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Nella storia della Turchia negli anni di Erdoĝan la spiegazione del carattere di un regime che non è stato mai democratico, che ha sempre dominato al di sopra della legge e adopera i finti colpi di stato per rafforzarsi, complici gli Usa e soci.

Puntorosso online, luglio 2016

Siamo in quelle abituali circostanze giornalistiche che vedono una grande attenzione a fatti che certamente la meritano, e che però sono pronte a spegnersi non appena i poteri politici fondamentali dell’Occidente, in particolare quello statunitense, abbiano definito il loro atteggiamento politico, che può tranquillamente essere una censura di fatto con qualche grumo di manipolazione accompagnata dalla solita finzione del dibattito tra specialisti la maggior parte dei quali non sa un tubo. Si parlò a suo tempo del colpo di stato del giugno 2015 del presidente turco Erdoĝan, ma rapidamente la notizia svanì, data la speranza statunitense di impegnarne il governo nella guerra a Daesh, organizzazione che, assieme ad al-Qaeda, Erdoĝan continuava a supportare con ogni mezzo. Si parlò più a lungo a suo tempo della lotta straordinaria dei curdi siriani di Kobanê, per poi trattarli ogni tanto e molto cautamente, dovendosi celare che l’artiglieria turca ogni giorno li bombardava. Siamo quindi in attesa della versione autentica statunitense e quindi occidentale dei fatti recenti in Turchia, dal tentativo fallito di un colpo militare alla micidiale reazione di Erdoĝan.

Per adesso abbiamo solo la versione di quest’ultimo: è tutta colpa di Gülen, è a lui che io, Erdoĝan, reagisco. Una versione, va da sé, da prendere con assoluto beneficio d’inventario.

Evito di richiamare quanto ci viene trasmesso dai media in questi giorni, tutti ne hanno seguito i resoconti, un colpo di stato fa notizia e soprattutto la fa la reazione di Erdoĝan. Cominciamo chiedendoci: c’entra o no Gülen nel colpo militare? E chi è Gülen?

Gülen è stato il fondamentale sostenitore e finanziatore, intanto, dell’ascesa politica di Erdoĝan e della sua prima vittoria elettorale (2002). Senza i quattrini di Gülen e senza le moschee, gli imam, le scuole coraniche, le imprese industriali e commerciali, le radio, le case editrici, le televisioni, le riviste, i quotidiani legati al miliardario Gülen, Erdoĝan non sarebbe nessuno. I quattrini di Gülen furono decisivi nel dare compattezza a una formazione recentissima, eterogenea e scombinata come l’AKP (il partito di Erdoĝan), e probabilmente a ungere qualche ruota sul versante di forze armate che mai avevano tollerato in passato una presenza significativa di forze islamiste nella politica turca (e che infatti nel 1997, essendo state vinte le elezioni, l’anno precedente, da una formazione islamista guidata da tale Erbakan, avevano intimato le dimissioni del suo governo e il rifacimento delle elezioni, pena un colpo di stato). Nel 1999 Gülen emigrerà negli Stati Uniti, per il timore di un colpo di stato anti-islamista delle forze armate, che però non avverrà, data l’estrema cautela operativa in quel periodo di Erdoĝan.

Sarà nel 2011 che questi realizzerà la sua prima mossa d’azzardo: riuscendo a imporre alla magistratura, organicamente kemalista estremista, che venissero processati quegli ex capi militari che avevano costituito una struttura militare occulta, Ergenekon, una sorta di Gladio turca. Poche saranno e miti le condanne: ma la botta alle forze armate andò a segno. Occorre sapere che esse erano, e a tutt’oggi sono, benché indebolite e attraversate da fratture e scontri, un partito kemalista estremista armato che definisce al suo interno la composizione dei comandi, gli avvicendamenti ai loro ruoli, la stessa spesa militare dello stato: e che il processo Ergenekon indebolì molto il prestigio, in precedenza altissimo, delle forze armate nella popolazione turca, e che consentì a Erdoĝan di imporre loro la consegna di responsabilità significative a figure militari di proprio gradimento). Erdoĝan più o meno in quegli anni riuscirà anche a mettere le mani sul MİT (l’intelligence turca), ponendo alla sua testa un proprio uomo. Inoltre a mettere le mani su buona parte delle forze di polizia, che in Turchia dispongono anche di mezzi di guerra, dagli elicotteri ai carri armati.

Perché allora la rottura tra Erdoĝan e Gülen, di cui si ha esplicitazione nel 2013? Gülen risultava sostanzialmente scomparso dalla realtà politica turca: perché allora prenderlo a bersaglio?. I motivi sembrano ormai chiari. Gülen è una figura di islamico moderato e liberale, è per il dialogo inter-religioso e inter-etnico, aborre il potere militare (di cui è stato direttamente vittima), il ritorno al califfato, in generale il ricorso alla violenza nella lotta politica e sociale; esprime quindi una posizione che è il contrario esatto di ciò che Erdoĝan ha teso a essere a partire dal giugno del 2015 (poi vediamo). Gli strumenti di cui Gülen è proprietario o che finanzia costituiscono un formidabile apparato prima di tutto culturale che è di fatto di ostacolo a Erdoĝan: figura formata dai Fratelli Mussulmani e orientata alla ricostituzione del califfato e addirittura all’espansione territoriale della Turchia sul versante siriano e soprattutto nella parte settentrionale dell’Iraq. Si consideri che sembrano essere 20 milioni i turchi influenzati dagli strumenti di Gülen e dai loro operatori, molte migliaia di persone. Occorre infine tener conto di come Erdoĝan sia palesemente un megalomane, cioè una personalità orientata alla centralizzazione assoluta sulla sua persona (e sulla sua famiglia) di ogni potere, e sia palesemente un paranoico, cioè una personalità orientata alla distruzione fisica di ogni ostacolo, reale o immaginario.

Gülen c’entra con il colpo militare fallito? Ci credo poco. Gülen non ha mai avuto niente a che fare con il potere militare o con settori militari, li ha sempre considerati ostili ed è sempre stato omogeneamente ricambiato. Egli è negli Stati Uniti dal 1999, figuriamoci se non ci sono da allora una quantità di agenzie di intelligence statunitensi (solo statunitensi?) a sorvegliarlo minuto per minuto e con tutti i mezzi. Né è mai stata convenienza (checché si dica) della presidenza Obama di lasciar fare a Gülen contro Erdoĝan, data l’estrema complicatezza della situazione medio-orientale. Ma poi, soprattutto, non riesco a vedere una frazione, per quanto minoritaria, come si è visto, ma non insignificante delle forze armate che prende ordini da Gülen. Può darsi che si sia trattato di una frazione preoccupata per la distruzione in corso da parte di Erdoĝan di quel pochissimo che residuava in Turchia di democrazia, di libertà di stampa, di autonomia della magistratura. Può darsi. Ma le forze armate turche sono state storicamente kemaliste, cioè violentemente laiche e violentemente nazionaliste: e trovo davvero strano che all’improvviso salti fuori una frazione culturalmente islamista e al tempo stesso ostile all’islamico diventato anche nazionalista Erdoĝan. In ogni caso, prima o poi si vedrà.

Quel che invece mi sembra abbastanza realistico è che Erdoĝan fosse al corrente, in termini non necessariamente precisissimi ma neanche debolissimi, della preparazione di un colpo di stato da parte di una frazione militare. Gli strumenti per venirne a conoscenza li aveva: il MİT, qualche pezzo di forze armate, parte della polizia. Non credo che sia stato casuale che Erdoĝan sia salito all’improvviso a Marmaris (bellissima località turistica sull’Egeo) su un aereo, né che siano state casuali la prontezza della reazione della polizia e la mobilitazione della militanza fanatica dell’AKP.

Mi pare infine che Erdoĝan disponesse da tempo di ampie liste di proscrizione da attivare appena avesse ritenuto possibile fare il risultato di un globale repulisti. Ma anche a questo proposito prima o poi si vedrà.

Il repulisti non tocca, come si vede abbastanza bene, solo i seguaci veri o inventati di Gülen. Palesemente (qui si può andare un po’ più sul sicuro) il repulisti sta investendo settori decisivi del potere kemalista, cioè alleati storicamente decisivi delle forze armate (o, meglio, della loro parte a tuttora prevalente). Si tratta soprattutto della magistratura, inoltre di una parte della polizia. Il repulisti inoltre sta investendo sia i settori kemalisti che quelli democratici dell’intellighenzia, dalle università al giornalismo ai quadri dei servizi e del pubblico impiego. Ciò significa che è sotto tiro una parte consistente della popolazione urbana, in particolare di quella di Istanbul e di Ankara, e dell’intellighenzia sociale; e, di fatto, che è sotto tiro anche il pavidissimo principale partito di opposizione, cioè il partito kemalista storico CHP.

Inoltre è apertamente sotto tiro il partito curdo e di sinistra HDP, ai cui deputati già da qualche settimana prima del colpo di stato fallito era stata tolta l’immunità parlamentare, e che da allora corrono il più che probabile rischio di essere processati e di essere condannati a lunghissime pene detentive, assieme a migliaia di attivisti. Migliaia e migliaia di figure di militari, intellettuali, insegnanti, docenti, quadri, funzionari di polizia, imprenditori rischiano la stessa cosa. Nei mesi scorsi Erdoĝan aveva inoltre approntato anche la strumentazione giuridica necessaria a colpire pesantemente e nel mucchio: molte migliaia di quadri e di sindaci curdi e inoltre centinaia di giornalisti democratici sono già da più o meno tempo in carcere in attesa di essere processati per “terrorismo”, avendo auspicato la ripresa delle trattative di pace tra stato turco e PKK, e per “offesa all’identità turca” o per “vilipendio” alle autorità dello stato o alle forze armate, avendo criticato questo o quell’aspetto della politica di Erdoĝan. Reati quindi da decenni di galera. Tra poco, magari, suscettibili della pena capitale. Siamo perciò giunti al terzo colpo di stato: quindi il secondo, in poco più di un anno, di Erdoĝan. Il quarto saranno nuove elezioni e un referendum, in condizioni di totale assenza di condizioni democratiche, anzi in condizioni di terrore e di estrema repressione, anche militare, ai danni di ogni forma di dissenso, che incoroneranno Erdoĝan, finalmente, presidente, pardon, califfo della Turchia?

Giova notare, infine, come i quadri delle forze armate che non hanno preso parte al colpo di stato fallito (cioè la stragrande maggioranza dei quadri militari) non risulti sfiorata dalla repressione scatenata da Erdoĝan. Sorgono alcune domande. Intanto, perché non hanno preso parte al colpo di stato? Per debolezza? Per la non condivisione degli obiettivi dei protagonisti del colpo di stato? Semplicemente, per via delle beghe che separano gruppi militari a prescindere anche dall’affinità delle posizioni? Ciò che in ogni caso sembrerebbe chiaro è che in Turchia permane la situazione, esistente sin dal momento della prima vittoria elettorale di Erdoĝan, di una sorta di dualismo di potere: appunto quello di governo e quello militare. Potrebbe esserci stata un’intesa tra i due poteri nel senso di far fuori i quadri militari che avrebbero scatenato il tentativo di colpo di stato? Forse. In ogni caso quel che è certo è che i due poteri si odiano, che nessuno dei due accetta l’esistenza dell’altro, tanto più in quanto armato. Ovviamente questo è il momento in cui Erdogan tenderà a rafforzarsi il più possibile, e con tutti i mezzi a disposizione.

Qualche considerazione veloce sulle reazioni della nostra assurda casa occidentale. Continuano a sbalordirmi, anche se non capisco perché, l’insipienza, le illusioni e le corbellerie micidiali, nelle quali perdono la vita ogni giorno in Medio Oriente centinaia quando non migliaia di persone, sia dal lato dei governi che dei grandi apparati mediatici. I governi, oltre a deplorare il tentativo militare di colpo di stato perché “antidemocratico”, raccomandano a Erdoĝan “moderazione”, rispetto dello “stato di diritto” e delle tutele di arrestati e imputati, rispetto dei trattati che, nel quadro del Consiglio d’Europa, di cui la Turchia fa parte, impediscono il ricorso alla pena capitale, e via corbellando. Scusate, a parte qualche pallida e breve parentesi, quando mai in Turchia sono esistiti la democrazia e lo “stato di diritto”? Erdoĝan non fece nel giugno del 2015 il risultato elettorale che gli serviva a fare della Turchia uno stato presidenziale: ruppe le trattative con il PKK, assunse poteri che non gli competevano (cominciò a operare come se la Turchia fosse una repubblica persidenziale: operò quindi un colpo di stato), mobilitò le forze armate (a larga maggioranza felicissime di ciò) contro la popolazione curda, recuperando così consenso nella parte più deprivata e fascista della popolazione turca, usò Daesh in due terribili attentati, a Suruç, città curdo-turca prossima a Kobanê, luglio 2015, e ad Ankara, nel corso della campagna elettorale del novembre successivo (quest’attentato impedì all’HDP di proseguire la propria campagna elettorale). Scusate, si è trattato davvero di un’elezione democratica? Da allora a oggi (a proposito di “moderazione”, uso “non eccessivo della forza”, ecc.) sono stati rasi al suolo nel Curdistan turco il centro storico di Diyarbakır e 14 città, il complesso delle città curde è stato assediato e colpito da coprifuoco 24 ore su 24 (anzi alcune città sono tuttora sotto assedio), migliaia di persone sono state assassinate dai cecchini, dal fuoco e dalle cannonate di elicotteri, carri armati, artiglieria, senza che dai governi occidentali venissero che belati e, soprattutto, occhi girati dall’altra parte. 300 mila curdi turchi hanno perso la casa e tutte le loro cose, e sono in fuga o collocati in tendopoli circondate da soldati e agenti di polizia.

La preoccupazione vera dei governi occidentali non riguarda la condizione delle popolazioni curde o delle 50 mila e oltre persone (una cifra destinata ad aumentare) colpite dalla repressione in corso. La preoccupazione è che Erdoĝan, nella sua follia, diventi totalmente ingestibile, flirti troppo con la Russia, entri con truppe in Siria, inoltre non sia più possibile coprirlo agli occhi delle opinioni pubbliche occidentali. Come si farà a evitare che la povera gente in fuga dalla tragedia del Medio Oriente non venga più ospitata da Erdoĝan nelle tendopoli della Turchia, in balia di poliziotti assassini e di reclutatori di ragazzine da prostituire, e ce la si ritrovi in Europa, a far aumentare i voti di fascisti e semifascisti, a far perdere le elezioni a Hollande, Merkel, ecc.?

Il manifesto, 24 luglio 2016 (p.d.)
Cosa avesse davvero in testa il giovane attentatore di Monaco di Baviera non lo sapremo mai. La conclusione suicida della sua avventura non lascia spazio che al gioco delle illazioni analitiche. Ma in fondo non è poi così rilevante. Quello che è certo è che, come il diciassettenne accoltellatore afghano (forse pachistano) del treno di Wuerzburg, rappresentava nella sua persona la complessità, l’indistricabile intreccio e i fragili equilibri delle società europee in cui viviamo.

Iraniano di origine, musulmano, orgogliosamente tedesco, a quanto sembra, nemico giurato di non si sa quali stranieri, vendicatore di non si sa quali torti l’uno; profugo da un paese in guerra, adottato e improvvisato guerriero del Califfato, l’altro, ci hanno mostrato entrambi, senza troppi complimenti, cosa accade quando queste vite multiple e burrascose entrano, per le più diverse ragioni, in cortocircuito.

Qualcosa di non molto diverso da quanto accade nel più ampio contesto della vita collettiva: aggressioni, pogrom, sprezzo o soppressione dei diritti, legislazioni di emergenza, identità fittizie che digrignano i denti additando questo o quel nemico. La democrazia in cortocircuito genera la stessa irrazionalità omicida che muove l’azione del singolo giustiziere. Il risentimento per i torti subiti (reali o immaginari) colpisce alla cieca, ispirandosi a quanto il mercato ideologico offre in quel momento. Diversi governi europei non fanno molto di meglio.

L’odio, covato nell’ombra, dal giovane pistolero di Monaco non sembrerebbe poi così diverso da quello dei ragazzi americani autori della strage di Colombine e di tanti altri imprevedibili sterminatori scolastici. Sono il tempo e il contesto a essere diversi. Nel clima che ci circonda, pur non essendo in nessun modo riconducibile all’Is, anche il pluriomicida di Monaco fa la sua parte: ha origini islamiche e uccide a casaccio. Quanto basta per rinfocolare l’odio xenofobo.

Ogni tempo e ogni società dispongono di una rappresentazione «privilegiata» del Male che esercita sui «perdenti», le vittime e gli emarginati una potente forza di attrazione. A queste figure, così diverse tra loro ma accomunate da un sentimento di sconfitta che esige di essere riscattato, Hans Magnus Enzensberger aveva dedicato alcuni anni fa uno scritto illuminante, intitolato, appunto «Il perdente radicale».

Oggi, nel mondo e soprattutto in Europa, questa rappresentazione ha preso forma nel Califfato e nelle sue ramificazioni occulte. E non certo senza fondamento. Ma questo conferisce allo Stato islamico un formidabile vantaggio: quello di incarnare lo «spirito di vendetta» in generale, il quale non conosce confini territoriali né organigrammi organizzativi. Quella che potrebbe apparire una limitazione, e cioè la fede islamica interpretata nella maniera più rigida, in realtà non è che un’identità fittizia e provvisoria a disposizione di chiunque intenda portare a termine la propria personale «vendetta». Ai vertici del Califfato nessuno lo ignora ed è cinica consuetudine non andare troppo per il sottile. Del resto, come sappiamo, i «precetti della fede» incidono ben poco sui costumi e le abitudini di molti che si scoprono e si proclamano combattenti dello Stato islamico in Occidente. Questo fenomeno consente al Califfato e ai suoi organi di propaganda di intestarsi «a posteriori» anche quelle esplosioni di violenza che intrattengono un assai labile (a volte inesistente) legame con la sua dottrina. Quel che conta è, infatti, che il moltiplicarsi dei cortocircuiti individuali determini un grande cortocircuito sociale. A fronte di questa strategia le misure adottate dai governi europei rientrano in una sorta di decalogo dell’impotenza.

