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il Fatto quotidiano, 3 maggio 2018. Siamo un popolo di becchini. Più gente si ammazza in giro per il mondo più siamo benestanti e soddisfatti, crepi pure l'amico col nemico, più sono meglio è per noi. E' il capitalismo, baby

«1.700 miliardi di dollari - Dopo dieci anni di crisi, le spese tornano a crescere. Tranne che per la Russia»

Le spese militari globali tornano ad aumentare dopo quasi un decennio di stasi seguito alla crisi. Lo certificano i nuovi dati pubblicati dall’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri) relativi all’anno passato. Gli investimenti in difesa sono cresciuti a livello mondiale di oltre un punto percentuale raggiungendo la cifra di 1.700 miliardi di dollari, 230 dollari per ogni abitante del pianeta. Oltre la metà di questi soldi vengono spesi da paesi Nato, oltre un terzo dagli Stati Uniti, che nel 2017 non mostrano ancora l’aumento del 18% deciso dal presidente Trump per l’anno fiscale corrente. La crescita più significativa si registra in Arabia Saudita (da anni in guerra in Yemen e principale importatore di armamenti occidentali, italiani compresi) con un aumento annuo del 9%, per una spesa che supera il 10% del Pil nazionale e posiziona la petrolmonarchia al terzo posto nella classifica mondiale dopo Stati Uniti e Cina, scalzando la Russia.

L’aumento delle spese militari riguarda tutto il Medioriente: 22% l’Iraq, 15% l’Iran, 10% la Turchia e 5% Israele; mancano i dati siriani.

L’arretramento della Russia, cui si è già accennato, è certamente il dato più significativo, con un crollo del 20% negli investimenti militari che dovrebbe ridimensionare i timori dell’Alleanza atlantica sulla reale ampiezza del riarmo russo. Timori che invece alimentano la corsa agli armamenti dei paesi dell’est e dei paesi baltici, con aumenti annui della spesa militare che vanno dal 50% della Romania al 21% di Lettonia e Lituania al 12% della Bulgaria, con la Polonia che rimane il maggior investitore militare dell’area.

Venendo all’Europa occidentale le spese militari calano leggermente in Francia (-2%), sono tendenzialmente stabili in Gran Bretagna, mentre aumentano in Spagna (12%), Germania (3,5%) e Italia (1%), dove raggiungono i 26 miliardi di euro, ovvero l’1,5% del Pil: dato, quest’ultimo, superiore a quello di importanti alleati Nato Canada (1,3%), Germania, Olanda e Spagna (entrambe 1,2%), Belgio (0,9%).

Un aumento, quello relativo all’Italia, che rafforza la tendenza degli ultimi anni (+13 percento dal 2015) e conferma cifre e analisi dell’osservatorio MIL€X, salvo scostamenti dovuti a differenze nel metodo di calcolo. Il nostro paese rimane quindi stabilmente tra i primi 15 paesi al mondo per spesa militare, al 12° posto per la precisione.

Passando agli altri continenti, suona preoccupante per la futura stabilità della regione il dato relativo all’Africa, dove si registrano aumenti annui delle spese militari in Paesi che, tra l’altro, versano in condizioni di povertà come il Gabon (42%), il Benin (41%), il Sudan (35%), il Mali (26%) il Burkina Faso (24%) il Niger (19%) e il Ghana (15%).

Per quanto riguarda l’America Latina si registrano spese militari in crescita in Venezuela (20%) Argentina e Bolivia (entrambe 15%) e Brasile (6%). Nel contante asiatico gli aumenti più significativi si hanno in Cambogia (21%) e nelle Filippine (20%).

Discorso a parte per le spese militari delle potenze regionali Cina e India, in costante e parallelo aumento, entrambe del 5,5% su base annua. Mentre la Corea del Nord, nel 2017 particolarmente attiva nei test missilistico-nucleari prima dell’attuale fase di distensione non fornisce dati, la Corea del Sud è cresciuta del 1,7%. Stabili gli investimenti per la difesa del Giappone, alleato americano nell’area del Pacifico.

il manifesto,

«Lavoro e tecnologie. Marc Saxer suggerisce di pensare a un’”economia umana” e di strutturarla in una sorta di “economia a due settori” intercomunicanti - simile a quella suggerita da Riccardo Lombardi in Italia alla fine degli anni ’70»
Sarebbe sbagliato negare che ci troviamo in una fase nuova, con molte trasformazioni incubate proprio nei dieci anni trascorsi dall’esplosione della crisi del 2007/2008, la cui più drammatica eredità è una disoccupazione giovanile ancora elevatissima. Ne cogliamo i segni anche nel singolare connubio che si viene realizzando tra il neoliberismo e varie forme di populismo, pregne di nazionalismo, nativismo, xenofobia.
 Rispetto alla portata di tali trasformazioni – mentre è semplicemente strabiliante la superficialità con cui esponenti politici concentrati solo sul proprio ego, e sul desiderio di uccidere “Sansone con tutti i filistei”, decretano la fine della discriminante destra/sinistra – l’urgenza maggiore, per la sinistra e le forze progressiste che vogliono continuare a vivere, risiede nella necessità di uscire da un silenzio e un’inerzia che durano ormai da troppo tempo e le condannano alla scomparsa, attivando, al contrario, un cantiere culturale alternativo di vastissima portata.


Per cogliere le odierne tendenze di cambiamento – rispetto alle quali alcuni osservatori già paventano una frenata della crescita mondiale, anche in conseguenza degli embrioni di protezionismo e dell’incessante accumulo di “bolle” finanziarie e immobiliari – rimangono una variabile cruciale gli investimenti, dei quali l’Oecd dice che «sono stati il vero supporto mancante (missing) per la crescita globale, gli scambi, la produttività, i salari reali». Il calo degli investimenti, con la crisi e dopo, si è accompagnato a un intenso processo di introduzione di innovazioni, ancora tutto da decifrare nella sua natura e nelle sue conseguenze, specie sull’occupazione.


L’estrazione di masse enormi di dati e di informazioni dagli individui – tutti tracciati e monitorati – e la loro mercificazione e trasformazione in profitti per Google, Facebook e le altre corporations rendono non più riconoscibili i confini tra soggettività individuale e condizione sociale. Con le nuove tecnologie il lavoro, almeno in alcune aree, si trasforma e si arricchisce, ma la connessione perenne e l’accessibilità estesa non significano automaticamente maggiore libertà, possono anzi generare una rarefazione della sfera pubblica a sua volta incrementante la desoggettivazione e la depoliticizzazione già in atto.

Se l’individualizzazione passa attraverso una “esposizione costante del sé” e una “gamificazione” in cui l’offerta ininterrotta di stimoli si traduce in “forme di gioco” (espresse dal clic “mi piace”) che alla fine si risolvono in esasperazione della prestazione e della competizione, vediamo all’opera da una parte la trasformazione di ogni elemento di conoscenza in informazione mercificata, dall’altra l’ambizione a modificare gli stessi comportamenti manipolando e suggerendo desideri che non si sa di avere e alimentando il delirio di onnipotenza.


Si è fatta, dunque, pressante, a sinistra, la necessità di proporre un “nuovo modello di sviluppo”, un nuovo modello di sviluppo per l’epoca digitale. Ne abbiamo bisogno per dare al capitalismo – di cui alcune delle contraddizioni strutturali sono lo squilibrio domanda/offerta e la carenza di domanda aggregata – una base di domanda meno artificiosa di quella indotta dalle “bolle” del neoliberismo e, al tempo stesso, combattere la “distopia” di un mondo senza lavoro minacciata dall’avanzare dell’automazione. Marc Saxer suggerisce di pensare a un’”economia umana” e di strutturarla in una sorta di “economia a due settori” intercomunicanti – simile a quella suggerita da Riccardo Lombardi in Italia alla fine degli anni ’70 del secolo scorso -, un settore per così dire “capitalistico” digitale «che genererà il surplus necessario a remunerare il lavoro per il bene comune», un settore destinato agli human commons (dai servizi per la salute, alla cura degli anziani, all’allevamento dei bambini, all’istruzione e educazione, alla generazione di cultura e di conoscenza, ecc.), per i quali vanno creati appositi meccanismi di remunerazione.


Questo ragionamento ha come presupposti una valutazione di insufficienza quando non di fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni e anche meri trasferimenti monetari del tipo “reddito di cittadinanza”) e, al loro posto, a) il ricorso allo Stato come employer of last resort, b) una democratizzazione della proprietà del capitale, mediante un maggiore slancio impresso alla democrazia economica, lo spostamento della tassazione dal lavoro al capitale, la costituzione di Fondi sovrani di investimento che socializzino gli alti rendimenti del capitale.


Queste problematiche non sono nuove. La retorica dell’esogenità e della naturalità dei fenomeni al presente è utilizzata per sostenere la causa della neutralità degli stessi. Ciò che ci si ripropone come cruciale è la profondità della trasformazione a cui dobbiamo aspirare e, di conseguenza, la possibilità di una direzione dell’innovazione verso una simile trasformazione e la qualità delle istituzioni pubbliche in grado di operare in tal senso.


Abbiamo bisogno di sottoporre a critica sia la “razionalità politica” dell’innovazione, sia la sua “razionalità scientifica”, in particolare la “razionalità dell’algoritmo” con la sua pretesa di corrispondere a una naturalizzazione oggettiva volta a trasformare tutti i fenomeni in stati di necessità chiusi allo spazio dell’alternativa.
Quando Henningen Meyer parla di “filtri” con cui “moderare” l’evoluzione tecnologica non intende solo “rallentare”: egli parla di un filtro “etico” (in gioco, per esempio, nelle biotecnologie: non tutto ciò che è possibile, solo per questo deve essere fatto); un filtro “sociale” (che può portare a implementazioni scaglionate nel tempo o a differenti forme di regolazione); un filtro “relativo a differenti modelli di governance imprenditoriale” (privilegiando forme che danno voce a un più largo numero di portatori di interessi); un filtro “legale” (si pensi alle controversie a cui sta dando luogo il caso della self-driving car); un filtro “connesso alla produttività” (qui si verificano gli effetti di ciò che gli economisti chiamano rendimenti decrescenti: una lavatrice equipaggiata con dispositivi elettronici simili a quelli del programma spaziale Apollo, non vi porterà sulla luna, continuerà semplicemente a lavare i vostri panni sporchi).


Tutto ciò spiega perché bisogna collocare molto in alto le ambizioni riformatrici, nelle quali occorre far ricadere le problematiche della democrazia economica e di iniziative innovative sui “diritti di proprietà”. Le nuove tecnologie racchiudono forti istanze cooperative, nella direzione della creazione di sistemi produttivi in grado di autoprogettarsi e autoregolarsi, aprenti eccezionali “finestre di opportunità” che, anziché lasciate al solo capitalismo animato dalla volontà di consolidare i tradizionali rapporti di potere, possono essere utilizzati da lavoratori intenzionati alla “coprogettazione” in disegni

Comune-info,

«Non sono prove anonime, stravolgono i programmi scolastici, mettono in discussione l’aiuto reciproco tra bambini e soprattutto la loro serenità, tra deliranti cronometri, insegnanti che diventano sorveglianti e aule trasformate in celle di massima sicurezza, da cui a bambini e bambine di sette anni non è consentito allontanarsi per fare la pipì. Tuttavia quando si ragiona sulle motivazioni del rifiuto delle prove Invalsi, previste da queste settimana, si sottovaluta un aspetto, il più inquietante ma anche motivo di speranza: quei test si reggono prima di tutto sull’obbedienza gratuita dei docenti chiamati a somministrarli seguendo un vergognoso Manuale. Se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore, tutto quell’odioso esperimento crollerebbe».

Il grande esperimento Invalsi: appunti sull’eteronomia

Anche quest’anno, come ormai da una quindicina di anni a questa parte, si svolgeranno i test Invalsi. Anche quest’anno nelle classi seconde e quinte della scuola primaria. Anche quest’anno poco più di un milione di bambine e bambini di sette e dieci anni verranno sottoposti ai test. A sottoporli alla somministrazione saranno circa 50 mila maestre e maestri (su circa 250 mila in servizio nella scuola primaria), ma il calcolo è approssimativo, perché è difficile prevedere quanti insegnanti verranno chiamati a somministrare più volte. Le prove sono rimaste due per le classi seconde (lettura e matematica) e sono diventate tre per le quinte, con l’aggiunta dell’inglese. Anche quest’anno il Grande Esperimento prende il via.

