«Qualche sera fa in una trasmissione televisiva è stato intervistato un uomo che vive in quei luoghi [Rosarno]. Gli veniva chiesto che cosa pensasse della sua situazione. Con tono pacato e in un impeccabile italiano ha detto soltanto: "Ho perduto la speranza". No, questa non può essere la società nella quale accettiamo di vivere». La Repubblica, 17 giugno 2016
LA società esiste”. Queste tre semplici parole colgono le forti dinamiche sociali rivelate dal recentissimo voto amministrativo, e così rovesciano la fin troppo nota affermazione di Margaret Thatcher — «la società non esiste, esistono solo gli individui» — che tanto ha pesato in questi anni, influenzando pure la recente politica italiana. L’esigenza di guardare alla società è sottolineata da tutti quelli che hanno dato la giusta rilevanza al modo in cui si è distribuito il voto tra i quartieri centrali delle città e i quartieri periferici. Ma il voto ha pure messo in evidenza l’irrilevanza sociale di movimenti e gruppi assai influenti invece nella dimensione politico-parlamentare. E sono emerse le condizioni materiali del vivere, che rinviano all’impossibilità di separarsi dai diritti sociali.
Come queste diverse dimensioni possano comporsi e intrecciarsi non è questione facile, che tuttavia non può essere affrontata con le categorie abituali. Se si considera proprio il rapporto centro/ periferie, non ci si può semplicisticamente rifugiare nello schema borghesia/classe operaia, la cui inadeguatezza è rivelata, ad esempio, dalle analisi sui votanti per il Movimento 5Stelle — prevalentemente giovani, con notevole scolarizzazione, professionalmente caratterizzati. Si potrebbe essere tentati di concludere che siamo di fronte ad una nuova incarnazione di quello che Paul Ginsborg, considerando l’opposizione al berlusconismo nel primo decennio di questo secolo, definì “ceto medio riflessivo”. Ma rispetto a quelle esperienze, peraltro difficilmente riconducibili tutte al medesimo denominatore, finora sembrano mancare la consapevolezza di agire come unico gruppo sociale, l’esercizio comune e organizzato di virtù civiche pubblicamente contrapposte al malgoverno.
Oggi l’elemento unificante è rappresentato dal riconoscersi in un soggetto politico già esistente, appunto il Movimento 5Stelle. Su questo dato di realtà bisogna ragionare, liberandosi di un altro schema, l’antipolitica, divenuto ormai una semplificazione che esenta dall’obbligo di misurarsi con una realtà in movimento. È di un’altra politica che si va alla ricerca, seguendo motivazioni diversificate, a partire da un bisogno di rappresentanza, non più soddisfatto dai partiti esistenti, di cui si coglie piuttosto l’ormai consolidata deriva oligarchica, divenuta così forte e sfrontata da respingere sullo sfondo il fatto che questo sia un modo d’essere che riguarda lo stesso Movimento 5Stelle.
Sono i paradossi di una situazione che ha visto proprio il disconnettersi tra politica e società, con una ossessiva ricerca del bene assoluto della decisione che travolge ogni altra esigenza e porta verso una concentrazione oligarchica del potere. Così stando le cose, ogni rifiuto dell’oligarchia diviene un segno importante per la permanenza della logica democratica. Si è giustamente detto che la democrazia rischia di ridursi da “due a uno”, identificata con chi detiene il potere di governo in un momento determinato, sì che l’alternativa viene poi presentata come impossibile o addirittura come pericolosa. Il voto del 5 giugno deve essere considerato anche da questo punto di vista, dunque come una indicazione per un recupero della pienezza della democrazia.
L’esistenza della società si fa ancora più evidente se il voto delle periferie, ma non di queste soltanto, viene considerato anche come l’espressione di un disagio sociale sempre più diffuso, che ha la sua origine in un impoverimento non soltanto economico, ma derivante da una riduzione dei diritti. Commentando proprio i risultati elettorali, Piero Ignazi ha giustamente richiamato l’attenzione su una strategia che restringe l’attenzione per i diritti a quelli “libertari” e ignora quelli sociali. Strategia non nuova, nella quale si coglie una illusione “compensativa” di cui le vicende storiche hanno mostrato l’infondatezza e che contrasta con l’ormai riconosciuta indivisibilità dei diritti. Quando ci si domanda se sia ricominciata una stagione dei diritti, com’è avvenuto dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, non si possono dare risposte che prescindano da uno sguardo d’insieme, dunque da una considerazione primaria anche dai diritti sociali.
Lavoro, salute, istruzione, abitazione e trasporti ci portano nel cuore della vita quotidiana, dove il rapporto tra i cittadini e le istituzioni viene percepito nella sua materialità. Qui il ritorno ad una contrapposizione tra società e individui può produrre politiche che portano ad una distribuzione delle risorse non solo a pioggia (o, come ora si dice, lanciate da un elicottero), ma che poi si traduce nell’abbandono di razionali strategie politiche e si affida ad un individualistico “fai-da-te” affidato a bonus, contributi, benefici occasionali. Ma così non si recupera la fiducia dei cittadini, ma si istituzionalizza una loro condizione di dipendenza, con inevitabili conflitti tra gruppi per la spartizione di risorse scarse, In questo senso il voto dei cittadini continuerà ad interrogarci, perché ciò di cui parliamo si chiama eguaglianza, dignità, solidarietà. L’Europa distoglie il suo sguardo, e Andrea Bonanni ha ben raccontato le ragioni di una rinuncia a politiche costituzionali dei diritti nella quale il populismo ha trovato e continua a trovare il suo alimento.
Ma proprio la riflessione critica imposta dai risultati elettorali offre all’Italia una opportunità per guardare finalmente alla società per quella che è, riconoscendo che viene continuamente messo in discussione “il diritto all’esistenza”, che trova un suo esplicito riconoscimento nell’articolo 36 della Costituzione, dove il diritto alla retribuzione è direttamente collegato all’”esistenza libera e dignitosa” del lavoratore e della sua famiglia. Proprio partendo da questa premessa, da tempo si discute dell’introduzione di un reddito garantito, definito da molti appunto come reddito “di dignità”. Una misura, questa, che in Italia ancora non esiste e che, lo ha sottolineato Chiara Saraceno, “potrebbe essere uno degli strumenti per non essere ricattati”, dunque per attribuire alle persone una garanzia indispensabile per il rispetto dei loro diritti fondamentali. Questo tipo di reddito può assumere forme diverse, ben analizzate in un libro dedicato a Il reddito di base da Elena Granaglia e Magda Bolzoni, e rappresenterebbe un essenziale elemento per la ricostruzione delle basi materiali della dignità. Se si vuole continuare a pronunciare quella parola senza farla divenire complice di un permanente imbroglio retorico, bisogna ricostruire le condizioni della sua effettiva rilevanza, della sua materialità, del suo essere componente essenziale di quello che deve essere definito il “costituzionalismo dei bisogni”.
Ma non posiamo fermarci qui. La società italiana, ce lo ricordano periodicamente le vicende delle campagne di Rosarno, conosce ormai una vera e propria schiavitù. Nessun dato elettorale ci parla di queste persone. Ma questo ci autorizza ad ignorarle, a concludere d’avere la coscienza tranquilla perché è stata approvata una legge sul caporalato? Gli schiavi ci sono, mangiamo i pomodori che raccolgono, ma sembra che vi sia ormai un tacito consenso sul fatto che in Italia possano vivere persone per le quali la disattenzione istituzionale e civile esclude la dignità. Abbiamo alzato la voce contro la diffusione del Mein Kampf di Hitler, dunque di un testo che ha posto le premesse perché agli ebrei fosse negata la dignità e quindi la vita. Di fronte agli schiavi, privati di dignità e diritti, rimaniamo silenziosi. E non possiamo dire di non sapere.
L'ultimo libro di Paolo Leon
«Viviamo in un mondo in cui i pochissimi che pensano non comandano. Ora ce ne è uno di meno, e a quanti comandano ciò non dispiacerà troppo». Il manifesto, 16 giugno 2016
Avevo conosciuto Paolo Leon ai tempi della nostra libera docenza, tempi accademicamente migliori di quelli presenti, e ne avevo poi sempre letto gli scritti con stima e simpatia per la sua padronanza dei Classici: Smith Ricardo Marx Keynes, per la sua sprezzatura nei confronti della teoria economica oggi dominante, per la sua conoscenza dei fatti e del contesto istituzionale, e per la sua passione politica.
Il 31 maggio di quest’anno mi aveva annunciato l’invio di un suo libretto, ma l’11 giugno se ne è andato.
Il libretto è: Paolo Leon, i poteri ignoranti, Castelvecchi 2016, e queste ne sono le conclusioni: «Le ragioni economiche per le quali gli Stati e la politica non intervengono direttamemente per aumentare la domanda effettiva dopo il crollo, la depressione e la deflazione, sono certamente di origine sociale e politica. Il meglio che si possa dire è che gli Stati non sono stupidi, ma sono ormai un potere ignorante che agisce sulla base della cultura di chi li governa, e questa è ormai resa ottusa dall’ideologia del libero mercato, che sostiene come qualsiasi intervento pubblico genera più costi che benefici – e questa convinzione accomuna gli imprenditori ai capitalisti, i sostenitori della “terza via” come i partiti conservatori e libertari. Allo stesso tempo, questa ideologia resiste agli urti della crisi, quando i costi superano largamente i benefici, perché la crescente concentrazione della ricchezza per i capitalisti e dei compensi per gli imprenditori giustifica continuamente il diritto dei pochi – e perciò il dovere alla povertà degli altri».
Viviamo in un mondo in cui i pochissimi che pensano non comandano. Ora ce ne è uno di meno, e a quanti comandano ciò non dispiacerà troppo.
Frederick Forsyth. intervistato da Enrico Franceschini: «Il mondo globalizzato, colpito dall’incertezza economica, ha paura del nuovo e cerca nemici sui quali scaricare il proprio odio Succede ovunque. E potrebbe stravolgere le nostre abitudini democratiche». La Repubblica, 17 giugno 2016
LEEDS- «L’opera di un folle, in tempi di xenofobia dilagante e di una politica che esagera per avere ragione». Così Frederick Forsyth, autore di tanti thriller e lui stesso agente dei servizi segreti britannici, come ha rivelato di recente nella sua autobiografia, “L’outsider, il romanzo della mia vita”, giudica il fatale attacco alla deputata laburista Jo Cox. «Non si può certo scaricare la responsabilità di un simile gesto su chi fa campagna per Brexit, ma un clima politico esagerato e inferocito agita gli animi ovunque, non soltanto nel nostro paese », dice lo scrittore a Repubblica al telefono dalla sua casa di Londra.
Signor Forsyth, cosa pensa di questa brutta storia?
«Sembra l’opera di un folle, un singolo pazzo e il mondo purtroppo ne è pieno. Quali che fossero le sue motivazioni, l’episodio ha la dinamica di un gesto spontaneo, irrazionale, incontrollabile. Nulla di organizzato ».
Sembra che abbia gridato “Britain first”, prima la Gran Bretagna, mentre le sparava,
«Quelle parole non fanno di lui un patriota, questo è sicuro. Dimostrano soltanto che la xenofobia è un male sempre più diffuso. È sempre esistita, ma in tempi di incertezza economica, di paura del nuovo, è aumentata come se fosse una valvola di sfogo. Lo straniero, immigrato o meno, viene visto come il nemico: succede nel nostro paese, ma non solo, è un fenomeno presente in tutta Europa, a livello politico e non solo, basta pensare agli episodi di violenza degli ultimi giorni fra gli hooligans di varie nazioni agli europei di calcio. Viviamo in un mondo globalizzato e multietnico, eppure, o forse proprio per questo, l’odio dei diversi è diventato il male della nostra epoca».
Nessuna responsabilità da parte della campagna per Brexit? Anche da lì sono partite invettive contro immigrati e stranieri.
«A gridare direi che è soltanto Nigel Farage, il leader dell’Ukip, un partito che ha fatto della xenofobia quasi una bandiera. La corrente del partito conservatore che si batte per l’uscita dalla Ue si limita a dire che è impossibile continuare ad accettare un’immigrazione senza controlli. Ci sono state esagerazioni da entrambe le parti, il primo ministro Cameron ha evocato addirittura il rischio della terza guerra mondiale in caso di Brexit. Tutto ciò è disdicevole, dà un’idea di come il dibattito politico sia sceso in basso anche da noi, che pensavamo di essere più seri di altri, ma un conto è spingere l’acceleratore del populismo, un altro è sentirsi responsabili di un tragico fatto come questo».
Pensa che la morte di Jo Cox possa influire sulla campagna per il referendum?
«Spero di no, perché non sarebbe giusto prendere una decisione così importante per il futuro del nostro paese sulla base del gesto di un pazzo omicida. Ma entrambe le parti hanno fatto bene a sospendere la campagna in segno di cordoglio. Siamo tutti scioccati da quanto è accaduto. Auguriamoci che, quando riprenderemo a parlare di politica, lo faremo tutti in tono più pacato».
Il fatto che un uomo politico possa essere attaccato e ucciso in questo modo in pieno giorno deve spingere a maggiori misure di sicurezza?
«Non c’è niente che possa mettere al sicuro i politici o chiunque altro da attacchi di questo genere. Non possiamo rinunciare alla nostra libertà né mettere un poliziotto armato a ogni angolo di strada. Né il terrorismo, né i pazzi isolati, devono farci perdere le nostre abitudini democratiche. E questo vale soprattutto per i politici, che devono stare tra la gente, non isolati nel palazzo del potere. Seguendo l’esempio di Jo Cox, caduta mentre faceva il suo lavoro».
Luciana Castellina, Manuale antiretorico dell'Unione europea - da dove viene (e dove va) quest’Europa (manifestolibri, Roma 2016, 172 pp., 18 €)
Luciana Castellina ha pubblicato la sua dettagliata ricostruzione storica delle origini dell' attuale Unione Europea, redatta quasi dieci anni fà per il Cinquantenario della Comunità Europea nel 2007. La prima parte del volume riguarda l’attualità, ovvero gli anni 2007-2015, quel «Tempo dell’emergenza», che ha ridotto l’arte del «governo alla governance» anche a livello nazionale, e la terza parte passa in rassegna le posizioni delle varie Sinistre in Europa, dai Federalisti ai comunisti, dai belgi ai portoghesi. Un volume utilissimo per orientarsi in questa fase di crescente disaffezione e perfino di disgregazione dell’idea europea, in cui non pochi si chiedono se «vale ancora la pena di puntare sull’Europa». Anche se l’autrice risponde infine in modo affermativo a questa domanda, direi faute de mieux, essa ci dà un quadro allarmante della situazione complessiva.
L’autrice comincia col constatare che questa Europa è stata narrata finora «con una tale agiografica esaltazione da coprire con un velo pietoso la sua vera storia» .Rivela poi che - in oltre mezzo secolo - non solo «non si è data realizzazione ai sogni europeisti di Ventotene», ma che questi sogni non hanno affatto influenzato la genesi del progetto europeo, perché il contesto storico del passaggio dalla fine della guerra nel 1945 allo spiegarsi della guerra fredda (dal 1947) serbava ben altri interessi miranti alla piena ripresa capitalista, il che ha «rapidamente sotterrato il sogno resistenziale di un’Europa sociale». La costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, 1951), inizialmente rinchiusa nelle mani di pochi tecnocrati di USA, Francia e Germania, fu la premessa per poter ricuperare il potenziale industriale e bellico (con riabilitazione dei Krupp e Thyssen) della nuova Repubblica Federale tedesca che ebbe una prima e preziosa rilegittimazione, pur senza aver firmato nessun Trattato di pace.
Dall'inizio dunque l'Europa divenne tale «al riparo dai sentimenti popolari, e persino dalle assemblee rappresentative democraticamente elette», altro che incoronazione delle speranze in un continente finalmente pacificato serbate dai suoi popoli esausti dopo ben due macelli mondiali con quasi 100 milioni di morti!
Per questo quasi tutte le sinistre europee, socialiste e comuniste, si opposero allora all’impostazione liberista già dei primi Trattati. I laburisti inglesi per esempio, temevano già allora di perdere con l’integrazione europea parte del loro welfare conquistato. Motivo decisivo anche della resistenza opposta all’integrazione, anni dopo, dalle socialdemocrazie nordiche.
