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Dal Sapere al Comprendere, dal Comprendere al Sentire, e viceversa: dal Sentire al Comprendere, dal Comprendere al Sapere. Anche eddyburg ricorda Antonio Gramsci, nell'anniversario della sua morte (i.b.)



Dal Sapereal Comprendere, dal Comprendere al Sentire,
e viceversa
Passaggiodal sapere al comprendere al sentire e viceversadal sentire al comprendere al sapere.

L’elemento popolare «sente», ma noncomprende né sa; l’elemento intellettuale «sa» ma non comprende e specialmentenon sente. I due estremi sono dunque la pedanteria e il filisteismo da unaparte e la passione cieca e il settarismo dall’altra.

Non che il pedante non possa essereappassionato, tutt’altro: la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola epericolosa che il settarismo o la demagogia appassionata.
L’errore dell’intellettuale consiste nelcredere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senzasentire ed essere appassionato, cioè che l’intellettuale possa esser tale sedistinto e staccato dal popolo: non si fa storia-politica senza passione, cioèsenza essere sentimentalmente uniti al popolo, cioè senza sentire le passionielementari del popolo, comprendendole, cioè spiegandole egiustificandole nella determinata situazione storica e collegandoledialetticamente alle leggi della storia, cioè a una superiore concezione delmondo, scientificamente elaborata, il «sapere».

Se l’intellettuale non comprende e nonsente, i suoi rapporti col popolo-massa sono o si riducono a puramenteburocratici, formali: gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (centralismoorganico): se il rapporto tra intellettuali e popolo-massa, tra dirigenti ediretti, tra governanti e governati, è dato da una adesione organica in cui il sentimento passione diventacomprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente),allora solo il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementiindividuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè sirealizza la vita d’insieme che sola è la forza sociale, si crea il «blocco storico».

Da: Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Q II (XVIII), pp. 77-77 bis.

Alexander Höbel, Tommaso Nencioni, Donatella Coccoli, Antonio Gramsci.

articolo21, il manifesto, Left , doppiozero. 27 aprile 2017 (c.m.c.)

articolo21
ANTONIO GRAMSCI VIVO, 80 ANNI DOPO
di Alexander Höbel

Come mai, a 80 anni esatti dalla sua scomparsa, la figura di Antonio Gramsci viene celebrata, ricordata e studiata in tutto il mondo? E perché si continua a ritenere la sua opera come un contributo fondante per la cultura politica della contemporaneità? Gramsci viene oggi celebrato e studiato non solo come antagonista irriducibile del fascismo, che lo volle in carcere e lì lo uccise; non solo come fondatore del Partito comunista d’Italia assieme a Bordiga, Terracini, Togliatti, Grieco, Camilla Ravera, e i giovani Longo, Secchia, Teresa Noce; ma anche come colui il quale – dagli scritti giovanili alle Tesi di Lione, dal saggio sulla questione meridionale ai Quaderni del carcere – ha dato un contributo enorme al marxismo novecentesco, e più in generale al pensiero critico contemporaneo.

Le categorie concettuali da lui elaborate costituiscono tuttora una bussola essenziale per orientarsi nel mondo: egemonia, come processo di apprendimento delle classi lavoratrici nel loro porsi e proporsi come nuove classi dirigenti della società e dello Stato; rivoluzione passiva, ossia il modello delle ristrutturazioni operate dalle classi dominanti con la costruzione del consenso dei dominati; intellettuale collettivo e moderno Principe, ossia lo strumento politico e organizzativo – il Partito in primo luogo – che i subalterni si danno per la trasformazione radicale degli assetti sociali.

«Questo miracolo dell’operaio che quotidianamente conquista la propria autonomia spirituale» – scriveva Gramsci nel 1920 –«lottando contro la stanchezza, contro la noia, contro la monotonia del gesto che tende a meccanizzare e quindi a uccidere la vita interiore, questo miracolo si organizza nel Partito comunista». È qui che l’operaio «collabora ‘volontariamente’ alla attività del mondo […] pensa, prevede, ha una responsabilità […] è organizzatore oltre che organizzato», e «sente di costruire un’avanguardia» che trascina con sé «tutta la massa popolare»[1]. Sono parole che ancora oggi emozionano e incoraggiano.

Fondamentale fu poi il lavoro, avviato da Gramsci nel 1924, teso a individuare le “forze motrici” della rivoluzione italiana: operai industriali e salariati agricoli del Centro-Nord e braccianti del Mezzogiorno. Oggi i settori sociali potenziali protagonisti del cambiamento non sono gli stessi, e tuttavia la lezione di metodo fornita da Gramsci rimane attuale, e implica un nuovo sforzo di analisi e di organizzazione.

Anche altre categorie centrali nel suo pensiero sono di estrema attualità: la dimensione molecolare dei processi di trasformazione, l’alternarsi di guerra di movimento e guerra di posizione, la complessità della lotta politica nei paesi a capitalismo avanzato, il ruolo decisivo della battaglia delle idee, la necessità di costruire una nuova intellettualità di massa e quella unità tra struttura e sovrastruttura, forze sociali e idee guida che rappresenta per Gramsci il blocco storico, nel quale – per dirla con Marx – «le idee diventano una forza materiale».

Oggi naturalmente, rispetto ai tempi di Gramsci, molte cose sono cambiate e i legami tra politica e cultura si sono molto allentati. Tuttavia la riflessione del rivoluzionario sardo rimane di estrema attualità. «Non può esserci elaborazione di dirigenti – si legge nei Quaderni – dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti […]. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti», «il giorno per giorno […] invece della politica seria»; ma anche «miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura», sempre più staccata dalla realtà storica. In questo contesto, scrive Gramsci pensando alla Germania del primo dopoguerra, la burocrazia «sostituiva la gerarchia intellettuale e politica»[2]. Oggi basterebbe sostituire la parola “burocrazia” con “tecnocrazia” o “tecnostruttura” per avere un quadro abbastanza simile a quello descritto.

In un altro passo dei Quaderni Gramsci fa un altro ragionamento interessante: «A un certo punto della vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali», che «non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe». A quel punto la situazione «diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto […] all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici», mentre si rafforza il «potere della burocrazia […] dell’alta finanza». In questa che si configura come una vera e propria «crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso», la classe dominante «muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo»; dunque «mantiene il potere, lo rafforza […] e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione», i quadri politici. Ne deriva «il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico [ma possono essere anche due o tre, aggiungerei] che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe» dominante. Insomma,«non sempre [i partiti] sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche», ma le conseguenze del loro disgregarsi sono molto pesanti[3].

Sono parole di grande attualità, che ci rimandano a quella idea di «crisi organica«, nella quale «il vecchio muore e il nuovo non può ancora nascere», che per Gramsci però è anche tipica delle «fasi storiche di transizione»[4]. Ecco perché il pensiero del fondatore del comunismo italiano non solo è ancora fecondo, ma è anche uno strumento prezioso per chi vuole abolire lo stato di cose presente e contrastare la barbarie che avanza.

[1] [A. Gramsci], Il Partito comunista, “L’Ordine Nuovo”, 4 settembre e 9 ottobre 1920, in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti 1978, vol. II, pp. 151-152.

[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi 1975, pp. 387-388.

[3] Ivi, pp. 1603-1604.

[4] Ivi, p. 311.

il manifesto
LE ISTITUZIONI NEI PASSAGGI D'EPOCA .
LE LEZIONI DI ANTONIO GRAMSCI.
di Tommaso Nencioni

«80 anni dalla scomparsa. L’anniversario dalla morte coincide con il centenario dell’Ottobre. Un alimento per discutere le istituzioni (europee) nei passaggi d’epoca»

Le celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della scomparsa di Antonio Gramsci si saldano quest’anno con il centenario della rivoluzione russa. Una notevole messe di studi ha teso a “depurare” il pensiero del Gramsci maturo – quello dei Quaderni del Carcere – dall’eredità del leninismo.

Tuttavia, senza voler addentrarsi nella querelle che ha appassionato storici e filologi di diverse scuole, l’impatto dell’Ottobre sul politico comunista sardo non può essere rinnegato, e neppure sbiadito, in base a letture contingenti dettate dall’esigenza generale di rimozione dell’evento rivoluzionario dalla storia del XX secolo.

Ciò che particolarmente persiste, della lettura che dell’Ottobre dette Gramsci – del suo tentativo di tradurre in italiano i fatti di Russia, verrebbe da dire con terminologia gramsciana – pare anzitutto una lezione di metodo, che si riflette in due intuizioni preponderanti.

La prima è l’assoluto rifiuto di una visione lineare della storia, come se questa fosse agita da un demone di carattere progressivo. Ogni rivoluzione si presenta come Rivoluzione contro il capitale, come frutto della volontà umana di piegare la modernità ad un esito del conflitto favorevole alle classi subalterne, di per sé non scritto in nessuna legge aurea. La seconda è la ravvisata necessità per i subalterni di creare, nel cuore stesso del conflitto, le istituzioni avvenire, senza attardarsi nella difesa di quelle caratteristiche dell’epoca precedente – fossero anche istituzioni che ne avevano garantito un relativo benessere, quali ne furono effettivamente edificate nell’Italia giolittiana. Se ci si attende l’emancipazione da eventi “esterni”, come se ci si ripara all’ombra di istituti che una nuova condizione storica fa apparire come obsoleti, l’ondata storica è destinata a travolgere le vecchie conquiste e a renderne impossibili di nuove. Di qui lo “spirito di scissione” evocato da Gramsci contro le tradizioni tanto riformiste che massimaliste del socialismo dell’Italia liberale.

Con l’Ottobre historia facit saltus, e una netta discontinuità si instaura nel pensiero gramsciano. Dal punto di vista della storia delle idee, la rivoluzione bolscevica mette concretamente il pensatore sardo di fronte al tema del marxismo, nella misura in cui, con la loro azione vivificatrice, con la loro Rivoluzione contro il capitale, i bolscevichi avevano ‘salvato’ Marx dai suoi esegeti ammalati di positivismo e determinismo.

Ma il saltus dell’Ottobre segna sì una discontinuità nella maniera gramsciana di pensare la lotta politica – mette l’ipotesi rivoluzionaria all’ordine del giorno, pone di fronte alla necessità di pensare la presa del potere da parte del proletariato colui che fino a quel momento aveva teorizzato la funzione di stimolo al progresso borghese proprio della classe operaia – ma in esso allo stesso tempo si intravede una continuità di metodo: col volontarismo di cui è permeato, Gramsci non giudica, alla maniera dei riformisti italiani o degli stessi menscevichi russi, la rivoluzione in base a presunte leggi di sviluppo presenti a priori nella Storia; ma, operando un vero e proprio distacco logico rispetto a tali convinzioni, individua nell’atto rivoluzionario una fonte di norme dell’agire storico. Gramsci non giudica l’Ottobre con le lenti della storia, ma ne fa una lente per giudicare la storia.

C’era prima della rivoluzione un Gramsci anti-giacobino, per il quale il giacobinismo in quanto ideologia democratica trascendente, fuori dalla storia, si risolveva forzatamente in un atto di negazione della libertà; questo Gramsci non a caso celebra la rivoluzione russa come rivoluzione anti-giacobina; e c’è un Gramsci, dopo lo scioglimento dell’Assemblea costituente da parte dei bolscevichi, che accetta le logiche della dittatura (giacobina) nel momento del passaggio dal vecchio al nuovo Stato.

Da queste considerazioni emerge il teorico dello Stato – dell’Ordine – nuovo. Uno Stato/Ordine nuovo che però si forma, in Gramsci, già nella prassi rivoluzionaria, nella dialettica tra conflitto e istituzioni; questa funzione di collegamento sarà individuata nel Soviet, istituzione autonoma della classe operaia già forgiata nel corso della lotta per il potere e successivamente destinata a funzionare da perno dell’Ordine Nuovo. Nel momento in cui il Soviet da contro-potere si fa potere, Gramsci si trasforma insomma da teorico dell’antistato e teorico dello Stato (nuovo). Un omaggio operante alla lezione del Machiavelli dei Discorsi, per il quale «coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma…».

Anche nella fase attuale, a fronte di un rinnovato protagonismo dei popoli nello scenario politico che si articola in forme nuove e sconosciute, la sinistra storica si fa portavoce del dogma della modernizzazione – dell’espulsione, cioè, del conflitto dalla modernità – e si impantana nella difesa di istituzioni che sono state negli ultimi anni i perni della grande restaurazione neoliberale. In un simile contesto, una riflessione sul legame tra il pensiero di Gramsci e l’irruzione della rivoluzione nella storia umana costituisce un punto necessario da cui ripartire.


Left
GRAMSCI ,
UN PATRIMONIO CHE LA SINISTRA
NON RIESCE A FAR SUO
di Donatella Coccoli

Era il 25 aprile 1937 e il giudice del tribunale di sorveglianza di Roma aveva comunicato a Antonio Gramsci, ricoverato nella clinica Quisisana, che era finalmente un uomo libero. Ma la sera stessa, dopo aver cenato, Gramsci venne colto da una emorragia cerebrale e all’alba del 27 aprile cessò di respirare. Aveva 46 anni e nonostante il carcere e la malattia, aveva realizzato una riflessione politica straordinaria.

Ottant’anni dopo, l’anniversario gramsciano dovrebbe essere l’occasione per riflettere sul pensiero, sulla filosofia della praxis, sul concetto di egemonia culturale dell’autore dei Quaderni. La sinistra dovrebbe attingere a piene mani a un patrimonio inestimabile, come ha accennato anche lo storico Angelo d’Orsi sulle pagine di Left adesso in edicola. D’Orsi, autore per Feltrinelli di una nuova biografia – cinquant’anni dopo quella di Giuseppe Fiori – afferma che è drammaticamente necessaria oggi una figura come quella di Gramsci che per tutta la sua vita ha avuto come stella polare «l’esigenza della liberazione dei ceti subalterni».

Ma oggi non esistono intellettuali come lui, capaci di analisi profonde e originali che nemmeno lo stesso partito comunista di allora riuscì a cogliere. E al tempo stesso, Gramsci, si presenta come un personaggio ingombrante, con cui è difficile identificarsi. Non è un “brand” qualsiasi. Ci ha provato Matteo Renzi con il suo consigliere Tommaso Nannicini a tirare in ballo il concetto di egemonia culturale al Lingotto di Torino. Ma la cosa è davvero poco credibile.

Un presidente del Consiglio che ha voluto una riforma come la Buona scuola cosa ha in comune con chi teorizzava il fatto che tutti gli uomini sono intellettuali e che la scuola è un cardine della lotta per lo sviluppo umano? Cosa c’entra davvero il Pd di oggi con il partito Principe di cui parlava Gramsci? I fatti, cioè le riforme renziane “centraliste”, vanno in direzione contraria rispetto ai concetti espressi nei Quaderni in cui le masse erano comunque sempre protagoniste nella lotta di emancipazione. E non si venga a dire che oggi non c’è bisogno di emancipazione, con i 4 milioni e mezzo di italiani in povertà assoluta, il quasi 40 per cento di disoccupazione giovanile e il record di abbandoni scolastici rispetto all’Europa.

Anche a sinistra del Pd, tuttavia, non si può dire che ci sia una corsa frenetica per prendere o comunque studiare l’opera di Gramsci.
Vedremo cosa uscirà oggi dal convegno Gramsci ottanta anni dopo a Roma (ore 9, Sala Gonzaga, Via della Consolazione 4), promosso da Sinistra italiana e organizzato dal professor Michele Prospero. Tra i partecipanti, Stefano Fassina, Luciana Castellina, Nicola Fratoianni, Claudio De Fiores, Piero Bevilacqua.

Oggi Gramsci verrà commemorato anche alla Camera dei deputati dove, ricordiamo, venne eletto il 6 aprile 1924. Una carica che mantenne fino all’8 novembre 1926 quando venne arrestato. Per lui si sarebbe spalancato il portone di varie carceri italiane dove però con una forza incredibile, pur in condizioni di salute sempre più precarie fino a farsi gravi dal 1935, riuscì a scrivere la grande opera che Mario Lavia su L’unità definisce «una mole inevitabilmente di teoria “disorganica”». In realtà rappresenta una ricerca politica e culturale che non ha precedenti in Italia né prima e né dopo Gramsci. «Non c’è un argomento dello scibile umano di cui lui non si sia occupato», conferma Angelo d’Orsi.

Linguaggio, arte e letteratura, scuola, giornalismo, organizzazione politica, sono solo alcuni temi che si ritrovano nei Quaderni. I libriccini che cominciò a scrivere nel 1929 nel carcere di Turi saranno in mostra nella Sala della Lupa alla Camera fino al 7 giugno a cura della Fondazione Gramsci. Per la prima volta vengono esposti gli originali dei 33 quaderni e di cento volumi, tra libri e riviste, in possesso di Gramsci durante la detenzione. I manoscritti sono esposti accanto alla loro versione digitale e possono essere sfogliati integralmente.

Sempre oggi dalle 18 nella sede della Enciclopedia italiana il doppio evento Passato e presente, con One day exhibition, una installazione di Elisabetta Benassi e l’esecuzione dell’opera di Luigi Nono La fabbrica illuminata.
Quasi a sottolineare il legame con la cultura e l’arte che Gramsci aveva sempre avuto anche come giornalista e di cui si parla ampiamente anche nel numero in edicola di Left. Un’altra prova della grandezza della sua figura, in cui la politica va di pari passo con la cultura. Qualsiasi paragone con l’oggi è assolutamente improponibile.

doppiozero
ANTONIO GRAMSCI : I VERI INTELLETTUALI
di Antonio Gramsci

Quando si distingue tra intellettuali e non intellettuali in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene conto della direzione in cui grava il peso maggiore dell’attività specifica professionale, se nell’elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale cerebrale e sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale.

Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione de mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.

Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un’attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo.

Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i “veri” intellettuali. Nel mondo moderno l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale.

Su questa base ha lavorato l’”Ordine Nuovo” settimanale per sviluppare certe forme di nuovo intellettualismo e per determinarne i nuovi concetti, e questa non è stata una delle minori ragioni del suo successo, perché una tale impostazione corrispondeva ad aspirazioni latenti e era conforme allo sviluppo delle forme reali di vita. Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanentemente” perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico).

Tratto da : A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III.

«Pubblichiamo ampi stralci della postfazione di Giorgio Frasca Polara de “Il giornalismo, il giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore de ‘l’Unità

”, a cura di Gian Luca Corradi, introduzione di Luciano Canfora edito da Tessere, Firenze». Ytali 13 aprile 2017 (c.m.c.)

Gramsci avrebbe potuto insegnare, e bene, quel giornalismo serio, informato di cose serie, che oggi sta diventando una rarità non solo in Italia.

Magari molte cose, nelle note sparse nei Quaderni (ma che Togliatti nella prima e purgata edizione, volle ordinare nel volume dedicato a "Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura"), sono superate: nella concezione e nella fattura di giornali, riviste, strumenti di comunicazione in genere. Nessuna sorpresa: basti pensare a quante cose, nel giornalismo, sono mutate ab illo; o a verificare, passato un secolo breve, che cosa oggi rappresenta, solo per fare un banale esempio, il web nel bene (la velocità dell’informazione) e talora nel male: la sintesi forzata, la superficialità, lo scoop. Eppure ci sono, in quelle note, molte, moltissime intuizioni straordinarie su come sarebbe diventato il giornalismo, e sulle condizioni per promuovere e realizzare un giornalismo attrezzato, intellettualmente onesto, e soprattutto libero.

Ma attenzione: neanche per Gramsci il giornalismo è una scienza infusa. La passione per la carta stampata nasce in lui, poco più che ventenne, come necessità politica di praticare il giornalismo perché egli ne comprende il valore unico, in un certo senso assoluto, come strumento di formazione, come arma prima di educazione e poi di propaganda. C’è una traccia fondamentale di quest’idea in un paio di storiche battute apparse su l’Avanti! già nel 1916: «Bisogna dire e ripetere che quel soldino buttato là distrattamente nella mano dello strillone è un proiettile consegnato al giornale borghese che lo scaglierà poi, al momento opportuno, contro la massa operaia. Se gli operai si persuadessero di questa elementarissima verità, imparerebbero a boicottare la stampa borghese con quella stessa compattezza e disciplina con cui la borghesia boicotta i giornali degli operai, cioè la stampa socialista (…) Boicottateli, boicottateli, boicottateli!».

Praticare il giornalismo ma soprattutto insegnarne le basi a chi non ha la minima idea di come si scrive un articolo, per creare così un collettivo, per far crescere appunto la stampa socialista. Prima la pratica e poi la teoria, sembra dirci Nino, stando ad un paio di sue lettere che scrive nel 1918 e nel 1924. La prima è diretta a Giuseppe Lombardo Radice, rivolta più al pedagogista che non al filosofo. Gramsci gli racconta dell’esperienza di un gruppo di giovani e giovanissimi socialisti, inseriti in un “Club di vita morale” di cui lui stesso fa da “exubitor”, che in latino fa sentinella, noi oggi diremmo che fa da tutor. Bene, da questo gruppo emerge Andrea Viglongo, un impiegato privato, 17 anni, studi tecnici inferiori, che ha scritto per Il Grido del Popolo la segnalazione di un saggio (chissà perché Gramsci lo definisce “opuscolo”) dello stesso Lombardo Radice su Il concetto dell’educazione. Che gliene pare? chiede Gramsci sollecitando qualche consiglio, «un indirizzo che integri e completi i miei propositi». Non si ha traccia della risposta, ma non è questo l’importante, come vedremo tra un momento.

Sei anni più tardi sarà Gramsci a impartire da Vienna una severa ma in fondo anche bonaria lezione a Vincenzo Bianco per un articolo destinato ad esser pubblicato ma non sappiamo su quale giornale. (Per inciso, emigrato in Francia e in Belgio con l’avvento del fascismo, Bianco fu poi un coraggioso garibaldino in Spagna; rappresentò ufficialmente il Pcd’I nella Terza Internazionale, e che come tale firmò lo scioglimento del Comintern nel 1943, a nome del Pci. Ebbe poi discutibili, e anzi assai discussi, rapporti con Tito per la questione di Trieste: lui era favorevole all’annessione della città alla Jugoslavia. Fu infine sospeso da ogni incarico di partito e finì i suoi giorni all’archivio dell’Unità come traduttore di Pravda e Izvestia.) Più giovane di Gramsci di una decina d’anni, Nino gli scrive che avrebbe preferito, agli articoli un po’ sbilenchi, “il lavoro pratico” tra gli emigrati; poi gli promette una lettera-lezione per correggere “gli errori che commetti, di stile e di grammatica”, anche se è “già gran cosa” sapere esporre con grande chiarezza “i tuoi concetti”. Ma bisogna mettere ordine in questi concetti.

E allora Nino, con pazienza, gli spiega: fare prima uno “schema”, poi «disporre in ordine (…) tutte le cose che vuoi dire» indi svilupparle. Per abituarlo a questo lavoro Gramsci gli consiglia di “fare esercizi” per iscritto (“in modo per abituarti a una forma tua, precisa e personale”), su scritti degli altri, “per esempio sul Manifesto dei Comunisti, capolavoro di chiarezza, di semplicità e di dialettica”. E gli ricorda che Antonio Labriola aveva letto più di cento volte il Manifesto, ogni volta comprendendo qualcosa che prima non aveva capito. «Se anche tu» imitassi il grande marxista napoletano «ciò non sarà inutile». E improvvisamente ritorna, in questa lettera a Bianco, il nome di Viglongo: gli aveva dato consigli analoghi, e gli aveva fatto fare lavori simili. «Prima scriveva articoli di 6, 7, 8 colonne che io cestinavo», racconta Gramsci: «Glieli facevo rifare sino a tre, quattro volte sino a quando non erano diventati di una colonne e mezzo al massimo (…) E Viglongo, che prima era un pasticcione di tre cotte, finì per scrivere abbastanza bene, tanto che poi immaginò di essere diventato un grand’uomo e si allontanò da noi». Quindi “non più” lezioni ai giovanotti del suo tipo, «lo farò solo con gli operai, che non aspirano a diventare grandi giornalisti della borghesia».

Passione per la carta stampata? Sì, ma unita ad una conoscenza e intelligenza strabilianti per le tecniche di stampa e, paradossalmente, persino per risparmiare sull’acquisto della carta. C’è una lettera illuminante, scritta da Vienna nel gennaio del 1924 e diretta a quel Ruggero Grieco che diventerà anni dopo – con la famigerata missiva che in pratica lo individua come il capo dei comunisti – la sua maggiore e distruttiva ossessione in carcere. Nella lettera Nino dà alcuni suggerimenti pratici alle viste della stampa a Roma del torinese “Ordine Nuovo”. Intanto trovare un tipografo che abbia una macchina piana capace di contenere il foglio del quindicinale: «Non mi pare difficile». Poi trovare un mercante di carta che, come accade a Torino (“e a Roma esistono una quindicina di giornali…”), acquisti dalle grandi tipografie “tutti i residui di carta”, “gli avanzi dei rotoli”, per cavarne «una carta bianca e abbastanza consistente» che possa servire per l’Ordine e, soprattutto, per conservarne il formato: «So quanto queste piccole cose abbiano una grande importanza pratica nella diffusione». Ma attenzione, e qui balza con tutta evidenza l’intelligenza critica di Nino Gramsci, perché «da una diversa soluzione del formato dipende anche una diversa impostazione redazionale». Sembra di sentire Albe Steiner, ma a quell’epoca il grande innovatore della grafica politica era appena un ragazzino…

Questo passaggio su soluzione del formato e impostazione redazionale è, credo, doppiamente importante. Intanto perché è uno dei primi e più efficaci esempi delle intuizioni che Antonio Gramsci svilupperà a lungo, saltuariamente, e anche nelle più disparate occasioni, negli anni terribili della galera quando dovrà limitarsi a studiare, del giornalismo, quelli che lui stesso definirà i «fini metodologici e didattici». E poi perché, un passo dopo l’altro delle sue riflessioni sul giornalismo, Gramsci giungerà ad alcuni punti fermi, tuttora validi, tuttora cogenti. Anzitutto un dovere dell’attività giornalistica: «Seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese». E poi ripete: «Tutti.» E subito fa un esempio illuminante: «Il cattolicismo è un grande centro e un grande movimento». Seguire e controllare tutto, ma bandendo «le cattive tradizioni della media cultura italiana: l’improvvisazione, il ‘talentismo’, la pigrizia fatalistica, il dilettantismo scervellato, la mancanza di disciplina intellettuale⋄.

