccia e spinga tutti perché si facciano. Il futuro non è inevitabile. Dipende fortemente dalle nostre scelte, da quello che oggi decidiamo, diciamo, scriviamo, votiamo.

Grazie a Bruno Arpaia per avere scritto questo libro. Leggiamolo e chiediamo alla politica di fare le scelte giuste. Non abbiamo trasformato il mondo nel sogno di Lennon, la fratellanza di uomini senza stati, religione, proprietà, che vive in pace condividendo il mondo... Possiamo almeno cercare di lasciare alle generazioni future un mondo dove possano vivere. Il futuro dipende dalle nostre scelte.

Il 27 aprile del 1937, 79 anni fa, si spense Antonio Gramsci. Il padre della sinistra anticapitalista italiana ancor oggi ritenuto uno dei più importanti prodotti della cultura italiana. È più rispettato, studiato e utilizzato all'estero che nella nostra provincia da chiunque voglia conoscere il mondo per cambiarlo.

Il manifesto, 28aprile 2016

Una piccola folla, molti giovani universitari e qualche anziano leone, si è radunata mercoledì 27 aprile al cimitero acattolico di Roma per rendere omaggio a Antonio Gramsci nel giorno del 79esimo anniversario dalla sua morte avvenuta nel 37 dopo lunghi e fatali anni di prigionia nelle carceri fasciste.

Ciascuno aveva portato un fiore rosso, in prevalenza garofani, simbolo del socialismo delle origini. La cerimonia si ripete ormai da qualche anno convocata dall’International Gramsci society su ispirazione di quanto succede a Berlino alla ricorrenza della morte di Rosa Luxemburg.

In mattinata all’università Roma 3 era stato proiettato il docufilm "Gramsci 44", di Emiliano Berbucci, sui 44 giorni di confino trascorsi da Gramsci a Ustica.

Nel pomeriggio invece alla Biblioteca di storia moderna e contemporanea è stato presentato il volume di Michele Prospero "La scienza politica di Gramsci "(Bordeaux edizioni) da Alfredo D’Attorre e dal professor Guido Liguori, presidente della Igs.

Riferimenti
Eddyburg ha dedicato ad Antonio Gramsci una cartella nel vecchio archivio e una nel nuovo archivio. Raccolgono numerosi scritti di Gramsci e sulla sua opera.

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