Nel tempo si sono sciolti molti dei dubbi e delle controversie che accompagnavano l’introduzione di queste prove nella scuola italiana. All’inizio l’Invalsi e il Ministero sostenevano che le prove fossero anonime e raccolte ai soli fini statistici, mentre l’evoluzione e le dichiarazioni degli ultimi anni hanno chiarito che i dati sono collegati in maniera stringente al singolo bambino e alla singola bambina per formare un profilo valutativo che li accompagna nel corso degli studi e che in futuro potrebbe benissimo venire utilizzato per selezionare – ad esempio – gli accessi universitari, come d’altronde era stato ventilato nella prima versione del decreto attuativo dell’esame di maturità, o – chissà – addirittura nelle procedure di selezione del personale lavorativo.

Anche l’affermazione che le prove non potevano essere valutate e che l’Invalsi stessa sostenesse la non opportunità di allenarsi ad esse stravolgendo la programmazione scolastica è progressivamente caduta, sostituita tutt’al più da generici suggerimenti di non eccedere negli allenamenti comunque predisposti anche nei siti istituzionali.

Le resistenze diffuse opposte nei primi anni da parte del personale docente e da gruppi di genitori organizzati si sono progressivamente indebolite, lasciando oggi l’onere della contestazione del test a piccoli gruppi di docenti determinati e a isolati genitori, mentre le case editrici scolastiche hanno infarcito orrendamente i già poco appetibili libri di testo di sfilze di quiz a risposta multipla.

La stessa macchina Invalsi si è evoluta, traendo insegnamento dalle resistenze e modificando la propria articolazione (nelle scuole medie e superiori ad esempio disseminando le prove su un intero mese e automatizzando le procedure di correzione, in modo da vanificare in gran parte l’indizione di scioperi) estendendo in questo modo la capacità dei test di sconvolgere la normale programmazione scolastica per tutta l’ultima parte dell’anno.

D’altra parte, accanto a quello che sembra proprio un trionfo della macchina-Invalsi, cresce un ostinato insieme di interventi critici che raccolgono, incrementano, combinano e ripropongono le critiche che hanno accompagnato l’evoluzione del Grande Esperimento in questi ultimi quindici anni. In questi testi interessanti che circolano sulle riviste e nei social sono molti gli aspetti dei test Invalsi che vengono messi in discussione; mi pare tuttavia che poco si sia riflettuto seriamente su un aspetto, forse ingannati dall’apparentemente inoppugnabile trasparenza della risposta, e cioè su chi fossero i soggetti sottoposti all’esperimento.

Milgram

Facciamo un passo indietro, al 1961. Il sociologo statunitense Stanley Milgram organizza un esperimento di psicologia sociale per raccogliere dati sulla possibilità dei soggetti di compiere azioni in contrasto con i propri principi etici se sottoposti ad ordini provenienti da un’autorità scientifica riconosciuta. Milgram è influenzato dal processo Eichmann che si sta svolgendo in Israele e vuole scavare attorno all’affermazione di tanti soggetti implicati nella Shoah che si difendono affermando di aver solamente eseguito degli ordini.

Nell’esperimento vengono contattate persone cui viene chiesto di collaborare ad una raccolta dati in una serie di prove di apprendimento. Il loro compito consiste nel somministrare un rinforzo negativo – scosse elettriche di intensità crescente – ai soggetti che sbagliano le risposte. In realtà le scariche elettriche sono finte e gli allievi che le ricevono sono collaboratori di Milgram che fingono la sofferenza con grida e lamenti, mentre altri collaboratori – che interpretano gli scienziati – sollecitano gli insegnanti a non derogare dal protocollo sperimentale e ad infliggere le scosse previste.

I risultati dell’esperimento furono inquietanti: dei quaranta soggetti sottoposti alla procedura una buona percentuale proseguì nel protocollo infliggendo scariche elettriche visibilmente dolorose per molto tempo, in alcuni casi spingendosi fino ad infliggere le scariche più intense sufficienti a far svenire l’allievo. L’obbedienza spingeva cioè i soggetti a derogare dai principi etici cui erano stati educati e nei quali si riconoscevano. Questo stato eteronomico, nel quale il soggetto non si considera più capace di prendere decisioni autonome ed agisce come strumento delle decisioni di un’autorità superiore, in questo caso era stato indotto dalla autorevolezza del soggetto superiore che dettava gli ordini e il protocollo sperimentale: la scienza. Era in nome dell’indiscutibilità della scienza che i soggetti sottoposti all’esperimento rinunciavano ai propri principi etici, convinti di operare secondo un principio superiore e di non essere responsabili delle sofferenze inferte ai (finti) allievi.

Certo influivano altri fattori sulla decisione di obbedire fino in fondo o di interrompere l’azione, come la distanza da colui che riceveva le scariche elettriche e la vicinanza e l’insistenza dello “scienziato”, ma tutti risultavano subordinati alla trasformazione che il “protocollo scientifico” operava sulla situazione, sul contesto. All’interno del contesto definito dall’esperimento – piccolo tassello di quel grande apparato tendenzialmente indiscutibile che si chiama Scienza – il soggetto riconosceva l’autorità del “protocollo” e quindi la propria azione obbediente cessava di venir percepita come immorale, ma al contrario appariva legittima e ragionevole.

Il Grande Esperimento Invalsi

Torniamo al presente. Ai circa 50mila docenti della scuola primaria impegnati nelle prove Invalsi viene consegnato ogni anno un Manuale del somministratore. I test infatti, per affermazione degli stessi scienziati Invalsi, sono rilevazioni scientifiche che devono svolgersi secondo un rigido protocollocui non si può assolutamente derogare, pena la perdita di validità dei dati raccolti. Così nel Manuale (nel 2017 contava 25 pagine) leggiamo i vincoli organizzativi e metodologici che i docenti somministratori devono far rispettare a tutti i soggetti testati, siano essi sedicenni o bambini e bambine di sette anni. Vediamo alcune di queste regole.

Prima di tutto l’insegnante viene investito dell’autorevolezza dell’apparato scientifico che organizza il test. In carattere grassetto gli organizzatori dell’esperimento si rivolgono al docente affermando che “in qualità di Somministratore, lei è responsabile della somministrazione di questi strumenti agli alunni della classe che le è stata assegnata”. La scelta dei termini attraverso i quali viene affidato il compito non è certo casuale, la distanza da una pratica didattica è evidente e netta, qui il docente viene interpellato non più come tale, ma come “Somministratore di strumenti”, deve svestire i suoi panni professionali per vestirne altri e compiere azioni cui deve essere guidato. Nessuna autonomia di giudizio può essere concessa: “Lei si attenga in maniera precisa e rigorosa [grassetto nell’originale] alle procedure di seguito descritte” che – sole – permetteranno di “somministrare le prove nel modo indicato nel presente manuale” e di “assicurare che la somministrazione avvenga nei tempi stabiliti”.

Gli ordini sono perentori e passo passo traghettano l’insegnante dal regno della didattica al regno della scienza statistica, in cui ogni elemento di relazione umana costituisce problema e disturba:

«Lei dovrà seguire le seguenti regole generali durante la somministrazione:
NON risponda alle eventuali richieste di aiuto degli alunni sulle domande delle prove cognitive (Italiano e Matematica).
NON dia alcuna informazione aggiuntiva, indicazione o suggerimento relativamente al contenuto di alcuna delle domande della Prova».

Qui il manuale è particolarmente insistente, perché le e gli insegnanti hanno nel loro codice deontologico non scritto il principio sacro di aiutare bambine e bambini a comprendere il sapere e la realtà. Derogare ad una richiesta di aiuto in questo senso significa rinunciare a qualcosa che, anno dopo anno, diventa un habitus della personalità di un docente, si incorpora in lei o in lui. Allora il Manuale dedica molti passaggi a questo elemento, arrivando fino a dettare parola per parola ciò che dovrà venire risposto al bambino o alla bambina che si rivolgesse per una spiegazione o un chiarimento:

«LA MIGLIORE RISPOSTA da dare a qualunque richiesta di aiuto è: ‘Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda. Se ti può essere utile, rileggi le istruzioni e scegli la risposta che ti sembra migliore’».

Dopo aver proibito ogni tentazione didattica, il Manuale istruisce sulla vigilanza delle prove. Anche qui il testo è molto chiaro, ricorda molto le indicazioni per i concorsi pubblici ma le supera in rigidità disciplinare e burocratica. Così ordina ai somministratori (gli ex docenti): “Prima dell’inizio delle prove si assicuri che gli allievi siano disposti nei banchi in modo che non possano comunicare tra di loro durante lo svolgimento delle prove stesse”; “mentre gli allievi sono impegnati nello svolgimento delle prove, giri costantemente tra i banchi”; “Durante tutte le somministrazioni eserciti una costante vigilanza attiva…”; “gli alunni [devono essere] attentamente sorvegliati”; “È sua responsabilità adottare tutte le misure idonee affinché […] gli allievi non comunichino tra di loro”.

Se l’obiettivo è impedire la comunicazione (non solo il copiare) tra bambine e bambini, per farlo occorre mettere mano anche agli ambienti. Così “si raccomanda vivamente, nel limite del possibile, che la somministrazione non avvenga nella loro aula, ma in locali appositamente predisposti e di dimensioni tali da consentire di disporre i banchi in file singole e convenientemente distanziati uno dall’altro”. Questa architettura perfetta, che va dai banchi al linguaggio al divieto assoluto di comunicare non può venire modificata neppure per l’urgenza di bisogni fisiologici, tanto che il Manuale accorda il permesso di autorizzare l’uscita del bambino o della bambina “solo in situazioni di emergenza (ad esempio, nel caso si sentano male)”, e quindi non in caso scappi la pipì o la cacca.

A questo punto, trasformati i docenti in somministratori e sorveglianti e l’aula in una cella di massima sicurezza, l’esperimento può avere inizio con una frase precisa: “Dare il via dicendo ‘Ora girate la pagina e cominciate’”[grassetto nell’originale].

Ovviamente, come ogni somministratore di esperimenti, l’insegnante deve essere pronto a mentire, sempre per il fine superiore della scienza. Così il Manuale suggerisce di “rassicura[re] coloro che non fossero riusciti a portare a termine la prova” e di “spiegare agli alunni […] se ritenuto opportuno, che non verrà dato alcun voto per lo svolgimento della prova”, anche se ormai moltissime scuole usano le prove come verifiche della materia testata e da quest’anno l’esito delle prove di terza media viene inserito nel curriculum dello studente e farà parte della certificazione sulle competenze del primo ciclo.

Si arriva all’assurdo della prova di lettura per la classe seconda elementare, che prevede il somministratore con il cronometro e lo svolgimento in due minuti esatti per misurare quante parole vengono riconosciute. In questa prova l’indicazione del Manuale dice una cosa e il suo contrario: “Quando vi darò il via, dovete cominciare la prova vera e propria e cercare di fare più in fretta che potete ma non vi preoccupate se non riuscite a finire”. Ma se non devo preoccuparmi se non finisco, perché mi si cronometra?

Il protocollo nascosto

Spesso mi sono chiesto in questi anni: perché un insegnante dovrebbe rinunciare ai propri principi pedagogici e – in fin dei conti – etici, per contraddirli facendo il “somministratore”? Per giunta senza il riconoscimento di alcun emolumento economico. C’è probabilmente il timore delle sanzioni, di essere considerati dei rompiscatole, per alcuni sicuramente c’è la convinzione che questa sia la strada giusta per una rigenerazione di stampo neopositivista della scuola italiana (anche se a quindici anni dall’inizio dei test ho visto molti fervori raffreddarsi). Però ugualmente, per lungo tempo, non riuscivo a capire fino in fondo come facesse ad andare avanti questo Grande Esperimento. Poi mi è tornato in mente Milgram.