A proposito di formati e di design. Nino si era fatto mandare in carcere il primo numero della rivista Leonardo edita da Sansoni e l’aveva paragonato ai numeri della stessa rivista èditi in precedenza da casa Treves. E nota subito la differenza a tutto favore della Sansoni, e ne scrive a lungo. Intanto a proposito della veste esteriore che ha grande importanza sia commercialmente che per fidelizzare il lettore, e ciò vale, a suo giusto avviso, non solo per le riviste ma anche per i quotidiani – e lui, in cella, ne ottiene tra al mattino e due al pomeriggio.

Qui, a proposito della veste, elenca minuziosamente, con una precisione tecnica non tanto da giornalista quanto da proto (che è, o almeno era, il “re” in tipografia) le caratteristiche di una pagina-tipo “composta dai margini, dagli intercolunni, dall’ampiezza delle colonne (lunghezza della linea), dalla compattezza della colonna cioè dal numero della lettere per linea e dall’occhio di ogni lettera, dalla carta e dall’inchiostro: bellezza dei titoli, nitidezza del carattere dovuto al maggiore o minore logorio delle matrici o delle lettere a mano ecc.” Anche da queste minuzie si può trarre una morale. Per esempio sulla “resa” politica della stampa. Si chiede Gramsci: “Come potrebbe essere ritenuto capace di amministrare il potere di Stato un partito che non ha o non sa scegliere (il che è lo stesso) gli elementi per amministrare bene un giornale o una rivista? Viceversa, un gruppo che con mezzi scarsi sa ottenere giornalisticamente risultati apprezzabili, dimostra con ciò, o già con ciò, che saprà amministrare bene anche organismi più ampi”. Ogni pronostico su future vicende editoriali di partito è ovviamente del tutto casuale: giusto attribuire meriti e doti grandi a Gramsci ma non quella di indovino (e comunque ci aveva azzeccato).

Il che non gl’impediva di prevedere o anticipare quali strade avrebbe preso il giornalismo in un domani, prossimo o lontano che fosse, o almeno quella parte dell’editoria più avvertita, che avrebbe sentito il polso del lettore e colto i segni di esigenze più avanzate. […]

Lettore famelico, onnivoro, persino compulsivo, Gramsci trova sulla Nuova Antologia (estate 1928, Nino è in carcere già da due anni) un articolo “interessante” di Ermanno Amicucci. Lo sa fascista, non sa che diventerà segretario del sindacato fascista dei giornalisti, e men che mai può sapere che sarà persino repubblichino, collaborazionista con i nazisti, condannato per questo a morte, pena poi commutata in trent’anni, e infine non solo amnistiato ma quasi subito libero di riprendere a fare il giornalista come se nulla fosse. Comunque Amicucci ha toccato un tasto – l’educazione al giornalismo – a cui, come si è visto, Gramsci è assai attento, nemico com’è dell’improvvisazione, del dilettantismo. E dunque egli fa suo, e lo definisce meglio, il principio che il giornalismo debba essere insegnato, che non sia razionale lasciare che il giornalista si formi da sé casualmente, attraverso la “praticaccia”.

Questo principio è vitale, e Gramsci prevede che “si andrà sempre più imponendo a mano a mano che il giornalismo, anche in Italia, diventerà un’industria più complessa e un organismo civile più responsabile”. Di più, Gramsci ha un’idea: che il problema della scuola professionale possa essere risolto nell’ambito della stessa redazione, trasformando o integrando le periodiche riunioni redazionali in scuole organiche di giornalismo, “con l’invito ad assistervi anche di elementi estranei alla redazione in senso stretto: vere scuole politico-giornalistiche”. Le scuole (quali buone, quali mediocri, quali pessime) ora esistono, ma completamente avulse dalle tradizionali riunioni di redazione. Un solo giornale ne trasmette via Internet una sorta di sceneggiata, magari utile a fini pubblicitari ma non certo scolastici. Gramsci è lontano.

Ottanta anni fa, il 27 aprile, moriva il grande intellettuale comunista. Se quanti fanno

politiquepoliticienne oggi - dalla sinistra radicale fino ai liberali -avessero letto e meditato con più attenzione i suoi scritti forse ci sarebbero meno rottami e più speranze. Ytali, 21 febbraio 2017 (c.m.c.)

"Io non parlo mai dell’aspetto negativo della mia vita, prima di tutto perché non voglio essere compianto: ero un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata, e i combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno lottato non perché costretti, ma perché così hanno essi stessi voluto consapevolmente". Lettera alla madre, 24 agosto 1931

L’“Anno Gramsciano” è appena iniziato. In tutta Italia sono già in tanti ad aver colto questa preziosa occasione per organizzare iniziative ed eventi dedicati al pensatore italiano più studiato e tradotto al mondo.

Uno dei primi importanti eventi dell’“Anno” è la mostra “Antonio Gramsci e la Grande Guerra”, ideata e realizzata dalla Fondazione Gramsci. Dal 15 febbraio al 10 marzo sono esposti all’Archivio Centrale dello Stato anche i trentatré “Quaderni del carcere” compilati da Gramsci dal 1929 al 1935.

Intellettuale e dirigente politico, la sua tormentata e dolorosa esperienza di prigioniero di Mussolini ebbe inizio l’8 novembre 1926, alla vigilia dell’approvazione delle “Leggi eccezionali fasciste”. La sua vicenda carceraria e la prematura scomparsa lo hanno reso un martire e un eroe. Egli stesso, tuttavia, aveva rifiutato queste etichette: lo dimostra la lettera del 12 settembre 1927 rivolta al fratello Carlo in cui affermava di non voler fare «né il martire né l’eroe». «Credo», proseguiva nella sua missiva, «di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo».

Gramsci morì il 27 aprile 1937 presso la Clinica Quisisana di Roma a causa di un’emorragia cerebrale che l’aveva colpito due giorni prima: «il giorno stesso in cui il giudice di sorveglianza del Tribunale di Roma», ricorda il professor Giuseppe Vacca, «gli aveva comunicato che, terminato il periodo della libertà condizionata, veniva sospesa ogni misura di sicurezza nei suoi riguardi.»

Togliatti gestì direttamente l’eredità culturale e politica di Gramsci all’indomani della sua scomparsa. Secondo Giuseppe Cospito, docente di Storia della filosofia moderna presso l’Università degli Studi di Pavia (“Introduzione a Gramsci”, Il melangolo, 2015), Togliatti è «l’artefice fondamentale, nel bene e nel male, delle letture del suo pensiero nei primi decenni successivi alla morte» non solo per il ruolo di “editore degli scritti”, ma anche per aver voluto «rivendicarne per sé e il proprio Partito l’eredità politica e culturale.» Un “difensore”, sempre secondo Cospito, dell’«originalità della posizione del capo della classe operaia» in grado di “trascendere la vicenda storica” del Partito, senza mettere in discussione l’ortodossia marxista e leninista, da interpretare, di volta in volta, in modo diverso, anche a costo di “inevitabili forzature”, per “adattare” il suo pensiero all’epoca contemporanea.

La Fondazione Gramsci, dal 1950, per volontà di Togliatti, custodisce il lascito di “Nino”, come Gramsci veniva chiamato in famiglia, ed è attivamente impegnata nella valorizzazione della sua figura in Italia e all’estero.

Ma, concretamente, com’è stato preservato questo patrimonio composto non solo dai “Quaderni del carcere” (29 di note e quattro di traduzioni) e dalle lettere, ma anche da libri, documenti d’archivio, giornali, riviste e altri manoscritti di Gramsci?

Lo abbiamo chiesto a Francesco Giasi, Direttore della Fondazione Gramsci, che ci ha accolto nella stanza in cui è conservata la maggior parte dei libri che Gramsci leggeva mentre si trovava in carcere.

Direttore, in questi 67 anni la Fondazione ha portato avanti il compito che Togliatti le aveva affidato. Come ha gestito questa importante “missione”?
L’idea di una Fondazione dedicata a Gramsci nacque in occasione del decennale della sua morte, nel 1947. Venne poi istituita nel 1950 quando tornarono in Italia i libri appartenuti a Gramsci, che, assieme ai “Quaderni” e alle “Lettere”, erano stati portati a Mosca dalla cognata Tania Schucht.
Le “Lettere dal carcere” avevano già avuto uno straordinario successo editoriale e si stava concludendo la prima edizione dei “Quaderni”. Togliatti non aveva mai pensato di ridurre Gramsci ad un santino. Il suo ingresso nel pantheon nazionale era avvenuto già all’indomani della Liberazione quando la sua figura politica era stata solennemente accostata in Parlamento a quella dei padri della patria. Accadde nel giugno del 1945, quando furono commemorati anche Giacomo Matteotti e Giovanni Amendola, gli altri due deputati vittime del fascismo. Prima della caduta di Mussolini, il volto e il nome di Gramsci avevano accompagnato le lotte antifasciste, assieme a quelli dei fratelli Rosselli, di Gobetti e di altre vittime e perseguitati politici. Gramsci, quindi, era già un’icona.

A Togliatti si deve la volontà di farlo conoscere attraverso i suoi scritti. C’è da dire che nei primi anni l’attività della Fondazione fu molto limitata. I manoscritti di Gramsci erano custoditi a Botteghe Oscure, presso la Direzione nazionale del PCI, dove aveva sede anche l’ufficio di Felice Platone che curò la prima edizione delle “Lettere” e dei “Quaderni”. Anche la pubblicazione degli scritti giornalistici fu avviata sotto la supervisione di Togliatti e il ruolo della Fondazione in questa impresa fu, inizialmente, marginale. Si trattava di un’impresa molto complessa che fu, peraltro, portata a termine solo molti anni dopo la morte di Togliatti.

Perché complessa?

Complesso è l’intero lavoro di edizione degli scritti. Gramsci è un autore che non ci ha lasciato “opere”, cioè libri, ma una grande mole di appunti (i 33 “Quaderni del carcere”), lettere non destinate alla pubblicazione e molte centinaia di articoli giornalistici. Questi ultimi non recano quasi mai la sua firma e sono dispersi in un gran numero di giornali e di riviste. C’è da individuarli e da riconoscerne la paternità. Ciò non è sempre agevole. In molti casi non è possibile stabilire con certezza che Gramsci ne sia l’autore, anche se il corpus dei suoi scritti principali non è mai stato in discussione. Gli articoli più brevi, quelli nati dalla collaborazione con altri redattori o che paiono più da lui ispirati che usciti dalla sua penna restano attribuibili con margini di incertezza. Un lavoro delicato iniziato da curatori che erano anche stati stretti collaboratori di Gramsci all’Avanti! di Torino, al Grido del popolo, all’Ordine Nuovo e all’Unità.

E quando la Fondazione iniziò ad occuparsi direttamente del lascito di Gramsci?
A partire dal 1957. In occasione del ventennale della morte, l’Istituto Gramsci, come venne ridenominata la Fondazione, organizzò il primo importante convegno internazionale di studi. L’iniziativa poté tenersi solo nel gennaio del 1958, a causa degli impegni politici di Togliatti. L’Istituto Gramsci era presieduto da Ranuccio Bianchi Bandinelli e diretto da Franco Ferri. Al convegno parteciparono figure di spicco della cultura nazionale e internazionale e una larga schiera di giovani filosofi e storici. Da allora l’Istituto prese in mano anche l’edizione degli scritti e divenne un vero centro di studi su Gramsci. Gli originali delle “Lettere” e dei “Quaderni” furono acquisiti nel 1963 e, poco dopo, l’archivio cominciò ad arricchirsi di altre carte, tra cui le lettere della cognata Tania. Togliatti affidò all’Istituto Gramsci la seconda edizione delle “Lettere dal carcere” che poté uscire solo nel 1965. Dopo la sua morte i convegni organizzati a cadenza decennale segnarono le tappe degli studi su Gramsci. Nel 1967 si tenne a Cagliari un convegno che impegnò una parte significativa del mondo accademico italiano. Nel 1977, a Firenze, vi fu una prima riflessione sulle novità portate dall’edizione critica dei “Quaderni del carcere” promossa già a metà degli anni Sessanta e pubblicata due anni prima. Ma ormai da vent’anni l’Istituto Gramsci non limitava la propria attività alla promozione degli studi gramsciani.

Gramsci ignorato in Italia e studiato all’estero. Un’idea che negli ultimi anni si è profondamente radicata nel nostro Paese. È davvero così?

Sfatiamo un mito. Gramsci è letto e studiato in Italia indipendentemente dalle ricorrenze. Basterebbe dare uno sguardo alle pubblicazioni degli ultimi vent’anni e a ciò che è stato prodotto tra gli ultimi due convegni gramsciani tenutisi a Cagliari nel 1997 e a Bari nel 2007. Decine di opere monografiche, innumerevoli contributi sulla sua vita e sul suo pensiero. Ricerche innovative in larga parte sollecitate dall’Edizione Nazionale degli scritti istituita dal Ministero dei Beni Culturali nel 1996. Un’enorme produzione di articoli, di saggi che alimentano una discussione vivace che appassiona gli studiosi delle più diverse discipline: storici, filosofi, linguisti, critici letterari, pedagogisti e antropologi. Questo avviene in Italia e non solo all’estero. In più, solo in Italia viene adeguatamente studiata la sua biografia politica e intellettuale.

Quando il pensiero gramsciano attraversò una fase di declino?
Vi fu solo un momento in cui la figura di Gramsci subì in Italia un temporaneo declino: all’inizio degli anni Ottanta. Già Hobsbawm, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte, aveva sottolineato che la crescente attenzione internazionale per Gramsci contrastava con la profonda “emarginazione” del suo pensiero in Italia. Proprio avvertendo questa discrasia tra fortuna all’estero e declino in Italia, Giuseppe Vacca, divenuto direttore della Fondazione, decise di organizzare un convegno che desse conto degli studi internazionali. L’iniziativa si tenne a Formia nel mese di ottobre del 1989, pochi giorni prima della caduta del Muro di Berlino.

Questo Convegno fu molto importante perché vide la partecipazione di studiosi europei, americani, asiatici e africani che illustrarono il percorso degli studi gramsciani nei Paesi di provenienza. La Fondazione da allora ha continuato a rappresentare un collegamento tra gli studiosi di tutto il mondo. A Formia, tra l’altro, si costituì l’International Gramsci Society e sono innumerevoli gli accordi con università e centri di ricerca per pubblicazioni e progetti congiunti. Da oltre un decennio curiamo la pubblicazione di volumi dedicati agli studi gramsciani nel mondo, l’ultimo dei quali si intitola “Gramsci in Gran Bretagna”. I prossimi saranno dedicati a “Gramsci in Francia” e a “Gramsci nel mondo arabo”.

In questo contesto rientra anche la decisione del Parlamento italiano di dichiarare la Casa Museo di Antonio Gramsci di Ghilarza “monumento nazionale”?
Certamente la decisione è un ennesimo riconoscimento dell’importanza di Gramsci per la storia e la cultura nazionale. Peraltro, la Fondazione Gramsci, l’International Gramsci Society e la Casa Museo di Ghilarza organizzano già dal 2013 una Summer School, una vera e propria scuola internazionale di studi gramsciani. Vi partecipa, di volta in volta, una quindicina di giovani studiosi provenienti da ogni parte del mondo, selezionati per concorso. Anche la Casa Museo si è data una nuova struttura e ha in calendario importanti iniziative.

Quali progetti e iniziative sta mettendo in campo la Fondazione per l’Ottantesimo?
Nel corso del 2017 lo celebreremo nel modo dovuto. La prima grande occasione – se ne è parlato prima – è la mostra “Antonio Gramsci e la Grande Guerra” allestita all’Archivio Centrale dello Stato. Il 27 aprile vi sarà una commemorazione organizzata con la Presidenza della Camera dei Deputati a Palazzo Montecitorio, nella sala della Lupa. Nei giorni seguenti, fino al 7 giugno, saranno esposti a Montecitorio i “Quaderni” e i libri del carcere. Durante i giorni della mostra si terrà – nella Sala Aldo Moro – un ciclo di lezioni destinato al largo pubblico. Dal 18 al 20 maggio si terrà poi il convegno intitolato “Egemonia e modernità. Il pensiero di Gramsci in Italia e nella cultura internazionale”, organizzato assieme all’International Gramsci Society e all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, che è anche l’editore dell’Edizione Nazionale.

Il convegno conferma l’importanza del pensiero gramsciano all’estero. Gramsci è uno dei cinque italiani presenti nell’elenco dei duecentocinquanta autori della letteratura più citati al mondo e sono circa ventunomila i titoli delle opere di letteratura critica pubblicate in quasi tutte le lingue moderne.
E tanti artisti e intellettuali hanno visto nel pensiero di Nino un possibile riscatto per la rinascita del proprio Paese, grazie all’adozione di modelli sociopolitici gramsciani, sicuramente da attualizzare.
Nel Bronx, ad esempio, nel 2013 l’artista svizzero Thomas Hirschhorn ha creato l’installazione “The Gramsci Monument”, un luogo di aggregazione che ha ospitato – in un’area della città particolarmente problematica – reading, lezioni, corsi per bambini, concerti e seminari.

Quali sono i Paesi in cui il suo pensiero ha avuto particolare risonanza e, soprattutto, ritiene sia difficile per un intellettuale straniero studiare e interpretare i suoi testi?
I “ventunomila titoli” che lei ha citato sono quelli che registra la Bibliografia gramsciana fondata da John M. Cammett, il decano degli studi gramsciani negli Stati Uniti. Oggi la Fondazione Gramsci la aggiorna costantemente grazie ad una rete di corrispondenti presenti nei cinque continenti. Le lingue sono ormai 41. La banca dati è consultabile online dal sito della Fondazione.
Negli Stati Uniti vi è una grande attenzione per Gramsci, soprattutto nelle accademie. In Giappone la penetrazione del pensiero gramsciano è stata significativa, soprattutto negli anni passati.

Crescente è, invece, l’interesse verso Gramsci nei Paesi latinoamericani, in particolare in Brasile. Ma in Messico, Cile e Argentina vi è una solida tradizione di studi su Gramsci che risale agli anni Settanta. In Europa spicca da qualche anno il caso della Francia, dove si sono messi all’opera studiosi giovani e qualificati. È importante ricordare che Gramsci è un autore molto difficile da studiare e interpretare all’estero. Per comprendere a fondo i suoi scritti è necessaria una conoscenza approfondita della cultura del suo tempo.

E in Russia, che rappresenta quasi la seconda patria di Nino, il pensiero gramsciano è diffuso?
In Russia Gramsci non ha mai avuto una grande fortuna. Sono state pubblicate alcune antologie dei suoi scritti, ma non vi è un’edizione integrale dei “Quaderni del carcere”. Dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Ottanta il suo pensiero non si poteva valorizzare accanto agli autori che costituivano la costellazione dei filosofi marxisti-leninisti. Dai cataloghi delle edizioni statali si ricava una significativa marginalità di Gramsci e si può affermare che la sua biografia e i suoi scritti siano stati oggetto di interesse da parte di pochi studiosi, anziché di enti o istituzioni pubbliche. Dopo la fine dell’Unione Sovietica non vi è stato nessun interesse significativo, nonostante la presenza di giovani che avvertono la rilevanza del pensiero di Gramsci nella cultura internazionale. Un caso a sé rappresenta il Centro russo che gestisce gli archivi dell’Internazionale comunista con il quale la Fondazione ha mantenuto importanti rapporti istituzionali e che, in alcuni casi, ha favorito il collegamento con università e altri centri culturali russi.

Torniamo in Italia. Dal 1950 ad oggi ritiene si sia creato un network culturale gramsciano trasversale diffuso sul territorio?
In questi decenni la Fondazione ha mantenuto il collegamento con gli istituti gramsciani, autonomi e attivi in molte regioni italiane. Sono nati nel frattempo Laboratori interdipartimentali in alcune prestigiose università che promuovono ricerche in vari ambiti disciplinari. Non sarei in grado di enumerare le iniziative organizzate a livello locale dai soggetti più disparati: scuole, associazioni culturali, biblioteche e centri di studio sparsi in tutta Italia.

La Fondazione non può certo raccordare tutte queste attività. Per noi la valorizzazione del lascito di Gramsci è attività quotidiana. Garantiamo agli utenti del nostro archivio e della nostra biblioteca l’accesso alle carte di Gramsci e la possibilità di consultare la letteratura scientifica proveniente da tutte le parti del mondo. E la nostra attività non si limita a Gramsci. La Fondazione conserva importanti archivi per lo studio della storia politica, sociale e culturale dell’Italia nel Novecento. Archivi di partiti, a cominciare dalla documentazione prodotta dal Partito Comunista Italiano dal 1921 al 1991, e di persone: dirigenti politici, intellettuali e artisti italiani. Vi è poi la nostra attività di ricerca che si articola attorno a temi e problemi della storia contemporanea.

Parliamo degli scritti. Nel 1975 fu pubblicata da Einaudi la prima edizione critica dei “Quaderni”, curata da Valentino Gerratana, che comprendeva 29 “Quaderni” (senza i quattro di traduzioni), disposti in base alla data di stesura e non per raggruppamenti tematici. Negli anni Novanta una nuova pubblicazione, a cura di Gianni Francioni, avvenne, nell’ambito dell’Edizione Nazionale degli Scritti, partendo dall’edizione di Gerratana e dal lavoro filologico di Francioni stesso. A partire dal 2009 è possibile avere accesso ai manoscritti riprodotti integralmente in un’edizione anastatica in cui ogni “Quaderno” è preceduto da una premessa ai fini della contestualizzazione del contenuto.
Quali sono i nuovi progetti della Fondazione?

Stiamo lavorando a un’edizione integrale e critica di tutti gli scritti. Una sezione è dedicata agli scritti giornalistici e politici e, qualche mese fa, ha visto la luce il volume che raccoglie gli articoli pubblicati nel 1917, anno cruciale della biografia di Gramsci.

I “Quaderni” saranno pubblicati distinguendo quelli di traduzioni – già pubblicati, come lei ha ricordato – quelli miscellanei e, infine, gli “speciali”, così denominati da Gramsci perché concepiti per includere note dello stesso argomento. L’epistolario include anche le lettere indirizzate a Gramsci. Ne sono usciti due volumi. Il primo contiene la corrispondenza dal 1906 al 1922, mentre il secondo è relativo esclusivamente al soggiorno moscovita di Gramsci nel 1923. Accanto a queste tre sezioni vi è quella dei documenti inaugurata con la pubblicazione della dispensa universitaria del corso di glottologia di Matteo Bartoli curata da Gramsci nel 1912. L’Edizione è frutto di un lavoro collettivo.

Un’ultima domanda. È nota la profonda vocazione pedagogica di Gramsci che ha trovato piena espressione nelle lettere ai due figli, Delio e Giuliano, in cui racconta storie di briganti e di animali, della sua infanzia e della Sardegna, raccolte poi nel testo “L’Albero del riccio”. La sua opera ha avuto un impatto sulla letteratura per l’infanzia?
Direi che Gramsci ha avuto fortuna anche tra i giovanissimi lettori. L’“Albero del riccio” ha avuto innumerevoli edizioni con tirature molto elevate. Era un libro illustrato concepito per i ragazzi. Molte sue lettere ai figli Delio e Giuliano sono poi finite nelle antologie scolastiche. L’ultima edizione della sua traduzione delle fiabe dei Fratelli Grimm è stata realizzata sulla base dell’Edizione Nazionale che potrà offrire i testi anche per future antologie tematiche. D’altronde, l’edizione critica è destinata principalmente agli studiosi, ma, come dimostra il caso delle fiabe dei Fratelli Grimm, potrà essere la base di svariate iniziative di raccolta dei suoi scritti.

Lasciamo la Fondazione con l’auspicio che il pensiero di Antonio Gramsci, figura di primo piano della cultura italiana, possa contribuire con la sua “ricchezza e vitalità” a contrastare l’avanzata delle destre e dei movimenti nazionalisti che stanno caratterizzando questa difficile fase sociopolitica.

Finito di redigere in data 19 febbraio, alle ore 14.

Corriere della Sera, 8 dicembre 2016 (p.d.)

Il testo pubblicato in questa pagina è una sintesi della lectio che Luciano Canfora terrà a Milano il 12 dicembre, nell’ambito del convegno internazionale «Leggere in Europa (XVIII-XXI secolo)». L’incontro, che proseguirà anche il giorno 13, si svolgerà presso la Sala Napoleonica di via Sant’Antonio 12: lo organizza il Centro Apice dell’Università Statale, diretto da Lodovica Braida, che raccoglie e valorizza archivi di editori e autori (www.apice.unimi.it).

«Vorrei avere questi libri: 1° la Grammatica tedesca che era nello scaffale accanto all’ingresso; 2° il Breviario di linguistica di Bertoni e Bartoli che era nell’armadio di fronte al letto; 3° gratissimo le sarei se mi inviasse una Divina Commedia di pochi soldi, perché il mio testo lo avevo imprestato».

