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Il Fatto Quotidiano online, 30 giugno 2016 (c.m.c.)

«Come è possibile che alcuni uomini non si rendano conto di quanto è terribile e diffusa la violenza sessista, a cominciare dalle parole che si usano e dalle battute ‘divertenti’, nei social come nella vita reale, e di come in molti siano conniventi quando la incrementano minimizzandola?» L’amica blogger Nadia Somma fa questa domanda durante una conversazione, e nella mente rimbalza la parola ‘ignoranza’.

Tempo fa avevo letto il concetto di ‘ignoranza emotiva’ per definire la condizione di quella considerevole fetta di uomini educati a ridimensionare, se non a considerare estranee dalla loro maschilità, i sentimenti, le emozioni e l’empatia. Non solo verso le donne, ma in generale, verso il mondo. Uomini interconnessi, contemporanei e tecnologici, ma primitivi e ferini nella sfera relazionale. Capaci di motivare i ‘raptus’ stupratori e il femminicidio ricorrendo al concetto di ‘istinto’, descrivendo la virilità come uno status che può andare fuori controllo: «Lei ti fa infuriare, non ci vedi più e partono le sberle», come detto nella felice sintesi del bel video della campagna di Intervita ‘Servono altri uomini’.

Ecco: la lotta contro l’ignoranza è davvero uno dei concetti più importanti nella battaglia contro la violenza di genere.

L’esperienza forte, (e fisica), dell’ignoranza letterale, quella dell’analfabetismo, l’ho fatta quando sono andata per la prima volta in un campo rom, a Genova, una quindicina di anni fa. Fui l’unica tra le madri dell’allora scuola elementare frequentata dal mio figlio più grande, a conoscere di persona le madri di alcuni suoi compagni e compagne di classe appartenenti alla comunità Sinti del campo del mio quartiere. Erano donne tutte molto più giovani di me, tutte analfabete, come mi disse la mediatrice culturale che mi aveva accompagnata lì. Non avevo mai conosciuto nessuno che non sapesse né leggere né scrivere, perché nemmeno le donne e gli uomini anziani della mia famiglia d’origine, contadini poveri dell’entroterra ligure, lo erano.

Le elementari, nel piccolo paese sulle alture della Valfontanabuona dove sono cresciuta, erano tutte insieme nell’unica stanza di una costruzione fatiscente, ma comunque c’erano; nonna, nonno e zie, pur avendo come fonte prioritaria di lettura l’allora assai pittoresca versione di Famiglia Cristiana sapevano leggere, scrivere e fare di conto, come si diceva una volta.

Nei primi anni del nuovo secolo, in Italia, in una grande città del nord l’incontro con donne giovani sprovviste di strumenti culturali di base come la lettura o la scrittura è stato uno shock. Ho provato, senza riuscirci, a immaginare la mia vita priva della possibilità di leggere e scrivere, due attività che diamo per scontate nella nostra quotidianità. E’ infatti anche, (e soprattutto), attraverso la lettura e la scrittura che l’umanità diverge dal resto degli esseri viventi: ciò che chiamiamo “cultura” è apprendimento di quanto altri umani producono scrivendo e scambiando sapere, emozione, senso critico.

La premio Nobel, avvocata e femminista Shirin Ebadi si è chiesta come possa una donna che non ha fatto esperienza per sé della libertà passarla alle figlie che partorisce, e questo è tanto più vero quanto poco, o nulla, quella donna ha a disposizione dal punto di vista culturale. Alla base della libertà di un essere umano ci sono i diritti universali, che sono impossibili da ottenere se non si sa leggere e scrivere.

Mi chiedo se la lotta contro la violenza alle donne, il sessismo, l’omofobia e ogni forma di odio non debba essere combattuta considerando una priorità la lotta contro la forma occulta e pericolosa di analfabetismo, quello che genera l’ignoranza emotiva di molti uomini, del quale la nostra cultura è imbevuto quando si tratta di educazione al rispetto tra i generi. Qui non si tratta più di saper leggere e scrivere: qui si tratta di alfabetizzare alle emozioni, all’empatia, alla relazione e al rispetto. Una lotta non meno dura come quella che si è fatta, e che ancora si deve fare, per dare a ogni essere umano gli strumenti per uscire dall’analfabetismo materiale.

Me ne convinco sempre di più quando giro l’Italia per incontrare gli uomini, (e chi li invita a far parte dell’esperienza), che partecipano a "Manutenzioni-Uomini a nudo" laboratorio di teatro sociale per uomini contro la violenza di genere. Credo che non ringrazierò mai abbastanza Ivano Malcotti, l’autore teatrale tra i primissimi lettori del libro "Uomini che odiano amano le donne" dal quale la piece è tratta, per avermi suggerito di lavorare con lui alla scelta delle frasi più significative tre le 1800 arrivate in risposta a sei domande sulla sessualità.

Negli ultimi tre anni ho conosciuto 200 uomini che hanno accettato di salire sul palco leggendo, (spesso imparando a memoria), frasi di altri uomini sulla sessualità, la violenza, la virilità, la pornografia, creando un mosaico emozionale mai visto e ascoltato prima. Un antidoto all’ignoranza emotiva fatta di parole maschili condivise nello spazio pubblico, che, per citare Carla Lonzi, è già politica.

E per celebrare questi tre anni ecco alcune delle frasi che compongono l’abbecedario emotivo di "Manutenzioni-Uomini a nudo":

«A volte mi accorgo di vivere in un mondo in cui sembra che il sesso sia la cosa più importante che ci sia. È come avere l’impressione che il sesso sia ovunque: è in rete, è in tv, è in discoteca, per le strade, è nei cartelloni pubblicitari. E poi devi essere un vero maschione… superdotato, superpalestrato, sempre brillante, sempre al 100% e devi aver fatto sesso con molte donne perché altrimenti non vali una mazza. Forse sto divagando! Però il messaggio che mi piacerebbe passare è che il mio desiderio è calato vertiginosamente quando ho avuto la percezione che, per essere normale, dovessi diventare un superman».
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«Cosa provo quando leggo di uomini che violentano le donne? Provo compassione. Per l’uomo, che ha un evidente bisogno d’amore e nessuna consapevolezza di ciò, e per la donna, perché è vittima di un’aggressione che le cambierà la vita».
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«Ricordo che rimasi impressionato dalla notizia di quella ragazza, che viveva nel meridione e fu violentata e uccisa da un branco.
Forse anche io sono un violentatore ma non ho mai capito, come un uomo, che sta di fronte ad una donna spaventata, atterrita, magari piangente, che sta supplicando per la propria salvaguardia, sicuramente dall’aspetto sconvolto, con gli abiti sgualciti dall’atto predatorio,… come un uomo possa avere un’erezion

«La revisione in corso cerca di mantenere la promessa costituzionale, o no? Si può ragionevolmente dire di no: perché essa instaura una democrazia d’investitura». Occorre continuare a ragionare sugli effetti devastanti della riforma.

Libertà e Giustizia, 30 giugno 2016 (p.d.)
Il Presidente del Consiglio ha scatenato il suo plebiscito, convinto di vincere perché pensa di avere contro solo dei piagnoni (la memoria fiorentina gli fa pensare di essere un Lorenzo de’ Medici contro dei Savonarola, i cui seguaci erano detti, appunto, dalla brillante società ultracorrotta del tempo, “piagnoni”).
Che il referendum “confermativo”, o “oppositivo”, si trasformasse in un plebiscito, era ovvio. Ed altrettanto ovvio era che si sarebbe trattato in uno scatenamento – come dice la parola – della plebe. La riforma Renzi è infatti una mossa di antipolitica dall’alto per cavalcare (o meglio, per ingoiare) l’antipolitica dal basso.

1) Con la calma della ragione continuiamo a dire che:

a. La revisione costituzionale cd. Renzi-Boschi (unita alla nuova legge elettorale) è fatta male. E’ malfatta nel senso che, dati (presi per buoni) i suoi fini proclamati, essa è intimamente contraddittoria e, dunque, incapace di raggiungerli.
Aumenterà la sudditanza del Parlamento verso il Governo (il rapporto di fiducia si trasforma in una catena di comando); genererà ulteriori malfunzionamenti nello svolgimento dell’attività legislativa e nel rapporto tra Stato e Regioni; ma, primo fra tutti, genererà una determinazione della politica nazionale avventurosa (più simile a una partita a poker che al coagularsi di un indirizzo politico-sociale maggioritario nella società) e, conseguentemente, una frantumazione delle forze politiche sulla base di motivi egoistici sempre più superficiali, perché sempre più determinata da mosse di corto respiro (di reazione a sondaggi, campagne giornalistiche …), e dunque una loro sempre maggiore subalternità alle pulsioni irrazionali dell’elettorato e dei mass-media, accompagnata, di converso, da una sempre maggiore cecità politico-intellettuale di fronte alle dinamiche profonde del Paese e del contesto internazionale.

b. Il giudizio sulla coerenza e sulla efficacia della revisione rispetto ai fini da essa stessa prefissati non può essere disgiunto dal giudizio su quegli stessi fini rispetto a quelli costituzionalmente stabiliti. Ogni Costituzione è un programma di altissima politica sui profili fondamentali che la società deve raggiungere. Un programma aperto al conflitto, o, se si preferisce, “l’asse della morale politica di un popolo”.
Certi fini (ad esempio perseguire l’onnipotenza nell’esercizio dei diritti di proprietà) sono vietati; altri (ad esempio impedire che sul suolo della Repubblica si possa morire di una malattia curabile) sono obbligatori.
La riforma renderà più agevole perseguire i fini obbligatori, e più difficile perseguire i fini vietati? Il giudizio sulla revisione dipende dalla risposta a questa domanda. Non è dunque possibile una discussione che si esaurisca sul piano tecnico: la congruità dei mezzi rispetto ai fini richiede che contemporaneamente si definiscano criticamente i fini (mantenere o sostituire esplicitamente gli obblighi e i divieti che la Costituzione impone; facilitarne l’attuazione o propiziarne lo scivolamento nell’oblio).

c. La natura del potere democratico è oggi estremamente confusa, e va chiarita; ma la riforma non lo fa.
La Costituzione vigente è fondata sull’assioma ottimistico che il volere del popolo sia “cosa in sé buona”. Caduto il fascismo e il nazismo, sperimentata l’unità ciellenista e quella costituente, si pensava che il popolo si sarebbe risollevato con tutta la sua forza, e con una sostanziale unità d’intenti, dovuta alla condivisione degli stessi problemi vitali, al di là delle divisioni politiche, sostanzialmente esogene. Di qui la scelta del sistema pluripartitico e della legge proporzionale pura come fondamenti dello “Stato di tutto il popolo”.
Il potere politico è dunque – secondo l’idea di democrazia adottata dalla nostra Costituzione – “fatto” di scelte compiute dagli individui intesi come parti del popolo concreto, e dunque delle “formazioni sociali” che lo compongono (alcune volontarie, altre determinate dall’economia o dalla tradizione). Di azione collettiva (dei cittadini “associati”, come dice la Costituzione) e contemporaneamente di azioni individuali, di cittadini come elettori “liberi”, i cui voti si contano, non si pesano. E infine, il potere politico è “fatto” dagli eletti e da tutti coloro che attuano le loro scelte, che dovrebbero agire con disciplina ed onore. La materia di cui dovrebbe essere fatto il potere politico dovrebbe dunque essere solo e soltanto la volontà dei cittadini, e la “disciplina e onore” (che comprende il divieto di vendere, e comperare, i voti) con cui questa volontà viene politicamente tradotta in atti pubblici ed eseguita. Il potere politico, insomma, dovrebbe essere fatto della stessa pasta della democrazia organizzata e delle istituzioni sociali che essa presuppone. Non è l’esito momentaneo di una scelta di gusto e di una delega assoluta. Invece la democrazia d’investitura (non prevista dalla nostra Costituzione) presuppone il potere istituzionale come un potere pre-politico, e cioè progettato, finanziato, finalizzato da qualcuno, nell’ombra, e poi “investito”, scelto, votato, acclamato, con un delega assoluta, da maggioranze irrazionali.
La revisione in corso cerca di mantenere la promessa costituzionale, o no? Si può ragionevolmente dire di no: perché essa instaura una democrazia d’investitura.

2) di carattere finanziario e sovranazionale (crisi del debito pubblico italiano con rischi di contagio a tutta la UE, impennata dello spread, lettera della BCE al Governo) – che hanno portato alle dimissioni del IV Governo Berlusconi, alla formazione del governo Monti, e alla confusa e inedita rielezione del Presidente Napolitano, sono state, per il nostro sistema politico e il nostro assetto costituzionale, unitamente allo zoccolo duro del malaffare e della mala gestio della cosa pubblica, una “Algeria”, che mise a nudo – come reale e tragico – il divario tra volontà popolare e capacità di assumere scelte politiche “buone” (che almeno salvassero il paese tutto dal naufragio).
Conseguentemente, e contemporaneamente, quella crisi manifestò in tutta la sua drammatica evidenza e urgenza la necessità di una politica costituzionale che rafforzasse lo Stato, travolto da una crisi finanziaria che non aveva saputo prevenire e combattere per i suoi antichi mali, ma che al contempo (secondo il pensiero di molti) salvaguardasse la Costituzione del ’47, mettendola al riparo dagli umori populisti che infuriavano in quei tempi.
Che cosa voleva dire? Garantire continuità e stabilità ai Governi, ma senza schiacciare il pluralismo. Solo il pluralismo, e cioè la libertà, rende accettabile il principio (il mito, la finzione …) del popolo buono, perché ciò che è veramente buono non è il “popolo” in sé, ma la libertà, e la saggezza, con cui affronta i suoi conflitti interni senza autodistruggersi (cioè stando dentro le “forme e i limiti della Costituzione”: art. 1 della Cost. italiana).
Ma non tutti hanno creduto in quella drammatica e urgentissima necessità. Senza ripercorrere i tentativi del Governo Letta, fatti abortire, va sottolineato che il presidente del Consiglio avviò – è questo il punto – un procedimento che è stato il contrario di quello che avrebbe dovuto essere un procedimento di revisione costituzionale: il più possibile inclusivo, tale da tendere alla unanimità. L’antico principio, da cui tutti discendiamo: “ciò che tocca tutti sia approvato da tutti” è stato messo sotto i piedi, all’urlo di “Abbiamo i voti!” (distorti dal premio di maggioranza e, ciononostante, insufficienti ad evitare aiuti ambigui). Il disegno di revisione si è caratterizzato fin da subito come un disegno di rottura, sprezzante della tradizione costituzionale italiana e delle sue nobili e straordinarie origini – si è detto, a ragione, “miracolose” (Onida) -, chiuso ad ogni dialogo e insultante verso tutte le voci anche solo dissonanti.
Con questo inizio, il procedimento di approvazione dell’attuale testo è stato obbrobrioso. L’originale “maggioranza riformatrice del Nazareno” si è spappolata; una nuova maggioranza è stata rabberciata con il ricatto e con le negoziazioni sottobanco; il Parlamento, anche grazie alla stupefacente arrendevolezza dei Presidenti delle due Camere, è stato costantemente tenuto sotto schiaffo; e – in questo vuoto di politica – si è andato progressivamente cementando un blocco affaristico-finanziario con contorni inquietanti (fino al riapparire di personaggi della P2) che ha imposto la scrittura del testo che ora ci troviamo a giudicare.
La riforma, di per sé, è essenzialmente un pasticcio. Ma collegata con la legge elettorale crea un meccanismo micidiale per cui l’indirizzo politico sarà la plebiscitazione delle scelte opache compiute da quel blocco (che scioccamente ha ritagliato la riforma su se stesso, come se fosse eterno).

3) Occorre essere chiari: se ci limitiamo a queste critiche, senza interrogarci con spietatezza sulle cause dei nostri antichi mali, e sul perché dell’emergere di “cerchi magici” che privatizzano il potere pubblico, si dà l’impressione che stiamo vivendo in un paradiso che qualcuno vorrebbe farci perdere, da cui rischiamo di essere cacciati. E invece i cittadini sanno bene di non essere vissuti affatto, negli anni recenti, in un paradiso che rischia di essere perduto.
Le nostre istituzioni – politiche ed economiche – sono collassate; e sono collassate alla radice. La conoscenza e l’esperienza di questo collasso è comune; ed è ancora diffusa la consapevolezza dei rischi che la democrazia corre quando si avvita sui propri conflitti interni (Italia del primo dopoguerra, Weimar …).
Per questo è urgente uscire da questo avvitamento impantanato.
Occorre però una risposta più articolata all’obbiettiva verticalizzazione e privatizzazione del potere che il disegno di riforma persegue, e che va giustissimamente criticata per gli squilibri che porta con sé.
Il punto è chiaro: l’epicentro della crisi è il Parlamento. E la causa della crisi è – direttamente – quella dei partiti.
La casa brucia. Ma chi accorre a spegnere l’incendio?
La revisione ha come baricentro la neutralizzazione e l’umiliazione del Parlamento. Di un Parlamento, è vero, che è stato ed è il peggior nemico di se stesso.
In pochi abbiamo cercato di salvare la forma parlamentare. Non ci siamo riusciti. Ne è uscito un ibrido che assomma il peggio del maggioritarismo (il dominio del governo su un parlamento impotente) con il peggio del parlamentarismo (lo spappolamento del parlamento stesso). L’equilibrio dovrebbe invece consistere in una “direzione” del governo su un parlamento forte (e in grado di poterla – in casi gravi, esaurite le possibili mediazioni – rifiutare).
Il nucleo della riflessione che non è stata pubblicamente condotta avrebbe dovuto consistere nel chiarire quali giudizi sulla capacità di rinascita dei partiti siano oggi possibili: quali giudizi siano improntati a cinismo (incentrati sull’inevitabile investitura irrazionale) e quali improntati ad una, politicamente ragionevole, scommessa sulla ripresa della politica organizzata.
Forse difendere la forma parlamentare non è più possibile. Chissà se “tornando allo Statuto” ci saremmo evitati i decenni di fango a cavallo di Otto e Novecento, e il fascismo. Ma proprio questa incertezza (cioè il dubbio che “forse sì”) dovrebbe non impedirci di pensare ad una forma di governo più rigidamente ispirata al principio della divisione dei poteri, e dunque più “accogliente” per il pluralismo politico e per la libertà e dignità parlamentare: una forma di governo cioè che non trasformi il rapporto di fiducia in una catena di comando del Governo sul Parlamento.
E’ questa la riflessione che deve essere subito avviata.

4) Certo, quale che sia l’esito del referendum, la Costituzione avrà subito un terremoto.
Sarà difficile continuare a dire che è la casa di tutti, l’asse condiviso della nostra cultura politica, il “bene comune” per eccellenza, o addrittura, usando le parole di un costituente (Togliatti) “l’Arca dell’Alleanza” tra le parti di un popolo, uscito da una guerra, anche civile, e che è stato capace di non precipitare in un’altra.
La spaccatura, parlamentare e civile, c’è già stata; e il Governo irresponsabilmente soffia sul fuoco. E chi, come molti tra noi, ha avanzato in questi anni proposte e obiezioni (preoccupato, e angosciato, dallo stato delle cose e dalle pieghe che stava prendendo il discorso sui rimedi), e se le è viste respingere e disprezzare, che cosa deve fare?
Se gli italiani voteranno massicciamente “si”, e gli avversari verranno “asfaltati”, la cultura politica del pluralismo e della democrazia redistributiva, inclusiva ed emancipante verrà sepolta, e chissà se risorgerà (preoccupazione che è in cima ai nostri pensieri, a differenza di quel che sembra pensare l’ex Presidente Napolitano).
Se questo non avverrà, la lotta per la Costituzione potrà continuare. Il Governo ha già ammesso che su alcuni punti saranno necessari approfondimenti e correzioni. Ammissione straordiaria e stupefacente se pronunciata dal protagonista di una ampia revisione, perché denuncia la consapevolezza che in ogni caso i nodi di questo testo confuso, contradditorio e pericoloso verranno al pettine.