Come le persone interpellate da Milgram, i docenti in questi anni hanno creduto che i soggetti sottoposti alla sperimentazione fossero le alunne e gli alunni delle loro classi, mentre i veri bersagli di questa enorme operazione pseudoscientifica erano loro stessi. Era la loro obbedienza a venire messa alla prova, ad essere osservata e studiata per capire fino a che punto un insegnante medio era capace di rinunciare a principi etici e convinzioni pedagogiche profondamente radicate nel proprio statuto professionale per trasformarsi in un burocrate che eseguiva gratuitamente ordini lontani dalle proprie convinzioni. Questo era il vero, sotterraneo, protocollo dell’esperimento Invalsi. Gli insegnanti italiani sarebbero stati capaci di abiurare alla propria etica e professionalità e divenire “somministratori di test” allontanandosi gratuitamente dalla propria pratica didattica? Era possibile far loro rinunciare al principio cardine di ogni didattica relazionale, cioè indurli a interrompere la comunicazione tra loro stessi e le bambine e i bambini che esprimevano il desiderio di un chiarimento o di un incoraggiamento? Era possibile convincere maestre e maestri a rispondere come automi alle richieste di aiuto didattico di bambine e bambini di sette anni con una frase standard come “Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda”?

Non sembri solamente un paradosso. Se si pensa alle prove previste per la classe seconda elementare si può comprendere che la burocratica e ubbidiente esecuzione delle indicazioni del manuale assume la forma di un’odiosa imposizione incomprensibile, irrispettosa dei piccoli e delle piccole persone che vengono a scuola per apprendere in una relazione di rispetto e riconoscimento reciproco. Cos’è, per un bambino o una bambina di sette anni, il rifiuto assoluto del permesso di andare in bagno, cui viene anteposto il primato del rispetto dei parametri dell’esperimento? Cos’è l’organizzazione di una prova di velocità di lettura con cronometro alla mano fingendo che la rapidità non costituisca il parametro di giudizio? Dopo decenni nei quali l’amore della lettura viene proposto come piacere da coltivare senza fretta, perché un docente dovrebbe cronometrare i suoi bambini, trasmettendo principi didattici opposti?

Cos’è l’allontanamento dell’insegnante di classe per rendere più anonima la somministrazione e evitare ogni intervento di aiuto, quando è evidente che la tranquillità di un bambino di quell’età è legata alla presenza dei soggetti adulti con i quali ha costruito un rapporto di fiducia? Anche nella vecchia formula dell’esame di quinta elementare i docenti della classe erano affiancati da altri docenti della scuola, perché la pratica della valutazione fosse condotta in un contesto nel quale la serenità dei bambini non fosse tradita. In questi test invece la preoccupazione per il profilo emotivo dei bambini è inesistente, come fossero quei topolini bianchi chiamati non a caso cavie, e tutta l’organizzazione sembra costruita apposta per imporre uno shock emotivo ai soggetti testati. Perché 50mila maestri e maestre ogni anno accettano di imporre quegli shock emotivi e didattici?

Perché lo dice la scienza. Perché c’è un protocollo, perché ci sono dirigenti e docenti incaricati che premono da vicino affinché il protocollo non venga interrotto con fastidiosi dubbi etici o inopportuni principi pedagogici, come facevano i (finti) scienziati di Milgram per spronare i soggetti dell’esperimento a spingersi più avanti possibile.

Ricordo che qualche anno fa l’Invalsi richiedeva di allontanare i bambini diversamente abili dalle classi perché i loro risultati non erano conteggiati e la presenza dei docenti di sostegno poteva disturbare lo svolgimento della prova. Un’amica docente di sostegno affermò che lei sarebbe rimasta in classe con la bambina; di rimando il dirigente la mattina della prova fece spostare tutti i banchi in un’altra classe, lasciando in quell’aula solo il banco della bambina con disabilità.

Preferisco di no

Cosa succederebbe se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le prove Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore? Il Grande Esperimento Invalsi si regge sull’obbedienza gratuita dei docenti, cinquantamila ogni anno nella scuola primaria. Se queste maestre e maestri decidessero di far affrontare le prove come fossero semplici pagine di sussidiario? Se decidessero di consentire ai bambini con la pipì di andare in bagno? Se concedessero il tempo di cui ogni bambino ha bisogno per provare a risolvere con calma i quesiti o per leggere con tranquillità il brano previsto, e magari di godersi la lettura? Se incoraggiassero l’aiuto reciproco di fronte alle difficoltà?

Se così facessero, immediatamente tutto l’esperimento crollerebbe, si affloscerebbe sotto il peso di una macchina burocratica enorme ma priva di colonne atte a sorreggerla. Eppure non dovrebbe essere così difficile rivendicare il diritto di esercitare la propria capacità professionale, di essere umani nei confronti dei propri alunni, di aiutare i bambini e le bambine a comprendere e a svolgere gli esercizi, di farli sentire a proprio agio. Non sono certo azioni di cui ci si dovrebbe vergognare, bensì le basi di una presenza in classe didatticamente produttiva. A volte mi chiedo se un dirigente potrebbe punire un docente perché ha fatto andare al bagno un bambino o perché gli ha spiegato un esercizio che non aveva capito. Caro Milgram, secondo te sarebbe possibile?

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto,

Gli studenti del liceo Garibaldi di Napoli stamattina non saranno presenti al Pio Monte della Misericordia come guide. L’ente ha cancellato la loro partecipazione dopo un braccio di ferro cominciato martedì scorso. Il 24 aprile il Collettivo autonomo del Garibaldi aveva annunciato sui social l’adesione alla protesta contro l’alternanza scuola-lavoro cominciata dai colleghi del liceo Vittorio Emanuele II a marzo: anche loro si sarebbero presentati a fare le guide con un badge autoprodotto con la scritta «Alternanza scuola – sfruttamento. Questo non è formativo». La reazione è stata immediata: «La responsabile del Pio Monte ha chiamato la preside – raccontano dal collettivo – minacciando il ritiro del monte ore che fa capo al loro ente. Questo significa che i ragazzi, che sono in quarta, l’anno prossimo avrebbero dovuto accollarsi la formazione d’accapo proprio a ridosso della maturità. Naturalmente non ci sono tracce scritte delle pressioni così, se protesti perché di fatto sei ricattato, l’ente può sempre negare tutto».

Le pressioni però ci sono state e infatti gli studenti sono stati costretti scrivere una lettera in cui ribadivano il rispetto per la scuola e il Pio Monte, se pure mantenevano ferma la contrarietà all’alternanza, annunciando la sospensione della protesta: sabato scorso si sono presentati per svolgere un lavoro (dalle 9 alle 17) che viene definito volontario ma che in realtà è imposto e non retribuito. All’esterno, a manifestare per loro, c’era il collettivo del Vittorio Emanuele e un quinta del Garibaldi: «Non hanno potuto impedircelo – spiegano – perché abbiamo già terminato le nostre ore in un’altra struttura e non eravamo in orario scolastico». Con loro avevano lo striscione «Le vostre minacce non ci fermeranno». Il Pio Monte ha reagito chiudendo i cancelli, chiamando la polizia e poi cancellando l’alternanza per oggi. Ai ragazzi la responsabile ha detto che veniva data loro «una grande opportunità, la possibilità di fare un’esperienza di vita».

Se però chiedi agli studenti, ecco la risposta: «Siamo usati come venditori di prodotti e per di più rubiamo il posto ai laureati. Non c’è spazio per pensieri e azioni che provino a scardinare questo sistema: tutto è soffocato dai provvedimenti disciplinari, dalle minacce di ritorsioni se si lede l’immagine dell’azienda presso cui si svolgono i percorsi, dal decoro. Volevano persino imporci come vestire, sempre a spese nostre. Addirittura, per fare la formazione propedeutica alle guide, ci sono professori che sottraggono ore alle materie di studio». Quella al Pio Monte è la terza protesta in due mesi: il 27 marzo erano stati gli studenti del Vittorio Emanuele a inaugurare la rivolta dei badge durante le giornate del Fai, riproponendo l’iniziativa ad aprile al Museo Duca di Martina.

Lo scorso ottobre la Cgil Campania aveva aderito allo sciopero dell’Uds contro l’alternanza scuola-lavoro introdotta dalla Buona scuola del governo Renzi: «La nostra preoccupazione – sottolineava il sindacato – è che possa essere vista come la possibilità di impiegare lavoratori a costo zero. È gravissimo diffondere il concetto di lavoro non retribuito: significherebbe abituare i giovani a lavorare in condizioni sempre al ribasso».

L’alternanza interferisce anche con l’ambito scolastico: «L’anno prossimo, per la prima volta, la scheda di valutazione compilata alla fine del percorso peserà sull’esito del voto di diploma. Cosa c’entra il carisma o la capacità di arringare il pubblico con la formazione e l’impegno nello studio? Perché uno studente estroverso oppure accondiscendente con l’azienda dovrebbe essere premiato?» si chiedono i ragazzi del Garibaldi.
Intanto, stamattina, la Camera popolare del lavoro dell’Ex Opg Je so’ pazzo dà appuntamento a piazza Bellini per un flash mob: vestiti da camerieri gireranno il centro storico per protestare contro il lavoro in nero e la mancanza di controlli.

Riferimenti
Si veda su eddyburg di Filippomaria Pontani La legge che rende inutile insegnare e di Piero Bevilacqua Contro l'alternanza scuola lavoro. Sulla proposta di legge popolare alternativa alle deformazioni della Moratti e della Gelmini e della "Buona scuola" di Matteo Renzi di Marina Boscaino Ecco come ribaltare il classicismo della scuola italiana. Sulla trasformazione della scuola si veda la recensione di Piero Bevilacqua Pedagogia della carezza al libro di Laura Marchetti Per una didattica della carezza

la Repubblica

«Diario di un cronista rider per un mese, guidato dallo smartphone e da un algoritmo Niente tutele ma alcuni colleghi dicono: “È un deserto, almeno qui ci pagano”»