«La vera levatrice dell’integrazione europea», il Piano Marshall (ERP), fu inizialmente ancora improntato al New Deal per osteggiare gli orientamenti socialisteggianti di parecchi paesi europei a guerra finita. E l’Europa federalista alla quale miravano John Foster Dulles (successivamente Segretario di Stato) e il fratello Allan Dulles (a capo dell’OSS, poi CIA) era pensata dagli USA fin dall’inizio come uno strumento per il roll back antisovietico e anticomunista e per un rapido riarmo in Europa.
(A questo punto si dovrebbe portare alla luce anche l’apporto decisivo degli esperti tedeschi alla riorganizzazione economica del continente con la Germania al centro, elaborato già tra le due guerre (Paneuropa) e poi, ancora durante la barbarie bellica del “Generalplan Ost”, come modello di una futura Europäische Wirtschaftsgemeinschaft (Comunita economica europea - CEE), progettata dai funzionari della Deutsche Bank già nel 1942. Apporto che ha avuto nuova linfa con l’unificazione tedesca del 1990 come premessa dell’auspicata “Kerneuropa" tedesca alla Schäuble).
La motivazione militare divenne esplicita con il - poi fallito - progetto della CED, Comunità europea di difesa, nel 1950, nel contesto della guerra di Corea, (progetto che ritrova oggi nuovo sostegno soprattutto in Germania). Anche il successivo progetto nucleare Euratom (del 1957) è fallito per le sue contraddizioni tra uso civile e militare e le diffidenze, i timori e le gelosie che hanno diviso l’Europa più che unirla.
Quando la CEE vide la luce a Roma, nel marzo del 1957, non se ne è accorto quasi nessuno, ricorda Castellina, e nemmeno la sinistra ha poi approfondito l’analisi di quel che venne in seguito percepito come «mero prolungamento del potere dei monopoli» che dal controllo dei mercati nazionali si sarebbero presto estesi al mercato europeo e mondiale. Mentre i singoli governi in Europa consolidavano a loro volta lo Stato e le economie nazionali senza politiche efficaci rivolte ad una vera integrazione fra loro. E l’Italia, il solo paese mediterraneo ammesso fra i primi sei, venne considerato un caso speciale non solo per il suo storico problema meridionale, «ma per via della sua recente Costituzione, considerata dai tedeschi e dagli olandesi pericolosamente non omogenea ai principi liberisti cui la costruenda Comunità Europea intende ispirarsi»: cosi l’autrice cita il ricordo di Leopoldo Elia in un convegno del 1986.
E furono tedeschi democristiani sia Walter Hallstein, primo presidente della CEE, che il commissario alla concorrenza, Van der Groeber, che scrisse: «La Comunità non può intervenire (...) non può alterare il gioco delle forze di mercato». Eccezion fatta per la politica agricola, dal 1962 in poi, non ci fu nessuno spazio per comuni politiche sociali - il mercato del lavoro, i salari e i redditi pro capite restavano diversissimi con rilevante dumping sociale e polarizzazione crescente.
Con il Trattato di Maastricht dei primi anni 90, si capovolge di fatto il principio dell’obiettivo primario di quasi tutte le Costituzioni postbelliche: di realizzare i diritti sociali dei cittadini. Questi vengono invece sottomessi all’assolutismo del mercato. Si tratta dunque per Castellina nel mezzo secolo di passaggio dalla CEE all’UE odierna di «un susseguirsi di involuzioni, un progressivo e sempre più accelerato distacco dal ‘modello sociale’ pur proprio ad ambedue le tradizioni europee, quella scocialista e quella cristiana; e un avvicinamento al modello americano». Anziché costituire un baluardo nei confronti della globalizzazione, l’Europa unita l’ha persino accelerata o forse anticipata: L’economia «viene tagliata fuori dalla sfera delle decisioni politiche» - non era forse questo l’obiettivo della famosa Trilateral Commission, che raccomandò nel documento Crisis of Democracy (1973) di «ridurre la ormai troppa domanda di democrazia»?
Ma la retorica dominante impedisce anche di tracciare un realistico bilancio dell’esperienza europea, si rammarica Castellina. Oltre ad aver pacificato Francia e Germania e contenuto il comunismo, che figura tra i meriti, la sua performance economica appare assai mediocre. Da un analisi comparata su 16 paesi capitalistici avanzati risulta un’aumento medio pro capite annuo del 2,8% dei paesi membri (tra 1951 e 1989), del 20% inferiore rispetto a quello de paesi non-membri (+ 3,5%), mentre la disoccupazione sarebbe stata in media più alta del 4,4%, già dagli anni’70. Ed è dalla fine degli anni’90 che anche gli investimenti produttivi nell’UE sono caduti di più per via di un monetarismo e una deregulation più rigorosi che altrove, avallati da governi socialdemocratici e socialcristiani.
Che fare dunque? Rilanciare una nuova Costituzione senza Stato europeo? Inventare altre soluzioni normative? Per quale Europa? L’aggravarsi della crisi economica ha reso più gravi tutti i problemi preesistenti e postula con forza maggiore una modifica radicale della CEE, ovvero «un massiccio trasferimento di risorse e un intervento pubblico pianificatore che condizioni il gioco selvaggio del mercato». «Europa per fare che?» ci chiede Luciana Castellina.
I Regeni hanno presentato all'europarlamento un elenco di misure che i paesi potrebbero prendere: il richiamo degli ambasciatori degli Stati membri, la dichiarazione dell’Egitto come Paese non sicuro; la sospensione degli accordi di fornitura di armi, apparati bellici o per lo spionaggio e la repressione interna; la sospensione degli accordi economici, ... .
La Repubblica, 16 giugno 2016 (m.p.r.)
Roma. Aumentare «la pressione sull’Egitto» da parte dell’Italia ma anche di tutti i paesi dell’Unione Europea. «Ritirate anche voi l’ambasciatore». È questo il messaggio che ieri Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, hanno lanciato da Bruxelles, parlando alla sottocommissione per i diritti dell’uomo del Parlamento europeo. «Bruxelles e Roma facciano di più per aumentare la pressione sull’Egitto, arrivando anche all’isolamento diplomatico ed economico, pur di ottenere la verità sulla morte di Giulio », hanno detto. Spiegando cosa si aspettano dal governo italiano e dagli altri paesi dell’Unione. «Non ho ancora capito - ha detto la signora Paola - se l’Italia è ancora amica dell’Egitto e se l’Europa intrattenga ancora relazioni amichevoli con il Cairo. Noi speriamo - hanno ribadito che oggi possa iniziare una nuova fase: basta commemorazioni, servono azioni».
È ormai chiaro a tutti che la collaborazione del Cairo sia soltanto sulla carta. Gli investigatori hanno messo nero su bianco il tentativo di depistaggio, con la morte di una banda di cinque cittadini egiziani accusati della morte di Giulio. I documenti del ricercatore italiano furono trovati a casa di uno del gruppo. Peccato però, si è scoperto oggi, che l’uomo non fosse nemmeno al Cairo il giorno della scomparsa di Regeni e che nei verbali fatti arrivare in Italia ci sia un lungo elenco di falsi. «Non c’è collaborazione da parte dell’Egitto, non collabora con la nostra procura, che ringrazio e che pensa a Giulio giorno e notte», ha detto la signora Paola. «L’Egitto - ha continuato - non sta collaborando con l’Italia e con l’Europa, perché l’Italia è in Europa, quindi chiediamo forte pressione collettiva. Per ora abbiamo solo carta straccia, solo testimonianza false, per questo non possiamo trovare la verità».
I Regeni, al Cairo insieme con l’avvocato Alessandra Ballerini, hanno presentato un elenco di misure che i paesi potrebbero prendere: il richiamo degli ambasciatori degli Stati membri, appunto, la dichiarazione dell’Egitto come Paese non sicuro; la sospensione degli accordi di riammissione e degli accordi interforze; la sospensione degli accordi di fornitura di armi, apparati bellici o per lo spionaggio e la repressione interna; la sospensione degli accordi economici; il monitoraggio dei processi contro attivisti, avvocati e giornalisti e la protezione di chi può fornire notizie concrete per l’indagine.
La risposta del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, è arrivata a stretto giro: «Stiamo seguendo la vicenda, nei prossimi giorni cercheremo di nuovo di capire sullo stato dell’arte e l’aggiornamento della situazione, sentiremo i genitori di Giulio» ha detto ieri pomeriggio confermando «il massimo impegno affinché sulla vicenda di Giulio sia fatta luce e chiarezza. Abbiamo sempre dimostrato il nostro impegno, marcando dei punti di grande forza sia sulla politica internazionale che sui rapporti bilaterali ». Al momento l’Italia non ha l’ambasciatore al Cairo: dopo il richiamo per consultazioni di Maurizio Massari, il nuovo incaricato Giampaolo Cantini non ha ancora presentato le credenziali. La sede, quindi, di fatto è scoperta. Il passo successivo dovrebbe essere l’inserimento nella blackout list della Farnesina, sul cui sito - a differenza di altri paesi, a partire dagli Stati Uniti - la questione Regeni però non viene nemmeno citata.
«È importante - hanno ripetuto ieri ancora i Regeni - che l’ambasciatore resti a casa. Ma soprattutto spiegare all’opinione pubblica il perché e il cosa sta accadendo in Egitto. Penso sia arrivato il momento delle scelte. Basta commemorazioni, ora azioni. Abbiamo una documentazione di 266 foto di cosa è successo a Giulio, una vera enciclopedia delle torture in Egitto che non vorremmo mostrare mai, vorrebbe dire che abbiamo toccato il fondo. Giulio era un cittadino europeo, e la battaglia per la verità deve essere una battaglia europea».
I Regeni hanno incontrato anche, oltre alla delegazione degli europarlamentari, Federica Mogherini, che ha assicurato loro che l’Ue «sostiene tutte le iniziative che le autorità italiane stanno prendendo» per arrivare alla verità sulla morte di Giulio. Tutto questo mentre Sinistra italiana ha chiesto, con l’onorevole Nicola Fratoianni, l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio del ricercatore italiano.
Si sono concluse da poco le elezioni comunali del 5 giugno 2016. Su un blog della provincia di Cuneo, leggo quanto segue: Chiuse le urne delle elezioni comunali 2016: in Granda ha votato il 67,51%. Al top Crissolo 82,85%, maglia nera per Pezzolo Valle Uzzone (55,60%).
La notizia non mi lascia indifferente. Pezzolo Valle Uzzone è un Comune dell’Alta Langa assai esteso (più di 26 kmq), con moltissime frazioni e poco più di trecento abitanti. Si tratta di quei piccoli Comuni che molti politici, che stanno altrove, a Roma o comunque in aree urbane centrali, vorrebbero chiudere, prendendo oltretutto a riferimento soltanto il numero degli abitanti, e non anche l’estensione territoriale. E che invece, visti da questi territori interni dell’”osso appenninico”, marginali rispetto ai principali indicatori di accessibilità, rappresenta un presidio fondamentale per la vita della comunità che vi abita e ne mantiene vivo il paesaggio. In questa tornata elettorale, peraltro, i non molti giovani presenti e disponibili si erano presentati in un’unica lista, valutando un po’ ridicolo dividersi.
Come possibile che in un territorio così gli abitanti abbiano corso il rischio di avere una tornata elettorale nulla, e di veder nominato un commissario al posto del Sindaco? Davvero chi vive in questo territorio ha scelto di non recarsi alle urne? Anche negli altri piccoli Comuni contermini, le percentuali alle ultime elezioni sono state appena superiori, sfiorando quindi il rischio di non raggiungere il quorum.
In realtà a Pezzolo ha votato non il 55,6%, bensì l’85,7% degli aventi diritto residenti nel comune. A cosa è dovuta la differenza fra queste due cifre? Ai 144 aventi diritto al voto residenti all’estero (prevalentemente in America Latina), che per una norma bizzarra, a differenza di quanto avviene nelle elezioni politiche, nelle elezioni amministrative non possono votare per corrispondenza, ma soltanto recandosi di persona alle urne. Nessuno ovviamente l’ha fatto.
Man mano che approfondisco la questione, la bizzarria delle norme italiane in proposito si rivela ben più profonda, e conseguente all’organizzazione (partitica?) degli interessi elettorali relativi al voto degli italiani residenti all’estero. Certo, questo diritto esiste anche in altri paesi. Ma non certo regolato come in Italia.
In Italia la materia è gestita dall’AIRE (associazione italiani residenti all’estero). Sulla pagina del Ministero dell’Interno dedicata a questa Associazione si può leggere che
«Possono iscriversi all’AIRE non soltanto i cittadini italiani che espatriano per un periodo superiore all’anno, ma anche I cittadini italiani nati e residenti fuori dal territorio nazionale, il cui atto di nascita sia trascritto in Italia e la cui cittadinanza italiana sia accertata dal competente ufficio consolare di residenza.
«Iscriversi all'AIRE è un obbligo prescritto dalla legge istitutiva dell'AIRE. Il rispetto di tale obbligo è un dovere civico che comporta la possibilità di esercitare con regolarità il diritto di voto e di ottenere certificati dal comune di iscrizione e dal consolato di residenza».
Strana concezione del “dovere civico”: nessun obbligo di contribuire alla vita del paese e della comunità di riferimento, ma possibilità di eleggere le rappresentanze che decideranno come regolamentare i nostri diritti e doveri di abitanti.
Tutti gli iscritti all’AIRE possono ottenere lo status di aventi diritto al voto, anche se non hanno mai messo piede in Italia e mai lo metteranno, e se non contribuiscono in alcun modo a far funzionare il nostro paese. Non soltanto alle elezioni politiche, ma anche alle elezioni amministrative, incluse quelle comunali.
Sulle pagine web del Ministero dell’Interno dedicato alle elezioni comunali del 5 giugno 2016 si legge infatti che:
«Gli italiani residenti all’estero possono votare alle elezioni amministrative venendo in Italia a votare presso il comune di iscrizione nelle liste elettorali. A tal fine i comuni inviano ai nostri connazionali all’estero le cartoline-avviso con l’indicazione della data della votazione. Per le elezioni amministrative non è, infatti, previsto il voto per corrispondenza all’estero».
Anche nelle elezioni comunali possono dunque votare tutti i cittadini iscritti nelle liste elettorali del Comune stesso, indipendentemente dal fatto di risiedervi o meno, pagarvi le tasse ecc. Questa bizzarra (per non dir di peggio) disposizione produce una serie di effetti collaterali, in particolare nei piccoli Comuni in aree marginali, dove l’emigrazione nel passato è stata assai forte.
Nelle elezioni dei Comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti, nel caso di un solo candidato a Sindaco e di una sola lista (situazione assai frequente nei Comuni con meno di 1000 abitanti), devono essere infatti soddisfatte due condizioni: la lista deve aver riportato voti validi superiori al 50% dei votanti, e deve aver votato almeno il 50% degli aventi diritto. Se queste due condizioni non vengono soddisfatte l’elezione è nulla. Sulla carta sembrano condizioni ragionevoli. Sembrano: in realtà la possibilità, per chi risiede all’estero anche da tre generazioni, di essere iscritto alle liste elettorali del Comune nel quale era nato un suo avo, può far sballare tutti i conti. Ragion per cui nel Comune di Pezzolo Valle Uzzone, ad esempio, gli elettori sono assai superiori ai residenti: 410 elettori, contro 345 residenti (non tutti elettori, ovviamente, per ragioni anagrafiche o di cittadinanza: gli aventi diritto al voto residenti sono solo 266).
La questione del diritto di voto agli italiani residenti all’estero che non pagano le tasse nel nostro paese, e in gran parte dei casi non contribuiscono nemmeno al pagamento dei tributi locali non possedendovi beni immobili, è abbastanza inquietante in generale, con riferimento sia alle elezioni amministrative che a quelle politiche, circa la natura pasticciata delle nostre istituzioni.
Da un lato infatti i loro voti determinano chi ci governa, e quindi quali saranno le politiche fiscali, previdenziali, del lavoro, del territorio, dell’ambiente del nostro paese, politiche che riguardano innanzitutto chi vive e lavora in Italia. Perché una persona che aveva il bisnonno o trisnonno italiano, ma che ha sempre vissuto e pagato le tasse all’estero, dovrebbe poter con il proprio voto contribuire a determinare queste scelte?
Dall’altro esiste un’incongruenza interna alle stesse norme che consentono il diritto di voto agli iscritti alle liste dell’AIRE. Per le elezioni politiche e per le consultazioni referendarie, infatti, è richiesto l’esercizio di una specifica opzione di voto e consentito il voto per corrispondenza (quei voti serviti, ad esempio, a eleggere Razzi: qualcuno ce l’ha presente?).