Gli «obiettivi sensibili» sono ormai un’espressione priva di qualunque senso. Se vi è qualcosa che non è mai stato toccato, dopo l’irripetibile attacco alle torri gemelle, sono proprio i luoghi e i simboli del potere politico ed economico. Che si tratti di cellule organizzate o di giustizieri improvvisati, l’obiettivo resta colpire nel mucchio. Cosicché tutti e ciascuno possano considerarsi potenziali vittime del terrorismo.

L’unica forma di protezione possibile è impedire che le nostre società si imbarbariscano, finendo col condividere la patologia vendicativa che anima gli autori delle stragi.

«Il rischio più pernicioso che corriamo è l’adesione inconsapevole a un pensiero di massa che legge la realtà in modo altrettanto folle e irresponsabile di quello degli attentatori». Il manifesto, 24 luglio 2016 (c.m.c.)

Le notizie su attacchi omicidi-suicidi rimbalzano da una parte del pianeta all’altra. L’assuefazione collabora silenziosamente dentro di noi con una rassegnazione angosciosa, creando uno stato psichico stuporoso, terreno fertile per le interpretazioni schematiche e sbrigative.

Il rischio più pernicioso che corriamo è l’adesione inconsapevole (la più acritica e forte) a un pensiero di massa che legge la realtà in modo altrettanto folle e irresponsabile di quello degli attentatori.

Si fa presto a dire che l’imperversante violenza nichilista favorisca le «emozioni di pancia». Le emozioni sono vere, autentiche, quanto più sono viscerali. Hanno la loro radice nel corpo, nel punto in cui il vissuto corporeo diventa vissuto psichico, affettivo. Assumono leggibilità e configurazione comunicabile mescolandosi con il pensiero.

Legate al pensiero onirico (dove i confini tra noi e l’altro sono più aperti), assumono una forma più elaborata e precisa (che le rende più complesse e significative) se hanno il tempo necessario per essere sedimentate e connesse a un pensiero condiviso. Se tutto va per il verso giusto le nostre emozioni diventano il luogo in cui la nostra particolarità incontra la fraternità universale.

Fino a che punto siamo consapevoli della necessità politica di riappropriarsi come cittadini del nostro spazio onirico (l’immaginazione che incontra l’inconsueto) e del nostro tempo (quello necessario per la sedimentazione, la sperimentazione dei nostri vissuti e per il godimento che rispetta il suo oggetto)?

Il vivere in una dimensione di perenne urgenza (che trasforma l’inefficienza dell’amministrazione degli interessi collettivi in un efficace macchina di potere) porta la gestione delle nostre emozioni verso due direzioni ugualmente disastrose. Nella prima direzione le emozioni si dissociano dal pensiero, diventando un ammasso indistinto, un accumulo di tensione che può essere solo scaricato.

Nella direzione opposta il pensiero si dissocia dalle emozioni e, perdendo il suo fondamento nei sensi, nel sogno-immaginazione e nel gesto, misura la realtà con schemi astratti in cui il disimpegno sposa l’arbitrio e diventa dogma costrittivo.

Ci devasta il fenomeno impressionante della moltiplicazione incontrollabile di distruttori folli. Tuttavia sono solo schegge impazzite di un processo di identificazione di massa (che la comunicazione digitale accelera fortemente) con un processo di liberazione dalle nostre impasse emotive che trova il suo strumento più efficace in un agire violento (psichico o fisico).

La violenza scarica bruscamente le emozioni e al tempo stesso si sbarazza della sensibilità che le genera. Nulla è più contagioso di questa evacuazione dell’imbarazzo a vivere, in cui si sta riducendo la nostra esistenza, che trova nel pensiero automatico il suo più grande alleato.

Tra coloro che uccidono, pedine impersonali della forma più insensata della forza distruttiva, e coloro che reagiscono invocando il rigetto altrettanto violento dello «xenos», si è stabilita una completa simmetria.

«». Corriere della Sera, 23 luglio 2016 (c.m.c.)

Donald Trump l’ha dichiarato da tempo: «L’Islam ci odia». Dietro le gravi violenze ci sarebbe l’Islam. Hollande, dopo la strage di Nizza, ha intensificato i bombardamenti sul territorio siro-iracheno di Daesh. Il messaggio è chiaro: il terrorismo è parte della guerra del «califfato» contro di noi.

Le sue rivendicazioni e la sua propaganda lo confermerebbero. Alla fine, dietro a tutto questo, si staglierebbe il mondo islamico con ambiguità e contraddizioni. Si ritorna così a un modello interpretativo di successo — un archetipo —: lo scontro tra Occidente e Islam. Ha avuto tanti sostenitori tra intellettuali e politici occidentali; fu all’origine della guerra all’Iraq nel 2003 e del crollo del sistema mediorientale.

Non dispiaceva a Osama bin Laden e ad al Qaeda, perché — nell’opposizione — riconosceva loro la leadership contro l’Occidente. Non spiace nemmeno oggi al «califfato». Si crea così un’atmosfera bellicosa che favorisce il proselitismo islamico. Per gli occidentali si disegna invece uno scenario chiaro (in qualche modo rassicurante). Sappiamo da dove vengono le minacce, perché abbiamo un nemico: l’Islam, rappresentato complessivamente come ostile o ambiguo, da combattere o da obbligare a una chiarificazione. Solo così si fermano le sue quinte colonne tra di noi, figlie di un sistema politico-religioso globale.

Un simile modello interpretativo fa il gioco dell’avversario e gli offre la grande legittimazione di nemico dell’Occidente, quasi avesse una sola testa. Da noi, favorisce i populismi, per cui solo una politica pugnace di muri e scontri ci difende. Motiva uno sguardo sospettoso e diffidente verso la quasi generalità dei musulmani.

Il modello è una semplificazione. Il sociologo francese, Raphaël Liogier, ha recentemente dichiarato a Le Monde : «Bisogna rifiutare di partecipare allo scenario del “noi” contro “loro” desiderato da Daesh, e fornire una narrazione forte e positiva». Eppure parlare di “noi” e “loro” appare tristemente rassicurante nello stabilire frontiere.

La realtà è diversa. Ci sono due problematiche distinte, anche se connesse. C’è il totalitarismo di Daesh con insediamenti territoriali, ramificazioni e la sua propaganda, che si sviluppa in un mondo islamico carico di contraddizioni e divisioni (e con tanti morti musulmani per il terrorismo). D’altra parte, si profilano in Europa i radicali, i folli, gli antisistema, pronti a fare tanto male, che vivono tra di noi. Colpendo Daesh si fa una guerra in Medio Oriente. Non c’è però guerra tra Islam e Occidente, bensì terrorismo folle nei nostri Paesi. È qualcosa di diverso, che richiede strumenti adeguati per isolare i folli e difendersi.

Si deve tener conto della fragilità delle nostre società, con aree periferiche fuori controllo, sconnesse dalla vita sociale e comunitaria. Oltre al lavoro d’intelligence e polizia, ci sono vasti spazi sociali da «riconquistare» a un senso condiviso di destino nazionale e da strappare a derive nichilistiche. Si pensi alla banlieu francese, a Molenbeek, il quartiere di Bruxelles dove nascono i terroristi, o a tante periferie «umane» a rischio anche in Italia. Va tenuto conto — il Corriere l’ha mostrato — che il nichilismo di gente antisistema si radicalizza attraverso internet e i social, costituendo ghetti mentali pericolosi. Sostenendo questo, non si sposta la sfida dal politico al sociale, ma si indica il terreno dove si addensano i pericoli.

Il rapporto di Europol sul terrorismo per il 2015 afferma che non c’è prova che i rifugiati siano un veicolo di terroristi: una tematica sbandierata dai populisti. Registra invece l’esistenza di circa 5.000 foreign fighter europei. Soprattutto osserva come il 35% dei «lupi solitari» (tra il 2010 e il 2015) abbia sofferto di disturbi mentali. Si spiegano anche così le rapide o solitarie conversioni alla violenza, ma anche le azioni folli di esibizione del terrore senza logica politica.

Il problema è nelle nostre società, specie tra i giovani e chi ha un’ascendenza musulmana, dove l’islamismo agisce come spiegazione onnicomprensiva e ideologia dell’odio. È inutile vedere tutto provocato da oltremare. Il nichilismo serpeggia tra di noi. Lo si nota tra gli ultrà o negli attentati alle chiese a Fermo. È un «ospite inquietante», scriveva Umberto Galimberti. C’è un mondo da bonificare. Le società europee sono depauperate di reti aggregative e comunitarie: i corpi intermedi tradizionali — partiti, movimenti sociali o altro — sono in crisi. Senza sentimenti, passioni condivise, valori, come creare coesione sociale? Qui il problema dell’integrazione e del controllo sociale.

In Italia è una grave lacuna che si rinvii la cittadinanza ai figli d’immigrati, lo ius culturae di cui si parla da tanto: cresce una generazione a metà, né italiani né stranieri, «diversi» dai giovani italiani. Per i «marginali» i legami sono spesso religiosi, specie con l’Islam. Non si tratta solo di formare imam con spirito italiano, come previsto dal ministero dell’Interno. C’è da integrare i musulmani con le altre comunità, favorendo convivialità e dialogo. Sono cadute esperienze, promosse in passato come, all’epoca del ministero dell’Integrazione, la conferenza dei leader delle varie religioni.

Si tratta di creare, in un tempo così emozionale, sentimenti di condivisione antagonisti all’odio tipico dei ghetti mentali e sociali. La politica sociale è decisiva contro la radicalizzazione. Ma è pure decisiva la passione sociale e politica, così fragile in società europee caratterizzate da legami allentati e da un generale ripiegamento individuale.

Individui soli e strutture non integrano: ci vogliono comunità di vita e di sentimenti accanto a sogni per il futuro. Quanto accade non chiede soltanto più muscoli, ma un salto d’intelligenza e di ethos sociale da parte di tutti.

«Dopo il golpe turco. Noi italiani lo abbiamo imparato ai tempi delle Br. Ecco perché un despota come Erdogan è più un nemico che un alleato».

Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2016 (p.d.)

Antonio Ferrari, sul Corriere della Sera, sostiene – argomenti convincenti alla mano –che in Turchia c’è stato un “minigolpe improprio, a scoppio anticipato”(il titolo parla di “golpe fasullo”). Ma neppure se fosse stato un vero golpe si potrebbe comprendere l’enormità degli arresti e delle purghe comandati da Erdogan contro militari, poliziotti, magistrati, giornalisti, impiegati pubblici, intellettuali, docenti, imam.

Ancor meno, peraltro, si riesce a comprendere come di fronte a tanto scempio i principali capi di Stato occidentali possano limitarsi a prese di posizione da “minimo sindacale”, chiedendo “il rispetto della democrazia” (Obama), oppure dichiarando che la linea della tolleranza sarebbe oltrepassata solo in caso di ripristino della pena di morte (Merkel).

In un contesto difficile, che mescola Nato, guerra contro l’Isis, esodo dei profughi siriani e flussi di migrazione in generale, intricati rapporti con Russia e Assad, va bene la realpolitik, anche in dose massiccia. Ma ci sono dei limiti non oltrepassabili.

Chi ha più consenso elettorale, governa. Vale anche per Erdogan. Ma in ogni paese che aspiri a essere democratico, il potere deve rispettare il principio di legalità e i limiti di una sfera non negoziabile: quella della dignità e dei diritti di tutti, sottratta al potere della maggioranza e tutelata da una stampa libera e una magistratura indipendente, estranei al processo elettorale ma non alla democrazia. Il rispetto di questi principi è fondamentale. Altrimenti, come già insegnava quasi due secoli fa Toqueville, subentra “la tirannide della maggioranza”.

È il caso della Turchia, dove la libertà di stampa è pressoché annientata e i magistrati sono perseguitati con liste di proscrizione, licenziamenti e arresti a migliaia. Un’apocalisse. Che il Guardian del 18 luglio ha ben sintetizzato con la formula “Attenzione ai dittatori eletti”. E tutto ciò mentre infuria la guerra al (e del) terrorismo internazionale, che ripropone il tema della democrazia come possibile,utile antidoto.

Un tema che l’Italia ha affrontato con le Br. La teoria dei brigatisti era che lo Stato democratico non esiste, è una finzione. Noi brigatisti – di cevano – un colpo dopo l’altro (cioè omicidi, “gambizzazioni” e sequestri) disveleremo il volto autentico dello Stato, reazionario e fascista, di negazione dei diritti. E quando questo volto sarà disvelato, le masse – finalmente “istruite” – si ribelleranno e si uniranno all’avanguardia organizzata di noi Br, innescando la palingenesi rivoluzionaria. In questa trappola il nostro Paese non è caduto. La risposta al terrorismo brigatista non ha mai abbandonato i principi fondamentali dello Stato di diritto.Abbiamo elaborato una legislazione “specialistica” sulla realtà dei fenomeni, costretta sì a raschiare il fondo del barile dei valori costituzionali, ma senza mai andare oltre.

Non è emerso, ammesso che davvero fosse nascosto da qualche parte, alcun volto fascista dello Stato, e questo ci ha aiutati a risolvere meglio i problemi posti dal terrorismo. La nostra esperienza (pur essendo riferita a situazioni molto diverse) può essere utile anche oggi contro il terrorismo cosiddetto islamico. Che va combattuto con forte determinazione, ma ricordando che senza diritti non c’è giustizia, e senza giustizia non c’è pace. Ispirarsi a logiche di ferma sicurezza (a fronte di un fondamentalismo sempre più intollerante e sanguinario, ormai con tecniche da macellai) è doveroso. Ma se si contrappone soltanto uno schieramento armato, se si negano diritti, istruzione, sanità, sviluppo umano, ci si avvita in un circolo vizioso, che va interrotto. Altrimenti si rischiano nuovi poteri, così assoluti da costituire un problema per le libertà e la democrazia che – si dice – si vogliono tutelare e magari esportare. E a questo proposito, la feroce repressione di Erdogan ne fa un “alleato” molto scomodo. A dire davvero poco.

Altraeconomia, 22 luglio 2016 (c.m.c)

Il drammatico attacco di Nizza, che è soltanto l’ultimo di una scia sanguinosa, il tentativo di colpo di Stato in Turchia, ma anche la Brexit e il radicarsi di forti sentimenti xenofobi in giro per l’Europa, sono i segnali evidenti di una nuova fase della storia mondiale.


La globalizzazione, avviatasi dagli anni Settanta, ha generato il duplice effetto del brusco indebolimento delle sovranità nazionali e dell’affidamento ai mercati e alle istituzioni sovrastatuali del cruciale compito di definire le politiche economiche e sociali del Pianeta.

In estrema sintesi, gli Stati hanno dovuto abdicare al loro ruolo di espressione della volontà popolare per sottostare a regole che dovevano, di fatto, garantire una “graduale” crescita dell’economia, ritenuta indispensabile per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Tali regole che erano, come detto, concepite da realtà non espressione diretta della volontà popolare, a partire dalla Commissione europea per approdare al WTO, hanno così eroso, fin quasi a ridicolizzare, il peso prima di tutto culturale della nozione di cittadinanza, figlia dell’appartenenza a Stati democratici. 



Una simile dissoluzione ha certamente favorito la ripresa di un fanatismo religioso che ha tratto linfa dalla sostanziale incapacità del nuovo modello economico mondiale di ridurre le disuguaglianze tra parti del Pianeta e tra gruppi sociali. Anzi, quel modello ha approfondito i divari e le fratture, rendendole ancora più forti e lasciandole senza la protezione di un’autorità statale in grado di intervenirvi. Dove la democrazia non ha preso piede, lo stesso modello ha sostenuto, in nome del bene primario della stabilità, governi apertamente dittatoriali, che hanno individuato nella loro per molti versi artificiale “laicità” l’elemento con cui legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, spaventata dall’avanzata delle forme più aggressive dell’Islam. 



Lungo questo percorso, durato pochi decenni, è stata così liquidata una tradizione, quella nata con l’illuminismo e con la rivoluzione francese, ma anche con la riflessione liberale ottocentesca, con il socialismo transalpino e tedesco, con il keynesismo, con il cattolicesimo liberale e la riflessione del Concilio Vaticano II, che avevano trovato proprio nel modello di Stato democratico del Novecento una possibile per quanto difficoltosa sintesi.

Senza questi punti di riferimento che hanno rappresentato un ancoraggio ideale per gran parte della popolazione europea e un modello a cui ispirarsi per altre culture politiche sono diventati però possibili comportamenti e visioni ferocemente egoistiche, prive di reali coordinate generali e di prospettive “solidaristiche”, accentuate da due altri elementi. 


Il primo è costituito dal grande e pericoloso fascino esercitato dalla costante ricerca della spettacolarizzazione dell’esistenza individuale, alimentata dal linguaggio e dalle immagini della rete globale. Di fronte ad panorama in cui sono stati destrutturati i simboli dell’appartenenza collettiva, a cominciare appunto dagli Stati e dalle politiche pubbliche, si afferma l’esaltazione rappresentata e raccontata in tempo reale dell’atto individuale; dell’atto e non dei comportamenti, perché è l’eccezionalità dell’azione che colpisce e consente di essere raffigurata in pochi scatti e poche righe. In questo senso, più che del fanatismo religioso o di piani organici e persino di strategie economiche siamo vittime del fascino perverso della comunicazione, “socializzata” nella rete, del gesto clamoroso in grado di incarnare un immediato e gigantesco rifiuto istantaneo della società esistente.