È Antonio Gramsci che scrive a Chiara Passarge, sua padrona di casa a Roma (via G.B. Morgagni 25), pochi giorni dopo l’arresto, avvenuto a Roma l’8 novembre 1926. In quel momento, sul fondamento dell’assoluta illegittimità del suo arresto, Gramsci è portato a pensare che resterà in carcere solo per breve tempo. Scrive infatti, poco oltre nella stessa lettera: «Se la mia permanenza in questo soggiorno durasse a lungo, credo ella debba ritenere libera la stanza e disporne». Anche sua cognata Tania Schucht era convinta che l’inverosimile arresto fosse di breve durata: e così scrisse in famiglia a Mosca. La lettera in cui essa così si esprime è stata pubblicata in anni recenti.

La lettera di Gramsci alla Passarge non giunse mai a destinazione perché sequestrata dalla polizia. Perciò quei tre libri non poté averli. Dopo vicende che sono ormai ben note (confino ad Ustica, nuovo arresto e trasferimento «ordinario» a San Vittore a Milano, «processone» durante il quale Gramsci è a Regina Coeli, condanna a 20 anni di carcere nel giugno 1928, trasferimento definitivo a Turi di Bari), Gramsci poté, non senza incontrare resistenze politico-burocratiche, domandare penna, calamaio, e libri di studio. A parte la disponibilità dei libri - spesso inutili o bizzarri - della biblioteca delle varie carceri in cui fu ristretto. Fu una vera e propria lotta, nel corso della quale Gramsci non esitò a scrivere direttamente al «capo del governo», cioè a Mussolini, lettere argomentate e vigorose per difendere il diritto alla lettura. Una battaglia alla quale dobbiamo la nascita dei Quaderni del carcere.

In una lettera alla moglie del 2 maggio 1927 (dal 9 febbraio era ristretto a San Vittore e in marzo delinea un programma di studio, il celebre für ewig) scrive di aver letto «ottantadue libri» della bizzarra biblioteca carceraria e di avere con sé «una certa quantità di libri miei, un po’ più omogenei, che leggo con più attenzione e metodo. Inoltre leggo cinque giornali al giorno e qualche rivista». Ancora: «Studio il tedesco e il russo e imparo a memoria, nel testo, una novella di Puškin, la Signorina-contadina». Ma - commenta - «mi sono accorto che, proprio al contrario di quanto avevo sempre pensato, in carcere si studia male, per tante ragioni, tecniche e psicologiche».

Le liste dei libri, opuscoli, riviste, di cui Gramsci poté via via disporre negli anni di detenzione (dalla condanna definitiva del giugno 1928 al trasferimento in clinica a Formia il 7 dicembre 1933; dall’ottobre 1934 egli è in libertà «condizionale») sono state pubblicate, dapprima in un bel saggio di Giuseppe Carbone (sulla rivista «Movimento operaio», luglio-agosto 1952) e poi in appendice al IV volume dell’edizione paleografica dei Quaderni del carcere a cura di Valentino Gerratana (Einaudi, 1975). Celebri sono gli episodi del settembre 1930 e dell’ottobre 1931, quando, da Turi, Gramsci scrive reiteratamente a Mussolini e non solo critica le limitazioni arbitrarie alla lettura, ma chiede - e ottiene - un’ampia serie di volumi, che vanno - nel 1930 - dal Satyricon di Petronio al volume di Fülop-Müller sul bolscevismo all’Autobiografia di Trotskij, e - nel 1931 - da «Critica fascista» a «Civiltà cattolica», da «Labour Monthly» alla «Nouvelle Revue Française», dalle opere complete di Marx ed Engels (edizione francese) alle Lettere di Marx a Kugelmann con prefazione di Lenin. Opere che tutte si ritrovano sia nella lista ricostruita da Carbone (p. 669) che in quella di Gerratana (pp. 3.062-3.063).

Gramsci era dotato di una notevolissima memoria, ed è istruttivo osservare come la esercitasse per esempio mandando a mente novelle di Puškin. (i pedagogisti del nostro tempo inorridiscano pure nella loro infantile ostilità allo sforzo mnemonico). Ma è evidente che solo l’accesso ad una così grande quantità di libri e riviste (ne abbiamo citato solo una minima parte) poté render possibile il grande lavoro dei Quaderni, le cui pagine partono molto spesso da uno spunto di lettura. Che si possa lavorare scientificamente in assenza di libri e fondandosi unicamente su ciò che si ha ancora in mente è un mito. È leggenda, ad esempio, che Diderot, incarcerato nel castello di Vincennes, abbia tradotto la platonica Apologia di Socrate perché ne ricordava a memoria il testo. Del resto, lo stesso Diderot scrivendo, anni dopo (1762) a Sophie Volland, dirà: «Avevo con me il mio Platone tascabile».

Il più grande intellettuale del IX secolo, il patriarca Fozio, pur ristretto in cattività perché deposto e condannato su impulso dell’imperatore Basilio I in quel momento incline a dare un’offa al papa di Roma, non si arrende e denuncia, scrivendo all’imperatore, la confisca dei libri che lui e la sua cerchia leggevano e sistematicamente chiosavano. La sua lettera all’imperatore ci è giunta e si può considerare un remoto antecedente delle lettere del detenuto Gramsci a Mussolini. Anche Basilio dovette accondiscendere, almeno in parte, alla richiesta del grande detenuto. E dalla restituzione a lui di una parte almeno dei materiali che la «cerchia» aveva prodotto nacque il più importante, ancorché labirintico al pari dei Quaderni gramsciani, libro del Medioevo greco: la cosiddetta Biblioteca di Fozio.

«"». Il manifesto,

Si potrebbe rileggere buona parte della teoria politica del secondo Novecento, non solo marxista, attraverso le interpretazioni di quello straordinario intellettuale e militante che è Antonio Gramsci. Tra gli studiosi italiani più attenti ai mille volti della sua fortuna, Michele Filippini ha recentemente pubblicato il volume Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società (Carocci, pp. 264, euro 26,50).

Uno studio tanto accorto nel ricostruire le diverse tappe teoriche dell’intellettuale comunista, quanto consapevole che l’opera interpretativa è sempre anche una traduzione politica. Filippini analizza i passi dell’opera gramsciana dedicati all’analisi dei mutamenti nel sistema produttivo capitalistico, collocandoli nel contesto della crisi dell’ordine liberale europeo e del progressivo imporsi di una società di massa.

Due sono i temi al centro di questa indagine. Il primo è la scoperta della politicità della sociologia e delle nuove scienze sociali, e quindi il confronto che Gramsci istruisce con autori come Durkheim o Weber. Infatti, pur svolgendo essenzialmente la funzione di consolidare e sostenere la nuova disciplina sociale borghese, questi nuovi saperi gli rivelano le dinamiche specifiche della società di massa e i mutamenti indotti dal nuovo sistema sociale fordista.

Il secondo è l’emergere nel «fordismo» di un nuovo tipo-umano che non è solo il prodotto delle nuove dinamiche produttive, ma è anche il punto di partenza di una nuova teoria marxista della rivoluzione. In questa duplicità di sguardo, Filippini si sofferma quindi sui rapporti di continuità e di opposizione tra le forme del disciplinamento capitalistico e le istanze di autodisciplina operaia.

Gramsci è consapevole che lo studio dei mutamenti indotti dall’irruzione delle masse sulla scena politica mondiale richiede strumenti analitici nuovi. Questo perché l’adesione organica dei partiti di massa alla vita delle masse necessita di «filologia vivente», ossia della capacità di compartecipare attivamente e consapevolmente ai nuovi «sentimenti popolari». Per dotarsi di questa filologia vivente, Gramsci fa propria un’idea di equilibrio proveniente dal confronto teorico tra Bucharin e Bogdanov.

Nell’assumere questo tema, egli però sostituisce al lessico meccanicista di un certo marxismo sovietico alcune suggestioni che gli provenivano dall’organicismo di una parte rilevante della sociologia francese del tempo. In tal modo, egli può studiare la società borghese sia dal punto di vista delle «regolarità», sia da quello delle sue intrinseche divisioni. Gramsci coglie così due grandi processi storici: il prevalere delle politiche di piano sull’iniziativa individuale ed il ruolo crescente degli organismi direttivi collettivi (in particolare i partiti) nella vita politica e sociale. Il futuro del movimento comunista è nella capacità di far convergere l’uso della forza soggettiva-collettiva (il partito) e di quella oggettiva (le nuove forme sociali della produzione e della riproduzione fordista) intorno al tema, per noi ancora decisivo, del «soggetto produttivo».

Gramsci è anche impegnato a contrastare le tesi «elitiste» di Mosca, Pareto e Michels per rivendicare una classe politica, e un partito, che non siano separati ma «organici» al proletariato. Il concetto di organicità è decisivo per comprendere l’insieme delle riflessioni gramsciane sulla società di massa, nonché le relazioni tra le idee di blocco storico, di ideologia e di egemonia. Infatti, l’ideologia intesa come «unità di fede tra una concezione del mondo e una norma di condotta conforme (Q. p.1378)», non deve essere ridotta alla rappresentazione mistificata dei rapporti di potere, ma costituisce una rete di idee e di comportamenti che dà ordine al sociale.

Al blocco storico borghese è allora necessario opporre un più organico rapporto tra partito e masse costruendo e affermando un orizzonte ideologico alternativo. Determinante in tal senso è la funzione di connessione tra Stato e società esercitata dagli intellettuali. Altrettanto lo è, però, la capacità di conformazione delle società di massa che si fonda sul nuovo tipo umano «fordista» subentrato all’individuo liberale.

Le trasformazioni nel processo sociale di produzione impongono una diversa disciplina del lavoro che comporta un più complessivo disciplinamento della società (l’americanismo, in tal senso, altro non è che una declinazione specifica del fordismo). Filippini sottolinea che Gramsci è però attento a segnalare come quest’opera trovi un limite nell’impossibilità dei lavoratori di modellarsi fino in fondo a questo nuovo tipo umano. Nella società capitalistica il nuovo homo oeconomicus non ha, e non potrà mai avere, un carattere definitivo e pacificato. Le spinte a favore di un pieno disciplinamento della società di massa si scontrano quindi con l’ingovernabilità di una forza lavoro che vive questa spinta alla conformità come un’imposizione.

Compito del movimento comunista è allora quello di dare corpo ad una nuova e più effettiva «disciplina interiorizzata» che vive della partecipazione volontaria di ognuno a un nuovo ordine da costruire collettivamente. Un’esperienza di libertà che deve però saper assumere le forme collettive e organizzate della produzione di un «ordine nuovo».

Questo studio ci mostra un Gramsci che dialoga con le scienze sociali borghesi, interessato ad assumerne alcuni snodi problematici per renderli parte di una nuova scienza socialista. Ricordandoci come molte delle questioni che attraversano il nostro confronto quotidiano – l’homo oeconomicus come soggetto produttivo, la produzione capitalistica come produzione sociale, le forme dell’organizzazione politica di massa – attraversano tutta l’opera gramsciana. Un’opera che resta tra i più importanti strumenti di interpretazione e di cambiamento del mondo a nostra disposizione.

Un recente articolo di Stefano Settis sull'importanza della conoscenza del latino ci ha ricordato questo scritto di Antonio Gramsci. Lo pubblichiamo sottolineando l'ampiezza della visione del pensatore comunista, e la sua capacità di comprendere il ruolo della conoscenza in una società caratterizzata, come quella di oggi, dalla dialettica della lotta di classe. Antonio Gramsci,

Quadernidal Carcere, 4 [XIII], 55]

Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.

Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.

Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale.

Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare.

Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi.

Ecco perchè molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.

[Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55]

. Il manifesto, 1° giugno 2016 (c.m.c.)
New York, South Bronx, Forest Houses, 1010 Tinton Avenue, tra la 163rd e la 165th. Tanti grattacieli squadrati di mattoni rossi, vecchi e perciò tozzi, non più di quindici piani, come tutte le abitazioni popolari della città dove resistono ancora un milione di fitti bloccati e perciò sono abitati da poveri ma privilegiati. Qui quasi tutti neri. Il quartiere è molto periferico ma è verde. E nel bel mezzo del piccolo parco fra le case c’è nientedimeno che un monumento a Gramsci. Sì, proprio Antonio, il nostro. Si tratta di una scultura e di tre piccoli edifici di legno in cui ha sede una sorta di circolo politico-culturale – molto recenti, del 2013 – costruiti da Thomas Hirschhorn.

Ho traversato mezza New York per trovare il luogo, di cui nessuno dei miei amici del Left Forum cui nei giorni scorsi ( come da quasi trent’anni) sono stata ospite sapeva nemmeno l’esistenza. Ma ho insistito, perché ne avevo vista tempo fa l’immagine sul New York Times, accompagnata da un lungo articolo un po’ scettico che spiegava la genesi: un artista assai conosciuto che aveva deciso di erigere monumenti simili in quartieri popolari di altre città, ciascuno dedicato a un filosofo da lui ritenuto molto importante: oltre Gramsci anche Baruch Spinoza, George Bataille, Gilles Deleuze. Qualcuno, non ricordo in quale paese del mondo, mi aveva confermato che la statua esisteva davvero, e che attorno alla costruzione si era creato un centro di iniziativa ispirato a Gramsci stesso.

Il militante «smarrito»

È inutile che dia altri dettagli, perché, finalmente arrivata sul luogo, dopo molto vagare fra alberi e edifici, ho dovuto rassegnarmi: il monumento è stato recentemente rimosso. Non per ragioni politiche, semplicemente perché l’esposizione al maltempo l’aveva deteriorato e nessuno se ne prendeva più cura. Come potete immaginare, ci sono rimasta molto male.

La sorte di Antonio Gramsci in America non è comunque così triste come questa del suo monumento. Nelle accademie, anzi, c’è da diversi anni una incoraggiante e intelligente ricerca sul «pensatore» italiano. «Pensatore», lo chiamano, come del resto in molti all’estero: pochissimi sembrano sapere che Gramsci non è stato solo un grande intellettuale ma anche un militante politico, e anzi il leader del più grosso partito comunista d’occidente.

E così si capisce perché possa capitare di sentirlo citato nelle università, praticamente mai nei panels del Left Forum, affollati di attivisti di base; o in raduni analoghi. E come mai nei tanti banchetti allestiti per l’occasione, dove viene offerta tutta la possibile mercanzia dell’editoria marxista, i suoi libri siano una rarità.

Eppure il Forum, che fino a non molti anni fa si chiamava Socialist Scholars Conference, ed era dunque promossa proprio dai docenti di sinistra delle università della west e della east coast, di intellettuali partecipanti ne ha sempre avuti, e continua ad averne, moltissimi, nonostante i più celebri – Sweezy, Baran, Mgdoff, Singer e molti altri – siano ormai deceduti. Ma anche quando c’erano loro fra gli attivi partecipanti di questa assise annuale – articolata in centinaia di workshop, cui si affluisce pagando non pochi dollari – di Gramsci si è sempre fatto a meno.

Perché la sinistra-sinistra americana è fatta così: salvo i vecchi – ce ne sono parecchi – che indossano ancora il basco in onore della guerra civile spagnola e continuano a litigare su Trotsky e Rosa – per i militanti delle tante combattive aggregazioni comunitarie, la politica è una cosa, la cultura un’altra.

Ho fatto questa lunga premessa per spiegare perché in questi tre affrettati giorni trascorsi a New York, nel pieno di una campagna elettorale animata da uno scontro di massa senza precedenti, oltre a non aver trovato il monumento di Gramsci non ho trovato neppure una seria riflessione «gramsciana» sul fenomeno Bernie Sanders che, se del nostro «pensatore» si facesse buon uso, sarebbe apparsa indispensabile premessa di ogni dibattito.

Sanders, per altro, qui è stato sempre di casa e qui infatti l’ho incontrato io stessa quando ancora era sindaco di Burlington, la cittadina dello sperduto Vermont, e poi senatore socialista di quello stato, alieno al resto del paese quanto, e anzi di più, la provincia di Bolzano rispetto alla Calabria.

Elezioni nei workshop

Di primarie se ne è parlato in molti workshop, per carità, ma più per misurare le distanze di ciascuno dallo sfidante di Hillary Clinton (c’era persino qualche cartello che lo dichiarava troppo poco di sinistra per l’America) o per chiedersi cosa fare ove in pista contro Trump dovesse rimanere Clinton; o, ancora, cosa in questo caso si proporrà di fare Bernie. Il timore è che possa esser risucchiato dall’establishment, che potrebbe dargli qualche contentino inserendolo nella squadra del prossimo presidente, sì da ottenere per la candidata democratica i voti per niente sicuri di chi fino ad ora si batte per il candidato socialista.

È per questo, del resto, che molti fra i più autorevoli commentatori insistono nel dire che forse Sanders avrebbe più chances di battere Trump di quante ne avrebbe Clinton: porterebbe alle urne un popolo di teenagers che altrimenti a votare neppure ci andrebbe. Gli ultimi sondaggi confermano: Sanders supera Trump di 10,8 punti, mentre Clinton è testa a testa col rivale repubblicano. E poi è decisamente più simpatico: lui piace al 41 % degli interrogati da un sondaggio Cbs-New York Times, mentre Clinton solo al 31 e Trump al 26 %.

Orientamenti giovanili

L’interrogativo più importante, tuttavia, che pone questa mobilitazione così massiccia e così radicalizzata, che le primarie hanno suscitato in un paese dove lo scontro elettorale non è mai stato molto partecipato, riguarda capire chi sono questi giovani, da dove vengono, quali esperienze hanno vissuto, quali letture li hanno orientati, quale sia la loro visione del mondo. E, ancora: rappresentano un episodio o un mutamento duraturo? Al di là delle sorti di Bernie questo è il vero quesito: reggerà, e in quali forme, anche dopo il voto, il movimento che sta animando la campagna elettorale , o verrà riassorbito come è accaduto otto anni fa con la mobilitazione, sia pure infinitamente minore e comunque assai meno radicalizzata, che si ebbe per Obama?

I più accorti si rendono conto che la cosa più importante da fare sia proprio preservare e far crescere questo patrimonio, non disperderlo. È quello, innanzitutto, di cui dovrà occuparsi in futuro Bernie Sanders. E loro stessi, gruppi di base della sinistra radicale, superando il dilemma che da sempre li affligge: operare dall’interno del Partito democratico finendo per essere cooptati dalla sua macchina di potere, oppure restarne fuori rischiando l’invisibilità e l’irrilevanza.

Il merito di Sanders è, in realtà, stato proprio quello di non essersi fatto schiacciare da un sistema politico così rigidamente bipartitico da rendere impensabile la creazione di una terza forza politica, sempre fallita, sia a destra che a sinistra. Il candidato che tutti definiscono socialista ha, infatti, scelto di correre nelle primarie – al di fuori delle quali non sarebbe esistito – ma è rimasto lontanissimo e indipendente dalle potenti strutture del partito.

Proprio per questo ha ottenuto consensi impensabili fra i giovani e persino fra le donne (fra quelle al di sotto dei trent’anni l’80% nello Yova e l’82% nel New Hampshire; 73 % fra quelle di meno di quarantacinque anni nel Nevada, tanto per fare un esempio)fra cui si anima un crescente numero di gruppi femministi anti Hillary Cliton, proprio perché simbolo del detestato ideale emancipatorio dell’establishment: la donna in carriera.

Sanders ha potuto fare oggi ciò che altri nel passato non hanno potuto perché in questi anni il dilemma Partito democratico/invisibilità ha perduto peso. Qualcosa di profondo si è spezzato nel sistema americano, come del resto anche in Europa: il tradizionale modello di democrazia rappresentativa non funziona più, e tutti se ne rendono conto. I più giovani vogliono prendere la parola, direttamente. Se a questo si aggiunge l’inuguaglianza senza precedenti prodotta dal sistema, si capisce perchè la rivolta contro l’establishment sia a tal punto dilagata (esprimendosi a destra così come a sinistra).

Giustamente, mi diceva Angela Davis in occasione del suo recente viaggio a Roma, il movimento Occupy è sembrato svanire perché le piazze stracolme del 2011 si sono svuotate. Ma quella presa di coscienza, quella scossa, hanno continuato a smuovere lo stagno. Questo – aggiungeva Angela – è stato in fondo il merito di Obama: aver lasciato che quel movimento si estendesse, senza reprimerlo come avrebbe probabilmente fatto qualsiasi altro presidente.

Meno appariscente, Occupy ha infatti seminato, producendo una miriade di movimenti di lotta che coinvolgono il frantumato mondo del lavoro precario che esiste anche qui: dei lavoratori dei fast food per un minimo di paga di quindici dollari l’ora; degli studenti – un milione – che lavorano nei servizi delle università per pagarsi gli studi e reclamano il diritto ad avere un sindacato e persino quello che noi chiamiamo l’art.18, per loro la giusta causa nel licenziamento; anche loro, come da noi, contro l’ulteriore salto della globalizzazione selvaggia, i Trattati su commercio e investimenti nell’area atlantica e del Pacifico; e così via.

Soggetti politici da costruire

Predire cosa accadrà è difficile anche per chi in America ci sta e ne sa ben più di me. Certo, il rigido e antidemocratico sistema elettorale del Partito democratico, che affida le sorti delle primarie ben più che all’elettorato al disciplinato drappello dei c.d «superdelegati» alla Convention, 540 dei quali già si sono pronunciati per Hillary Clinton conto solo 42 per Bernie, dicono che i giochi sono già fatti; e che, anzi, sono stati decisi già prima di cominciare la gara. Ma vincere e diventare presidente degli Stati uniti non è il solo obiettivo di Sanders (anche con in mano la Casa Bianca che potrebbe del resto mai fare se la società americana resta quella che è?).

L’obiettivo reale è la costruzione di un diverso soggetto politico collettivo, che nel lungo periodo potrebbe davvero cambiar e le cose. Se ci riuscirà lo potremo verificare già a metà giugno quando, a Chicago, molti dei gruppi «pro Sanders» si riuniranno in quello che hanno chiamato «summit del popolo». In questa occasione, si potrà valutare meglio la consistenza del nuovo movimento e la possibilità che emerga dalla nuova generazione di militanti di sinistra una leadership credibile.

È comunque già un fatto che quanto stia accadendo negli Stati Uniti – per via della mobilitazione di quella che è stata chiamata «l’ala sinistra del possibile» – sembra essere una sinistra che fino a ieri non avremmo ritenuto possibile nemmeno sognare.

. Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2016

Viva Gramsci, in questi tempi cupi e senza bussola. Una stanza buia o quasi e solo le pareti illuminate, con la luce a illuminare quella grafia minuta, priva di sbavature. E poi le copertine. Le copertine di trentatré Quaderni che hanno fatto la storia del pensiero politico e filosofico.

Al prossimo Salone del Libro di Torino, dal 12 al 16 maggio, uno degli eventi clou sarà la mostra dedicata ai Quaderni gramsciani dal carcere, cominciati nel 1929 nella casa penale di Turi di Bari e terminati a Roma nell’estate del 1935. La mostra è organizzata dalla Fondazione Istituto Gramsci ed è l’inizio di una sorta di grand tour del pensatore italiano più studiato all’estero nonché fondatore, segretario e deputato del partito comunista. I Quaderni, infatti, dal 20 maggio saranno a Milano, alle Gallerie d’Italia in piazza Scala, fino al 17 luglio e infine torneranno a Roma per un’altra mostra a novembre.

A Milano, si aggiungerà il sostegno significativo dell’Associazione Enrico Berlinguer, che gestisce il patrimonio del Pci-Psd-Ds ed è presieduta da Ugo Sposetti, senatore del Pd non propriamente renziano. L’associazione per l’occasione metterà a disposizione due celebri dipinti di Renato Guttuso: La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (1955) e I funerali di Togliatti (1972). È come se quel pezzo grande e consistente di sinistra che non si riconosce nel conformismo del Pd odierno ripartisse dalle origini. Sostiene Francesco Giasi, vicedirettore dell’Istituto Gramsci: “I Quaderni, al completo, furono esposti per la prima volta a Roma nel 2011 e rimanemmo colpiti dall’affluenza. Il pubblico manifestava allo stesso tempo sorpresa e voglia di vederli”. Nel 2017, poi, saranno ottant’anni della morte di Gramsci e i Quaderni faranno un ulteriore giro per l’Italia. In essi c’è tutto quello che costituisce il gramscismo.

Era un Politico con la maiuscola, Gramsci, che con gli occhiali del materialismo [storico] analizzava e studiava la molteplicità del reale. Dalla filosofia di Benedetto Croce al Risorgimento, da Machiavelli al fordismo. Nel quaderno numero 4, per esempio, i paragrafi sul Canto decimo dell’Inferno incrociano la svolta stalinista del Pcd’I nel 1930. Storia, letteratura e filosofia e un’elaborazione densa che, come osserva giustamente Giasi, “non ha bisogno di alcuna forzatura per essere attualizzata”. I Quaderni parlano ancora da soli, come dimostrano alcuni concetti rimasti nel nostro lessico, dall’egemonia culturale all’ampia categoria del nazionalpopolare, talune volte travisata se non deformata. Ed è per questo che nessun autore italiano ha mai avuto, come lui, ben tre edizioni complete delle sue opere. Non solo: l’intera bibliografia gramsciana vanta 20 mila titoli in ben 41 lingue diverse. Oggi i Paesi in cui il suo pensiero viene studiato di più sono Gran Bretagna, Francia, Messico, Argentina e Brasile. Il gramscismo è noto anche tra gli arabi, in primis Libano ed Egitto.

Gramsci era segretario del partito comunista quando venne arrestato a Roma l’8 novembre 1926. Il regime fascista lo condannò e incarcerò nonostante l’immunità parlamentare. Il permesso di scrivere gli fu accordato solo nel 1929, quando si trovava in Puglia. Nel 1933, per motivi di salute, fu trasferito a Formia, in clinica, e di qui a Roma, nella clinica Quisisana. Morì a 46 anni il 27 aprile 1937, pochi giorni dopo essere tornato libero. I 33 Quaderni (altri due rimasero bianchi) furono presi in consegna dalla cognata Tatiana Schucht e spediti a Mosca dove vivevano la moglie e i figli di Gramsci. La cognata li numerò senza alcun criterio scientifico coi numeri romani e questo, qualche anno fa, ha generato un giallo storico su un presunto diario mancante in cui Gramsci si sarebbe convertito al liberalismo.