Per le elezioni comunali no. Tutti gli iscritti all’AIRE riconosciuti come elettori di diritto contribuiscono quindi a determinare il quorum, ma possono votare soltanto recandosi di persona al seggio. Pur essendoci la possibilità di ottenere il rimborso (dallo Stato italiano, ovvero da tutti noi che vi paghiamo le tasse) del 75% del costo del biglietto di viaggio (anche di un aereo proveniente dall’altro capo del mondo), praticamente nessuno (fortunatamente per le casse già malandate del nostro Stato) esercita questo diritto.
Ultimo particolare: ma chi decide quali iscritti all’AIRE vengono riconosciuti come elettori? I Comuni. Che a lor volta subiscono non poche pressioni in tal senso. Il Comune in questione, Pezzolo Valle Uzzone, ha diverse decine di ulteriori richieste di riconoscimento pendenti. Se le approvasse tutte, alle prossime elezioni non riuscirebbe a raggiungere il quorum nemmeno facendo votare i defunti recenti.
Qualcuno ci spiega chi ha legittimato queste norme geniali? La firma è quella del governo Berlusconi, ma le responsabilità sono anche quelle dei servizi legislativi di Camera e Senato, e del Presidente della Repubblica che le ha promulgate. E perché nessuno si pone comunque il problema di modificarle?
Il manifesto, 15 giugno 2016, con postilla
Il mio ragionamento è questo (per quanto possa risultare sgradevole, mi auguro che sia letto fino in fondo).
1) Qual è l’obiettivo politico-istituzionale, con cui una “sinistra” dovrebbe mirare (in Italia di sicuro, ma forse, in altre forme, anche nel resto d’Europa) per conseguire il governo del paese?
Penso che in Italia, nell’attuale situazione storica, anzi, forse in una dimensione addirittura epocale, non ci sia altra risposta se non un governo, fortemente ragionante e solidamente strutturato, di centro-sinistra. Gli uomini di sinistra che pensano attualmente ad altro, non sbagliano: vaneggiano.
2) Controprova. Perché le liste dichiaratamente di sinistra pressoché dappertutto al primo turno delle elezioni comunali, il 5 giugno scorso, hanno ricevuto così pochi consensi, sproporzionati persino al livello attuale di contestazione che nel paese (comitati, associazioni, gruppi spontanei, sindacati, ecc. ecc.) sembrerebbe invece persino esser cresciuto nel corso degli ultimi anni? Perché non dichiaravano soluzioni politico-istituzionali credibili ma solo un lungo elenco di denunce e di proteste (assolutamente giuste, in sé considerate). La gente, anche se ti è vicina, non ti vota se non hai da proporre soluzioni politico-istituzionali credibili.
3) Esiste per la nostra sinistra una soluzione politico-istituzionale credibile, e magari autorevole, e cioè un governo di centro-sinistra ragionante e solidamente strutturato, senza il Pd? Non esiste. E perché? Perché non sono alle viste soluzioni alternative di nessun tipo. Qui, anche da questo punto di vista, mi guardo intorno, e all’interrogazione si mescola qualche punta di stupefazione.
Può la sinistra italiana costruire un governo di centro-sinistra, – o qualcosa che seriamente gli equivalga, – con il Movimento 5Stelle? E’ evidente per me che non può.
Per almeno tre buoni motivi:
a) Il Movimento 5Stelle in realtà non è un movimento vero e proprio (come, ad esempio, Podemos in Spagna), e tanto meno un partito: è il prodotto, senza dubbio indovinato, della ditta Grillo-Casaleggio, che all’occorrenza, come abbiamo visto recentemente, si trasmette addirittura per via ereditaria; dove di conseguenza il comando, discende esclusivamente dall’alto; e non consente nessuna democrazia interna (c’è bisogno di fare esempi?); e non manifesta in realtà nessuna simpatia neanche per le forme esterne, generali, della democrazia;
b) Il Movimento 5Stelle rappresenta l’espressione pura e semplice, e, se si vuole, più diretta e autentica, di quell’inquieto disagio di massa, prodotto inevitabile e perciò estremamente diffuso della crisi della democrazia rappresentativa e del sistema dei partiti in Italia; è, culturalmente e idealmente, più vicino alla Lega di Salvini e all’Ukip di Farange che non ai resti della vecchia sinistra (tant’è vero che, laddove si può, si predispongono a scambiarsi voti al ballottaggio nel nome del comune odio al sistema); i candidati e le candidate che lo rappresentano sono uomini e donne partoriti direttamente dalla crisi della massa, parlando la lingua balbettante e informe dei loro consimili, e perciò sono così popolari (qualche risorgente simpatia elitista? Ebbene sì);
c) La combinazione “disagio incontrollabile della massa – comando indiscusso e indiscutibile dei Capi” (non ci vuol molto a capire che fra le due cose corre una relazione), ricorda, naturalmente con i necessari ovvii punti di differenza, esperienze consimili già avvenute in Italia, ma, anche in questo caso, anche in Europa. Altro che Michels e Pareto! Ci vorrebbe un novello Giovanni Gentile, magari al livello degradato dei nostri tempi (ma forse oggi basta Grillo), per spiegare e apologizzare un fenomeno come questo. Naturalmente questo discorso non esclude che una quantità anche notevole di italiani onesti e disgustati dal sistema politico italiano abbiano aderito al M5S. Per questi elettori il ragionamento sarebbe diverso. Ma il voto no.
4) Dunque, se le cose stanno così, siamo di nuovo alla presunta inevitabilità dell’alleanza sinistra-Pd per preconizzare e preparare un governo di centro-sinistra, ragionante e solidamente strutturato, nel nostro paese.
Ma chi è l’avversario attualmente più solido e autorevole della formula di governo denominata di centro-sinistra, almeno in Italia? Anche qui la risposta non è difficile.
E’, senza ombra di dubbio, Matteo Renzi, che è, come noto, l’attuale segretario del Pd, oltre che capo di un governo tendenzialmente più di centro-destra che di centro-sinistra.
La cosa è tanto paradossale, e anche scandalosa, in quanto la linea renziana è stata portata avanti con una situazione sostanzialmente favorevole alle Camere solo perché essa è stata creata con una proposta elettorale (appunto) di centro-sinistra. Per realizzarla, dunque, è stato necessario rovesciarla; e questo è stato possibile solo perché siffatta maggioranza si è adeguata senza sostanziale resistenza al mutamento, e con essa la maggioranza del partito, ossia del Pd. E allora?
5) Allora, è evidente che una linea di centro-sinistra può essere restaurata e praticata solo battendo Renzi nei suoi punti più vitali, che sono anche quelli cui lui attribuisce più importanza. E’ possibile?
Osserverei questo. La linea Renzi, e quindi l’abbandono di una prospettiva di governo di centro-sinistra, sta chiaramente portando il paese, non solo a una sconfitta personale del Capo, ma ad una vera e propria catastrofe politica, istituzionale, economica e sociale: di cui altri, non la cosiddetta sinistra, ma una destra sempre più estrema, oltre che, ovviamente, il Movimento 5Stelle, si affretterebbero a giovarsi (come appunto sta già accadendo).
A mio giudizio questa consapevolezza si sta sotterraneamente diffondendo, al di là della sfera, attualmente un po’ limitata, della nostra sinistra: nei grandi giornali d’informazione ne sono già comparsi i segni, e persino in qualche snodo della maggioranza (come sempre in Italia sono i vecchi democristiani ad aver fiutato il vento che cambia). Sembrava che fosse un condottiero instancabile e infallibile. E se fosse un perdente predestinato? Ha organizzato tutto per stravincere: e se per gli stessi motivi, come è sempre più probabile, fosse destinato alla più sonora delle sconfitte?
6) E’ evidente che la battaglia decisiva è quella sul referendum: anch’essa non priva di ambiguità, se è vero che a ottobre, per la prima volta in vita nostra, voteremo insieme con la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Tuttavia, bisogna assolutamente ottenere che al referendum vinca il no.
Anche se più decisiva ancora del referendum costituzionale risulta per noi (noi sinistra) la nuova legge elettorale, l’Italicum. Sempre più lampante appare infatti che essa sia pensata, più che altri motivi, appositamente per rendere impossibile perfino sul piano istituzionale l’alleanza di centro-sinistra.
Cambiare l’Italicum significa dunque, non soltanto assicurare al voto, in generale, migliori garanzie di correttezza istituzionale: ma rendere di nuovo possibile la prospettiva dell’alleanza di centro-sinistra. Del resto in Italia chi pensa di poter fare da sé, e fa da sé, spesso “ruina“. Nella storia recente è già accaduto almeno una volta.
7) Il problema ora è: come si arriva, se possibile, ordinatamente e ancora in forza, al voto di ottobre, e non in una situazione d’irrimediabile, – ripeto: irrimediabile, – catastrofe? Qui le strade, me ne rendo conto, si separano.
Io penso che lavorare ora (ballottaggio delle comunali) per abbattere, o, peggio, contribuire ad abbattere Renzi sia un errore.
Per arrivare a ottobre in condizioni di sopravvivenza (parlo in questo caso anche della sinistra strettamente intesa), e garantire la possibilità dell’unico passaggio positivo possibile, occorre che non prevalgano gli avversari più potenti e determinati della prospettiva di centro-sinistra, e cioè la Destra (sempre più estrema) e il Movimento 5Stelle.
E occorre che il Pd, – attualmente di Renzi, ma domani chissà, non si disgreghi, non si disgreghi letteralmente sotto il peso di una clamorosa sconfitta, prima di essere messo in grado di riprendere la strada violentemente interrotta.
Perciò io penso che i candidati Pd alla carica di sindaco, ovunque, ma soprattutto a Milano, Torino e Roma, vadano votati nelle consultazioni di ballottaggio (Napoli e, sul versante esattamente opposto, Sesto Fiorentino sono casi totalmente anomali, che non possono essere collocati all’interno di questa casistica).
Ma: nel caso che il voto dia in questo senso un esito positivo, non potrebbe Renzi vantarsene per rafforzare la sua posizione? Sì, certo potrebbe.
Ma ho già scritto in passato su questo giornale che ogni battaglia per la sinistra è sempre, di questi tempi, double face. In ogni occasione, e ad ogni snodo, bisogna scegliere nell’immediato il male minore, o, in prospettiva, e se ci si riesce, l’opportunità migliore e più desiderabile.
Io direi che, in questo caso, puramente e semplicemente, non ne esiste un’altra.
postilla
Da molti lustri siamo entrati in un mondo che è radicalmente nuovo rispetto al passato. Il capitalismo di oggi ha ben poco a che fare con il capitalismo di ieri: ieri gli sfruttati erano le classi lavoratrici, oggi sono la maggior parte dell'umanità. La colpa maggiore della sinistra novecentesca è stata quella di non averlo compreso e di aver tradotto la politica a mero gioco per il potere. Le ricette (e le etichette) della sinistra novecentesca non servono più: serve comprendere le verità che aveva elaborato nel suo percorso storico, e serve comprendere come possono reincarnarsi nel mondo di oggi. L'intuizione felice l'aveva avuta proprio Alberto Asor Rosa quando aveva scritto «La sinistra del futuro o sarà rossoverde o non sarà» (il manifesto, 30 aprile 2005). Se questa sinistra esistesse non potrebbe costruire nessuna alleanza con una formazione, una strategia e un'ideologia come quella della quale Matteo Renzi e il renzismo sono l'espressione.
P.S. Cercando su eddyburg (e non trovando) l'articolo di AAR del 2005 ho trovato invece uno scritto di Giuseppe Chiarante che mi sembra utile riproporre oggi: Perchè è finito il PCI (e.s.)
«Se tutto, anche la Costituzione, diventa oggetto di contesa continua, a venir messo a repentaglio è proprio quel residuo di stabilità istituzionale che ancora ci resta».
Libertà e Giustizia, 15 giugno 2016 (p.d.)
«Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva fin dove non trova limiti (…). Perché non si possa abusare del potere occorre che (…) il potere arresti il potere». Montesquieu, Lo spirito delle Leggi. È nelle librerie “Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme istituzionali” (edizioni Laterza), agile saggio, già alla secondo ristampa, scritto a quattro mani da Gustavo Zagrebelsy, presidente emerito della Corte costituzionale, e Francesco Pallante, professore di diritto costituzionale presso l’Università di Torino. Il libro è diviso in quattro parti: nella prima vengono analizzati gli argomenti che i sostenitori della riforma costituzionale pongono alla base della stessa e, per ognuno, viene fornita una riposta alternativa; la seconda è rappresentata da un parere che Zagrebelsky inviò al ministro Boschi sulla riforma e sulla possibilità di intervenire in modo diverso sulla Carta costituzionale; nella terza parte gli autori illustrano nello specifico sia la legge elettorale che il testo di riforma costituzionale, quest’ultimo poi analizzato articolo per articolo (attraverso un raffronto comparato tra vecchio e nuovo testo) nella quarta ed ultima parte. Il merito principale del presente saggio è quello di andare al di là della retorica dominante di entrambe le parti e di affrontare, con tecnicità ma anche con straordinaria chiarezza e lucidità, tutti gli argomenti che vengono utilizzati dai sostenitori della riforma, per rendere evidente le contraddizioni e la superficialità dei ragionamenti che spesso vengono fatti sulla riforma.E così, ad esempio, si mette in luce che non tutti gli italiani aspettano da anni la riforma della Costituzione, ma solo una parte di essi, ossia coloro che si pongono come obiettivo quello di spostare il baricentro del potere a favore del Governo. Si sfata poi il mito della celebre litania del «ce lo chiede l’Europa», dimostrando come non sia un valido argomento, ma un semplice pretesto. Questa dovrebbe essere, al contrario, l’occasione per riflettere sul tipo di Europa che siamo costruendo e per «liberarci dalle costrizioni della finanza e della speculazione finanziaria».
Si sottolinea anche che la parola governabilità è ambigua in quanto, stante il significato passivo che rimanda al «farsi docilmente governare» non risponde alla domanda «da chi», e che dunque sarebbe auspicabile utilizzare la parola Governo, che in democrazia presuppone «idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno».
Gli autori non hanno remore nel ricordare che il Parlamento che ha approvato questa legge di revisione costituzionale è stato eletto con una legge dichiarata incostituzionale per aver «rotto il rapporto di rappresentanza», ma che, nonostante ciò, ha avuto la presunzione di cercare di riformare il fondamento della convivenza civile, appunto la Carta costituzionale. In quest’ottica, quello che è stato descritto come atto d’orgoglio dei parlamentari capaci di autoriformarsi, viene ricondotto ad una forma di «arroganza dell’Esecutivo», che ha portato a sostituire l’idea di Costituzione come «patto sociale di garanzia e convivenza» a «strumento e armatura del proprio potere», rovesciando la piramide democratica e rimpiazzando la democrazia partecipativa con una «oligarchia riservata».
Un altro leitmotiv dei sostenitori della riforma è il richiamo alla volontà dei partiti della sinistra, che già dagli anni ottanta avevano criticato il bicameralismo perfetto (si pensi ai volantini diffusi con le foto e frasi di Ingrao e Berlinguer, volantini che hanno causato diverse polemiche e la presa di posizione delle relative famiglie): ebbene anche in questo caso Zagrebelsky e Pallante vedono le cose da una diversa prospettiva, contestualizzando le frasi richiamate dai sostenitori della riforma e ricordando che all’epoca la semplificazione delle istituzioni parlamentari era finalizzata a dare più forza alla rappresentanza democratica attraverso la «centralità del Parlamento» e non, come oggi, al consolidamento dell’Esecutivo attraverso la marginalizzazione della rappresentanza perché portatrice di autonome istanze democratiche.
L’effetto di questa riforma, che nella visione degli autori non può che essere letta parallelamente alla legge elettorale (cd Italicum), è «l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’Esecutivo» e la vittoria della «banale e pericolosa concezione della democrazia che si esprime nella formula: ho i voti, dunque posso». A ciò si aggiunga che, per le modalità plebiscitarie con cui i partiti politici stanno affrontando la campagna referendaria, quello che è sempre stato inteso come un «patto solenne che unisce un popolo sovrano» sta di fatto dividendo quello stesso popolo.