Il secondo elemento è costituto dalla sempre più rapida aggregazione degli individualismi in forme settarie, che certo trovano spazio nella fine dell’autorevolezza dello Stato; si assiste in questo senso all’affermarsi di un distorto senso di nazionalismo tribalizzato per cui si decide, in maniera tutta istintiva, di aderire ad una “setta” -che sia l’Inghilterra come espressione di una genuina verginità popolare o una fede religiosa in quanto luogo di comune predestinazione o persino una “banda” di simili- e dall’interno di quella setta, chiaramente raccontata all’esterno ancora attraverso la rete, dichiarare guerra a tutti gli altri. 


Siamo forse alla fine della storia se con tale termine si indica lo sforzo di porre in essere visioni generali capaci di rifiutare le barbarie dell’“homo homini lupus”, tanto fotogenico quanto tragico.

«Questa nuova forma della violenza non si inserisce in nessuna strategia militare ci riguarda profondamente, ovvero riguarda il senso stesso della vita, è il nuovo abisso dentro il quale siamo costretti a guardare».

La Repubblica, 22 luglio 2016 con postilla

Gli ultimi atti terroristici ci obbligano a guardare in un nuovo abisso. Siamo franchi: la crudeltà dell’assassino del Tir o del ragazzo diciassettenne con l’ascia poco hanno a che fare con l’identificazione fanatica alla Causa che ispira l’adesione al radicalismo islamico.

L’abisso dentro il quale dobbiamo guardare è quello della violenza come manifestazione dell’odio puro verso la vita che indubbiamente il terrorismo islamico ha contribuito decisamente a diffondere. Si tratta di una violenza che non conosce più argini etici e che, di conseguenza, è al servizio della morte.

Sono soprattutto i giovani, i giovanissimi che si armano per colpire non i loro nemici ma altri esseri umani senza differenza di razza, sesso, età, ceto sociale, religione. Perché? La giovinezza non dovrebbe essere il tempo dell’apertura della vita, del suo fiorire? Non sarebbe più predisposta della vita adulta alla contaminazione, al contatto, al confronto, al rispetto della libertà?

Sappiamo che la giovinezza è il tempo della vita più esposto alla crisi: non è l’infanzia protetta dalla figura del genitore; non è ancora la vita adulta segnata e rafforzata dalle spine dell’esperienza. La giovinezza è il tempo dove lo scarto tra il pensiero e l’azione rischia di farsi troppo esile, dove l’onnipotenza del pensiero può giungere a negare l’esistenza stessa della realtà.

Gettarsi a valanga contro una massa di esseri umani in festa non è uccidere nel nome di Dio, ma uccidere nel nome della propria illusione di onnipotenza. L’odio per la vita in questo caso si manifesta come la forma più estrema del culto disperato del proprio Io. Il contrario della violenza animata dall’ideologia che vorrebbe invece cancellare l’Io.

Ho sempre pensato che i sintomi della concezione cinica e narcisistica dell’esistenza che domina l’Occidente siano il rovescio speculare di quelli del fondamentalismo islamico come se si trattasse di due facce della stessa medaglia. Da una parte il crollo dei valori, dall’altra la loro furiosa restaurazione; da una parte il libertinismo della perversione, dall’altra il cemento armato della paranoia; da una parte una libertà senza ideali, dall’altra l’Ideale come bussola infallibile; da una parte il pragmatismo disincantato dall’altra il fanatismo più folle; da un parte l’esibizionismo senza veli dei corpi, dall’altra la repressione più austera.

I più recenti episodi di terrorismo mi obbligano a ripensare questa opposizione: la violenza feroce di soggetti isolati non può essere fatta rientrare nello schema del fanatismo paranoico della Causa che si rivolta contro la concezione immorale e pagana della vita dell’Occidente. Il passaggio all’atto dei giovani del Tir e dell’ascia non credo siano ispirati da nessuna vocazione martirizzante, né tantomeno da una volontà, seppur delirante, di redenzione. Né credo possano essere considerati il risultato di una cospirazione politico-militare come invece è avvenuto chiaramente a Parigi lo scorso novembre.

Sembrano piuttosto scaturire dai fantasmi più oscuri della mente psicotica. Le scene stesse degli attentati assomigliano sempre più a vere e proprie allucinazioni. Ma cos’è un’allucinazione? Per Freud è un modo estremo per evitare la frustrazione imposta dalla realtà negandola furiosamente. Allucinare significa spazzare via d’un sol colpo una realtà che risulta insopportabile e priva di senso. La violenza dell’allucinazione evita il cammino necessariamente lungo della lotta e del lavoro per trasformare la realtà. Semplicemente, come in un sogno ad occhi aperti, la cancella.

In questo senso questa nuova forma della violenza non si inserisce in nessuna strategia militare. È il nuovo abisso dentro il quale siamo costretti a guardare: sono giovani, probabilmente psicotici, che agiscono allucinatoriamente trascinando nel loro delirio vittime innocenti. Non si tratta di una violenza ideologica ma erratica, una violenza che sfugge al governo di ogni esercito compreso quello del terrore. Essa non agisce più in nome dell’Ideale, ma è senza meta, senza legge, senza senso. Non risponde a processi di indottrinamento (radicalizzazione islamista “rapida” o “auto-radicalizzazione”) ma sembra indicare un rovesciamento perturbante di prospettiva: la sua volontà di morte non ha nessuna altra meta se non se stessa. Non è Dio l’interlocutore di questi atti — nemmeno il Dio folle che semina odio e incita alla morte degli infedeli — perché sono atti senza interlocutore.

L’operazione tentata dall’Is consiste nel reclamarli a sé in un travestimento ideologico di tipo illusionistico. Al contrario questa violenza è davvero senza meta, senza legge, senza senso che può trovare nell’esistenza dell’Is non la sua Causa, ma una sorta di giustificazione e di incentivazione. È violenza allucinata che trasforma la vita in morte, violenza puramente nichilistica se il nichilismo è quell’esperienza, non solo individuale ma collettiva, del venire meno di tutti valori, dunque del valore della vita stessa.

In questo senso questa violenza ci riguarda profondamente, ovvero riguarda il senso stesso della vita. Lo schema, di natura ancora paranoica, del gesto terrorista dove è l’Ideale a nutrire la mano di chi spara contro il nemico — , deve essere corretto: l’ideologia non è la Causa ma solo una giustificazione a posteriori dello scatenamento della violenza come puro odio verso l’insensatezza della vita. Il fatto che i suoi protagonisti siano giovani o giovanissimi mette ancora una volta al centro il grande problema del rapporto tra le generazioni e quello dell’eredità.

Non si diventa assassini perché Dio lo vuole, ma perché la vita, questa vita, la nostra vita, la vita che lasciamo ai nostri figli, è fatta di nulla, è senza valore, non vale niente.

postilla

Non sarebbe male se un intellettuale, in particolare se psicanalista qual è Massimo Recalcati, si domandasse perché, come, per quali cause (e per opera di quali attori) la vita degli autori di delitti cui lo scrittore si riferisce sia diventata una vita che «è fatta di nulla, è senza valore, non vale niente». Noi abbiamo tentato di domandarcelo su eddyburg, "non per giustificare ma per comprendere"; ci hanno aiutato anche i Medici senza frontiere in un articolo di Murad Yovanovitch che abbiamo ripreso da ilmanifesto, e ci sembrerebbe utile che lo facesse chi ha il privilegio di parlare per un pubblico ampio, come è quello del giornale dal quale abbiamo ripreso l'articolo.

«Legge sulla tortura . Una brutta pagina scritta dal parlamento. E l’Italia sarà nuovamente condannata, non solo per la violazione del divieto di tortura e di pene inumane o degradanti, ma anche per l’assenza di un "rimedio giurisdizionale interno"». Il manifesto, 21 luglio 2016 (c.m.c.)

«E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà» (Costituzione della Repubblica italiana, art. 13, co. 4). E ancora: «Il termine ’tortura’ designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona…».

«… o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate» (Convenzione Onu contro la tortura, art. 1).

Anche questa volta non sono bastate queste due limpide dichiarazioni, della Costituzione e della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, a indirizzare il legislatore verso la soluzione di questo autentico misfatto italiano. L’assenza, cioè, del reato di tortura dal nostro ordinamento giuridico. Anzi, a dire il vero, il reato c’è. Manca solo la sanzione: sarebbe bastato replicare le parole della Costituzione o della Convenzione nel codice penale e aggiungervi un minimo e un massimo di pena, e gli odiosi casi di tortura, che pure si manifestano, anche quando non li si voglia chiamare come tali, avrebbero avuto la loro equa punizione.

E invece no, in terza lettura, dopo averne già discusso una prima volta in commissione e in assemblea, e una seconda volta in commissione e in assemblea – e dopo che la Camera aveva fatto altrettanto – il Senato ha stabilito che fosse troppo presto approvare un provvedimento che attende di essere accolto nella nostra legislazione dal 1988 (data di ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Onu). Se non dal 1948 (data di entrata in vigore della Costituzione repubblicana). Eh già, troppo presto. E, così, la discussione sul disegno di legge relativo al delitto di tortura è stata sospesa e rinviata a chissà quando.

Intanto, pendono davanti alla Corte europea dei diritti umani le decisioni sui casi di tortura verificatisi nella caserma di Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001 – esattamente 15 anni fa – e nel carcere di Asti nel 2004. E l’Italia sarà nuovamente condannata, come nel caso della Diaz (sempre Genova 2001), non solo per la violazione del divieto di tortura e di pene inumane o degradanti, ma anche per l’assenza di un «rimedio giurisdizionale interno» (la fattispecie penale di tortura, appunto).

Le responsabilità ultime, si sa, sono del ministro dell’Interno che, alla ricerca di un ruolo e di qualche consenso, fa di ogni erba un fascio e confonde la grande maggioranza degli appartenenti alle forze di polizia agli autori di atti di tortura e di violenza su persone loro affidate. Invece di perseguire le responsabilità penali, appunto personali, dei singoli autori di reato, si associano interi corpi dello Stato a pratiche indegne di servitori delle istituzioni.

Le responsabilità penultime sono di chi ha accettato un progressivo scivolamento di piani. Sin dall’inizio – e da parte anche di alcuni ultra-sinistri – è stata interdetta la qualificazione del reato come proprio delle forze di polizia o degli incaricati di pubblico servizio. Si argomentava che, estendendone l’applicabilità, avrebbe potuto essere punita anche la tortura tra privati, dei sequestratori o dei depravati, e i pubblici ufficiali avrebbero avuto le loro brave aggravanti. Sì, ma quel primo scivolamento apriva la strada al balletto negazionista.

E così siamo finiti a discutere, ancora, di quante volte si possa vessare una persona perché violenze o minacce possano integrare il reato di tortura. E nulla valgono quei mirabili singolari della Costituzione e della Convenzione: «E’ punita ogni violenza …»; tortura è «qualsiasi atto …». Inevitabile, a questo punto, precipitare nella fosca aritmetica della enumerazione delle crudeltà.

Inascoltabili, poi, gli argomenti che associano la sospensione ai fatti di Nizza o al pericolo terroristico: il ministro dell’Interno pensa dunque di fare ricorso a pratiche di tortura per le indagini di terrorismo internazionale? E se accettassimo pure questa scellerata ipotesi sa dirci, il nostro ineffabile ministro, come avrebbe fatto ad applicarla preventivamente all’attentatore di Nizza o all’accoltellatore di Heidingsfeld? Suvvia, perfino da Angelino Alfano si deve pretendere un po’ di serietà.

Al contrario, proprio in queste circostanze, va fatta valere la differenza nella concezione del diritto, tra chi usa la violenza e chi no. Va fatta valere contro i nemici della democrazia e dello stato di diritto e a fronte di pratiche di repressione come quelle di cui siamo testimoni ai confini dell’Europa, nell’Egitto di Al-Sisi come nella Turchia di Erdogan.

Un'analisi delle particolari condizioni nelle quali è nata, si è sviluppata ed è degenerata la forma democratica del potere nello stato turco nell'ambito della tradizione religiosa dell'islamismo.

La Repubblica, 21 luglio 2016, con postilla

La rapida drammatica involuzione della Turchia verso il dispotismo della maggioranza ci sveglia dal sonno dogmatico che alcuni decenni di egemonia democratica e occidentalista hanno facilitato, facendoci dimenticare che i governi fondati sul consenso non sono necessariamenti buoni. La volontà della maggioranza, anche quando radicata nella cultura nazionale, non è per questo amica dei diritti dei singoli di religione, di parola, di idee, di associazione, di insegnamento. Le resistenze dei liberali nei confronti della democrazia, se e quando questa è semplicemente governo del consenso, sono più che giustificate.

Anche le democrazie costituzionali possono presentare insopportabili pulsioni verso l’intolleranza. La moderazione ha successo se e quando la costituzione è più di un documento scritto, l’ethos che innerva il comportamento dei magistrati, dei rappresentanti politici e dei cittadini. Per attecchire come sistema di libertà, la democrazia deve poter contare su una società culturalmente aperta alle ragioni dei singoli e con una tradizione religiosa che accetti che la legge civile non sia omologata ai propri comandamenti. La debolezza dei tentativi democratici nei paesi islamici ci dice che ogni governo fondato sul consenso va giudicato non dal punto di vista dell’ampiezza del consenso ma della libertà con la quale quel consenso si forma, viene espresso e contestato. Le primavere arabe sono cadute sulla debolezza del governo della legge, che ha seguito questo tragico destino: o è diventata preda del potere religioso mediante la conquista della maggioranza parlamentare, oppure, per ostacolare o reprimere questo esito, è stata presa della forza militare. Forza della massa e forza repressiva marcano la debolezza della legge civile, e quindi della democrazia costituzionale, nei paesi islamici. Si tratta di una debolezza di laicità, cioè della cultura della separazione tra poteri e della pratica di limitazione del potere, qualunque esso sia. La degenerazione del governo basato sul consenso verso forme illiberali è connaturata a questa debolezza.

La laicità viene spesso identificata, sbagliando, con il secolarismo. Essa però non è un “ismo” o un’ideologia, ma la condizione stessa dello stato della legge e del diritto perché un’attitudine dell’autorità civile (lo Stato) verso le pratiche religiose con lo scopo di renderle capaci di convivere pacificamente con altre pratiche di natura non religiosa e di altre religioni. Laicità è un modo di organizzare la coesistenza delle libertà plurali, di far convivere persone diverse e con culture diverse. Richiede per questo l’emancipazione del diritto dalla volontà e cultura della maggioranza, la distinzione tra diritto e morale, tra opinione su quel che è equamente giusto e quel che è assolutamente bene. Rispetto delle persone, delle loro credenze e della libertà di praticare la religione o lo stile di vita che esse scelgono: questo è laicità, condizione di una società aperta, plurale e liberale che rende la democrazia un buon governo.

Come si intuisce, la laicità è una conquista, non un punto di partenza. Per crescere deve potersi appoggiare alla sovranità della legge dello Stato, condizione essenziale per la formazione di ordini liberali e costituzionali. Ricordiamo l’insegnamento del Leviatano di Thomas Hobbes: si può ottenere sicurezza o pace sociale anche senza un regime liberale e costituzionale di divisione e limitazione del potere. Ma è evidente che governi limitati possono evolvere solo una volta che la legge dello Stato abbia consolidato il suo potere su tutti i suoi sudditi e le fonti normative. È questo il paradigma che ha guidato la Turchia di Mustafa Kemal Atatürk (il “padre dei turchi”, secondo il significato di “Atatürk”, ovvero il fondatore della Repubblica turca nel 1923). Atatürk diede origine allo Stato nazionale turco dopo la dissoluzione dell’Impero Turco- Ottomano, che era multietnico e multireligioso. Egli fu alla testa di uno Stato con una religione dominante che resisteva alla sua sovranità. Lo Stato turco adottò una strategia di depressione della democrazia per tener sotto controllo la religione — mise in evidenza il nesso tra democratizzazione e ismalizzazione. Atatürk fu il padre della sovranità assoluta dello Stato e, sulle orme di Hobbes, mise la religione dentro e sotto la sua potestà. Secolarizzò lo Stato per riuscire ad affermare l’autorità della legge civile su quella religiosa. La storia politica della Turchia moderna è documento vivo delle contraddizioni che possono nascere dal connubio tra stato-nazionale e sua trasformazione democratica in paesi dove l’aspetto “nazionale” è essenzialmente identificato con la tradizione religiosa che, a sua volta, cerca e vuole il controllo dello Stato. L’arte della separazione tra politica e religione è riuscita ad Atatürk a patto di impedire la democratizzazione piena e quindi l’ingresso dell’opinione della maggioranza nel potere dello Stato. Il processo in corso dopo il fallito tentativo di colpo di stato sembra dare ragione a quel vecchio progetto — o secolarismo di Stato o una radicale confessionalizzazione. In entrambi i casi è la democrazia liberale a non aver ossigeno.

postilla

Difficile il percorso verso una democrazia compiuta (e perciò condivisa dalla pluralità di popoli e di culture esistenti) in un mondo nel quale si esercita da qualche secolo il dominio di una sola delle culture che vi si sono affermate. Ancora più difficile quando la cultura dominante ha assunto l'arricchimento dei più ricchi come il suo vessillo, e la violenza della guerra come la sua arma priviegiata. In alcuni paesi, poi, non ha rinunciato neppure all'impiego della tortura.