Dice Giasi, sorridendo: “Abbiamo fatto tutte le indagini possibili e sotto le etichette non c’è nulla, nessun sbaglio o errore o quaderno-bis che manca. Per come lavorava Gramsci c’è tutto”. Oggi i Quaderni sono numerati da 1 a 29 e i restanti quattro, costituiti da traduzioni, sono indicati con A, B, C e D. Preziosi e fragili, sarà possibile sfogliarli e consultarli in edizione digitale. Il grand tour gramsciano va a cominciare.

Riferimenti

Numerosi scritti su Antonio Gramsci sono raccolti negli archivi di eddyburg, sia qui nel nuovo sia (e in maggior numero) qui nel vecchio

« .»Tiscali.it, 26aprile 2016 (c.m.c.)

Antonio Gramsci senza pace. Dopo la polemica parlamentare che ha accompagnato il riconoscimento di "Casa Gramsci" di Ghilarza, in Sardegna, quale "monumento nazionale", ecco che un altro motivo di discussione intorno alla figura del grande pensatore sorge a Torino. Il filosofo e politico sardo - tra i più studiati al mondo - nella città piemontese risiedette per i suoi studi superiori e universitari e lì ebbe inizio la sua importante esperienza politica. La casa dove visse per lungo tempo, in ristrettezze economiche ben descritte nelle sue biografie, potrebbe diventare una casa museo. Ma nelle camere dove il giovane pensatore alloggiò, studiò, elaborando teorie rivoluzionarie, e patì il freddo sono oggi adibite ad albergo. "Solo la deriva culturale e politica", scrive Massimo Novelli sul Fatto Quotidiano, "ha fatto sì che un'istituzione della sinistra come la Fondazione piemontese Antonio Gramsci, possa considerare un 'nuovo luogo della cultura' una sorta di negozietto neppure troppo visibile, come luogo Gramsciano".
Un hotel dove Gramsci si formò
La futura sede della Fondazione si trova tra via Maria Vittoria e via San Massimo, nel retro dell'hotel di proprietà della NH spagnola. Che per gentile concessione permette ai promotori, che ben si accontentano loro malgrado di santificare all'illustre ex inquilino niente meno che un sottoscala.
La "casa gramsciana"
Lo spazio angusto e nascosto rispetto ai flussi culturali cittadini verrà inaugurato domani, giorno in cui ricorre la morte dell'autore dei "Quaderni dal carcere" (1891-1937). In uno spazio ristretto Gramsci e la sua rivoluzione passata per la fondazione del Partito comunista italiano e pubblicazioni quale L'Ordine Nuovo, L'Unità e i già citati "Quaderni", per citarne alcuni, appare oggi relegato negli scaffali polverosi del piccolo locale come pezzo d'antiquariato, scrive ancora il Fatto. Ciò che uno dei più grandi intellettuali italiani produsse, anche a costo del terribile carcere fascista - il confino a Ustica, la prigione di San Vittore, di Regina Coeli e infine di Turi - che gli costò la salute e poi la vita, sembra non trovino pace nemmeno oggi.
Gramsci tra i più studiati al mondo
E, oltre al danno la beffa: fu solo per la sollevazione popolare che lo stesso hotel non prese il nome di "Gramsci", semmai oltraggio peggiore si potesse pensare. Ma la memoria si sa è labile, quella italiana lo è ancora di più: Gramsci con tutte le sue lucide e rivoluzionarie intuizioni resta tra i più studiati intellettuali del mondo, del quale non fa parte con ogni evidenza l'Italia.
Il 27 aprile del 1937, 79 anni fa, si spense Antonio Gramsci. Il padre della sinistra anticapitalista italiana ancor oggi ritenuto uno dei più importanti prodotti della cultura italiana. È più rispettato, studiato e utilizzato all'estero che nella nostra provincia da chiunque voglia conoscere il mondo per cambiarlo.

Il manifesto, 28aprile 2016

Una piccola folla, molti giovani universitari e qualche anziano leone, si è radunata mercoledì 27 aprile al cimitero acattolico di Roma per rendere omaggio a Antonio Gramsci nel giorno del 79esimo anniversario dalla sua morte avvenuta nel 37 dopo lunghi e fatali anni di prigionia nelle carceri fasciste.

Ciascuno aveva portato un fiore rosso, in prevalenza garofani, simbolo del socialismo delle origini. La cerimonia si ripete ormai da qualche anno convocata dall’International Gramsci society su ispirazione di quanto succede a Berlino alla ricorrenza della morte di Rosa Luxemburg.

In mattinata all’università Roma 3 era stato proiettato il docufilm "Gramsci 44", di Emiliano Berbucci, sui 44 giorni di confino trascorsi da Gramsci a Ustica.

Nel pomeriggio invece alla Biblioteca di storia moderna e contemporanea è stato presentato il volume di Michele Prospero "La scienza politica di Gramsci "(Bordeaux edizioni) da Alfredo D’Attorre e dal professor Guido Liguori, presidente della Igs.

Riferimenti
Eddyburg ha dedicato ad Antonio Gramsci una cartella nel vecchio archivio e una nel nuovo archivio. Raccolgono numerosi scritti di Gramsci e sulla sua opera.

Uno dice: Antonio Gramsci. E quel nome gli apre agli occhi della mente un grande paesaggio, come accade con pochi altri nomi dell’intera storia civile e vita intellettuale italiana. Di Gramsci si legge e su Gramsci si riflette nel mondo intero. E c’è almeno una cosa che tutti sanno di lui: che, chiuso in una prigione fascista e impedito di agire nella lotta politica e nei conflitti sociali del ‘900 europeo di cui era uno dei protagonisti, si dedicò a un’opera di pensiero

destinata al futuro: fece insomma, si direbbe coi versi di Dante che Benedetto Croce dedicò a Palmiro Togliatti, «come quei che va di notte che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte». Di quell’opera si impadronì un esecutore testamentario, il Partito comunista di Togliatti, che ebbe il merito di conservarla ma ne fece un uso strumentale più o meno simile a quello che fece della figura dell’autore. C’è un rivolo di devozione che ha veicolato l’immagine di quel giovane uomo occhialuto con la grande testa incassata nelle spalle aureolandola della corona del martirio. Immagine adatta a un «santo leader morto in carcere», come scrive con amara ironia Giorgio Fabre nel suo nuovo e densissim libro Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato (Sellerio editore); un’opera importante che affronta con decisione e con robusta ricerca un tema da tempo presente nelle discussioni intorno alla vita e all’opera di Gramsci: i tentativi di liberarlo dal carcere.

La vicenda fece la sua comparsa notevolmente tardi arrivando non proprio dal centro degli studi gramsciani legati al Pci: fu nel 1966 che un bel libro di Giuseppe Fiori raccontò del tentativo di Gramsci di ottenere la liberazione elaborando il piano di uno scambio di prigionieri e affidandolo alla mediazione della Chiesa cattolica. Ci vollero altri undici anni perché una storiografia di partito in cauteloso avvicinamento alle regole della pratica storiografica accademica e agli angoli oscuri del proprio passato partorisse il libro di Paolo Spriano su Gramsci in carcere e il partito . Da allora si è aperta una discussione spesso vivacemente polemica che ha investito in modo speciale il nodo dei rapporti tra il partito comunista e il suo leader. Allora non si diceva “leader” ma “capo”: una parola molto più forte, osserva giustamente Giorgio Fabre. È una precisazione che nasce dallo scrupolo di aderire alla verità delle fonti frenando quel «furibondo cavallo ideologico» (come diceva Delio Cantimori) che nel campo degli studi su Gramsci e il Partito comunista ha avuto molte occasioni per far avvertire il suo furioso scalpitio.

Giorgio Fabre dichiara subito in apertura di libro la passione che lo lega al suo tema. Il suo è un forte sentimento d’ammirazione per l’uomo Gramsci, per il modo in cui riuscì a «bucare le pareti del suo carcere» e a guardare a ciò che si faceva e si pensava nel mondo intorno allo scontro politico in atto in Europa, col risultato di dare ai suoi Quaderni quel respiro di straordinaria curiosità e libertà intellettuale che tutti conoscono. Ma chi fu che gli permise di conoscere e di sapere? Forse non ne sappiamo abbastanza: e Giorgio Fabre suggerisce piste e nomi per altre ricerche segnalando ad esempio il rapporto che si instaurò a un certo punto tra Gramsci e il presidente della Cassazione Mariano D’Amelio.
Dunque questo libro non intende chiudere la ricerca, semmai per certi aspetti la riapre. Forse la più importante novità sulla questione dello scambio riguarda il rapporto tra Gramsci e la Chiesa. Questa pista si apre con una esplorazione tra le carte dell’archivio Andreotti. Qui si conservano le copie di documenti provenienti da due diversissime direzioni e relativi alla questione della proposta di scambio tra Gramsci ed ecclesiastici cattolici prigionieri in Unione Sovietica: ci sono quelli tratti dagli archivi russi che Alessandro Natta, segretario del Pci, riportò dalla sua visita a Mosca del 1988 e quelli di origine vaticana che Andreotti, dietro richiesta di Paolo Spriano, si fece riprodurre pubblicandone poi una parte.

La proposta dello scambio era stata avanzata dall’incaricato d’affari sovietico a Berlino Stefan Bratman-Brodowski al nunzio vaticano a Berlino Eugenio Pacelli il 1° ottobre 1927. Giorgio Fabre ha approfondito questa pista con ottimi frutti e ha potuto raccontare per intero l’andamento e l’esito fallimentare di quel tentativo. Si approfondisce così come nel gioco della trattativa intervenissero diversi personaggi: tra gli altri il gesuita Pietro Tacchi Venturi, allora il tramite del papato con Mussolini. E si capisce come e perché la trattativa si chiudesse in maniera doppiamente negativa per Gramsci. Di fatto il Vaticano decise di lasciar cadere l’offerta in ragione di un diverso orientamento della sua politica verso l’Unione Sovietica. Ma intanto l’occhio attento del carceriere di Gramsci, Benito Mussolini, colse l’occasione per imprimere una svolta al processo in corso che aggravò le imputazioni a carico di Gramsci e ne chiuse a doppia mandata le porte del carcere.

Il giudizio di Fabre è che qui si coglie un primo errore di Gramsci: un errore legato in qualche modo a quella sua speciale considerazione della Chiesa di Roma che ha lasciato tracce anche nei Quaderni . Altri errori sono rilevati nella sua strategia successiva, soprattutto nel tentativo “grande”, quello del 1933 per ottenere la libertà condizionale. E ci furono anche le iniziative — non richieste né desiderate — del gruppo dirigente del Pci che mandarono a vuoto i progetti di un Gramsci sempre più sospettoso dopo la celebre vicenda della lettera di Ruggero Grieco, fino a fargli nascere il dubbio che i compagni avessero deciso di sacrificarlo. Molte le verità amare che Giorgio Fabre racconta in questo libro, molti e tenaci i silenzi, le mezze verità e le deformazioni del gruppo dirigente del Partito comunista.

Va detto tuttavia, a scanso di equivoci, che questa non è la rancorosa revisione di una vicenda interna a un partito. Le limpide e robuste pagine di Fabre non mandano mai i rancidi sapori del reducismo. La storia che qui emerge ha le robuste fondamenta di nuove conoscenze documentarie ma anche l’ampiezza di respiro che si conviene a una vicenda di dimensioni pienamente europee. Un solo esempio: per capire quello che avvenne col primo tentativo di scambio del 1927 Fabre ricostruisce l’intero quadro della situazione religiosa della Russia sovietica e della conseguente strategia vaticana in materia: il che ci permette di situare nel contesto grande la strategia di Gramsci e di capire quante e quali contraddizioni ne ostacolassero il successo. È una bella lezione di quale dovrebbe essere la pratica della ricerca storica sull’età contemporanea.

Al centro del libro resta lui, l’uomo Gramsci, il suo stile intellettuale e politico. L’indagine sui pensieri e comportamenti suoi in questi tentativi ne rivela le doti straordinarie: di pazienza, di lettura del mondo, di conoscenza degli uomini. E da parte dello storico c’è anche, inutile dirlo, un sentimento di perdita, un rimpianto di quello che la storia avrebbe potuto essere e non è stata: la possibile storia di un Gramsci che lascia l’Italia da uomo libero e in Italia torna con la Liberazione da grande e riconosciuto capo della sinistra comunista per agire nella nuova realtà del nostro paese. Una storia che non c’è stata, una perdita di cui noi italiani siamo stati tutti vittime.

Per ricordare la Resistenza, molla della la Liberazione e radice della Costituzione, ripresentiamo uno scritto chi, dal passato, ci riconduce all'oggi anche per evitare che l'indifferenza all'oggi possa farci perdere che settant'anni fa abbiamo conquistato

. La città futura, febbraio 2017

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

11 febbraio 1917

«La decisione del segretario del Pci di difendere il dirigente comunista in carcere, forzandone talvolta le posizioni, nasceva dalla convinzione di essere in presenza di una delle figure più rilevanti del marxismo novecentesco».

Il manifesto, 21 agosto 2014

Il 19 giu­gno 1964, due mesi prima della morte, Togliatti pub­bli­cava sul quo­ti­diano di area comu­ni­sta Paese sera l’ultimo capi­tolo del libro che per quasi quarant’anni egli era andato scri­vendo su Anto­nio Gram­sci. Si trat­tava della recen­sione a un’antologia di arti­coli e let­tere del comu­ni­sta sardo in cui, tra l’altro, Togliatti scri­veva: «Forse dipende dal tempo che è pas­sato, che ha get­tato ombre e luci nuove su tanti avve­ni­menti…
Non so se sia per que­sto motivo. Certo è che oggi, quando ho per­corso via via le pagine di que­sta anto­lo­gia, attra­ver­sate da tanti motivi diversi, che si intrec­ciano e talora si con­fon­dono, ma non si per­dono mai, – la per­sona di Anto­nio Gram­sci mi è parso debba col­lo­carsi essa stessa in una luce più viva, che tra­scende la vicenda sto­rica del nostro par­tito». Era, a ben vedere, la pre­vi­sione di un feno­meno che avrebbe avuto ini­zio solo un ven­ten­nio più tardi, negli anni Ottanta, quando – men­tre alcune com­po­nenti del Par­tito comu­ni­sta ita­liano sem­bra­vano dimen­ti­care Gram­sci in favore di para­digmi cul­tu­rali diversi e alter­na­tivi, incam­mi­nan­dosi lungo i sen­tieri che avreb­bero con­dotto alla Bolo­gnina – la for­tuna dell’autore dei Qua­derni ini­ziava una fase di espan­sione nei paesi anglo­foni come in Ame­rica latina, dive­nendo un punto di rife­ri­mento del pen­siero poli­tico e sociale con­tem­po­ra­neo, ben al di là del rife­ri­mento pur deci­sivo che aveva costi­tuito per il Pci, soprat­tutto gra­zie a Togliatti.

In altre parole, già nel 1964 il segre­ta­rio comu­ni­sta affer­mava che Gram­sci gli appa­riva tal­mente grande da essere desti­nato a pro­iet­tare la pro­pria influenza anche molto oltre le dimen­sioni pure con­si­de­re­voli che aveva assunto in rela­zione alla cul­tura poli­tica dei comu­ni­sti ita­liani, soprat­tutto a par­tire dalla costru­zione del «par­tito nuovo» e dal ten­ta­tivo di una «avan­zata nella demo­cra­zia verso il socia­li­smo» intra­preso da Togliatti stesso al suo ritorno in Ita­lia nel 1944. Ten­ta­tivo che era poi la tra­du­zione della gram­sciana «guerra di posi­zione» in una situa­zione poli­tica per tanti versi inim­ma­gi­na­bile pochi anni prima, spe­cie in seguito alla divi­sione del mondo in due «campi» ben deli­mi­tati e a cui era dif­fi­ci­lis­simo sottrarsi.
Un dialogo che non si spezza

Il libro togliat­tiano su Gram­sci (di recente ristam­pato da Edi­tori Riu­niti uni­ver­sity press col titolo Scritti su Gram­sci), più in gene­rale la sto­ria di Togliatti cura­tore e orga­niz­za­tore della dif­fu­sione delle opere di Gram­sci, non­ché loro primo e più accre­di­tato inter­prete, dura quasi un qua­ran­ten­nio, essendo il primo scritto del 1927, occa­sio­nato del pro­cesso con il quale il fasci­smo con­dannò alla galera buona parte del gruppo diri­gente comu­ni­sta e Gram­sci a morte pro­ba­bile, viste le sue con­di­zioni di salute. Si dimen­tica o si nasconde a volte que­sto fatto fon­da­men­tale, si torna a scri­vere perio­di­ca­mente che altri (e in pri­mis pro­prio Togliatti o alcuni suoi com­pa­gni, o Sta­lin in per­sona) sareb­bero stati i «car­ne­fici» del comu­ni­sta sardo. Sulla base di ipo­tesi e ragio­na­menti che non hanno il sup­porto di un docu­mento, di una prova. Si arriva ad affer­mare che Mus­so­lini avrebbe addi­rit­tura rico­no­sciuto a Gram­sci pri­vi­legi inu­si­tati, in virtù di una stima di vec­chia data. Si costrui­sce arta­ta­mente la leg­genda del tra­di­mento di Togliatti (a cui i mag­giori quo­ti­diani mostrano di dare cre­dito) per minare dalle fon­da­menta una tra­di­zione poli­tica – quella del comu­ni­smo ita­liano – che offre ancora oggi segni di vita­lità.

I forti con­tra­sti tra Gram­sci e Togliatti nel 1926 in merito alle lotte interne al par­tito bol­sce­vico sono ampia­mente noti. Ciò che spesso non si dice però è che mai dall’esilio Togliatti cessa, con l’ausilio di Piero Sraffa e di Tania Schu­cht, di cer­care di dia­lo­gare col pri­gio­niero, un dia­logo che Gram­sci, anche se indi­ret­ta­mente, accetta: egli riflette e scrive per il suo par­tito, per la sua parte poli­tica, non diviene in car­cere un libe­ral­de­mo­cra­tico, men che meno si con­si­dera, come pure è stato detto, un «pro­fes­sore», un intel­let­tuale solo occa­sio­nal­mente pre­stato alla poli­tica e pre­sto da essa ritrat­tosi.
La sta­gione dei fronti popo­lari anti­fa­sci­sti che si apre nel 1934–1935, e che ha in Togliatti uno dei prin­ci­pali pro­ta­go­ni­sti, non è certo det­tata dalla rifles­sione car­ce­ra­ria gram­sciana, ma segna un ogget­tivo riav­vi­ci­na­mento con il pri­gio­niero rispetto alla pre­ce­dente poli­tica dell’Internazionale comu­ni­sta, alla stra­te­gia della con­trap­po­si­zione fron­tale «classe con­tro classe» e alla con­se­guente poli­tica del «social­fa­sci­smo», per la quale, assur­da­mente, tra socia­li­sti e fasci­sti non vi sarebbe stata dif­fe­renza. Togliatti matura allora, negli anni Trenta, anche sulla spinta dell’avanzata del nazi­fa­sci­smo, la con­vin­zione della impor­tanza della demo­cra­zia, sia pure popo­lare, non eli­ta­ria, nutrita di diritti non solo poli­tici e civili, insomma «progressiva»..

Una scelta chiara

Ciò che spesso non si dice, inol­tre, è che senza le scelte ope­rate da Togliatti rispetto alla gestione del lascito gram­sciano, noi non avremmo mai cono­sciuto il Gram­sci che oggi tutto il mondo apprezza. Se Togliatti non avesse ope­rato per fare di Gram­sci il mag­giore pen­sa­tore mar­xi­sta ita­liano e per difen­derne la figura e l’opera, il comu­ni­sta sardo sarebbe pas­sato pro­ba­bil­mente alla sto­ria solo come un mar­tire anti­fa­sci­sta o poco più. Le sue opere car­ce­ra­rie sareb­bero rie­merse dagli archivi di Mosca negli anni Ottanta e Novanta e noi forse saremmo intenti oggi a cer­care di capire per la prima volta quelle pagine non facili.

Fu Togliatti nel 1938, in pieno ter­rore sta­li­niano, a impe­dire che il ver­tice dello stesso Pci con­dan­nasse come troc­ki­j­sta Gram­sci (scom­parso l’anno pre­ce­dente) pro­prio per le posi­zioni del 1926. Fu Togliatti a impe­dire che i qua­derni gram­sciani fos­sero affi­dati ai sovie­tici, come qual­cuno chie­deva, sal­van­doli così da un pro­ba­bi­lis­simo oblio. Fu Togliatti a evi­tare la con­danna del pen­siero di Gram­sci negli anni dello zda­no­vi­smo, pub­bli­cando i Qua­derni dopo averne smus­sato qual­che spi­golo per evi­tare la con­danna di Mosca, ma sce­gliendo di fare del comu­ni­sta sardo uno dei pila­stri del «par­tito nuovo» che andava costruendo, sia pure a prezzo di qual­che sin­cre­ti­smo, e intro­du­cen­dolo come meglio non si sarebbe potuto nella cul­tura poli­tica ita­liana: poteva anche non farlo, poteva anche – per costruire l’identità del suo Pci – appog­giarsi al mito dell’Urss o della Resi­stenza. Scelse invece, pur senza ripu­diare gli altri punti di rife­ri­mento iden­ti­tari del suo par­tito, di indi­care con chia­rezza che gran parte delle radici della sua poli­tica erano nel pen­siero di Gram­sci.
Certo, il libro che Togliatti ha scritto su Gram­sci non è uni­voco, è scan­dito dal pre­va­lere in fasi diverse di accenti diversi, e le let­ture togliat­tiane vanno con­te­stua­liz­zate, poi­ché sono in parte con­di­zio­nate dal pri­mato della poli­tica. Occorre sepa­rarvi ciò che non regge alla veri­fica del tempo dalle indi­ca­zioni, non poche, ancora fon­da­men­tali. E qual­che raro pas­sag­gio appare oggi per­sino ese­cra­bile. Ma l’interpretazione e l’uso che Togliatti ha fatto di Gram­sci sono stati impor­tanti per costruire quel par­tito che Gram­sci aveva rifon­dato dopo la prima fase bor­di­ghi­sta, e anche per far cono­scere al mondo l’autore dei Qua­derni.

La politica di Gramsci

Gli scritti togliat­tiani su Gram­sci degli anni Venti e Trenta già pone­vano il tema del posto di Gram­sci nella sto­ria del Pci. All’amico e al com­pa­gno di mili­tanza e di lotta Togliatti rico­nobbe subito, nel 1927, la pri­mo­ge­ni­tura poli­tica, il ruolo di mae­stro e di capo, che riba­dirà nel 1937–1938, nei discorsi e negli arti­coli com­mossi scritti in occa­sione della morte. Si trat­tava di una indi­ca­zione, quella del 1927, che minava l’impianto difen­sivo gram­sciano? Mus­so­lini e la poli­zia fasci­sta sape­vano benis­simo chi fosse Gram­sci, quale ruolo avesse, e il Tri­bu­nale spe­ciale obbe­diva a fina­lità squi­si­ta­mente poli­ti­che: obbe­diva al volere di Mus­so­lini. Fare di Gram­sci allora, e poi di nuovo dopo la morte, il «capo» del par­tito ita­liano, per­sino un fedele seguace di Sta­lin (che in realtà non era), ser­viva in quel con­te­sto a sal­va­guar­darne la memo­ria, a impe­dirne la con­danna ideo­lo­gica da parte dell’Internazionale che avrebbe prima inde­bo­lito il pre­sti­gio del pri­gio­niero presso la «casa madre» di Mosca e che poi avrebbe rin­viato sine die la dif­fu­sione dei suoi scritti.

Una volta tor­nato in Ita­lia, Togliatti pog­giava su Gram­sci la costru­zione del suo par­tito. Ne for­zava in alcuni punti il pen­siero, facendo della sua stessa poli­tica la «poli­tica di Gram­sci», ma per un fine – tra­sfor­mare il Pci in un grande par­tito e farne una cosa diversa dal modello sovie­tico – che certo non sarebbe stato sgra­dito al comu­ni­sta sardo. Togliatti vac­ci­nava il suo par­tito dalla più nefa­sta orto­dos­sia sta­li­ni­sta, raf­for­zando la pecu­liare tra­di­zione comu­ni­sta nazio­nale, che aveva nella coniu­ga­zione di demo­cra­zia e socia­li­smo il suo mar­chio di fab­brica. Gram­sci e Togliatti non sono sovrap­po­ni­bili, certo, come non sono sovrap­po­ni­bili Togliatti e Ber­lin­guer: sono lea­der poli­tici che vivono e pen­sano in tempi diversi, usu­fruendo però di un comune nutri­mento teorico-politico e cer­cando di svi­lup­parlo in rela­zione a una vicenda sto­rica in con­ti­nua evo­lu­zione. Negli anni del dopo­guerra aveva lar­ga­mente corso l’idea non del tutto esatta di un Gram­sci «grande intel­let­tuale nazio­nale», ma se si leg­gono oggi gli scritti togliat­tiani ci si rende conto che le indi­ca­zioni in essi con­te­nute sono ancora pre­ziose per capire Gram­sci, la sua vicenda, il suo pensiero.