Un mese da lavoratore della Gig Economy, per raccontare cosa vuol dire guadagnare cinque euro lordi a consegna, correndo come matti in bici con la pioggia, il vento, il buio e il cuore in gola. Senza tutele, sfidando il traffico (e gli incidenti) perché più consegni più guadagni, ma se invece ti fermi perché vuoi fare altro, o magari perché non ce la fai più, sei fuori, l’algoritmo ti bolla come poco disponibile. Via, entra un altro. Per un mese mi sono iscritto a “Deliveroo” (ma si dice “loggato”) per raccontare dal vivo cosa vuol dire nel 2018 tornare al lavoro a cottimo, magari “cottimo digitale”, ma il senso è lo stesso, è l’ultima frontiera del precariato per quelli della mia generazione. Ho “indossato” la mia “action cam”, una minuscola Go-Pro che mi servirà per documentare l’esperienza e sono partito. Ho incontrato studenti e studentesse, giovani laureati senza lavoro, italiani e stranieri, disoccupati di mezza età, ciclo-fattorini padri di famiglia che consegnano merci da due anni e mezzo senza sosta. Questo è il mio diario di un mese da rider di Deliveroo, dal 15 marzo al 15 aprile, Pasqua compresa.
13 marzo. Mi preparo. L’unica persona in carne e ossa di Deliveroo con cui interagisco è Antonio, che mi dà il kit da fattorino, zaino termico e indumenti antipioggia col marchio aziendale. Appuntamento in un ufficio di coworking in zona Prati, dove tutto è in affitto, telefoni, scrivanie, computer. Noi aspiranti fattorini veniamo convocati in una saletta riunioni. Intorno a un tavolo ci sono un giovane metallaro, un sessantenne, un ragazzo indiano che parla a malapena italiano, uno studente della Luiss. Scopriamo che il pagamento è di 5 euro lordi. E che Deliveroo ci garantisce da una a cinque consegne all’ora. Le consegne sono tutte nel raggio di 4 km.
Diamo l’iban ad Antonio e scarichiamo l’applicazione per i rider sui nostri smartphone. In mezz’ora siamo nel magazzino a ritirare. Sono ufficialmente un ciclo-fattorino di Deliveroo. Ma è più bello dire rider. Nelle 48 ore precedenti mi sono iscritto al sito, scannerizzato la carta d’identità, frequentato un breve corso online sulle regole di igiene e salute. Ho firmato con una applicazione digitale (non ho mai stampato il foglio) il contratto da collaboratore autonomo, da partner di Deliveroo.
16 marzo. Mi trasformo. La bici la compro usata in una ciclofficina del quartiere Portonaccio, una mountain bike assemblata “ad hoc” per il mio prossimo lavoro di rider. Lo smartphone di ultima generazione ce l’ho già. Il mio unico strumento di lavoro, oltre naturalmente al fiato e all’accettazione delle regole aziendali.
18 marzo. Si parte. Prenoto sulla app la sessione oraria delle 19 in zona Roma Centro. L’unica ancora libera. Ormai siamo tanti, troppi. Di mettermi gli indumenti aziendali mi rifiuto. È sufficiente la pubblicità (non pagata) che farò con l’enorme zaino termico marchiato per le strade di Roma.
Raggiungo in bicicletta il Colosseo, il confine sud della zona per cui sono prenotato. Attivo il Gps del mio smartphone, è il momento di dire alla piattaforma che sono attivo. Disponibile per le consegne. L’algoritmo inizia a lavorare. Incrocia le richieste dei clienti ai ristoratori con le posizioni dei rider più vicini.
Bip. Arriva la notifica. Corro. «Ti è stato assegnato un nuovo ordine. You have been assigned a new order. Gelateria Giolitti di fronte al Parlamento. Tre vaschette di gelato da 70 euro». È il momento clou della consegna cibo.
20 marzo. I colleghi. Incrocio per le strade rider di tutti i tipi. I marchi sono tanti: quelli rosa di “Foodora”, i “colleghi” che hanno avuto il coraggio di chiedere di essere inquadrati come lavoratori subordinati, e per questo erano stati cacciati. I gialli di “Glovo”, loro portano di tutto.
Siamo italiani, stranieri, un esercito che corre. L’applicazione mi fa sapere che si è liberata la sessione tra le 20 e le 21. La prenoto prima che lo faccia qualcun altro.
25 marzo. La fatica. I colli di Roma si fanno sentire. Non è una città bike-friendly. Salite, buche, voragini e sampietrini sconnessi rendono ogni consegna una sfida all’ultimo ostacolo… Nella salita tra Fontana di Trevi e il Quirinale pedalo a fatica affannato. Nessuno dell’azienda mi ha chiesto se sono cardiopatico o idoneo a fare decine di chilometri in poche ore. Potrei morire e la responsabilità sarebbe mia. In due ore ho fatto 4 consegne. Venti euro. Lordi.
Ritorno a casa. Per altri 40 minuti farò pubblicità a Deliveroo.
28 marzo. Le storie
La beffa è che tocca a me comprare del cibo su Deliveroo.
Ho una fame da lupo ma voglio anche parlare con un rider. Scelgo una margherita da 5 euro. Quello che mi sono guadagnato con una consegna, più 2,50 euro per la consegna. Chi bussa alla mia porta è un quarantenne che lavora 57 ore a settimana. È evidentemente affaticato, ma dice di essere contento: «Non c’è lavoro, è un deserto. Almeno Deliveroo mi paga».
Parlare e conoscere i colleghi non è facile. Ognuno pedala di fretta seguendo le istruzioni della propria app. Ma davanti ad ristorante, mentre il cameriere del Bangladesh, con aria di sufficienza, mi chiede di rimanere fuori, sullo zerbino, incontro Eric, sudamericano, rider agguerritissimo, 28 anni, con Deliveroo guadagna fino a 1.200 euro al mese. Lavora da un anno e riesce a fare anche 5 consegne all’ora: «Perché conosco le strade senza bisogno di usare Google Maps», rivela. Eric mi fa accedere ai tre gruppi WhatsApp dei Riders romani di Deliveroo, dove i tentativi di sindacalizzazione si mischiano a esultanze per la Roma.
Incontro Federica, 32 anni, architetta, che lavora per Foodora. «Ho lavorato in uno studio di architettura ma non mi pagavano. Non potevo mantenermi. Alla fine sono approdata a Foodora. Più volte ho rischiato di finire sotto una macchina, ma guadagno un po’ di soldi e faccio sport. Non è male». Forse. Ma la sensazione è che a Federica quei soldi servano per vivere.
1 aprile. Pasqua. La consegna è in Via Margutta. Un bellissimo appartamento, terrazze su Roma. Settanta euro di sushi, aperitivo del pranzo di Pasqua. Nessuna mancia però. Né in contanti né digitale. Tra i segreti di Deliveroo c’è anche la possibilità che il cliente, aggiunga qualche euro per fattorino. Al quale però i soldi arriveranno soltanto dopo un mese...
15 aprile. Il bonifico Mi arriva il primo bonifico da un conto inglese: undici consegne, guadagno lordo 55 euro. Sulle strade di questo nuovo caporalato digitale ho incontrato persone disposte a tutto pur di lavorare. Ma i rider si stanno organizzando. E tra ciclofficine e gruppi WhatsApp sta nascendo il nuovo sindacato

Avvenire, 2

Come fugge il tempo. Noi guardiamo avanti, mentre i molti che sono rimasti indietro appartengono già all'eternità. È il primo maggio del 2003, esattamente quindici anni fa. George Walker Bush, 43° presidente degli Stati Uniti d'America, figlio del 41° presidente americano, George Herbert Walker Bush (famiglia di petrolieri), dalla portaerei "Uss Abraham Lincoln", annuncia all'America che «la missione è compiuta». Certo, non conclusa. «La fase principale dei combattimenti» della Seconda guerra del Golfo, durata 42 giorni, alla ricerca delle «armi di distruzione di massa», e per deporre il presidente iracheno Saddam Hussein, «è terminata».
Bush senior, nel 1991, aveva comandato la Prima guerra del Golfo, "Tempesta nel deserto", per "punire" Saddam, perché nell'agosto del 1990 aveva fatto il passo più lungo della gamba, appropriandosi, invadendolo, del piccolo emirato dei "petrodollari" del Kuwait. Saddam sosteneva che quel pezzo di sabbia impregnato di petrolio apparteneva all'Iraq e, soprattutto, non voleva rifondere l'enorme debito contratto per la guerra contro l'Iran, fatta per conto e con il sostegno di Usa e monarchie del Golfo.
Torniamo nel 2003. Dopo le parole lasciate a cannoni e missili, «per la causa della libertà e della pace nel mondo», parole sempre di Bush junior, quel primo maggio doveva segnare la data d'inizio di una nuova era di ricostruzione e democrazia.Il tiranno era stato sconfitto, l'Iraq liberato, e «la nostra nazione – aggiungeva Bush junior – è più sicura».
Diciannove mesi prima c'era stato l'11 settembre, con l'attacco di al-Qaeda alle Torri Gemelle di New York e come risposta l'invasione americana dell'Afghanistan dei taleban, in cui era ospite la "mente" del terrore, Osama Benladen. Bush e i suoi generali ritenevano che Osama fosse anche in combutta con il regime iracheno. Versione, questa, come quella delle armi chimiche, rimasta sempre a secco di riscontri ufficiali. La "mente", tra l'altro, era sempre quell'Osama, a capo di una "legione musulmana" che gli americani, negli anni Ottanta, con i presidenti numero 39, Jimmy Carter, e 40, Ronald Reagan, avevano armato, con la connivenza del regime militare pachistano, contro i sovietici che occupavano l'Afghanistan. Che giri di valzer conosce la storia.
Sono passati quindici anni. Le conseguenze di quella guerra ancora si trascinano in una ragnatela di crisi e conflitti mediorientali, di jihadismo islamista suicida, a opera di una continua moltiplicazione di gruppi e gruppetti di fondamentalisti e di lupi solitari fioriti qua e là. Ma nati soprattutto nei centri di detenzione americani in Iraq, come Abu Ghraib e Camp Bucca. La libertà dell'Iraq, pagata con quattro milioni di sfollati, l'esodo di buona parte dei cristiani e centinaia di migliaia, se non un milione di vittime – e ancora, in Iraq, si continua a morire di attentati suicidi, di mine, di vendette –, doveva essere, ahimè, la "crociata" contro tirannia e terrore.
Papa Giovanni Paolo II lo profetizzò nel 1991, all'alba della Prima guerra del Golfo, in un messaggio colmo di preoccupazioni per le sorti dell'umanità: se sarà la guerra, «sarà un'avventura senza ritorno». La notte del 20 marzo 2003, il lamento funebre delle sirene dell'allarme aereo che attraversavano il cielo dell'Iraq, da Baghdad a Bassora, annunciava l'inizio della Seconda guerra...

Il manifesto,



«Un percorso di letture sul concetto di Governance e la sua evoluzione. Due volumi - molto diversi - di Alain Deneault e di Colin Crouch fanno il punto sulla questione. Il passaggio dal piano economico a quello politico è al cuore del neoliberismo e della postdemocrazia»

Iltermine ha avuto una antica genesi e una accidentata traiettoria che lo havisto manifestarsi prima in ambito economico e poi in quello politico.Governance ha infatti origine nella teoria dell’organizzazione produttiva ed èstato usato per indicare quelle tecniche di gestione dei rapporti ågarantire la«pace sociale» interna e per contenere i «costi di transazione» delle imprese.In questo modello di gestione, il coordinamento è di competenza del consigliodi amministrazione, mentre distinti sono stati i momenti di incontro e didiscussione tra gli stakeholder, cioè portatori di interesse (i salariati, iconsumatori, i piccoli azionisti, l’indotto produttivo) che devono trovare ilmodo di armonizzare ciò che è potenzialmente conflittuale rispetto le strategieimprenditoriali.
Lagovernance è quindi l’orizzonte dove collocare tutte le «riforme» organizzativedell’impresa che ha corso però il rischio di essere scalzato da altresuggestioni nella riorganizzazione dei processi lavorativi. A salvare lagovernance dall’oblio è stata la proposta di un modello di gestione deiburrascosi rapporti tra le multinazionali e le popolazione locali nel Sud delmondo. Di fronte la resistenza verso le strategie di espropriazione e di«cattura» – di risorse naturali e di valore economico – le multinazionalipuntavano a recuperare il consenso perduto tra le popolazioni locali,istituendo un «partenariato» con il governo «indigeno» e popolazione locale.Passaggio obbligato era l’accento sulla responsabilità sociale dell’impresa, ilrispetto dell’ambiente e della qualità delle merci prodotte: retoriche cheassumono la dimensione politica delle relazioni che ogni impresa intrattieneall’interno (i rapporti sociali di produzione) e all’esterno al fine direlegarle a un costo di transazione da contenere attraverso misure virtuose diarmonizzazione degli interessi.
ÈSU QUESTO CRINALE cheil termine acquisisce il significato politico che ne decreterà la sua fortunanella crisi della democrazia rappresentativa, nello svuotamento della sovranitànazionale da parte degli organismi della globalizzazione economica. Lagovernance diviene cioè il modello usato nella costruzione del consenso edell’egemonia da parte del capitalismo neoliberista attraverso un feticismo delPolitico inteso come astratta e oggettiva pratica amministrativa chenaturalizza i rapporti sociali dominanti.
Èattorno questa migrazione della governance dall’economico al politico che sisnodano due recenti saggi da poco tradotti e pubblicati in Italia. Il primolibro è del canadese Alain Deneault e ha come titolo un secco Governance (NeriPozza, pp. 192, euro 16), ma un esplicativo sottotitolo: Il managementtotalitario. Il secondo saggio è dell’inglese Colin Crouch dal titoloesortativo Salviamo il capitalismo da se stesso (Il Mulino,pp. 102, euro 12). Autori tra loro diversissimi, sia per le loro costellazioniculturali che per la forma di scrittura che prediligono, ma accomunati dallaconvinzione che la crisi della democrazia sia il framework all’interno delquale le politiche predatorie del capitalismo contemporaneo cercano – e spessotrovano – la loro legittimità.
PERCROUCH ilcapitalismo neoliberista ha così alimentato la formazione di regimi politici«postdemocratici» nei quali i diritti civili e politici sono sì garantiti senzache il loro esercizio possa mettere in discussione il cambiamento radicalenella divisione ed equilibrio dei poteri a favore dell’esecutivo. La«postdemocrazia», costellata da molteplici sliding doors, vede esponentipolitici dismettere i panni del politico per sedere in qualche consiglio diamministrazione di una grande impresa; o, all’opposto, imprenditori accederealla carriera politica senza nessuna soluzione di continuità.
In questo saggio, lo studioso britannico segnala che il neoliberismo e la suaforma politica – la postdemocrazia, appunto – mettono in pericolo ilcapitalismo stesso. Per questo, invita a una riforma radicale della forma statoe dell’esercizio del potere, innovando le istituzioni della democraziarappresentativa al fine di favorire la partecipazione dei cittadini, attraversouna riqualificazione del welfare state, della funzione regolativa dello Statoimprenditore e il rilancio dei diritti sociali di cittadinanza.
Lacritica dello svuotamento della democrazia è proprio il punto di congiunzionetra l’analisi di Colin Crouch e quella di Alain Deneault. Questo filosofocanadese ha altri riferimenti teorici di Crouch; diverso è anche il contestosociale dove vive che lo porta a preferire la forma del pamphlet rispettocompassate monografie. Il suo precedente libro tradotto – La mediocrazia (ilmanifesto del 1 febbraio 2017) – è una sferzante critica alla retoricameritocratica propedeutica al consolidamento di un regime sociale e politicobasato su mediocri Yes man. Governance riprende infatti il filo della suariflessione, perché è questa la forma politica che favorisce il governo deimediocri e lo svuotamento appunto della democrazia.
LOSTILE SINCOPATO diDeneault è propedeutico ad affermazioni apodittiche sull’imperialismo culturaleche favorisce modelli di governance in paesi come Stati Uniti, il Canada el’Europa, ma li «esporta» nella Repubblica democratica del Congo, la Nigeria,il Sud Africa. E sebbene, la governance sia propagandata come sinonimo di softpower, è un modello di governo che manifesta una violenza evidente quando vieneassunto come dispositivo politico contraddistinto dal «partenariato» tra pubblicoe privato a favore di quest’ultimo. Governance significa alloraistituzionalizzazione di meccanismi di esclusione per tutti coloro chedissentono dal punto di vista dominante – quello delle imprese e dellemultinazionali – attraverso una continua valutazione dell’operato dei singoli elo sviluppo di una vera e propria antropologia della leadership che trae la sualegittimità nell’amplificare l’imperativo della performance e della trasparenzatra tutti i partecipanti agli organismi di governance.
DAQUESTO PUNTO divista – convergente con le tesi di Colin Crouch sulla postdemocrazia – ognitentativo di democrazia partecipativa deve essere vanificato o relegato adelementi insignificanti e marginali nella gestione della cosa pubblica. Nellagovernance, e qui Deneault rivela la sua nostalgia per la sovranità popolare ela rappresentanza politica, la buona democrazia è quella che favorisce ilpotere costituito, relegando a bizzarria ed eccentricità la pretesa che la vedecome il regime politico che esprime il «potere del popolo».
Rilevantesono infine le pagine che contestano l’interpretazione di Michel Foucault comefilosofo del neoliberismo. Alain Deneault ricostruisce i passaggi operati daiteorici della governance neoliberista dal termine governamentalità al terminegovernance. La governamentalità di Foucault, sintetizza l’autore, non èl’apologia della governance bensì la radiografia critica, cioè sovversiva,delle forme di biopotere (la figura pastorale dello Stato o il tema dei corpidocili votati all’obbedienza ne sono alcuni degli esempi proposti). Da qui ilgiudizio della governance come «meccanica disumana di un totalitarismo senzavolto».
ALDI LÀ DEI TONI edello stile enunciativo dei due autori, i loro saggi affrontano il nodo delleforme del Politico emerse nella grande trasformazione neoliberista. Sicollocano, cioè, su un sentiero di ricerca che dovrebbe però toccare altreesperienze di governo della società per sfuggire il rischio di unoccidentalismo seppur critico. Poco e nulla viene infatti dettagliato su comeregimi postdemocratici – per esempio quello indiano o cinese – si pongano ilproblema di come prevenire forme di conflitto presenti nella società; e di comeattuare la cooptazione delle forme di autorganizzazione della società civile.
Lasocietà armoniosa proposta da Pechino o la dinamica modernizzatrice promossa inIndia sono modelli di governance che non assecondano né lo svuotamento dellasovranità nazionale, come accade invece in Canada o nel vecchio continente. Enon contemplano neppure le figure degli stakeholders, facendo semmai levasull’invenzione di identità e di comunità immaginarie. Sono cioè varianti delmodello di governance piegate a specificità continentali, dove il soft powermanifesta tuttavia la stessa violenza celata dietro il velo dell’interessegenerale.