«L’Italicum è una legge di parte che non può essere modificata per convenienze di parte, ma che deve essere cestinata. Punto e a capo ».

Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2016 (c.m.c.)

Domenica 19 giugno le candidate e i candidati del Movimento 5 Stelle sono arrivati al ballottaggio in 20 Comuni e ne hanno vinti 19. Subito dopo sono ricominciate le richieste da più parti di ritoccare la legge elettorale nazionale detta Italicum per impedire l’eventualità che il ballottaggio per la conquista del governo nazionale avvenga fra il M5S e Pd.

Renzi si è affrettato a rispondere che non sono previste modifiche. Si vedrà. Comunque, il principale problema dell’Italicum è che è una legge elettorale fatta su misura del Pd di maggio (2014, quando nelle elezioni europee il partito superò il 40% dei voti) con il consenso di Berlusconi, allora convinto che sarebbe stato il suo centrodestra ad arrivare al ballottaggio, e di Alfano, che chiese e ottenne una clausola di accesso al Parlamento non più alta del 3% (come in Spagna, circa 15 milioni di elettori meno dell’Italia, e non 4 come in Svezia: meno di 10 milioni di elettori).

Tanto Berlusconi quanto Alfano vollero la possibilità di candidature multiple (non più in tutte le circoscrizioni, ma “solo” in dieci) e parlamentari nominati (adesso capilista bloccati in tutte le circoscrizioni) cosicché l’Italicum che, persino secondo Napolitano, dovrà essere sottoposto alle “opportune verifiche di costituzionalità”, assomiglia molto al Porcellum, smantellato dalla Corte Costituzionale.

In buona sostanza, l’Italicum è un porcellinum, con le preferenze e con il ballottaggio che deve avvenire, a causa dell’ossessione anti-coalizioni di un capo di governo che vuole essere l’uomo unico al comando, fra i due partiti o le due liste più votate, a meno che un partito o una lista ottenga al primo turno il 40% dei voti più uno. Già alcuni renziani si affrettano a sostenere che la lista può anche essere composta da più partiti, ma questo sarebbe uno stravolgimento dello spirito della loro legge (e delle intenzioni personalistiche di Renzi) nonché una molto dubbia, forse improponibile, interpretazione della lettera.

Queste sembrano e, sostanzialmente, sono quisquilie e pinzillacchere. Né le leggi elettorali né i ritocchi cosmetici alle leggi esistenti debbono essere fatti con riferimento ai desideri e alle preferenze dei partiti e dei loro dirigenti. L’Italicum è una legge di parte che non può essere modificata per convenienze di parte, ma che deve essere cestinata. Punto e a capo.

Nel frattempo, pendono anche alcuni ricorsi alla Corte costituzionale su diverse clausole della legge. Il criterio con il quale valutare qualsiasi legge elettorale non è mai il tornaconto dei partiti esistenti, ma il potere degli elettori. L’Italicum migliora il Porcellum grazie sia al ballottaggio sia alla possibilità di esprimere uno o due voti di preferenza, ma, a causa dei capilista bloccati e come conseguenza dell’ingente premio in seggi consegnato a un partito/lista che ottenga anche soltanto poco meno o poco più del 30% al primo turno (quindi, quasi raddoppiandone la rappresentanza parlamentare), rimane molto al di sotto quanto a potere degli elettori tanto del sistema maggioritario francese quanto del sistema proporzionale personalizzato tedesco.

Nel maggioritario francese a doppio turno (non ballottaggio poiché al secondo turno possono esserci tre, se non quattro candidati) in collegi uninominali, gli elettori hanno il potere di eleggere il candidato preferito oppure, quanto meno, di sconfiggere il candidato più sgradito. E i partiti ottengono importanti indicazioni anche per la formazione delle coalizioni di governo.

Nella rappresentanza proporzionale personalizzata tedesca, gli elettori hanno due voti sulla stessa scheda: uno per il candidato nel collegio uninominale, uno per il partito. Con il primo voto eleggono il loro rappresentante, con il secondo voto contribuiscono a determinare il bottino complessivo dei parlamentari del partito preferito purché abbia superato la soglia del 5% (la Germania ha circa 60 milioni di elettori).

Cestinato il sostanzialmente irriformabile Italicum è fra questi due ottimi sistemi elettorali che bisognerebbe scegliere, eventualmente introducendo correttivi giustificabili non come contentino ai dirigenti di partito, ma come variazioni che migliorano la rappresentanza politica senza frammentare il sistema dei partiti.

Se queste scelte alternative non fossero praticabili nell’attuale Parlamento non resterebbe che un ritorno al Mattarellum, un sistema sostanzialmente conquistato nel 1993 attraverso un referendum popolare, “probabilmente” già sufficientemente noto all’inquilino del Colle il quale potrebbe anche cominciare a fare sentire la sua voce, utilizzato con risultati soddisfacenti in tre elezioni generali: 1994, 1996, 2001.

Con l’eliminazione delle liste civetta e una migliore definizione del recupero proporzionale, il Mattarellum consente agli elettori di eleggere i rappresentanti che preferiscono e dà loro un doppio voto che conta e pesa. Il resto (della discussione fra opportunisti elettorali) è fuffa oppure truffa.

Un gesto rivelatore dell'animus del renzismo: dovrebbe aiutare gli italiani ad aprire gli occhi. Si fa finta di minacciare chi ha torturato e assassinato Giulio Regeni, ma non si rinuncia affatto ad armare il governo torturatore ed assassino, per non turbare il business dei mercanti di morte. La Repubblica, 30 giugno 2016

La questione è di forma, visto che dei pezzi di ricambio in questione il mercato è pieno. Però il Senato (nonostante la mancata presa di posizione del governo, che si è rimesso all’aula)ha deciso di mandare all’Egitto un segnale di sostanza sul caso Regeni: l’aula ha ieri approvato l’emendamento al decreto al “decreto legge missioni”, che prevede la sospensione all’Egitto della fornitura di pezzi di ricambio per gli F-16: 159 voti favorevoli, 55 contrari e 17 astenuti. «Non è un atto ostile ma il nostro Paese ha titolo diritto a continuare a tenere sotto pressione l’opinione pubblica e anche l’Egitto» ha detto in aula il relatore del Pd, Gian Carlo Sangalli. In realtà la presa di posizione non creerà problemi pratici: l’Italia ha dagli anni ‘90 pezzi di ricambio di vecchi F16 che, praticamente, non hanno valore commerciale. E lo scorso anno si era deciso di regalarli all’Egitto, seppur nessun pezzo era mai partito. Nessun mistero, anche perché il ministro Pinotti ne aveva parlato in commissione Difesa. Ieri la decisione dell’Aula che, a parte la questione diplomatica, darà poche ripercussioni all’Egitto: pezzi di ricambio di quel tipo sono disponibili, a prezzi molto concorrenziali, sul mercato. Discorso però è l’impatto politico della cosa. Tant’è che ieri il centrodestra è insorto. «Stiamo scrivendo una delle peggiori pagine della storia di quest’Aula”, ha detto il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani. E il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri ha sottolineato: «Con quegli aerei combattono l’Is».

Quella della sospensioni delle forniture militari era stata una richiesta esplicita della famiglia Regeni, l’ultima volta quando avevano visitato il Parlamento europeo. «Ma questo è un atto poco più che simbolico» dice il portavoce di Amnesty, Riccardo Noury. «Ma è comunque una presa di posizione importante del parlamento. Noi però continuiamo a chiedere al governo la sospensione di tutte le forniture di armi all’Egitto, cosa ben diversa rispetto a questo stop».

Qualcosa però il governo ha fatto rispetto alle altre richieste della famiglia Regeni. La storia di Giulio è apparsa infatti da qualche giorno sul sito della Farnesina “Viaggiare sicuri”: fino alla scorsa settimana, la storia di Giulio non era nemmeno citata. «Ora è importante — ha detto la famiglia nei giorni scorsi — che l’Egitto venga indicato nell’elenco dei Paesi non sicuri».

«Due sono gli scenari che si aprono: una maggiore integrazione, ma fondata su presupposti neoliberali, o un recupero di sovranità, politica ed economica, da parte degli Stati membri».

Sbilanciamoci info 29 giugno 2016 (c.m.c.)

A meno di un anno dal referendum greco, una nuova scossa ha investito il processo di integrazione europeo. Il 23 di giugno, la maggioranza assoluta dei votanti del Regno Unito ha deciso di abbandonare l’Unione Europea. Si chiude così una vicenda iniziata con la mossa di Cameron, che nella campagna elettorale del 2015 promise il referendum per contenere il deflusso di voti verso gli estremisti dello UKIP.

Difficile negare che si tratti di una sorpresa: il leave ha vinto nonostante l’impatto emotivo dell’omicidio della deputata laburista Jo Cox e l’appoggio dato al remain da parte dei grandi partiti e dalla maggioranza degli intellettuali. Tuttavia, come segnalava Krugman sul suo blog, bisognava essere ciechi per non vedere arrivare una crisi di questo genere nel progetto europeo. L’analisi del voto mostra infatti risultati interessanti: da un punto di vista geografico, a votare per il leave sono stati per lo più i cittadini dei grandi centri urbani delle Midlands come Birmingham e vecchi distretti industriali delle West (59,3%) e East Midlands (58,5%).

Aree che hanno sofferto intensi processi di deindustrializzazione e smantellamento di interi comparti produttivi, a seguito dell’applicazione delle ricette neoliberiste di origine Thatcheriana portate avanti negli ultimi decenni con la benedizione dell’UE. I voti a favore del leave schizzano in centri medio-piccoli quali Mansfield (70.86%), Doncaster (68.98%), Sunderland (61.34%), Middlesbrough (65.48%), Scunthorpe (66.30%) in cui disoccupazione e povertà registrano valori superiori alla media nazionale. Città contro periferie, ricchi contro poveri, dirigenti e funzionari contro operai e lavoratori precari.

È bene chiarire quali sono i termini della questione. Il referendum non è vincolante: il Parlamento è sovrano e può decidere di ignorarlo. Sarebbe una pessima decisione, che segnerebbe ancor di più il solco tra il popolo del leave e i rappresentanti politici nazionali. Inoltre, si profilerebbe come un regalo politico allo UKIP di Nigel Farage, da sempre antagonista alla costruzione politica ed economica della UE.

Tuttavia, non sarebbe la prima volta che l’UE, o gli Stati membri direttamente, prendono la decisione di ignorare gli esisti dei referendum consultivi (il no danese contro Maastricht nel 1992, le sconfitte nei referendum sulla costituzione del 2005 in Francia e Olanda, e l’OXI greco). Adottando questa linea, alcuni parlamentari del Labour hanno già formalmente chiesto di ignorare il risultato, un dato che la dice lunga sulla ‘sintonia’ che lega alcune componenti del partito di Corbyn e settori importanti della classe operaia britannica, che in larga parte ha votato per l’uscita.

Se si decidesse di andare avanti e appellarsi all’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea, che regola l’uscita di uno Stato membro dall’UE, da un punto di vista giuridico inizierebbe una negoziazione con la UE e verosimilmente una contemporanea adesione all’EFTA, l’area di libero scambio europea, di cui sono membri, oltre ai Paesi dell’UE, l’Islanda, la Svizzera e la Norvegia. Il processo durerebbe un massimo di due anni ma la reale durata del processo potrebbe variare sensibilmente a seconda di come la situazione evolverà.

Le conseguenze economiche sarebbero, invece, determinate dai termini dell’adesione. Al momento, la linea di tensione più forte per l’economia del Regno Unito è il deficit esterno di circa il 5% del PIL, squilibrio che (sebbene di dimensione variabile) si trascina dal 1985.

Il finanziamento di questo deficit non è in principio problematico, per tre ragioni: 1) la City di Londra è un polo attrattivo per i capitali; 2) il Regno Unito ha la propria moneta e si indebita in sterline, eliminando eventuali problemi di bilancio per la svalutazione in atto; 3) Londra condivide con la UE la strategia fallimentare fatta di austerità di bilancio e lotta all’inflazione. Basti ricordare che dal 2010 Cameron e Osborne han ridotto di 5 punti di PIL la spesa pubblica pur non essendo stretti nel cappio dell’Euro.

Tuttavia, se si imponessero ai britannici dei termini ‘punitivi’ di accesso all’EFTA, si potrebbe generare una pericolosa recessione nel Regno Unito moltiplicando le conseguenze economiche negative per la UE e alimentando ancor di più i rispettivi spiriti di rivalsa nazionalistica. Innanzitutto, il 5% del deficit esterno del Regno Unito si spiega per il 53% con l’import dall’UE (dati Eurostat), quindi non è nell’interesse economico dell’Europa castigare Londra, che copre il 10% dell’import intra-UE.

Inoltre, questa sorta di rappresaglia suonerebbe come una minaccia imperialista che rappresenterebbe un ulteriore regalo elettorale allo UKIP. Tutte le altre proposte abbozzate, come castigare la City o offrire accordi tributari speciali per dirottare le sedi delle multinazionali verso la UE sono o inutili – i servizi finanziari sono il 7% del PIL inglese e si spiegano soprattutto con vantaggi comparati – o dannose, perché approfondirebbero la disuguaglianza che cresce ogni volta che aumenta la quota del capitale nel reddito.

D’altra parte, anche il populismo inglese dovrà fare i conti con la realtà: l’accesso all’EFTA implica l’adozione di regolamenti e standard europei, l’accettazione delle norme sulla circolazione delle persone e un contributo economico, sebbene inferiore a quanto pagato alla UE oggi.

E l’Europa? Chi si preoccupa del progetto europeo in fieri, sa bene che le contraddizioni esistenti sarebbero esplose prima o poi. Che sia accaduto in Inghilterra, che tra tutti i paesi ha sempre avuto una certa resistenza ai processi di integrazione europea, si deve alle contingenze storiche. Il sistema istituzionale europeo è incapace di far fronte agli shock asimmetrici, con il risultato che ogni scossone aumenta le divergenze interne. La crisi del 2008 lo ha mostrato in modo chiaro, con l’austerità imposta ai paesi in crisi e i paesi più forti favoriti dai bassi tassi di interesse.

Dal 2009, il processo d’integrazione è andato avanti come mai prima d’ora. Tuttavia, ciò è avvenuto solo nella direzione di garantire un ambiente favorevole al capitale a dispetto delle montanti disuguaglianze e dei crescenti rischi di disintegrazione. Regole costituzionali contro il deficit di bilancio, ma non la mutualizzazione dei debiti; un’unione bancaria con regole di salvataggio, ma non l’assicurazione sui depositi. Una schizofrenia istituzionale che fa temere per quel che potrebbe accadere con un ministro delle finanze comune.

La stessa schizofrenia istituzionale è la causa prima degli esistenti problemi di gestione dell’immigrazione. Il turismo del welfare contro cui si scagliano i sostenitori del leave sono in effetti esacerbati dalla mancata convergenza dentro l’Unione, generando insofferenza nell’opinione pubblica. La legislazione e gli accordi recenti circa la gestione dei flussi migratori di cittadini non comunitari si stanno dimostrando incompatibili con i divari di reddito e le tensioni sociali crescenti negli Stati membri. Infine, paesi deboli come Grecia e Italia si trovano nella folle posizione di dover gestire la frontiera comune essendo nello stesso tempo vittime di austerità, e dunque privi delle necessarie risorse per farlo.

A questo punto, con un possibile effetto domino alle porte e ulteriori tensioni sulla strada dell’integrazione rimangono due sole strade possibili. Una maggiore integrazione, ancora una volta fondata su presupposti neoliberali e con la capital union a fare da perno; o un arretramento del medesimo processo di integrazione, con gli Stati membri a recuperare parte della loro sovranità politica ed economica.

Nel primo caso, le garanzie che una maggiore integrazione non soffra degli stessi problemi di disegno istituzionali denunciati finora sono oggettivamente nulle. Politicamente, questo rischierebbe anche di favorire in modo sostanziale la crescita dell’estrema destra come le ultime elezioni hanno dimostrato.

Nel secondo caso, potrebbe aver luogo un accordo di cooperazione politico-economica, teso ad arretrare rispetto al processo di integrazione stesso, rimettendo in discussione, ad esempio, la libera circolazione dei capitali.

Di fronte ad una destra arrembante e sempre più efficace nell’intercettare la rabbia antieuropea delle classi popolari, ogni opzione merita di essere presa in considerazione e valutata. Con l’unico metro possibile: quello delle condizioni di vita, di lavoro e soprattutto di agibilità politica delle classi che più stanno subendo le conseguenze dell’attuale configurazione europea.

Un libro che è un grido d’allarme. Enrica Simonetti: "Morire come schiavi. La storia di Paola Clemente nell’inferno del caporalato" , edizioni Imprimatur».

Il Fatto Quotidiano online, 29 giugno 2016 (c.m.c.)

Bisogna dare voce a chi non ce l’ha. A chi non ha alcun diritto se non quello di morire di fatica, sotto un sole e una calura che, al Sud, spesso non perdona. La manifestazione e il corteo a Bari dei giorni scorsi ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica la piaga del caporalato che riguarda non solo gli immigrati ma anche moltissimi italiani.

Lo sfruttamento non ha colore. Non possiamo rimanere indifferenti, è necessario informarsi, capire cosa accade sotto i nostri occhi. Chi volesse farlo può leggere il documentato saggio di Enrica Simonetti: Morire come schiavi. La storia di Paola Clemente nell’inferno del caporalato, edizioni Imprimatur.

L’autrice è una giornalista e racconta “quasi” in prima persona la storia di Paola Clemente, morta a quarantanove anni nei campi di Andria, e delle sue braccia, sfruttate per troppe ore nei campi, con la ricompensa di due euro all’ora.Un libro che è un grido d’allarme, un saggio che possiamo definire “letterario”, perché Enrica Simonetti è capace di raccontare; la sua inchiesta indaga le radici di un Sud (non ci riferiamo solo al nostro, ma a tutti i Sud) dove le piaghe non si rimarginano mai.

Rimangono vive perché figlie dello stesso sistema economico che le ha create, del quale siamo tutti complici, non solo perché abbiamo perso la capacità di indignazione, ma perché continuiamo a comprare i prodotti delle aziende i cui prodotti sono figli dei “campi della vergogna” dove, appunto, si muore per due euro all’ora.

Ci vorrebbe un altro Di Vittorio? Sì, forse, ma Di Vittorio può e deve essere ciascuno di noi, basta non chiudere gli occhi, denunciare come ha fatto la brava giornalista del saggio.

«La vendetta ha a che vedere con la solitudine in cui si trovano coloro che hanno perso con il lavoro un ruolo sociale e un peso politico e i giovani, lasciati allo sbaraglio dal venir meno di tutto ciò che i padri avevano conquistato». Il manifesto, 29 giugno 2016

Nelle democrazie consolidate «il popolo» e cioè i disoccupati, i precari, le periferie hanno usato il voto per vendicarsi. La vendetta riguarda le sconfitte economiche/politiche e l’emarginazione sociale subite senza potersi difendere. Per difendersi avevano bisogno di rappresentanti all’altezza dei loro bisogni sotto scacco e che avessero un’alternativa alla crescente deindustrializzazione, alla flessibilità del lavoro, alla ghettigazione urbana. Rappresentanti che nei governi locali, nelle istituzioni nazionali e transnazionali avessero una politica contrapposta all’altra in corso.

E cioè alla politica che ha abdicato al suo ruolo e si fa suggerire dall’economia come democraticamente realizzare le esigenze dell’economia. Esigenze di valore universale: meno lavoro operaio significa un minor prezzo del bene prodotto e dunque un vantaggio anche per l’operaio che ha perso il lavoro.