L'edizione critica dei Quaderni

Dopo il 1956 ha ini­zio una delle sta­gioni più ric­che della ela­bo­ra­zione di Togliatti, l’ultima, anche per quel che riguarda Gram­sci. Egli poneva nel 1956–1958 il tema di Gram­sci e il leni­ni­smo per pren­dere le distanze dallo sta­li­ni­smo senza far per­dere al suo par­tito l’orizzonte rivo­lu­zio­na­rio. Nel momento in cui tante cer­tezze erano venute meno, Togliatti mostrava come la strada indi­cata da Gram­sci fosse soprat­tutto quella di tra­durre (un lemma fon­da­men­tale nel les­sico gram­sciano) il leni­ni­smo in un lin­guag­gio adatto a una situa­zione così diversa rispetto a quella in cui aveva avuto luogo la Rivo­lu­zione d’ottobre.
Era stata, quella della neces­sità del pas­sag­gio da «Oriente» a «Occi­dente», del resto, una indi­ca­zione dello stesso Lenin, che Gram­sci aveva ripreso e svi­lup­pato. Gra­zie a Gram­sci dun­que si poteva andare avanti in quella dire­zione. Pre­ziosa era inol­tre, sem­pre nel 1958, l’indicazione togliat­tiana, oggi più che mai rite­nuta valida, secondo cui l’elaborazione di Gram­sci può essere dav­vero com­presa solo se con­nessa alla sua bio­gra­fia poli­tica. Veniva presa allora anche la deci­sione di pro­ce­dere a una edi­zione cri­tica dei Qua­derni, a cui ini­ziava a lavo­rare Valen­tino Ger­ra­tana. Era trac­ciata la via lungo la quale Gram­sci sarebbe dive­nuto il sag­gi­sta ita­liano più cono­sciuto nel mondo dai tempi di Machiavelli.

Il rinnovato interesse per l'autore dei «Quaderni dal carcere» è rappresentato dall'uso sempre più frequente della sua opera per innovative analisi delle società postcoloniali. In Italia, sono state pubblicate monografie basate su inediti materiali relativi alla produzione teorica e giornalistica prima del suo arresto e da alcuni controversi saggi che hanno riproposto il tema del suo rapporto con il Pci durante la prigionia.

Il «ritorno di Gramsci»: così titolava di recente un grande quotidiano, dedicando al comunista sardo una intera pagina di recensioni. Il 2012 si segnala infatti per l'ingente mole di saggi, libri, articoli e polemiche sul pensatore italiano moderno più studiato nel mondo. Questa nuova stagione di studi - che data in realtà da un decennio e più - è originata da diversi fattori. In primo luogo vi è l'effetto di ritorno della grande notorietà di Gramsci all'estero, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, che ha impedito che sull'autore dei Quaderni in Italia scendesse il silenzio, come avrebbero voluto in molti, per ragioni soprattutto politiche, ivi compresa la furia autolesionista di certa sinistra ansiosa di lasciarsi alle spalle ogni aspetto della tradizione comunista. In secondo luogo, una nuova generazione di studiosi è venuta negli ultimi anni a maturità, grazie non tanto a un'università spesso sorda verso un autore fuori dai canoni dell'accademia, quanto all'attività caparbia di associazioni,riviste e istituzioni culturali - a partire dalla «International Gramsci Society Italia» - che hanno praticato l'approccio interdisciplinare e la ricerca collettiva e favorito la crescita di una nuova generazione di studiose e studiosi di Gramsci. Per Carocci si annuncia la prossima uscita di un volume che raccoglie undici saggi gramsciani di studiosi cresciuti nell'ambito del Seminario sui Quaderni della Igs Italia, che era già all'origine del recente Dizionario gramsciano 1926-1937 (Carocci, 2009). E di questa nuova leva dà oggi testimonianza anche il libro ideato e curato da Angelo d'Orsi, Il nostro Gramsci (Viella, pp. 422, euro 30), nel quale ventotto giovani autori mettono a confronto Gramsci con oltre cinquanta protagonisti della storia d'Italia, da Dante e Petrarca a D'Annunzio e Gobetti.

I rinnovati studi gramsciani

Infine, causa non ultima per importanza di questo «ritorno di Gramsci», la rilevante acquisizione di nuovi documenti che ha alimentato il lavoro delle forze raccolte dalla Fondazione Gramsci per una nuova «edizione nazionale» dell'intero opus gramsciano. Di questa nuova edizione delle opere di Gramsci - edita dalla Treccani - erano usciti nel 2007 gli inediti Quaderni di traduzione e, a latere, i diciotto volumi della preziosissima «edizione anastatica dei manoscritti» dei Quaderni del carcere (edita dalla Biblioteca Treccani in collaborazione con L'Unione sarda), a cura di Gianni Francioni, con la collaborazione di Giuseppe Cospito e Fabio Frosini: una edizione purtroppo scarsamente diffusa per i limitati canali di vendita prescelti, ma oggi assolutamente indispensabile per uno studio avanzato dei Quaderni.

Più di recente sono stati pubblicati due volumi di lettere, contenenti numerose novità, curati da Francesco Giasi, Maria Luisa Righi, David Bidussa e altri: Epistolario, gennaio 1906-dicembre 1922 ed Epistolario 2, gennaio-novembre 1923. Su queste prime pubblicazioni dell'«edizione nazionale» e sui «lavori in corso» riferisce ora un numero della rivista Studi storici (4/2011) interamente dedicato a L'edizione nazionale e gli studi gramsciani. Di grande interesse per fare il punto sulle novità documentali i saggi di Luisa Righi e Claudio Natoli sull'epistolario precarcerario, di Chiara Daniele sui carteggi degli anni del carcere, di Leonardo Rapone sul giovane Gramsci, di Giancarlo Schirru, che aggiunge nuovi,importanti tasselli alla conoscenza di «Gramsci studente di linguistica», di Cospito e Frosini sulla preannunciata nuova edizione dei Quaderni a cura di Francioni - su cui bisognerà ovviamente tornare quando vedrà finalmente la luce fra un paio d'anni, dopo una gestazione ultraventennale.

Interessante e particolare è infine, su Studi storici, un contributo di Maurizio Lana sull'uso dei nuovi «metodi quantitativi» (applicati allo studio dello stile) nel difficile lavoro di attribuzione degli articoli degli anni '10 e '20 che - come è noto - apparvero quasi tutti non firmati, rendendo ardua l'individuazione di quelli scritti realmente da Gramsci.

Nuovi carteggi e nuove fonti

Legato all'edizione nazionale è anche il lavoro che va conducendo da molti anni il presidente della Fondazione Gramsci Giuseppe Vacca, il cui ultimo libro, Vita e pensiero di Antonio Gramsci (Einaudi, pp. 367, euro 33), su cui ha già scritto Rossana Rossanda su il manifesto del 22 giugno, esemplifica nel modo migliore un filone importante della recente ricerca gramsciana: quello che parte da una duplice convinzione: che il pensiero del Gramsci del carcere abbia anch'esso uno svolgimento diacronico che va studiato nel suo farsi; e che il motore della ricerca carceraria vada cercato nella volontà gramsciana di continuare - nelle forme e nei modi permessigli - la sua battaglia politica, continuando sia pure prudentemente la comunicazione col partito, avvalendosi di «codici» decifrabili da pochi, in primo luogo da Togliatti e Sraffa, ma anche dagli altri dirigenti del Pc d'I (e in parte da Tania e Giulia Schucht). Il libro è interessante anche perché costituisce la prima, vera «storia di Gramsci in carcere», ottenuta con un grande lavoro di incrocio dei carteggi e di molte altre fonti, spesso inedite.

È - quella di Vacca - una lettura che parte dalla costante ricerca di una comunicazione nascosta tra Gramsci e i suoi interlocutori e dunque corre spesso il rischio di proporre interpretazioni possibili ma non provate (a volte anche improbabili). Anche l'autore viene colto dal dubbio e scrive che spiegare tutto sotto la chiave del codice per la comunicazione politica clandestina è riduttivo: «le lettere di Gramsci spaziano su temi complessi di storia della cultura e della filosofia della praxis, e sarebbe errato ridurne lo spessore alla politica in senso stretto». Tenuto conto di questa avvertenza, il lavoro di Vacca è molto utile, pur promuovendo una interpretazione di Gramsci a volte troppo incline a valorizzare unilateralmente gli elementi di novità rispetto alla tradizione terzinternazionalista. Essa però giunge a due conclusioni di rilievo e condivisibili: in primo luogo, la liberazione del prigioniero poteva avvenire solo a livello di trattativa tra Stati, ma per l'Urss essa non era una priorità politica su cui impegnarsi dando qualcosa in cambio a uno Stato fascista che giocava al rialzo; e ciò a prescindere dalle ombre sulla eterodossia di Gramsci, che certo non lo rendevano molto gradito a Stalin. In secondo luogo, in carcere Gramsci procede a una «revisione del bolscevismo», ma «la sua posizione non è quella di uno scismatico che ormai si ponga al di fuori del comunismo sovietico, ma quella d'un comunista eterodosso che pensa si possa lottare dal suo interno per riformarne le fondamenta». Tanto è vero - Vacca lo prova in modo convincente - che egli vuole tornare in Urss per continuare la sua battaglia politica (qui si illudeva, evidentemente) e che l'ipotesi di soggiorno in Sardegna, una volta finita la pena detentiva, era per lui solo una «stazione di transito» verso quello che continuava a considerare il paese del socialismo.

Studi innovativi, ricerche collettive, ma anche polemiche. Da ultimo ha destato scalpore il libro di Luciano Canfora su Gramsci in carcere e il fascismo (Salerno editrice, pp. 304, euro 14. Ne ha scritto Giorgio Fabre su Alias libri il 17 giugno 2012). L'autore affronta in una serie di saggi argomenti quali l'interpretazione del fascismo e di Croce; il maldestro Appello ai fratelli in camicia nera del 1936, la storia del lascito gramsciano e la gestione (politicamente sapiente, filologicamente riprovevole) che ne avrebbe fatto Togliatti; le vicende dell'anarchico denigratore di Gramsci Ezio Taddei, nel dopoguerra troppo generosamente accolto fra le file del Pci; la storiografia comunista, bollata come «storia sacra» e produttrice di «storia falsa» (il primo a essere messo ingenerosamente sotto accusa è Spriano), e soprattutto uno dei cavalli di battaglia dell'autore: la lettera scritta a Gramsci (ma anche a Terracini e Scoccimarro) da Grieco nel 1928, che crescente irritazione e sospetti causò nel prigioniero. Dopo aver sostenuto per quasi un quarto di secolo che la lettera era stata falsificata dall'Ovra per «provocare» Gramsci, Canfora ora scrive che in realtà era stata scritta dal suo firmatario (e solo da lui), Ruggero Grieco: una «provocazione» anche in questo caso. Canfora non dice letteralmente che Grieco fosse un «traditore». Ma vi sono reali differenze, nelle circostanze date, tra essere provocatore, traditore e spia? Per conto di chi infatti Grieco avrebbe messo in campo le sue «provocazioni» se non per aiutare Mussolini a dividere gli avversari?

Indizi maldestri

Tutti gli indizi disseminati da Canfora infatti portano a far credere che Grieco fosse una spia. Tra gli «indizi», il fatto che egli scrisse una seconda lettera a Terracini in carcere (ritrovata di recente), cercando di «farlo parlare» di argomenti potenzialmente compromettenti; il fatto già noto che vi era all'epoca negli alti vertici del Pc d'I una spia fascita mai scoperta; che Togliatti non nutriva simpatia verso Grieco; e che costui nell'Italia liberata non fu più in primissima fila nei quadri dirigenti del Pci. Soprattutto Grieco sarebbe - per Canfora - l'unico colpevole dell'Appello ai fratelli in camicia nera che la Segreteria del Pcd'I rivolse nel 1936 alla «base» fascista per una riconciliazione nazionale su base rivoluzionaria e anticapitalista: un grave errore politico per cui Grieco pagò, anche per colpe non sue: sul n. 4 di Critica marxista, di imminente pubblicazione, Michele Pistillo contesta radicalmente le accuse a questo proposito mosse contro Grieco e Fabio Frosini smonta le tesi di Canfora sull'interpretazione gramsciana del fascismo (come Angelo Rossi avanza riserve su alcuni aspetti del libro di Vacca): a questi saggi rimando per eventuali approfondimenti.

A mio avviso, anche questa nuova tesi «in salsa Le Carrè» di Canfora non tiene. Le lettere del 1928 sono state scritte da Grieco, ma sicuramente per decisione più larga (se così non fosse, il «provocatore» sarebbe stato scoperto subito). Furono maldestre, ma non ebbero influenza sul processo contro i comunisti, non furono neanche messe agli atti. Ed è certo che la condizione psicofisica del prigioniero andò aggravandosi in carcere, il che spiega perché Gramsci sia tornato sulla lettera del '28 con sempre più gravi sospetti, man mano che sfumavano le sue speranze di liberazione e di vita. Ma perché Grieco (e Togliatti) avrebbero scritto la lettera? Perché premeva loro comunicare, in primo luogo a Gramsci, che in Urss la battaglia contro l'opposizione era finita con la vittoria della maggioranza di Stalin, e che per il Pcd'I (già in odore di trockijsmo per la lettera gramsciana del '26) era fondamentale non continuare a scherzare col fuoco, insistendo nel contestare il nuovo corso. Questo era il messaggio «in codice». È molto probabile dunque che in merito alla «scellerata lettera» Gramsci si sia sbagliato: era un errore, una imprudenza, non un tradimento. Egli restò in carcere perché Mussolini non aveva alcuna voglia di liberarlo senza adeguata contropartita (anche propagandistica), e Stalin tale contropartita non era interessato a pagarla.

Pochissimi sono i temi trattati da Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere che non siano stati discussi e analizzati minuziosamente da numerosi studiosi in ogni parte del mondo. Uno di questi è il Lorianismo, un termine coniato da Gramsci per indicare un fenomeno socioculturale che è insieme sintomo e causa della corruzione della società civile. Nella sua introduzione al Quaderno 28, dedicato al Lorianismo, Gramsci spiega che si tratta di «assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell´attività scientifica [... ], irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale». Un tema inattuale, rilevante soltanto per l´epoca fascista? Gramsci aggiunge che «ogni periodo ha il suo lorianismo più o meno compiuto e perfetto, e ogni paese ha il suo».

La figura di Gramsci ha attirato l´attenzione di parecchi loriani. Qualche anno fa un arcivescovo fece notizia dichiarando, in una conferenza tenuta in Vaticano, che Gramsci si era convertito in punto di morte grazie all´effigie di Santa Teresa. Le polemiche suscitate furono comiche e divertenti. La più recente manifestazione di lorianismo è invece sconcertante. In uno scritto prodotto per Nuova Storia Contemporanea, anticipato in sintesi su sabato scorso, Dario Biocca ha sostenuto che Gramsci fu un pentito, pronto a fare un atto di ravvedimento al cospetto del duce. La tesi di Biocca è basata sulla supposizione che – con la richiesta per la libertà condizionale che Gramsci indirizzò a Mussolini nel settembre del 1934, invocando l´articolo 176 del codice penale – il comunista sardo si sia automaticamente ravveduto. Per confermare la sua ipotesi, Biocca cita il testo del codice penale: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla libertà condizionale».

Questo, però, non è il testo dell´articolo 176 in vigore negli anni Trenta quando Gramsci fece la sua domanda, ma il testo di quello stesso articolo così come fu riscritto nel novembre 1962. Come spiega il professore Nerio Naldi, in una lettera diffusa tramite la listserve della IGS-Italia (International Gramsci Society), il testo dell´articolo 176 nel codice in vigore nell´anno in cui Gramsci presentava la sua domanda recitava così: «Il condannato a pena detentiva per un tempo superiore a cinque anni, il quale abbia scontato metà della pena, o almeno tre quarti se è recidivo, e abbia dato prove costanti di buona condotta, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se il rimanente della pena non supera i cinque anni». Perciò, aggiunge Naldi, «la richiesta di liberazione condizionale presentata da Antonio Gramsci nel 1934 non implicava nessun ravvedimento (la «buona condotta» è ovviamente cosa ben diversa) e nulla che potesse essere assimilabile a una domanda di grazia. E Gramsci, per quanto si può desumere da tutti i documenti disponibili, una tale domanda non solo rifiutò sempre di presentarla, ma volle evitare ogni comportamento che potesse consentire di indurre anche il semplice sospetto che egli volesse presentarla».

Può darsi che Biocca abbia consultato qualche edizione del codice penale che non indica la revisione del articolo 176 effettuata nel 1962. In tal caso il suo travisamento dell´evidenza testuale sarebbe la conseguenza di un´incompetenza filologica piuttosto che di una lettura intenzionalmente ingannevole. Sorprende che Biocca non citi testualmente una dichiarazione che Gramsci fece nella sua lettera del 14 ottobre 1934 ad Antonio Valenti (l´immagine del documento appare di fianco al suo articolo su Repubblica): «Sono d´avviso che il beneficio che sta per essermi concesso non è da attribuirsi a cause politiche». Questa lettera e tanti altri documenti rilevanti sono stati pubblicati ed analizzati da biografi più attendibili (come Giuseppe Fiori e Paolo Spriano) e dal curatore delle lettere di Gramsci, Antonio Santucci. Studiosi seri che, a differenza di Biocca, non cercano lo scoop con ipotesi stravaganti.

Biocca vuol distruggere un mito. Gramsci, però, non è un mito ma un persona storica, la cui vita è ben documentata e i cui scritti sono facilmente accessibili in edizioni critiche curate con rigore filologico. Le fantasie di Biocca sulle vicende di Gramsci a Roma, prima del suo arresto, sono anch´esse contraddette da documenti e testimonianze ben note. Basterebbe leggere le lettere che Gramsci scrisse in quegli anni per vedere che il leader comunista rimaneva politicamente molto attivo, in contatto regolare con i suoi amici e compagni.

In conclusione, questo uso scorretto dei documenti intorno a Gramsci è da prendere sul serio solo perché è un sintomo del lorianismo attuale, e ci induce a riflettere – come ha fatto Gramsci – «sulla debolezza, anche in tempi normali, degli argini critici». Argini critici che ci è sembrato opportuno ripristinare.

(L´autore è presidente dell´International Gramsci Society e ha curato l´edizione critica dei "Quaderni dal carcere" per la Columbia University Press)

Introducendo Dizionario gramsciano 1926-1937 (Roma, Carocci, 2009, pp. 918, euro 85), i curatori Guido Liguori e Pasquale Voza si dicono convinti che i testi gramsciani carcerari dal 1926 al 1937, cioè i Quaderni del carcere e le Lettere dal carcere, “e la loro storia, il metodo ‘analogico’ seguito da Gramsci, lo spirito di ricerca e di dialogicità che li caratterizza, la peculiare “multiversità” del linguaggio dell’autore e persino l’ingente ed eterogenea mole interpretativa prodotta fino a oggi rendano tutt’altro che agevole al lettore comune, e in buona parte anche allo studioso, la comprensione del significato o della possibile gamma di significati delle ‘parole di Gramsci’”. E dunque si sono posti “l’obiettivo di ricostruire e presentare al lettore, in termini il più possibile accessibili, il significato dei lemmi, delle espressioni, dei concetti gramsciani” (p. 5). Cioè di parole chiave ancora necessarie a chi, come Gramsci, si ripropone di comprendere e agire per trasformare la realtà: 629 voci elaborate in un lessico da un’accolta mondiale di specialisti scelti, e non solo nella International Gramsci Society, oggi più che mai attenti al lascito gramsciano.

Gramsci, né puro teorico nel suo pensiero carcerario né puro politico nella sua azione politica precedente, ha vissuto con lucidità progettuale la scoperta moderna che i modi di vivere e il senso che si dà al mondo sono un costrutto umano variabile, necessario sempre ma non una volta per tutte. Tutto però era da ripensare, dopo l’imprevista presa del potere nell’ottobre russo, che fu, secondo una sua espressione, una “rivoluzione contro Il Capitale”. Ossia, una rivoluzione non nei paesi europei a capitalismo maturo, dove era attesa secondo certi marxismi con visioni meccanicistiche del divenire storico, ma nella grande arretrata periferia russa.

Una sorpresa che Gramsci, soprattutto in carcere, cerca di spiegare come dovuta al controllo egemonico della borghesia in Occidente, cioè alla capacità (prima di tutto intellettuale e morale) delle classi dirigenti di controllare il pensare e il sentire delle masse lavoratrici euro-americane. Le quali per Gramsci possono sì arrivare alla rivoluzione anticapitalista, ma per gradi e per progetto egemonico, con strategie e tattiche di lunga durata, con una lunga guerra di posizione e soprattutto dopo e come conseguenza di una riforma intellettuale e morale che contrasti l’egemonia culturale della borghesia col suo formidabile dispiegamento di capacità di consenso, oggi ancora più potente ed efficace. Ma allora bisognava pur fare di necessità virtù, dato che cosa fatta capo ha, e fare anche altrove “come in Russia”. Sicché oggi, a cose fatte, il senso comune potrebbe aggiungere che la gatta frettolosa fece i gattini ciechi, o che nel Novecento, una volta tanto a livello planetario, fu messo il carro davanti ai buoi.

Ma Gramsci costretto in carcere ha avuto modo di esercitare le sue eccezionali capacità intellettuali per capire. Il Dizionario è una ordinata ponderosa interpretazione del pensiero gramsciano, sempre così aperto, mobile e antidogmatico, ottenuta selezionandone le componenti, ordinandole, ponendole in gerarchia plausibile, anche escludendo, citando le due grandi edizioni italiane dei Quaderni, Togliatti-Platone e Gerratana, facendo sistematici rimandi al termine di ognuno dei 629 lemmi, e soprattutto attenendosi all’osservazione dello stesso Gramsci che “nella decifrazione di ‘una concezione del mondo’ non ‘esposta sistematicamente’, ‘la ricerca del leit motiv, del ritmo del pensiero in sviluppo, deve essere più importante delle singole affermazioni casuali e degli aforismi staccati’”(Q. 16, 2, 1840-2, p. 6).

Mi limito, quasi per competenza, a un cenno sulla voce folklore, che avrei ben visto preceduta da una voce filosofia spontanea insieme e dopo filosofia, filosofia classica tedesca, filosofia della praxis, filosofia speculativa, filosofo e filosofo democratico.

Gramsci che pensa il folklore è consapevole dell’operazione epistemologica che sta compiendo, ampliando, aggiornando e precisando, per cui il folklore è posto nel punto focale della sua visione generale delle cose umane e nel punto nodale delle sue preoccupazioni di uomo politico, quando in carcere decide di dedicare tanta parte delle sue riflessioni alla cultura delle classi popolari, cioè al folklore inteso però come “studio delle concezioni del mondo e della vita delle classi strumentali e subalterne”, e dunque come “cosa molto seria e da prendere sul serio”, ribadisce sei anni dopo in seconda stesura, nel ‘35, al Quaderno 27 intitolato Osservazioni sul “folclore”.

Il suo anche qui è un acume eccezionale, se è eccezionale, nella storia del pensiero anche riformatore e rivoluzionario moderno, tenere in conto la vita dei più diretti interessati al mutamento, cioè degli strumentali e subalterni, non solo nelle loro reali condizioni di strumentalità e subordinazione, ma anche nelle loro concezioni, sentimenti e risentimenti comunque espressi o repressi o trasformati dal dominio, come per esempio nelle concezioni salvifiche religiose o nel canto popolare dei ceti e popoli oppressi. Gramsci si concentra, come di somma importanza, su qualcosa di trascurato anche quando lo si voglia sfruttare o mutare rovesciando la prassi sociale: sullo studio dei modi, delle concezioni e delle espressioni della vita delle “classi strumentali e subalterne”, prevedendo anche confronti storicizzanti e generalizzanti magari estesi a tutte le “società finora esistite”; nonché confronto attenti ai contenuti e alle caratteristiche delle concezioni del mondo e della vita delle classi strumentali e subalterne rispetto ai contenuti e alle caratteristiche delle concezioni delle classi egemoni, nelle varie condizioni storiche. Ma senza pretese e sbrigatività giacobine e senza un’oncia di buonismo paternalistico, come spesso è accaduto a chi si è fatto paladino di umili e diseredati, piuttosto con rigore scientifico dando e chiedendo la parola, come hanno ben capito e apprezzato in tutto il mondo, tra gli altri, i cultori dei cultural, subaltern e postcolonial studies.

"In una situazione babelica di linguaggi e opzioni politiche, di fallimento di tutte le grandi fedi politiche e religiose, Gramsci forse viene riscoperto incessantemente perché ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che sia un processo e non un atto, che nasca da un lungo lavorio di preparazione culturale e pedagogica". Proponiamo il saggio di Angelo d'Orsi contenuto nel volume "Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell'Italia del dopoguerra" di Francesca Chiarotto di recente pubblicazione per Bruno Mondadori.

Le “scoperte” di Gramsci si sono reiterate, a cicli, nella cultura italiana e, sia pure in proporzione ridotta, in molte culture straniere. Altrettanto numerosi gli usi, talora abusi, del suo pensiero e della sua stessa figura: fondatore del partito, militante antifascista, martire, santo laico. Il suo volto – come lo conosciamo da una delle pochissime immagini che ci sono state tramandate, intenso e fascinoso – è divenuto un’icona che, a guisa di un Che Guevara italiano, orna ormai magliette, borse, manifesti murali, persino cartoline pubblicitarie, che “vendono” prodotti talora del tutto estranei all’universo gramsciano. Spesso, come del resto accade per il “Che”, la diffusione dell’icona è inversamente proporzionale alla conoscenza del suo significato profondo, ma, trattandosi di uomini d’azione e insieme di teorici politici, vuole testimoniare adesione a una proposta politica (ancorché ben conosciuta) e condivisione di una testimonianza giudicata, a ragione, eroica.