Nigrizia, 26 aprile 2018.

«Il 2018 si è aperto all’insegna di un rinnovato impulso nei rapporti tra Cina e Africa. Energia e infrastrutture in testa, con la Nuova Via della Seta, ma anche settori emergenti che puntano a una maggiore diversificazione economica. Il tutto sotto l’occhio critico e impotente di Washington. Non mancano però i timori legati al crescente debito africano e alla concentrazione di poteri nelle mani di Xi Jinping».«Cina e Africa sono più vicine che mai, e il 2018 segnerà un’ulteriore passo in questa direzione». Con queste parole Huo Jiangtao, fondatore della Settimana economica e culturale sino-africana, ha inaugurato la prima edizione dell’evento, che si è tenuto a Guangzhou dal 20 al 26 aprile. L’iniziativa ha visto la partecipazione di ambasciatori provenienti da 10 paesi africani – tra cui Nigeria, Angola ed Etiopia – oltre a molti esponenti del mondo imprenditoriale e artistico cinese.

Scopo dell’evento, secondo gli organizzatori, è quello di approfondire il clima di mutuo interesse economico e culturale tra le due regioni in vista della settima edizione del Forum per la Cooperazione Cina-Africa (Focac), che si terrà a Pechino il prossimo settembre.

E se il 2018 si è aperto all’insegna di nuovi sviluppi nei rapporti sino-africani, con i leader di Camerun, Namibia e Zimbabwe recatisi in visita ufficiale a Pechino nell’ultimo mese, non sono però mancate voci critiche in merito a tali relazioni.

Crescente insofferenza Usa

In un discorso tenuto lo scorso mese alla George Mason University, in Virginia, l’allora Segretario di stato Usa, Rex Tillerson, aveva duramente criticato il modello cinese di sviluppo economico in Africa, definendolo un esempio lampante di espansione neocoloniale per espropriare il continente delle sue risorse.
La Cina, secondo Tillerson, destabilizzerebbe i governi africani tramite la concessione di «prestiti predatori», trascinandoli in una crescente spirale di debito estero e dipendenza da esportazione di materie prime. Una critica tagliente, quella dell’ex Segretario di stato, ribadita in occasione della sua visita ufficiale in Etiopia nei giorni successivi.

Dal canto suo, Pechino non è rimasta in silenzio. Lin Songtian, ambasciatore cinese in Sudafrica, ha definito il discorso di Tillerson «un deplorevole tentativo di voler insegnare ai governi africani come comportarsi, nonostante essi siano abbastanza maturi da poter scegliere da sé i propri partner commerciali».

A sostegno delle dichiarazioni di Songtian, il presidente della Namibia, Hage Geingob, ha di recente affermato che «non c’è alcuna istanza neocoloniale nei rapporti tra Africa e Cina. Nessun altro paese al mondo è stato in grado di dare un tale valore aggiunto ai nostri prodotti come la Cina. Pechino ha fatto molto in quanto a trasferimento tecnologico e creazione di nuovi posti di lavoro». Posizione, la sua, comune ad altri leader africani, tra cui quelli del Camerun e del Kenya.

Investimenti a tutto campo

L’Africa, con le sue abbondanti risorse naturali e una disperata necessità di sviluppo infrastrutturale, è da alcuni decenni un partner attraente per la Cina.

Tra il 2000 e il 2014, il commercio sino-africano è passato da 10 miliardi a 220 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, Pechino ha concesso oltre 86 miliardi di dollari in prestiti commerciali a paesi africani, circa 6 miliardi annui. Nel 2015, alla 6ª edizione del Focac, il presidente cinese Xi Jinping ha promesso di rafforzare ulteriormente il ruolo della Cina come più grande creditore della regione: il paese, secondo il rapporto Foresight Africa 2018, detiene oggi il 14% del debito di tutta l’Africa subsahariana.

Non c’è dubbio che la 7ª edizione del Focac porterà a un ulteriore incremento dei rapporti economici tra le due regioni, con la concessione di nuovi prestiti per progetti di sviluppo delle infrastrutture. Fra questi spicca la Nuova Via della Seta, il ciclopico investimento infrastrutturale intrapreso da Pechino per rilanciare il suo ruolo nei traffici globali dopo il rallentamento dell’economia cinese registrato negli ultimi due anni.

Il progetto coinvolgerà alcuni paesi dell’Africa orientale come il Kenya e Gibuti, dove la Cina ha già stanziato oltre 300 milioni di dollari in nuovi progetti tra cui ferrovie, porti e gasdotti. Ed è proprio a Gibuti che il gigante asiatico ha inaugurato la sua prima base militare sul continente africano, tra le proteste degli Stati Uniti che vedono intaccata la propria egemonia nel Corno d’Africa.

Uno studio condotto nel 2017 dalla società di consulenza finanziaria Kinsley rivela come, nel complesso, gli investimenti cinesi nel continente africano stiano avendo un impatto positivo di crescente rilevanza, contribuendo alla creazione di nuovi posti di lavoro e al trasferimento di expertise e tecnologie alle imprese locali nell’industria energetica, infrastrutturale e della manifattura. A questi si è aggiunta recentemente un’espansione verso nuovi settori, dall’agricoltura all’assicurazione bancaria e alle telecomunicazioni, che rafforza i tentativi di diversificazione economica intrapresi negli ultimi anni da molti governi africani per ridurre la dipendenza dall’esportazione di materie prime.

A fianco di quella economica, avanza al contempo anche la cooperazione culturale. Nel 2016, Pechino ha aumentato da 200 a mille le borse di studio per studenti africani, ora più presenti in Cina che negli Stati Uniti e nel Regno Unito insieme. Il Mandarino sta penetrando rapidamente nel sistema scolastico di molti paesi subsahariani, come ha sottolineato Franklin Asira, presidente dell’Associazione di scambio sino-africana lanciata quest’anno a Nairobi: «Imparare il cinese è un’opportunità enorme per un giovane africano che voglia aprirsi molte porte in futuro».

Lo spettro del debito e l’ombra di Xi Jinping

Nonostante le indubbie importanti prospettive di sviluppo economico e sociale, non mancano tuttavia alcuni timori legati alla penetrazione sempre più estensiva della Cina nel continente. Sul piano economico, questi riguardano in particolare il crescente debito estero accumulato da molti stati africani nell’accettare prestiti da Pechino per progetti infrastrutturali.

Mentre alcuni analisti ipotizzano l’adozione di misure per la cancellazione del debito, altri suggeriscono, invece, strategie volte a ridurre l’egemonia cinese nei rapporti bilaterali. In particolare, la Cina dovrebbe aprire le gare d’appalto alla competizione internazionale, anziché vincolare i prestiti commerciali a uso esclusivo di società cinesi con condizioni contrattuali spesso poco trasparenti. Ipotesi però confinate per il momento sul piano teorico, a fronte invece di un problema concreto sempre più allarmante.

Un altro timore prettamente politico è espresso in un rapporto pubblicato da Cobus van Staden del South African Institute of International Affairs. Esso riguarda le ripercussioni nei rapporti sino-africani che potrebbe avere la decisione, presa lo scorso mese dal parlamento cinese, di abrogare i limiti di mandato presidenziali, spianando la strada a una presidenza a vita per Xi Jinping.

L’uomo forte di Pechino, secondo van Staden, detiene oggi l’immenso potere di poter plasmare a suo piacimento le relazioni con il continente nero, almeno per il prossimo decennio. Ciò non giunge certo come un segnale positivo in un contesto politico, quello subsahariano, ancora fortemente segnato da personalismi e carenze sul piano democratico e partecipativo.

A questo si aggiungono le preoccupazioni in merito alla futura espansione militare cinese sul continente, a fronte di un incremento dell’8,1% del budget militare della Cina per il 2018 e di una sua sempre maggiore presenza nelle missioni di peacekeeping sul suolo africano. In rapida crescita, inoltre, è l’export di armamenti “made in China” che vede oggi due terzi dei paesi africani avere in dotazione armi cinesi, inclusi paesi non democratici come il Burundi e la Guinea Equatoriale.