AIl manifesto, 21 luglio 2016


IL VIRUS TURCO CI RIGUARDA

di Giuseppe Giulietti
«Libertà di stampa. I giornalisti non possono restare muti»

«La Turchia è diventata la più grande prigione a cielo aperto ai confini dell’Europa…», parole scritte dal giornalista Can Dundar che rischia l’ergastolo per aver scritto sugli ambigui rapporti tra Erdogan e l’Isis. La sua drammatica riflessione risale a qualche settimana fa, quando ancora non si era consumata la tragica farsa del golpe o autogolpe che sia. Il «nuovo» colpo di Stato è fallito, immediatamente ha ripreso forza il «vecchio», quello già in atto sotto la guida di Erdogan, un presidente «eletto democraticamente», come continuano a ripetere, con inconsapevole ironia, i governanti dell’Unione europea.

Nel giro di poche ore sono stati fermati, rimossi, arrestati migliaia di magistrati, intellettuali, professori, studenti, giornalisti, accusati di aver promosso e sostenuto il colpo di Stato e di aver trescato con Gulem, l’ex sodale di Erdogan, ritenuto il mandante e la mente dell’ambiguo e goffo tentativo di golpe. Le immagini e i disperati appelli che ancora filtrano dalla Turchia ci ricordano gli stadi cileni, la «Macelleria messicana» di genovese memoria, l’umiliazione della dignità della persona, la soppressione dei più elementari diritti civili, politici, sociali.

In queste ultime ore alla già lunga lista di giornalisti denunciati ed arrestati, si sono aggiunti i nomi di altri 34 cronisti ai quali è stato ritirato il tesserino professionale e di decine di siti e di emittenti oscurati o chiusi.

L’Europa invita Erdogan a non introdurre la pena di morte «altrimenti sarà fuori dalla legalità comunitaria», come se la rottura non si fosse già materializzata, come se il colpo di Stato non si fosse già consumato, come se il bavaglio non fosse calato sulla già precaria democrazia turca. Cos’altro bisogna attendere: la chiusura del Parlamento?

Lo scioglimento del partito curdo? La definitiva cancellazione della residua autonomia dei poteri di controllo? Queste solo alcune delle ragioni che dovrebbero indurre ciascuno di noi a reagire, a contrastare una deriva che minaccia di coinvolgere L’Europa, a partire da quelle realtà, dalla Polonia all’Ungheria, che già presentano segni di involuzione autoritaria.

Chi ha marciato a Parigi, e non solo, per contrastare gli assassini che avevano colpito la redazione di Charlie Hebdo, non può oggi restare muto ed immobile. Per questo la Federazione della Stampa, attraverso il segretario Raffaele Lorusso, ha deciso di chiedere alle organizzazioni internazionali dei giornalisti, di valutare la possibilità di inviare subito una delegazione in Turchia, ma anche di promuovere ogni iniziativa utile a scuotere le coscienze e a sollecitare un’azione immediata ed efficace da parte delle istituzioni europee che non possono assistere inerti alla “macelleria turca”.

Se non lo faranno spetterà alle forze politiche, sociali, religiose, ancora sensibili al tema dei diritti e della libertà, farlo comunque, sfidando omissioni, diserzioni, opportunismi di vario segno e natura.

Nel frattempo, e il ne è un positivo esempio, spetterà a ciascun giornalista il compito di dare voce e visibilità ai cronisti “oscurati”, riportando i loro appelli, dando ospitalità alle opinioni censurate, realizzando siti e trasmissioni rivolte alla pubblica opinione turca, promuovendo una campagna di sostegno operativo che vada oltre le testimonianze di solidarietà.

Chi, da sempre, ha scelto di contrastare censure, bavagli, soppressione dei diritti e delle garanzie, non può fingere di non sapere che il virus turco ci riguarda. Non può esserci uno scambio tra il rispetto delle libertà fondamentali e la promessa di Erdogan di fare il guardiano alle frontiere per conto dell’Europa.L’infezione va fermata ora e subito, prima che la Turchia diventi, per parafrasare Can Dundar: «La più grande prigione a cielo aperto del mondo».

LA TOMBA DELL'OPPOSIZIONE TURCA
di Mariano Giustino
«Turchia. Riunito ieri il Consiglio di Sicurezza: Erdogan annuncia tre mesi di stato di emergenza mentre il governo pensa alla creazione di un tribunale speciale per i presunti responsabili del tentato golpe e di un carcere ad hoc dove farli sparire. Purghe in corso: accademici e giornalisti nel mirino. Manifestazioni pro-governative a Istanbul e Ankara»
Stato di emergenza per tre mesi: è l’annuncio fatto ieri sera dal presidente turco Erdogan a seguito della riunione del Consiglio di Sicurezza. Alla luce delle epurazioni in corso, il timore che una simile azione faccia definitivamente collassare lo Stato di diritto è forte. Lo è anche se Erdogan minimazza dicendo che ciò non si tradurrà in una limitazione delle libertà civili. Eppure nello stesso annuncio, da capo delle forze armate, ha promesso ulteriori purghe contro l’esercito.

Poco prima, nel pomeriggio, parlava il sindaco di Istanbul: sarà costruita la «Tomba dei traditori – ha annunciato ieri – Sarà creato uno vasto spazio apposito per seppellire i golpisti. I loro cadaveri non saranno accettati nei nostri cimiteri», ha dichiarato Kadir Topbas.

Per la quarta notte di seguito sono proseguite le manifestazioni dei sostenitori del presidente Erdogan nelle maggiori città della Turchia, in particolare ad Ankara, Istanbul e Izmir. A Istanbul, in piazza Taksim, nel cuore europeo e laico della megalopoli turca, è stato allestito un palco e un grande striscione copriva la facciata dell’edificio del Centro culturale Atatürk: «Fetö, figlio di satana, impiccheremo te e i tuoi cani». Fetö è l’acronimo di Organizzazione Terroristica dei seguaci di Fethullah, termine che Erdogan ha coniato per bollare la comunità di Gülen.

Si sta consumando un’immane tragedia in Turchia per tutti gli oppositori di Erdogan: è salito a circa 60mila il numero di coloro che sono sotto inchiesta perché ritenuti responsabili del fallito golpe di venerdì 15 luglio. Il vice capo della polizia, Mutlu Ç., del quartiere Güdül di Ankara, si è suicidato dopo aver appreso di essere stato sospeso. Lo stesso gesto ha compiuto il sottoprefetto della provincia di Manisa, mentre tre generali della Marina sono fuggiti dalla base navale di Izmit, la più grande del paese. Il presidente turco Erdogan sta in queste ore regolando i conti con il suo acerrimo nemico e ex alleato Gülen dal 2007 al 2011 e con tutti i suoi critici e oppositori.

I 1.577 rettori di tutte le università del paese pubbliche e private sono stati costretti dal Consiglio superiore dell’Istruzione (Yök) a rassegnare le dimissioni e saranno presto sostituiti da accademici vicini al partito di governo. Altro provvedimento adottato è la sospensione fino a nuovo avviso delle assegnazioni presso università estere degli accademici turchi. Inoltre è disposto il rientro di tutti gli accademici che insegnano all’estero, qualora non vi fosse un grave stato di necessità che ne giustificasse la permanenza fuori dalla Turchia.

Lo Yök ha anche chiesto ai rettori di tutte le università di informare le autorità competenti circa la presenza tra il personale accademico e amministrativo di esponenti della comunità di Gülen. Nel frattempo il Ministero dell’Istruzione dell’Azerbaigian ha annunciato di aver chiuso a Baku l’Università di Qafqaz, il primo istituto accademico fondato da Gülen all’estero, 1993.

Il cerchio si stringe, e colpisce la stampa. Il vice primo ministro Numan Kurtulmus aveva ieri annunciato che erano stati aperti 9.322 provvedimenti giudiziari a carico di giornalisti. Un reporter russo, della televisione Ren Tv è stato arrestato ieri mattina e successivamente rimpatriato in Russia. Il giornalista era arrivato all’aeroporto Atatürk per seguire gli sviluppi del tentato golpe in Turchia. La polizia ha bloccato la distribuzione del settimanale satirico LeMan che riportava in copertina una vignetta sul tentato golpe. La polizia è intervenuta poco dopo che la rivista satirica era stata stampata.

Ad essere colpiti dalla scure di Erdogan sono soprattutto le persone sospettate di avere legami con il movimento Hizmet, nei settori in cui è più forte e cioè nella sfera militare, nella magistratura e nel sistema dell’istruzione.

Il golpe era stato pensato e pianificato da tempo. La decisione di compierlo quel giorno, il 15 luglio, era maturata perché stava per essere anticipata la riunione del Consiglio supremo militare, che generalmente si riunisce il primo di agosto e che aveva all’ordine del giorno la decisione di allontanare gli ufficiali vicini al movimento di Gülen. E quindi si è deciso di realizzare il piano in quella data. Erano già pronte dunque le liste di coloro che dovevano essere rimossi dalle massime istituzioni statali e c’era all’interno dell’esercito una grande tensione tra i gülenisti.

Per Ankara, è Gülen l’ispiratore del golpe. È stato accusato di essere a capo di una presunta organizzazione terroristica, costituente un vero e proprio «Stato parallelo». Un’organizzazione che avrebbe finalità eversive costituita da un gruppo di burocrati e militari infiltratisi all’interno dell’apparato statale, giudiziario e dell’esercito. Il golpe dunque sarebbe maturato all’interno di alcune gerarchie militari che si sentivano minacciate dalla operazione di pulizia già in atto all’interno delle forze armate da parte del partito di governo.

Il presidente turco continua a fare appelli alla piazza, affinché manifesti contro i golpisti. Anche ieri sera si sono tenute manifestazioni in tutte le principali città del paese. Ad Istanbul si è anche tenuta la manifestazione degli accademici che hanno avuto parole di condanna per il golpe, in difesa delle istituzioni repubblicane. Ad Ankara vi ha partecipato il presidente Erdogan che ha annunciato durante il comizio le importanti misure deliberate a seguito del fallito golpe dal governo nella riunione di gabinetto appena conclusasi.

Tra le misure previste vi sarebbe quella dell’istituzione di un tribunale speciale per processare i golpisti e la costruzione di un carcere speciale per i membri della giunta che hanno posto in essere il tentativo fallito di colpo di stato. La priorità per il governo turco è di ripulire tutto l’apparato statale dai membri e simpatizzanti del movimento Gülen ed Erdogan ne vuole approfittare per schiacciare ogni sacca di opposizione nel paese al suo progetto di uomo solo al comando.

SUBITO RAID CONTRO IL PKK
di Chiara Cruciati

»Kurdistan. L’aviazione turca bombarda a un anno dalla strage di Suruc. Il 20 luglio 2015 un kamikaze dell’Isis uccise 33 giovani turchi: quel massacro inaugurò la campagna anti-kurda. Ankara compatta l’esercito nella lotta ai kurdi. E lo tiene a bada: l’unico al comando è il Sultano«
Icacciabombardieri turchi, che da un anno infestano i cieli del nord dell’Iraq alla caccia di postazioni del Pkk, erano rimasti a terra nei giorni successivi al tentato colpo di Stato. Ieri hanno ripreso il lavoro: almeno 20 combattenti kurdi sono stati uccisi in raid dell’aviazione di Ankara contro le montagne irachene di Qandil.

La guerra alle aspirazioni democratiche e autonomiste kurde non conosce tregua: non a caso nelle ore concitate del golpe la popolazione kurda era la più disorientata, indecisa se sperare in una caduta del presidente Erdogan, suo vampiro, o nel fallimento del golpe militare, simile a quelli che nei decenni passati si sono tradotti in una radicalizzazione della lotta ai kurdi.

Nell’ultimo anno è stato il Kurdistan turco a vivere a stretto contatto con l’esercito e le sue unità speciali che hanno devastato le città, ucciso centinaia di civili e costretto alla fuga 355mila persone (dati Human Rights Watch). Quella campagna non è terminata come non lo è quella aerea contro le postazioni del Partito Kurdo dei Lavoratori che nel nord dell’Iraq aveva fatto ritirare i suoi uomini dopo l’avvio del processo di pace con Ankara voluto dal leader Ocalan, tre anni fa.

I raid di ieri servono a questo: a ricordare che lo schiacciasassi turco è sempre in moto e non mollerà la presa sul Kurdistan, nonostante le epurazioni in corso nelle forze armate (tra loro anche il capo dell’aviazione, il generale Ozturk). Un messaggio ai kurdi, sì, ma anche allo stesso esercito, a confortarlo e allo stesso tempo a tenerlo a bada: le mire nazionaliste interne sono più vigili che mai e Erdogan ha il pieno controllo dei militari.

Al di là dell’ininterrotta violazione della sovranità di Baghdad – talmente poco interessante per la comunità internazionale che anche il governo iracheno ormai non protesta più – a rimbombare insieme ai fischi delle bombe turche è la sinistra ironia della tempistica. Ieri non era un giorno qualsiasi: ieri era il 20 luglio, un anno esatto dalla strage compiuta dallo Stato Islamico a Suruç, estremo sud turco, ad un passo dal confine con la Siria, a due da Kobane.

Quel giorno in città si teneva un raduno della Federazione delle Associazioni dei giovani socialisti, 330 ragazzi riuniti nel centro culturale Ammara. Si stavano preparando a partire per Kobane, liberata da pochi mesi dalle Ypg di Rojava, per portare giocattoli e medicinali.

Delle tante immagini di quel giorno sono due che ancora riemergono per la loro forza: la foto di gruppo scattata da quei ragazzi poche ore prima della strage e i loro corpi a brandelli pietosamente coperti con bandiere rosse (gli inquirenti impiegarono giorni per rimettere insieme i pezzi dei cadaveri). Ne morirono 33, dopo che un kamikaze si fece esplodere in mezzo a loro.

Ma il massacro non si è fermato a Suruç: con la scusa plastica e immunizzante della lotta al terrorismo islamista, il governo turco lanciò pochi giorni dopo la sua personale operazione anti-Isis. Che non ha colpito – quasi mai – il “califfato”, ma ha avuto come primario target il Pkk nel nord dell’Iraq, le Ypg di Rojava nel nord della Siria e il Bakur, sud est turco.

Un’equazione cristallina: a meno di due mesi dalle elezioni del 7 giugno 2015, quando il partito pro-kurdo e di sinistra Hdp ottenne un inatteso e prorompente 13%, con l’Akp che boccheggiava, a Suruç si è aperta la stagioni delle stragi targate Isis che ha seminato morte a Istanbul e Ankara più e più volte.

Con la paura e la destabilizzazione il sagace Erdogan ha così traghettato il popolo turco verso le desiderate elezioni anticipate di novembre dove l’ancora di salvezza, per molti, è stata sommariamente individuata nell’uomo forte. Lo stesso che negli anni precedenti ha abbondantemente seminato il fertile terreno dei gruppi islamisti nella vicina Siria.

In un simile contesto l’eventuale riapertura del processo di pace con il Pkk è un’opzione nemmeno presa in considerazione da un presidente che necessita di indebolire il paese per controllarlo meglio. I raid di ieri, dopo un golpe di una parte di quell’esercito che ha sempre schiacciato il popolo kurdo, non sono altro che la naturale continuazione di una simile politica che oggi si accompagna a purghe di Stato ed epurazioni di massa.

Il manifesto, 21 luglio 2016

Nella conversazione che segue la parola chiave è «instabilità», la «cifra che rimane sempre dentro», dice Fausto Bertinotti, o «La scintilla che può incendiare la prateria» come ha intitolato il suo editoriale nell’ultimo numero della rivista Alternative per il socialismo. A pensar male l’instabilità potrebbe essere la cifra della sua vita politica, date le indimenticabili rotture di cui ancora oggi si professa «orgoglioso». Ma non è di Prodi che parliamo stavolta. Parliamo di Renzi. Che per Bertinotti non è neanche un caso speciale: «È un po’ più o un po’ meno ma tutto sommato come gli altri che governano l’Europa. Sarebbe meglio che cadessero tutti, provocherebbe instabilità. Ma se non si ricostruisce la democrazia, va via lui ma viene avanti un altro uguale».

Un passo alla volta. Renzi ha perso la spinta propulsiva?
La sua ipotesi, dopo un inizio di successo, ora ha elementi di crisi. Il suo compito era dare una forma stabile alla governabilità, cosa in cui non erano riusciti i predecessori. Prima sul terreno sociale, come gli chiedevano i padroni del vapore attraverso Draghi: ha risposto ’obbedisco’. Ed ecco il jobs act e la controriforma della scuola.

Chi sono i padroni del vapore?

Il capitalismo globale finanziario. Le grandi multinazionali. Le banche centrali. Il governo sovranazionale chiamato Troika. Renzi poi, secondo passo, doveva realizzare la governabilità rendendo le istituzioni stabili anche in presenza di uno scarso consenso popolare. Ed ecco la riforma costituzionale, fine di un lungo ciclo per mettere in mora le assemblee elettive e sostituirle con la centralità del governo. All’inizio un parte del mondo politico era attratta da Renzi, anche i grandi facitori di opinione. Ma l’assolutizzazione della governabilità produce instabilità.

È un paradosso.
Sì. La rana vuole farsi mucca ma non ce la fa e scoppia. Il conflitto, domato in termini di alternativa politica, destra-sinistra, con il suicidio della sinistra, ritorna in termini di alto-basso e lotta contro le élite. Il partito unico del governo non ce la fa, le politiche reali producono crisi della coesione sociale. È successo a Valls, a Cameron, a Rajoy. E l’irresistibile ascesa va in crisi.