Il mercato unico e l’appuntamento elettorale son divenute una sorta di brevetto di legittimazione di come si deve stare nel mondo. È poi quel mondo in cui il dito viola dell’elettore analfabeta e il degrado di città come Detroit o Manchester o Bagnoli testimoniano la guerra combattuta, vinta dagli uni e persa dagli altri. Coloro che l’hanno vinta si son resi conto che potevano vincerla quando hanno capito di non avere più avversari. E anzi che il loro governo del mondo era accettato da chi nel passato lo combatteva in campo opposto.

The unipolar moment è stato giustamente esaltato dai neo-conservatori di George Bush come la fine di una cogestione dello stato delle cose nel mondo. L’esaltazione conseguiva dalla dissoluzione dell’avversario, dalla sua sparizione non solo dal terreno geopolitico ma anche dal cielo teorico. Le idee «contro» sono state le prime a sparire, sostituite da proposte «per» che nel breve periodo si sono adeguate alle strategie di potere di chi aveva in mano le carte vincenti. E la partita si avvaleva di sofisticati mezzi di comunicazione politica che la identificava come la partita di tutti per il progresso e la libertà politica per tutti. È stata la partita che gli avversari di ieri hanno fatto vincere senza combattere. E l’hanno fatta vincere perché avevano smarrito le coordinate di ieri: era meglio difendere il lavoro dell’operaio o il diritto del consumatore?

L’interrogativo avendo a che fare con l’economia, è stato di per sé una messa in non cale della politica. Della politica progetto con programmi per i rappresentati e percorsi di realizzazione dei programmi per i loro rappresentanti. Difatti quell’interrogativo era già oltre le coordinate di ieri, non vi erano più due campi concorrenti, avversari, nemici. Sull’unico campo visibile vi era l’interesse comune per il bene comune, identificabile con etichette da considerare sacre come globalizzazione e democrazia.

Guai ad avere dubbi sulle conseguenze dell’una o sulla praticabilità dell’altra. Il rischio minimo è l’accusa di non saper accettare la morte delle ideologie, la fine dei partiti di massa, il superamento delle lotta di classe, anzi delle classi. Rimane consentito – seriosissimamente – indagare sulle diseguaglianze di reddito, su ricchi e poveri, sul ritorno da protagoniste delle èlite, sul loro rapporto con le masse. Un rapporto che ridà consistenza alla democrazia plebiscitaria, a quella diretta, a quella referendaria. Un rapporto che nessuno si azzarda a riconoscere (ed averne paura) come il principale effetto della sconfitta subita allorchè si è rimasti senza più idee «contro». Nessuno più si aspetta che esistano ancora idee differenti da quelle messe sugli altari dagli uomini del potere economico transnazionale. È in questo spazio che va inserito il voto di vendetta espresso in diverse occasioni e luoghi.

La vendetta ha a che vedere con la solitudine in cui si trovano coloro che hanno perso con il lavoro un ruolo sociale e un peso politico e i giovani, lasciati allo sbaraglio dal venir meno di tutto ciò che i padri avevano conquistato. Per i giovani è un voto contro i padri che si sono arresi e per chi si è arreso è un voto contro chi non li ha fatti lottare.

P.S. Le disquisizioni sul populismo di destra e di sinistra sono per coloro che lo studiano.

Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2016 (p.d.)

“E' morto un ragazzo in corteo”. È la sera del 20 luglio 2001. Le foto di Carlo Giuliani steso a terra mentre una ragazza della Croce Rossa tenta disperatamente di rianimarlo hanno fatto il giro del mondo. E un uomo prende la sua agenda di pelle scura, consumata. Scrive poche parole – non c’è altro da dire di fronte alla morte di un ventenne – ma con una calligrafia che rivela la passione e l’energia. Perché l’autore di quel diario è don Andrea Gallo. E rileggendo i suoi appunti ti sembra di vederlo nel suo studio, quella stanza affacciata sul porto di Genova con la luce accesa fino all’alba che i genovesi passando avevano imparato a cercare. Come una piccola Lanterna che indicava la rotta. Sì, il Gallo era sveglio, era alla scrivania con il sigaro in bocca.

C’era anche in quei giorni del G8 che hanno cambiato la storia della sua città e dell’Italia. Era lì, e sulle pagine dell’agenda ha lasciato appunti essenziali come un libro di storia. Scritti per se stesso, ma soprattutto forse nella speranza che un giorno qualcuno li trovasse. Non dimenticasse.

E oggi è successo. L’agenda del 2001 è soltanto uno tra le migliaia di documenti che stanno riemergendo dallo scaffale dello studio. Una raccolta sterminata, perché don Gallo non buttava via niente: agende, migliaia di fogli sparsi con gli appunti per le prediche, i discorsi, i funerali di amici scomparsi, da Fabrizio De André a Fernanda Pivano. Non andranno persi: Domenico Chionetti – per tutti Megu – che era sempre a fianco del Gallo ha raccolto tutto. Con l’aiuto dell’archivista Carlo Stiaccini, dell’amico Alessandro Lombardo e della fondazione Ansaldo ha cercato di riordinare quel magma uscito per cinquant’anni dalla penna di don Andrea. E infine eccolo, il grande archivio di don Gallo. L’Archivio di Stato lo ha dichiarato “bene di notevole interesse storico”. Sarà conservato.

“È come rileggere le parole di un padre”, racconta Megu indicando i faldoni dove sono raccolte le carte. Davvero il diario della vita di un uomo, dai primi anni del sacerdozio fino alla nascita della Comunità, per arrivare a quella ribalta che Gallo accoglieva con divertita ironia. Calcandosi appena un po’di più il cappellaccio sugli occhi. Ma insieme il racconto dei grandi avvenimenti del mondo visti da quella piccola stanza. Finché la storia, nei giorni del G8, gli bussò alla porta.

Ecco l’appunto della mattina del 18 luglio, quando i grandi della terra cominciano ad arrivare a Genova: “Città blindata, militarizzata!!!”, scrive don Gallo. Con i punti esclamativi cui la sua voce dava vigore. Poi la speranza che la protesta resti pacifica. Il concerto di Manu Chao, i ragazzi che sfilano per le strade. Fino alla sera del 20 luglio. “Ho tanti amici nelle Forze dell’ordine. Quanti “servitori” dello Stato di Diritto ho stimato e apprezzato in questi ultimi anni! Abnegazione, sacrificio, senso del dovere. Quanti hanno pagato con la vita, lasciando famiglie nel dolore”. Scrivendo il diario di quel venerdì 20 luglio, però, aggiunge: “Cittadini in divisa hanno sperimentato il potere puro, l’arbitrio assoluto”.

Ma è lungo il cammino di un uomo, ci ricordano i diari di Andrea Gallo. A cominciare dalle lettere del giovane sacerdote che scrive ai genitori e al fratello Dino. Parlando di sé e del mondo. Dell’invasione dell’Ungheria del 1956: “Non posso fare a meno di parlare del massacro della gloriosa nazione ungherese!! Avrete sentito dai giornali, dalle radio, quali orrendi crimini sono stati commessi contro una popolazione inerme che chiede siano rispettati i sacrosanti diritti concessi da Dio a tutti gli uomini: libertà, pace, lavoro. Che dobbiamo fare noi cattolici in questa occasione? Seguiamo le direttive illuminate e sagge del nostro Sommo Pontefice…non facciamo tante chiacchiere inutili e soprattutto non provochiamo altro odio nelle nostre contrade!!!”. Non è ancora il sacerdote “angelicamente anarchico”della maturità. Ma c’è già la sua energia. E quel tentativo faticoso, a volte doloroso, durato una vita di mettere insieme l’obbedienza alla Chiesa con la libertà.

Davvero quante cose racconta la scrittura. Proprio la calligrafia. Addio alla macchina da scrivere, addio ai filtri. Gallo ora scrive di proprio pugno, con le linee delle parole che si fanno più morbide pagina dopo pagina. Come se arrivassero la tranquillità della notte o la stanchezza. Scriveva, scriveva, mentre accanto a lui dormivano i “tossici”della Comunità San Benedetto con cui condivideva la stanza. Basta una riga per raccontare chi era don Andrea: “Diecimila lire a una madre musulmana per il latte dei bambini”. Ancora: “Dieci euro a un egiziano. Povero, povero, povero”. Ripetuto tre volte, per far risuonare la rabbia. E l’amore. In tanti hanno lasciato un messaggio nel diario della Comunità (anche questo nell’archivio): “La Ester adesso va a battere”, scrive un ragazzo. “Adesso andiamo a puttanazze!”, aggiunge un altro. Non c’è censura. “Questo era il segreto del Gallo: non giudicare, far sentire tutti amati”. È una galleria di decine di personaggi: tossici – alcuni non ci sono più, altri ne sono usciti, c’è chi addirittura è diventato manager di successo – prostitute, transessuali, immigrati. Ma anche gli amici importanti. Tutti sullo stesso piano. Tutti uguali. Ecco gli appunti per l’addio a De André: “Non voglio dire che Fabrizio abbia indicato una strada per coniugare il proprio riscatto e quello di tutti gli oppressi. Perché Faber riconosce sempre agli altri la libertà della scelta”. Poi Fernanda Pivano: “La Fernanda! Una di quelle persone che ci regala il cielo ogni tanto. Ci ha insegnato un linguaggio universale. Dialogare, ascoltare tutti”.

Poi le fotografie. Centinaia. Dalle immagini di Gallo giovane. Un uomo bello, vigoroso, perché – questo sembra dirci – non c’è proprio contraddizione tra corpo e spirito. Anzi. E gli scatti con gli amici: con un viado brasiliano o Vasco Rossi. Non fa differenza. Nessuna lezione. Forse soltanto qualche consiglio su come “sentire” la vita con i cinque sensi: “Vista: vedere i colori della terra. Olfatto: annusare i profumi del vento. Udito: sentire l’armonia di tante voci. Gusto: assaporare gli aromi del mondo. Tatto: sentire tante dita”. E poi appunti civili, sacerdote e cittadino. Nemmeno questa è contraddizione in don Andrea: “La legge elettorale definita da tutti una porcata… ha prodotto una semplificazione consentendo alla coalizione vincente la tanto auspicata governabilità. Ma l’ultimo governo Berlusconi di quale maggioranza dispone? Altro che semplificazione, è l’inizio della demolizione della Democrazia”.

Ci sono tutti. Non ci sono, o non sono ancora emersi, messaggi scambiati con i suoi cardinali, da Giuseppe Siri ad Angelo Bagnasco, con cui Gallo ha avuto un rapporto molto “dialettico”: obbedienza e libertà, appunto. Ma forse quelle parole schiette don Andrea non ha voluto scriverle. Le ha pronunciate soltanto a voce.

Manca soltanto una persona: lui, don Andrea, che non parla quasi mai in prima persona. Che cerca di scomparire e si definisce soltanto attraverso gli altri. Fino a quell’ultimo messaggio: “Gesù disse…Vi ho tenuta nascosta una cosa che ora non posso più nascondervi: devo proprio partire. Addio”.

Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2016 (p.d.)

Nel Parlamento europeo di cui sono membro, quel che innanzitutto colpisce, osservando la reazione alla Brexit,è la diffusa assenza di autocritica, di memoria storica, di allarme profondo – e anche di qualsiasi curiosità – di fronte al manifestarsi delle volontà elettorali di un Paese membro. (Perché non va dimenticato che stiamo parlando di un Paese ancora membro dell’Unione). Una rimozione collettiva che si rivela quanto mai grottesca e catastrofica, ma che dura da decenni. Meriterebbe studi molto accurati; mi limiterò a menzionare alcuni punti essenziali.

1. Quel che manca è l’ammissione delle responsabilità, il riconoscimento esplicito del fallimento monumentale delle istituzioni europee e dei dirigenti nazionali: tutti. La cecità è totale, devastante e volontaria. Da anni, e in particolare dall’inizio della crisi del 2007-2008, istituzioni e governi conducono politiche di austerità che hanno prodotto solo povertà e recessione. Da anni disprezzano e soffocano uno scontento popolare crescente. Non hanno memoria del passato –né quello lontano né quello vicino. Sono come gli uomini vuoti di Eliot: “Uomini impagliati che s’appoggiano l’un all’altro, la testa riempita di paglia”. La loro ignoranza si combina con una supponenza senza limiti. Il suffragio universale ha tutte le colpe e le classi dirigenti nessuna. È come se costoro, trovandosi a dover affrontare un esame di storia al primo anno d’università, dicessero che le cause dell’avvento del nazismo sono addebitabili solo a chi votò Hitler, senza mai menzionare le istituzioni di Weimar. Sarebbero bocciati senza esitazione; qui invece continuano a dare lezioni magistrali.

2.Nessun legame viene stabilito tra la Brexit e l’evento disgregante che fu l’esperimento con la Grecia. Nulla hanno contato le elezioni greche, nulla il referendum che ha respinto il memorandum della troika. Dopo i negoziati del luglio scorso il divario tra volontà popolare ed élite europea si è fatto più che mai vasto,tangibile e diffuso. Con più peso evidentemente della Grecia, il Regno Unito ha posto a suo modo la questione centrale della sovranità democratica, anche se con nefaste connotazioni nazionalistiche: il suo voto è rispettato, quello greco no. Le lacerazioni prodotte dal dibattito sulla Grexit hanno contribuito a produrre il Brexit, e il ruolo svolto nella campagna dal fallito esperimento Tsipras è stato ripetutamente ostentato. Ma nelle classi politiche ormai la memoria dura meno di un anno; di questo passo tra poco usciranno di casa la mattina dimenticandosi di essere ancora in mutande. È per colpa loro che la realtà ha infine fatto irruzione: Trump negli Usa è la realtà, l’uscita inglese è la realtà. Il voto britannico è la vendetta della realtà sulle astrazioni e i calcoli errati di Bruxelles.

3. La via d’uscita prospettata dalle forze politiche consiste in una falsa nuova Unione, a più velocità e costituita da un “nucleo centrale” più coeso e interamente dominato dalla Germania. Le parole d’ordine restano immutate: austerità, smantellamento dello Stato sociale e dei diritti, e per quanto riguarda il commercio internazionale – Ttip, Tisa, Ceta – piena libertà alle grandi corporazioni e ai mercati, distruzione delle norme europee, neutralizzazione di contrappesi delle democrazie costituzionali come giustizia, Parlamenti e volontà popolari. Lo status quo è difeso con accanimento: nei rapporti che sto seguendo come relatore ombra per il Gue mi è stato impossibile inserire paragrafi sulla questione sociale, sul Welfare, sulla sovranità cittadina, sui fallimenti delle terapie di austerità.

4. Migrazione e rifugiati. È stato un elemento centrale della campagna per il Leave – che ha puntato il dito sia su rifugiati e migranti extraeuropei, sia sull’immigrazione interna all’Ue –, ma le politiche dell’Unione già hanno incorporato le idee delle destre estreme, negoziando accordi di rimpatrio con la Turchia (e in prospettiva con 16 paesi africani, dittature comprese come Eritrea e Sudan) e non hanno quindi una visione alternativa a quella dell’Ukip. La Brexit su questo punto è un disastro: rafforzerà, ovunque, la paura dello straniero e le estreme destre che invocano respingimenti collettivi vietati espressamente dalla legge internazionale e dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Quanto ai migranti dell’Unione che vivono in Inghilterra, erano già a rischio in seguito all ’accordo dello scorso febbraio tra Ue e Cameron. Le politiche dell’Unione sui rifugiati sono un cumulo di rovine che ha dato le ali alla xenofobia.

5. Il ritorno alla sovranità che la maggioranza degli inglesi ha detto di voler recuperare mette in luce un ulteriore e più vasto fallimento. L’Unione doveva esser un baluardo per i cittadini contro l’arbitrio dei mercati globalizzati. La scommessa è perduta: le sovranità nazionali escono ancora più indebolite e l’Unione non protegge in alcun modo. Non è uno scudo ma il semplice portavoce dei mercati. La globalizzazione ha dato vita a una sorta di costituzione non scritta dell’Unione, avversa a ogni riforma-controllo del capitalismo e a ogni espressione di scontento popolare, e in cui tutti i poteri sono affidati a un’oligarchia che non intende rispondere a nessuno delle proprie scelte. Sarà ricordata come esemplare la risposta data dal Commissario Malmström nell’ottobre 2015 a chi l’interrogava sui movimenti contrari a Ttip e Tisa: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo”. Questa costituzione non scritta si chiama governance e poggia su un concetto caro alle élitefin dagli anni 70 (il vero inizio della crisi economica e democratica): obiettivo non è il governo democratico ma la governabilità. Il cittadino “governabile” è per definizione passivo.

6. L’intera discussione sulla Brexit si sta svolgendo come se l’alternativa si riducesse esclusivamente a due visioni competitive: quella distruttiva dell’exit e quella autocompiaciuta e immutata del Remain. Le cose non stanno così. C’è una terza via, rappresentata dalla critica radicale della presente costruzione europea, dalla denuncia delle sue azioniedalla ricerca di un’alternativa. Era la linea di Tsipras prima che Syriza andasse al governo. È la linea di Unidos Podemos, che purtroppo non è stata premiata. Resta il fatto che questa tripolarità è del tutto assente dal dibattito.

7. La democrazia diretta, i referendum, la cosiddetta e-democracy. Il gruppo centrale del Parlamento li guarda con un’ostilità che la Brexit accentuerà. La democrazia diretta è certo rischiosa, ma quando il rischio si concretizza, quasi sempre la causa risiede nel fallimento della democrazia rappresentativa. Se per più legislature successive e indipendentemente dall’alternarsi delle maggioranze la sensazione è che sia venuta meno la rappresentatività e con essa la responsabilità di chi è stato incaricato di decidere al posto dei cittadini, i cittadini non ci stanno più.

Il Post, 21 marzo 2016

“Syrup! Syrup!”. Avrà settant’anni la donna curva e minuta che si para dinanzi alla portiera appena Dimitris accosta la macchina sul ciglio della strada, sotto un vecchissimo (e tragicamente profetico) segnale stradale bilingue greco-inglese che indica in direzione del campo: “Station of sanitary veterinary inspection Idomeni”; come a chiarire subito che questo è un posto per le bestie, non per gli esseri umani. Con gesti sobri e discreti, senza insistere, la signora indica le mani butterate, i piedi avvolti in scarpe rotte, e dà segno, in un silenzioso esperanto, di aver bisogno di medicine. Quando Dimitris le fa cenno che il dottore – il “free doctor” di cui al cartello rosso e bilingue (inglese-arabo) – riceve in una tenda laggiù, dall’altra parte del campo, il suo rammarico è lampante negli occhi; ma piena di dignità si volta, e a passi lentissimi riprende il cammino della speranza.

Non è di marzo questa impura aria, che impregna i vestiti e non trova catarsi: le fumarole mefitiche spuntano da fornelletti improvvisati, da arrugginiti bidoni d’idrocarburi, da catastine di legna, da plastica bruciacchiata sparsa qua e là sopra il campo ancora fradicio da giorni e giorni di pioggia – oggi è uscita una lisca di sole, e i vestiti zuppi vengono finalmente stesi ad asciugare. Nel campo nato tre chilometri prima di Idomeni attorno alle strutture di un’area di servizio della EKO, sui tetti delle tende delle Nazioni Unite è tutto un fiorire di calzini, di magliette sdrucite, di pantaloni logori o seminuovi; e poi la fantasia al potere, mutande su un ramo d’albero, maglioni su una staccionata, pedalini su una sedia di plastica; e le reti basse, fatte per separare, sono in realtà degli stendini fatti e compiuti. È uscito il sole, oggi, ma potrebbe non durare; o – a leggere i giornali di ieri – potrebbe non durare il campo intero, chi può dirlo. Nell’attesa, dal benzinaio, la coda dietro a un camioncino di targa tedesca è chilometrica e lentissima: si distribuiscono scarpe, ma sono poche le possibilità d’intendersi al volo sulla taglia nel volteggio di arabo, farsi, inglese, curdo. Così, in fin dei conti, il solo modo di capire a quale piede vada bene quale calzatura è la sensata esperienza – e ridono e frignano e sghignazzano i tantissimi bambini che fanno i capricci, come qualunque loro coetaneo europeo in un negozio alla moda: sulla campana disegnata coi gessi colorati tra la pompa di benzina e la fila di bagni chimici, vogliono saltare con scarpette resistenti.