Limitare gli effetti negativi di tali dinamiche è la grande sfida che attende il continente nei prossimi decenni. Ma una cosa sicuramente è certa: quello tra Cina e Africa è un matrimonio tutt’altro che in crisi con il quale il mondo, l’Occidente in primis, deve e dovrà continuare a fare i conti.

la Nuova Venezia, Nell'Italia di oggi

Reggio Emilia. È notte già da un bel pezzo quando Mike arriva, in bicicletta, nella zona industriale a nord di Reggio Emilia. Fa non poca fatica a capire in che razza di posto sia capitato; luoghi del genere non li aveva mai visti prima. Controlla la via: è quella scritta sul contratto di lavoro. Si mette ad andare avanti e indietro, poi alla fine trova il posto. È un capannone, non tanto grande, dove si vedono le luci accese. Entra. Gli chiedono il nome, e lui fa vedere quel pezzo di carta ripiegato in quattro che gli hanno dato in un'agenzia interinale. Probabilmente Mike non ha le idee chiare su cosa sia un'agenzia interinale, però sa che sono quelle persone che gli hanno trovato un lavoro. Adesso lui un lavoro ce l'ha, a differenza di molti fra quelli come lui che all'Europa chiedono un pezzetto di futuro.

Mike è un nome di fantasia, ma questa storia è tutta vera. È la storia di uno dei tanti giovani che al primo impatto con il mondo del lavoro, in questo caso a Reggio Emilia, scoprono il significato della parola precariato, qui però portato al parossismo, all'assurdo, arrivando a sfiorare il grottesco. In più il nostro Mike non è una persona come tutte le altre: è un giovane uomo di pelle nera, in Italia con la qualifica di richiedente asilo. Ha un documento valido in tasca, è certamente un cittadino di qualche posto in Africa, ma non è un cittadino italiano. Può restare in Italia, ma al momento senza una precisa garanzia; nessuno, per ora, gli ha riconosciuto il titolo di rifugiato. Mike però non è un bighellone, non sta tutto il giorno a gironzolare. Va a scuola per imparare l'italiano, è un bravo allievo (e infatti l'italiano lo parla bene) e soprattutto ha voglia di lavorare. Proprio per questo la festa del Primo Maggio sembra pensata apposta per lui.
Mike è il modello perfetto del giovane lavoratore mal pagato al quale il diritto del lavoro non offre alcuna garanzia. Lui e centinaia di migliaia di altri si meritano di diritto un posto nelle sfilate della Festa del Lavoro che si svolgono in giro per la penisola. Questo ragazzo straniero è orgoglioso del contratto di lavoro che ha in tasca, anche se forse non capisce fino in fondo tutto quello che c'è scritto sopra. Gli hanno detto di presentarsi alle 10 di sera, lui è lì puntuale. L'orario di lavoro prevede il suo impegno fino all'alba, e il contratto è a tempo determinato, questo è scritto chiaramente. Paga: 7 euro e rotti all'ora, ovviamente lordi. Alla fine una giornata (anzi una nottata) lavorativa non frutta granché, ma è sempre meglio che starsene lì a impazzire senza fare niente. In azienda viene accolto e gli spiegano quello che deve fare, cioè spostare contenitori. Da una parte all'altra. Un lavoro pesante, semplice, non proprio gratificante, ma in futuro - Mike lo crede fermamente - ci sarà di meglio.
Poco alla volta arriva l'alba, è il momento di tornare a casa. Mike chiede a che ora dovrà ripresentarsi e a questo punto arriva la sorpresa. Il lavoro è finito, nel senso che non ce n'è più. Non c'è un domani. E la paga, quei pochi biglietti da dieci euro? Gli verranno consegnati in maggio. Sconsolato, Mike riprende la sua bicicletta e se ne va, mentre la maggioranza degli altri italiani esce per andare a lavorare. È convinto di essere vittima di una fregatura ordita da qualche truffatore, invece è anche peggio. È tutto perfettamente legale. Il contratto infatti dice che il rapporto di lavoro è a tempo determinato per la durata di 5 (cinque) giorni e che il periodo di prova è di 1 (un) giorno. Quindi dopo una sola notte di fatica muscolare non c'è bisogno di tanti giri di parole per lasciarlo a casa. Tutto regolare. Mike il Primo Maggio non ha grandi motivi per festeggiare; di sicuro ha un'ottima ragione, insieme a tanti altri giovani, per protestare.

Internazionale, 2


Piove parecchio, è un invernomonotono e lunghissimo, quando un paio di mesi fa arrivo a Milano senzaombrello, invitato dal collettivo studentesco del liceo Parini per parteciparea un incontro sul tema neofascismo e antifascismo. Siamo ancora dentro lacamera dell’eco della campagna elettorale, all’indomani dei fatti di Macerata,cioè dell’omicidio di Pamela Mastropietro edella tentata strage di Luca Traini.

Nell’aulamagna si sono assiepate due-trecento persone, molte con il quaderno in mano,pronte a farmi delle domande. Le guardo, poggio su una sedia la giaccafradicia, provo ad anticiparle: qual è secondo voi la differenza tra populismoe fascismo? Quanti di voi conoscono bene la storia di Giacomo Matteotti? Chi miparla di Gianfranco Fini e della svolta di Fiuggi? Poi leggo ad alta voce escrivo alla lavagna la definizione che dà Emilio Gentile nel suo libro Fascismo. Storia e interpretazione:

«Ilfascismo è un fenomeno politico moderno, nazionalista e rivoluzionario,antiliberale e antimarxista, organizzato in un ‘partito milizia’, con unaconcezione totalitaria della politica e dello stato, con una ideologia afondamento mitico, virilistica e antiedonistica, sacralizzata come religionelaica, che afferma il primato assoluto della nazione, intesa come comunitàorganica etnicamente omogenea, gerarchicamente organizzata in uno statocorporativo, con una vocazione bellicosa alla politica di grandezza, di potenzae di conquista, mirante alla creazione di un nuovo ordine e di una nuovaciviltà».

Che ne pensate? L’assemblea si accende, ragioniamo sullesfumature, il rapporto tra violenza e politica, il maschilismo implicito delfascismo, la questione della memoria storica. Alla fine delle due ore, leragazze del collettivo che l’hanno organizzato vengono da me: “Questo dibattitoè un’eccezione. Qui quasi nessuno è interessato alla politica, ci siamo noi,qualche fascista, per fortuna pochi, la lista che ha vinto le elezionid’istituto aveva come programma di cambiare il distributore automatico, e dicomprare un biliardino”.

Il Parini è un liceo storico del centro di Milano. Nel 1966 sulgiornale scolastico, La zanzara, uscì un’inchiesta intitolata “Laposizione della donna nella società italiana”. L’episodio viene ricordato daglistorici come una delle micce da cui si è innescata la rivoluzione culturale delsessantotto. Il pezzo fu ripreso dai mezzi di comunicazione nazionali einternazionali: tra gli studenti stava nascendo un’onda che di lì a pocoavrebbe raggiunto ogni spazio pubblico.

Oggi invece il Parini arriva sulle pagine dei giornaliperché durante una gita scolastica è stata trovata dell’erba inuna classe di quindicenni, o perché di notte alcuni laboratori sono stati devastati,con computer spaccati e disegni di celtiche sui muri. Gli studenti vengonodescritti al massimo come scapestrati, indisciplinati, maleducati, imbelli.

Chiavi di lettura facili

Lavulgata secondo cui le ragazze e i ragazzi di oggi sono disimpegnati, non sonoattirati dalla politica, sembra la chiave di lettura più facile per descrivereuna generazione. È la conclusione che hanno introiettato anche loro stessi –viene fuori quando ci parlo, prima e dopo leelezioni del 4 marzo. Nei fatti però, altrettanto spesso, propriocoloro che si autorappresentano così, mi fanno conoscere un altro tipo distorie che mettono in discussione platealmente questo ritratto.
Una è quella di Valeria Grassi, che ha 22 anni, è di Torino, elunedì 19 marzo è stata arrestata – insieme ad altri quattro ragazzi, di cuitre poco più che maggiorenni – perché partecipava al corteo contro il comizio di CasaPound in città. Erail 22 febbraio e alla fine ci sono stati scontri con le forze dell’ordine. Acasa sua sono stati trovati 800 adesivi con la scritta “Qui abita unantifascista” – realizzati dopo che a Pavia qualcuno dell’estrema destra ne aveva usati degli altri per indicare le case dimilitanti di sinistra.

Il fatto che Grassi avesse quegli adesivi a casa è diventata unaprova per chi l’ha accusata di resistenza a pubblico ufficiale. Da più di unmese è costretta all’obbligo di firma tre volte alla settimana al commissariatodi zona. Me lo ricorda lei stessa con un’alzata di spalle. Ha un tono sicuro eironico, e idee molto chiare su un sacco di cose, a partire dal modo in cui igiornalisti, i politici e perfino i giudici provano a definire l’antifascismo inItalia oggi: «C’era bisogno di elezioni come queste, in cui la polarizzazionetra fascismo e antifascismo è stata molto strumentalizzata, per compiereoperazioni di polizia del genere. La repressione è stata perfetta. Tieni contoche nelle premesse del giudice nell’ordinanza di arresto, c’è un passaggio incui si dice che le organizzazioni neofasciste sono l’espressione fisiologica diuna democrazia matura: ecco, questo è lo stato dell’arte».
La cerco quest’ordinanza, ed effettivamente resto a bocca aperta,quando a un certo punto leggo:
«L’obiettivo di impedire in ogni modo la libera manifestazione del pensiero avverso costituisce, invece, una forma di violenza politica che si pone alla stessa stregua del ‘fascismo storico’ da cui i manifestanti si professano, pure, così distanti».

L’antifascismo militante è da considerare un’imitazione delfascismo storico? Il giudice che ha arrestato Valeria Grassi e i suoi compagniavvalora una tesi che ormai circola da un po’, e cioè che esista un “fascismodegli antifascisti», strumentalizzando la citazione di volta in volta attribuita a Pier Paolo Pasolini o a Ennio Flaiano.
Grassiha invece le idee molto chiare su quello che è l’antifascismo oggi: «C’è chiusa l’antifascismo come pretesto, e chi pensa che significhi tornare a essereprotagonisti in politica. Da un punto di vista generazionale, è molto evidentenei nuovi movimenti femministi, nell’antirazzismo, nel ritrovarsi con il propriocorpo in piazza, magari per la prima volta. Quella diventa la tua educazionepolitica, quello è antifascismo».

L’antifascismo necessario

Anna lavedo spesso prima di conoscerla. Quattro, cinque volte nell’ultimo anno,durante alcune manifestazioni. La noto perché è sempre in prima fila neicortei: quello per il diritto alla casa, quello di Non una di meno, quellocontro l’alternanza scuola-lavoro. La chiamo per un’intervista poco dopo leelezioni: «È stata la prima volta che ho votato, e non c’era nessuna lista chemi convincesse fino in fondo, alla fine ho votato Potere al popolo».
Sta preparando la commemorazione per le Fosse Ardeatine: «Pertoccare con mano la storia della resistenza, nonostante le istituzioni sianospesso assenti». Ha 18 anni, è di Roma, fa parte di un collettivo studentesco edel coordinamento dei collettivi di Roma, e racchiude il senso di una militanzamolto ampia proprio nell’antifascismo: “Per me l’antifascismo è sempre qualcosadi necessario, il che vuol dire stare in piazza o lì dove c’è bisogno, edeliminare ogni atteggiamento paternalistico, spazzando via ogni dibattito sucome rifondare la sinistra, su come rivedere il rapporto con la storia. Ladomanda che mi faccio non è tanto cos’è essere antifascisti, ma cosa fal’antifascismo. E cerco di metterlo in pratica ogni giorno. Per me non si puòprescindere da modelli di società utopiche, ispirate dalle comunità zapatiste odal federalismo democratico di Öcalan”.

Sembra remotissima, ma l’esperienza dell’Unità di protezione delpopolo (Ypg) – soprattutto delle loro combattenti in Kurdistan – è un orizzontecomune. Come una specie di patria d’elezione tiene insieme i militanti di Roma,quelli di Milano, quelli di Torino.

L’ideadi partire e andare a rischiare la vita in Siria contro il gruppo Statoislamico o contro le truppe di Recep Tayyip Erdoğan ricorda i volontari europeinella guerra civile spagnola, soprattutto gli anarchici del Partito operaio di unificazione marxista (Poum),stretti a un certo punto nella battaglia tra fascisti e stalinisti.

Esperienza generazionale

Hoprovato a mettermi in contatto con Maria Edgarda Marcucci ossia Eddi – 26 anni,torinese, partita nel settembre 2017 per la Siria – nei giorni della battaglia di Afrin, ma eraovviamente impossibile, e lei stessa, ho scoperto attraverso la madre, mi hadetto che non vuole parlare di quello che succede lì finché non tornerà. Ma anche solo guardando il suo video, in cui spiega le ragioni dellasua scelta, viene da pensare alle prime pagine di Omaggioalla Catalogna (1938) di George Orwell.