Dopo aver riflettuto sugli argomenti innanzi illustrati, nella terza e nella quarta parte del saggio gli autori analizzano nello specifico sia il testo della legge elettorale che quello di revisione costituzionale, mettendo in evidenza innanzitutto le anomalie di metodo con cui gli stessi sono stati adottati: e infatti gli emendamenti dell’Italicum non sono mai stati discussi in Commissione, né alla Camera né al Senato; la discussione al Senato è stata fortemente condizionata dall’approvazione dell’emendamento noto come “super canguro” che, «anteponendo al testo del progetto un articolo avente contenuto non normativo, ma dichiarativo del contenuto degli articoli successivi, ha fatto decadere tutti gli emendamenti ancorati agli articoli successivi»; i deputati dissenzienti del Partito democratico sono stati sostituititi nella Commissione Affari costituzionali per la sola discussione della legge elettorale, considerando in questo modo decaduti automaticamente tutti gli emendamenti che erano stati dagli stessi presentati; sulla votazione finale articolo per articolo è stata posta la fiducia, con ciò violando l’art. 116, quarto comma, del Regolamento della Camera, e ponendosi in continuità con le uniche altre due leggi elettorali sulle quali era stata posta la questione di fiducia, la legge Acerbo e la legge “truffa”.
Per quanto riguarda poi la legge di revisione costituzionale, viene sottolineata l’incompatibilità con il principio del costituzionalismo dell’iniziativa governativa della riforma costituzionale, atteso che la Costituzione può fungere da limite per il potere – ed in particolare per quello governativo – nella misura in cui tale limite sia esterno, eteronomo, e non posto dallo stesso soggetto che dovrebbe soggiacervi. Anche in questo caso sono stati adottati strumenti di riduzione della discussione, come la sostituzione dei componenti della Commissione Affari costituzionali del Senato perché portatori di posizioni difformi, la riduzione degli emendamenti con l’applicazione del “canguro”, il contingentamento dei tempi di discussione (“tagliola”). A ciò si aggiunga la mancata discussione in Commissione degli articoli del ddl.
Gli autori evidenziano poi delle anomalie “di merito” delle leggi, come il carattere eccessivo del premio di maggioranza o gli esiti assurdi a cui porterebbe la legge elettorale in alcuni casi, come ad esempio se due liste ottenessero il 40% dei voti (come accadde all’elezione del 2006) e avessero dunque diritto entrambe al premio di maggioranza. Accanto a ciò c’è la trasformazione di fatto del sistema di Governo da Parlamentare in Presidenziale (o, meglio, in quello che Leopoldo Elia definì premierato assoluto), che attraverso l’indicazione preventiva del candidato premier (art. 2, comma 8, Italicum) trasforma l’elezione del Parlamento anche in elezione del Presidente del Consiglio, in violazione dell’art. 92, comma 8, Cost.
Per quanto attiene poi alla riforma costituzionale, tra i diversi profili analizzati (la composizione del Senato, la diversificazione dei procedimenti legislativi, lo Statuto delle Opposizioni) quello più rilevante attiene alla marginalizzazione del ruolo delle opposizioni nella scelta degli organi di garanzia, come l’elezione del Presidente della Repubblica, l’elezione di un terzo dei membri del Consiglio superiore della magistratura, l’elezione dei Giudici della Corte costituzionale, la dichiarazione di guerra e l’approvazione delle leggi di amnistia ed indulto. Infatti la riduzione del numero dei senatori e la legge elettorale iper–maggioritaria determinano un aumento del potere della maggioranza; a ciò si aggiunga che per l’elezione del Presidente della Repubblica dal settimo scrutinio in poi si fa riferimento ai votanti, anziché ai presenti, con ciò «agevolando tatticismi parlamentari volti ad abbassare ulteriormente il quorum di elezione».
In questo quadro, ciò che più desta preoccupazione è il combinato disposto di queste due riforme, che partono dall’idea del sacrificio necessario dei valori del dialogo, della tutela del dissenso e delle minoranze, dell’importanza delle diverse componenti sociali, tutti sacrificati sull’altare della stabilità, della governabilità e della velocità della decisione, con buona pace della prima parte della Costituzione ed in particolare del principio di uguaglianza sostanziale.
Tale cambiamento, epocale, è avvenuto procedendo non attraverso un atteggiamento inclusivo, volto alla ricerca di punti di contatto tra le diverse parti presenti in Parlamento, ma in un clima da “conta finale”, in cui l’argomento dell’avversario non è mai stato preso in considerazione.
Accanto a questa pars destruens, vi è una lunga pars costruens, rappresentata dal parere inviato da Zagrebelsky al ministro Boschi, parere che non ha mai ricevuto risposta.
Stante l’impossibilità in queste brevi riflessioni di illustrare le numerose proposte di Zagrebelsky (per le quali si rimanda alla lettura del libro), mi pare utile soffermarsi su una questione particolare, ossia quella relativa alle ragioni del bicameralismo, che è indice del fatto che probabilmente molte questioni sottese alla riforma non sono state affrontate con la dovuta profondità.
L’autore rileva infatti che nella storia i senati hanno rappresentato o esigenze federali rispetto allo Stato centrale (ad esempio il sistema tedesco) ovvero ragioni conservative rispetto alla camera elettiva e alle sue mutevoli maggioranze (ad esempio il sistema inglese) e propone di prendere atto della natura non federale del nostro Stato e di provare dunque ad immaginare un Senato che sia posto a tutela di ragioni conservative, non rispetto al passato (come era appunto la camera dei Lord inglese) ma rispetto «alle ragioni di opportunità per il futuro», per evitare in sostanza la dissipazione delle risorse pubbliche, materiali e immateriali, a causa della brevità dei governi democratici, che devono sottostare a scadenze elettorali. Tale obiettivo potrebbe essere raggiunto prevedendo l’elezione di membri del Senato «per una durata adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola della non rieleggibilità». Un Senato, in sostanza, che sia posto a presidio dell’ambiente, del patrimonio artistico e culturale, e di tutti quei beni che dovremmo conservare per le prossime generazioni e che invece la politica non riesce adeguatamente a tutelare.
Se si avesse avuto meno fretta, se si fosse ragionato maggiormente sui problemi posti dalle disposizioni che via via si cercavano di riformare, se si fosse prestata maggior attenzione alle opinioni di quanti sottolineavano i passaggi problematici della riforma, probabilmente ne sarebbe scaturito un risultato migliore. Se si fosse stati meno superficiali, si sarebbero analizzati a fondo i problemi, trovando soluzioni nuove a problemi che da tempo affliggono la nostra società.
Il metodo adottato non ha invece consentito questo tipo di dialogo e ha contribuito a collocare la Costituzione non al di fuori del contingente, ma dentro lo stesso, con ciò portando la Carta a non essere più lo strumento che rende possibile il confronto tra forze politiche, senza che questo degeneri in scontro a tutto campo.
«Se tutto, anche la Costituzione, diventa oggetto di contesa continua, a venir messo a repentaglio è – al contrario di quel che sempre affermano i sostenitori della riforma – proprio quel residuo di stabilità istituzionale che ancora ci resta».

«Sbilanciamoci info, 13 giugno 2016 (c.m.c.)
Questo non è un accordo, è una tregua”. Con queste parole un funzionario europeo ha commentato al giornalista Stavros Lygeros l’esito della lunga a travagliata riunione dell’eurogruppo di fine maggio. Sette ore di discussione su un unico argomento: il debito greco, che alla fine del 2016 toccherà, secondo la Commissione, il 182% del PIL.
I termini della “tregua” sono subito spiegati dalla stessa fonte: “Il FMI non ha voluto assumersi la responsabilità politica di far fallire la riunione”. Un rischio reale dalle conseguenze non indifferenti. Fino a luglio le casse greche debbono pagare in titoli in scadenza, interessi e rate, circa 3,5 miliardi. L’Europa rischiava di vivere nuovamente il dramma dell’estate scorsa, con l’aggravante dell’imminenza del referendum britannico: “Il Fondo ha fatto un passo indietro e ha rimandato lo scontro al prossimo giro, quando le condizioni saranno sfavorevoli per Berlino.
La discussione sul debito, infatti, sarà condotta sulla base dello studio sulla sua sostenibilità che sta preparando lo stesso FMI. Schauble ha guadagnato tempo, ma è ancora imprigionato dentro una grossa contraddizione: non può permettersi di dire ai suoi elettori che il FMI non partecipa più al programma greco, che diventerebbe così esclusivamente europeo, ma non è disposto a cedere alla prima condizione posta dal FMI per partecipare: alleggerire il debito”.
Appena due mesi fa, per essere precisi, il responsabile per l’Europa del Fondo, Paul Tomsen, non aveva esitato di proporre una strategia estremamente pericolosa, in modo da far passare la strategia del FMI su tutta la linea. All’epoca, non era aperto solo il fronte tedesco ma anche quello greco. Gli accordi dell’estate scorsa imponevano alla Grecia un avanzo primario del 3,5% anno da ottenere nel 2018 e mantenerlo per almeno un decennio.
Secondo Tomsen, le misure di austerità previste da quell’accordo non erano sufficienti per raggiungere l’obiettivo, ci volevano ulteriori tagli per circa 3,6 miliardi. Per ottenere una soluzione “soddisfacente” bisognava replicare anche questa volta la strategia del 2015: far arrivare la Grecia alle scadenze estive con le casse a secco, con il rischio di un “incidente”, tanto indesiderato in quanto c’è il referendum britannico. In una situazione di urgenza, riteneva, in cui tutti avrebbero accettato le richeste del Fondo senza discussioni.
Wikileaks pubblicò l’intercettazione del colloquio via Skype di Tomsen con Delia Velculescu, la rappresentante del FMI nella “quadriga” (ex troika) che controlla i conti di Atene. L’effetto fu devastante: Tomsen si guadagnò una nuova reprimenda da parte del Board (e forse anche della stessa Lagarde) e le nuove misure furono criticate dagli europei con inusuale franchezza. Pochi giorni più tardi, Eurostat comunicò i dati sui conti greci e fu un nuovo schiaffo al Fondo: secondo Eurostat la Grecia aveva chiuso il 2015 con un attivo di bilancio dello 0,7% del PIL, mentre il piano concordato a luglio 2015 imponeva al paese almeno un + 0,25% e le stime del FMI parlavano di un disavanzo dello 0,6%.
Non era la prima volta che il Fondo sbagliava platealmente le sue previsioni, come ammesso da tutto lo staff economico. Basti dire che l’applicazione del primo programma di “salvataggio”, nel 2010, avrebbe dovuto portare alla crescita già nel 2011. Siamo sei anni dopo e le previsioni, ben più affidabili, della Commissione prevedono ancora recessione dello 0,3% alla fine dell’anno, con prospettive di crescita del 1,8% nel 2017. Lo stesso Tomsen era stato posto sotto inchiesta interna nel 2013 con l’accusa di non aver fornito stime affidabili ma ancor di più di non aver tenuto conto del dibattito in corso tra gli economisti del FMI nell’elaborazione del programma greco. Alla fine è stato rimosso e promosso a responsabile per l’Europa.
Per il governo greco risolvere il nodo del debito è un punto di primaria importanza. Darebbe per la prima volta il senso che la dura trattativa intrapresa da Atene con i creditori può dare finalmente dei risultati, dopo una serie ininterrotta di sconfitte. Le misure di austerità approvate a tamburo battente dal Parlamento greco pochi giorni prima della riunione cruciale dell’Eurogruppo hanno un enorme costo politico e sociale.
Tsipras ha strenuamente resistito alle pressioni a tagliare la spesa pubblica procedendo a licenziamenti e a tagli alle pensioni esistenti e ha preferito puntare sull’aumento delle entrate. Malgrado i tentativi generosi di distribuire il peso fiscale in maniera più equa del passato e malgrado alcuni successi non trascurabili nella lotta alla diffusissima evasione fiscale, alla fine il governo ha dovuto ricorrere all’aumento dell’IVA dal 23 al 24%, anche nelle isole. Una misura che perfino Schauble ha definito “stupida” e che rischia di colpire il settore primario dell’economia greca: il turismo, arrivato oramai a coprire il 20% del PIL.
Secondo la ministra del Turismo Elena Koundourà per l’anno in corso l’aumento dei prezzi non si farà sentire, al contrario. La chiusura dei mercati turistici concorrenti, come la Turchia e l’Egitto, farà aumentare il flusso turistico verso la Grecia fino a 27 milioni di visitatori. Ma l’aumento dell’IVA rimane comunque una misura recessiva che rischia di abbattere i consumi e non portare alle casse pubbliche gli introiti previsti e tanto desiderati. Questo è avvenuto parecchie volte nella lunga crisi greca.
Ma non tutto è stato vano. L’Eurogruppo ha costretto i tedeschi a cambiare posizione e a riconoscere, per la prima volta, che il debito greco è insostenibile. Schauble, per la verità, ha ripetuto la sua posizione che “non c’è urgenza” ad affrontare la questione, visto che per la restituzione delle somme del secondo e del terzo memorandum è previsto un periodo di grazia fino al 2022 e i tassi sono fermi all’1,5%. Ma ha dovuto accettare la posizione di Atene del FMI che senza un alleggerimento non ci sarà garanzia di stabilità per l’economia greca, visto che si tratta di un fattore che certo non incoraggia gli investitori. Alla fine i tedeschi hanno ceduto ma a condizione che la questione venga affrontata solo dopo le elezioni tedesche previste per l’autunno dell’anno prossimo.
Un impegno simile era stato già preso dall’allora Troika nel 2012, a condizione che la Grecia avesse ottenuto un avanzo di bilancio. L’avanzo era stato ottenuto nel 2014 ma l’allora governo di destra non ha voluto sollevare la questione. La posizione dell’allora premier Antonis Samaras era che il debito era sostenibile, nella consapevolezza che qualsiasi riferimento alla possibilità di taglio avrebbe provocato malumori a Berlino.
Ora però le cose sono cambiate: non solo a causa del cambiamento di governo ad Atene ma anche perché il debito greco sta creando seri problemi all’interno del FMI. E’ noto infatti che il suo statuto non gli permette di finanziare debiti insostenibili e per partecipare al “salvataggio” greco nel 2010 dovette procedere a un affrettato cambio, provocando discussioni che nel tempo di sono acutizzate.
Tsipras ha ottenuto inoltre l’abolizione di fatto della clausola irrealistica dell’avanzo primario del 3,5% per un decennio, un obiettivo difficilmente raggiungibile anche per economie fiorenti, figuriamoci per quella greca. Anche questo sarà oggetto di trattativa ma già all’Eurogruppo si è raggiunto un accordo per un impegno greco per un avanzo “significativo”, in pratica dell’1,5- 2%. In caso di deragliamento dei conti, è stato sancito un meccanismo di “garanzie di salvaguardia”.
La tranche del finanziamento sarà divisa in due parti. La prima, di 7,5 miliardi, sarà versata alla fine di giugno, il resto, di 2,8 miliardi, a settembre. La metà dei soldi che saranno incassati a giugno andrà a pagamento dei debiti accumulati dall’amministrazione pubblica greca verso i privati, circa 3,6 miliardi, un’altra parte a pagamento del debito e quello che rimane a sostenere il piano di sviluppo elaborato dal governo e presentato in Parlamento agli inizi di giugno. Anche questo è stato un punto in favore di Atene, visto che con il governo precedente le somme andavano o a coprire il debito oppure la ricapitalizzazione delle banche.
Per ottenere per il denaro, Tsipras deve risolvere le ultime questioni rimaste in sospeso: la “quadriga” esige che i crediti inesigibili delle banche siano ceduti ai funds speculativi, mentre Atene vorrebbe porre delle clausole riguardo alle piccole imprese, circa il 56% degli interessati (già in autunno erano stati esclusi i mutui per la prima casa). Bisogna inoltre sbloccare la privatizzazione dell’area del vecchio aeroporto di Hellikon, acquistato per una somma ridicola nel 2013 dal Gruppo Latsis e bloccata da una serie di sentenze della magistratura.
Il governo greco vuole inserire anche questa area nella nuova “super Cassa” che gestirà (non necessariamente privatizzando) tutta la proprietà pubblica, i creditori vogliono risolvere la questione al più presto. Infine ci sono gli introiti dai pedaggi dell’autostrada Egnazia, che unisce Igoumenitsa a Costantinopoli, che i creditori vorrebbero andassero per intero al debito.
Le condizioni veramente difficili per Tsipras sono attese però per settembre, quando la “quadriga” passerà all’attacco cercando di smantellare quello che è rimasto del diritto del lavoro. I creditori chiedono di abolire il divieto vigente a effettuare licenziamenti in massa e anche il valore giuridico dei contratti nazionali e aziendali di lavoro. Tsipras finora è rimasto granitico nel rifiutare qualsiasi cedimento in questo campo.