L’immagine pubblica di Gramsci ha percorso, dopo la morte, un itinerario che si snoda tra epifanie e disparizioni, disinvolti utilizzi e aspri scontri, interni ed esterni a quel mondo della sinistra che, gramscianamente, avrebbe dovuto lottare unito, pur preservando le differenze programmatiche e non sottacendo le distanze ideologiche. Il che significa che anche la figura ascetica di Gramsci, quasi immediatamente, dopo la sua morte, e per certi versi anche prima, sacralizzata, venne usata a fini di battaglia politica: innanzi tutto da Palmiro Togliatti, che pure fu il primo sostenitore di tutte le iniziative volte a rendere noto «il pensiero di Antonio», ma che certo seppe, in una strategia culturale di eccezionale lucidità, mettere a frutto quel patrimonio ideale, per costruire un partito che fosse comunista, ma italiano, con tutti gli adattamenti che di volta in volta gli sviluppi politici inducevano o obbligavano. In fondo, l’originalità del comunismo italiano, e la sua “diversità” ha a che fare con Gramsci, prima che con Togliatti; e, al di là delle differenze tra i due, che emersero nella clamorosa rottura del 1926, mai più sanata, non v’è dubbio che il secondo seppe riannodare il filo spezzato. Naturalmente, mancava l’interlocutore, ma il rispetto e l’attenzione di Togliatti per il fratello maggiore, come venne considerato e talora chiamato Gramsci, sono fatti assodati.

La vicenda, dunque, delle edizioni e degli studi gramsciani, che si intreccia alla istituzionalizzazione, attraverso la Fondazione ad Antonio Gramsci intitolata, e alle mille iniziative volte a portare il nome di quel Sardo ben oltre i confini del partito, costituisce una traccia forte, e finora non sufficientemente seguita, della edificazione di un blocco intellettuale intorno al PCI: «la costruzione dell’egemonia», appunto. Ora, sebbene intorno a quel nome la battaglia ideologica, in forma residuale, continui (basti pensare alla recente ripresa tardiva di una insulsa diceria che vorrebbe un Gramsci convertito alla religione dei padri, in articulo mortis), [1] non v’è dubbio che, almeno nel mondo degli studi, mentre ancora qualche anatra starnazza sul Campidoglio, per avvertire il popolo e il senato della minaccia “comunista”, Gramsci sia diventato un tassello ineliminabile del mosaico del pensiero universale. E, altrettanto indubbiamente, questo fatto è certificato da una data: la pubblicazione dei Quaderni del carcere, nella nuova edizione critico-filologica, a cura di uno studioso che ha con quel lavoro legato per sempre il suo nome agli studi gramsciani, Valentino Gerratana.

Il momento in cui si collocò quell’avvenimento editoriale, la metà esatta del settimo decennio del XX secolo, oggi ci può apparire un momento di cerniera: si era ancora nel pieno di quelli che Mao Zedong aveva proclamato «I grandi anni Settanta», convinto che sarebbero stati gli anni della rivoluzione proletaria e socialista in Occidente, ma il cambiamento radicale, epocale, si stava già palesando come sogno più che come progetto, e, anzi, da quel sogno le classi operaie, gli studenti, una parte di ceto medio intellettuale, motori della rivolta del decennio precedente, si sarebbero di lì a poco risvegliati, e molti sarebbero precipitati nel ritiro dall’agorà, occupandosi solo del proprio “particolare”; altri, si sarebbero lasciati attirare dalle sciagurate chimere della lotta armata, entrando in clandestinità; e non mancava, chi, come sempre accade nella storia, si apprestava già allora a cambiare bandiera, e i teppisti sarebbero diventati uomini d’ordine, gli ortodossi del comunismo avrebbero conservato la struttura mentale rigida e l’intolleranza di derivazione bolscevico-staliniana, ma rovesciando completamente i propri valori ideali e orientamenti politici.

E Gramsci? In sintesi, il rivoluzionario veniva riletto, grazie alla seconda pubblicazione dei Quaderni, sub specie aeternitatis: in sostanza, dopo letture, e più o meno accorti utilizzi, fino ad allora prevalentemente e direttamente in chiave politica, sia in Italia, sia fuori, Gramsci cominciò a essere guardato nei termini, soprattutto, di un filosofo politico, ma anche di uno storico, di un critico letterario, di un interprete del mondo «vasto e terribile», per riprendere una notissima sua espressione, che ricorre più volte nella corrispondenza con i familiari. Anzi, in particolare, i Quaderni – proposti nella forma più o meno originaria in cui erano stati in parte scritti, in parte già riorganizzati dall’autore – sembravano cadere proprio nel cuore di una fase storica di trapasso, che, nondimeno, a taluni, appariva ancora aperta alle possibilità del socialismo. In Italia, il movimento degli studenti era ancora vivo, il PCI giungeva a esiti elettorali eccezionali, mentre la società aveva introdotto nei propri ordinamenti giuridici notevoli cambiamenti, il costume si era profondamente trasformato, come mostrò il referendum contro il divorzio voluto da una parte della Democrazia cristiana e appoggiato dalla Chiesa e clamorosamente sconfitto. Ma nel contempo, si cominciava a prendere atto, da parte di soggetti politici e intellettuali forse più attenti e realistici, di una nuova, incombente disfatta dell’ipotesi rivoluzionaria.

I testi gramsciani, che ritornavano come nuovi sul mercato delle idee, venivano finalmente colti, non a torto, quali frammenti di un’analisi lucida, ancorché venata di amarezza, della sconfitta del movimento rivoluzionario: si aggiunga che quelle analisi parevano in controluce evocare le successive sconfitte: quella del Vento del Nord, nel post-Resistenza in Italia, e l’altra, appunto, che stava cominciando a definirsi nella seconda metà degli anni settanta. Frammenti, dicevo: sul “frammentismo” gramsciano si erano già impiegati chilogrammi di carta stampata (se ne trova traccia nelle pagine che seguono), e il tema ritornò di attualità davanti alla nuova edizione dei Quaderni, che evitava gli accorpamenti più o meno giudiziosi, secondo linee tematiche variamente individuate, talora convincenti, talaltra meno; ma sempre, comunque, “traditrici” dello stato del testo: dunque, ciò che era stato forzosamente reso organico e compatto, ritornava alla dimensione originaria, nella sua natura di brogliaccio, sia pure nel corso del tempo reso, almeno in parte, più sistematico dallo stesso Gramsci, attraverso quella rielaborazione chiamata «Quaderni speciali». Eppure si scopriva, riprendendo alcune preziose intuizioni dei decenni precedenti, che il frammentismo non esprimeva soltanto la condizione provvisoria e disorganica di quei testi, ma traduceva la natura del pensiero del loro autore.

Le letture e riletture – che erano quasi per tutti letture ex novo – favorite da questa nuova «epifania gramsciana», come viene chiamata efficacemente nelle pagine che seguono, furono dunque influenzate dalla situazione politica complessiva, ossia, dall’affievolirsi delle istanze di cambiamento radicale, anche se non si affacciava allora lo spettro della controrivoluzione, come nell’Europa di mezzo secolo prima, quando lo scontro reazione-rivoluzione propagatosi come un incendio dopo il 1917, aveva visto la vittoria della prima, spesso con dolorosissime conseguenze; e nella stessa immensa “patria del socialismo”, l’Unione Sovietica, dove il gruppo dirigente passava di successo in successo nella lotta contro i “nemici interni”, in qualche modo realizzando i peggiori scenari ipotizzati dallo stesso Gramsci nella lettera del 1926, consegnata a Togliatti e mai recapitata. Scenari che negli anni seguenti, e prima ancora delle purghe su larga scala – che sopraggiunsero nell’anno stesso della morte, il 1937 – il detenuto avrebbe in parte compreso, in parte vagamente intuito, sulla base delle scarne e mutile informazioni che gli erano fatte giungere, clandestinamente, attraverso i canali della comunità carceraria, per il tramite di compagni, ma sovente osteggiati da altri militanti del partito.

Il fatto che la presentazione dei Quaderni, curati da Gerratana, organizzata dalla casa editrice Einaudi, avvenisse a Parigi, può da una parte essere significativa della presenza precoce di Gramsci Oltralpe, ma anche del ruolo della Francia nella guida dei movimenti di contestazione europea degli anni precedenti. Eppure, non ne conseguì un rilancio efficace degli studi gramsciani francesi (ma va segnalato in contemporanea la pubblicazione di un saggio tuttora insuperato nel suo specifico, su di un tema fondamentale come quello dello Stato), [2] né delle traduzioni, paradossalmente, se non in modo assai contenuto, considerando che l’edizione integrale dei Quaderni, avviata più tardi, impiegò un ventennio per giungere a conclusione;3 tuttavia Parigi, grazie a quella iniziativa, che mostrò immediatamente il valore generale dell’impresa editoriale, fu il centro propulsivo di un rilancio della presenza di Gramsci sulla scena culturale internazionale. Se fino ad allora era stata soltanto la sinistra, variamente comunista, a tradurre, studiare o semplicemente leggere Gramsci, da quel momento si realizzò un salto in avanti nella conoscenza e diffusione dell’opera gramsciana, con un significativo allargamento del parco dei lettori e degli studiosi. E altre letture, altre interpretazioni, soprattutto altre focalizzazioni emersero dall’universo del Gramsci “maturo”, restituito alla pur complessa e multiforme natura di quegli straordinari appunti di lavoro che erano i Quaderni, e che finalmente apparivano per ciò che erano, liberati dalla gabbia della tematizzazione imposta da Palmiro Togliatti e Felice Platone.

Che “l’operazione Quaderni”, dell’immediato dopoguerra – più in generale, “l’operazione Gramsci” –, sia stata cosa buona e saggia, è ampiamente dimostrato nelle pagine di questo libro; ma quel tipo di edizione, non tanto per i tagli e le “censure”, quanto proprio per gli accorpamenti delle sparse note gramsciane, si prestava meglio agli utilizzi politico-ideologici. Ora, con il 1975, grazie all’edizione Gerratana, i Quaderni, se non tutto Gramsci, potevano essere affrontati in un altro modo, che non solo si sottraesse al servo encomio e al codardo oltraggio, ma fosse in grado di far emergere insospettate valenze di quel pensiero, ampliandone gli echi, moltiplicandone le risonanze. Il che, puntualmente, avvenne, pur non cessando gli usi politici, che, in un senso o nell’altro, erano comunque facilitati dall’assenza della pubblicazione completa e scientificamente rigorosa di tutti gli scritti e dei carteggi gramsciani.

Ma, ancora in mente dei l’Opera Omnia, in quella fase l’edizione integrale e critica dei Quaderni, giunta a conclusione dopo un paziente e generoso lavoro, fu una tappa fondamentale. Per la prima volta si poteva leggere quel che davvero Antonio Gramsci aveva scritto in carcere, senza le mediazioni togliattiane, sganciandosi da quel lavoro del primo dopoguerra che, con tutti i suoi meriti, aveva l’intento, principalmente, di fondare una pedagogia politica di massa. Fu una sorta di rivoluzione copernicana che costrinse a un benefico bagno nel testo, anche da parte di coloro che i Quaderni li avevano già letti e usati, e che ebbero l’impressione di trovarsi davanti a un altro testo, quasi un palinsesto, di straordinaria vivacità e forza, di enorme spessore, certo di gravi difficoltà, anche per la sua natura interrotta, provvisoria, talora rapsodica, non esente da contraddizioni e aporie... E, altro paradosso, se è vero che liberati dalla gabbia tematica i Quaderni erano restituiti alla polisemia di un cantiere aperto, d’altro canto anche la forma editoriale – in luogo dei sei volumi, apparsi separatamente, acquistabili uno per uno, come opere diverse, un blocco di oltre tremila pagine solo per comodità del lettore diviso in quattro tomi – dava al testo una sorta di omogeneità, ne faceva insomma un’“opera”. E su di essa, per tanti versi “nuova”, ci si pose allo studio, in modo nuovo: la filologia cominciò a essere una chiave importante, in parallelo, d’altronde, con l’acquisizione che stava imponendosi su scala sovranazionale, ancorché non ancora generalizzata, di Antonio Gramsci nell’empireo dei grandi del pensiero. I grandi si studiano, e si studiano con gli strumenti raffinati della critica e ricostruzione filologica del testo, dell’analisi filosofica, ma su quel preciso testo, dell’attenta contestualizzazione storica.

Grazie a questi nuovi approcci, Gramsci non soltanto fu, almeno in parte, sottratto alle dispute ideologiche, spesso di modesto valore, e agli utilizzi politici (almeno quelli più smaccati), ma altresì fu liberato da una interpretazione di fondo, che, con qualche non frequente eccezione, lo collocava nel solco della tradizione italiana, punto d’arrivo di linee continue che ne facevano uno storicista idealista, in buona sostanza. I due elementi erano andati di pari passo: notò nel 1977, assai criticamente, sull’“operazione Gramsci”, Arcangelo Leone de Castris, uno studioso marxista esterno (“a sinistra”) al Partito comunista, che nel momento in cui la cultura italiana del dopoguerra tentava «una sistemazione di quella operazione nella figura del “grande intellettuale”, culmine di una tradizione democratica nazionale e suo ripropositore, capovolgeva nella propria ideologia della continuità, di fatto funzionale a una concezione riduttiva della via italiana al socialismo, il vero centro teorico-politico dell’operazione gramsciana». [4]

Come dire un’operazione Gramsci, ossia su Gramsci, condotta da Togliatti e portata avanti dai suoi intellettuali organici dopo la morte del capo, contro l’operazione gramsciana, ossia di Gramsci. Quanto poi al centro dell’elaborazione propriamente di Gramsci, le opinioni dello studioso erano e rimangono discutibili, e forse attardate su moduli che ci appaiono oggi desueti. Ma il centro del discorso concerneva il fatto che Gramsci stesso si fosse battuto contro quella tradizione, e i suoi rappresentanti, specie nel presente politico.

Tra il convegno del quarantennale della morte (1977) e quello del cinquantennale di dieci anni dopo, furono forniti tutti gli indizi che i tempi stavano cambiando. Dall’apogeo si passò lentamente all’ipogeo: tutti gramsciani negli anni settanta, nessun gramsciano negli ottanta... Nel convegno del 1977 si affrontarono in particolare temi teorici, segno di una piena assunzione di Gramsci nel mondo del pensiero: un mondo dal quale da un lato taluni studiosi, retrivi e misoneisti, intendevano tenerlo lontano, mentre dall’altro alcuni esponenti della generazione più giovane, molto gauchiste, influenzata dall’antico avversario in seno al Partito comunista, Amadeo Bordiga, o da altre correnti marxiste, cercavano di inchiodarvelo come un marchio d’infamia (quasi una riproposizione, senza troppo sforzo immaginativo, delle accuse bordighiane rivolte già al giovane socialista sotto la Mole, di essere a capo di un gruppo, quello de “L’Ordine Nuovo”, «culturalista»). Ciononostante, era precisamente l’inventore o il reinventore di parole chiave del lessico politico, e in specie dell’egemonia, che ormai si era imposto sulla scena internazionale, a livello di mondo accademico: ma nemo propheta in Patria.

Dunque, in Italia, dopo quell’importante raduno del quarantennale, che quasi coincise perfettamente con l’ascesa al potere nel Partito socialista di Bettino Craxi, animato da un furor anticomunista, mentre fuori dei confini appunto Gramsci era oggetto di un processo di universalizzazione, qui veniva di nuovo ripiegato ad usum di cordate politico-intellettuali di modesto respiro, ma di notevole risonanza mediatica. L’intenzione era quella di portare il PCI a Canossa, e Gramsci diventava una sorta di uomo dello schermo: si criticava lui, per sollecitare il partito da lui fondato (pur con intenti polemici, a dispetto della sua dubbia verità, era rimasta dominante, diventando senso comune, l’attribuzione di “paternità”; Gramsci era “il fondatore” del PCI) ad abbracciare la “via democratica”. In particolare la rivista teorica del PSI, “Mondo Operaio”, si distinse in questa campagna, che, naturalmente, ebbe spunti interessanti, in un mare di interventi ideologici, che rivisti oggi appaiono irrimediabilmente datati. Forse, più datati persino del Gramsci “bolscevico” della prima metà degli anni venti.

Quanto alle letture collocate “a sinistra”, emergeva, non di rado, un’altra criticità, che era in parte scientifica, in parte, di nuovo, politica: ossia una svalutazione del Gramsci giovanile, parallela e contraria a quella condotta in seno all’intellettualità comunista ortodossa, e una nuova centratura sui Quaderni, che solo in anni assai recenti si è tentato, da parte di qualcuno, di rompere.

La cosa era comunque comprensibile, in quanto, letti nella loro versione (quasi) integrale, e sub specie voluminis, i Quaderni, insomma, diventati “opera”, accrescevano enormemente la loro forza di suggestione; al di là delle interpretazioni non c’è dubbio che in questo procedimento Gramsci fosse esaminato, da parte di una cerchia di studiosi per certi versi differente da quella passata, anche per ovvie ragioni biologiche, con occhi nuovi, e soprattutto anche con strumenti più raffinati. Non era la nouvelle histoire gramscienne, ma si poteva infine prestare la dovuta attenzione alla filologia, senza il rischio di essere accusati di pedanteria: inediti accostamenti, talora impensate affinità, conferme e modificazioni, si affacciavano nel paniere degli studi dedicati al Sardo. Se ne ricavavano preziose tessere di un mosaico che nel corso degli anni seguenti sarebbe diventato via via monumentale, in termini di quantità e di qualità, con una intensificazione fuori d’Italia a partire dal finire degli anni ottanta, e in Italia, dalla metà dei novanta. I concetti chiave del lessico gramsciano – da “Egemonia” a “Guerra di posizione”, da “Rivoluzione passiva” alla parola magica e forse davvero centrale “Intellettuali” – emersero come stelle luminose di un dizionario generale della teoria politica, ma anche della sociologia, della critica letteraria, della storiografia. E quant’altro. Già, perché si faceva strada un po’ alla volta la realtà di un pensiero multiverso, a volte quasi inafferrabile per la sua stessa ricchezza.

Nello stesso tempo, paradossalmente, il cambio di decennio comportò, di sicuro in Italia, un lento inabissarsi di quel pensiero, prova che l’assunzione di Gramsci nell’empireo non lo aveva emendato dalla “colpa originaria”: il comunismo. Così, dopo un paio di decenni in crescendo, tra le edizioni di testi e la pubblicazione di studi (spesso, è vero, disinvolti sul piano della filologia e sbrigativi su quello della contestualizzazione), dopo una massa di interpretazioni le più varie, che talora contenevano grossolane semplificazioni e talaltra gravi impoverimenti del suo pensiero, mentre ritornavano gli attacchi ideologici (non più di parte cattolica, ma perlopiù, come ricordato, provenienti dall’area intellettuale di riferimento della nuova segreteria del Partito socialista), venne, accanto e dopo, il tempo della rimozione, e dell’oblio. Antonio Gramsci, in patria, insomma, diventava un “cane morto”. Era un altro paradosso, in quanto, contemporaneamente, sull’onda lunga dell’edizione critico-cronologica dei Quaderni, il pensatore (ma anche il rivoluzionario) veniva scoperto fuori d’Italia, in sedi diverse, e con differenti modalità. Vale la pena di ricordare, in margine, che intanto si era avviata, ma riservata al mondo degli studi, una discussione sui criteri dell’edizione Gerratana, con proposte interessanti, di varia radicalità, di una sua emendazione: insomma, la stessa pubblicazione della nuova edizione dei Quaderni diede il via al proprio superamento, in particolare grazie alle suggestioni di uno studioso proveniente da altri ambiti di ricerca come Gianni Francioni; ma il fatto stesso che un filologo settecentista si dedicasse a Gramsci, e ai complessi problemi di ricostruzione del testo, era la prova che quell’autore non era più etichettabile nei termini di giornalista socialista, o di dirigente di partito che si era anche dilettato di pensare la politica. [5]

Ma appunto a tale verità fuori d’Italia si giunse prima, anche se nei decenni antecedenti non pochi erano stati coloro che avevano colto lucidamente la “classicità” di Gramsci. In sostanza, mentre fuori dei patrii confini il nome di Gramsci cominciava a circolare con insistenza, negli ambienti culturali nostrani Gramsci era quasi ritornato a essere lo sconosciuto che era avanti la “scoperta” del 1947, grazie alle Lettere e al premio Viareggio che le aveva, inopinatamente, lanciate sulla scena nazionale. [6] L’inabissarsi della figura, del nome e del pensiero di Gramsci fu impressionante, nell’Italia degli anni ottanta, dominati politicamente dallo pseudoriformismo “decisionistico” del craxismo, e culturalmente da quello che fu chiamato, su scala sovranazionale, “l’edonismo reaganiano”, con un forte ripiegamento sul privato, una esibita volontà di primeggiare, individualisticamente, nella dimensione esistenziale in cui il lato pubblico, politico, veniva cancellato. L’agorà, in ogni sua possibile versione, era dimenticata a vantaggio del salotto di casa, o, peggio, della discoteca, o della birreria, dove nondimeno il discorso pubblico, politico, era del tutto rimosso. Il divertimento, nella sua forma spesso più becera, prendeva il posto dell’impegno. Come avrebbe potuto trovare posto una figura quale quella – rigorosa al punto da apparire rigorista, “calvinista” – di Antonio Gramsci, in quell’universo?

E anche a sinistra, nello scenario che si cominciava a delineare di fuga dal marxismo, e dal suo corrispettivo politico, il comunismo, Gramsci non godé di buona stampa. Basti, come esempio, il convegno organizzato nella “sua” Torino, sul finire del 1988, dal locale Istituto a lui intitolato. Qui si colsero i frutti dell’ambigua interpretazione data da Bobbio al convegno di vent’anni prima, e si dimostrarono non errate le preoccupazioni per le «pericolose conseguenze che essa implicava». [7] Ormai, mentre la cosiddetta “nuova destra”, alla ricerca di parentele nobili, cominciava a guardare al pensiero di Gramsci come a un punto di riferimento, in un patchwork confuso, ma degno di attenzione, bizzarramente le letture che emersero al convegno torinese sembravano andare nella stessa direzione, consegnando quel rivoluzionario, inchiodato da etichette che volevano essere squalificanti, come armonico, gerarchico, produttivista, tendenzialmente totalitario, proprio al paniere ideologico di una destra “colta”. [8]

L’edizione Gerratana ebbe anche l’effetto, certo non positivo, di oscurare gli scritti precarcerari, che ritornarono a essere ciò che in passato erano stati in un’opinione diffusa, alla quale si erano opposti in pochi: una sorta di preparazione della “vera” elaborazione teorica, quella in prigione, per i sostenitori della “continuità”; un immaturo prodotto della giovinezza, poi superato, in direzione piuttosto diversa, nell’età “matura”. Effetto bizzarro, in quanto proprio in quell’ottavo decennio del secolo, ancora Einaudi aveva dato il via a una nuova edizione degli scritti precarcerari (antecedenti dunque al novembre del 1926), che aveva arricchito notevolmente il quadro della biografia intellettuale e politica gramsciana, fornendo ulteriore materiali per studi e approfondimenti. Si trattava di un’edizione che faceva compiere importanti passi avanti, specie in termini di attribuzione: se per i Quaderni il problema fondamentale era quello della datazione, per gli articoli, quasi sempre non firmati, rimaneva quello del riconoscimento di paternità, che, con il trascorrere degli anni, diventava via via più incerto, con il mancare di molti dei protagonisti di quella stagione, la cui testimonianza era stata in passato uno dei criteri per l’attribuzione dei testi alla penna di Gramsci.

Anche in questa tornata editoriale un ruolo importante fu svolto da Gerratana; ma accanto a lui, oltre al redattore einaudiano Sergio Caprioglio, che aveva collaborato con Elsa Fubini alla curatela delle lettere, per la seconda edizione, assai arricchita, del 1965, [9] emergeva uno studioso della generazione successiva, Antonio A. Santucci, che si sarebbe spento prematuramente nel 2006, non senza aver dato contributi significativi agli studi gramsciani. [10] Peraltro, poco prima, era mancato Caprioglio: due perdite gravi per la comunità dei gramsciologi, che ancora non aveva superato la perdita di Gerratana, avvenuta nel 2000. L’edizione degli scritti precarcerari degli anni ottanta fu, nell’insieme, pregevole, malgrado errori e lacune: col senno di poi, si può parlare di un passo verso l’edizione completa degli scritti, che sarebbe stata avviata un quindicennio più tardi; in ogni caso si trattò di un lavoro che contribuì a una conoscenza assai più ricca della biografia di Antonio Gramsci nella Torino che da città fredda e ostile, come gli si era presentata nell’autunno del 1911, andò trasformandosi un po’ alla volta nella “sua” città. [11]

Gli anni ottanta si chiusero con una serie di eventi che sembrarono di nuovo riaprire i giochi, anche se gli impulsi a una Gramsci-Renaissance, onda lunga dell’edizione Gerratana, provennero da fuori d’Italia. Non ci fu “il convegno” per il cinquantesimo della morte (1987), ma una serie di iniziative che mostrarono il divario tra gli ambienti culturali italiani che ricuperavano in modo lento e ritardato una vera ricezione del pensiero del Sardo, e una comunità di studi internazionale che si apriva a Gramsci con attenzione e, talora, persino con autentico entusiasmo: era l’entusiasmo della scoperta, ancora una volta. Era un Gramsci nuovo quello che in una lettura trasversale e multidisciplinare, si palesava, tra manipoli di studiosi europei, americani e un po’ alla volta anche di altri continenti (Asia e Australia): era il Gramsci pensatore critico della modernità, marxista innovatore, comunista capace di riflettere senza ideologismi sul fallimento della rivoluzione in Occidente. Due raduni internazionali, in particolare, dotati di questi caratteri, segnarono tappe significative in tale direzione. [12]

La cultura italiana, dal canto suo, si lasciò lentamente trascinare al seguito, in modo spesso riluttante, talora opponendo resistenza, in varia forma, come rivelò il convegno di Torino di fine 1988. L’anno dopo, il fatidico 1989, a Formia si tenne un raduno internazionale, nell’oggetto e nei soggetti partecipanti; [13] e l’anno prima, lo statunitense John Cammett (mancato nel 2008), in vista proprio di quell’evento, aveva realizzato la prima Bibliografia gramsciana: stampata, in edizione provvisoria, poi ampliata per l’edizione definitiva – ossia provvisoriamente tale – pubblicata per il centenario della nascita (1991). [14] Fu così che, grazie a questo fino ad allora sconosciuto studioso, già militante sindacale, che aveva lavorato da solo, e in modo dilettantesco – nel senso migliore – si scoprì che su Gramsci avevano scritto (articoli, saggi, monografie, voci di enciclopedie) centinaia e centinaia di studiosi, di militanti politici, di opinion makers, in oltre trenta lingue del mondo: si trattava di oltre settemila titoli. Fu un piccolo, salutare choc, che contribuì a produrre, anche per un effetto d’imitazione, una nuova ondata di studi, edizioni, ricerche.