In tutto questo il referendum che ruolo ha?
«È un appuntamento importante, carico di significati non iscritti nella contesa. Questo è stata la Brexit: ormai la percezione ha preso il posto del programma. L’evocata volontà popolare diventa un giudizio di dio sulle classi dirigenti: fra chi vuole che continuino a guidare il convoglio e chi invece dice: ci portano verso il baratro, fermiamo il convoglio.

Lei voterà no, dunque.
Ma con un voto smagato. Voterò no per contribuire a fermare il convoglio. Anche se poi, fermate le macchine, resteremo in un regime neoautoritario dove la sovranità popolare è sospesa. Bisognerebbe che, scesi dal convoglio, ci rimettessimo in marcia per la conquista della democrazia. Non per la difesa: cosa difendi se la democrazia non c’è più? Come disse Togliatti, con solita perfidia, ai comunisti francesi che si opponevano alla riforma di De Gaulle: non si può difendere con efficacia la democrazia quando è già ridotta a un simulacro. Ma insomma: gli Indignados, la Nuit debut, sono tutti già scesi dal convoglio.

Qui in Italia ci sono i 5 stelle.
Loro sono ’antisistema’ però solo sul versante ’politico’. Ma il sistema è quello capitalistico. In ogni caso: a loro sono interessato perché contribuiscono a battere il partito della stabilità. Scriverò l’elogio dell’instabilità. La stabilità è il nostro nemico, batterla è la condizione per tornare a respirare. E del resto la loro stabilità non governa niente: né i treni di Andria, né la Promenade des Anglais, né la Brexit. Diceva Mao : grande è il disordine, la situazione è eccellente. Non sarà eccellente, ma meglio che niente.

Ma l’instabilità non è un programma. E una volta destabilizzato il governo?Per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua. L’instabilità costringe a mettere al primo posto la pratica sociale.

Comunque Pd e 5 stelle pari non sono?
No, non sono pari. Il Pd è il sacerdote della stabilità, il M5S si è costruito all’opposizione del sistema politico, introduce contraddizioni. E se cambiassero linea sui migranti passerei a un atteggiamento anche più coinvolto. Perché loro sono in conflitto con le élite, basso contro alto, esattamente il terreno che dovrebbe praticare la sinistra. Alle sindache Raggi e Appendino direi: fate una passeggiata a Barcellona e Madrid per discutere con le due colleghe sindache l’idea di ’città nuova’ come parte di una nuova Europa.

A suo parere Sinistra italiana va nella direzione giusta? I leader sono quasi tutti suoi allievi, la generazione di Genova 2001.
Non voglio entrare nei conflitti interni di una forza nascente. Ma a mio parere non nascerà nessuna sinistra se non fuoriesce dall’involucro dell’istituzione partito per andare verso le pratiche sociali. A Genova sbagliammo a non accettare fino in fondo la sfida di assumere la testa del movimento sciogliendo l’ultimo partito del 900. Diceva un insigne teologo: solo dall’imprevisto può venire la salvezza. La spagnola Podemos e la greca Syriza vengono da Genova e nascono dalla piazza.

Tsipras un partito l’ha costruito, eccome.
In Syriza sono approdati esponenti del vecchio Synaspismós, ma resta che è stata la piazza greca a far nascere la Coalizione. Anche in Italia il processo costituente deve nascere dalla piazza. Non per partenogenesi.

E se in Italia la piazza non c’è?
E allora si adoperino a costruirla. Bisogna costruire un popolo, scomparso al pari dei partiti. E non lo reinventeranno con una costruzione politica, ennesima prigione, ma con una pratica sociale. La sinistra non ha neanche la mappa di tutte le forme di partecipazione, associazione, autogoverno. E perché? Perché le interessa un altro terreno, quello dell’istituzione-partito. Così la diaspora del suo voto approda altrove, ai 5 stelle.

Rabbia, razzismo, paura: tre mostri legati insieme che contribuiscono a rendere disumano il nostro mondo. Che fare per lavorare nella direzione giusta. La Repubblica, ed Milano, 20 luglio 2016, con postilla (m.c.g.)


Temo sia accaduto molte altre volte. In questo caso, però, grazie a un video caricato sui social, l’episodio è diventato pubblico: un dipendente Atm insulta un utente dei mezzi pubblici, reo di essere entrato in metropolitana senza biglietto. Personalmente, la scena mi ha colpito per due aspetti. Il primo è la rabbia con cui il dipendente si accanisce ripetutamente sulla persona che non avrebbe pagato. Lo fa in maniera aggressiva e volgare, con modi da condannare nettamente, qualsiasi cosa sia successa prima dell’inizio del filmato. Il secondo è una frase pronunciata dal lavoratore Atm. «Devi ringraziare che ti tengono qui! E che ti danno da mangiare!», dice alla persona che è a pochi centimetri da lui: un uomo, pare sui trent’anni, in scarpe da tennis, con i pantaloncini, una maglietta fantasia. E la pelle nera.

Chi lo sta insultando, presumibilmente, non sa altro. Sa solo che è nero e che parla in italiano, anche se non perfettamente. Potrebbe essere un profugo sbarcato da poche settimane, un titolare di una delle 550mila imprese straniere in Italia o, ancora, un extracomunitario diventato nostro concittadino. Non importa. Per chi gli urla contro, il fatto che sia nero basta e avanza: lo autorizza, inconsciamente, a marcare la distanza tra lui e gli altri “che pagano”, a segnare la differenza tra noi e loro, a considerare il suo non aver comprato il biglietto un’infrazione ancora più pesante, aggravata dal colore della sua pelle, dalla sua diversità. E qui torniamo alla rabbia. La rabbia che mi ha colpito in quel video è un sentimento diffuso e strisciante che a volte esplode e degenera in conflittualità. Non è razzismo e neppure paura. Ma è legata ad entrambi a doppio filo.
La paura ne è la madre perché diversità e insicurezza generano inquietudine e frustrazione che, quando vengono strumentalizzate, creano rabbia. Il razzismo invece può diventarne il figlio malato, perché è facile indirizzare il malcontento verso i diversi, che rischiano di trasformarsi in capri espiatori.
Per evitare di soffiare sul fuoco è importante agire su più fronti. Il linguaggio: il nostro dibattito pubblico è sempre più segnato da discorsi spudorati e violenti. Serve una forte deterrenza. E serve ridare concretezza a parole come umanità e fratellanza. Ci sono poi le responsabilità delle agenzie educative, che devono trasmettere i valori di cittadinanza e bene comune. È da qui che discende il rispetto delle regole, compresa la consapevolezza che pagare un biglietto serve a far funzionare un sistema utile alla collettività. Solidarietà e legalità vanno insieme, anche nei piccoli gesti. Se non si riesce a far capire questo, a vincere è l’individualismo più sfrenato.

La sfida, quindi, è tornare con forza a lanciare questi messaggi, ai “vecchi” cittadini che rischiano di dimenticarli e ai “nuovi” cittadini che arrivano nel nostro Paese. Per questi ultimi, in particolare, è importante pensare a dei percorsi di vera cittadinanza. Accoglierli non significa solo dar loro vitto e alloggio, ma anche far conoscere loro valori, diritti e doveri partendo dalla Costituzione. Nel concreto, significa distribuire le persone capillarmente sul territorio, proporre loro progetti di autonomia incentrati sul lavoro e metterle nelle condizioni di diventare cittadini responsabili. Che quando prendono i mezzi pubblici pagano consapevolmente il biglietto perché sanno che è giusto e utile. A tutti.

postilla

Sulle stesse pagine su cui compare l'articolo di don Colmegna si conferma una decisione già paventata non solo dalle varie comunità religiose, ma anche dai laici progressisti: lo sfratto esecutivo per la moschea di via Padova; un luogo eminente di dialogo interreligioso grazie alla moderatezza e lungimiranza di Asfa Mahmoud, palestinese, architetto e presidente del Consiglio Direttivo della Casa Musulmana di Milano. Nel capoluogo lombardo sarà inoltre necessario rifare il bando per i nuovi luoghi di culto, fra i quali ci sarebbero dovute essere due moschee, grazie alla legge regionale, votata da Maroni e accoliti, che obbliga a predisporre un documento dedicato alle "attrezzature religiose" ad integrazione del Pgt.Oggi a Milano 100.000 islamici sono costretti a pregare in luoghi precari e inappropriati. A proposito di accoglienza e lungimiranza…(m.c.g.).

Rifletto non per giustificare, ma per comprendere episodi tragici come quello del ragazzo afgano che ha fatto strage degli innocenti passeggeri di un treno tedesco, al grido Allahu Akbar (Dio è grande). Quel ragazzo afgano che è stato accolto in Europa al termine della consueta trafila, che inizia nel fuoco di guerre e carestie, prosegue con tragitti pieni di dolore e rischio, e si conclude, dopo la “salvezza”, nei cosiddetti “centri di accoglienza" (in Italia si è eliminato il velo d’ipocrisia e si chiamano centri non già “di accoglienza" ma, onestamente, “di identificazione ed espulsione”).

Parliamo di questi centri, e degli umani che vi soggiornano, e delle esperienze che vi vivono le persone “normali”, che hanno altre storie alle loro spalle. Chi frequenta questi luoghi oppure ha occasione di lavorare nelle strutture umanitarie che ne accudiscono gli scampati, racconta che è altissima la percentuali di quanti sono “fuori di testa”. Raccontano che le ferite lasciate dalle numerose tappe dell’esodo sono così profonde sulla psiche da poter essere rimarginate con molto più tempo, fatica, incertezza, di quelle lasciate nelle carni e nelle ossa. Mentre chiudo questa nota ne arriva un'altra testimonianza, da Medici senza frontiere.

Ripeto, non per giustificare gli assassini multipli e le stragi provocate da codesti nostri disgraziati fratelli, ma per comprendere. E comprendere è per noi un obbligo maggiore che per gli altri, poiché siamo benestanti, ben nutriti e vestiti, ben protetti dalle avversità della natura e da quelle della storia.

Ma se così è, se comprendere è per noi un obbligo morale e civile, allora non possiamo fare a meno di interrogarci anche sulle cause di quell’esodo i cui prodotti, sani e insani, vengono scaricati sulle nostre sponde. La letteratura su questo tema è così ampia che è inutile farvi cenno. Ed è chiaro che mille fili indicano come burattinai del disastro del Terzo mondo attori ben radicati nel Primo mondo, o nei suoi dintorni. Lo ha ammesso di recente anche uno dei corresponsabili, Tony Blair.

C’è poi qualcos’altro che ci riesce difficile non solo, com’è ovvio, giustificare, ma perfino comprendere: il forsennato odio religioso. Dell’intreccio tra squilibrio mentale e odio religioso scriveva recentemente (a proposito di un’altra strage, quella di Nizza) il filosofo franco-bulgaro Todorov; e rifletteva: «Se una religione, qualsiasi essa sia, diventa l’ideologia fondamentale di uno Stato, i valori democratici sono minacciati. Certo, oggigiorno, bisogna ammettere che l’Islam aspira a questo ruolo più di altre religioni». Non si può non convenire. Ma forse è utile ricordare che, in un passato lontano non millenni, altre religioni, quali quelle del cristianesimo, hanno avuto la stessa pretesa e hanno provocato analoghi danni. E non ci dice nulla in proposito la Palestina?

Neppure la nostra storia è priva di macchie. Tutto ciò, lo ripeto ancora una volta, deve spingerci non a giustificare, ma a comprendere quanto il nostro presente sia pieno di “diversità”. Diversità che giustamente consideriamo una ricchezza, e che anche per questo non possiamo eliminare con gli strumenti della chirurgia sociale, ma dobbiamo sanare, nei suoi aspetti non accettabili con l’attenzione, comprensione, accoglienza (vera) e cura. E, a volte, forse anche con qualche sacrificio personale. Chiedendo agli “altri” di aiutarci a ripulire anche noi da ciò che in noi non è più accettabile: per cominciare, dalla pretesa che la nostra cultura sia migliore di tutte le altre. La nostra cultura, quella cioè del mondo nordatlantico, potrebbe addirittura tornare a produrre “mostri” (Donald Trump ne è un esempio temibile) e diffusi rigurgiti razzisti. I segnali sono ormai più che preoccupanti in tutta Europa. Occorre tornare a ragionare lucidamente e umanamente su cause ed effetti, piangendo i morti e salvaguardando tutti i vivi.

« Il manifesto,

Insieme ai traumi pregressi e alle violenze subite durante il viaggio, il disagio psichico dei migranti nasce anche nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) una volta “ospiti” di un sistema emergenziale.

Il fenomeno del disagio mentale dei richiedenti asilo è gravemente sottovalutato, avverte Medici senza frontiere nel rapporto «Traumi ignorati» e frutto di una ricerca quali-quantitativa condotta nei Cas di Roma, Trapani e Milano e dei dati raccolti durante le consultazioni nei Cas di Ragusa dai team di Msf. «Il 60% dei soggetti intervistati nell’ambito delle attività di supporto psicologico di Msf tra il 2014 e il 2015 presentava sintomi di disagio mentale connesso a eventi traumatici subìti prima o durante il percorso migratorio», spiega Silvia Mancini, esperta di salute pubblica per Msf e curatrice dello studio.

Sequestri, lavoro forzato, violenza sessuale, detenzione, tortura, come emergono ricorrenti dai colloqui, sono tutti fattori di rischio per la salute mentale. La probabilità di sviluppare disturbi psicopatologici è 3,7 volte superiore tra gli individui che hanno subito eventi traumatici rispetto a chi non ne ha subiti.

Ma il dato che più fa riflettere è quell’87% dei pazienti che dichiara di soffrire per le difficoltà incontrate nel vivere nei centri. Dove isolamento, paura del futuro, vuoto occupazionale, attesa infinita dei documenti e i mesi trascorsi senza svolgere alcuna attività sono fenomeni aggravanti del disagio mentale. Tra i 199 pazienti presi in esame da Msf nella provincia di Ragusa, il 42,2% presentava infatti disturbi compatibili con il disordine da stress post traumatico (PTSD), seguito da un 27% affetto da disturbi dovuti all’ansia.

Una popolazione migrante, sempre più vulnerabile, che ha subito numerose violenze durante il viaggio, è ancora oggi oggetto di un’accoglienza ferma ai bisogni primari: materassi, pasti e Tv in strutture poco preparate a identificare un disagio psichico.

Nei centri sono assenti le figure professionali specializzate nella psicologia dei traumi e capaci di fare fronte a ragazzi che presentano rabbia o fobie, così come sono assenti i mediatori culturali e specifici protocolli d’intesa tra Asl, opedali e questure per la presa in carico organica dei pazienti.

La patologia mentale viene diagnosticata solo quando si trova ormai in un fase acuta, con un eccessivo ricorso a Spdc, pronto soccorso e Tso. E questo anche in assenza di specifiche patologie psichiatriche, di fronte a disagi contingenti, nati magri da richieste rimaste inattese, o dal respingimento della domanda d’asilo.

Occorre, chiede Msf, uscire dall’approccio emergenziale, rafforzare i servizi interni alle strutture e quelli esistenti sul territorio; monitorare i centri e la qualità dei servizi erogati; formare il personale. Per uscire dal limbo psichico dove sono costretti i migranti.

Il manifesto, 19 luglio 2016

Il 17 luglio di ottanta anni fa, un «pronunciamiento» militare prese le mosse dal Marocco, estendendosi il giorno successivo in tutta la Spagna, secondo un piano da tempo preparato da alcuni generali spagnoli. L’intento dei cospiratori era quello di provocare la caduta del governo repubblicano e di imporre un regime autoritario.

Dopo tre giorni, il golpe poteva considerarsi parzialmente fallito: la spontanea reazione da parte delle masse popolari, che risposero all’appello per una difesa in armi della Repubblica lanciato dai partiti vincitori delle elezioni nel febbraio dello stesso anno e dai sindacati, diede vita una guerra che, seppur combattuta solamente sul suolo iberico, coinvolse tutto il mondo e, in modo particolare, l’Italia. Non solo perché i golpisti ottennero il sostegno di Mussolini, che inviò oltre a un ingente quantitativo di materiale bellico un corpo di spedizione di circa cinquantamila soldati, ma anche perché a fianco del legittimo governo accorsero circa quattromila volontari antifascisti. Combattere in Spagna fu un’esperienza coinvolgente e drammatica per molti giovani italiani, convinti fascisti seppure di sinistra che, in quell’estate del 1936, videro cambiare la propria vita.

Ripensamenti politici

La scelta di appoggiare la lotta dei repubblicani spagnoli – e come testimoniò Romano Bilenchi «scoppiò la guerra di Spagna; e noi trepidammo per ’i rossi’ e soffrimmo il soffribile» – li indirizzò verso (non è dato sapere fino a che punto) una consapevole scelta di campo antifascista, aprendo la strada a un profondo cambiamento, perché, come notò lo scrittore inglese Stephen Spender, in poche settimane, la Spagna era diventata il simbolo della speranza per tutti gli antifascisti. Offriva al Ventesimo secolo un nuovo 1848 e cioè un tempo e un luogo nel quale una causa che rappresenta un grado di libertà e giustizia più alto di quella reazionaria, che gli si oppone, riusciva ad ottenere vittorie. Divenne possibile vedere la lotta tra fascismo e antifascismo come un reale conflitto di idee e non solo come la vicenda di dittatori che strappano il potere a deboli oppositori.

Tra coloro che iniziarono un sofferto ripensamento sull’essere giovani intellettuali fascisti, alcuni svolgeranno in seguito un ruolo importante nello scenario politico e culturale del secondo dopoguerra italiano e citiamo, solo per indicare i più noti, Pietro Ingrao, Elio Vittorini, Vasco Pratolini, Mario Alicata, Antonio Amendola, Paolo Bufalini, Antonio Giolitti, Renato Guttuso, Lucio Lombardo Radice e Aldo Natoli.