Idomeni è una città senza governo, nel senso più letterale. Nel punto in cui convergono le tre direttrici sterrate o d’asfalto, subito a fianco dei binari della linea interrotta, stamani la polizia ha ricavato con fatica, in mezzo al flusso continuo e dantesco di anime in pena, un piccolo spazio per l’auto blu della viceministra degli Interni, Maria Kollia-Tsaruchà, che è nata a Serres, non lontano da qui. Piccola e sgomenta sul sedile anteriore, mi invita a documentare con precisione cosa accade, perché si sappia; e aggiunge in un sussurro che la situazione dhen elènchete, non si controlla più. Il suo ministro, il coraggioso non-vedente Panayotis Kurublìs, dichiara che questa è una nuova Dachau (una Dachau, ribatte Dimitris, da cui però usciranno quasi tutti vivi, e segnati per sempre, a migliaia, nei polmoni, nelle giunture, nell’anima); il vagare affranto del ministro stamattina per il campo, al braccio di gendarmi muti e forse ancora non abituati, pare più una prova d’impotenza che il preludio a una nuova azione politica, per la quale non s’intravvede lo spazio. La polizia sta ai margini, presidia con quattro aitanti giovanotti una linea immaginaria che corre perpendicolare ai binari e parallela al muro di filo spinato 100 metri più in là: i ragazzi col casco e lo scudo osservano e sorridono distesi, forse più partecipi del dramma in corso che solleciti di possibili problemi. Né incutono timore le pettorine fosforescenti delle ONG, anche perché non mancano i “bianchi” (quelli di MSF, di Praksis, di Orient) che tra una distribuzione e l’altra si appartano un momento in lacrime, per dare sfogo non visti al sentimento umano (li riconosci subito, gli Europei, dallo stato della loro pelle, e quando senti qualcuno che parla italiano ti senti all’improvviso più fiero che durante l’inno della finale di Madrid).

Molti, dalle file dell’opposizione greca, criticano questo modo di procedere, denunciano il sostanziale abbandono dei campi profughi e soffiano sul fuoco delle scaramucce fra gruppi etnici, come quelle avvenute ieri al Pireo, e pure qui stesso – un Afghano, un Siriano e un Tedesco ricoverati in ospedale per ferite d’arma da taglio. Tutti aspettano risse e disordini per poter meglio additare la faciloneria del governo, la sua mancanza di strategia. I grandi giornali, dal Vima alla Kathimerinì, sono zeppi di editoriali aggressivi contro il premier Tsipras e la sua politica di frontiere aperte senza distinzione di provenienza e di status. Così, si insiste sulla presunta mancanza di ordine pubblico, invece che sulla mancanza politica di un governo che esita, forse comprensibilmente forse no, pressato com’è fra la povertà di mezzi, l’indecisione e l’atavico timore dei Turchi; un governo che preferisce dedicare sforzi e polemiche all’uscita estemporanea di un sottosegretario (Panayotis Muzalas) che ha chiamato “Macedonia” quella che per il diritto internazionale è “Fyrom” e per i Greci è semplicemente “ta Skopia” (da pronunciare con una lieve aspirazione di disprezzo fra la “p” e la “i”). Da giorni, mentre qui prosegue l’inferno, sui media si discute se la maestà del nazionalismo ellenico – lesa da quel nome proprio, soprattutto nell’opima figura dell’alleato destrorso di Tsipras, il ministro della Difesa Panos Kammenos – debba o meno costare a Muzalas la poltrona.

Così, mentre ad Atene si litiga sulle parole, i poliziotti di Skopje rispediscono indietro a suon di legnate i profughi che nottetempo riescono a passare sfidando le gelide correnti dell’Axiòs, il fiume che passa accanto a Idomeni e che appena varcato il confine impossibile inizia a chiamarsi Vardar – come se il muro di filo spinato fosse così stretto e potente da risucchiare un nome assieme alle vite dei migranti (tre, cinque, o chissà quanti) che l’altro giorno sono scomparse nei flutti. Intanto il numero dei profughi è quadruplicato, l’ospedale più vicino (quello di Kilkìs) non è stato potenziato e va in tilt con 20 pazienti (e qui sono accampati in 16mila); e come se non bastasse nella provincia di Kilkìs Alba Dorata ha il 10 per cento, a testimonio di un pericolo di xenofobia che spesso si sottovaluta: un documentario della giornalista Anghelikì Kuruni, Alba dorata: un fatto personale, presentato proprio ieri al Festival del documentario di Salonicco, denuncia la permeabilità dei Greci più insospettabili al fascino delle svastiche. Né manca, nella Macedonia travolta dall’onda, chi teme l’invasione, il fattore demografico a tutto vantaggio degli “altri”, e l’inettitudine di uno Stato debole e incerottato.

Eppure la realtà profonda non è questa. Se Idomeni rimane in piedi, se questa città fantasma, nonostante tutto, funziona da mesi nel fluire ininterrotto di centinaia di migliaia di persone, vuol dire che la realtà è soprattutto un’altra. Qui è tutto merito di quella parola greca che, come tante altre, da sola fa miracoli: allilenghìi. Di norma tradotta con “solidarietà”, essa reca al proprio interno la radice del “reciproco” e la radice antichissima della “garanzia”, del “pegno”: indica insomma un atto di fiducia reciproca, di consapevolezza e riconoscimento della comunanza di un destino. Nessuno, sotto questo cielo, può saperlo meglio dei Greci, che hanno inventato il concetto stesso di xenìa e che nell’ultimo secolo hanno assistito a innumerevoli e tragici spostamenti di masse umane. Non è un caso che oltre i due terzi di loro – dicono i sondaggi – non abbiano paura dei profughi (attualmente 45mila sul suolo del Paese, il 60% dei quali stipati nella sola Macedonia), e si dichiarino pronti ad ospitarli in tutti i modi (molte decine ormai anche nelle proprie case), anche se meno del 50% sarebbe contento se si stabilissero tutti in Grecia – cosa che nessuno di quelli beninteso vuol fare, forse nemmeno la stanchissima signora con le mani butterate che cercava lo sciroppo, e non è arrivata intanto nemmeno a metà strada.

Alto e robusto, il mio amico Dimitris sembra un eroe di Nikos Kazantzakis, con il suo parlare semplice e la riserva di umanità che tiene in sé: un Ulisse più altruista, uno Zorba più dolente. Mi racconta di quando venne qui la prima volta, a giugno 2015, e non c’era praticamente nessuno: non le televisioni che ora trasmettono da ogni angolo, non le padelle paraboliche che sfiorano le tende (qualche bambino cede alla tentazione di metterci sopra i calzini ad asciugare), non le ONG che con rare eccezioni sono qui da 2-3 mesi, non le Nazioni Unite che giunsero a fine agosto coi primi accampamenti. All’epoca, tutto era in mano a una mafia internazionale (turca, greca, macedone) che approfittava dei confini aperti per spillare somme ingenti ai profughi (talora portati perfino dalla Libia e dal Marocco, probabilmente attraverso la Turchia…) e per infliggere loro (compresi donne e bambini) marce infinite attraverso la spina dorsale dei Balcani. Dopo la crisi di agosto ci furono l’Orban cattivo, la Merkel buona e l’Austria silenziosa, e Idomeni diventò per altre settimane solo un punto di transito per quelli che il governo Tsipras – unico forse tra quelli europei – definiva a priori mai “clandestini” ma sempre “rifugiati”, indipendentemente dalla loro provenienza e dalla loro motivazione, rinunciando così a quell’intollerabile discriminazione fra esule per fame ed esule di guerra che tutte le sinistre europee (a tacer delle altre parti politiche) hanno comodamente sposata ed eretta a fondamento delle loro politiche. Poi vennero novembre, la limitazione del passaggio ai soli Siriani, Iracheni e Afghani (questi ultimi esclusi poi a partire da gennaio, in una sorta di macabro gioco a eliminazione), e così la metamorfosi di Idomeni in un campo vero e proprio, in concomitanza con l’inizio dell’inverno. L’inverno freddo dei film di Theo Anghelòpulos; l’inverno in cui piove, “perché questo non è il Libano”. E la tolleranza di chi, forse per soldi forse per buona intenzione, ha portato fin qui tanta gente che non aveva alcuna speranza di passare.

Dimitris, che vive e lavora come fisioterapista alternativo a Salonicco, ricorda perfettamente quando, di ritorno da quel suo primo viaggio al confine, con un pugno di amici decise che era ora di far qualcosa: “io ho dei figli, e mi sono semplicemente vergognato”. Così, di punto in bianco, senza nessun sostegno e nel disinteresse totale tanto dei media, impegnati a deplorare i morti annegati dinanzi alle isole, quanto delle autorità che non giudicavano quel fronte un pericolo attuale, dettero vita attraverso un blog Volontari di Salonicco – amore senza frontiere e una pagina Facebook a una raccolta di cibo e vestiti tra i cittadini del quartiere, poi dell’intera città. E, nel silenzio, senza alcuna visibilità, cominciarono ad arrivare generi di ogni tipo da parte di perfetti sconosciuti, spesso casalinghe o modesti impiegati che durante la pausa pranzo passavano dal deposito (una casa privata adibita all’uopo) a lasciare 10 uova, una cassetta di mele, o una scatola di pannolini; o, meglio ancora, cibo cucinato alla vigilia delle spedizioni che due volte a settimana raggiungevano e raggiungono tuttora Idomeni – prima camioncini, poi interi camion pieni di generi di prima necessità, “ma non, tiene a ribadire Dimitris, i toast freddi delle Nazioni Unite o di MSF, bensì razioni di cibo vero, o per lo meno un uovo con un po’ di formaggio, di pane, e un frutto, insomma qualcosa che sazi”. Ogni viaggio costa una fortuna; uno non ci penserebbe, ma solo in buste e contenitori se ne vanno almeno tremila euro al mese, e se qualche imprenditore generoso (e anonimo) non ne regalasse un po’ forse i volontari non ce la farebbero. Ma le bollette del gas di chi cucina, quelle se le paga ciascun volontario coi propri soldi, proprio come la benzina dei camion (35-40 euro ciascuno per ogni viaggio), per non parlare delle cose che si distribuiscono – “ho visto amici tornare a casa scalzi per aver visto vecchi con le scarpe rotte, ed essersi vergognati di averne di sane”.

A Idomeni le file sono infinite, e quelle per il cibo non vanno molto più veloci di quelle per le calzature; sopra la passerella che ripara i primi 50 (gli altri sono esposti alle intemperie per centinaia di metri ancora) campeggia l’orologio con un beffardo “Welcome to Idomeni” che lampeggia anche in arabo. Ogni camion che arriva è assediato dai bambini, onnipresenti, mentre alle 11 già la gente inizia a prender posto dinanzi alle cucine improvvisate nei container dall’associazione Ikòpolis: Babis, uno dei cuochi, col mestolo in mano dinanzi a tre enormi pentoloni in cui andrà un riso con il tonno, mi dice che a fine giornata avranno sfornato 2000-2500 razioni. Dimitris mi conferma che il suo proprio gruppo, quando va su, riesce a distribuire a volte più di 4 o 5000 razioni (250 sono i volontari che preparano e cucinano); su un campo di 16000 persone non è poco, ma non è mai abbastanza. Ma non è poco soprattutto perché denota un’adesione spontanea della popolazione greca al volontariato che non passa né per la Chiesa (quella cattolica e quella evangelica sono ora ben presenti entrambe), né per le organizzazioni non governative (per quanto lodevoli) né tanto meno per il governo, de facto spettacolarmente assente, e incapace forse di cogliere tramite i suoi semplici impiegati la dimensione umana della catastrofe. Si parla tanto di terrorismo “molecolare”; ecco, questa è a suo modo una solidarietà molecolare.

E questo, si badi, in un Paese dove negli ultimi 7 anni i salari e le pensioni sono calati della metà, e l’economia è praticamente in coma. Ogni mese, il sospirato e promesso recupero del livello pre-2008 si allontana nel tempo: ci vorranno altri vent’anni, strilla in copertina il giornale di oggi, che registra gli ultimi diktat della trojka, su cui il governo Tsipras è accusato di aver ceduto a indicibili mercanteggiamenti. Di fatto, le “linee rosse” poste a suo tempo dalla “rivoluzione Syriza” sono miseramente cadute una dopo l’altra, proprio come non cadono i muri dell’Europa: salario minimo decurtato, pensioni sottoposte a nuovi tagli (per molti è la terza o quarta volta), limite di esenzione dalle tasse abbassato di altri 200 euro, confisca dei beni mobili e immobili automatica e immediata per i debitori insolventi. Su tutto, un sistema bancario fragilissimo strozzato da un debito pubblico e privato capillare, la cui perversa dinamica nel corso degli anni ha messo in ginocchio il Paese sul piano economico ma anzitutto umanitario – lo illustra splendidamente il rapporto della commissione d’inchiesta sul debito voluta nel Parlamento greco dall’ex presidente Zoì Konstandopulu, figura competente e intransigente, sottoposta forse per questo al ludibrio mediatico e misogino perfino dai propri stessi compagni di partito, e prontamente rimossa nel nuovo corso del Syriza di governo (il rapporto è ora comodamente leggibile anche in francese. Anche se forse non è un caso che proprio per questo Tsipras abbia perduto per strada l’appoggio di molti antichi alleati in Europa, da Mélenchon a Corbyn a pezzi interi di Podemos, i quali parteggiano ormai apertamente per la nuova formazione politica internazionale dell’ex ministro Varufakis e della stessa Zoì. Sarà un caso che Tsipras abbia partecipato la settimana scorsa al vertice dei socialdemocratici europei di Parigi, scambiandosi amichevoli battute con Hollande e Renzi?

A Dimitris la politica non interessa se non per gli effetti che produce sulla pelle degli ultimi; e però sa bene che se la popolazione non vedrà uno sforzo concreto da parte delle autorità, anche il volontariato spontaneo per i rifugiati si estinguerà per sfinimento, sfociando nella più classica delle guerre fra poveri: prima o poi sottentrerà il pensiero “se il governo ci lascia soli, ci taglia i soldi e ci ruba il futuro, perché dovremmo noi aiutarlo a gestire questa tragedia a spese nostre”? Mentre noi parliamo quassù, nella piazza centrale di Salonicco, sotto lo sguardo pensoso della statua di Aristotele (che era Macedone anche lui, essendo nato a Stagira), si svolge la rappresentazione plastica di questa contraddizione: fino al lungomare, troneggiano infatti gli stands della multinazionale Unilever, la quale ostenta con sfarzo i propri programmi di solidarietà nei confronti dei Greci disagiati. Tuttavia, dinanzi al padiglione dove si offre una minestra calda, o a quello dove si distribuiscono medicinali, i poveri che si addensano non hanno più lingua né colore, sono indistintamente Afgani, Greci, Iracheni, Bengalesi, Siriani. Pochi passi più in là, in un magazzino del porto, si svolge una mostra di geniali fotografie (“Images of our other self“) scattate tra Atene e Salonicco dai venditori ambulanti del giornale di strada Schedìa (“La zattera”), che sono spesso essi stessi senzatetto: immagini anonime di una Grecia “dal basso” che è fatta di taniche e bambole rotte, di asfalto e cartone, di barboni e teste di medusa, di murales perfetti come quello in cui un palloncino sale verso l’alto squarciando pian piano un muro di mattoni: e il muro di Idomeni, che palloncino lo squarcerà? Appena fuori dal magazzino, sulla banchina del porto di Salonicco, gli attivisti del “Caravan project” hanno piantato due tende mongole (o yurt) sotto le quali danno conto di un tour di mesi e mesi nella Grecia profonda, dai campi bruciati di Chio alle sofferenze dei Rom di Patrasso, dall’ambiente in pericolo nel sito macedone di Skuriès ai villaggi dell’interno in cui vivono ormai solo i vecchi sdentati e silenti. Anche qui, si parla dei Greci disagiati che vivono per strada? dei migranti che li affiancano nelle stesse strade? delle strade di un Paese senza speranza? di un mondo composito, quel mondo che si vede ormai ad ogni angolo, e che le strade dei Balcani le percorre fino a sbattere contro muri di indifferenza?

Così canterà stasera Àlkistis Protopsalti all’auditorium di Salonicco, riprendendo la versione greca del testo scritto da un Turco tanti anni fa, che canta l’epoca dello “scambio di popolazioni” conseguente alla catastrofe micrasiatica del 1922. E viene da chiedersi a cosa penseranno, ascoltando commossi questi versi, le migliaia di spettatori di ogni età accorsi ad acclamare la più popolare cantante del Paese, già ministro della cultura nel gabinetto provvisorio del settembre scorso.

Migranti e indigeni si confondono, e chissà a chi finiranno i 1000 pasti caldi quotidiani supplementari che il Comune di Salonicco ha varati l’altroieri per tutelare le fasce bisognose. Proprio ieri mattina, quasi alla chetichella, sono arrivati al porto i primi 260 profughi provenienti dalle isole. Scesi da pullman gran turismo partiti da Kavala e requisiti all’uopo (sulle fiancate, scritte incongrue o beffarde come “Crazy Holidays”), sono stati accomodati in due dei molti ampi magazzini inutilizzati dell’area portuale, quelli più lontani dal centro. La progressione che si squaderna sotto gli occhi del camminatore che arrivi fin laggiù è quasi simbolica: nelle strutture limitrofe a piazza Aristotele, il porto appare come un modello di riuso dell’archeologia industriale, con spazi espositivi caldi e accoglienti, dal Museo della Fotografia a quello del Cinema, e almeno 5 vaste sale di proiezione che in questi giorni ospitano il Festival Internazionale del Documentario; poco più in là, entro un vasto edificio un po’ délabré che avrà oltre un secolo, c’è il molo passeggeri che in questo marzo ventoso, fuori stagione, rimane ancora poco frequentato; quindi, una serie di hangar dai vetri rotti e dagli intonaci scrostati, sfasciumi abbandonati di un glorioso passato marinaro, tra i quali compare una croce rossa sul magazzino 9, che deborda di 150 scatoloni di generi di prima necessità raccolti negli ultimissimi giorni; infine, in fondo a tutto, poco oltre il monumento ai marinai e la chiesa, una recinzione dietro la quale all’improvviso tutto si anima: ambulanze, tende, uomini del genio e pulitori. La capacità del magazzino 18 è di oltre 700 persone, e sicuramente verrà riempito (precedenza a donne, vecchi e bambini), così come poi il magazzino 21: e naturalmente, anche a non voler considerare il loro odore insalubre, il freddo che vi regna e le difficoltà di approvvigionamento (per ora 450 pasti li offrirà la mensa studentesca, più in là si vedrà), questi enormi capannoni non basteranno per l’obiettivo ambizioso che si propongono le autorità, ovvero svuotare in poche settimane i campi di Lesbo, di Chio, e – se tutto andrà bene – della stessa Idomeni, sfruttando non più le strutture di Atene (dove i profughi erano stati massicciamente ammassati a dicembre), ma quelle, ancora tutte da inventare, della Macedonia centromeridionale: caserme, officine dismesse, hangar appunto.