La sua esperienza, nonostante sia così estrema e unica, èindiscutibilmente generazionale, e questo elemento è rivendicato da molti. Checi faccio qui, in quest’Italia dove è difficile immaginare un futuro politico osociale?, sembrano chiedersi alcune ragazze e ragazzi. Per alcuni di loroandare a combattere in Kurdistan non è così paradossale. Qualche giorno primaavevo letto il romanzo-reportage di Davide Grasso, Hevalen (2017).Anche lui è andato in Siria, e ha affiancato l’Ypg per otto mesi. Poi èritornato in Italia. Un brano all’inizio del libro racconta la sua vocazione.Il momento in cui ha deciso di arruolarsi ha coinciso con i momenti successiviall’attentato del Bataclan a Parigi, contraddistinti dallo sconforto per lerisposte delle istituzioni e il rifiuto di quelle della politica:
«Con Valeria Solesin, e con le altre vittime, avevo stabilito in segreto un canale personale. I giovani europei avevano pagato. Noi, la generazione Erasmus, precaria e in viaggio, emigrante e fuori sede. Eravamo stati scelti come bersaglio dai guerrieri di Allah perché espressione di un modo di vivere inaccettabile. Dopo pochi giorni il Bataclan avrebbe riaperto, nel primo anniversario della strage. Non ci sarei stato. Stavo tornando in Italia, per abbracciare la mia famiglia incredula. Il fasto dell’imminente cerimonia di Stato, in ogni caso, non mi interessava. La violenza era necessaria; ma ero partito per non delegarla a quegli squali in giacca e cravatta, ai loro intrighi e ai loro segreti, che infiniti Bataclan avevano distrutto nel resto del mondo».

La violenza necessaria. Quando leggo queste parole penso alrapporto tra violenza e antifascismo, una questione complicata. Su questo temalo storico Claudio Pavone ha scritto pagine importanti. Il suo libro Una guerra civile (1991)è una bussola per chi vuole capire la differenza fondamentale tra la violenzautile – necessaria contro il regime – e violenza fascista – nutrita dimachismo, di fatalismo, di autoritarismo, di sadismo.

Una brutta aria nellastoriografia

“Sulladifferenza tra le due violenze, quello che scrive Pavone è ancora un puntofermo”, ribadisce lo storico Carlo Greppi. Lo incontro a Roma a metà marzo, ciripariamo dalla pioggia sotto i portici dell’Auditorium di Renzo Piano, dove haappena presentato il suo nuovo libro. 25 aprile 1945 raccontala storia di tre padri della repubblica, Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri eLuigi Longo – uno monarchico, uno azionista, uno comunista.

Greppi spiega che per uno studioso oggi occuparsi di quello che èsuccesso in Italia tra il 1943 e il 1945 vuol dire essere dentro il dibattitopolitico – l’intervista con Giampaolo Pansa di Aldo Cazzullo incui Pansa sostiene che “la storia della resistenza come la conosciamo è quasidel tutto falsa, e va riscritta da cima a fondo” è uscita solo pochi giorniprima. Lo storico dice che “tira una brutta aria nella storiografia. Lastessa categoria dell’antifascismo, quanto più ce ne sarebbe bisogno, tanto più viene messa in discussione”. E aggiunge: “Siamo nella fase dell’anti-antifascismo, una posizione ormai condivisa. Pensa a tutti gli storici che dicono che qualsiasi cosa sia successa dopo il 1945, non si può parlare di fascismo perché il fascismo è finito con la guerra».
Per Greppi, questa interpretazione non tiene conto del fatto che «il fascismo – neofascismo, postfascismo – è tornato. Non è che sia stato sottovalutato un problema, è stato proprio negato».

Quello che è successo, dice Greppi, viene visto da molti come una specie di partita di calcio. “Ma non è vero che la lotta di liberazione è stata una guerra tra ‘neri’ e ‘rossi’: nella resistenza coesisteva un numero impressionante di anime. E soprattutto, per quanto riguarda i valori, parliamo di due universi che non possono coesistere, e si combattono. Un conto è ammettere la complessità e le contraddizioni nell’esperienza dei partigiani; un conto è ridurre tutto a un minestrone in cui tutto si somiglia e in cui una posizione vale l’altra: così si fa il gioco dei fascisti. È triste da dire, ma in Italia scagliarsi contro una presunta egemonia culturale, dare voce ai complottisti e ai fascisti, rende. Fare ‘controstoria’ è diventato un business”.

Da Macerata a Roma

Il 10 febbraio sono a Macerata per la manifestazione antifascista organizzata dopo l’attentato di Traini, insieme ad altre trentamila persone. Pioviggina, e fa talmente freddo che il corteo invece di sfilare sembra correre, circumnavigando le mura della città vecchia e le antiche porte che sono state chiuse con le camionette della polizia. Negozi, bar, saracinesche: tutto è chiuso.

Camminiamo in una città fantasma a cui il sindaco, in modo insensato, ha imposto un giorno di coprifuoco. Nonostante l’Associazione ricreativa culturale italiana (Arci), l’Associazione nazionale partigiani italiani (Anpi) e Libera non abbiano aderito, sono tante le loro sezioni che hanno scelto di partecipare; ed è pieno soprattutto di ragazzi di vent’anni o meno, e in tanti scendono in piazza per la prima volta.

La manifestazione è stata convocata dal centro sociale Sisma di Macerata e da altre associazioni. Il collettivo Antifa Macerata, che ha aderito alla manifestazione, qualche giorno dopo prova a ragionare su quello che è successo in un documento intitolato Si riparte da Macerata! Ma per andare dove?.

Le accuse sono molto pesanti. Alcune criticano Minniti, “a parole antifascista, non solo ha lasciato spazio alle organizzazioni neo-fasciste (…) ma le ha protette dai cortei antifascisti con manganelli, cannoni d’acqua e lacrimogeni”. Altre i sindacati, che hanno “attivamente partecipato allo smantellamento dei diritti del lavoro, alla precarizzazione delle nostre vite, all’allungamento dell’età pensionabile e alla limitazione sistematica del diritto di sciopero”. Altre ancora l’associazionismo e il suo “approccio assistenzialista portato avanti dalle proprie organizzazioni, fatto di appalti milionari e programmi che infantilizzano i migranti, alimentano il conflitto tra poveri e generano profitti attraverso la creazione di forme di dipendenza impedendo ogni possibilità di emancipazione e autodeterminazione”.

Anpi, Arci, Cgil e altre venti associazioni e partiti convocano una manifestazione antifascista due settimane dopo quella di Macerata, il 24 febbraio. Il tentativo è stato quello di provare a riavvicinare le due anime, ma il rischio è stato di averne evidenziato le differenze, anche generazionali. Di fronte all’attore Giulio Scarpati che introduce sul palco i vecchi partigiani, i manifestanti non riempiono metà di piazza del Popolo, a Roma. L’età media è sessant’anni. E se la lettura delle lettere dei condannati a morte della resistenza tocca sempre il cuore, il resto appare come una sfilata dovuta, in cui perfino gli appelli di Scarpati – “Guai a far naufragare la resistenza nel rituale” – sembrano un’excusatio non petita.

Poco dopo, il sociologo Federico Bonadonna mi dice: «Nessuno ha parlato di politiche reali di accoglienza, reddito, casa, lavoro, scuola. Il fascismo è il nemico ideale: consente di non mettere in discussione le drammatiche politiche antisociali che hanno portato il 12 per cento degli italiani in condizioni di povertà estrema e i giovani disoccupati al 20 per cento».

Da Palermo a Milano: l’impegno quotidiano

Il giorno stesso a Palermo la manifestazione è piena di studenti. Sfilano esibendo in modo situazionista dei rotoli di scotch – qualche giorno prima il dirigente provinciale di Forza nuova Massimo Ursino è stato aggredito e legato con del nastro adesivo. Giorgio Martinico, del centro sociale Anomalia, mi spiega che il gesto situazionista è una risposta alle provocazioni dei neofascisti: «Palermo fino a quindici anni fa era una città dove la presenza fascista era forte. Ci abbiamo messo tanto a combatterla. Abbiamo organizzato presidi e abbiamo negato ‘agibilità politica’ ai fascisti. Oggi a Palermo non c’è nessuna recrudescenza fascista. In campagna elettorale, gli esponenti di Forza nuova come Massimo Ursino hanno provato a cercare consenso, facendo le ronde nei quartieri popolari. Lo scotch è un modo per esprimere una posizione: basta piangersi addosso e denunciare, serve un antifascismo militante».

Gaia Benzi, 27 anni, ricercatrice di italianistica e attivista della palestra popolare Scup a Roma, ha provato a capire come si può andare oltre le reazioni estemporanee per riempire di senso questo antifascismo militante. In Costruire l’antifascismo oltre l’emergenza scrive:

«Le iniziative antifasciste all’apparenza più lodevoli e, diciamo così, ‘d’impatto’, se prive di un radicamento territoriale rischiano di essere percepite come ‘guerra tra bande’. E la contrapposizione sul piano chiamiamolo militare – di forza bruta, fatta di azioni che si concentrano principalmente sui partitini dichiaratamente fascisti, che vanno braccati e ostacolati e sfidati pubblicamente – risulta spesso incomprensibile nelle pratiche a una maggioranza silenziosa non fascista che pure potrebbe e dovrebbe essere inclusa nel discorso. Un antifascismo dal retrogusto machista, che rischia di essere indistinguibile a un occhio esterno. (…) Mi sembra che oggi ci sia bisogno soprattutto di potenziare quei ragionamenti e quelle pratiche che si concentrano nell’attaccare il retroterra che gonfia le vele delle destre: ragionare, cioè, su come levare ai fascisti il terreno sotto i piedi».

Essere antifascisti in un paese in cui il disimpegno e l’antipolitica sono sempre più diffusi e creano un terreno fertile per il neofascismo, non è semplice. «Siamo i figli di una generazione di cinquantenni che passa il proprio tempo a insultarsi su Facebook”, mi aveva detto uno studente di sedici anni alla manifestazione di Non una di meno a Roma l’8 marzo. «Il fascismo è l’espressione di un vuoto culturale», dice Carlo Scarponi, giovane militante di Antifa Macerata, citando Cultura di destra di Furio Jesi. Quando gli chiedo quali sono i suoi libri di riferimento, mi risponde elencando testi spesso citati anche dalle ragazze e dai ragazzi che ho incontrato in questi mesi: dall’intersezionalità delle lotte di Angela Davis alla resistenza climatica di Naomi Klein. Femminismo, postcolonialismo e molto marxismo: dopo anni di antiintellettualismo – anche a sinistra – tante e tanti guardano ad autrici e autori radicali per costruirsi una biblioteca politica.

A Milano l’antifascismo è un impegno quotidiano. Il gesto del sindaco Beppe Sala – che il 18 marzo ha portato dei fiori sulla targa che ricorda Fausto e Iaio, uccisi quarant’anni fa da militanti neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari – sarebbe difficilmente replicabile in altre città.

In via Monte Rosa incontro uno degli attivisti storici dello spazio sociale Cantiere, Leon Blanchaert. Blanchaert riassume in poche parole il cuore delle battaglie di ragazze e ragazzi di oggi: «Gli studenti sono riusciti a ritrovarsi intorno a due mobilitazioni, gli Studenti meticci e Non una di meno, quindi intorno all’antirazzismo e all’antisessimo. Ce l’hanno fatta meno su temi loro, come l’alternanza scuola».

È quello che mi conferma L.M., 26 anni, attivista del Cantiere da quando era un ragazzino: «La riconquista di spazi di libertà e diritti per tutti – per neri gialli verdi blu, etero lesbiche gay trans – è il modo in cui le giovani generazioni vengono a contatto con l’antifascismo». Ma aggiunge anche un’altra considerazione: «Certo se tutti i giorni sei bombardato dalla televisione che parla di invasione o dalla balla dei 35 euro al giorno per gli immigrati, non è difficile capire come si forma una cultura razzista. Per fortuna Milano è una metropoli, in cui se escludi le cinque-sei scuole del centro, hai studenti di tutto il mondo: cinesi, arabi, indiani, e lì è difficile che attecchisca un’idea per cui c’è chi vale di più e chi di meno».