Anche se le previsioni della Commissione parlano di un rovesciamento dell’andamento dell’economia già nel secondo semestre di quest’anno (“l’economia greca ha mostrato resistenze inimmaginabili”, ha confessato, in un impeto di inconsapevole autocritica, il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem) è evidente che si ripropone per ben sei anni la stessa ricetta fallita. L’abbattimento del costo del lavoro e il restringimento dei diritti sindacali non hanno portato a nessun investimento, ma solo disoccupazione e miseria.
Anche il tipo di sviluppo prospettato dai creditori rimane vago oppure, nel migliore dei casi, complementare alle economie del nord europeo (puntando solo sul turismo, con una punta di agroalimentare). La speranza di Tsipras è di resistere fino al 2018, quando la prospettiva di sbarazzarsi di buona parte del debito diventerà più concreta e finirà finalmente il programma di “salvataggio” della Grecia. Solo allora il governo greco potrà sviluppare i suoi progetti di sviluppo e allentare e misure di austerità.
Il primo passo sarà il congresso di SYRIZA che si terrà a settembre. Un anno di ritardo, con una dolorosa scissione di mezzo. Ma è evidente oramai che il partito ha avuto enormi difficoltà a tenere il passo, già dall’indomani dell’impetuosa avanzata alle elezioni del 2012, la vittoria elettorale di gennaio 2015 e la retromarcia dell’estate scorsa. Obiettivo del leader è far uscire SYRIZA dal minoritarismo e la cultura della protesta e farlo diventare uno strumento efficace di elaborazione di proposte di governo.
«Habemus Corpus. Il duro lavoro per crescere senza pregiudizi sul rapporto uomo/donna».
Il manifesto, 14 giugno 2016 (m.p.r.)
Fra i commenti letti sull’omicidio di Sara Di Pietrantonio, la studentessa romana strangolata e bruciata dall’ex fidanzato, uno mi ha colpito più di altri. E’ quello di P., uomo 40enne, che su un social network ha scritto: «Dopo lunga riflessione, volevo ribadire che neanche con l’esercizio di tutta l’autocritica possibile e immaginabile sono arrivato al punto di sentirmi personalmente responsabile né come essere umano, né come soggetto di sesso maschio, né come uomo bianco appartenente alla cultura occidentale dominante, né come abitante del nord Italia, né come blogger, della morte di Sara». La lapidaria risposta di un’amica gli ha tolto la maschera dell’ipocrisia: «Allora a posto così amici. P. non c’entra e quindi non parlatene con lui».
A parte che un’excusatio non petita nasconde sempre un po’ di coda di paglia, l’ autoassoluzione di P. svela la montagna ancora da scalare per non vedere certi numeri. Secondo Telefono Rosa, da inizio anno in Italia sono 59 le donne uccise da partner o ex, ed è un conto che non considera vessazioni e violenze che ancora molte subiscono.
Il modo in cui si concepiscono le relazioni nasce dall’educazione ricevuta, dagli esempi che si hanno e dall’aria che si respira in una società. Se questi tre elementi non sanzionano il concetto di possesso e potere di un individuo su un altro, crescere senza pregiudizi di genere chiede un lavoro molto lungo e difficile, e non è detto che riesca.
Come madre di un maschio 26enne, fin dalla sua nascita mi sono posta il problema di come renderlo immune dalle zavorre mentali che per secoli hanno regolato il rapporto uomo/donna. All’epoca mi sembrò un lavoro facile, credevo che la mia determinazione sarebbe bastata. Mi accorsi ben presto che avevo peccato di presunzione. Sulla strada c’erano molti più ostacoli di quanto pensassi. I discorsi, i commenti, gli atteggiamenti, il linguaggio che mio figlio sentiva in giro, a scuola, fra i vicini di casa, nella pubblicità, alla televisione, insomma tutto ciò che chiamiamo cultura sociale erano come un’idra. Tagliavo un pregiudizio, ne rispuntavano sette.
Una delle prime cose che imparò all’asilo fu dividere il mondo in maschi e femmine, i giochi da maschio e quelli da femmina, i mestieri delle mamme e quelli dei papà, i ruoli delle prime e quelli dei secondi. A tre anni, vedendo la copertina di un Espresso con una donna discinta, lo sentii dire: «Però, che tette ha questa qua». Come faceva un bambino così piccolo ad avere già un giudizio estetico su dei seni? Ma il disastro fu alle scuole medie, quando cominciò a dividere le ragazze fra quelle che ci stanno e quelle no. Aveva assorbito dai compagni l’idea che le donne si distinguono in facili e no. Altro che risolto, mi sembrava di aver allevato un talebano.
Poi il tempo, le discussioni, le liti, le esperienze hanno fatto il loro lavoro, ma il luogo comune è sempre in agguato. Se i bambini vivessero in una società libera da linguaggi e giudizi machisti, se sentissero padri, fratelli, zii, amici condannare il più piccolo gesto di violenza su una donna, se bevessero insieme al latte materno l’idea che l’amore non è possesso, sarebbe più difficile per un 27enne pensare che se una ragazza ti lascia non ha più il diritto di vivere.
E poi vorrei dire a P. una cosa. Io mi sono un po’ stufata che siano quasi sempre le donne a mobilitarsi per prime. Noi il nostro lavoro di emancipazione lo abbiamo cominciato molto tempo fa. Sarebbe ora che anche i maschi ne parlassero fra loro e di più. In certi casi dire solo «Io non ho colpa» non basta per nulla. Quindi, caro P., la cosa ti riguarda eccome.
Sulla violenza alle donne numerosi scritti nella cartella de homine

«». Corriere della Sera, 14 giugno 2016 (c.m.c.)
Il Giornale propone in edicola copie del libro di Hitler, Mein Kampf . Ci sono ragioni per essere offesi o disgustati da questa scelta, e Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale , lo dico apertamente, non è persona che mi piace. Eppure mi sono trovato d’accordo con lui quando, forse un po’ goffamente, ha provato a difendere la sua provocazione dicendo che per combattere un male bisogna conoscerlo. Ho letto Mein Kampf qualche tempo fa, e effettivamente mi ha insegnato delle cose: cose che non mi aspettavo. Provo a riassumerle.
Il nazismo è stato un feroce scatenarsi di aggressività. Dalla notte dei lunghi coltelli alla disperata difesa di Berlino, ha cavalcato la violenza estrema. La giustificazione ideologica immediata per la brutalità e la violenza era la superiorità della razza e della civiltà germanica, l’esaltazione della forza, la lettura del mondo in termini di scontro invece che di collaborazione, il disprezzo per chiunque fosse debole.
Questo pensavo, prima di leggere Mein Kampf . Il libro di Hitler è stato una sorpresa perché mostra cosa c’è alla sorgente di tutto questo: la paura. Per me è stata una specie di rivelazione, che mi ha d’un tratto fatto comprendere qualcosa della mentalità della destra, per me da sempre difficile da cogliere. Una sorgente centrale delle emozioni che danno forza alla destra, e all’estrema destra sopratutto, non è il sentimento di essere forti: è la paura di essere deboli.
In Mein Kampf , questa paura, questo senso di inferiorità, questo senso del pericolo incombente, sono espliciti. Il motivo per cui bisogna dominare gli altri è il terrore che altrimenti ne saremo dominati. Il motivo per cui preferiamo combattere che collaborare è che siamo spaventati dalla forza degli altri. Il motivo per cui bisogna chiudersi in un’identità, un gruppo, un Volk, è per costruire una banda più forte delle altre bande ed esserne protetti in un mondo di lupi. Hitler dipinge un mondo selvaggio in cui il nemico è ovunque, il pericolo è ovunque, e l’unica disperata speranza per non soccombere è raggrupparsi in un gruppo e prevalere.
Il risultato di questa paura è stata la devastazione dell’Europa, e una guerra con un bilancio totale di 70 milioni di morti. Cosa ci insegna questo? Penso che quello che ci insegna è che ciò da cui bisogna difendersi per evitare le catastrofi non sono gli altri: sono le nostre paure degli altri. Sono queste che sono devastanti.
È la paura reciproca che rende gli altri disumani e scatena l’inferno. La Germania umiliata e offesa dall’esito della prima guerra mondiale, spaventata dalla forza della Francia e della Russia, è stata una Germania che si è autodistrutta; la Germania che, imparata la lezione sulla sua pelle, si è ricostruita come centro di collaborazione e di resistenza alla guerra è una Germania che è fiorita. A me questo insegnamento suona attuale.
Forse ora nel mondo la paura reciproca sta aumentando, non lo so, ma a me sembra che noi siamo i primi ad alimentarla.
Chi si sente debole ha paura, diffida degli altri, difende se stesso e si arrocca nel suo gruppo, nella sua pretesa identità. Chi è forte non ha paura, non si mette in conflitto, collabora, contribuisce a costruire un mondo migliore anche per gli altri. Pochi libri svelano questa intima logica della violenza come Mein Kampf .
«Dopo le molte e più o meno discutibili parole di uomini di buona volontà, è difficile non porsi il problema del "che fare" (senza rimuovere l’essenziale "che pensare")».
Il manifesto, 14 giugno 2016
Come molti sanno Che fare è il titolo di un celebre scritto di Lenin, a sua volta citazione dell’omonimo e forse meno celebre (ma molto più bello) romanzo di Cernyševskij. Un libro-manifesto determinante per la vittoria dei bolscevichi nella rivoluzione d’Ottobre. Ma anche - mi sento di dire - per i tragici disastri che una certa concezione del potere rivoluzionario ha prodotto in seguito. Tempo fa un illuminato dirigente del vecchio Pci ci esortava a concentrarci piuttosto sul che pensare, prima di agire perseverando in antichi errori…
L’interrogativo di quel titolo, con la coorte di dubbi che si porta dietro, mi è tornato in mente leggendo i numerosi interventi maschili che si sono schierati contro la violenza sulle donne, spesso adottando per certi versi, e più o meno consapevolmente, quel «partire da sé» teorizzato e praticato dal femminismo.
Dall’appello pubblicato sabato 11 da questo giornale, agli interventi di Christian Raimo, Nicola La Gioia, Michele Serra, Paolo Di Stefano, per citare solo gli ultimi che ho letto su alcuni siti e quotidiani nazionali (una raccolta si sta formando su maschileplurale.it): in genere mi ha colpito l’opinione, diffusa, che il problema riguardi il persistere di una cultura maschilista del possesso e della forza dalla quale è difficile dirsi completamente immuni.
Ascoltando e leggendo poi altre notizie di questi giorni mi rimbalzava l’idea che un filo rosso, o per meglio dire nero, e sessuato, leghi in qualche modo l’omofobia omicida e terrorista di Orlando ai tumulti degli hooligan di varie nazionalità «europee», ai femminicidi di cui si discute nel bel paese.
Ovvio che dire così espone al rischio di azzerare le enormi differenze che connotano comportamenti violenti tanto distanti nelle modalità, nelle conseguenze, nei contesti, nelle stesse «motivazioni».
Eppure l’ipotesi che qualcosa sia da ricondurre a una incapacità di vivere il proprio corpo e la relazione con l’altro/a radicata nella sessualità maschile così come è codificata in tante culture pur molto diverse, non mi sentirei di escluderla completamente.
C’è chi mette poi in relazione la violenza personale e sociale con gli effetti della crisi economica, e del malessere che crea, esasperato da un sistema «neoliberista» che accentua il narcisismo e l’edonismo solitario.
Un mix deleterio soprattutto per un più fragile equilibrio dell’ex «sesso forte»? Un esito che francamente eviterei è quello di definirsi «vittime» di un sistema di potere di cui riconosciamo la matrice patriarcale. Prima vediamone le connivenze.
Dopo le molte e più o meno discutibili parole di uomini di buona volontà, è difficile non porsi il problema del che fare (senza rimuovere l’essenziale che pensare).
La prima cosa che mi viene in mente è una proposta molto modesta: incontrarsi, mettere a confronto le proprie idee e le proprie esperienze. Non accontentarsi di firmare accorati interventi e appelli.
Un secondo passo può essere interrogarsi - pubblicamente? - su come si agisce e interagisce in ogni contesto, su che cosa e come si desidera: la famiglia e le proprie relazioni affettive, il proprio essere padri (o non esserlo), i luoghi di lavoro, la politica, il sindacato, e il rapporto che viviamo con quel tanto o poco di potere reale che siamo pronti ad ammettere di gestire solo perché uomini.
Fatti e non parole? Ma i fatti possono essere anche nuove parole, se nascono da una diversa pratica di scambio consapevole e condivisa. Tra maschi. E con le donne che desiderassero interloquire.

«. Il Fatto quotidiano online,
Senza soluzione. Così appare il drammatico problema dei migranti, per il quale si passa dal semplicistico “accogliamoli tutti” all’altrettanto semplicistico “aiutiamoli a casa loro”. Ed il problema è sicuramente destinato a cronicizzarsi ed amplificarsi per via dei cambiamenti climatici.
Anche se i mass media non lo dicono, flussi migratori di questo tipo sono già palpabili. Sono i migranti ambientali, altrimenti detti emigranti climatici o eco-profughi, oppure ancora “rifugiati ambientali”, come li definì Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute.
Il Parlamento Ue segnala che 17,5 milioni di persone hanno lasciato il loro paese nel 2014, a seguito di catastrofi correlate al clima e che tali migrazioni hanno interessato soprattutto le regioni meridionali (l’Africa subsahariana), che sono oggi quelle maggiormente esposte agli effetti del cambiamento climatico.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) stima che, entro il 2050, i profughi ambientali potrebbero essere addirittura 200-250 milioni di persone. Ciononostante, manca ancora un riconoscimento giuridico dello status di “profugo” per un migrante ambientale, anche se il predetto parlamento Ue sta valutando tale ipotesi.
Ma domandiamoci: quand’anche ai migranti ambientali fosse riconosciuto lo status di profughi, resterà l’insolubile problema a monte. L’uomo ha ormai cambiato il clima e continua a cambiarlo. Qualche dubbio? Guardate il video della Nasa che, in trenta secondi, mostra il surriscaldamento globale dal 1880 al 2015. Ma non ci saranno solo i migranti ambientali. Ci saranno anche coloro che migreranno a causa delle guerre che nasceranno proprio dall’insorgere degli squilibri ambientali. Un esempio fra tutti, il più classico, le guerre dell’acqua.
In realtà, ci sono già coloro che migrano per via delle guerre connesse con i mutamenti climatici. L’ultimo numero di Altreconomia riporta un articolo sulle conseguenze già in essere dovute alla carenza d’acqua. E l’intervistato, Giorgio Cancelliere, esperto di cooperazione internazionale, afferma che lo stesso conflitto siriano è in parte determinato dalla spaventosa siccità che attanaglia il paese da anni e che costringe a migrare all’interno del paese popolazioni di fede religiosa opposta, con conseguenti conflitti. E rileva altresì come sia pura utopia che buona parte di coloro che fuggono dalla Siria vi possano tornare, a causa della desertificazione dei territori che abitavano.
Fa quindi ancor più mestamente sorridere l'”aiutiamoli a casa loro” dell’esordio di questo post. Lo stesso intervistato ricorda come negli ultimi cinquant’anni ci siano stati in Medio Oriente ben 32 conflitti per l’acqua. In realtà, con l’innalzamento delle temperature su tutto l’orbe terracqueo, l’acqua diventerà sempre più oro blu.
Si stima che, nei prossimi trent’anni, il fiume Giallo e lo Yangtze, il Gange e l’Indo, l’Eufrate e il Giordano, il Nilo e molti altri fiumi soffriranno una riduzione di portata d’acqua del 25-30%, proprio a causa dei cambiamenti climatici. Ed intanto crescerà la domanda di acqua per energia, agricoltura ed usi domestici. Insomma, anche da questo angolo di visuale il futuro non si prospetta esattamente roseo.
«Il riconoscimento di un diritto fondamentale non può dipendere dal numero di soggetti cui quel diritto viene riconosciuto. Per sua natura, un diritto universale non è a numero chiuso». Glistatigenerali online
, 7 giugno 2016 (c.m.c.)
Per la prima volta un giudice italiano riconosce un permesso di soggiorno per fame. Tecnicamente, si chiama ‘protezione umanitaria’, l’ultima carta dei disperati che non hanno le caratteristiche né per lo status di rifugiato né per chiedere il diritto d’asilo. Mai era stata riconosciuta ai migranti economici.