In questo disegno ancora tutto da inventare Salonicco ha un ruolo centrale: nella caserma di Diavatà sono ospitati da settimane oltre 2000 migranti, e molti altri, appunto, arriveranno. La città, previdente, ha affinato gli strumenti culturali per affrontare il problema: basta vedere tutti i manifesti sui muri della via Egnazia (tradizionale patrimonio dei contestatori), che solo qualche mese fa davano battaglia sull’economia, e ora sono tutti dedicati alla questione dei profughi; o basta fare un salto al Museo delle Tradizioni Popolari, dove da anni si è insediata una piccola e orgogliosa mostra sulla philoxenìa di una città abituata da sempre alle ondate migratorie – lo ricorda anche il sindaco Butaris, parlando in tv della comunità sefardita, la più cospicua d’Europa sin dal xvi secolo, e la più decimata dalla Shoah.

Ma al porto permangono le contraddizioni: se due chilometri più in qua i magazzini dove si svolge il Festival sono pieni di spettatori al punto che certe proiezioni registrano il “sold-out”, due chilometri più in là, lontano dagli occhi delle folle, sono in via di esaurimento i posti-letto per gente che non ha più nulla, e che si candida a diventare protagonista degli stessi documentari che verranno proiettati l’anno prossimo. Come quello di Marianna Ikonomu, La strada più lunga, un capolavoro di efficacia e di schiettezza nel descrivere, dall’interno del carcere minorile di Volos, la storia personale e giudiziaria di due diciottenni, l’uno curdo siriano di Kobane l’altro iracheno di Mosul, implausibilmente accusati di fare i passeurs alle frontiere, e detenuti per mesi per essere poi liberati con l’obbligo di residenza in un Paese, la Grecia, che doveva essere un mero transito, e di cui ignoravano financo l’esistenza. “This plane nach Yunan?” mi chiedeva, sull’aereo che da Istanbul mi portava giorni fa a Salonicco, il mio vicino di posto ventenne, inventando un mirabile pidgin inglese-tedesco-arabo uscito in parte dalle lezioni che da 8 mesi a questa parte gli somministra in Germania l’apposito servizio di Frau Merkel – perché lui, fortunato, era venuto via da Aleppo nella tarda estate del 2015, all’epoca delle frontiere aperte, e ora probabilmente torna quaggiù, forte ormai del suo documento di Germania, per aiutare la madre e la sorella rimaste imbottigliate. Forse – ma non te lo dirà mai – esse sono adesso proprio nel fango di Idomeni.

Dimitris aveva capito un anno fa, inascoltato, che a Idomeni si sarebbe scritta la storia, e quando ora dice con l’aria compresa che questo momento storico assomiglia agli anni attorno alla nascita di Cristo (movimenti di popolazioni, contaminazioni e concorrenze religiose, società globalizzata che non trova un bandolo), forse non va trattato con la sufficienza dei professori. Visto da qui, il termine “biblico” è tutto fuorché un’esagerazione. E quindi le attenzioni e soprattutto gli entusiasmi per l’esito del minuscolo vertice europeo (in cui l’Italia, accodandosi agli altri “grandi Stati”, ha apertamente rinunciato a portare avanti una linea comune con la Grecia) oscillano fra il ridicolo e il tragico, dando la misura del colpevole delirio che ha corroso il continente: si esulta per il (secondo molti peraltro impraticabile) rinvio di 70000 Siriani in Turchia, senza specificare né cosa sarà dei 45000 disperati che sono ora imbottigliati qui a Idomeni, né a quali condizioni di vita i “rispediti” vadano incontro nel Paese di Erdogan, dove li aspettano nella migliore delle ipotesi campi freddi e ostili tra le piantagioni di cotone, o nella peggiore (penso in particolare ai moltissimi Curdi) centri di smistamento che – stando a quanto ne mostra la ZDF – hanno poco da invidiare a quelli della Libia. Soprattutto, come ricordano Amnesty International, l’Unicef e Save the Children, si fa carta straccia del diritto d’asilo e si sancisce di fatto la fine dei principî su cui l’Europa si è fondata, e per i quali basterebbe leggere il lenzuolo sui binari di Idomeni: “Humans are more than passports”. Le ceneri dell’Europa, in questa impura aria di marzo attoscata dalle fumarole alla diossina.

Mentre torniamo verso la macchina, Babis sta ancora cucinando, un calzino è caduto dal ramo di un albero, e la donna con le mani butterate è quasi arrivata dal medico, dove dovrà aspettare in fila un bel po'; nel frattempo, si è chinata a raccogliere un foglio in inglese e in arabo con cui la polizia informa i rifugiati che la frontiera è chiusa, e li dissuade dal farsi abbindolare da chi promette facili passaggi oltreconfine; chissà se la signora, stanchissima, capirà. Ai lati della strada, un anziano sbuccia un’arancia, chino su un tappeto nella sua tenda aperta; un adulto sposta un cassonetto colmo, un altro sorseggia il tè che un Egiziano distribuisce gratis nel capanno laggiù; un altro ancora va, armato di pennarello, a perfezionare la scritta sgrammaticata sul capannone di MSF che ospita gente da ogni dove (“Iran+Pakistan+Somalia+Lobnane+Ghana+Bangladesh+Daghestan – The are starving Let them cross the border”); le donne si affrettano, come avessero una casa da accudire; dei ragazzi, dietro a un banchetto, fanno mercato di generi di prima necessità che avranno raccattato chissà dove. Visti nella loro nuda vita, senza pensare alle carte che hanno in tasca, gli uomini sono per un momento tutti uguali e nulla si nasconde, né le cataste di uova né i pantaloni macchiati né i segni del martirio sulla pelle.

Così, può capitare che per un attimo s’incrocino e si guardino un uomo e una donna che mai altrimenti ne avrebbero avuto l’occasione, benché in fondo siano colleghi. Lui è un pingue signore con la barba, che pare venire dall’Estremo Oriente e incede con passo deciso in mezzo a due giovani dall’aspetto occidentale; lei è una bambina di nove anni che vaga con la birichina ritrosia di chi ha qualcosa da farti vedere. Lui è Ai Weiwei, il più famoso artista vivente, ed è qui per attirare l’attenzione su Idomeni tramite apposite performances seguite dai media di mezzo mondo. Lei (ce lo spiega a gesti il padre Mehmet Hussein, profugo di Aleppo), si chiama Sahinas, e il suo piccolo tesoro è un album in cui ha disegnato a pennarello la sua vita: mentre lo sfoglia con la manina, scorrono il minareto di Aleppo, le gigantografie di Assad, i caccia che sganciano le bombe, il gommone sotto la nave con le scalette, il muro con la bandiera greca sopra, perfino il barbiere barbuto del campo di qui, che assomiglia un po’ al Cinese che ha appena incrociato. Sono disegni bellissimi, a prescindere dal loro significato storico. Dinanzi al nostro interesse, il padre è pronto a regalarci l’album senza chiedere un euro; Dimitris, ovviamente, rifiuta e dice che tornerà domenica e lo ricontatterà. Si scambiano numeri di telefono (ma a Babele la linea prenderà?), e Mehmet aggiunge pensoso – ci sembra di capire – che non sa se domenica saranno ancora lì. Ai Weiwei, intanto, è già lontano, sparito in mezzo alle padelle paraboliche.

Quando torniamo a Salonicco, Dimitris scappa al magazzino: ha ricevuto in poche ore una dozzina di telefonate di volontari, e c’è moltissimo da fare. Nella piazza principale, intanto, Unilever sta sbaraccando; domani Aristotele, forse, tornerà a vedere l’Olimpo.

«Bisogna cominciare da subito a mettersi insieme per attivare un progetto di inclusione culturale a sinistra, per superare confini che prima di noi sono stati abbattuti dal nostro avversario». Il manifesto, 28 giugno 2016 (c.m.c.)

Con il risultato del referendum inglese il capitalismo finanziario che governa gran parte delle dinamiche mondiali ha ottenuto un’altra importante vittoria. Solo ad una lettura superficiale e di corto periodo dell’avvenimento si potrebbe credere il contrario, cioè che le forze antisistema, perlopiù di destra, ma anche qualche sprovveduto altermondialista, siano i veri trionfatori della Brexit.

Se l’economia finanziarizzata è senza territorio, senza nazione, senza spazio, se ha progressivamente superato tutte le differenze di cultura e di clima tra le varie parti del globo rendendolo realmente ciò che è, un luogo senza inizio e senza fine in cui i confini sono retaggi del passato, ebbene l’ulteriore scomposizione europea risulta un tassello fondamentale nella sua strategia di globo-colonizzazione. Che senso ha oggi, infatti, pensare le Nazioni come spazio di governo reale delle dinamiche economiche? Quale modello è realmente e stabilmente sovrano nel mainstream dei flussi di capitale?

Noi sappiamo, ma non riusciamo a pensare questo dato in termini politici, che ogni microsecondo miliardi vengono spostati da una parte all’altra del globo senza nessuna regolazione, mossi da algoritmi atti solo a guadagnare plusvalenze da qualunque cosa, dalle vite migranti alle armi, passando per consumi di lusso o cultura di massa.

Su tutto questo, che influenza nella quotidianità la nostra vita spirituale, imaginale e materiale, che ci condizione nel profondo archetipico della nostra relazione con mondo dentro e fuori di noi, che potere hanno oggi gli Stati, le Nazioni? Estremamente residuale purtroppo, o per fortuna, se solo riuscissimo a pensare il globo per come lo ha reso uniforme questo flusso.

Tutto scorre, diceva Eraclito di Efeso, riferendosi al fluire del tempo. Ma oggi che tempo e spazio sono la stessa cosa, o meglio che lo spazio non esiste più perché annullato, sussunto nel tempo degli scambi «in tempo reale», che senso ha questa verità? Evidentemente abbiamo bisogno di rivedere le nostre categorie e di adattare la nostra episteme a condizioni già da tempo mutate ma che non riusciamo a cogliere nelle loro implicazioni politiche.

Gli «utili idioti» delle destre xenofobe, con la bava alla bocca per la Brexit sono dunque solo le teste di ariete per un ulteriore processo di sminuzzamento mucillaginoso delle società europee ridotte a meno dei loro individui, come proponeva la Thatcher quando fece entrare la Gran Bretagna nella CEE, e lo fece proprio perché in quel momento il significato della scelta non era affatto «europeista» ma strumentale alla decostruzione di una Europa che doveva così essere frenata e sottoposta ai diktat liberali che allora stavano divenendo liberisti: la reganomics.

Infatti, l’effetto domino che probabilmente si attiverà, dato che i politici europei non hanno le circonvoluzioni celebrali per pensare se non in termini territoriali e di breve periodo, porterà ad un azzeramento radicale dell’ideale europeo come venne concepito da Spinelli, cioè uno spazio macroculturale, aperto e poroso, prima ancora che politico ed economico, nel quale i popoli mettevano da parte le diseguaglianze per costruire, attraverso le loro diversità, uno spazio comune.

È evidente ad ogni ragazzino collegato al mondo attraverso il suo smartphone che lo spazio minimo per riacquistare diritti, partecipazione, governo dei territori, podestà sulla propria esistenza, è almeno continentale. E dunque da oggi il dibattito sulla costruzione di una sinistra all’altezza delle sfide deve decisamente prendere una piega di questa portata, mettere subito da parte i livelli nazionali, ricomporsi su scala europea, ripensarsi nell’internazionalismo che ci impongono le mutate condizioni.

Questi mesi vedranno momenti difficili per le istituzioni democratiche nazionali ed internazionali: le ricette del rigorismo cercheranno di dare la spallata finale al progetto europeo, lasciando poi le destre amministrare la povertà e le diseguaglianze.

È possibile che molti governi cadranno, incluso quello italiano, incapaci di ripensare l’Europa come rinascita culturale di una idea di eguaglianza, welfare, libertà di circolazione e solidarietà euro mediterranea. Bisogna cominciare da subito a mettersi insieme per attivare un progetto di inclusione culturale a sinistra, avendo come obiettivo una Carta Costituzionale Europea come programma fondamentale per superare confini che prima di noi sono stai abbattuti dal nostro avversario.

Comune-info, 28 giugno 2016 (p.d.)

In aprile c’è stato il botto mediatico: il sindaco di Riace Domenico Lucano segnalato dalla rivista Fortune come uno fra i cinquanta leader più influenti del mondo, l’unico italiano presente. Non è stato dunque un caso che in occasione della giornata mondiale dei rifugiati sia stato invitato il 22 giugno al Parlamento Europeo a Bruxelles per raccontare la sua esperienza. Un riconoscimento che giunge dopo anni di lavoro estenuante e capillare sul territorio, cercando di invertire la tendenza dello spopolamento del suo paese (emigrati al Nord e all’estero), trasformando quello che altri vedono come un problema – la presenza dei migranti -, come una opportunità. La storia di Riace è risaputa e sotto gli occhi di tutti, per i tanti servizi di inchiesta che i media hanno voluto riservargli.

È in questo paese di milleottocento abitanti, nel cuore della Locride, che sei anni fa è partita un’altra scommessa: il Riaceinfestival collegato con la Rete dei caffè Sospeso. Fondato dalla Rete dei Comuni Solidali, in collaborazione con l’amministrazione Comunale e l’associazione Città Futura.

Un festival delle migrazioni e delle culture locali, una manifestazione nata sull’onda della politica di accoglienza e reinsediamento dei rifugiati e richiedenti asilo politico un esempio positivo che è riuscito nel tempo a coinvolgere altri Comuni della zona.

Il concorso cinematografico vuole dare spazio a produzioni indipendenti legate ai temi delle migrazioni, della multiculturalità, della società plurale, del rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri. Mediterraneo luogo privilegiato di intreccio e confronto tra culture, lingue, religioni, ordinamenti sociali e ordinamenti giuridici.

Una iniziativa concreta che, attraverso l’universale linguaggio del cinema e delle arti, promuova lo scambio e la conoscenza reciproca affinché si contrastino forme di chiusura e razzismo, richiamando l’attenzione sul percorso innovativo che le amministrazione comunale di Riace a saputo avviare, coniugando l’accoglienza dei migranti con il rilancio del proprio territorio e dando l’immagine di una Calabria inedita, diversa da quella delle cronache nere.

Due le sezioni (www.riaceinfestival.it):

1. Progetto “Granaio della memoria: memorie e storie di accoglienza”
Stiamo vivendo un momento importante di trasformazione culturale grazie alla presenza di numerose persone richiedenti asilo sui nostri territori. Nonostante la pesante campagna (richiedenti asilo presentati come invasori e beneficiari di privilegi in contrapposizione con gli italiani in difficoltà), il nostro Paese continua a vivere un vero miracolo ed essere promotore di un civile rapporto di convivenza. La tenuta sociale dei territori coinvolti dai progetti di accoglienza è stata possibile grazie agli sforzi e alla messa in atto di buone pratiche sociali di tanti cittadini, operatori, volontari e amministratori di Comuni di tutte le dimensioni che stanno traghettando verso il futuro un Paese sempre più multietnico.

Il progetto si propone di fare memoria raccogliendo documentazione di tutta questa grande spinta culturale e solidaristica e diffondere buone pratiche, fare emergere gli elementi di criticità attraverso la creazione di un archivio multimediale dedicato al tema dell’accoglienza in Italia. L’Archivio avrà il compito e una sua funzione culturale attiva cercando di diffondere i materiali, utilizzando la particolare visibilità di Riace come paese dell’accoglienza ormai noto a livello internazionale. L’archivio potrà anche essere consultato dagli studiosi, stagisti, universitari, giornalisti che ogni giorno visitano il piccolo centro. Le opere potranno inoltre essere messe a disposizione per iniziative e progetti di divulgazione e studio sul tema dell’accoglienza (previo consenso degli autori), dalla Rete dei Comuni Solidali su tutto il territorio nazionale.

Nello specifico l’archivio intende raccogliere i seguenti lavori: produzioni video realizzate da videomaker e/o reporter indipendenti per documentare il sistema dell’accoglienza dei richiedenti asilo in Italia e la loro condizione. Materiali realizzati nell’ambito degli stessi progetti di accoglienza in cui si articola il sistema nazionale, in particolare la rete Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), i vari progetti emergenza seguiti dalle Prefetture. I Centri di accoglienza straordinari

2. Concorso Corti

Storie di incontri, esperienze di piccola quotidianità. Parole, abbracci, liti, sguardi, amori, paesaggio, periferie, felicità, esperienze, viaggi, feste, cibo…Narrazioni e ricostruzioni su ciò che cambia nella società, nella politica e nella cultura a seguito dei fenomeni migratori e non solo. Una particolare attenzione a tutto ciò che permette la costruzione di una società multiculturale, alla condizione di vita di migranti e rifugiati politici nei paesi di transito e di destinazione e a positive esperienze di integrazione /interazione sociale.

«Il manifesto, 26 giugno 2016 (c.m.c.)

C’è un paradosso nei regimi democratici contemporanei: massimizzano le opportunità per i cittadini comuni di decidere direttamente e minimizzano l’ascolto.

Mai le democrazie si sono mostrate tanto disponibili a dar voce al popolo sovrano, sgombrando il campo delle mediazioni proprie della rappresentanza e dei partiti, tramite referendum, investiture dirette, primarie, consultazioni on line e non, ivi compresi gli onnipresenti sondaggi.

In compenso, questi stessi regimi mai hanno prestato così poca attenzione alle arcinote richieste dei cittadini comuni: lavoro, pensioni, servizi, eccetera. Intendiamoci. Nonostante quel che promettono i loro sacri testi e i loro propagandisti, sinceri e insinceri, i regimi democratici non sono stati inventati né per dare voce all’uomo comune, né per trattarlo con particolare benevolenza. Servono a minimizzare i conflitti e a tener buono il cittadino comune.

Sono il prezzo che i potenti pagano in cambio della pace sociale. Per fortuna, la competizione democratica lascia qualche spazio (che si è sempre provato in vario modo a ridurre) a chi si fa portavoce del cittadino comune, a condizione che lo si organizzi, come facevano i partiti di una volta.

Se non che, da qualche tempo a questa parte i potenti hanno deciso di cambiare strategia e di abbandonare ogni prudenza. Da un lato adottano misure che favoriscono in modo indecente i ricchi e i potenti e hanno ridotto quelle che favoriscono il cittadino comune.

Ritengono meno costoso addomesticarne le sofferenze e il malumore offrendogli quelle che spacciano per maggiori opportunità di decisione. Salvo ridurre le sue scelte a due sole opzioni e investire massicciamente in manipolazione e disinformazione. La democrazia si è pertanto risolta in una drammatica gara a chi manipola meglio e di più. E si dimostra spietata verso il cittadino comune.

Siamo seri. Il cittadino non è uno sciocco. Può di sicuro capire cosa gli conviene tra divorzio sì/divorzio no. Ma orientarsi tra i meandri del Brexit non è alla portata di tutti. Può scegliere un sindaco e un deputato, a condizione che gli si offra un numero decente di alternative. Sono invece democraticamente devastanti le procedure d’investitura diretta della leadership, solitamente ottenute con marchingegni elettorali che promuovono a maggioranze minoranze ristrettissime. Se la scelta è sbagliata (immaginiamo cosa accadrebbe se la spuntasse Trump), è impossibile rimediarvi. Il cittadino comune ha capito il trucco. Non a caso, l’astensione è cresciuta in maniera esponenziale.

Il diavolo, come sempre, fa pentole, ma non coperchi. Così è successo per il Brexit. Cameron ha voluto il referendum imbastendoci sopra una vergognosa speculazione politica. Lo ha voluto per vincere le elezioni, per ricattare i suoi partner europei, per neutralizzare a basso costo il populismo di Farage. Nelle due prime imprese gli è andata alla grande. Al referendum, l’imbonitore ha trovato il suo maestro.

Non sappiamo cosa accadrà. Forse sarà un vantaggio per l’Europa, che non sopporterà più le eccezioni inglesi e non subirà più la concorrenza di quel paradiso fiscale che l’Inghilterra è diventata. Ma è verosimile che i danni per il Regno Unito siano notevoli e che la sua stessa sopravvivenza sia a rischio. Che accidenti di democrazia è comunque quella in cui si sono pronunciati tre elettori su quattro (una quota peraltro altissima) e l’exit ha prevalso di un soffio, avendo messo in lotteria il destino di un popolo, ma anche dei popoli vicini?