Le edizioni in lingue diverse dall’italiano cominciarono a susseguirsi; e non si trattava più di antologie, ma di ambiziosi tentativi di traduzioni integrali. Negli Stati Uniti nacque la International Gramsci Society (IGS), che presto diede vita a una importante Sezione italiana. E mentre si cominciava alacremente a lavorare all’edizione integrale inglese dei Quaderni, a cura di Joseph Buttigieg, fondatore dell’IGS, il nome di Gramsci si diffondeva soprattutto in America Latina, mentre in Europa la ripresa di interesse fu più lenta, specie in Francia dove era partita per prima l’attenzione a questo italiano, con grandi contese politiche tra gramsciani e gramscisti... Ciò non toglie che in numerose realtà nazionali Gramsci fosse ormai diventato un personaggio di rilievo in seno al dibattito politico e culturale; lo si incominciava a citare anche al di fuori dei contesti scientifici, quasi ad avvalorare un destino di usi politici, ennesimo paradosso: la pratica degli utilizzi a fini di parte o di partito del pensiero gramsciano, cessata in Italia si diffondeva fuori, contemporanea e parallela alla nascita di autentici filoni di studio; questi, proprio come, del resto, gli usi politici erano, in effetti, legati essenzialmente alle principali categorie teoriche dei Quaderni che l’edizione Gerratana stava in qualche modo “liberando”, facendole emergere in piena luce. Insomma, il lessico di Gramsci su cui finalmente si poneva l’attenzione che meritava, si prestava a un doppio uso: strumento di analisi della realtà storico-politica (e non solo, essendo ben presenti in quell’ipertesto gramsciano concetti provenienti da altre discipline), da un lato, e di intervento nella prassi, dall’altro. Ma sempre fuori d’Italia. Doppiato il capo del 1989, nei primi anni novanta, quando nelle università italiane si può dire che nessuno (o quasi nessuno) tenesse corsi su Gramsci, il cui nome era ormai ritornato a essere ignorato o pressoché ignoto agli studenti, e negletto dalla quasi totalità del corpo docente, in Giappone, per fare un esempio, era uno degli autori politici più studiati; così pure, per riferirsi a tutt’altra temperie culturale, nei paesi arabi. [15]

Ma, come ho accennato, di nuovo gli orientamenti culturali stavano, sia pur lentamente, cambiando. Il 1989-1991 (ossia il biennio “rivoluzionario” che, con l’improvviso crollo del “socialismo reale”, aveva sconvolto il mondo, alimentando speranze poi rivelatesi perlopiù ingannevoli e fallaci) [16] aveva d’improvviso fatto emergere dalle macerie del Muro di Berlino, che aveva, nel suo crollo, travolto larga parte della letteratura marxista, proprio il fantasma di Gramsci, accanto a quello di Marx: se questo si presentava come il grande profeta critico della globalizzazione, anticipando le interpretazioni pessimistiche sulla globalizzazione della miseria, Gramsci appariva come il pensoso analista della sconfitta dell’ipotesi rivoluzionaria, ma altresì il pacato e profondo studioso di un altro socialismo possibile, lungo sentieri nuovi di lotta culturale, di costruzione di una egemonia intellettuale, di un uso intelligentemente critico degli elementi portanti del “moderno”. L’ultima riscoperta di Gramsci, quindi, in un paradosso più apparente che reale, si collocava proprio a ridosso del crollo del Muro, dal quale non soltanto non era sfiorato, ma che ne faceva risaltare la figura nello spazio rimasto vuoto. All’inizio degli anni novanta un momento importante, che però non diede luogo all’interesse che avrebbe meritato, fu la pubblicazione, a cura ancora di Santucci, delle lettere giovanili (fino al 1926, ossia fino all’arresto), che confermarono la potenza e l’umanità del Gramsci epistolografo, aprendo anche squarci nuovi e insospettati sulle difficoltà dell’esistenza di un uomo a cui le vicende della vita, da quelle della salute fisica a quelle familiari, a quelle politiche, avevano rubato prima l’infanzia, poi la giovinezza. Gramsci, insomma, fu sempre, da subito, adulto. E un adulto di eccezionale maturità, dotato di un precocissimo senso della responsabilità individuale, provvisto di pazienza e ironia.

Ci vollero, nondimeno, altri anni prima che anche in Italia – ribadisco: sulla scia della rinnovata e perlopiù del tutto nuova fortuna di «Gramsci in Europa e in America» [17] – si ricominciasse, con continuità e sistematicamente, a studiare, pubblicare, tenere corsi universitari; soprattutto ad avviare ricerche sia archivistiche, sia bibliografiche, volte specialmente a rintracciare i segni della fortuna di Gramsci fuori d’Italia: in ciò fu decisivo l’impulso della Fondazione Gramsci e, in non pochi casi, di taluno degli Istituti regionali intitolati al rivoluzionario sardo, che si stavano consorziando. [18]

Assai utile per rimettere in circolazione Gramsci fu la nuova raccolta, la più ampia fino ad allora (e a tutt’oggi), delle lettere carcerarie, curata sempre da Antonio Santucci; la pubblicazione suscitò un contenzioso tra l’editore palermitano che l’aveva mandata in libreria (Sellerio), la casa editrice Einaudi e la Fondazione Gramsci, entrambe reclamanti di essere depositari dei diritti d’autore, al punto che si giunse al ritiro dell’opera dalle librerie. [19] Ma, grazie alla stessa eco mediatica della pubblicazione, si accesero nuovi fari sull’opera gramsciana e comunque si trattò di un nuovo materiale documentario che arricchiva il paniere delle conoscenze sulla vita e sulle sofferenze, private e pubbliche, di quel prigioniero eccellente del fascismo. Di Gramsci si ricominciò dunque a parlare sulla grande stampa oltre che negli ambienti scientifici, e, assai meno, in quelli politici.

Lo dimostrava, ancora nel 1996, la pubblicazione di un saggio che costituiva (dopo un lontano analogo più sintetico lavoro di altro studioso, apparso nell’anno stesso dell’edizione Gerratana) [20] il primo tentativo di ricostruire le contese politiche oltre che scientifiche su Gramsci: libro utilissimo, ancorché con taglio ideologico, che sarebbe diventato una piccola guida per militanti, oltre che per studiosi. [21] Intanto, una nuova messe di edizioni antologiche giungeva sui banconi (non nelle vetrine) delle librerie e, talora, fino agli scaffali delle biblioteche: dopo il Gramsci martire, il Gramsci ortodosso, il Gramsci eretico, il Gramsci nazionale e popolare, il Gramsci fratello maggiore di Togliatti, sembrava riaffacciarsi il “Gramsci di tutti”, prestandosi, suo malgrado, a letture e interpretazioni multiverse, che passavano dalla nuova destra, che insisteva sui suoi tratti nazionali, produttivistici e organicistici, fino alla sinistra postcomunista, che ne faceva un pensatore liberale; mentre quel che rimaneva della sinistra marxista, in non pochi suoi segmenti, volgeva di nuovo il suo sguardo verso quel volto dai grandi occhi profondi, che gli occhialini evidenziavano, sotto la massa dei capelli crespi. Si riscopriva, citandolo e ricitandolo, in tutta la sua drammatica potenza, il bellissimo schizzo che ne aveva disegnato Piero Gobetti nel 1922:

Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità intima, che dovette essere accettata senza discussione: il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costruito secondo i rapporti logici necessari per un piano sociale, e serba dello sforzo una rude serietà impenetrabile; solo gli occhi mobili e ingenui ma contenuti e nascosti dall’amarezza interrompono talvolta con la bontà del pessimista il fermo vigore della sua razionalità. [22]

Infine, il segno decisivo del ritorno di Gramsci sulla scena culturale, fu l’avvio dell’Edizione Nazionale degli Scritti, nel 1996-1997, sotto l’egida della Fondazione Gramsci: non fu senza significato, certo, che il clima politico fosse di una nuova fiducia nella sinistra, appena giunta al governo del paese, dopo la prima breve ascesa e caduta di Silvio Berlusconi. E, tuttavia con l’Edizione Nazionale (che aveva nondimeno un comitato scientifico internazionale, nel quale primeggiava la stella di Eric Hobsbawm, già frequentatore dei raduni gramsciani), se Gramsci era ormai acquisito al Pantheon del Pensiero, la gran parte di coloro che lo studiavano provvedevano consapevolmente, e talora inconsciamente, a neutralizzarlo sul piano politico: la sinistra che governava non solo era lontana da qualsivoglia tentazione eversiva, ma era dichiaratamente lontana dalla stessa tradizione marxista. Gramsci rimaneva, comunque, “un comunista”, anche se da più parti si insisteva, anche riprendendo spunti dei decenni passati, sul carattere “diverso” del suo comunismo, e sul suo marxismo originale. Ciò non toglie che, politicamente, a Gramsci fosse preferito, spesso soprattutto dai militanti del partito da lui fondato, di volta in volta Carlo Rosselli o don Milani, John Kennedy o Karl Popper... Addirittura, nell’anno 2000, nel corso di un convegno celebrativo dei cinquant’anni della fondazione dell’Istituto Gramsci, che pudicamente si volle intitolare a Gramsci e Rosselli, l’allora leader emergente dei DS Walter Veltroni ebbe a schierarsi accanto a Rosselli, cercando di allontanarsi appunto da un ingombrante Gramsci, dimostrando con ciò di non conoscere né l’uno, né l’altro.

Eppure, se politicamente Gramsci non aveva più appeal, per impulso della progettata Edizione Nazionale (nel cui gruppo di lavoro non mancarono e non mancano tensioni) e di tutto quello che cominciava a nascere intorno a essa, gli studi gramsciani conobbero un imponente rilancio e poi via via una decisa accelerazione, dal sessantesimo anniversario della morte (1997), fino al settantesimo (2007), le cui manifestazioni, per numero, intensità e durata, sorpresero gli stessi gramsciani e gramsciologi. Oltre a sancire l’ingresso di Gramsci tra i massimi esponenti della cultura italiana, l’Edizione Nazionale ebbe soprattutto la funzione di stimolo a ricerche, mentre si formava, entro o intorno a essa, una nuova generazione di studiosi. Anzi, guardando a ritroso verso l’ultimo quindicennio, si può affermare che sul piano dell’acquisizione documentaria si sono forse compiuti maggiori progressi che nel mezzo secolo precedente.

E ciò, mentre fuori d’Italia Gramsci veniva scoperto e approfondito, con un salto notevole non solo nella quantità delle traduzioni, ma nella loro qualità e natura, con la prosecuzione o l’avvio di edizioni integrali, con la nascita di “Cattedre Gramsci”, con un nuovo interesse degli editori alla pubblicazione di testi e di studi: difficoltoso in un primo tempo, poi un po’ alla volta più facile. Alcuni convegni latinoamericani (Messico, Brasile, Argentina, Venezuela, in particolare), tra gli ultimi anni novanta e il primo decennio del XXI secolo, testimoniarono, oltre ogni dubbio, la nuova fortuna del pensiero di Gramsci nel mondo e in specie nel subcontinente americano, dove il richiamo a Gramsci appariva soprattutto, ma non esclusivamente, di tipo militante; a differenza che nel mondo anglosassone (dagli Stati Uniti all’Australia, fino al subcontinente indiano), dove Gramsci veniva scoperto e letto e impiegato metodologicamente, quale teorico, o prototeorico dei cultural studies o dei subaltern studies. [23]

Nel sessantesimo della morte, mentre si consolidava l’impresa dell’Edizione Nazionale, e si realizzarono alcuni convegni che fornirono ulteriore prova della presenza di Gramsci ben oltre i confini italiani ed europei, [24] veniva pubblicata una nuova edizione delle lettere dal carcere, concentrata sul carteggio, bilaterale, tra Antonio e la cognata Tatiana Schucht, la persona che più di qualsiasi altra seguì amorevolmente il penoso calvario del prigioniero di Turi. [25] Ben più ricca, e davvero imprevedibile, fu la mole delle celebrazioni del settantesimo della morte, con innumerevoli eventi, da Sidney a Torino, da Roma a San Paolo del Brasile, dalla Sardegna alla Puglia; convegni, ma anche edizioni di testi, pubblicazione di studi, avvio di grandi imprese. Fu quello l’anno, il 2007, dell’uscita dei primi due tomi dell’Edizione Nazionale, dedicata ai Quaderni di traduzione, inediti; a cui, tre anni più tardi, si aggiunse il primo volume dell’Epistolario. [26] A seguire, una cascata di iniziative: seminari, altri convegni, premi, edizioni, altri studi, opere di consultazione, quali la BGR (Bibliografia Gramsciana Ragionata), un repertorio che ricostruisce con schede analitiche tutto quanto è stato pubblicato in lingua italiana su Gramsci, dal 1922 a oggi; e il Dizionario gramsciano, concentrato sull’analisi e l’interpretazione del lessico e delle figure chiave dei Quaderni. [27]

Oggi la bibliografia gramsciana comprende oltre diciottomila titoli, ormai in una quarantina di lingue. Circa duemilacinquecento sono in lingua inglese; e, per fare un esempio lontano, circa seicento in giapponese. Si è annunciato l’avvio dell’edizione cinese dei Quaderni, dopo quella delle Lettere, mentre, giunte a compimento edizioni europee (francese, tedesca, angloamericana), veniva ripresa quella russa, avviata in passato e poi interrotta; e così via, in un profluvio incessante di cui sarebbe impossibile dare conto anche sommario. Il risultato è che Antonio Gramsci è oggi uno dei duecentocinquanta autori più letti, tradotti, citati e discussi di tutti i tempi, di tutti i paesi e di tutte le lingue e di ogni genere (ossia letterati, filosofi, scienziati...). È uno dei cinque italiani più studiati e tradotti e commentati dopo il XVI secolo. E l’interesse per questo pensatore, scrittore, dirigente politico e militante rivoluzionario ha registrato una eccezionale crescita nel corso degli ultimi anni. Da Chávez a Sarkozy, per menzionare due politici di opposta sponda, Gramsci è diventato un autore da citare, oggetto, oggi più che prima, di appropriazioni politiche e strumentalizzazioni ideologiche; le quali, nondimeno, sono il segno di una rinnovata attualità, di una riscoperta vitalità del pensiero di Gramsci, nostro contemporaneo.

Le nuove generazioni che studiano Gramsci (e i convegni per il settantesimo della morte ne hanno fornito un’importante testimonianza), possono farlo con un approccio diverso: appassionato ma senza soverchi ideologismi, partecipe, ma con sufficiente distacco critico; sono assenti da questi nuovi studi, proprio per ragioni generazionali, tanto il rimpianto quanto il rimorso o il rimbrotto; i «nati dopo il Settanta», [28] possono guardare a Gramsci, e alla vicenda politica e culturale in cui l’edizione dei suoi scritti lo ha collocato, in modo nuovo, “leggero”, pur con la serietà necessaria a un lavoro scientifico. [29]

L’Edizione Nazionale, dopo la pubblicazione dei Quaderni curati da Valentino Gerratana, e le nuove sollecitazioni provenienti, copiosissime, da fuori d’Italia, hanno favorito la costituzione di manipoli di nuovi studiosi e studiose della vita, del pensiero, dell’azione politica di Antonio Gramsci, che delle superfetazioni ideologiche dei “favorevoli” e dei “contrari”, nonché degli utilizzi politici togliattiani in fondo poco sanno e poco vogliono sapere, desiderosi, piuttosto, di riaccostarsi direttamente ai testi, e di coglierne le insospettate valenze, di sapore squisitamente umanistico, ma altresì capaci di suscitare nuove sintonie a larghissimo raggio, dalla politica all’ermeneutica.

Rimane nondimeno decisivo lo studio della ricezione del pensiero, lungo il filo delle edizioni dei testi gramsciani, degli studi, delle istituzioni che a Gramsci si sono variamente richiamate: specie se si tratti di studi condotti senza pregiudizi, senza i condizionamenti della militanza o dell’appartenenza, anche se con una forte empatia verso l’autore: del resto, difficilissimo (e, per quanto mi riguarda, anche superfluo) sottrarsi al fascino di un essere speciale, sotto tanti riguardi, quale fu Gramsci. Riaccostarsi, con gli strumenti della filologia storica, ma con una disposizione d’animo aperta e tendenzialmente da allievi ideali di quel maestro ancor più ideale, oggi appare importante, anche per il momento storico che stiamo attraversando. Dinnanzi al crollo dell’utopia e della speranza comunista in Occidente, mentre dall’America Latina giunge la proposta di un nuovo socialismo per il XXI secolo, Gramsci acquista un valore pregnante, proprio per la natura antidogmatica del suo pensiero, per il carattere critico della sua visione del comunismo, per la duttilità intelligente della sua analisi delle possibilità e dei limiti della “Rivoluzione in Occidente”.

In una situazione babelica di linguaggi e opzioni politiche, di fallimento di tutte le grandi fedi politiche e religiose, Gramsci forse viene riscoperto incessantemente perché ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che sia un processo e non un atto, che nasca da un lungo lavorio di preparazione culturale e pedagogica, una rivoluzione internazionale e sovranazionale, una rivoluzione che non sia più la presa della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno, bensì una trasformazione “molecolare” a carattere internazionale e sovranazionale. Gramsci, teorico delle situazioni di “crisi”, eccezionale reinventore del concetto oggi imprescindibile di “egemonia”, ci suggerisce, pacatamente, con la fusione dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione, qualche percorso per passare dalla crisi alla sua analisi e al suo superamento.

Soprattutto pare utile oggi, a proposito di egemonia, rispondere non con ulteriori polemiche al vituperio corrente, fondato su sciocchezze e menzogne, [30] ma, piuttosto, fare, come si cerca di fare in questo lavoro, con un’attenta ricostruzione del processo di formazione di quella egemonia, che si rivela, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, come un grande disegno culturale, del quale Togliatti è il regista, alcuni intellettuali di partito gli attori, mentre l’opera e la figura di Antonio Gramsci rappresentano la trama, la materia prima, il soggetto. Quel disegno, in realtà, non andò completamente in porto, per gli svolgimenti della situazione politica interna e internazionale – il 18 aprile 1948, con la sconfitta delle sinistre, l’ingresso italiano nel Patto Atlantico, l’involuzione del socialismo reale, la morte di Stalin, la rivoluzione ungherese, il XX Congresso del PCUS, la difficile destalinizzazione... –, ma rappresentò il più lucido tentativo di dare un’anima culturalmente profonda, di alto valore, al processo della ricostruzione del paese uscito dalla guerra e dal fascismo. E Gramsci, pur nell’utilizzo, talora spregiudicato, talaltra del tutto legittimo, da parte di Togliatti e dell’intelligencija “organica”, riuscì non solo a non farsi schiacciare dalla politica del momento, ma a resistere come un cristallo di roccia imponendosi come l’autore di cui il Partito comunista, la sinistra e l’Italia tutta avevano bisogno.

Da questo Gramsci dopo Gramsci, pensatore fortemente italiano e “nazionale”, ma, scoperto un po’ alla volta, nei termini universali e globali, possiamo trarre la conferma della necessità di quel cambiamento radicale di rotta per il mondo, reso urgente dalla situazione di guerra permanente, di aggravamento di ingiustizie sociali all’interno delle singole società nazionali, di emergere di disuguaglianze tra un Sud e un Nord del mondo ormai insostenibili... Ma questi elementi della crisi in atto, sottolineano innanzi tutto la necessità della lotta per la verità, filo conduttore della vita e dell’opera, politica e intellettuale, di Antonio Gramsci. E quale dovrebbe essere il ruolo dell’intellettuale, come Gramsci ce lo propone, negli scritti e nell’esempio concreto, di altissimo valore, se non la battaglia «per la verità»? [31] La nuova, ultima fortuna di Gramsci, davanti a un socialismo che si fondò sulla menzogna e su nuove ingiustizie, rovesciando le proprie premesse e promesse, risiede forse innanzi tutto in questa passione per la verità, che lo ricollega da un lato a un Romain Rolland e – sia pur in modo critico – a un Julien Benda, dall’altro a un Edward Said, che più di ogni altro sembra aver raccolto il testimone dalle mani di Antonio Gramsci, attribuendo all’intellettuale il compito supremo di «dire la verità». [32]

NOTE

1 Rinvio per una puntuale e pungente ricostruzione a G. Liguori, La conversione di Gramsci e la creazione di un nuovo senso comune (di destra), in “Historia Magistra”, I (2009), 1, pp. 17-29.

2 Cfr. Ch. Buci-Glucksmann, Gramsci et l’état, Fayard, Paris 1975 (trad. it. Gramsci e lo Stato. Per una teoria materialistica della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1976).

3 Cfr. A. Gramsci, Cahiers de prison, a c. di R. Paris, Gallimard, Paris 1978-1996, 5 voll.

4 A. Leone de Castris, La teoria critica delle istituzioni liberali, in “Lavoro critico”, 9 (1977), pp. 7-57 (7): si tratta di un fascicolo monografico “Su Gramsci”, uno dei primi esempi della nuova critica gramsciana dopo l’edizione Gerratana.

5 Cfr. G. Francioni, L’officina gramsciana, Bibliopolis, Napoli 1984.

6 Si veda infra, pp. 23-29.

7 Si veda infra, p. 200.

8 Cfr. F. Sbarberi (a c. di), Teoria politica e società industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1988; Id., Gramsci. Un socialismo armonico, Franco Angeli, Milano 1986.

9 Si veda infra, pp. 187 ss.; ma in merito all’edizione delle Lettere, Elsa Fubini mi disse (intervista registrata, 1984) che Caprioglio si era attribuito una firma in modo indebito in quanto egli era solo il redattore della casa editrice; la raccolta e la cura erano in realtà sue (ossia della Fubini).

10 I volumi gramsciani a sua cura sono: Nuove lettere di Antonio Gramsci. Con altre lettere di Piero Sraffa, prefazione di N. Badaloni, Editori Riuniti, Roma 1986; Antonio Gramsci: 1891-1937, Editori Riuniti, Roma 1987; A. Gramsci, Lettere,

1908-1926, Einaudi, Torino 1992; A. Gramsci, Lettere dal carcere, Sellerio, Palermo 1992. Santucci, tra gli altri lavori gramsciani, avrebbe anche curato la prima antologia di tutti gli scritti: A. Gramsci, Le opere, TEN, Roma 1996 (poi Editori Riuniti, Roma 2007).

11 Ho ricostruito il processo di adattamento di Gramsci a Torino, nell’Introduzione all’antologia da me curata: A. Gramsci, La nostra città futura. Scritti torinesi (1911-1922), Carocci, Roma 2004.

12 Alludo agli atti di due convegni del 1987: Gramsci e il marxismo contemporaneo, a c. di B. Muscatello, Editori Riuniti, Roma 1990 (contributi fra gli altri di N. Badaloni, J. Bidet, G. Labica, A. Davidson, O. Löwy, J. Texier, A. Tosel, G. Prestipino) e Modern Times. Gramsci e la critica dell’americanismo, a c. di G. Baratta e A. Catone, Diffusioni 84, Milano 1989 (poi Edizioni Associate, Milano 1989; contributi fra gli altri di J. Buttigieg, J.P. Potier, R. Finelli, F. Frosini, Ch. Riechers, A. Tisekm, T. Szabò, S. Kébier, G. Girardi, A. Santucci, L. Cortesi).

13 Cfr. M.L. Righi (a c. di), Gramsci nel mondo, Fondazione Istituto Gramsci, [Roma] 1995.

14 Cfr. J. Cammet (a c. di), Bibliografia gramsciana, Editori Riuniti, Roma 1991.

15 Cfr. sulla diffusione del pensiero gramsciano, La lingua/le lingue di Gramsci e delle sue opere. Scrittura, riscritture, letture in Italia e nel mondo, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Sassari, 24-26 ottobre 2007), a c. di F. Lussana e G. Pissarello, con un saggio introduttivo di G. Vacca, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2008. Cfr. in particolare K. Katagiri, Gramsci e la sinistra giapponese (pp. 241-243) e P. Manduchi, La diffusione del pensiero di Gramsci nel mondo arabo: traduzioni, riletture, prospettive (pp. 245-260).

16 Ho sviluppato questa tesi nel mio 1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio, Ponte alle Grazie, Milano 2009.

17 Così si intitolò un volume collettaneo curato da A.A. Santucci (Laterza, Roma-Bari 1995: importante il saggio introduttivo di E.J. Hobsbawm; gli altri contributi facevano il punto nelle varie realtà: Tosel per la Francia, F. Fernández Buey per la Spagna, D. Forgacs per il Regno Unito, J. Buttigieg e F. Rosengarten per gli Stati Uniti, I. Gregor’eva per la Russia, C. Nelson Coutinho per il Brasile, O. Fernández Díaz per il resto dell’America Latina).