E’ un provvedimento visionario ed emozionante quello del giudice civile di Milano Federico Salmeri che, osserva l’avvocato Eugenio Losco, esperto della materia, “non fa una piega in diritto“. Alti e saldi sono i principi a cui si ancora per accogliere un ragazzo di 24 anni scappato dal poverissimo Gambia: l’articolo 32 della costituzione che riconosce il diritto alla salute inteso anche come diritto ad avere un pasto; la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nella quale si fa diretto riferimento al diritto all’alimentazione; i patti internazionali ratificati dall’Italia che sanciscono “il diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame”.
Per il magistrato, il richiedente “è titolare del pieno diritto ad accedere alla protezione umanitaria affinché gli sia garantito un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia laddove le condizioni economico – sanitarie del proprio paese non consentano un livello sufficientemente adeguato ed accettabile di vita”. Il fondo monetario internazionale, le nazioni unite e wikipedia (citati dal giudice) raccontano di un paese dalle terre infertili dove le famiglie non possono comprare nemmen un pugno di riso.
Questo significa una “protezione di massa umanitaria?”, si chiede il giudice, prevenendo le reazioni alla sua decisione, come quella del leader leghista Matteo Salvini (“sentenza folle”). La sua risposta è: “il riconoscimento di un diritto fondamentale non può dipendere dal numero di soggetti cui quel diritto viene riconosciuto. Per sua natura, un diritto universale non è a numero chiuso”.
Resta chiaro che la decisione di un giudice non vincola gli altri che dovranno pronunciarsi sullo stesso tema, limitandosi a essere un precedente. “Un precedente rivoluzionario – chiude l’avvocato Losco – se pensiamo anche agli immigrati italiani del novecento che scappavano da una povertà meno severa di quella di questo ragazzo”.
Il testo dell’ordinanza del giudice dal sito Melting Pot
«Come 150 anni or sono i giovani del Sud distrussero le proprie vite per fermare l’orrore di una nazione che voleva accettare l’inaccettabile, gli schiavi, le bestie da lavoro, come cittadini».
La Repubblica, 13 giugno 2016 (m.p.r.)
Per ritrovare una strage come il massacro di Orlando per quantità di vite falciate e per la natura scientifica dell’azione omicida, si devono saltare 150 anni e tornare ai “killing fields” della Guerra di Secessione o al massacro dei 168 innocenti nel palazzo del governo a Oklahoma City nel 1995. Il filo spaventoso che lega questi eventi tanto lontani e apparentemente diversi è in realtà lo stesso: è l’odio che diventa rifiuto, che diventa guerra contro coloro che sono, per religione, interessi, valori, cultura, razza, ideologia, faccia, “diversi”.
Se guardiamo da vicino gli attacchi del terrorismo che chiamiamo islamico, dopo l’orrore ineffabile dell’11 settembre 2001, le azioni successive - in Usa come altrove - hanno tutte come protagonisti non “alieni” piovuti da una lontana galassia, un tempo chiama al-Qaeda, poi Stato Islamico (Is) o Daesh. Sono il maggiore della Us Army Nidal Hasan che uccise tredici commilitoni nella base di Fort Hood, i fratelli Tsarnaev che bombardarono la americanissima Maratona di Boston, i coniugi Syed Rizwan Farook e Tashfeen Malik che insanguinarono San Bernardino e ieri Omar Mateen, che ha svuotato un arsenale contro gli ospiti del Pulse di Orlando, una delle più celebri “Cage aux Folles”, di locali preferiti dalla comunità Lgbt.
Tutti questi macellai, si noti, hanno fra loro due cose in comune: sono tutti cittadini americani a pieno titolo, non “illegali”, “clandestini”, “profughi”, nati cresciuti e marinati nel calderone della cultura americana. E gli obiettivi sono tutti luoghi altamente simbolici di come sta evolvendo questa cultura, fra strappi, resistenze e rancori: l’Esercito, i Centri Pubblici e Laici di assistenza, le feste della tradizione patriottica come a Boston, la sempre più diffusa accettazione e dunque normalizzazione della sessualità e dell’amore in tutte le sue manifestazioni.
È dunque una guerra civile, quella che una generazione di nuovi americani con nomi non più anglo, vuole condurre contro il Male che essi, fondamentalisti fanatici o ideologici, dal wahabismo al fascismo, vedono crescere e impadronirsi di un’America pagana e materialista che li manda in bestia, come 150 anni or sono i giovani del Sud distrussero le proprie vite per fermare l’orrore di una nazione che voleva accettare l’inaccettabile, gli schiavi, le bestie da lavoro, come cittadini. E ora vorrebbe riconoscere pari dignità a omosessuali, trans, lesbiche, demolitori di famiglie e di timor di Dio.
Per questo, la guerra al terrorismo interno, che si nasconde e insieme si manifesta sotto bandiere lontane e per questo s’illude di darsi una dignità storica e mistica, sarà lunga e difficilissima da combattere, perché non è una guerra di cannoni e droni fra noi e loro, ma di valori, come fu la Guerra di Secessione del 1860, nella quale si combatté in perfetta buona fede per difendere la libertà immaginaria, la più difficile a cui rinunciare e soprattutto la propria identità di gruppo o di clan.
I criminali di Columbine o di Aurora nel Colorado e la falciatura di gay e lesbiche nel “Pulse” di Orlando nel nome del Profeta - la stessa città dove ieri l’altro fu spenta l’innocua vocetta di una piccola stella del pop da talent show - sono azioni di retroguardia, cruente e pericolosissime, ma di retroguardia, condotte con il volto girato verso un passato che non può mai più tornare, ma che i cultori neonazi dell’America Bianca e i nuovi americani missionari della purificazione morale a colpi di Corano calibro nove continueranno a combattere. È la nuova Mein Kampf 2.0.
Trovano ora per la prima volta anche nei grandi imbonitori della politica ufficiale voci che li incoraggiano a condurre la nuova guerra civile e massacrare, per ora simbolicamente, i nemici, quali che essi siano, di volta in volta. Per rifare l’America Grande per gli obitori e i muri e le Glock calibro 9 per tutti, come vuole Donald Trump.

« .». Corriere della Sera, 13 giugno 2016 (c.m.c.)
Le ultime rilevazioni dicono che l’attrazione verso la Ue è in forte calo nelle opinioni pubbliche del Vecchio Continente. E come potrebbe essere diversamente?Se si guarda l’Europa dal di fuori, ci potrà forse risultare più chiaro che il nostro mito politico ruota attorno a un’idea: il principio della dignità umana come base possibile, insieme, dell’ordine democratico e dello sviluppo economico. Qualcosa che ci distingue tanto dagli Stati Uniti (dove prevale il mito della nuova frontiera e del self-made man ) quanto della Cina (che vive del mito dell’armonia).
Non si tratta solo di un principio astratto. Se si prende una cartina geografica, si può constatare che solo nel Vecchio Continente esiste un sistema universalistico di protezione sociale chiamato welfare . Al di là di tutte le sue inefficienze e insufficienze, è questo il tratto che più ci contraddistingue e di cui dovremmo essere più gelosi e orgogliosi.
Non è dunque per caso che la questione dei migranti sia oggi il punto di tensione più forte che sta attraversando l’Europa. Da una parte, c’è il richiamo a questo nostro principio, messo alla prova in modo drammatico. Dall’altro ci sono comprensibili e legittime preoccupazioni, accentuate dalla mancanza di una chiara linea d’azione comune.
I nostri sistemi politici sono profondamente scossi da questa sfida, che coinvolge dimensioni economiche, politiche, culturali. Al punto che siamo arrivati a costruire muri! E persino nella civile Inghilterra, la gestione dell’immigrazione è uno dei temi caldi della dibattito sulla Brexit. Si può arrivare a dire che proprio la questione storica del migranti sarà il terreno su cui vivrà — dandogli misura, sostenibilità e sensatezza istituzionale — o morirà il progetto politico che sta alla base della Ue. Ma cosa significa questo? Almeno tre cose.
Primo: senza la capacità di tradurre in una forma istituzionale concreta il principio della dignità umana l’Europa non c’è più. Semplicemente perché viene meno la ragione dello stare insieme. Non c’è dubbio che il mutuo vantaggio economico sia un argomento forte. Ma nella storia non si è mai vista una forma politica nascere senza la condivisione di un mito comune.
Secondo: nel momento in cui assume forma istituzionale, il principio della dignità della persona deve fare i conti con la complessità del reale. La riflessione sul welfare — e la sua concreta costruzione istituzionale — è stata storicamente vittoriosa perché ha saputo mostrare che la mediazione tra le esigenze della crescita e la cura delle persone non solo è possibile ma è addirittura vantaggiosa. Oggi sappiamo quanto il welfare sia minacciato dalla crescente pressione della globalizzazione, oltre che per il progressivo invecchiamento della popolazione e la crescita della domanda sanitaria. Tanto che ci poniamo domande sulla sua sostenibilità. Ed è proprio da questa angolatura che la questione dei migranti va ripensata.
Intanto, tenendo conto che le curve demografiche europee sono allarmanti. Il previsto calo della popolazione e il suo invecchiamento nei prossimi decenni saranno il fattore di rischio più importante per la nostra prosperità. Il recupero — da avviare in modo urgentissimo — di un equilibrio migliore passa, almeno in parte, da una corretta gestione del fenomeno migratorio. E poi considerando che il lungo e difficile processo di integrazione dei migranti — un lavoro vero e proprio che richiederà anni — può essere un modo per generare occupazione.
Che è qualcosa di cui in Europa abbiamo molto bisogno. Negli anni 30, per spiegare il senso del New Deal , Keynes sosteneva che l’uscita dalla crisi passava dal ruolo anticiclico della spesa pubblica: arrivando a dire che, se necessario, si dovevano scavare buche per poi ricoprirle. Ovviamente ciò richiede risorse. Ma come è evidente in questi anni di politiche monetarie convenzionali, le risorse finanziarie possono essere anche create ex nihilo . Laddove esiste una volontà politica per farlo e sostenerlo.
In terzo luogo, una politica di apertura e accoglienza non può essere senza misura. Deve rispettare la sostenibilità. Che più che economica è qui di ordine sociale e culturale: l’innesto di persone provenienti da altri mondi è sempre un’operazione delicata e che può facilmente provocare una crisi di rigetto quando non è chiaro il patto di cittadinanza (fatto di diritti e doveri) che si propone ai nuovi arrivati. Negli anni scorsi si è parlato tanto di identità europea. Spesso solo retoricamente. Ma l’identità si costruisce — culturalmente e istituzionalmente — solo in rapporto all’esperienza, alla vita.
Per questo la crisi migratoria — che l’Onu avverte è destinata a durare molti anni essendo una conseguenza di medio termine del grande salto storico rappresentato dalla «globalizzazione» — costituisce per l’Europa il terreno di gioco su cui si forgerà la sua identità futura.
A partire dalla capacità di fare del principio della dignità della persona umana la base di nuovi assetti istituzionali. Ma anche dell’identità che vogliamo dare all’Europa. Dalla storia che vogliamo scrivere. Quella dei migranti è cioè il principale banco di prova per dire cosa è l’Europa e quale tipo di società politica vuole essere. Sempre ammesso che una tale aspirazione stia nella testa e nel cuore degli europei .

. Il Fatto quotidiano, 13 giugno 2016 (c.m.c.)
“La riforma crea una democrazia di investitura, quella di un leader e del suo programma”. Così sintetizza uno dei motivi del “No” Mario Dogliani, professore di diritto costituzionale tra i firmatari dell’appello dei 56 costituzionalisti contro le modifiche alla Carta. Lo ha detto ieri al cinema Eliseo di Torino al “Referendum Day”, un incontro del comitato piemontese “Salviamo La Costituzione”, presieduto da Antonio Caputo.
Oltre a loro due in molti sono intervenuti per esprimere il parere contrario alla riforma voluta dal governo Renzi: il professore ed ex partigiano Gastone Cottino, l’ex segretaria nazionale di Magistratura democratica Rita Sanlorenzo, il filosofo politico Maurizio Viroli e il direttore del Fatto Marco Travaglio. “Con questa riforma ci privano di una parte importante del potere sovrano, ci privano della possibilità di eleggere i parlamentari. Le leggi verranno imposte dall’alto ”, ha detto Viroli, professore di filosofia politica (e opinionista del Fatto).
Insomma, secondo lui si contraddirà l’articolo 1 della Costituzione, secondo cui “la sovranità appartiene al popolo”: “Saremo meno cittadini e più sudditi”. Per Rita Sanlorenzo, ex segretaria nazionale di Magistratura democratica, la riforma non tiene conto delle considerazioni della minoranza, facendo venire meno la “casa comune, un patto che unisce tutti, senza uno che vince e l’altro che perde senza possibilità di opporsi”.
Per lei “Renzi dovrebbe pensare quello che potrebbe succedere quando l’attuale maggioranza si troverà in minoranza”. “Siamo ormai quasi al termine della raccolta firme – ha dichiarato Caputo -. Abbiamo voluto fortemente allestire un nuovo momento di partecipazione e di confronto per poter spiegare ai cittadini quanto queste riforme mettano in pericolo la democrazia”.
Pubblichiamo parte della lettera che Mimmo Calopresti ha inviato per l’appuntamento di Torino sul No al referendum di Ottobre in difesa della Costituzione.
"In tutto questo mio muovermi, affaccendarmi alla ricerca di qualcosa che abbia senso raccontare, mi accorgo che scompare sempre di più qualcosa intorno a noi senza che noi quasi ce ne accorgiamo. I negozietti sotto casa, il senso di appartenenza, le classi sociali e il ceto medio, le periferie perdono visibilità, il lavoro perde centralità, perché non c’è; i pensionati, perché in pensione non si andrà più e scompaiono i servizi sociali, scompaiono i bambini in un paese senza nascite, la ricerca e le università soffrono e così scompaiono gli studenti.
Sento dire da tempo che abbiamo la montagna del debito che ci soffoca e allora non abbiamo soldi e posto per tutti nella società, si fanno sparire i problemi si pongono obbiettivi sempre più lontani, la crescita diventa una priorità allora bisogna far fuori tutti quelli che pongono problemi e sono un costo: il capo e suoi amici devono lavorare.
Mi sembra che si stia esagerando, non son importanti i risultati elettorali qualunque essi siano ci dicono, non si capisce perchè. È imporre la riforma elettorale che è importante, l’Europa ci guarda e voi professoroni, siete vecchi e noiosi. Ritiratevi. E i sindacati che la smettano di porre problemi.
È impossibile andare avanti così. Noi vogliamo cominciare a dire no a questo potere politico sovrumano, che non vuole neanche che ci sforziamo di votarlo, si è imposto e dobbiamo solo assentire. Dobbiamo cominciare a resistere come fecero un pugno di ribelli nell’Italia fascista: decisero contro tutti, anche contro la maggioranza, che avrebbero detto basta a quel baraccone che Mussolini aveva messo in piedi.
E così che siamo arrivati a quella che viene definita la Costituzione più bella al mondo. Mi sono fermato a riflettere su questo imperituro bisogno per il Paese di fare il più in fretta possibile la riforma costituzionale e poi una legge elettorale che permetta a qualcuno di andare alle elezioni con una legge che consentirà a un premier di avere la possibilità di governare senza troppe scocciature e impedimenti. NO. Mi sono informato e ho deciso che al referendum costituzionale voterò NO, e in questi mesi d’impegnarmi per riuscire ad arrivare alle famose urne per vincere.
Far vincere le ragioni del No. Non mi piace in nessuna parte. A essere radicali sarebbe stato meglio abolirlo il Senato e invece no si continua nella direzione dei nominati, non degli eletti, si va avanti per controllo di gruppi di persone nella logica del capo bastone, e così come si fa’ ormai nella politica italiana dove si elegge poco e si nomina molto. Si promette molto e si mantiene poco. Ci si sovraespone per coprire il vuoto. Il NO è un atto di resistenza."
Con la ripresentazione del libro di Adolf Hitler da parte del quotidiano della famiglia Berlusconi si è giunti «a uno dei punti terminali del revisionismo: siamo passati dalla constatazione filosofica della banalità del male, alla sua deliberata, volontaria e più sconcertante banalizzazione».
Il manifesto, 12 giugno 2016
Nel 1949 uno studioso francese diede alle stampe Les grandes ouvres politiques. De Machiavel à nos jours, un manuale che presentava 15 opere, la prima delle quali era Il Principe machiavelliano, l’ultima, Mein Kampf di Adolf Hitler. Una scelta singolare, che appariva ancora più bislacca, nel titolo della edizione italiana, Le grandi opere del pensiero politico.