La presenza di futuri dirigenti del Pci e di «intellettuali organici» a partire dal 1945 non significa, come ha fatto notare Claudio Pavone, che sia esistita una continuità tra l’esperienza politica dei giovani fascisti di «sinistra» e il loro diventare comunisti. Non vi era dunque un universo giovanile fascista, predestinato a muoversi, fatalmente, verso lidi antifascisti e prioritariamente comunisti, essendo essi, come ebbe a definirli Togliatti, «comunisti che si ignoravano».

Colui che testimoniò con forza e più volte questo percorso fu Vittorini, che nel 1945 sul primo numero de Il Politecnico non solo rendeva un omaggio al martoriato popolo spagnolo ma, ricordando quei giorni, tracciava un bilancio delle proprie scelte politiche e umane. «La guerra civile di Spagna – affermava lo scrittore siracusano – ha una grande importanza nella storia italiana. Tutta la gioventù italiana era senza contatto, prima del luglio 1936, con il mondo della democrazia progressiva. Dobbiamo dirlo: l’antifascismo italiano risultava morto per gli italiani; era tutto all’estero, emigrato, o era in prigione, era al confino, chiuso in se stesso e molti di noi non l’avevano mai conosciuto. Madrid, Barcellona… Ogni operaio che non fosse un ubriacone e ogni intellettuale che avesse le scarpe rotte, passarono curvi sulla radio a galena ogni loro sera, cercando nella pioggia che cadeva sull’Italia, ogni notte dopo ogni sera, le colline illuminate di quei due nomi. Ora sentivamo che nell’offeso mondo si poteva essere fuori della servitù e in armi contro di essa».

L’altro cammino


Appare significativo come Vittorini abbia sentito il bisogno di ricollegarsi alla guerra di Spagna, ai suoi valori e ai suoi miti proprio nel primo numero del settimanale che, a liberazione avvenuta, espresse il pensiero di una nuova élite culturale. Quasi mezzo secolo dopo Ingrao gli fece eco nella sua autobiografia, affermando che per lui «il punto discriminante ha proprio una data precisa: è la guerra di Spagna. Con una frase un po’ retorica direi che la guerra di Spagna, proprio, è una data che spacca la mia vita: da allora comincia un altro cammino».

Non fu un percorso facile e neppure lineare. Come ha giustamente sottolineato Emilio Gentile, il paradigma mussoliniano appariva con un futuro entusiasmante per le nuove generazioni, soprattutto per quelle cresciute culturalmente nel contesto totalitario dove la percezione della realtà era condizionata dalla propaganda fascista che, come sottolineò Vittorini, era riuscita a instillare «nei giovani l’illusione di essere rivoluzionari ad esser fascisti».

Sia che fossero già delusi dal fascismo dopo una giovanile e convinta adesione, sia che lo fossero diventati dopo l’appoggio del regime ai nazionalisti spagnoli che si presentava davanti ai loro occhi come un atto antirivoluzionario, la tragedia spagnola rappresentò una svolta esistenziale, portandoli verso una dura e sofferta autocritica che li rese consapevoli di come avrebbero potuto riacquistare la dignità soltanto dotandosi di un nuovo codice comportamentale.

La reazione del proletariato spagnolo segnava un nuovo inizio, mentre, contemporaneamente, con l’aiuto ai generali golpisti, il fascismo, fino a quel momento difeso nonostante tutto, gettava la sua maschera mostrando il proprio fallimento. Ma le notizie giunte attraverso le radio a galena, non dimostravano solo questo.

Per alcuni la guerra civile spagnola non rappresentò soltanto un esempio concreto di lotta antifascista ma – grazie all’influenza dei movimenti letterari e artistici europei, idealmente partecipi a fianco della repubblica spagnola – si inserì in un più ampio paradigma di sprovincializzazione della cultura italiana. Se in un primo tempo i temi della discussione si ispiravano alla vecchia tradizione antifascista, la guerra civile di Spagna – con l’aggressione da parte dell’oligarchia terriera, di buona parte dell’esercito e dei vertici della Chiesa cattolica a quanti si battevano per una democratica modernizzazione del paese – poneva di fronte i più giovani a una nuova realtà.

Dopo l’estate del 1936 non si sentirono più isolati dal resto del mondo, perché attraverso le notizie che filtravano tra le maglie della censura avevano capito di essere in sintonia con le forze migliori della cultura europea e americana, da Hemingway a Orwell, passando per Malraux, ovvero intellettuali che si stavano battendo a fianco dei repubblicani spagnoli. Un elemento che non rappresentava solo un fatto d’armi e una solidarietà politica militante, ma una esaltante novità culturale. Attraverso la fucilazione di Garcia Lorca, l’Italia scoprì come il mondo culturale spagnolo non si fosse fermato a Miguel De Unamuno, ma esistessero anche Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez e Rafael Alberti. Parimenti, comprese come le ragioni dell’antifascismo potessero trionfare non solo grazie alla lotta della classe operaia in armi, ma anche attraverso il linguaggio rivoluzionario del cubismo, adottando il rinnovamento narrativo espresso da Hemingway, oppure ascoltando le nuove espressioni musicali. In questo clima, maturarono consapevolezze che resero ineluttabile l’esigenza di fare i conti anche con una tradizione culturale italiana, fino a quel momento inadeguata non solo a resistere al fascismo, ma soprattutto a fornire, una volta resasi chiara la sua natura totalitaria, gli strumenti per combatterlo.

Nel suo libro, tuttora attuale, sugli intellettuali e la guerra di Spagna, Aldo Garosci affermava che il dramma della Spagna simboleggiò, per una parte della giovane generazione intellettuale italiana alla vigilia e durante la lotta della liberazione, il ritorno del problema etico nella politica.

Nuovi sentimenti

Nacque da un impulso di dare vita a un «nuovo antifascismo», anche se non contrapposto o in concorrenza con quello fino a quel momento operante in Italia e soprattutto all’estero. Ma, proprio come accadde al fascismo «di sinistra» che mai si trasformò in un progetto politico e organizzativo, anche il «nuovo antifascismo» rimase un sentimento individuale, seppur condiviso, all’interno di ambienti culturali ben definiti, che preconizzava come a fianco della tradizionale opposizione al regime dei settori del proletariato più politicizzato si sviluppasse un impegno militante di giovani studenti, intellettuali e artisti.

Non importa se si trattò di un’esperienza minoritaria debole e confusa, che agiva da una parte all’interno di un mondo dominato dalla «fabbrica del consenso totalitario» tutta protesa alla creazione di un «mondo» e un «uomo nuovo», e dall’altra dalla mancanza di contatti con l’antifascismo tradizionale, trovatosi, dopo la guerra d’Etiopia, in una condizione di crisi e disorganizzazione. Era la prima volta che nel soffocante controllo culturale imposto dal regime, si prendeva coscienza di come nella realtà della vita quotidiana, l’intellettuale italiano potesse e dovesse recitare il proprio ruolo, facendo confluire il suo impegno culturale, per utilizzare un termine coniato da Vittorini, nella «ragione antifascista». Una ragione che si formò «non per trasmissione di esperienza da padri a figli e da vecchi a giovani, ma per dure, brutali lezioni avute direttamente dalle cose e dentro le cose, per lente maturazioni individuali, per faticose scoperte di verità, tutta auto-educazione, e tutta tra il luglio del ’36 e il maggio del ’39».

«Dopo la richiesta di Alfano di bloccare la legge, passa la richiesta di Fi, Lega e fittiani di bloccare il voto. Protestano Sinistra Italiana e M5s». Il Fatto quotidiano online, 19 luglio 2016

Il Senato ha sospeso l’esame del disegno di legge sul reato di tortura. A deciderlo è stata la conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama su richiesta di Forza Italia, Lega Nord e Conservatori e Riformisti. Si sono espressi contro solo Sinistra Italiana e Cinquestelle. Il Pd ha accettato lo stop al provvedimento, mentre il governo, racconta la capogruppo di Sinistra Italiana Loredana De Petris, “non ha detto una parola”. Proprio ieri il ministro dell’Interno Angelino Alfano, leader di Area Popolare, aveva chiesto una nuova verifica della legge alla Camera. Un terreno che è diventato maturo per le opposizioni di centrodestra per chiedere la sospensione dell’esame e il ritorno in commissione. Gli stessi vertici del Pd del Senato, alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha deciso di far slittare il disegno di legge per il quale era previsto in Aula il voto finale. Non è la sola questione sulla giustizia che viene rimandata: andrà per le lunghe anche la riforma del processo penale che contiene tra l’altro modifiche su prescrizione e intercettazioni. Questo testo sarà esaminato dopo l’estate, anche se il capogruppo Pd Luigi Zanda smentisce. Esprime soddisfazione, intanto, proprio il ministro dell’Interno Angelino Alfano che definisce “molto saggia la decisione del Senato di sospendere la discussione sul ddl tortura, e non perché siamo contrari nel merito alla introduzione di questo reato, ma perché non possono esserci equivoci sull’uso legittimo della forza da parte delle Forze di Polizia”. “Le Forze di Polizia – conclude – stanno servendo il Paese con efficacia e professionalità e noi lo riconosciamo non con le parole, ma con i fatti”.

A pesare su tutti questi provvedimenti sono i balletti nell’ala destra del governo. Sono di oggi le dimissioni di Renato Schifani da capogruppo di Area Popolare, in contemporanea l’Udc si è schierata per il no al referendum con il padre fondatore Casini e il presidente ed ex ministro Giampiero D’Alia che invece dicono che voteranno sì. E’ di pochi giorni fa, invece, l’uscita del viceministro Enrico Zanetti che da segretario di Scelta Civica ha lasciato il partito e farà un gruppo unico con Ala, i verdiniani. Fibrillazioni continue che suggeriscono al Pd molta cautela per non finire contro un muro. Il capogruppo al Senato Luigi Zanda la spiega così: “Faremo di tutto perché il testo torni in aula e venga approvato prima delle ferie estive. L’Italia ha un grande debito” su questo tema. “È un provvedimento che non intendiamo abbandonare”. Ma “dobbiamo valutare la maggioranza e vogliamo che sia la più larga possibile”.

Esulta il centrodestra. “Bene sospensione, rimanga in coda il più a lungo possibile, anzi è meglio che non torni in Aula” dice il capogruppo della Lega Gianmarco Centinaio. “La Lega è appena riuscita a bloccare Renzi e il Pd, che avrebbero voluto complicare la vita a poliziotti, carabinieri e uomini in divisa. Noi stiamo con chi ci difende!” aggiunge Matteo Salvini. “La giusta correzione di eventuali eccessi non può né pregiudicare né velare di sospetto il lavoro di chi ogni giorno è impegnato per garantire la sicurezza di tutti i cittadini: secondo Forza Italia questa testo ne deve tenere conto” dichiara Paolo Romani, capogruppo di Forza Italia al Senato.

Protestano invece Movimento Cinque Stelle e Sinistra Italiana. “E’ una vergogna incredibile” secondo Peppe De Cristofaro (Si) perché “accade a 19 anni dal G7 di Genova. Io c’ero a Genova in quei giorni e porto ancora addosso quella ferita indelebile. La decisione di non introdurre nell’ordinamento il reato di tortura è gravissima ed è una resa morale e politica. Prendiamo le distanze più totali come Sel da quello che tra poco si deciderà”. “Chi pensa che un operatore delle forze dell’ordine incorra nel reato di tortura svolgendo il proprio lavoro non ha capito o non vuole capire la norma, la ignora, oppure non sa leggerla” concludono i senatori M5s della commissione Giustizia.

Qualche speranza dall'area che tenta di far nascere una formazione di sinistra all'altezza dei tempi partendo ciò che resta della sinistra novecentesca. Reste una domanda: qual'è oggi il mondo dello sfruttamento?

Il manifesto, 19 luglio 2016

Scrivo per dire ai lettori de manifesto interessati alle sorti del costruendo nuovo soggetto di sinistra, provvisoriamente chiamato SI – e che tengono in qualche conto l’ opinione di una ottuagenaria – che, secondo me, l’assemblea di sabato nella Sala di via dei Frentani è stata positiva. Anche più di quanto prevedevo. Non solo per il numero dei partecipanti, ma anche per la loro qualità: quasi tutti più giovani (e più equilibrati per genere) degli abituali frequentatori degli innumerevoli appuntamenti della sinistra; e perciò meno oppressi dai rancori prodotti dalla sua frantumata storia.

E tuttavia, incoraggiata dalla introduzione di Alfredo D’Attorre che non ha risparmiato l’autocritica sul nostro comune vissuto di questi ultimi mesi, vorrei dire anche io cosa mi sembra ancora non vada. Estraggo solo un paio di cose fra i molti temi di cui vorrei si discutesse seriamente già nella fase di preparazione del congresso. (Se si mette al mondo un partito si può anche accettare che non tutti siano d’accordo su tutto, ma occorre almeno che le diversità siano rese esplicite per poterle superare).

Comincio dall’alternativa. Nicola Fratoianni ha risposto con efficacia nel suo intervento alla denuncia dei compagni sardi (francamente un po’ rozza: chiedere di andarsene al gruppo dirigente di Sel perché non avrebbe vinto, presentando invece vincente la carta del centro sinistra, è davvero un po’ troppo ).

Né ha qualche fondamento l’ipotesi di un centro sinistra che rinascerebbe dalle ceneri solo che Renzi fosse sconfitto, perché oramai il Pd riflette un altro blocco sociale, un’altra cultura, altri valori;e perché Renzi non è un marziano, ma il rappresentante locale di una potente corrente mondiale, e specificamente europea, che considera la democrazia quale la abbiamo conosciuta un impiccio ormai non sopportabile per il sistema; che dunque va sostituita con la governance, e cioè sottraendo il potere deliberante alla sovranità popolare per affidarlo a esecutivi simili ai Consigli d’amministrazione delle imprese. (Altra cosa è quanto resta del vecchio corpaccio comunista, portatore di una memoria importante, e però incapace di accettare il dovere di un nuovo inizio. In quel pezzo di popolo ci sono naturalmente tutt’ora interlocutori per noi decisivi).

La parvenza di realismo della posizione dei nostalgici del centrosinistra sta nel dire: un altro schieramento governativo oggi non c’è. Il che è assolutamente vero. Le nostre liste alle elezioni amministrative non hanno avuto successo – molti l’hanno detto – proprio per questo. A differenza dei 5 Stelle, che un’alternativa l’hanno rappresentata in alcune importanti metropoli. Almeno nominalmente, poi vedremo.

Prendere d’atto che per ora non esiste una formula sostitutiva del defunto centrosinistra a livello nazionale – altra cosa sono le istituzioni locali, perché il territorio sta già dando prova di essere ricco di energie e formule inedite di rappresentanza – non rende tuttavia affatto meno credibile il nostro discorso. A condizione si renda chiaro che la premessa di ogni seria alternativa è la ricostruzione di un tessuto democratico pesantemente slabbrato, capace di ricreare le condizioni affinché la politica torni ad avere un ruolo. Senza la paziente e difficile ricostruzione di forme di partecipazione e di assunzione di responsabilità collettiva, vince l’idea della efficienza manageriale (Renzi) o la comunicazione mediatica che crea il mito di individui onesti in virtù dello spirito santo. O, peggio, il disincanto. Quando chiediamo voti è intanto per dar forza a questo progetto immediato ed urgente.

Non vuol dire ignorare la necessità di conquistare un ruolo istituzionale e rifugiarsi nella cuccia dell’extraparlamento. Anche questa battaglia può portare frutti corposi: basta con questa ossessione “governista” che delega i risultati solo e sempre a quanto potrebbe fare un governo. (Se combattiamo contro lo stravolgimento costituzionale minacciato da Renzi non è del resto proprio perché il suo nocciolo consiste nel voler consegnare il potere di deliberare tutto e solo nelle mani dell’esecutivo, nel ridurre la democrazia alla tutela del monopolio della maggioranza, alla c.d.”governabilità”?)

Il vecchio Pci al governo non c’è stato mai, ma sappiamo che quasi tutto quanto di buono abbiamo conquistato è stato merito della sua azione. Anche allora non c’era una prospettiva immediata di governo, ma quel partito è stato efficace perché ha saputo conservare un’ottica di governo ( che è altra cosa), senza chiudersi in sterili minoritarismi.

Attrezziamoci a creare le condizioni per ottenere altrettanto, nelle forme adeguate ai tempi presenti. Il che vuol dire dar vita non solo al Partito che vogliamo far nascere, ma contemporaneamente essere l’anima, lo stimolo, per la crescita non solo di movimenti di protesta, ma di una rete di più consolidati organismi che si assumono sul territorio, e laddove c’è lavoro sfruttato, la responsabilità di gestire la collettività e di dar luce e prospettiva alla sua conflittualità. Da questo punto di vista le coalizioni che si sono costituite in molte città per le elezioni amministrative possono essere una risorsa preziosa ed è nostro interesse tenerle in vita. (Del resto il solo modo per impedire che un partito diventi autoreferenziale è mantenere vivo un rapporto dialettico con quanto si muove al di fuori, nella società. (Non averlo fatto, dal ’68 in poi, è stato il mortale errore del Pci).

È difficile un simile discorso, poco “popolare”? Sì, lo è.