18 Una rassegna utile, sia pur molto sintetica, di iniziative e pubblicazioni è in G. Vacca, G. Schirru (a c. di), Premessa, in Studi gramsciani nel mondo. 2000-2005, il Mulino, Bologna 2007, pp. 9-17. Il volume è una selezione di articoli apparsi in varia sede extraitaliana: tra gli altri di A.K. Sen, J.A. Buttigieg, M.E. Green, J.C. Portantero, B. Fontana e D. Kanoussi.

19 Cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit.

20 Cfr. G.C. Jocteau, Leggere Gramsci, Feltrinelli, Milano 1975.

21 Cfr. G. Liguori, Gramsci conteso. Storia di un dibattito 1922-1996, Editori Riuniti, Roma 1996.

22 P. Gobetti, La rivoluzione liberale, Cappelli, Bologna 1924, p. 105.

23 Si veda, per un riferimento essenziale, almeno G. Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Carocci, Roma 2007; ma cfr. anche gli Atti del Convegno di Formia (1989): Gramsci nel mondo, cit.; per i cultural studies, G. Vacca, P. Capuzzo e G. Schirru (a c. di), Studi gramsciani nel mondo. Gli studi culturali, il Mulino, Bologna 2008.

24 Rinvio ai rispettivi volumi degli Atti: Gramsci e il Novecento, a c. di G. Vacca, con la collaborazione di M. Litri, Carocci, Roma 1999 (organizzato dalla Fondazione Gramsci); Gramsci da un secolo all’altro, a c. di G. Baratta e G. Liguori, Editori Riuniti-IGS, Roma 1999 (organizzato dall’IGS); Gramsci e la rivoluzione in Occidente, a c. di A. Burgio e A.A. Santucci, Editori Riuniti, Roma 1999 (organizzato dal Partito della Rifondazione Comunista di Torino).

25 Cfr. A. Gramsci, T. Schucht, Lettere, 1926-1935, a c. di A. Natoli e C. Daniele, Einaudi, Torino 1997.

26 Cfr. A. Gramsci, Epistolario, vol. I: Gennaio 1906-dicembre 1922, a c. di D. Bidussa, F. Giasi, G. Luzzatto Voghera e M.L. Righi, con la collaborazione di L.P. D’Alessandro, B. Garzarelli, E. Lattanzi, L. Manias e F. Ursini, Istituto della

Enciclopedia Italiana, Roma 2009.

27 Cfr. Bibliografia Gramsciana Ragionata 1922-1965 (1), a c. di A. d’Orsi, Viella, Roma 2008 (sotto l’egida della Fondazione Gramsci); Dizionario gramsciano 1926-1937, a c. di G. Liguori e P. Voza, Carocci, Roma 2009 (sotto l’egida dell’IGS

Italia).

28 Riprendo il titolo di un celebre articolo di Mario Morasso (apparso sul “Marzocco” nel 1897), che si riferiva, ovviamente, al XIX secolo.

29 Ne è stato esempio notevole il convegno “Il nostro Gramsci”, organizzato dal sottoscritto per conto della Fondazione Istituto Piemontese A. Gramsci, a Torino, nel novembre del 2007, riservato alla generazione post-1970.

30 Rinvio per la storia del concetto e per le polemiche sul suo uso al volume Egemonie, a c. di A. d’Orsi, con la collaborazione di F. Chiarotto, Dante & Descartes, Napoli 2008.

31 Così si intitola una raccolta di testi gramsciani curata da R. Martinelli: Per la verità. Scritti 1913-1926, Editori Riuniti, Roma 1974.

32 Alludo a E. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano 1995.

(8 maggio 2011)

Cesare Bermani, Gramsci, gli intellettuali e la cultura proletaria, Cooperativa Colibrì, Milano 2007, 333 p., 19,00 euro

Antonio Gramsci. Nome e figura scomparsi da ogni luogo mentale o reale in Italia, discorsi pubblicistica politica scuola. Nelle università americane ricercatori studiano la sua vita, le opere. Domando agli studenti (22-24 anni) sapete chi fu A.G. Nessuno sa, nessuno ha mai sentito niente su di lui, nessuno ha visto il nome in testa all’Unità. Uno solo sperduto dice e non dice di crederlo promotore del terrorismo. L’Unità, retaggio (lett. fig. = patrimonio spirituale) di storie interrotte, per quanto tempo ancora salverà il fragile richiamo al fondatore? Per poco, giacché il nuovo partito di cui il giornale sarebbe la voce mal lo sopporta e vorrebbe cancellarlo. Qualsiasi sarà la nuova proprietà lo farà al momento giusto. Chi protesterà? Lo scrivente e pochi altri? Il Grandevetro? Il povero Bertinotti – peraltro mai appartenuto al Pci, bensì componente della sinistra socialista lombardiana e partecipante alla fondazione del Psiup (etiam ego) – tutto preso a leccarsi le ferite?

E poi, quale giornale del partito? Non c’è già la Repubblica? D’altronde, annota Cesare Bermani all’inizio del primo capitolo, già nel 1986 Paolo Spriano lamentava: “quasi nessuno legge più i suoi scritti”. Figurarsi ora con la sinistra finita al macero. Forse, proprio per questo dico: se è vero che dalle ceneri non si può che rinascere stante la naturale fertilità della terra cosparsane, meglio così. Allora, a quale fonte nutrire i semi se non, prima di tutte, al pensiero del nostro patrio maestro che raduna a sé il contributo più alto dei padri nobili del socialismo?

Intanto ci è dato questo magnifico volume nel settantennio (2007) della morte di Gramsci. Cesare Bermani appartiene al piccolo drappello di coloro che non accettano i nuovi conformismi culturali e di massa; vuole reagire alla ricacciata dell’opera gramsciana fra i reperti archeologici di un inesplicabile movimento sociale e politico. Per farlo da libero ricercatore portato a svelare i vecchi conformismi a sinistra senza negare, come oggi è di moda, il pensiero storico dialettico, entra nel cuore del problema. Che è, principalmente, e doverosamente (riguardo a un passato dominato dall’apparatchiki di partito) quello di “liberare Gramsci” dall’interpretazione e deformazione togliattiana unendosi alla “sparuta minoranza di studiosi e militanti per ristabilire il Gramsci ‘vero’”.

Dodici i saggi nel volume. Tre gli inediti, dei quali appunto Il Gramsci di Togliatti e il Gramsci liberato, scritto appositamente, introduce la raccolta. Tutti gli scritti sono significativi dal punto di vista di una auspicabile, benché improbabile, riapertura di una discussione non ristretta a sparuti gruppi filosofici e politici. Quelli pubblicati in diverse soluzioni editoriali fra il 1979 e il 1994 appariranno come originali; è pressoché impossibile ritrovarli nella collocazione iniziale.

Ad ogni modo i dodici capitoli si tengono insieme saldamente superando gli intervalli temporali della scrittura. Per un giovane ricercatore, e per qualsiasi persona diciamo “di sinistra” desiderosa di avvicinarsi per la prima volta alla figura “del solo autentico teorico marxista ad essere anche il lieder di un partito di massa” (Eric J. Hobsbawn, citato a p. 37) costituirebbero un’ottima guida, oltre che a una generale comprensione della figura di Antonio Gramsci, alla lettura meditata dei testi suoi e di critici, compagni di strada, interpreti diversi (sottolineando la datazione).

Non mi è dato lo spazio necessario per commentare adeguatamente un libro di questa portata. Voglio però raccomandare, su un piano di mera sensibilità personale prima di chiudere, i due testi scritti fra 1981 e 1982 e posti di seguito: Gramsci operaista e la letteratura proletaria e Breve storia del Proletkul’t italiano. Ciò che scriveva A. G. nel 1917 (citato a pp.122-23) sembra riguardare oggi tutti noi mentre marcisce la crisi della sinistra: “aspettiamo l’attualità per discutere dei problemi e per fissare le direttive della nostra azione. Costretti dall’urgenza, diamo dei problemi soluzioni affrettate […] L’associazione di cultura […] sarebbe la sede propria della discussione di questi problemi, della loro chiarificazione, della loro propagazione […] Gli intellettuali non hanno un compito… adeguato alle loro capacità. Lo troverebbero, sarebbe messo alla prova il loro intellettualismo […]” (in “Avanti”, 18 dicembre 1917”).

Infine, dichiaro non meno di pura ammirazione per il saggio sonoro in appendice (1994), che non conoscevo, Da Torino operaia al carcere di Turi (con F. Coggiola e M. Paulesu Quercioli), qui ampliato per cura di Bermani e presente nei due CD acclusi (anticipati nel 1987 da una versione in cassetta ). Siamo dentro al settore forse più noto del lavoro scientifico dell’autore. Grazie al quale abbiamo potuto goderci l’ascolto di canti sociali e politici, interviste e testimonianze registrati dal vivo.

Ho riflettuto a lungo sul perché, quando il Presidente Bertinotti mi ha proposto il gradito compito di questa commemorazione, sia scattato in me, subito, per istinto, un titolo: la figura del grande italiano. Sarà che questo nostro paese continua a metterci di fronte una sostanziale ambiguità: da un lato la debolezza politica della storia italiana, dall’altro lato il paese forse più politico del mondo, in tutte le sue componenti sociali e popolari. Noi abbiamo inventato la politica per la modernità. Ne abbiamo fatto una forma, privilegiata, e un’espressione, intensa, di pensiero umano.

Perché Gramsci ha così a lungo pensato su Machiavelli? Fermiamoci un momento su questo, perché questo ci permette di entrare da subito nel foro interno di questa personalità. Intanto: il grande italiano è l’uomo del Rinascimento. Dietro, c’era la stagione magica che, fra Trecento e Quattrocento, aveva visto svolgersi quella contraddizione lancinante, fondativa della nostra successiva natura, la contraddizione tra una storia d’Italia, ancora molto lontana dal presentarsi come tale, e una poesia, una letteratura, un’arte, una filosofia, già italiane, in forme dispiegate e mature, con, in più, una naturale vocazione universalistica. Recitavamo, per l’intero mondo, l’Oratio de hominis dignitate .Quello che Pico diceva, Piero raffigurava. Ecco, Machiavelli viene fuori da qui. L’invenzione della politica moderna viene fuori da qui: dal contesto storico tra Umanesimo e Rinascimento. Di qui, la nobiltà del suo codice genetico. Uno di quei volumi Einaudi, dalla copertina grigio-scura, che presentavano, per la prima volta, i Quaderni del carcere di Gramsci, portava per titolo: Note su Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno. Era il 1953. Sono, come tanti, affezionato a quell’edizione. Era una raccolta tematica, per argomenti, dovuta all’impulso pedagogico di Togliatti, che voleva farne lo strumento di trasmissione di una cultura potenzialmente egemone. Allora ci si preoccupava di educare politicamente le masse, non come oggi, quando ci si preoccupa di correrle dietro, adattandosi a qualsiasi tipo di pulsione, anche se non sempre la migliore.

Eloquenti i titoli di quei volumi: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce (1948); Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1949); Il Risorgimento (1949); Letteratura e vita nazionale (1950); Passato e presente (1951).

Poi verrà la più precisa e rigorosa edizione critica dei Quaderni, correttamente secondo l’ordine cronologico di stesura a cura di Valentino Gerratana, uno studioso che ha dedicato una vita a questo compito,e su iniziativa dell’allora Istituto Gramsci, oggi meritoria Fondazione Gramsci. Note su Machiavelli, appunto. Come questi aveva chiosato la prima decade di Tito Livio, così Gramsci chiosa Il Principe.

Geniale, a mio parere, la sua interpretazione del partito politico come moderno principe. Credo, ancora di una sconvolgente attualità. Ascoltiamo queste parole: “ Il moderno principe, il mito principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva, riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico; la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali “ (ed.cr. vol III, p.1558).

Non è il caso di nascondere le ombre che il tempo storico allunga su questa luce di pensiero. Non è un’orazione apologetica che ci interessa. Il distacco critico dagli autori, tanto più dai propri autori, è un obbligo intellettuale. Quell’aggettivo “totali” fa riflettere. “Germi universali e totali”. La storia del partito politico nel Novecento ha messo in campo progetti universalizzanti ma ha anche raccolto risultati totalizzanti. Marx e Machiavelli vuol dire “il partito non come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato”(ivi, vol.1, p.432). Fondare lo Stato, non farsi Stato. Non è questo però il punto centrale dell’argomentazione gramsciana. Gramsci aveva profeticamente previsto le possibili degenerazioni del partito che si fa Stato, cioè della parte che si fa tutto. E ne aveva sofferto, in carcere, non solo intellettualmente. Il suo problema politico era già allora, nella temperie terribile di quegli anni Trenta,come sfuggire alla trasformazione, non più incombente ma in atto,delle masse in folle manovrate e delle élites in oligarchie ristrette. Il problema originalmente comunista di Gramsci, vorrei dire, se questo non disturba troppo, l’originale leninismo di Gramsci, è la costruzione di un rapporto virtuoso tra classe dirigente e classe sociale. Il mito – usa lui questa parola e voglio usarla anch’io – il mito del partito-principe è l’organizzazione di una volontà collettiva, “elemento di società complesso”, come l’unica forza in grado di contrastare l’avvento della personalità autoritaria. Anche qui de nobis fabula narratur. Io penso che oggi noi dovremmo rideclinare le analisi dei francofortesi intorno alla personalità autoritaria sulla misura di un nuovo soggetto: che definirei, la personalità democratica. Si sta intrecciando qui un nodo di problemi strategicamente rilevanti per i sistemi politici contemporanei,occidentali e ormai non solo. Attenzione: questa invocazione del leader forte, a suo modo legibus solutus, se intendiamo le leggi al modo di Montesquieu, o di Tocqueville, come un corpo di costumi, abitudini, comportamenti, tradizioni, bene, questa figura non nasconde pericoli autoritari, non credo che sia questo il problema, - la liberale bilancia dei poteri funziona ancora - piuttosto fa vedere il pericolo di una delega diretta, immediatistica, al decisore politico, questa volta un individuo e non un organismo, in senso gramsciano,da parte di una moltitudine formata da una cosiddetta gente,dai forti umori antipolitici. Antonio Gramsci - da mettere in una ideale galleria di grandi italiani del Novecento politico, di tradizione cattolica e liberale, da Sturzo a Dossetti a Einaudi - bè, questi uomini postumi per le loro virtù, servono, vanno fatti servire, come vaccino contro le malattie contagiose delle democrazie contemporanee: l’antipolitica, il populismo, il plebiscitarismo. La personalità democratica come personalità non carismatica e tuttavia demagogica, eterodiretta dalla sua immagine, in sudditanza rispetto alla dittatura della comunicazione, onnipresente come figura, inconsistente come persona. Gramsci, con la sua vita e la sua opera, ci aiuta a richiamare la politica, tanto più dopo il Novecento, alla sua vocazione originaria che, da Aristotele a Weber, è stata collocata tra questi due splendidi estremi,la passione e la sobrietà. Ecco, a questo punto vorrei non dare l’impressione di edulcorare il personaggio Gramsci, iscrivendolo nel ruolo non esaltante di Padre della Patria. Tra l’altro si tratta di un uomo oggi sconosciuto ai più. Straordinaria la fortuna mondiale dell’opera di Gramsci. Tra qualche giorno, un convegno organizzato dalla Fondazione-Istituto Gramsci e dalla International Gramsci Society, farà il punto proprio su questo tema: “Gramsci, le culture e il mondo”. Ma, credetemi, non si può parlare di Gramsci, restando neutrali. O se ne può parlare, ma facendogli un grande torto. Scrisse di sé, dal fondo del carcere fascista: “Io sono un combattente, che non ha avuto fortuna nella lotta pratica”. Non era un’anima bella. Nato per l’azione, circostanze esterne lo costringono a diventare uomo di studio. Se dovessi riassumere in una definizione l’insegnamento che Gramsci ci lascia, direi così: come un uomo di parte possa diventare risorsa della nazione, senza dismettere la propria appartenenza, ma agendola nell’interesse di tutti; Gramsci ci dice che, machiavellianamente, la politica non ha bisogno dell’etica per nobilitarsi. Si nobilita da sé, sollevandosi a progetto altamente umano.

Gramsci non è solo i Quaderni del carcere. C’è un Gramsci giovane che si fa amare, se possibile, ancora di più. Lo scoprimmo nei magici anni Sessanta, quando fummo forse ingenerosamente ostili alla sua linea culturale “nazionale-popolare”, la famosa linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci, a cui rivolgevamo l’accusa di aver oscurato la grande cultura novecentesca europea, soprattutto mitteleuropea, che fummo costretti a scoprire per altre vie. Ci bevevamo gli articoli scritti per la rubrica “Sotto la mole” per l’edizione piemontese dell’Avanti! O sulla “Città futura” numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese. Qui quell’articolo (febbraio 1917) che comincia con le parole: “Odio gli indifferenti”. “Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo “. O gli articoli su “Il grido del popolo”: quello famoso e scandaloso: La rivoluzione contro il Capitale. la rivoluzione dei bolscevichi ” contro il Capitale di Carlo Marx. Se si potessero rileggere, oggi, senza il velo delle ideologie dominanti,quelle righe in “Individualismo e collettivismo”!. E’ l’individualismo borghese che produce il collettivismo proletario. “All’individuo capitalista si contrappone l’individuo-associazione, al bottegaio la cooperativa: il sindacato diventa un individuo collettivo che svecchia la libera concorrenza, la obbliga a forme nuove di libertà e di attività “. E soprattutto gli articoli de “L’ordine nuovo”,settimanale di cultura socialista, che Gramsci fonda il 1 maggio 1919 e che poi diventerà quotidiano.Lì si organizza il gruppo che darà vita al Partito comunista d’Italia, che come si vede non subitoma fin dalle tesi di Lione del 1926, nascerà non solo contro i riformisti ma anche contro i massimalisti. Gramsci nasce, politicamente e intellettualmente, a Torino. Davanti a lui, il biennio rosso, l’occupazione operaia delle fabbriche, l’esperienza dei Consigli operai. La vera Università: la grande scuola della classe operaia. Del resto, ormai lo sappiamo: o si parte da lì, o si raggiungono solo quelli che oggi si chiamano non-luoghi. Gramsci, L’ordine Nuovo, settembre 1920: “ L’operaio comunista che per settimane, per mesi, per anni, disinteressatamente, dopo otto ore di lavoro in fabbrica, lavora altre otto ore per il Partito, per il sindacato, per la cooperativa, è, dal punto di vista della storia dell’uomo, più grande dello schiavo o dell’artigiano che sfidava ogni pericolo per recarsi al convegno clandestino della preghiera “. E ancora: “ Il fatto stesso che l’operaio riesca ancora a pensare, pur essendo ridotto a operare senza sapere il come e il perché della sua attività pratica, non è un miracolo? “. Già Togliatti, nel ricordo che scriveva, nel 1937, appena dopo la morte, intitolato “Il capo della classe operaia italiana”, scriveva: “ Il legame di Antonio Gramsci con gli operai di Torino non fu soltanto un legame politico, ma un legame personale, fisico, diretto, multiforme “. Non ci sono due Gramsci. L’operazione di valutare il Gramsci studioso e di svalutare il Gramsci politico è senso comune intellettuale corrente, e come tale va abbandonato a se stesso. Specialista + politico è formula gramsciana risolutiva. Dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e di qui alla concezione umanistica-storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” , (specialista + politico).Su questa base – scriveva nei Quaderni (4, ed.cr., vol.III, p.1551) ha lavorato L’Ordine Nuovo, settimanale. Il modo di essere del nuovo intellettuale sta nel mescolarsi attivamente nella vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore, non puro oratore. Quindi, per Gramsci, l’equivalente di politico è dirigente, armato però di cultura tecnica, scientifica, umanistica. Qui c’è la preziosa distinzione gramsciana tra direzione e comando, tra guidare e imporre. Questo vale per il gruppo dirigente nei confronti del partito, vale per il partito nei confronti dello Stato,vale per lo Stato nei confronti della società. Egemonia non è solo cosa diversa, è cosa opposta a dittatura. Sul concetto di egemonia pesa ancora un’incomprensione di fondo e una falsificazione di fatto. Non c’è pratica di egemonia senza espressione di cultura. Praticare egemonia è una cosa molto complessa, direi raffinata: vuol dire guidare seguendo, essere alla testa di un corso storico già in movimento, e che fa movimento anche in virtù delle idee, idee-guida, idee-forza che tu ci metti dentro. Una politica senza cultura politica, non cercatela in Gramsci. Scriveva nei Quaderni (ed. cr., vol. 1, p.311): “ Il grande politico non può che essere “coltissimo”, cioè deve “conoscere” il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non “librescamente”, come “erudizione”, ma in modo “vivente”, come sostanza concreta di “intuizione” politica “. Tuttavia – aggiungeva – perché in lui diventino sostanza vivente occorrerà apprenderli anche librescamente. Abbiamo tutti negli occhi, in questi giorni, i libri inchiodati del film di Olmi, che mi pare dicano la stessa cosa. C’è una frase gramsciana per me, per così dire, archetipica,nel senso di simbolicamente originaria, per un processo di formazione. Diceva: “Istruitevi, istruitevi e poi ancora istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.

Permettete un breve ricordo personale. Che rimane in tema. Nel dopoguerra, nelle sezioni, anche le più popolari, del Pci, c’era sempre un piccola biblioteca, con i classici dell’ideologia ma anche con testi di letteratura di battaglia. Quando andai a iscrivermi alla Fgci, i compagni della sezione Ostiense, qui a Roma, mi misero in mano tre libri: “Il Manifesto del partito comunista”,di Marx ed Engels, “Il tallone di ferro” di Jack London e le “Lettere dal carcere” di Gramsci. Le “Lettere dal carcere”. Quando lessi quell’ultima, al figlio Delio, non c’era più dubbio su dove schierarsi: “ Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa “ Quello, insieme agli altri due, erano i primi libri che entravano in quella casa, di persone non analfabete e non incolte,anzi colte, cioè coltivate interiormente in una maniera particolare. Una cultura che non veniva, appunto, dai libri, ma direttamente dalla vita e non una vita generica, ma una vita di lavoro. Ho sempre pensato che le due culture non sono,come si dice, la cultura scientifica e la cultura umanistica. Sono la cultura del popolo e la cultura degli intellettuali. Due cose diverse: non si identificano, non si sommano, non si confondono. Eppure un ponte di dialogo e di scambio tra queste due esperienze culturali,deve esserci e devi trovarlo. C’è una cultura materializzata nel lavoro, interiorizzata nel lavoratore: un orizzonte che, per un intellettuale di parte,è come la bussola per il marinaio, ti indica la rotta dove devi andare a cercare, a capire, a scoprire. E’ difficile comunicare la tranquilla forza di pensiero che ti conferisce l’essere, il sentirsi, radicato in questa parte di mondo. L’unico luogo sicuro e libero da quella nevrosi narcisistica che è la maledizione del lavoro intellettuale. La figura gramsciana dell’intellettuale organico, al partito e alla classe, può essere oggi demonizzata e derisa solo da chi non sarebbe mai stato capace di esserlo. Ebbene, quel ponte tra le due culture lo ha costruito quella figura storica, quel soggetto politico della modernità che si chiama movimento operaio. E lo ha fatto, generando coscienza e organizzazione delle masse e al tempo stesso creando pensiero, teoria, cultura alta. Analisi scientifica delle leggi di movimento dei meccanismi di produzione e riproduzione sociale e insieme progetti di liberazione politica.

Mi sento di esprimere una convinzione profonda: più andremo avanti, più il tempo“grande scultore”, come ha detto qualcuno/a –più il tempo si frapporrà tra noi e il passato, più ci accorgeremo che tutte le derive negative, anche tragicamente negative,non bastano per cancellare la grandezza del tentativo. Penso che, come soggetti politici di consistenza storica, dovremmo affrettare il momento di poter tornare a parlare, ognuno di sé, con onestà. Se dovessimo dirci tutta intera la verità, dovremmo parlare così:in realtà, non sappiamo con chi e con che cosa sostituire quelle componenti popolari,di matrice cattolica, socialista, comunista più quelle élites di ispirazione social-liberale,che, tutte insieme, componenti popolari ed élites non oligarchiche,hanno fatto la storia recente di questo paese: perché, esse, non erano società civile, erano società reale:cioè ordinamento storico concreto di una società. Dunque, sono ben consapevole di aver sconfinato dalle buone maniere di una commemorazione ufficiale. Ma i due Presidenti, che mi hanno affidato questo compito, ben conoscevano la mia ormai antica appartenenza a quella che Bloch ha chiamato “la corrente calda del marxismo”. I freddi piccoli passi non mi hanno mai entusiasmato, ammesso che abbiano mai entusiasmato qualcuno.

Concludo così: abbiamo individuato alcuni punti di attualità dell’opera di Gramsci. E alcuni dei presenti qui potrebbero suggerirne altri. Ma quando ripensiamo alla vita, anzi all’esistenza, dell’uomo, proprio in quanto uomo politico, allora dobbiamo far ricorso al criterio nietzscheano dell’inattuale.Qualcosa, o qualcuno, che non si può oggi riproporre e proprio per questo, in sé, vale. Ho letto, in questi giorni, questo libretto di George Steiner, “Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero”. Una delle ragioni, fonte di melanconia, è l’inadattabilità oggi del grande pensiero agli ideali di giustizia sociale. E scrive Steiner: “ Non c’è democrazia per il genio, solo una terribile ingiustizia e un fardello che può essere mortale “. Poi “ci sono quei pochi, come diceva Hölderlin, che sono costretti ad afferrare il fulmine a mani nude “. Ecco, è tra quei pochi che dobbiamo “cercare ancora” Gramsci. Quel gracile corpo fisico e quella forte statura umana, mi pare di vederli riassunti in quel gesto: afferrare il fulmine a mani nude.

Il testo è tratto dal sito rossodisera.info

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