C’è da augurarsi che questo evento, quali che siano le sue conseguenze, convinca i potenti che non è opportuno assumere decisioni collettive in maniera tanto avventata. Che possono essere controproducenti anche per loro. Riuscirà la vicenda del Brexit a moderare la loro avidità di potere e di ricchezza, dissipando il micidiale sciocchezzaio di quello che Giovanni Sartori ha chiamato «il direttismo»?

Ci libereremo di idiozie come quella che bisogna restituire al popolo sovrano il suo scettro? Che la sera delle elezioni è giusto che il popolo sappia chi dovrà governarlo? Che la democrazia vince sempre quando il popolo si pronuncia? La democrazia fa dei pronunciamenti popolari il suo fondamento, a condizione però che gli elettori siano istruiti e informati e non manipolati. Non per caso i padri costituenti scrissero che la sovranità popolare si esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla costituzione.

Un secondo insegnamento è che il cittadino comune non lo si può opprimere e spremere più di tanto. Perché alla fine si ribella e lo fa come può. Anche in maniera scomposta. Non solo. Stiamo attenti in special modo agli anziani. Altro che rottamarli, meritano grandi cure e grande rispetto. Sono gli ultrasessantenni che hanno deciso del Brexit.

».

La Repubblica, 26 giugno 2016 (c.m.c.)

I miei studenti provengono dalla periferie di tutto il mondo. Hafiz giocava a pallone sui terreni sconnessi nei dintorni di Kabul prima che i talebani uccidessero i suoi genitori, ecco perché controlla la sfera come un adolescente brasiliano. Mamudu ha respirato l’odore degli pneumatici bruciati ai margini del deserto, a due passi da Bamako. Omar è cresciuto in una discarica non distante da Rabat. Ovidiu ha dormito nelle fogne di Bucarest. Rashdur suonava il flauto lungo le rive fangose degli acquitrini intorno a Dacca. Florinda vendeva schede telefoniche a Sarekunda, in Gambia.

E adesso, dopo che, in un modo o nell’altro, sono arrivati nell’Urbe imperitura, in quali ambienti vivono? Al Pantano, a Grotta Celoni, a Pietralata, a Santa Maria del Soccorso, a Mostacciano, a Torre Spaccata: i quartieri posti ai margini della metropoli dove hanno sede i centri di pronta accoglienza per minori non accompagnati, oppure per richiedenti asilo politico.

La nostra Africa. Palazzine con cancelletti e citofoni senza nomi al cui interno l’antica capitale colloca, non sapendo dove altro sistemarli, questi nuovi sciuscià, lazarilli, pinocchietti neri, coi ginocchi eternamente sbucciati, gli occhi vispi, le passioni segrete, le speranze perdute ma sempre sul punto di venire ritrovate. Penso a Moustafà, che vendeva datteri sul Delta del Nilo e stava tutto il giorno all’aperto.

Adesso abita in una stanza con un vecchio poster di Balotelli attaccato alla parete proprio sopra il lettino. Non fa niente dalla mattina alla sera. In una classe chiusa, seduto al banco, non ci saprebbe stare: preferisce venire da noi, alla Penny Wirton, a studiare l’italiano. Gli regaliamo una maestra tutta per lui con penna, quaderno, libro e caramelle. Perfino così è difficile tenerlo concentrato: analfabeta nella lingua madre, inventa qualsiasi scusa pur di evitare l’esercizio che gli sottopongo. Allora lo prendo per mano e me lo porto in giro, al secondo piano del liceo “Giovanni Keplero”, dietro Ponte Marconi, dove una dirigente scolastica illuminata, Maria Concetta Di Spigno, ci ha messo a disposizione sette aule il mercoledì e giovedì pomeriggio.

Il monello egiziano coi capelli tagliati alla Moicana, come Genny Savastano, vive un sentimento contrastante: da una parte è ancora Antoine Doinel, indimenticabile protagonista dei Quattrocento colpi, cioè vuole scappare continuando a correre sulla battigia, verso nuovi lidi, amori, felicità, professioni; dall’altra capisce che prima o poi dovrà fermarsi e, per essere veramente se stesso, avrà bisogno di trovare un lavoro, acquistare un’automobile, sposarsi, crescere dei figli. Ripeness is all, appunto. Mentre mi stacco da lui per entrare in sala insegnanti alla ricerca di atlanti e cartine, mi accorgo che la mano dello scolaro arabo oppone resistenza, come farebbe un figlio piccolo col padre, se questo lo lasciasse da solo per qualche attimo. Dopo aver riacciuffato il fuggiasco, ora devo rassicurarlo: aspetta, gli dico, prendo le parole colorate e torno.

Basta un attimo e lo perdo. È andato al bagno; attenzione perché potrebbe combinarne di tutti i colori: tipo spiccare il volo coi gabbiani della Magliana e tornarsene a casa sua, come in fondo desidera, anche se non lo ammetterebbe mai. È proprio vero: con lui non si può mollare la presa. È a questo punto che incrocio lo sguardo di Teresa, la liceale del “Pilo Albertelli”, all’Esquilino, che, insieme a una ventina di compagne, sta svolgendo presso di noi il tirocinio formativo nel quadro dell’alternanza scuola lavoro previsto dalla nuova riforma dell’istruzione pubblica.

Sarà per la presenza fantasmatica del priore di Barbiana, che non smette di agitarsi dentro di me, ma è naturale pensare a lei come alla soluzione dei problemi di Moustafà. Non era stato proprio don Lorenzo Milani a proclamare a chiare lettere che per fare una scuola come si deve basta chiamare dei sedicenni a insegnare ai dodicenni? E chi sono i ragazzi di Barbiana di oggi, se non quelli che sbarcano a Lampedusa? Così, nel momento in cui il diretto interessato spunta in corridoio, appena vede l’incredibile docente che gli ho affidato, trasforma l’aria scalcinata di bandolero stanco che lo contraddistingue in un’imprevedibile solerzia. La studentessa, che potrebbe essere una sorella maggiore, riesce perfino a farlo sillabare sul manuale: una cosa dell’altro mondo.

Mi torna alla mente, in contrapposizione speculare, Mohamed, il ragazzo marocchino che un paio di anni fa ci raccontò di aver vissuto da protagonista i fatti di Tor Sapienza. Gli abitanti del quartiere, inferociti dall’arrivo dei migranti, attaccarono il centro di accoglienza e lanciarono oggetti contro le finestre suscitando la reazione dei minori che vi alloggiavano. Una guerra fra poveri, leggemmo sui giornali. E la mortificazione che decifrai nell’espressione del nostro scolaro mentre rievocava gli eventi ai quale aveva partecipato restò un’emozione privata, soltanto mia.

Forse in quei giorni si verificò una frattura che certi osservatori hanno scoperto solo ieri l’altro, quando i risultati delle più recenti elezioni comunali l’hanno impietosamente registrata. Intendiamoci: lo scarto lancinante fra chi ha l’ufficio in Campidoglio e quelli che alle prime luci dell’alba prendono il tranvetto del Casilino diretti alle Ferrovie Laziali per andare al lavoro, sembra troppo forte per essere considerato il frutto di una semplice stortura amministrativa.

Tutti sapremmo indicare le magagne accumulate nel tempo. Le potremmo individuare con precisione, quasi fossero cicatrici di una ferita ben nota, le tappe della sconfitta annunciata: edilizia di rapina; trasporti improponibili; servizi inefficienti; interventi che cadono dall’alto come meteoriti, pensiamo alla Chiesa della Misericordia di Richard Meier a Tor Tre Teste; biblioteche lasciate da sole come fortini nella pianura del Serengeti; finanziamenti a progetti magari interessanti, ma che non hanno alcuna ricaduta nella vita sociale del territorio.

La crisi etica in cui annaspiamo, innegabile su scala nazionale e ben più grave dello scompenso economico del quale sempre sentiamo discettare, a Boccea è clamorosa. A Torre Maura diventa una piaga purulenta. A Ostia ha creato i presupposti dello sfacelo sotto i nostri occhi. Poi ci lamentiamo che molti ragazzi delle borgate vanno da Casa Pound a cercare uno sbocco al loro vitalismo tumefatto.

In quale altro luogo potrebbe andare un ragazzo cresciuto nel vuoto culturale, senza anticorpi, coi frantumi esplosivi che i suoi genitori, fragili e violenti, gli hanno trasmesso? Dove sono gli adulti credibili capaci di tenergli testa offrendogli un modello nuovo, che non sia quello degli addominali scolpiti in palestra, in grado di fargli comprendere che la libertà non è il superamento del limite ma la sua accettazione?

Continuiamo così, con le parole al vento, i linguaggi incrostati non legittimati dall’esperienza, la ricerca del consenso fine a se stessa, le frasi fatte, i cinismi introiettati nel sangue, gli alibi interiori e presto Corviale diventerà la nostra Molenbeek, là dove tutto sembrava perfetto: scuola, sanità, sport, corsi professionali. Cosa mancava? Il fattore più importante: la qualità del rapporto umano.

Lasciate stare le bandiere sventolate nei salotti della Grande Bellezza. Scendete da cavallo e baciate il lebbroso (spirituale) dei giorni nostri: ha una moglie e due figli, abita a Casetta Mattei, lavora ai ponteggi, guadagna mille euro. Per mantenere la sua famiglia fa una rivoluzione al mese. Se non parlate con lui, continuerete a vincere soltanto a Corso Francia.

Roma non potrà assorbire tutto, come ha sempre fatto, quasi fosse una spugna infinita. Detto questo, l’errore più grave che potremmo commettere sarebbe quello di attribuire alla classe politica l’intera responsabilità di quanto accaduto.
Come se noi, comuni cittadini, fossimo immuni. Non basta scandalizzarsi.

Bisogna entrare in azione, superando i vecchi schemi novecenteschi. Me lo ricordo Alessandro: naziskin dell’Alberone, il giorno in cui, rischiando, lo ammetto, gli posi di fronte Ismail. Chi non li avesse conosciuti, avrebbe potuto sintetizzare così: la croce uncinata contro la mezza luna. E allora, dico io, perché sorrisero, insieme a me, riconoscendosi fratelli nel nome del grande Mohamed Salah? Non il terrorista parigino, ma l’omonimo giocatore della Maggica.

«Il manifesto, 26 giugno 2016 (c.m.c.)

Non è ancora il colpo di grazia, ma sicuramente il voto che ha deciso l’uscita del Regno Unito è una tappa decisiva verso la dissoluzione dell’Unione europea. Un esito irreversibile che mette all’ordine del giorno la sua ricostruzione su basi completamente nuove: una sua «rifondazione».

Perché è chiaro che in un mondo globalizzato non c’è alcuno spazio per l’autonomia politica delle piccole nazioni. La politica, che per noi è lotta e conflitto sociale, o si sviluppa in un orizzonte per lo meno europeo, o è condannata comunque alla sconfitta.

Chi, nel nostro come negli altri paesi dell’Unione, sostiene che l’uscita dall’Unione o la dissoluzione dell’euro – che di giorno in giorno diventa peraltro più probabile – comporterebbero un guadagno per le classi lavoratrici tradisce in realtà una completa sudditanza al liberismo – teoria che affida le sorti dell’economia al mercato – pensando invece di sottrarsi alla sudditanza nei confronti del cosiddetto "neoliberismo": una denominazione del tutto inappropriata del pensiero unico dominante, che non è né nuovo (neo) né liberista, perché è semplicemente la teorizzazione dell’approvazione privata di tutto l’esistente – il "creato" – dove a contare sono soltanto i rapporti di forza.

Si vorrebbe infatti far credere che con una svalutazione competitiva, in mezzo a 28 altri paesi impegnati nella stessa politica, il paese potrebbe imboccare la strada di una rinnovata competitività, di un rilancio dello "sviluppo" e, perché no? di una maggiore eguaglianza, quando è chiaro, invece, che nel mondo globalizzato conta solo più l’esercizio brutale del potere; e che più una nazione è piccola, più è impotente. Chi nel Regno Unito ha votato per la brexit lo ha fatto convinto che, per qualche oscura ragione, il suo paese sia ancora un impero. Ma non è così.

Era e resta, come tutti gli altri membri dell’Unione che ha abbandonato, un paese in mano a una finanza mondiale che ignora le ragioni dei lavoratori e dei popoli; di qualsiasi popolo; cercando anche di mettere i giovani contro i vecchi, entrambi tartassati, anche se in modi diversi.

Ma poiché, secondo me, come ho già argomentato (Alle radici del problema europeo, il manifesto, 20.6), il voto inglese è stato soprattutto un pronunciamento – quasi alla pari: una roulette – tra respingere e accogliere profughi e migranti, è del tutto verosimile che, sotto la spinta delle dilaganti pulsioni identitarie e razziste, all’exit inglese altri ne seguiranno, magari anche in forme e con modalità diverse, mettendo comunque fine alla configurazione dell’Unione europea così come l’abbiamo conosciuta.

L’establishment che attualmente la governa non è assolutamente in grado di fermare questa deriva perché ne è anzi il principale responsabile. È stato proprio quell’establishment a presentare come un problema insostenibile l’arrivo di un numero di profughi peraltro inferiore a quello dei migranti a cui fino a qualche anno prima aveva saputo, e avuto interesse, a trovare un posto e un lavoro sul suo territorio (Italia compresa).

E la ragione di questa insostenibilità è semplice: essendosi impegnato a togliere ai propri concittadini (al 99 per cento di essi) tutto quello che era possibile sottrargli – reddito, servizi sociali, «piena» occupazione (o, per lo meno, la pretesa di perseguirla), sicurezza sul lavoro, cultura, democrazia, dignità e quant’altro – era nella logica delle cose indirizzare verso un capro espiatorio il malcontento e la rabbia delle vittime di queste sue politiche di cosiddetta austerity.

La cosa doveva sembrare tanto più naturale in quanto, non essendoci più, secondo la versione dell’economia mainstream, i "soldi" per pagare tutte quelle cose ai cittadini europei (sono stati infatti destinati tutti a salvare o a far prosperare banche e finanza), era ovvio che di "soldi" non ce ne fossero neanche più per mantenere, a spese degli Stati, «tutti quei profughi».

Per eludere gli esiti dissolutivi e devastanti della brexit, quell’establishment dovrebbe invertire le sue politiche di 180 gradi.

Ma non può farlo: primo perché è prigioniero di una cultura, e di un conglomerato di interessi, per le quali "non c’è alternativa". L’alternativa può crescere solo dal basso, contro di loro. Poi, perché la marea identitaria e razzista che quell’establishment ha messo in moto con la leggerezza di un apprendista stregone – il razzismo, ricorda Zigmund Bauman, non si sviluppa se non promosso dall’alto – gli è ormai sfuggita di mano, e viene cavalcata con crescente successo da forze nazionaliste di estrema destra.

Forze che lo stanno scalzando dai suoi insediamenti elettorali tradizionali in nome di una finta opposizione alle politiche economiche vigenti, che non ne mette però in discussione i fondamenti, e di una politica di respingimenti, altrettanto impraticabile, ma di grande successo immediato, perché evita accuratamente di prefigurarne le conseguenze: che sono quelle di risospingere i profughi, e magari anche di espellere i migranti, tra le braccia di quelle forze che li hanno costretti a fuggire; moltiplicando i fronti di guerra ai confini dell’Europa – e poi contro di essa – e con essi la spinta a farsi coinvolgere sempre di più, al seguito della Nato, in conflitti senza sbocco.

Ma anche in questo caso un’alternativa vera, fondata su pace, solidarietà e cooperazione, potrà nascere e crescere solo dal basso.

Dunque? Dunque l’Europa, l’ambito insopprimibile di ogni vera politica, va rifondata alle radici, richiamando in servizio il manifesto di Ventotene; ma in un contesto completamente mutato.

Per realizzare non più, solo, una federazione degli Stati europei per evitare che i suoi popoli tornino a scannarsi tra di loro, e collaborino invece a promuovere un comune !sviluppo". Ma già l’annessione (non saprei chiamarla altrimenti) dell’Est europeo all’Unione e alla Nato era servita più a rinfocolare la guerra (fredda, ma anche calda) contro la Russia e altri paesi invisi agli Stati Uniti che a portare avanti la distensione.

Quello che occorre è invece un processo federativo incentrato sulle autonomie locali, impegnato in un grande progetto di conversione ecologica, e capace di includere e renderne protagoniste, anche attraverso il coinvolgimento di coloro che oggi o in un passato più o meno remoto hanno raggiunto il suolo europeo come profughi o come migranti, quelle comunità e quei paesi da cui sono dovuti fuggire: una grande federazione di popoli euromediterranei ed euroafricani per riportare la pace non solo all’interno dell’Europa, ma anche ai suoi confini vicini e lontani.

Utopia? Certo. Ma proprio la brexit e le molte sue conseguenze vicine e lontane ci mostrano che il mondo di domani non sarà più come quello che abbiamo conosciuto.

Niente sarà più come prima («This changes everything«) come ha scritto Naomi Klein. E se non sappiamo prima concepirlo, e poi progettarlo, il mondo di domani non riusciremo certo a realizzarlo.

». Il Fatto quotidiano online, 26 giugno 2016 (p.s.)


Quando hai vent’anni ci sono diversi modi di pensare al mare. Puoi avere in testa solo una vacanza, una bella foto da condividere con gli amici. Oppure avere uno sguardo inquieto che riesce a spingersi un po’ più in là, oltre l’indifferenza e oltre una politica umanitaria che di umano ha ancora poco.

Seguendo quest’ultima strada, un gruppo di nove ragazzi tedeschi, tutti giovanissimi, ha deciso di raccogliere i fondi per comprare una nave, rimetterla a nuovo e trasformarla in un’imbarcazione da salvataggio, per i migranti che attraversano il Mediterraneo in fuga da miseria e guerra.

Un’idea ambiziosa e coraggiosa, un progetto serio, elaborato nei minimi dettagli, che nel giro di un anno è diventato qualcosa di più. Grazie a una campagna di crowdfunding divisa in due fasi sono stati ottenuti oltre 300mila euro, e presto la barca sarà pronta per partire e pattugliare il mare per sei mesi, guidata da un equipaggio di professionisti e volontari.

L’associazione che ha promosso l’iniziativa si chiama Jugend Rettet, ed è stata fondata da due giovani di Berlino, Jakob Schoen, e Lena Waldhoff, rispettivamente 20 e 23 anni. Alla base c’è la volontà di fare qualcosa di concreto per affrontare l’emergenza migranti, e allo stesso tempo di creare una rete europea, una sorta di piattaforma di discussione tra i giovani, per promuovere la partecipazione e sviluppare il tema del soccorso in mare e quello delle politiche di asilo.

«Siamo un gruppo di giovani con la possibilità di cambiare qualcosa – spiega Jakob Schoen sul sito del progetto – Una nave non è una soluzione a lungo termine. Tuttavia servirà a salvare vite umane. E farà sorgere una domanda: perché al posto dei governi europei, sono i giovani, con una loro iniziativa privata, a doversi fare carico di questa missione?».

Sul sito viene mostrata la timeline aggiornata e dettagliata. Il primo passo viene compiuto a giugno del 2015, pensando alle ultime stragi di migranti sulle rotte del Mediterraneo. I numeri dell’anno precedente sono spaventosi: nel 2014 almeno 3500 persone non sono sopravvissute al viaggio per raggiungere le coste dell’Europa e sono state inghiottite dal mare.

Anche se potrebbero essere molte di più, perché una stima esatta delle vittime di naufragi è impossibile farla. Da qui, dal senso di impotenza di fronte a un dramma senza precedenti, e dalla sensazione che l’Europa stia voltando lo sguardo dall’alta parte, arriva la spinta, nasce l’idea di mettersi in gioco in prima persona, e recuperare una nave per aiutare i richiedenti asilo che si trovano in mezzo al mare.