Eppure quel libro, adottato in molti corsi universitari, fino a pochi anni or sono, anche per la sua relativa semplicità espositiva, ebbe enorme circolazione. Certo, ancor prima di soffermarsi sul contenuto, era a dir poco discutibile che tra le «grandi opere», si inserisse un testo farraginoso, confuso, privo di qualsiasi coerenza espositiva, e anche di originalità.
L’autore, che lo vergò [Adolf Hittler] dopo breve detenzione, dopo il fallito colpo di Monaco nel novembre ’23, non faceva che rimasticare teorie razziste diffuse in Europa dal tardo Ottocento, mescolandole a ricordi autobiografici, e a bizzarre «folgorazioni», come quella che nasceva dalla constatazione della ebraicità di Karl Marx, e dunque il bolscevismo marxista, era una sola cosa con l’ebraismo, colpendo l’uno si colpiva l’altro…
Un testo che, anche dopo che fu aggiustato a fini editoriali, appare di disarmante rozzezza, ma pieno di tossine velenose. Un campionario di scemenze rivestite, talora, di «scienza», talaltra semplicemente condite in intingolo politico che raccoglie i risentimenti di classi medie e classi popolari frustrate, economicamente e psicologicamente, dalla sconfitta della Germania.
Il libro fu il vademecum nazista e fu imposto ovunque nel Terzo Reich, con milioni di copie diffuse, e spesso vendute, con relative royalties incassate dall’autore. Poi venne la damnatio del Secondo dopoguerra, anche se l’opera ha continuato a circolare un po’ ovunque, in circuiti semiclandestini o, in molti paesi, liberamente.
Della «Mia battaglia» (ecco il significato dello stentoreo titolo tedesco), sono in circolazione diverse edizioni italiane. Da poco, essendo scaduti i diritti (70 anni dalla morte dell’autore), detenuti dal Land della Baviera, è stato annunciato un ritorno del testo originale negli scaffali in Germania (dove era vietato), e, anche altrove, grazie a un’edizione critica, che si annuncia filologicamente ineccepibile.
L’annuncio aveva suscitato immediato dibattito, sia pure di alto livello, mentre davanti all’attuale distribuzione dell’opera hitleriana con il Giornale le polemiche appaiono di basso profilo.
Si tratta innanzitutto di un’operazione commerciale (le copie del quotidiano a metà mattina erano esaurite nelle edicole da me battute…); anche se il significato politico-culturale è fuori discussione, i commenti di dirigenti del Pd che hanno denunciato l’azione «elettoralistica» di Sallusti & C., per far votare i candidati «estremisti» contro quelli del partito renziano suonano grotteschi. Se perderanno, sarà dunque colpa di Hitler? Qualcuno tra costoro non ha mancato di evocare lo spettro penale: sorvegliare e punire, insomma.
Precisato che, a differenza di quanto è stato detto alla vigilia, il libro non era «omaggio» ma a pagamento, inquieta comunque che un quotidiano si sia preso la briga di inaugurare una collana editoriale con siffatta perla.
Personalmente, forse anche sulla base della mia professione di studioso di idee politiche, ritengo ovvio che si possa leggere Hitler; ma non come gadget di un quotidiano di informazione; che al Giornale se la cavino asserendo che il loro retropensiero sarebbe attivare i controveleni rispetto al nazifascismo fa sorridere.
Perché quel giornale, non certo da solo, da anni alimenta razzismo e intolleranza, diffidenza o addirittura odio per lo straniero: e fa specie dunque, che quel giornale (che del revisionismo storico ha fatto una linea di condotta, contribuendo a «normalizzare» il fascismo) distribuisca oggi un testo che se la prende, guarda caso, con «gli sporchi stranieri». E l’ebreo, era per Hitler, il più sporco degli «stranieri», e andava eliminato, in un modo o nell’altro. Auschwitz è in nuce in quel testo.
Siamo ora giunti a uno dei punti terminali del revisionismo: siamo passati dalla constatazione filosofica della «banalità del male», alla sua deliberata, volontaria e più sconcertante banalizzazione.

«La Repubblica
, 12 giugno 2016 (c.m.c.)
SUI maschi che uccidono o sfregiano la femmina che li rifiuta (con lo scopo, lucidamente feroce, di renderla “inservibile” ad altri maschi) si esercitano molto le discipline psicologiche, criminologiche e antropologiche, come è utile e anzi indispensabile che avvenga. Ma credo — e lo dico da maschio — che su quella rovente, tremenda questione, non si eserciti abbastanza la parola politica.
Al netto dei materiali psichici complessi e oscuri che ci animano, molti dei nostri comportamenti sono determinati dalle nostre convinzioni e dalle nostre idee. Ciò che siamo è anche ciò che vogliamo essere. O che tentiamo di essere. Se non rubiamo non è solamente per il timore della punizione, o perché non ne abbiamo la stretta necessità economica. È perché abbiamo ripugnanza etica del furto.
Quando ero ragazzo, negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, si è decisamente sopravvalutato il potere che le convinzioni e le idee potessero esercitare sulla nostra vita; vita quotidiana compresa. “Il privato è politico”, si diceva allora, volendo significare che ogni nostro atto, anche domestico, anche invisibile alla Polis che tumultuava e rumoreggiava sotto le nostre finestre, avesse valore pubblico e producesse il suo effetto politico.
Era una forzatura ideologica che l’esperienza provvide, per nostra fortuna, a sdrammatizzare e infine a diradare, facendoci sentire un poco meno “responsabili del mondo” almeno dentro i nostri letti, un poco meno sottomessi al Dover Essere ideologico. Vennero scritti libri e girati film sulla presuntuosa goffaggine che pretendeva di avere instaurato, in quattro e quattr’otto, libertà di costumi e liberalità di sentimenti. Non erano così facilmente arrangiabili, i sentimenti e gli istinti, alle nuove libertà. Non così addomesticabili il dolore inferto e subito, l’abbandono, la gelosia.
Ma la decompressione ideologica dei nostri anni è funesta in senso contrario. Le idee, che a noi ragazzi di allora parvero fin troppo determinanti, oggi vagolano in forma di detriti del passato oppure di scontate banalità. Hanno perduto molto del loro appeal: in positivo, perché è finita la sbornia ideologica, ma anche in negativo, perché molte fortissime idee hanno perduto la loro presa sul discorso pubblico, impoverendolo e istupidendolo.
Per esempio l’idea - e veniamo al punto - che la donna appartenga a se stessa (“io sono mia”), che la sua persona e il suo corpo non siano mai più riconducibili alle ragioni del patriarcato e del controllo maschile. Se c’è mai stata, al mondo, un’idea rivoluzionaria, è quella: ribalta una tendenza millenaria, smentisce spavaldamente la Tradizione, muta la struttura sociale perfino più radicalmente di quanto la muterebbe la sovversione della gerarchia padrone-operaio. Perché non se ne sente più l’eco, di quello slogan così breve e di così implacabile precisione? Forse perché lo si dà per scontato (non essendolo!); forse perché nessun “principio” assoluto riesce più a ottenere credito in una società smagata, relativista più per sfinimento che per cinismo.
Eppure, volendo ridurre all’osso la questione del femminicidio, è proprio l’ignoranza o il rifiuto maschile di quel principio - io sono mia - il più evidente, perfino il più ovvio di tutti i possibili moventi. No, tu non sei tua, tu sei mia. Il mio bisogno è che tu stia con me, e del tuo bisogno (non stare più con me) non ho rispetto, o addirittura non ne ho contezza. Tu esisti solamente in quanto mia; in quanto non mia, esisti talmente poco che cancello la tua vita.
Certo, la stratificazione psichica è profonda, cause e concause si intrecciano, paure e debolezze si sommano producendo, nei soggetti più sconquassati, aggressività e violenza. Ma il “via libera” all’aggressione, alla persecuzione, allo stalking, al delitto scatta anche perché nessuna esitazione “ideologica” interviene a soccorrere il carnefice, nessuna occasione di dibattito interno gli è occorsa, a proposito di maschi e di femmine.
Politica e cultura (ovvero: il processo di civilizzazione) esistono apposta per non abbandonare la bestia che siamo alla sua ferinità e ai suoi istinti, regolando in qualche maniera i rapporti sociali, rendendoli più compatibili al bisogno di incolumità e dignità di ogni persona. Questo non esclude, ovviamente, che ci siano stalker e aguzzini di buona cultura e di idee liberali. Ma è l’eccezione che conferma la regola: costumi e comportamenti di massa sono largamente influenzati, e sovente migliorati, dalla temperie politica e culturale dell’epoca.
È nell’Italia rinnovata e modernizzata degli anni Sessanta che la contadina siciliana Franca Viola si ribella al ladro del suo corpo e pronuncia, entusiasmando milioni di spiriti liberi, il suo semplice ma inequivocabile “io sono mia” prefemminista e presessantottino, con la mitezza luminosa di una Lucia aggiornata che rimette al suo posto il donrodrigo di turno. È sempre in quell’Italia che, con fatica, si arriva finalmente a mettere in discussione l’obbrobrio giuridico del “delitto d’onore”, che verrà finalmente cancellato vent’anni dopo. Ed è a livello popolare, mica solo nei “salotti”, è nel profondo della società che quei fermenti circolano, quelle discussioni si animano, quei confitti indirizzano il senso comune.
Non so quanto dipenda dalla mia storia psichica o dalle mie attitudini caratteriali il fatto che io non abbia mai alzato un dito su una donna. Ma so per certo che dipende in buona parte, per dirla molto banalmente, dalla mia volontà di non farlo; dalla mia educazione e dall’esempio ricevuto in famiglia; dalle mie inibizioni culturali, che mi fanno considerare indegna e vile la sopraffazione dell’altro; infine, e non ultimo, dalle mie convinzioni politiche, che mi conducono fortemente a credere che la libertà delle donne sia condizione (forse la prima condizione) della libertà di tutti.
Come disse a milioni di persone, con la sua ruvidezza a volte così necessaria, Luciana Littizzetto al Festival di Sanremo di qualche anno fa, «chi picchia una donna è uno stronzo». Poi, certo, è soprattutto di aiuto, di assistenza e perfino di pietà che hanno bisogno anche gli stronzi, soprattutto gli stronzi. Ma la prima domanda da porre, al femminicida in carcere o in altro luogo di recupero e cura, è sempre e solamente una, semplice, facile da capire, ineludibile: ma non lo sapeva, lei, che le donne non sono di sua proprietà? Non glielo aveva mai spiegato nessuno?
Il manifesto, 12 giugno 2016
La Commissione europea ha presentato nei giorni scorsi al Parlamento europeo la sua proposta sulla gestione delle relazioni con i paesi terzi in materia di gestione dei flussi migratori. Com’è già accaduto più volte in questi ultimi mesi, leggiamo fiumi di parole che denotano interesse per le vite umane e per le vittime dei naufragi, dichiarazioni di impegni condivisi dai governi e dalle istituzioni dell’Ue sull’accoglienza. Le proposte concrete però vanno esattamente nella direzione opposta.
Il modello proposto trae ispirazione dal vergognoso accordo con la Turchia e dal
Migration Compact del nostro presidente del Consiglio. Si punta cioè, come più volte ci hanno spiegato, a scambiare aiuti economici e sostegno politico ai governi dei paesi d’origine e di transito (qualunque sia il tipo di regime), con politiche di blocco dei flussi. Si tratta cioè, come già abbiamo denunciato, dell’esternalizzazione delle frontiere e dei controlli dei flussi migratori verso l’Unione europea.
Il cinismo caratterizza l’analisi e soprattutto le proposte: salvare vite umane e gestire i flussi in maniera ordinata, si ripete più volte. In che modo? Regalando miliardi, come già fatto con Erdogan, ai tanti come lui in giro per l’Africa. Chiedendo loro, in cambio, di fermare le persone che scappano proprio dalla violenza dei regimi con i quali intendiamo fare accordi.
È il caso dell’Eritrea di Isaias Afewerki (presidente dal 1993), del Gambia di Yahya Jammeh (presidente dal 1994), dell’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi (quel campione dei diritti umani che tutti conoscono). La lista dei paesi è lunga: Algeria, Egitto, Eritrea, Etiopia, Costa d’Avorio, Gambia, Libia, Ghana, Guinea, Mali, Marocco, Senegal, Niger, Nigeria, Senegal, Sudan.
Insomma, il progetto è ambizioso e il quadro è molto chiaro. Utilizzare fondi per lo sviluppo come arma di ricatto verso i paesi di origine e di transito: chi più si riprende le persone espulse e meglio coopera al controllo dei flussi migratori, più risorse riceverà.
Invece i paesi che non si impegneranno a fare i gendarmi dell’Europa saranno penalizzati, con una sorta di sistema a punti. Quella che una volta si chiamava cooperazione allo sviluppo, solidarietà tra i popoli, si trasforma in sostegno ai governi e al loro potere, condizionato dal rispetto delle indicazioni che i governi dell’Unione europea e la Commissione daranno in materia di gestione dei flussi e delle frontiere. Fermare il maggior numero di persone che scappano. Se riescono a passare i loro confini, bloccarli nei paesi di transito. Se non muoiono dopo le torture e le violenze dei trafficanti (in Libia e non solo), rimandarli indietro, con il consenso di questi governi. Non c’è che dire, un vero capolavoro da grandi statisti!
Pericolosissimo anche il dialogo che si vuole aprire con una Libia dilaniata dai conflitti, con cui l’Europa conta di fare accordi per il controllo delle partenze usando l’agenzia Frontex. Una proposta coerente con l’atteggiamento che Bruxelles sta tenendo con la Turchia di Erdogan, considerato un esperimento di successo. Con i 6 miliardi erogati in base a quell’accordo, sono stati fermati i siriani che scappano dalle bombe, costringendoli nelle galere turche o rispedendoli in Siria. L’Europa non sta chiedendo al governo turco, a quello eritreo o a quello del Gambia di rispettare i diritti umani e di consentire elezioni democratiche per avere il sostegno dell’Ue.
Al contrario, si sacrificano i diritti umani e qualche secolo di civiltà europea in cambio di una proposta con la quale i governi dell’Unione europea, e la Commissione, pensano, forse, di fermare la frana populista, razzista e fascista che sta travolgendo i paesi del continente. L’esperienza austriaca sta lì a dimostrare che si ottiene esattamente il risultato opposto. Ma per i nostri esimi statisti questo non conta.
Pensano evidentemente di essere più furbi e abili del capo del governo austriaco, che ha dovuto dimettersi per il flop del suo partito alle recenti presidenziali. Tutto ciò sulla pelle di quei bambini, quelle famiglie, quelle persone che, in assenza di canali umanitari, programmi di ricerca e salvataggio, possibilità di vie di ingresso sicure e legali, dovranno pagare sempre di più e rischiare sempre di più. E aumenteranno inesorabilmente, visto che verranno foraggiati e rafforzati proprio quei governi da cui fuggono.

«» . La Repubblica,
12 giugno 2016
Ho sempre trovato a suo modo struggente un aneddoto che riguarda gli ultimi anni della vita di Freud riportato dal suo biografo Ernst Jones. Invitato in una prestigiosa università americana a tenere una conferenza in presenza delle maggiori autorità accademiche, mentre stava tenendo il proprio discorso il padre della psicoanalisi veniva costantemente disturbato da una persona tra il pubblico che non tratteneva il proprio dissenso.
A nulla servirono gli interventi del direttore dell’università per calmarlo, al punto che si dovette prendere la misura estrema di allontanare il facinoroso dall’aula. Ma anche fuori dall’aula l’uomo continuava a strepitare disturbando lo svolgimento della conferenza e costringendo il direttore a comunicare a Freud la sua decisione di chiamare la polizia per ristabilire l’ordine. A quel punto Freud stesso intervenne chiedendo al direttore di non procedere in quella direzione, ma di fare rientrare in aula il “dissidente” offrendogli la possibilità di parlare apertamente.
In questo aneddoto troviamo riassunta efficacemente non solo l’etica della psicoanalisi — dare la parola, includere, ascoltare l’Altro che disturba — ma anche una lezione di democrazia politica più ampia: dare la parola e ascoltare l’Altro che disturba significa praticare una faticosa politica di inclusione che non cade nella tentazione del rigetto violento del dissenso.
L’immagine biblica della torre di Babele racconta, tra le altre cose, proprio l’origine della politica come arte della traduzione delle lingue. Nella sua vicenda non è in gioco solo il rapporto tra la superbia degli uomini e l’esigenza di Dio di ribadire contro di essa la sua sterminata potenza. In primo piano, come è stato notato da molti commentatori — da Benjamin sino a Derrida — è il grande tema della lingua e del nome proprio.