Ma difficilissimo – dobbiamo saperlo – è fare un partito, tanto più in un tempo in cui la bussola non è più offerta, linearmente, da un soggetto socialmente omogeneo come era la classe operaia novecentesca. All’assemblea di via dei Frentani si è sentita molto spesso l’eco, soprattutto negli interventi dei più giovani, del dibattito che è riemerso sul populismo di sinistra, reintrodotto da Laclau tramite Pablo Iglesias. Anche questo mi pare un tema da affrontare. Capisco la preoccupazione di chi teme un distacco dalle masse popolari, l’intellettualismo di certo sinistrese, il timore che suscita vedere la sinistra vincere solo fra i ceti medi colti e non più nelle periferie. Ma non semplifichiamo troppo questo discorso.

Ernesto Laclau, al di là di qualche stravolgimento interpretativo che c’è stato, intendeva in realtà riproporre (e lo ha fatto un po’ confusamente) la tesi gramsciana sulla necessità di costruire anche in Italia un popolo-nazione. Ma Gramsci voleva sottolineare l’importanza a questo fine del momento soggettivo, contro ogni spontaneità elementare. Credeva al ruolo degli intellettuali, non come detentori di uno specialismo e come esponenti di una professionalizzazione della politica, bensì, tutt’al contrario, al loro diventare “organici”, per superare la loro separazione e colmare la distanza fra governanti e governati, sola base reale della democrazia. Nella società e nei partiti. Solo i populisti veri sono quelli che hanno interesse a lasciare il popolo preda di una cultura primitiva, che riflette solo quella del potere, laddove l’obiettivo – certo ambizioso – è rendere possibile un progresso intellettuale di massa e non di ridotte elites. Il famoso “intellettuale collettivo”.

Non vorrei che il sacrosanto accento sulla necessità di recuperare un rapporto con il popolo fosse immeschinito. Proprio oggi quando anche solo immaginare un mondo che produca, consumi, viva in modo diverso richiede una eccezionale capacità innovativa. Se poi invece questo richiamo è lanciato nell’intento di recuperare anche quel rapporto fisico che un tempo c’è stato nella sinistra – qualcuno ha detto “mischiarsi”- allora ben venga. Perché tornare a vivere e a far politica in luoghi comuni è essenziale: voglio ricordare la più proficua esperienza, ancora una volta del vecchio Pci, quando segretari delle sezioni più periferiche sono stati i più importanti intellettuali comunisti.

. Il Post online,18 luglio 2016 (c.m.c.)

L’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO) è un’agenzia dell’Unione Europea con sede a La Valletta (Malta). Si tratta di un ente indipendente e specializzato che opera dal 2011, supportando gli Stati membri della UE con le procedure di asilo e fornendo assistenza ai richiedenti.

Ogni anno l’agenzia pubblica un rapporto con i dati relativi alle richieste di protezione internazionale presentate nei Paesi europei: nei giorni scorsi ha diffuso l’ultimo documento con i dati ufficiali del 2015, che mostrano un picco del numero delle richieste di protezione internazionale nel periodo tra l’estate e l’autunno. L’aumento di queste cifre è dipeso anche dall’annuncio fatto il 21 agosto 2015 dall’agenzia per i migranti e i rifugiati della Germania (BAMF), con cui di fatto si manifestava la volontà di prendersi carico di tutte le richieste di asilo presentate dai rifugiati siriani.

I dati del rapporto EASO si riferiscono alle domande presentate nei 28 Stati membri della UE, più Norvegia e Svizzera, e si basano sull’analisi del numero delle richieste presentate, il numero di quelle accettate e il Paese di origine di chi le ha presentate.

L’incremento delle domande è iniziato alla fine del 2014 ed è proseguito per tutto il 2015: i mesi che hanno registrato un lieve calo sono stati marzo e aprile, prima di un rialzo incominciato a maggio e continuato per i cinque mesi successivi. Il picco è stato registrato a ottobre, con più di 185mila richieste presentate in un solo mese. A novembre e dicembre c’è stato un lieve calo (che viene considerato normale per quel periodo dell’anno), con livelli comunque più alti rispetto a quelli degli anni precedenti: a dicembre 2015 le richieste sono state circa 115mila.

La Germania è il Paese ad aver ricevuto più richieste di asilo: soltanto nella seconda metà del 2015 sono state circa 866mila, secondo i dati del ministero degli Interni tedesco. L’afflusso dei richiedenti asilo in Germania nel 2016 ha finora subìto un rallentamento, anche se le cifre rimangono consistenti: nella prima metà dell’anno sono state presentate circa 220mila domande di protezione internazionale.

Thomas de Maizière, il ministro degli Interni tedesco, ha confrontato i mesi del 2015 con i corrispondenti del 2016, mostrando che a gennaio di quest’anno le domande in più sono state 90mila, a febbraio 60mila e a giugno circa 16mila, valutando positivamente tale trend. Il calo, ha spiegato de Mazière, è dovuto in parte all’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia che stabilisce di bloccare il flusso illegale dei migranti, respingendo quelli che non hanno il diritto di asilo, a cui si deve aggiungere la decisione di alcuni governi dei Paesi della rotta balcanica di chiudere le proprie frontiere. Secondo il documento pubblicato da EASO il numero di domande presentate in Germania nella prima metà dell’anno sono circa 396mila (il 122 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso): di queste, circa 180mila sarebbero state accettate.

Nel 2015 in tutta Europa sono state presentate 1.392.155 richieste di protezione internazionale: il 110 per cento in più rispetto al 2014. Le persone a cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato sono state 241.120, quelle a cui è stata assegnata una protezione sussidiaria sono state 59.425 e quelle a cui è stata concessa la protezione umanitaria sono state 27.320.

Come si diceva, il Paese europeo che ha ricevuto più richieste (circa il 34 per cento del totale) è stato la Germania: seguono Ungheria, Svezia, Austria e Italia. Nel 2015 l’Ungheria ha ricevuto circa 178mila richieste di protezione internazionale (quattro volte di più rispetto all’anno precedente) ma quasi tutte sono state ritirate.

Le richieste presentate in Svezia sono state circa 162mila (il doppio rispetto al 2014), in Austria circa 88mila, mentre quelle depositate in Italia sono state circa 84mila (circa un terzo in più rispetto al 2014). Nel 2015 il maggior numero delle richieste è stato presentato da migranti siriani (383.710, circa il 28 per cento del totale), seguito da quello dei migranti provenienti da alcuni Paesi della regione dei Balcani (201.405, tra Albania, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia) e dall’Afghanistan (196.170).

Alla fine del 2015 i richiedenti asilo ancora in attesa di una risposta da parte delle autorità competenti erano circa un milione, secondo il rapporto. Per quanto riguarda il 2016, gli analisti di EASO stimano che il numero delle richieste dovrebbe essere inferiore rispetto al 2015, ma comunque maggiore rispetto al 2013 e al 2014.

«r». Il manifesto, 19 luglio 2016 (c.m.c.)

Pierluigi Ciocca è conosciuto e apprezzato autore di testi di economia politica, ma questo suo recentissimo (Aragno Editore, pp.235, euro 20) è di straordinario interesse culturale. L’economia (una volta si diceva sempre: "economia politica"), con l’attuale processo di specializzazione e destoricizzazione adesso è solo scienza economica, accuratamente separata da tutto ciò che sta ai suoi confini: storia, filosofia, letteratura, etc.

Viene da dire che intorno ai suoi confini si sono costruiti muri, che l’attuale lavoro di Ciocca demolisce, mettendo in luce il fertile rapporto dell’economia con il resto del sapere umano. Un attento lavoro culturale che si svolge nei dieci capitoli del libro: capitoli che sono acuti saggi, dal primo sulla storia, che si intitola, appunto, «Clio nella teoria economica» a quello finale «Romanzo ed economia: il Novecento italiano». Ai confini dell’economia il terreno è assai fertile. E così il nostro Ciocca si occupa anche di letteratura, ma sempre come economista: non divaga in vacanze letterarie, anche negli approfonditi saggi su Machiavelli e sul romanzo italiano del Novecento.

Nella prefazione Ciocca sintetizza le ragioni di questa ricerca da economista oltre i classici confini dell’economia. Scrive: «Si diceva un tempo economia politica. L’aggettivo alludeva all’inscindibilità dell’analisi e della proposta in materia economica dal resto del sociale, della polis; condizionato dall’economia, condizionante l’economia». Questa interpretazione scrive Ciocca «non è mai stata interamente smarrita, ma dagli anni Settanta del Novecento abbiamo assistito a una evoluzione, se non a una involuzione. In particolare nel lavoro teorico, la maggior parte degli economisti ha scisso quel reciproco nesso. L’economia politica è divenuta sempre più economia senza aggettivi».

«La disciplina – conclude Ciocca – da economia politica è scaduta in prasseologia». Questa tendenza – specie con il marginalismo – ha prodotto inaridimento e sterilità della scienza economica. Di questo ci si è resi conto in tempi relativamente recenti, direi dopo la seconda guerra mondiale, e c’è stato un ritorno allo studio delle terre di confine, che – precisa Ciocca – «un economista può studiare da economista, senza rinunciare agli strumenti dell’economista». Vogliono, questi scritti, nei loro limiti, essere un elogio della interdisciplinarità, prudente e criticamente avvertita. Insomma evitare di passare da una sterile separazione a una pasticciata mescolanza.

La fertilità di questi studi «ai confini dell’economia» è documentata dai dieci saggi che seguono la breve ed essenziale prefazione. Ho già segnalato i saggi su Machiavelli e i romanzi del Novecento (sui quali a mio parere si potrebbe ancora sviluppare il discorso), ma aggiungo quelli sul brigantaggio nel Mezzogiorno e l’IRI. Insomma dobbiamo seriamente ringraziare Pierluigi Ciocca per questo ragionato invito ad andare oltre i confini dell’economia ed entrare nella politica.

Aggiungerei, ma solo a titolo personale, che oggi anche la politica, che si e’ ridotta a politica politicante, dovrebbe andare oltre i ristretti e limitanti confini attuali. Una politica che non ha obiettivi di lungo periodo, che non alimenta speranze nell’animo e nella mente dei cittadini è, tornando a citare Ciocca, disarmante prasseologia. Insomma anche i politici farebbero bene a leggersi questo libro.

Parole di saggezza del filosofo franco-bulgaro Tzvetan Todorov in un oceano di paure, «L’Islam aspira più di altre religioni a diventare l’ideologia fondamentale di uno Stato. Ma il multiculturalismo non è fallito: se una cultura non cambia, muore».

La Repubblica, 17 luglio 2016

«ORA bisogna tornare a una vita normale, ma senza distruggere le nostre libertà. Dobbiamo evitare di diventare anche noi dei “barbari”, di diventare torturatori come quelli che ci odiano». Tzvetan Todorov è bulgaro ma vive in Francia da decenni. Uno dei suoi saggi più famosi è La paura dei barbari, in cui il celebre filosofo teorizza il rischio della deriva violenta dell’Europa: a causa del clima di paura e tensione perenni, il rapporto con l’altro, e soprattutto con l’Islam, può diventare sempre più difficile. Mentre Nizza e la Francia, dopo la strage del 14 luglio, cercano una inedita normalità, per alcuni troppo brusca, per Todorov l’importante è non abituarsi al terrore. E nemmeno a una società ultrasorvegliata.

Perché, professor Todorov ?
«Perché ho paura che l’Europa possa diventare come Israele, con misure di sicurezza così restrittive i cui benefici secondo me sono minori rispetto alle conseguenze negative. Dare troppo potere all’intelligence e alla sorveglianza, senza limiti e senza punire gli abusi, è il primo passo verso uno stato totalitario».

Fatto sta che siamo al decimo attacco jihadista contro la Francia nell’ultimo anno e mezzo. Perché il suo Paese è così odiato dagli estremisti islamici?
«La parola “odio” non è esatta. Qui non sono in gioco i sentimenti, ma le ragioni. E, principalmente, sono due le cause degli attacchi: una presenza militare francese più marcata nei paesi musulmani, e una minoranza islamica molto ampia nel Paese».

A questo proposito, qualche giorno fa l’imam di Nimes si è dimesso perché secondo lui la comunità islamica, anche moderata, non si distanzierebbe nettamente dagli estremisti. Lei che ne pensa? L’Islam moderato dovrebbe fare di più?

«Più che le moschee o l’ambiente familiare, io credo che il vero problema sia la propaganda online, che permette una radicalizzazione rapida come quella accaduta al killer di Nizza. Che infatti non era un musulmano molto praticante, non frequentava la moschea, beveva. Era uno squilibrato. E gli squilibrati sono prede facili. Questa è la nuova frontiera del terrore, e c’entra poco con la comunità islamica» Però la pista del radicalismo islamico è stata confermata anche da Valls.

Secondo lei, c’è un problema che riguarda direttamente anche l’Islam?
«Se una religione, qualsiasi essa sia, diventa l’ideologia fondamentale di uno Stato, i valori democratici sono minacciati. Certo, oggigiorno, bisogna ammettere che l’Islam aspira a questo ruolo più di altre religioni».

Secondo il capo dell’intelligence interna, Patrick Calvar, la Francia potrebbe presto ritrovarsi sull’orlo di una “guerra civile” che coinvolgerebbe soprattutto i musulmani. Lei che ne pensa?
«Non mi sembra una previsione molto realista. Ma è chiaro che ci sono estremisti da ambo le parti che aspirano a questo scenario. E chissà chi la spunterà».

Il multiculturalismo è ancora un sistema sociale realistico?
«Certo, è lo stato naturale di tutte le culture. La xenofobia, le pulsioni sull’identità tradizionale non sono destinate a durare. Una cultura che non cambia è una cultura morta».

«Per tre ore Usa e Paesi europei, ma soprattutto la Nato hanno atteso gli eventi: praticamente partecipi della riuscita del colpo di stato» Il monarca cui Usa ed Europa hanno affidato il lavoro sporco (dalla strage dei curdi alla galera per i profughi) è diventato scomodo per i suoi stessi padrini. Il manifesto, 17 luglio 2016

Il bagno di sangue c’è stato, le vittime di questo accenno di guerra civile, che se fosse esplosa avrebbe gettato due continenti nel caos, sono più di 300. Ma alla fine ha vinto il cellulare da cui ha parlato Erdogan, hanno vinto le tv private stranamente non oscurate dai golpisti, ha vinto la diretta tv, hanno vinto i muezzin che hanno chiamato in piazza la gente e non alla preghiera, ha vinto l’Akp che ha mobilitato probabilmente centinaia di migliaia se non qualche milione di turchi. Alla fine ha vinto il Sultano Erdogan che primeggia in ogni competizione da quattordici anni.

Ma stavolta vale la pena sottolinearlo, esce a dir poco ridimensionato. Non parliamo della sua popolarità all’interno, quella appare indistruttibile. Il popolo turco per lui si è sdraiato davanti ai carri armati, li ha fermati senza armi in mano, e i suoi pretoriani della polizia lo hanno difeso mitra in pugno da un tentativo di golpe orchestrato, come si è capito quasi subito, solo da un settore dell’esercito e malamente. Essendo probabilmente convinti i golpisti di un seguito popolare all’azione di forza che invece si è rivelato illusorio.

Eppure a guardar bene dietro le immagini del trionfo che si rincorrono ovunque, emerge il ridimensionamento del presidente turco. Erdogan grida vendetta e la farà. Guai ai vinti in Turchia. Ma ormai è un Sultano ferito. Quel che abbiamo visto e sentito ne è la dimostrazione più lampante e feroce. Per buone tre ore – dalla fine della serata di venerdì alla notte – i suoi amici ed alleati internazionali, Usa e Paesi europei sono stati a guardare.

Sono le leadership occidentali che hanno delegato finora alla leadership turca il lavoro sporco del primo sostegno alla ribellione, anche jihadista, contro la Siria di Assad, restituendo in cambio il tacito accordo sul massacro interno dei kurdi. Aspettavano, hanno pensato che fosse l’occasione di gettare via il limone spremuto.

Per tre ore dagli Stati uniti e dai Pesi europei, dagli organismi dell’Ue, ma soprattutto dalla Nato – della quale la Turchia è fondamentale baluardo a sud -, hanno atteso l’evoluzione degli eventi: praticamente partecipi della riuscita del colpo di stato. Senza condanna alcuna come ci si aspetta per una prova di forza militare contro un governo di un Paese o regime alleato. E trincerati dietro l’ufficialità di dichiarazioni, escludendo appunto la condanna dei golpisti, si limitavano alla presa d’atto. Come ha fatto John Kerry che si è augurato stabilità e pace, pieno di speranza per la «continuità»; pressapoco come Putin – che nemico resta, nonostante il recente riallacciamento di rapporti – si è dichiarato contro «il bagno di sangue». Solo più tardi, quando è apparso evidente il fallimento dell’avventura militare, hanno cominciato a fioccare sdegno e solidarietà. La solitudine di Erdogan era già un fatto compiuto.

Quanto questa nuova debolezza e isolamento di Erdogan sia pesante è diventato evidente nell’impossibilità da parte del Sultano di chiamare in causa e accusare subito i responsabili del tentato golpe, cioè proprio i Paesi Occidentali, gli Stati uniti in primis e la Nato. Che è stata spettatrice-attrice di un conflitto militare interno all’Alleanza, con vittime militari in un campo e nell’altro. Soprattutto è da ricordare infatti che i colonnelli e i generali che hanno provato a destituire il presidente turco sono uomini della Nato, schierati militarmente su tre fronti delicati di conflitto: con la Siria, a Dyarbakir nel conflitto kurdo e sui confini per la vicenda migranti. Quei carri armati Leopard che hanno preso posizione sulle strade di Istanbul e Ankara sono gli stessi di mille esercitazioni atlantiche congiunte, e non si mettono in moto senza che lo stato maggiore della Nato non lo sappia.