Così la squadra di ragazzi comincia a studiare per verificare la fattibilità, e prende contatti con organizzazioni come Greenpeace, che già hanno portato avanti esperienze di questo tipo, per avere consigli pratici su come fare. Il progetto è ben fatto e ben concepito, e in pochi mesi arrivano adesioni, proposte di collaborazione, piccole e grandi donazioni.

«Il nostro obiettivo è semplice: meno morti nel Mediterraneo. Da una parte c’è la nave, impiegata per le missioni di soccorso. Dall’altra, Jugend Rettet vuole costruire una rete europea dedicata ad adolescenti e giovani, che vogliano scambiarsi opinioni e pensieri sul ruolo dell’Europa in questa emergenza umanitaria. In questo modo le persone hanno la possibilità di essere coinvolti nella discussione sulle politiche di asilo».

Per questo l’associazione ha promosso, oltre alla raccolta fondi per sostenere le spese, anche la creazione di gruppo di “ambasciatori” del progetto, distribuiti per il momento in tutto il nord Europa.

La nave scelta è un’imbarcazione olandese, in grado di ospitare un centinaio di persone. Ha delle caratteristiche precise, è dotata di scialuppe, giubbotti di salvataggio e serbatoi di acqua dolce, per soccorrere chi si trova in stato di disidratazione.

A bordo ci sarà una squadra di professionisti, medici, skipper, e operatori, aiutati da volontari. Dieci persone suddivisi in turni bisettimanali. “Un equipaggio professionale garantisce che le operazioni siano condotte in modo sicuro e serio. Ma l’organizzazione vuole anche dare ad alcuni giovani la possibilità di partecipare direttamente nelle missioni di soccorso come marinai”. La partenza è prevista per la fine di giugno.

«Banning Poverty 2018 online, 25 giugno 2016
Dopo tanti anni di accettazione, anche se critica, dello stradominio delle logiche di mercato e finanziarie che hanno stravolto e devastato l’intero sistema dello «Stato dei diritti» e della «società della sicurezza sociale» in Europa, non è più accettabile di giocherellare alla ricerca di capri espiatori, anche se ce ne sono tanti che meritano di esserlo.

Il rifiuto da parte della Camera dei deputati del Regno Unito questo 25 aprile di accogliere tremila bambini siriani orfani o rimasti abbandonati nei campi «profughi» di mezza Europa, imprigionati da nuovi muri, fili spinati e barriere di ogni tipo, ri-costruiti da quasi tutti gli Stati membri dell’UE (dall’Ungheria all’Austria, dalla Francia alla Slovenia, dal Regno Unito alla Polonia, senza dimenticare la Danimarca, i Paesi Bassi e l’Italia), dimostra che l’Europa non deve essere solo liberata dal Regno Unito (Brexit) o dall’Austria o dall’Ungheria… ma soprattutto dall’EU, dal sistema che questa ha costruito ed ha imposto agli Europei.

Noi vogliamo con forza l’unione dell’Europa, vogliamo l’Europa unita democratica, giusta, degna e libera. Con pari forza non vogliamo l’Europa dei nazionalismi, delle sovranità nazionali (First Britain) o regionali (First Veneto), l’Europa xenofoba e razzista alla Hoffered alla Salvini. E con altrettanta se non maggiore forza non vogliamo l’Europa delle diseguaglianze, delle esclusioni socialii, delle tecnocrazie ademocratiche, dei poteri forti finanziari predatori della natura e delle «risorse umane». Non vogliamo l’EU dell’austerità che alimenta le disunioni tra i popoli europei e le guerre fra gli impoveriti favorendo l’arricchimento dei già ricchi. Non vogliamo questa EU che separa, divide e punisce coloro che non obbediscono e non si sottomettono ai diktats della Troika. Milioni di europei non si sono battuti per decenni per dare potere alla Troika ma ad un Parlamento di rappresentanti eletti europei. Non vogliamo una EU che ha accettato di sottomettersi sul piano militare e della politica estera al dominio delle armi e degli Stati Uniti d’America nell’ambito della NATO. Infine, non vogliamo una EU che mistifica il funzionamento della democrazia rappresentativa e diretta, che stravolge i diritti e la dignità del lavoro, che toglie il potere e la responsabilità di decisione sui beni comuni ed i servizi pubblici alle autorità ed istituzioni pubbliche per affidarli a soggetti privati e lasciarli in balia della mercificazione, privatizzazione, competitività, monetizzazione e finanziarizzazione in nome dell’efficienza (il mantra dell’«Efficient Europe»), l’EU ha ucciso i valori fondamentali dell’uguaglianza, giustizia, libertà e fraternità delle società europee.

Penso che sia giusto e saggio che l’EU esca dalla storia futura dell’Europa. Tocca ai cittadini, alle organizzazioni della società civile ed ai rappresentanti eletti al Parlamento europeo di spingere l’EU verso l’uscita promuovendo una nuova fase Costituente europea.

Riferimenti
L'articolo è tratto dal sito Banning Poverty2015. Sul carattere almeno ambiguo della costruzione dell'Unione europea ( la cui radicenel nocciolo del siarema capitalistico affondano dagli anni e dai luoghi del nazismo ) vedi su eddyburg l'articolo di Susanna Böhm Kuby, Castellina:«L'Europa per fare che?»

«Il lungo anno di incapacità dell’Europa di trovare una politica comune sulle frontiere e sulle politiche sociali è stato tra i fattori che hanno fatto maturare il sentimento di chiusura in Gran Bretagna e altrove». La Repubblica, 26 giugno 2016
LA lunga strada verso Brexit è cominciata insieme ai boat people e alle guerre civili che in questi ultimi anni hanno disintegrato paesi chiave del nord Africa e del Medio Oriente.
Insieme ai disperati che per mare e per terra cercano scampo dalla fame e dalle guerre cercando rifugio nella ricca Europa. Povertà e mancanza di sicurezza sono beni irrinunciabili e non negoziabili, beni assoluti che siamo disposti a cercare altrove quando non sono disponibili vicino a noi. Nella speranza di trovare porte aperte e non ermeticamente chiuse. La storia dell’Europa del nostro tempo è legata inscindibilmente con quella di questa speranza e di questa disperazione. Dunque: le frontiere sono uno dei fattori che dobbiamo tener presente se vogliamo cercare di capire Brexit.

A partire dalla scorsa estate l’Ungheria ha iniziato - prima tra i paesi europei - a installare barriere di filo spinato per chiudere le frontiere con i paesi balcanici, quasi a farsi porta blindata dell’Unione Europea. Nessuno glielo ha impedito. I paesi dell’Unione hanno criticato quella decisione ma non sarà nei loro poteri quello di intervenire perché le frontiere dell’Europa sono ancora le frontiere degli stati-membri. Un tentativo di politica comune con Frontex - di respingimento dei migranti e, in casi di emergenza, soccorso - e poi un accordo con la Turchia, un paese autoritario e lesivo delle libertà civili e dei diritti umani, per pattugliare le porte ad Est, verso la Siria e i paesi distrutti e destabilizzati dai governi americani con gli alleati occidentali. Le frontiere sono la questione geopolitica sulla quale l’Europa rischia di disintegrarsi. Nata per abbattere le frontiere interne (il prossimo anno si festeggerà il Trattato di Roma che riconobbe ai cittadini di paesi ex-nemici di muoversi oltre le frontiere dei loro stati d’origine) le frontiere sono la sua damnatio memoriae.

Chi ha più bisogno di frontiere, nel mondo globalizzato, è chi è più vulnerabile nella libera competizione delle merci e della forza lavoro, la merce che può essere comperata a bassissimo costo quando le frontiere sono aperte ai disperati della terra, disposti per vivere a salari da fame e al lavoro quasi servo, senza diritti. Tutto questo avviene in Gran Bretagna e in tutti i paesi europei - dove l’Unione non si è in questi anni di crisi infinita impegnata a non far sentire la paura delle frontiere aperte, dove, al contrario, si è speculato sulla mano d’opera serva (pensiamo al bracciantato nelle campagne del nostro meridione).

La responsabilità di Brexit esce dalle frontiere della Gran Bretagna dunque, e non è semplicisticamente imputabile all’irrazionalità di chi l’ha votata - i cittadini impoveriti e ridiventati poveri non hanno tanto interesse a che il loro paese tenga le frontiere aperte. Sarebbe un errore sottovalutare questa legge eterna: la libertà non sta insieme alla destituzione. L’Unione Europea non può per questo andare avanti, oltre Brexit, come se nulla fosse cambiato, come se Brexit non mettesse in discussione la sua miope politica di austerità. Il problema è quindi un problema di frontiere perché è un problema di opportunità sociale ed economica. In questo ultimo anno si è pensato che la costruzione del filo spinato non solo all’esterno dell’Europa ma anche dentro l’Europa fosse la soluzione - una soluzione nazionalista e populista.

La risposta non può però venire dalla continuazione dello status quo: il problema dei rifugiati e il problema dell’erosione del benessere dei cittadini europei sono ineludibili e sono legati tra loro. Richiedono un governo politico però. Il lungo anno di incapacità dell’Europa di trovare una politica comune sulle frontiere e sulle politiche sociali è stato tra i fattori che hanno fatto maturare il sentimento di chiusura in Gran Bretagna e altrove. Sarebbe urgente che in risposta a Brexit l’Europa mostrasse anche la faccia politica e costruttiva oltre a quella bancaria e restrittiva.

«Gli enti locali nel mirino. Sono loro a "possedere" la gran parte della ricchezza sociale del paese – in termini di territorio, patrimonio pubblico e servizi pubblici localiIl manifesto, 25 giugno 2016 (c.m.c.)

Il risultato delle recenti elezioni amministrative apre nuovi scenari nel nostro Paese: la pesante sconfitta del governo Renzi e del Pd si è espressa con una forte domanda di cambiamento, che da Napoli -con la riconferma di De Magistris- a Roma e Torino –con la netta vittoria di Virginia Raggi e Chiara Appendino, giovani sindache del M5S- attraversa l’intera penisola.

Non è un caso se questa ribellione si sia evidenziata nella scelta sulla guida dei comuni e delle città: nonostante il contributo degli enti locali al debito pubblico italiano sia risibile (intorno al 2,1%) è sugli stessi che in questi ultimi quindici anni sono state scaricate tutte le misure per farvi fronte.

Un dato per tutti: nel periodo 2008/2014, il contributo richiesto agli enti locali – fra tagli ai trasferimenti e patto di stabilità interno- è passato da 1.650 a 16.665 miliardi (!). Facile immaginare cosa abbia voluto dire in termini di taglio dei servizi e delle prestazioni sociali, abbandono del territorio e delle periferie, dispersione e solitudine sociale.

Del resto, gli enti locali sono nel mirino per un ben preciso motivo: sono loro a «possedere» la gran parte della ricchezza sociale del paese –in termini di territorio, patrimonio pubblico e servizi pubblici locali. Una ricchezza quantificata dalla Deutsche Bank in ben 571 miliardi, e da tempo nel mirino dei grandi interessi speculativi e finanziari, alla ricerca di mercati sicuri e profittevoli.

I comuni sono dunque uno dei luoghi di precipitazione della crisi e uno dei terreni su cui si approfondiranno importanti conflittualità sociali. Per questo è bene che, fuori da una astratta neutralità degli enti locali, i nuovi sindaci siano consapevoli di alcune fondamentali battaglie sulle quali sarà richiesto loro di prendere posizione.

Il primo terreno è quello del debito, utilizzato come ricatto per permettere la spoliazione delle comunità locali e la messa a valorizzazione finanziaria di tutti i beni comuni urbani. La radicale rimessa in discussione dell’ideologia del debito, attraverso l’avvio di audit pubblici e partecipati, potrebbe essere il primo passo per le comunità territoriali verso il diritto di riappropriarsi del proprio destino.

Un secondo terreno è quello della contestazione del patto di stabilità e del pareggio di bilancio, che in questi anni hanno prodotto solo instabilità sociale e aumento delle disuguaglianze. E’ un terreno decisivo per sindaci che vogliano abbandonare il ruolo di facilitatori della penetrazione dei grandi interessi finanziari sulla società, per riappropriarsi finalmente di quello di difensori delle comunità territoriali e degli uomini e le donne che le abitano.

Da questo punto di vista, la messa in discussione dell’Anci, organismo da sempre subalterno ai diktat governativi, anche pensando ad una nuova aggregazione delle “municipalità ribelli”, diventa uno dei possibili tasselli del cambiamento.

Il terzo terreno è senz’altro quello della riappropriazione dei beni comuni urbani, sia per garantire diritti fondamentali alle comunità amministrate, sia per impostare sul riconoscimento degli stessi una nuova economia territoriale, ecologicamente e socialmente orientata.

Da questo punto di vista, il contrasto da parte dei Comuni del decreto Madia di privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali diviene dirimente, e dovrà vedere –in caso di sua approvazione- l’estendersi a macchia d’olio della disobbedienza territoriale.

Siamo dentro un tempo, in cui non si può più definirsi «sindaco di tutti» e occorre decidere se schierarsi con la città e gli abitanti che la vivono o con i poteri forti della speculazione immobiliare e finanziaria. Questione dirimente, che riguarda i sindaci, ma, naturalmente e soprattutto, le comunità territoriali, che devono riappropriarsi del futuro, iniziando dal presente.

«Nel 2015, sono stati 479 gli atti intimidatori e le minacce rivolte ad amministratori locali e funzionari pubblici. 40 intimidazioni al mese, una minaccia ogni 18 ore». Il manifesto, 25 giugno 2016 (c.m.c.)
Avrebbero potuto essere di più. Sarebbe stato un dovere istituzionale di tutti. Una esigenza per chi continuamente ricorda con note stampa e proclami che fare l’amministratore in Calabria significa sacrificarsi. Però, quando bisogna dimostrarlo in piazza, in troppi disertano.

La prima marcia nazionale “Amministratori sotto tiro” voluta da Avviso Pubblico a Polistena, in provincia di Reggio Calabria, conserva comunque intatto il suo valore simbolico. Anche se i cittadini rimangono a guardare dalle finestre, più incuriositi che partecipi, più nascosti che visibili. Ma qui siamo in Calabria e qui niente è semplice. Quasi mai. Resta, però, di questa passeggiata tra gonfaloni, bandiere di Libera, fasce tricolore il ricordo di visi felici. Quelli dei ragazzi che hanno sfilato tutt’altro che in silenzio. Hanno urlato che loro non temono la mafia, ma anche che vogliono che gli si garantisca un futuro.

Ecco perché vale la pena, comunque, insistere e ancora resistere. Di una nuova resistenza ha parlato Don Pino De Masi che è il parroco della piccola cittadina calabrese. “Chi marcia oggi insieme a noi, lo fa anche per coloro i quali invece hanno deciso di non partecipare. E’ vero che sono ovunque i sindaci che con la mafia flirtano, ma questo è un motivo in più per credere che chi non lo fa, è partigiano di questo tempo. L’Italia si deve rifare e saremo noi i combattenti”.

Così, da un angolo bello e profondo del Sud, tanto bistrattato e dimenticato da essersi formato leggi fuori dalla legge, che si alza forte un grido di aiuto allo Stato. A farlo dal palco, senza alcuna diplomazia, come ha notato il vice ministro dell’Interno Filippo Bubbico, è stato il primo cittadino di Polistena, Michele Tripodi che ha tuonato contro il Governo reo di aver impoverito ulteriormente e in maniera drammatica le casse dei Comuni e di averle così “rese fragili anche agli occhi dei cittadini”.
Qui si rischia di tornare tanto indietro da non ricordare neanche più da dove si è partiti. Così Tripodi denuncia e a fermarlo non ci riesce neanche una improvvisa pioggia battente “la mafia qui, è tornata ad essere punto di riferimento. La privatizzazione del ciclo dei rifiuti, come dell’acqua è legata ad appetiti illeciti e i danneggiamenti subiti dalle aziende che attualmente lavorano in questi ambiti, sono solo avvisaglie. Noi però abbiamo scelto, noi non restiamo muti, noi non ci leviamo il cappello”.
Questo il benvenuto a Polistena, questo è il monito di un Sindaco che non rinuncia a parlare anche della riforma costituzionale e di come quello che sta per accadere in Italia è il contrario di ciò che gli italiani auspicano. Di Costituzione ha parlato anche Don Luigi Ciotti: “Il primo e più importante testo antimafia che deve ancora trovare piena applicazione”.

A cambiare, invece, deve essere la politica, l’unico strumento destinato al miglioramento. Altrimenti, avverte Don Ciotti “le mafie non moriranno mai, se non cacciamo via coloro i quali si nascondono dietro le parole giuste, ma rimangono immobilizzati in una grave malattia che si chiama potere”.

Avviso Pubblico ha chiesto impegno ai parlamentari presenti e a Rosy Bindi e a Bubbico. Ha domandato maggiore attenzione ai percorsi legislativi che dovranno garantire il lavoro svolto dagli amministratori, anche attraverso la regolazione della normativa che riguarda i beni confiscati. Auspicando la formazione di una classe dirigente responsabile e trasparente. Tutti compiti ardui, ma non impossibili.

Ci credono i sindaci venuti fin qui anche da Campania, Puglia e Sicilia. Ci credono i giornalisti minacciati come Michele Albanese che combatte una strenue lotta solo per poter fare bene il suo mestiere, solo perché ha raccontato fatti che in molti preferirebbero venissero taciuti. Albanese non si stupisce della scarsa adesione, anche di quella dei cittadini “hanno paura a schierarsi. Non vedi come rimangono distanti, lo fanno perché è così che opera la ‘ndrangheta. Si muove sotto traccia e in silenzio si impone”.

Di come si muova la ‘ndrangheta non hanno dubbi neanche due ex sindaci di Lamezia Terme e di Rosarno, Gianni Speranza e Elisabetta Tripodi. Entrambi si definiscono indignati e preoccupati. Speranza dal canto suo legge “una ipocrisia calabrese che soffoca ogni buon progetto, sempre in silenzio, sempre senza appello”.

Come senza possibilità alcuna hanno lasciato la giovane ex sindaca Tripodi che ci tiene a dire “noi non siamo tutti uguali, sono riusciti però nella concezione al ribasso. Il problema non è solo la mafia, ma il suo gene, che rischia di macchiare tutti”.

E se le parole non fossero ancora abbastanza per comprendere il fenomeno, tocca ai numeri la sintesi. Nel 2015, sono stati 479 gli atti intimidatori e le minacce rivolte ad amministratori locali e funzionari pubblici. 40 intimidazioni al mese, una minaccia ogni 18 ore. Rispetto allo scorso anno, l’incremento in tutta Italia è stato del 33 per cento.

«

Alexis Tsipras dice con chiarezza che il processo di unificazione europea ha subito un duro colpo. Secondo il leader di Syriza, che ha parlato ai greci con un messaggio televisivo, il risultato emerso dal referendum britannico mostra che l’Europa sta affrontando una crisi di identità e anche una crisi più complessiva, di carattere strategico. Ritiene, in sostanza, che Bruxelles e alcuni grandi paesi dell’Unione non abbiano letto con l’attenzione necessaria i messaggi arrivati dall’aumento delle percentuali dei partiti nazionalistici e di estrema destra in Europa.

Secondo Tsipras «le scelte estreme dell’austerità hanno aumentato le differenze, tanto fra i paesi del Nord e del Sud Europa, quanto all’interno dei singoli stati membri». Dovrebbe iniziare, ora, un periodo di analisi, di assunzione di responsabilità e di ricostruzione. La Grecia, con il suo primo ministro, ricorda che siamo arrivati a questo punto anche «a causa di una gestione della crisi dei migranti à la carte, a causa della chiusura delle frontiere e di chi ha deciso di erigere muri invece di accogliere», invece di chiedere all’Europa una vera condivisione delle responsabilità. Atene sa benissimo – sulla sua pelle – che la crisi del debito è stata affrontata dando precedenza agli interessi nazionali e della finanza e non andando avanti tutti insieme, grazie a interventi realmente solidali, con la richiesta di riforme «umane», realmente sostenibili.