Quale è il peccato più grande commesso dai babelici? È quello di voler realizzare la propria impresa escludendo la possibilità di lingue differenti. Essi, infatti, si radunano attorno a un principio forte di identità: “un solo popolo” e “una sola lingua”. Gli uomini della Torre vogliono assaltare il cielo sfidando Dio non solo perché esibiscono la loro ambizione in una spinta ascendente che vorrebbe escludere l’esperienza del limite, ma perché in questo slancio fallico-narcisistico essi vogliono farsi un nome da se stessi.
I babelici sono animati da un desiderio autogenerativo: un solo popolo, una sola lingua, una sola Torre. L’opera incessante di edificazione sembra consegnarsi al culto idealizzato dell’immagine del proprio Io. Costruire la Torre è un modo per generarsi da sé inseguendo un miraggio di autosufficienza. Si tratta di una hybris che viola ogni processo di filiazione. L’esistenza di un solo popolo e di una sola lingua esclude la lingua dell’Altro: l’architettura della Torre esige la compattezza uniforme di una sola lingua e l’idolatria del Nome che si fa da sé. Non è questa una delle cifre più evidenti del nostro tempo? Non viviamo immersi nello sforzo incessante di edificazione del nostro nome proprio? Farsi un nome non è l’imperativo egemone nella concezione occidentale della vita?
Il peccato dei babelici è non aver considerato che l’esistenza di una sola lingua sopprime altre possibilità linguistiche, ovvero altri possibili modi di essere. L’auto-nominazione dei babelici vorrebbe invertire l’atto della creazione attraverso il quale Dio genera gli esseri viventi ciascuno nella propria differenza. La loro spinta alla comunione vorrebbe cancellare il disturbo dell’Altro, il disturbo dell’Altra lingua, del dissenso dell’Altro come, invece, emerge bene dal racconto freudiano.
E quando Dio discende per osservare più da vicino l’opera dei babelici, non può non notare che la loro impresa punta proprio a sopprimere l’esperienza della differenza sulla quale si fonda la Creazione. Per questo egli utilizza lo strumento della pluralità delle lingue confondendo gli uomini della Torre, correggendo la loro illusione della lingua unica. In questo modo costringe gli uomini, come si esprime Benjamin in Angelus Novus, alla «necessità della traduzione», al lutto per una “sola lingua” e un “solo popolo”.
Non si tratta di un semplice castigo ma di un riorientamento: la vita dell’uomo cresce e diviene generativa, capace di democrazia, solo se rinuncia al sogno colonialista di una lingua unica, solo se rispetta il pluralismo delle lingue e la fatica della traduzione.
In primo piano non è il Dio geloso preoccupato nel preservare la sua onnipotenza di fronte all’assalto della superbia dell’uomo, ma l’indicazione preziosa che la vita insieme esclude la comunione,l’immedesimazione, la massificazione, perché “il comune” è sempre costituito da differenze irriducibili. Una comunità non può abolire, diversamente dalla illusione nefasta della comunione, le differenze tra le lingue e tra i nomi propri, non può tendere all’assimilazione uniforme, alla massificazione anonima.
È una indicazione che ritroviamo anche nell’aneddoto di Freud: solo nell’ascolto della lingua dissidente si dà la possibilità di una comunità umana.

Il Fatto quotidiano, 10 giugno 2016
Reti, recinti e fili spinati. C’è chi fa affari d’oro con la serrata anti-immigrati messa in atto da diversi paesi del Vecchio continente: è la European Security Fencing (Esf), del GruppoMora Salazar (nato nel 1975), con sede a Malaga, sulla Costa del Sol.
Dall’Ungheria alla Grecia, dalla Serbia alla Macedonia, dallaPolonia alla Romania, dal Marocco alla Turchia, passando per Ceuta e Melilla, i fili spinati sul territorio europeo hanno tutti un unico commissionario, l’Esf. Sul sito web la stessa ditta spagnola si definisce l’unica in grado di costruire fili di lamine di acciaio inox in tutta Europa. Le cosiddette concertinas.
“Specialisti nella fabbricazione di elementi di alta sicurezza passiva”, è il motto che campeggia sulla home page del sito. E gli affari sono andati così bene che di recente hanno pure aperto una filiale a Berlino. La società offre i suoi servizi a oltre 20 Paesi, europei e non. Tra i suoi clienti ci sono i ministeri degli Interni e della Difesa iberici, la compagnia petrolifera Repsol ma anche laNato. Capaci di fabbricare 10 chilometri al giorno, propongono ogni tipo di rete metallica: “Una vasta gamma di elementi di sicurezza passiva composti da fili spinati a lamina, recinzioni elettrificate, dispiegamento di barriere, dissuasori anti arrampicata e accessori per l’installazione”.
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La speranza per migliaia di profughi di superare i confini ungheresi, ad esempio, s’è infranta davanti a un filo spinato spagnolo commissionato dal presidente Viktor Orbán: 175 chilometri di rete metallica dispiegati lungo la frontiera con la Serbia.
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| non spine, ma lamine d'acciaio. Particolare dal sito della ESF |
Un grande affare per la ditta che, proprio mentre i camion dall’Andalusia partivano alla volta dell’Europa dell’Est, aveva diffuso un festoso tweet: “Da qui al resto d’Europa! Il 100 per cento del filo spinato in Europa proviene dalla nostra fabbrica”. Allora sui social piovvero una valanga di insulti e la ditta fu costretta a chiudere tutti i suoi account. Il modello dentato scelto per la frontiera ungherese è stato lo stesso che tutt’ora s’innalza sul confine iberico di Ceuta e Melilla per impedire il passaggio degli immigrati del Nord Africa, il modello 22. Non è il peggiore delle dieci tipologie che la ditta può offrire ai suoi clienti, ma è classificato per “livelli di sicurezza medio alti”.
Le lame, in questo caso, circa 22 millimetri di lunghezza per 15 di larghezza, sono all’origine della polemica con molte organizzazioni internazionali, compresa l’agenzia Onu per i rifugiati, sulla loro pericolosità per le persone.
L’ultima morte attestata per diretta conseguenza delle lame Esf è stata nel 2009, quando un senegalese è morto dissanguato lungo la linea di confine di Ceuta. Oggi difficilmente la ditta andalusa si sbottona. Il business continua a crescere senza sosta, ma dopo le ultime critiche preferiscono non parlare. Entro l’estate la Bulgariaposerà 146 chilometri di filo spinato lungo il confine con la Turchia, con lo scopo di prevenire l’ingresso illegale di migranti. Lo ha annunciato il ministro degli Interni, Rumyana Bachvarova, a fine maggio.
Probabile che anche questa recinzione arriverà dalla Spagna, ma la risposta dell’azienda iberica è a dir poco laconica: “Per politica di riservatezza non possiamo fornire le informazioni richieste. I nostri clienti fanno gli ordini, ma non sappiamo il loro uso finale”
Il manifesto,
Sin dalla loro nascita ufficiale come componente integrante della Guerra Fredda, nel 1946 a opera del presidente Usa Truman, gli aiuti allo sviluppo sono sempre stati in qualche modo condizionati e condizionanti. Allora, parlando al Congresso, Truman disse che il ruolo americano era quello di portare ogni paese che avesse seguito il suo modello economico allo stesso livello di vita degli statunitensi. Un sogno che si è poi rivelato un incubo per molti.
Nella storia degli aiuti allo sviluppo i periodi più significativi partono dalla cosiddetta «cooperazione tecnica» degli anni ’60, l’idea cioè che una sufficiente infrastrutturazione di quello che allora veniva definito Terzo Mondo, avrebbe portato le nazioni appena indipendenti a un livello di accumulazione del capitale tale da consentire l’avvio di un ciclo positivo, di ricchezza per tutti.
In realtà gli ingenti prestiti forniti a governi, perlopiù dittatoriali, essendo stati eliminati tutti i leader democratici che rimettevano in discussione il modello di sviluppo post coloniale – vedi Lumumba, portarono a due evidenti risultati: costruire infrastrutture funzionali all’esportazione delle materie prime a basso costo, e un indebitamento il cui servizio sarebbe esploso vent’anni dopo consentendo ai donatori di gettare una seria ipoteca sulla sovranità economica e politica di quei Paesi.
Negli anni ‘70 la competizione Est-Ovest fa propendere invece per un approccio più «di base», a causa delle rivoluzioni in Nicaragua, dell’indipendenza di ispirazione socialista delle ex colonie portoghesi e della sconfitta Usa in Viet Nam, nonché dell’inimmaginabile rivoluzione iraniana.
Nascono allora le politiche di cooperazione basate sui «basic needs»: acqua potabile, cibo, prevenzione sanitaria e una attenzione alle zone rurali, allora ancora prevalenti. Tutto questo, funzionale ad «asciugare l’acqua» in cui nuotava il potenziale pesce rivoluzionario, tramonta bruscamente dopo la caduta del muro di Berlino per essere sostituito dagli aiuti condizionati al rispetto dei diritti umani e della democrazia; in concreto un assist ai nuovi governi multi-partitici che in quegli anni scalzavano i residui del socialismo africano e si adeguavano al nuovo corso liberista.
Molte volte i Governi africani si sono lamentati di queste condizionalità che, sotto l’egida dei diritti umani tendevano a profilare forme di gestione privatistica della cosa pubblica che mantenessero inalterate le relazioni tra paesi produttori e consumatori. Prova di questo strumento sono anche le varie «rivoluzioni arancioni» in Europa o la situazione di alcune democrazie popolari in America latina.
Adesso, ultimo ma non per importanza, arriva nel Migration Compact, ove risulta centrale la condizionalità inerente alla gestione dei flussi migratori.
È una ennesima evoluzione, o involuzione, dunque, di prassi molto ben consolidate nel tempo, e che ha mostrato la sua indubbia efficacia nel condizionare le politiche estere e interne di interi continenti.
In particolare la sottolineatura sul ruolo del settore privato la dice lunga su cosa rischiano di essere queste politiche di aiuto alla gestione dei flussi migratori: un’ulteriore messa a punto delle divisione internazionale del lavoro, operata dalle stesse multinazionali che hanno deciso che i «veri» diritti umani non sono quelli universali ma solo quelli di chi se li può comperare.
Dunque bisognerà vigilare su cosa realmente sarà proposto e soprattutto riproporre come criterio di valutazione e di efficacia quello dell’equità e della democrazia economica nei Paesi di emigrazione, onde evitare che la crisi dei migranti diventi, ancor di più, un’occasione per restringere le libertà su scala planetaria in nome della sicurezza delle frontiere europee.
Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2016 (p.d.)
Non so, onestamente, se mi colpisce di più la ferocia con cui Regeni è stato ucciso, e soprattutto, la normalità di questa ferocia, o il silenzio dell'Italia. Da una parte, alti funzionari che discutono di come sbarazzarsi di un cadavere come se stessero sbrigando una pratica qualsiasi: ma dall'altra, niente. Se Giulio Regeni fosse stato un turista, uno di quelli che si ruba la tartaruga protetta, il pezzetto di piramide, saremmo stati tempestati di telefonate del console. E invece no. Dall'Italia silenzio totale”.
La ricomparsa dell’Anonimo
Nelle indagini sull'omicidio di Regeni, il ricercatore friulano ritrovato morto al Cairo il 3 febbraio, è comparso un nuovo Anonimo: e il suo racconto coincide con quanto ricostruito al Fatto Quotidiano da Amr Darrag, leader dei Fratelli Musulmani in esilio a Istanbul, che per primo aveva ipotizzato una faida tra Servizi segreti. Se il primo Anonimo, infatti, aveva rivelato che Regeni era stato ucciso perché ritenuto una spia, e non certo rapinato, come maldestramente sostenuto dalle autorità egiziane, il nuovo Anonimo spiega ora più in dettaglio come Regeni sia stato rimpallato tra National Security e Military Intelligence, e infine torturato a morte da quest'ultima. Con la National Security, però, che incaricata di disfarsi del corpo, gli lascia intenzionalmente accanto una coperta di quelle in uso all'esercito: una sorta di firma. Per trasformare quel corpo in un mezzo di ricatto.
“Non immaginavo che Regeni fosse stato seguito dal giorno del suo arrivo al Cairo”, dice adesso Amr Darrag. “D’istinto ho pensato: questo è un regime che non lascia scampo. Ma invece è il contrario. Questo omicidio non è il segno di un regime forte, saldo, ma di un regime che pedina tutti. Che ha paura di chiunque”.
Il regime di Mubarak, dice, non era affatto così. “Molti sono convinti che in Medio Oriente uomini come Al-Sisi, o peggio, come Assad, siano l'unica garanzia possibile di stabilità. Sono convinti che qui lo Stato, altrimenti, crolla. Ma poi leggi l'Anonimo e scopri che Abbas Kamil, che è come dire Al-Sisi, perché è il suo capo di gabinetto, convoca il ministro dell'Interno per sostituirlo e si sente rispondere che se solo ci prova, finisce anche lui in carcere per l'assassinio di Regeni. E questa sarebbe la stabilità? Questo groviglio in cui sono uno sotto il ricatto dell'altro? A leggere l'Anonimo, lo Stato in Egitto è già crollato. Quali che siano gli interessi che volete tutelare difendendo Al-Sisi, e che certo non sono i nostri di egiziani, questo non è un regime: questo non è il fascismo, con i treni che arrivavano in orario, questa è Gomorra”.
Solo affari, niente critiche
E però niente, dice: l'Italia tace. Tra i Paesi europei è il primo partner economico dell'Egitto, terzo al mondo dopo Stati Uniti e Cina, potrebbe mettere in riga Al-Sisi subito: e invece tace. “E infatti l'Anonimo è riapparso. Evidentemente pensavano che se vi avessero fornito un po' di indizi, se vi avessero un minimo instradato, non avreste avuto più scuse per non agire. Ma niente. Persino l'Anonimo non si aspettava tanto cinismo. E credo non sia propriamente uno stinco di santo”.
La sensazione, dice Amr Darrag, è che gli investigatori italiani siano stati lasciati soli nel ginepraio del Cairo. A scapito di quella che definisce la verità politica. “Perché questo non è un semplice omicidio, qui non è questione di trovare l'assassino. L'esecutore materiale. Quello che conta, qui, è la catena di comando. Qui non c'è solo un movente, c'è una prassi”, dice. “E limitarsi a cercare un assassino che probabilmente non si troverà mai è un modo molto sottile di insabbiare tutto”. Lasciare, cioè, gli investigatori a inseguire un obiettivo irraggiungibile.
L’Eni e la scommessa del giacimento Zohr
Nelle ultime settimane, la repressione al Cairo si è ulteriormente intensificata. Ormai quasi la metà della popolazione è sotto la soglia di povertà, gli egiziani sono tornati a imbarcarsi verso l'Europa e a morire in mare. Il regime ha risposto alle manifestazioni con retate preventive. Ma per la prima volta, segmenti significativi degli apparati di sicurezza non sono intervenuti, schierandosi, di fatto, contro Al-Sisi. In questo, in effetti, il suo regime somiglia a quello di Mubarak: nei giorni della sua fine. Tutto questo, tuttavia, non sembra impensierire l'Eni, che continua a pompare gas. Il giacimento Zohr, scoperto pochi mesi fa al largo di Alessandria, è uno dei più vasti al mondo. La presenza di gas nell'area era nota da anni ma nessuno si era avventurato a estrarlo. Forse un errore di valutazione. O forse, il timore di un rapporto con l'Egitto, un paese a corto di energia: e che al momento, non paga le sue bollette.
“Avevamo un debito di 9 miliardi di dollari con i nostri fornitori di gas, ridotto negli ultimi mesi a tre”, dice Amr Darrag, che con Mohamed Morsi al potere è stato ministro proprio dello Sviluppo economico. “Ma è stata l'Arabia Saudita a pagare per noi, e ora l'Arabia Saudita è in crisi per via del crollo del prezzo del petrolio. Non può più aiutarci. La nostra economia è ferma: non siamo strutturalmente in condizione di pagare. Né il gas né nient'altro. E a sentire Khaled Abdel Badie, l'amministratore delegato di Egas, tutto il gas sarà venduto al
l'Egitto”.
Si tiene al potere Al-Sisi per farci affari? O forse, al contrario, si fanno affari con Al-Sisi per tenerlo al potere? “Quello che è certo, per ora, è che Al-Sisi si aspetta il gas. E per quella che è la nostra esperienza, non ama essere contraddetto”.