E del resto, come giudicare l’atteggiamento della Germania, se sarà confermato il diniego all’atterraggio dell’aereo di Erdogan in fuga? E come comprendere la richiesta di asilo politico di otto colonnelli golpisti alla Grecia, Paese Nato e storico avversario nel sud-est europeo? Parlando alla folla Erdogan è stato costretto a limitarsi ad accusare Fethullah Gülen, il suo ex amico diventato acerrimo nemico e in esilio negli Stati uniti. E diventato il capro espiatorio perfetto di igni malefatta. Invece di accusare direttamente l’amministrazione Obama, ha ripiegato su «quelli laggiù in Pennsylvania», dove Gülen è in esilio e da dove gli Usa si rifiutano da tre anni di estradarlo, come il Sultano ha più volte richiesto. La comunità internazionale insomma non tira un sospiro di sollievo. Anzi, è il contrario.

Sbarazzarsi del testimone scomodo Erdogan poteva essere un obiettivo, stavolta non raggiunto. Ma siamo solo all’inizio della nuova crisi turca, dove l’esercito è uno stato nello stato, pieno di privilegi e sottopoteri e fin qui complice di ogni infamia del regime, a cominciare dai traffici di petrolio e armi da e con la Siria con lo Stato islamico. A cominciare dal trattamento riservato alla disperazione dei profughi siriani, ormai appaltati dall’Unione europea al «posto sicuro» che è lo Stato turco.

È una crisi, che coinvolge Europa e Medio Oriente, al crocevia della fase proclamata conclusiva della guerra contro l’Isis, e che non a caso si gioca tutta sul destino delle solo annunciate aperture, ma di svolta, avviate dal neopremier Yldirim, che, probabilmente per impedire il crollo della credibilità dell’intera leadership di Erdogan, riallaccia il rapporto storico con Israele, dialoga col nemico Putin a cui ha abbattuto un aereo, e addirittura promette possibili nuove «relazioni» con la stessa Siria che ha provato a destabilizzare con una guerra crudele per quattro anni.

Avrà pure vinto, Erdogan, ma per restare al potere deve far finta di avere amici che non può accusare apertamente di averlo pugnalato alle spalle e, allontanando la prospettiva strategica di egemonia ottomana nella regione dopo aver perso la prospettiva europea, è costretto adesso ad abbracciare pericolosamente e umilmente tutti i suoi nemici.

P.s. Anche l’Italia è stata a guardare, solo ieri mattina Gentiloni si è sbracciato in apprezzamenti al governo di Ankara. Renzi però ha superato se stesso: ha dichiarato che «ha vinto la stabilità». Vuoi vedere che pensava al referendum di ottobre?

«Promuovere ad ogni livello la liberazione dai debiti illegittimi, verificare se siamo capaci di attivare percorsi di Audit del debito pubblico a partire da quello degli enti locali… Vogliamo dire con forza che la vita viene prima del

debito». Comune-info, 17 luglio 2016 (c.m.c.)

No, la violenza a Genova 2001 non è riuscita a reprimere le ragioni e la forza del “movimento altermondialista”. Quella ragioni e quella forza sono riemerse in altre forme, come dimostrano ad esempio le lotte di molti territori contro grandi opere e l’estrattivismo, oppure le straordinarie mobilitazioni per l’acqua bene comune e campagne come Stop T-Ttip.

Anche le battaglie per la liberazione dai debiti illegittimi e odiosi, che tante energie avevano raccolto in quella stagione, oggi sembrano riaffiorare, con le diverse esperienze di resistenza alle ricette di austerity applicate ad alcuni paesi del Nord del mondo.

Per questo c’è chi ha scelto Genova per alimentare vecchie e nuove speranze, per mettere in relazioni temi ma soprattutto persone e gruppi, per continuare a «promuovere ad ogni livello la liberazione dai debiti illegittimi, verificare se siamo capaci di attivare percorsi di Audit del debito pubblico a partire da quello degli enti locali… Vogliamo dire con forza che la vita viene prima del debito…»

Genova non è casuale. Questa città, così come il tema del debito, è un crocevia di storie, di sofferenze, di visioni. Chiunque lotta prima o poi si imbatte in questa questione ormai globale. Genova, così come il tema del debito, cerca di essere un telaio che mette insieme più fili affinché possano trasformarsi in un tessuto in cui si colgono, sì le differenze che però non dovrebbero essere mai squarci. Ma Genova è anche stato il luogo di scontri in cui sangue innocente è stato versato: per me sorgente di una nuova umanità.

A tutti coloro che prepararono e vissero quei giorni intensi e drammatici del G8 2001 e che da quei giorni trassero la forza per continuare a saldare culture differenti, ma non indifferenti, a questi penso sia dedicata: «Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia». Ci unisce oggi l’attenzione ai problemi delle persone e dei popoli schiavi del debito e la propensione a privilegiare le esistenze rispetto alle teorie ovvero i volti rispetto alle dottrine. Dopo quindici anni dal G8 di Genova e nell’anno del Giubileo, come cittadini diversamente credenti, ci siamo dati appuntamento per condividere una delle questioni globali più urgenti: il progressivo indebitamento dei popoli dell’intero pianeta.

Indagheremo come, anche in Europa, sembra prevalere l’ideologia della finanza e dei vincoli di bilancio che hanno creato debito, diseguaglianze, risvegliato egoismi, nazionalismi e spinte isolazionistiche che ampliano il solco di un’Europa senza anima, riportando indietro l’orologio della storia a periodi caratterizzati da drammatici conflitti.

Sotto i nostri occhi si consuma l’orrore di esclusioni e della pericolosissima costruzione di muri materiali e mentali, conseguenza di un malinteso senso del limite che colpisce bersagli umani invece di quelli che animano la finanza senza regole, rafforzatasi dopo la crisi a danno di un economia umana.

Sembra infatti prevalere un’economia estrattiva che porta con se privatizzazioni di beni comuni, distruzione, miseria, violenze, guerre, migrazioni epocali e irreversibili cambiamenti climatici che colpiscono aree del pianeta vulnerabili, creando un debito ecologico pagato soprattutto da paesi non responsabili, ma gravati da un debito pubblico in gran parte illegittimo. Verrebbe da dire che ci stiamo allontanando dal terreno dell’umano!

Vogliamo confrontarci in maniera responsabile per verificare se e quali impegni assumere per scongiurare gli effetti di una invisibile dittatura finanziaria e di una economia dei più forti, provando a scegliere di stare dalla parte di chi, come noi, paga il prezzo più elevato di queste ingiustizie. In particolare vorremmo verificare se è possibile promuovere ad ogni livello la liberazione dai debiti illegittimi, verificare se siamo capaci di attivare percorsi di Audit del debito pubblico a partire da quello degli enti locali, smascherando la geografia dei poteri che dietro di esso si nasconde.

La domanda è: vogliamo impegnarci in prima persona cercando di coinvolgere tutte le organizzazioni disponibili affinché siano adottate misure di contrasto al debito privato e pubblico che impediscono la piena partecipazione dei cittadini alla vita sociale, economica e democratica?

Vogliamo dire con forza che la vita viene prima del debito?

Vogliamo e in che misura promuovere e vivere un diverso modello sociale ed economico che rimetta al centro la piena dignità di ogni persona nel rispetto della vita del nostro pianeta? Quindici anni fa i movimenti dicevano che un altro mondo è possibile e da allora molta strada è stata fatta anche attraverso la grande stagione referendaria per l’acqua bene comune, del forum per una nuova finanza pubblica e sociale, dello stop al T-Ttip, delle piccole e grandi battaglie per il territorio, solo per citarne alcune, ma oggi a che punto è la costruzione di quel mondo?

«Colloquio con Seyla Benhabib. Sono realistiche le preoccupazioni che il fallito golpe diventi un pretesto per giustificare un altro giro di vite illiberale nella già poco liberale democrazia turca».

La Repubblica, 18 luglio 2016 (m.p.r.)

I turchi che vivono nei paesi occidentali seguono con giustificata ansia le vicende del loro paese. Seyla Benhabib si dice profondamente scossa dagli eventi che si succedono veloci e gravidi di implicazioni. Ebrea, nata e cresciuta in Turchia, Benhabib è una delle più note e apprezzate teoriche politiche, allieva di Jürgen Habermas e docente prima ad Harvard e ora a Yale e a Columbia, animatrice del progetto Reset Dialogue on Civilizations che organizza ogni anno una settimana di seminari di studio alla Bilgi University di Istanbul. La conversazione che abbiamo avuto in queste ore è una testimonianza del sentimento di incertezza e di ambiguità che lontano dal Bosforo si avverte, soprattutto nella comunità turca.

Come sono state recepite le immagini, le notizie che si sono accavallate confuse in queste ore tragiche a partire dal tentativo di golpe, poi fallito, di venerdì notte? E’ difficile per chi vive in Occidente ed è cresciuto con i valori della democrazia e del pluralismo, della libertà religiosa e della tolleranza, far quadrare il cerchio quando deve commentare le vicende drammatiche che sta attraversando questo grande paese, giunto a definire la sua identità nazionale dopo la fine rovinosa dell’Impero Ottomano multietnico, grazie a un leader militare rivoluzionario, Mustafa Kemal Atatürk (letteralmente “padre dei turchi”) che ha, in uno stile hobbesiano, costruito lo Stato mediante l’assoggettamento della religione e del clero islamici.
Come ricorda Benhabib, su questa ferrea unità la Turchia ha nei decenni avviato la modernizzazione della società, conquistato una posizione internazionale di rilievo (alleato chiave della Nato), per cominciare infine un lungo e travagliato percorso di avvicinamento e collaborazione con l’Unione europea. Contenere la democrazia e contenere il potere religioso sono andati insieme per decenni, motivando anche i cinque colpi di stato che dal 1960 si sono succeduti, fino a questo recentissimo.
«Un colpo di mano antidemocratico ha tentato di rovesciare un Presidente non democratico! », ecco il paradosso messo in luce da Benhabib. «Erdogan è stato eletto democraticamente ed è oggi il leader di un regime illiberale e antiliberale da manuale: capo di una democrazia maggioritarista che ha violentemente chiuso la bocca alla minoranza curda, che ha violato e limitato le libertà civili dei turchi; che ha attaccato i media indipendenti e in diversi casi soppresso la loro voce e quella dei social network, che ha perseguitato insegnanti e gravemente manomesso la libertà di insegnamento». E’ questo il paradosso di una democrazia senza liberalismo o esplicitamente antiliberale.
La tensione che Benhabib mette in evidenza è questa: «Mentre non può venire alcuna soluzione democratica dai carri armati nelle piazze o dagli spari contro i ministeri e i resistenti, è tuttavia naïf celebrare il regime di Erdogan come un regime democratico che ha eroicamente resistito contro i militari». Un governo democraticamente eletto può avere nel corso del suo lungo mandato - questo è il caso del governo turco un’evoluzione che con la democrazia costituzionale ha poco da spartire. E’ in effetti la dimensione dei diritti quella sacrificata, ed è una democrazia illiberale quella che si è in questi anni consolidata in Turchia.
Benhabib tocca così il tema centrale e spinosissimo del rapporto tra la religione e lo Stato, la questione del processo di islamizzazione delle istituzioni che questo fallito colpo di stato ha messo in evidenza e che, forse, potrebbe contribuire a rafforzare, usato come pretesto per mettere a segno epurazioni punitive ben oltre le responsabilità accertate di chi ha cospirato con i golpisti. «Le immagini delle folle che ho sentito cantare “Allah è grande” mentre si opponevano ai carri armati la scorsa notte mi hanno fatto pensare alle masse di Mohamed Morsi in Egitto contro cui l’esercito attuò il colpo di Stato nel luglio 2013, anche se i dimostranti turchi cantavano l’inno nazionale.
L’esercito turco non è islamizzato - ci sono probabilmente degli infiltrati ultranazionalisti al suo interno e, certamente, alcuni seguaci Gulenisti - ma c’è già chi sospetta che questo abortito colpo militare fosse stato pianificato dai colonnelli di rango intermedio, mentre è indubbio che gli alti comandi siano leali al regime - questo spiega del resto il fallimento del tentativo di golpe».
Secondo la Cnn i golpisti nell’esercito ora arrestati sarebbero migliaia, e così i giudici rimossi dal loro incarico: sono notizie che non devono stupire, conclude Benhabib, poiché si è trattato di un tentativo anche sanguinoso di sovvertire un governo legittimo. Ma la situazione resta drammatica.
La speranza che le giuste reazioni si trasformino in un’opportunità volta a rafforzare la democrazia turca sembra tenue, mentre sono realistiche le preoccupazioni che il fallito golpe, dopo le polarizzazioni innescate ad arte per ampliare il raggio delle repressioni e colpire gli oppositori civili (e legittimi) al governo di Erdogan, diventi un pretesto per giustificare un altro giro di vite illiberale nella già poco liberale democrazia turca.
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“Le folle che ho sentito inneggiare ad Allah mi hanno fatto pensare ai fedeli di Morsi in Egitto, contro cui l’esercito intervenne nel luglio del 2013” Il colpo di Stato fallito, pretesto per epurazioni punitive, potrebbe rafforzare il processo di islamizzazione delle istituzioni in corso nel Paese

«. È necessario incontrare nuovi cammini di convivenza tra i popoli e far cessare un dramma che ferisce tutti». Il manifesto,

Migliaia di persone, che fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla miseria, straziati senza pietà dalle bombe e dagli attentati, navigano per il Mediterraneo a bordo di barconi senza meta e senza un orizzonte certo. Sono persone che spinte dalla paura e dall’angoscia intraprendono un viaggio carico di rischi e dal destino incerto. La loro bussola indica solo la meta della tragedia umana e il dolore per orizzonti irragiungibili.

L’Europa e altre potenze mondiali come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia non sono né capaci né vogliono affrontare il dramma che loro stessi hanno provocato. Fanno finta di ignorare di essere stati gli artefici delle guerre in Medio Oriente e di aver armato, per i propri interessi economici, strategici e politici nella regione, i gruppi di combattenti ribelli.

I grandi centri di potere, con il complesso industriale militare, vogliono affermare la propria egemonia mondiale utilizzando la violenza e ogni altro mezzo, come ad esempio la droga, per finanziare le guerre e manipolare la vita dei popoli. Le invasioni contro Iraq, Afganistan, Siria, Libia e l’interminabile colonizzazione della Palestina da parte d’Israele provocano gli erroneamente denominati “danni collaterali” mentre le potenze responsabili ignorano e giustificano l’ingiustificabile.

All’inizio di questo nuovo secolo i popoli arabi si sono sollevati e hanno intrapreso un cammino di resistenza per affermare il proprio diritto alla democrazia, all’autodeterminazione e alla sovranità nazionale. Sono stati momenti di speranza per l’intera umanità ma questo cammino è stato frustrato dall’intervento militare delle grandi potenze che si volevano appropriare dei beni e delle risorse naturali di questi popoli, distruggendo le loro speranze e i loro sforzi. Quella «primavera» si è così trasformata nell’«inferno arabo» con un orrore senza limiti e migliaia di persone costrette a fuggire dalle proprie terre e a lasciare i propri beni e i propri affetti.

Oltre 10 mila persone sono scomparse nel Mediterraneo. In questo mare rimane l’odore di morte e la scomparsa di esseri umani, di volti, di sguardi che non sono riusciti a vedere l’orizzonte della vita. Migliaia di voci tacciono nella profondità di un mare che cancella ogni impronta.

In questa spaventosa situazione, i governi, che ne sono responsabili alzano le loro voci prive di contenuti, incapaci di assumere le proprie responsabilità rispetto al dramma dei popoli del Medio Oriente. Essi cercano di giustificare il loro operato per discriminare, espellere, costruire muri e bloccare i rifugiati sulle isole come fossero lebbrosi o esseri indesiderabili.

L’Europa e gli altri Paesi stanno chiudendo le porte alla solidarietà e alla misericordia e rifiutano di ascoltare le voci che nel mondo chiedono di accogliere i rifugiati. Tra queste, la più incisiva è quella di Papa Francesco come sempre vicino ai più poveri e ai più emarginati. Le parole vanno associate alle azioni e per questo il Papa si è recato a Lampedusa e a Lesbos. Un modo per dare un segno concreto di vicinanza ai rifugiati, un segno reso ancora più evidente dall’ospitalità offerta ad alcune famiglie siriane portate a Roma.

Il governo turco sta ricevendo fondi dall’Unione Europea per fungere da barriera di contenimento dei rifugiati e per esercitare una forte repressione che impedisca loro di raggiungere l’Europa. L’Argentina ha deciso di collaborare a questa necessaria azione umanitaria, accogliendo 3000 rifugiati.

Purtroppo però nel mondo non c’è la volontà politica di risolvere questa situazione ma se le grandi potenze non prenderanno delle decisioni in grado di creare alternative che mettano fine alle guerre nella regione, alle morti e alla sofferenza dei popoli, tutto ciò genererà un’escalation di guerre dalle conseguenze imprevedibili. E’ urgente quindi che la comunità internazionale, l’Onu, il Consiglio di Sicurezza del Parlamento Europeo e Paesi come gli Stati Uniti, la Russia e la Cina agiscano in base a una visione umanitaria capace di bloccare la violenza nella regione.

Il mare Mediterraneo si sta trasformando nella fossa comune di migliaia di rifugiati che hanno perso le loro vite senza avere un destino. Bisogna ricordare che la pace non si regala e che essa non è passività né assenza di conflitto. La pace è una dinamica permanente di relazioni tra le persone e i popoli.

È quindi urgente che la comunità internazionale smetta di essere spettatrice e diventi protagonista, che cominci a far sentire la propria voce e che fermi le guerre e le invasioni che colpiscono il Medio Oriente. È necessario incontrare nuovi cammini di convivenza tra i popoli e far cessare un dramma che ferisce tutti.

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