Proprio la Grecia, che lo scorso anno è stata stretta nell’angolo, costretta a firmare un accordo che contiene nuovi tagli, aumenti dell’Iva e che mantiene il totale della pressione fiscale a livelli troppo alti, questa Grecia segue ora gli sviluppi di Oltremanica con lo sguardo lucido di chi aveva profetizzato con saggezza, rimanendo inascoltato.

«Chi è responsabile per il rafforzamento dell’estrema destra e dei nazionalisti?», è la domanda che ha posto ieri Tsipras. Secondo il primo ministro di Syriza, la colpa è del deficit di democrazia, dell’imposizione ricattatoria di scelte antipopolari e ingiuste e degli stereotipi divisivi che descrivono il Nord Europa come produttivo e virtuoso e il Sud come scansafatiche. Ora, dopo la fase della denuncia, bisognerà vedere se l’Europa sarà capace di compiere qualche ulteriore passo, riconoscendo i propri errori e smettendo di scavare fossati. La Grecia, ovviamente, dice no all’isolazionismo nazionale che, secondo il governo guidato dalla sinistra, porta a un vicolo cieco.

Ad Atene, tuttavia, è chiaro che ci troviamo davanti all’ennesimo bivio, forse il più importante di tutti i precedenti incontrati nel corso del recente cammino europeo. Per dirla con le parole di Alexis Tsipras, « o il referendum britannico riuscirà a svegliare il sonnambulo che sta procedendo verso il vuoto, o sarà l’inizio di un percorso pieno di insidie per i popoli europei».

Il leader greco chiede un profondo cambio di rotta, con scelte che rafforzino il carattere democratico dell’Europa. Lo scopo, chiaramente, è riuscire a gettare delle nuove basi, cambiare molte delle politiche seguite sinora e porre un forte argine alle forze nazionaliste e ultraconservatrici. Il primo banco di prova, nei prossimi mesi, sarà la difesa dei diritti dei lavoratori da chi vorrebbe mettere definitivamente in soffitta i contratti collettivi di lavoro. Tsipras si oppone ed ha deciso di metterci la faccia.

Coordinamento Comuni per la pace

APPELLO PER LA CHIUSURA
DEI CENTRI DI IDENTIFICAZIONE ED ESPULSIONE

Le condizioni di degrado, la disumanità, il mancato rispetto dei più elementari diritti umani sono elementi tali da consentire di definire illegali i Centri di identificazione ed espulsione, e di denunciare l'assoluta inadeguatezza delle grandi strutture destinate all'accoglienza, come i centri di primo soccorso e accoglienza e i centri per rifugiati e richiedenti asilo (CARA).
I CIE, in cui si può restare reclusi anche per 18 mesi, devono essere chiusi e l'intera politica sull'immigrazione deve essere profondamente riformata, con un maggior protagonismo degli enti locali e delle organizzazioni di tutela.
I suicidi, gli atti di autolesionismo, le proteste dei migranti rinchiusi si susseguono ma nulla cambia.
Occorre adottare immediatamente le misure necessarie per ripristinare la legalità e lo stato di diritto in tutti i luoghi in cui sono stati sospesi.
Per questo è necessario chiudere subito i CIE e tutti i centri di accoglienza che tali sono solo di nome e non di fatto; garantire condizioni dignitose di vita ai migranti giunti in Italia e procedure rapide e certe per richiedenti asilo e rifugiati; dedicare particolare attenzione alla tutela dei minori e delle persone in condizioni di disagio fisico e psichico; abolire la Bossi-Fini e il reato di clandestinità, riformando il Testo Unico sull'immigrazione; riformare la legislazione sulla cittadinanza.

Tutto ciò premesso

Considerato che assicurare adeguata protezione a coloro che fuggono da persecuzioni, conflitti e gravi violazioni dei diritti umani costituisce un diritto umano fondamentale riconosciuto dall’art. 14 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che recita: «1. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni. 2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite»;

- Considerato che la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato e il relativo protocollo del 1964, deve essere interpretata nel contesto dell'intera normativa internazionale in materia di diritti umani;

-Considerato che il diritto dell'Unione Europea ha contribuito ad innovare profondamente il quadro dell'asilo in Europa introducendo più uniformi standard di tutela ma anche che la stessa normativa europea presenta tuttora degli aspetti critici molto rilevanti, per cui risulta necessario compiere molti passi in avanti nella direzione di assicurare in tutto il territorio dell'Unione un maggiore e più uniforme livello di protezione internazionale a coloro che ne hanno diritto;

- Considerato che l’Assemblea Costituente nel 1948 decise di dare massimo rilievo al diritto d’asilo inserendolo tra i principi fondanti dell'ordinamento democratico della Repubblica Italiana, così come sancito dall’art. 10 c.3 che afferma che “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

- Considerato opportuno un forte richiamo al rispetto del Diritto dell’UE, troppe volte disatteso dall’Italia

-Preso atto della grave carenza costituita dal fatto che la disposizione costituzionale non ha mai trovato una sua attuazione all’interno di una legge organica e che è necessario un rinnovato impegno di tutta la società italiana per recuperare tale intollerabile ritardo;

Considerato che è necessario rafforzare in Italia e in Europa l'effettivo rispetto del diritto d'asilo, spesso minacciato da politiche e prassi eccessivamente restrittive e da atteggiamenti sociali di indifferenza od ostilità e che è necessario definire di forme di regolarizzazione permanente al fine di ridurre il bacino dell’irregolarità:

- Il Coordinamento Comuni per la Pace della provincia di Torino assume come propri i seguenti obiettivi desunti dalla rete nazionale per il diritto d’asilo denominata Europasilo:

1. Promuovere un'evoluzione del diritto europeo in materia di asilo adeguato a rispondere alle sfide poste dai cambiamenti determinati dall'evoluzione degli scenari internazionali garantendo in particolare più efficaci forme di protezione a coloro che fuggono da seri rischi derivanti da gravi ed estese violazione dei diritti umani e da disastri ambientali in atto nei paesi di origine;

2. Rafforzare, nel diritto europeo e nella norma italiana,un'effettiva protezione giuridica e sociale garantita ai richiedenti asilo e ai rifugiati con particolare attenzione ai seguenti aspetti:
a) garantire ai richiedenti asilo un accesso effettivo alla protezione, con particolare attenzione alle frontiere interne ed esterne dell'U.E) al fine di scongiurare seri rischi di refoulement e assicurare altresì un’effettiva tutela in sede giurisdizionale
b) garantire elevati standard di orientamento, protezione legale e sociale dei richiedenti asilo;
c) assicurare un accesso effettivo e tempestivo dei richiedenti asilo a misure di accoglienza per tutto il tempo della definizione della procedura di asilo, ivi compresa la fase della tutela giurisdizionale, in strutture di accoglienza ordinarie, diffuse capillarmente e gestite con il coinvolgimento delle organizzazioni della società civile escludendo o riducendo a ipotesi eccezionali l'applicazione di misure detentive o di limitazione della libertà di circolazione;
d) superare il cd. Regolamento Dublino III rivelatasi norma iniqua, inefficace e comunque inidonea a rispondere alle effettive esigenze di tutela dei richiedenti e a perseguire l'obiettivo di una politica comune in materia di asilo nella UE fondata sulla solidarietà tra gli Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini dei paesi terzi;
e) giungere alla definizione di un programma unico europeo per l'accoglienza e la presa in carico delle vittime di tortura che supporti concretamente le persone nella realizzazione del loro percorso di autonomia ed eviti forme di ghettizzazioni delle stesse;

3. Promuovere una nuova legislazione organica in materia di asilo che dia attuazione all'art. 10 co.3 della Costituzione della Repubblica prevedendo in particolare:
a) l'introduzione di servizi adeguati di informazione, orientamento e protezione legale dei rifugiati alle frontiere aeroportuali e marittime;
b) una riforma della composizione e del funzionamento degli organi decisionali competenti ad esaminare le domande di asilo, al fine di assicurare un esame equo e competente delle domande di asilo, prevedendo altresì una maggiore indipendenza di detti organi dal potere esecutivo;
c) una profonda riforma del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo che preveda la costituzione di un unico sistema nazionale per la protezione dei richiedenti asilo, ivi compresi i minori stranieri non accompagnati, articolato su funzioni e ruoli propri dello Stato, delle Regioni e degli Enti Locali. Detta riforma dovrebbe operare una netta scelta a favore di un sistema di accoglienza decentrato, attraverso il ricorso a strutture di accoglienza di tipo ordinario gestite dagli enti locali, evitando grandi concentrazioni, ovvero la collocazione dei richiedenti in strutture inidonee, isolate e ghettizzanti. Gli standard di accoglienza attualmente previsti sia dalla normativa che dalle disposizioni amministrative risultano eccessivamente generici e come tali facilmente eludibili e andrebbero pertanto ridefiniti. Il sistema di accoglienza dovrebbe prevedere strumenti di monitoraggio (con pubblicazione di periodici rapporti) affidato ad enti indipendenti. La riforma del sistema pubblico dell’accoglienza dei rifugiati dovrebbe pertanto valorizzare la decennale esperienza dello SPRAR superandone però gli intrinseci limiti strutturali che ne hanno impedito un pieno sviluppo, con conseguente abrogazione dei CARA, rivelatisi strutture del tutto inefficaci a garantire adeguati livelli di tutela ai richiedenti asilo, incongruenti con il sistema dei servizi socio-assistenziali del territorio e dissipative di ingenti risorse pubbliche;
d) il superamento della attuale separazione delle politiche dell’asilo rispetto alla programmazione delle più generali politiche socio-sanitarie ed organizzazione dei relativi servizi;
e) la nascita di uno specifico piano nazionale per l'accoglienza e la riabilitazione delle vittime della tortura, che preveda che detti interventi siano realizzati nell'ambito della ordinaria programmazione dei servizi socio-sanitari del territorio, con rafforzamento delle competenze delle aziende sanitarie nella gestione di detta utenza;
f) introduzione, con norma primaria, della previsione di un adeguato periodo di accoglienza e supporto all'inclusione sociale dei titolari di protezione internazionale o umanitaria, successivo al riconoscimento giuridico della protezione, al fine di superare l'attuale gravissima situazione di abbandono dei rifugiati per la quale l'Italia è oggetto di serie e motivate critiche anche in sedi internazionali.

Nell’approvare il presente documento ci attendiamo dal Governo interventi rapidi ed efficaci, per restituire civiltà e dignità al nostro Paese.

«Dentro o fuori. Il premier lanciò l'idea del referendum per prevenire l’emorragia elettorale verso la destra populista dell’Ukip di Farage». Il manifesto, 25 giugno 2016

Cameron pareva (ed è) un esponente tipico dell’euro scetticismo moderato del partito Tory. Uno da cui non usciva mai una professione di europeismo, ma solo l’esultanza per una eccezione strappata, per uno sconto ottenuto sui fondi da corrispondere, per ogni episodio in cui il punto di vista strategico degli Usa si imponeva grazie all’alleanza speciale con i britannici. Pareva ed era, la sua, solo una nuova edizione della vecchia dottrina di Macmillan.

Nel 1960 il primo ministro Tory aveva commissionato un rapporto ai maggiori esperti conservatori, da cui impietosamente risultava il declino del Regno Unito come forza globale, e l’urgenza di un’adesione alla Comunità Europea. Per questo, dopo il ritiro di un De Gaulle contrario all’adesione britannica, il Regno Unito era stato ammesso al principio degli anni 1970, ancora grazie a un primo ministro conservatore come Heath.

Il dinamismo superiore del Mercato Comune e i portenti industriali di Italia e Germania ridicolizzavano gli eleganti snobismi di chi, fra i conservatori, aveva definito la conferenza di Messina e il Trattato di Roma «scavi archeologici». Fra rovesci, riprese e oscillazioni, fra asprezze thatcheriane e morbidezze alla Mayor la linea Tory era sostanzialmente rimasta la medesima: non era sufficiente essere solo il paese più vicino agli Usa, occorreva (anche per essere più preziosi per gli americani) al contempo essere parte importante dell’integrazione europea. Dovere «scegliere fra le due sponde dell’Atlantico», sosteneva Macmillan, rappresentava in realtà una condizione di minorità e di dipendenza, non di forza. Si trattava casomai di fare ambedue le cose: essere lo Stato membro con la migliore «relazione speciale» con Washington. Certo: il progetto europeo, specie da Thatcher in poi, non doveva essere che un mercato a integrazione negativa, e il rapporto con gli Usa doveva ricevere un riguardo che la Lady di ferro non avrebbe mai riservato alle istituzioni europee.

Il risultato del referendum però ha rotto per sempre questa, forse già logora, ambivalenza dei tories.

La differenza l’ha fatta la spregiudicatezza: Cameron nel 2013 promise il referendum per prevenire l’emorragia elettorale verso la destra populista dell’Ukip di Farage. Di questa spregiudicatezza l’eccentrico ex sindaco di Londra Ben Johnson, però, ha deciso di fare uso più estremo: puntare ai voti di Farage ma assumendo egli stesso una leadership anti europeista definitiva, senza timore di spaccare profondamente il partito conservatore, spostandolo sulla Brexit oggi, domani e sempre, a prescindere dal referendum e dal suo risultato. Un risultato che poi ha tramutato in scioccante realtà quelli che sembravano giochi tattici per la leadership della destra. Un altro esempio che la spregiudicatezza, in tempi di sistemi politico-sociali sempre più deteriorati, conduce verso l’avventurismo.

C’è chi nella attuale instabilità europea vede solo una classe operaia che si dissolve, a danno della sinistra europea: costoro non hanno capito che le classi medie sono oggi altrettanto imprevedibili di altri ceti. Il dramma dei conservatori britannici lo conferma. Questo, come fra le due guerre, accade sempre in epoche chiuse in ideologie economiche talmente ottuse da non lasciare prospettive. Un contesto che, in modo diverso, ha danneggiato anche la strategia di Corbyn e del Labour. La sua linea di «Sì in Europa contro il liberismo dei tory» rompeva con gli anni di Blair: da quest’ultimo erano, è vero, giunte inedite professioni di europeismo (almeno in qualche efficace discorso) ma il progetto europeo era rimasto sostanzialmente quello di un mercato largo, e il rapporto speciale con gli Usa era giunto fino a spaccare la Ue, e a ignorare l’opinione della stragrande maggioranza degli europei (britannici compresi) pur di combattere una guerra all’Iraq fatta di menzogne e pseudo-strategie.

La campagna di Corbyn per una Social Europe di nuovo conio intendeva e intende essere, a anche a prescindere dalla sua realizzabilità, anzitutto critica del modello sociale britannico, condivisa dal socialismo nazionale dello Scottish National Party. Un europeismo affermatosi nel Labour già nella seconda metà degli anni 1980 con la leadership di Kinnock, che in una futura regolazione europea scorgeva un modello da opporre in quegli anni alla signora Thatcher. Precedentemente, invece, aveva dominato l’anti-europeismo della New Left laburista, specie fra gli anni 1970 e 1980.

A convertire in seguito i laburisti a una possibile Social Europe era intervenuto Jacques Delors: in un discorso del 1988 al congresso delle Unions egli aveva prospettato un’integrazione dedita a combattere le aree di sottosviluppo e ritardo sociale del continente, a favore di maggiore protezione sociale e maggiore potere negoziale del sindacato. Sappiamo che questa prospettiva, in parte ancora presente nel Libro Bianco di Delors, è stata abbandonata negli ultimi 25 anni. Proprio l’abbandono di questo progetto del socialismo europeo ha indebolito Corbyn e la sua battaglia per il remain. Rimane il grido che tutti i laburisti e i socialisti nazionali scozzesi rivolgono alla sinistra europea: «Non lasciateci su quest’isola da soli con i tories».

».

Il manifesto, 24 giugno 2016 (c.m.c.)

Nel budello arroventato di via Cupa, all’entrata del plurisgomberato Baobab, simbolo dell’accoglienza dei migranti apolidi e senza dimora nella Capitale, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e il portavoce di Diem 25 («Democracy in Europe Movement 2025») e l’ex ministro dell’economia greco Yanis Varoufakis hanno esposto ieri le prime linee di un’«agenda paneuropea formata da un rete di città, regioni e governi ribelli» contro l’austerità.

Sarà, verosimilmente, questa la cornice in cui si muoverà il «movimento» di cui parla De Magistris dalla rielezione a palazzo San Giacomo. Un movimento che dovrebbe essere coordinato dal fratello del sindaco Claudio, «spin doctor» e accreditato come mente dell’operazione.

Messa in ombra dall’affermazione del movimento Cinque Stelle a Roma e Torino, e liquidata con la categoria di «populismo» (che, per il mainstream ormai non vale più per i grillini), la formula politica descritta da De Magistris e Varoufakis sembra più complessa rispetto alle astratte categorie liquidatorie degli editorialisti moderati. L’intreccio con la prospettiva di Diem 25, realtà fin’ora rimasta in ombra e quasi disincarnata, permette di tracciare una prospettiva europea all’esperienza municipalista napoletana, permettendo di liberarla dai luoghi comuni antimeridionalisti.
«Iniziamo da questo marciapiede – ha detto Varoufakis – per dimostrare che c’è un’alternativa alle politiche tossiche e alle economie sbagliate di Bruxelles. La nuova politica europea deve partire dalle strade e dalle città sotto l’ombrello di un movimento europeo».
Lo schema politico è quello della federazione politica delle città contro l’Europa degli Stati: un’idea di decentralizzazione e autogoverno che trae spunto dalle Costituzioni antifasciste del Dopoguerra, dalle varie sfumature della democrazia partecipativa (Social Forum di Porto Alegre, il modello «bolivariano», l’orizzontalità della rete, movimenti come Podemos a poche ore dalle elezioni spagnole). Forte è anche il riferimento al concetto di «autonomia» in senso sia municipalista sia politico.
Oltre a Napoli, sostiene Varoufakis, ci sono Barcellona e Madrid, La Coruna e Dublino. Su questa scia, De Magistris svela un altro motivo del blitz romano davanti a 500 persone, strette e accaldate: sondare gli umori della città dove i Cinque Stelle hanno spazzato via il «Sistema Pd». «Buon lavoro alla sindaca Virginia Raggi. Mi auguro – ha detto l’ex magistrato – che tra Napoli e Roma ci possa essere un rapporto di fattiva collaborazione. Guardiamo con interesse soprattutto a chi è contro il sistema».

Sono le prime prese di contatto con i Cinque Stelle, una realtà ormai data al 30% nazionale, in continua trasformazione e accreditamento. È di ieri la loro sorprendente conversione europeista: nell’imminenza degli esiti sul «Brexit», un post sul blog di Grillo sembra avere abbandonato l’alleanza con Farage e cambiato l’orientamento politico «no-euro» del movimento: «L’unico modo per cambiare questa “Unione” è il costante impegno istituzionale – si legge – per questo il Movimento 5 Stelle si sta battendo per trasformare l’Ue dall’interno».

Resta da capire se ai Cinque Stelle interessa la proposta De Magistris-Varoufakis o se continueranno ad occupare tutti gli spazi politici a disposizione nella battaglia finale contro Renzi e il Pd. Da questo si capirà anche lo spazio per l’esperimento europeista di Napoli.

«Se mi vedo alla guida di un movimento sinistra in Italia? No – ha detto De Magistris – Io mi vedo sindaco di Napoli» ma «porteremo la nostra esperienza oltre i confini». Per il momento vede Napoli città autonoma sul modello di Barcellona. «Rientra in una cornice costituzionale agli articoli 117 e seguenti. Non condivido il neocentralismo autoritario» del governo Renzi «che non aiutano le comunità locali. Dal basso si può costruire un nuovo modello».

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