Sono passate due settimane dalle elezioni, e Salvini sembra riuscito a riportare l’estremismo di destra al centro della scena – a Milano, per esempio, strizzando l’occhio a movimenti neofascisti come Lealtà e azione. La sua vittoria, mi dice Blanchaert, va inquadrata in un quadro più complesso: “Esiste una questione che riguarda il suffragio universale e che politicamente nessuno affronta – anche se in parte è stato fatto con le manifestazioni per lo ius soli”.

Per spiegarla, Blanchaert invita a tenere presente alcune cifre: “Quasi il 12 per cento delle persone che vivono in Lombardia è straniero. Molti sono residenti qui da tanto tempo, ma non hanno diritto di voto”. E analizza le conseguenze di questo diritto negato: “Bisogna anche considerare che l’esclusione dei cittadini stranieri dal voto genera numerosi effetti sul dibattito pubblico. Per esempio i partiti non si devono preoccupare di urtare le sensibilità di chi non vota. A Milano, dove vivono 1,3 milioni di persone, hanno votato Lega e Fratelli d’Italia circa 130mila elettrici ed elettori su un milione: quindi, poco più del 10 per cento”.

Nuovi modelli di impegno

A Napoli la situazione dell’antifascismo si concretizza in altre storie ancora. La retorica nazionalista è presente nelle scuole, anche se in classe ci sono ragazze e ragazzi di tutto il mondo. Errico F., 17 anni, studente del liceo scientifico Vincenzo Cuoco e militante del Coordinamento Kaos, mi racconta le conferenze sull’antirazzismo che sono state organizzate nell’ultimo anno parallelamente alle partite dell’Afro Napoli – la squadra di calcio composta quasi per intero da ragazzi senegalesi, nigerini, tunisini, capoverdiani che abitano tra il rione Sanità e piazza Garibaldi – che oggi gioca nel campionato di Promozione.

L’esempio che cita Errico lo ritrovo in decine di altre esperienze che mi vengono raccontate nelle manifestazioni, nei cortei, nei centri sociali, nelle reti antifasciste durante questo ultimo anno: “Devi assolutamente sentire x, ti do il numero di y, c’è il compagno z a Genova che, devi conoscere quello che fanno a Padova, a Catania, a Bologna…”. Tutti mi raccontano di squadre di calcio formate da ragazzi italiani e stranieri, di palestre popolari, di occupazioni abitative. La militanza nasce e si sviluppa in questi contesti in modo imprevisto.

È questo il modello che si è imposto dopo la crisi dei centri sociali, sgomberati o diventati – negli anni duemila – luoghi nostalgici, in cui spesso non c’è stato un ricambio generazionale tra i militanti. Alcuni, poi, sono stati trasformati in trattorie, pub, discoteche…

Giulio Bartolini, responsabile della palestra popolare Valerio Verbano a Roma e uno dei fondatori del Coordinamento nazionale sport popolare (Conasp) me lo spiega bene. Chiacchieriamo davanti ai grandi murales che raffigurano Valerio Verbano, giovane attivista di sinistra ucciso nel 1980, e Carlo Giorgini, militante e maestro di karate morto qualche anno fa di malattia: «La palestra non può essere né una nicchia né un contenitore di indottrinamento, ma un luogo a cui le persone possono accedere senza distinzioni, soprattutto economiche. Fare sport oggi è un lusso: le palestre normali ti chiedono cento euro al mese. Noi accogliamo. O meglio, spesso andiamo a prendere quei ragazzini che stanno sul muretto a pippare cocaina alle quattro del pomeriggio e li portiamo dentro. Vengono da famiglie complicate, spesso i genitori sono analfabeti. Che faccio? Mi metto a spiegargli Karl Marx? Il passaggio dalla pratica sportiva all’educazione ai valori o all’attivismo viene da sé, frequentando gli altri iscritti. C’era un ragazzino che faceva boxe che pensava che Valerio Verbano ero io, che m’ero intestato la palestra a nome mio. Gli ho spiegato tutta la storia di Valerio, e quest’anno la sorella in terza media c’ha scritto la tesina. Ci si sono ritrovati, è la loro storia”.

La suggestione del radicalismo di destra cresce quanto più diminuisce l’idea di fratellanza, prossimità, giustizia, ossia l’idea democratica

Un altro ragazzo, Giulio B., 28 anni, ha messo per la prima volta piede nella palestra a 18 anni e non se n’è più andato. Oggi fa l’educatore e mi racconta che “il passaggio di consegne tra generazioni è difficile”. Spiega che “è difficile trasmettere la memoria delle lotte della città e del quartiere, dalla resistenza alle lotte recenti, come quella per la casa” e aggiunge che “la scuola non ci aiuta”.

Del difficile rapporto tra generazioni – una questione cruciale – mi aveva parlato anche Carlo Greppi, che dall’inizio degli anni duemila organizza i viaggi della memoria: «All’inizio eravamo poco più grandi dei ragazzi che accompagnavamo, adesso potremmo essere i loro genitori. Un’esperienza importante, duemila ragazzi all’anno che con la nostra associazione Deina accompagniamo in vari lager nazisti in Europa. È questo, credo, essere antifascisti: mostrare le terrificanti conseguenze di un’ideologia che nel novecento ha messo a ferro e fuoco il mondo. Li portiamo su quelli che David Bidussa ha definito come ‘i luoghi del futuro che non vogliamo avere’».

Il ruolo della scuola

Dunque, la scuola. La scuola che «non ci aiuta», nelle parole di Giulio B., e quella che organizza i viaggi della memoria citati da Greppi. È di un anno fa il rinnovo del protocollo d’intesa siglato dall’Anpi e dal ministero dell’istruzione per “divulgare i valori espressi dalla costituzione repubblicana e gli ideali di democrazia, libertà, solidarietà e pluralismo culturale”. Perché è chiaro, come dice Gianfranco Pagliarulo, vicepresidente dell’Anpi, che «la suggestione del radicalismo di destra cresce quanto più diminuisce l’idea di fratellanza, prossimità, giustizia, ossia l’idea democratica».

Tuttavia, durante l’incontro che l’associazione dei partigiani ha organizzato un paio di mesi fa – attraverso la rivista Patria indipendente – tra storici dai cinquant’anni in su e ragazze e ragazzi di vent’anni di varie organizzazioni, è venuto fuori un confronto che in parte critica l’approccio dell’Anpi.

Martina Carpani, 21 anni, coordinatrice nazionale di Rete della conoscenza, replica alla visione di Pagliarulo, che le sembra paternalista, insistendo sulla questione generazionale e dicendo che non si può non tenere conto di una disoccupazione giovanile al 33 per cento: “L’idea della politica come progetto, come trasformazione radicale, è andata sempre di più scomparendo, fino a morire, e questa scomparsa secondo me è stata alla base della frattura tra le istituzioni, i partiti, e le generazione più giovani. Non c’è la volontà di gestire i processi di trasformazione. I famosi braccialetti di Amazon sono reali, la precarietà è reale, ma mentre per noi è al centro di ogni discussione, non lo è nei discorsi delle generazioni più vecchie. Io ho l’impressione che la politica difenda se stessa e voglia ritornare a orizzonti precedenti alla crisi. Come se si potesse tornare indietro”.

Jacopo Buffolo della Rete degli studenti medi aggiunge:«A scuola non si studia cos’è successo dopo la seconda guerra mondiale, non sai cosa sono gli anni di piombo, né cos’è il neofascismo. E non è solo un problema di programmi, ma anche di come vengono messi in pratica. Esci dalle scuole superiori, finalmente puoi votare, ma non hai un’idea precisa. Il fascismo è l’ultimo modello di stato che ti viene comunicato a scuola. Non si arriva quasi mai ad affrontare la repubblica, e i processi politici da cui è nata e che la governano. Questo è un tema fondamentale, sul quale bisogna andare ad agire».

Come mi aveva fatto notare Davide Grasso, il ragazzo che è partito per andare a combattere con l’Ypg, sono cambiate molte cose nel passaggio tra il novecento e gli anni duemila: «Oggi chi lotta contro il fascismo è completamente diverso rispetto a chi lo faceva quindici anni fa, perché allora la cultura antifascista non veniva messa in discussione. Oggi per molti il fascismo è solo un’ideologia tra le tante, e non vedono l’antifascismo come qualcosa di giusto».

Mentre ci avviciniamo al 25 aprile, la questione ritorna in tutta la sua complessità: che ne facciamo dell’antifascismo? La sua crisi conclamata, analizzata nel 2004 da Sergio Luzzatto nel saggio intitolato proprio La crisi dell’antifascismo, cos’ha prodotto? Lacerazioni interne? Una nuova richiesta di radicalismo?

Ne parlo con lo storico David Bidussa. Avevo letto anni fa il suo Dopo l’ultimo testimone (2009), dove rifletteva su come tramandare la memoria dell’olocausto o della resistenza dopo la morte dei testimoni diretti. Mi aveva fatto cambiare prospettiva allora e oggi ci riesce di nuovo: «L’antifascismo è diventato qualcosa di archeologico. Ma oggi, per capire cosa sia, bisognerebbe vederlo come un’analisi critica delle ideologie autoritarie. Se lo consideri come l’espressione di una determinata epoca storica, allora implicitamente decidi che ha vinto Croce che pensava che il fascismo fosse una parentesi. L’antifascismo è un insieme di valori, idee, domande che riguardano i rapporti tra le persone, tra cittadini e potere, tra forze politiche. Domande, idee, valori che dovrebbero essere sul piatto della politica anche oggi. Per esempio, in questi anni si parla molto del fatto che le nuove generazioni hanno paura di non avere un futuro. Come reagiamo a questo? Chi si dichiara fascista giudica fallimentari le ricette usate finora e si rifà a un passato nostalgico, idealizzato, qualcosa che assomiglia a un sogno infranto. Mentre chi si dichiara antifascista prende quello che c’è di buono nelle esperienze passate e lo usa per affrontare le sfide del presente. Le risposte a queste sfide non sono la chiusura, la nostalgia, il nazionalismo, ma l’inclusione, la non discriminazione, la capacità di pensare al domani con una visione di crescita condivisa e governata».

il manifesto, 27 aprile 2018. postilla

Come ampiamente documentato sul sito online Roars , dal prossimo giugno maestri e docenti della scuola elementare e media dovranno certificare le competenze dei loro allievi, utilizzando i nuovi modelli nazionali predisposti dal Ministero dell’istruzione.

Per i ragazzini delle medie, la scheda di certificazione conterrà una parte dedicata alle 8 competenze europee redatta dai loro insegnanti ed una parte a cura dell’Invalsi, che registrerà i risultati ottenuti ai test di Matematica, Italiano ed Inglese, diventando di fatto fonte privilegiata di informazioni pubbliche sui livelli di apprendimento del singolo allievo.

Per i bambini delle elementari, la scheda di certificazione è riferita alle otto competenze europee, tra cui proprio quella denominata «spirito di iniziativa e imprenditorialità», che in Italia è diventata semplicemente «spirito di iniziativa», pur mantenendo in nota il riferimento originario all’entrepreneurship, l’imprenditorialità. I consigli di classe delle varie scuole del paese dovranno adoperarsi per «testare» la capacità di «realizzare progetti», essere «proattivi» e capaci di «assumersi le proprie responsabilità» fin da piccoli.

Fin da bambini «in una logica di verticalità», spiega la recente circolare ministeriale che suggerisce «percorsi di educazione all’imprenditorialità nelle scuole superiori», è importante orientare gli studenti verso «una forma mentis imprenditoriale», l’ «assunzione del rischio» e delle «proprie responsabilità». Tutte cose utili non solo per diventare imprenditori veri e propri – si chiarisce – ma in qualsiasi contesto lavorativo e di cittadinanza attiva. Il futuro cittadino-imprenditore globale, suggerisce la letteratura economico-educativa internazionale, va costruito fin da piccolo.

«Starting strong», scrive l’Ocse nella recente pubblicazione Early Childhood Education and Care, dove parole nobili come educazione e cura, non sono più diritti universali dell’infanzia di ciascuno, ma mezzi e strategie finalizzate e re-interpretate in funzione di un obiettivo: «gettare le fondamenta dello sviluppo di skills». Il futuro cittadino transnazionale è cittadino solo se attivo. Nei documenti scolastici la parola cittadinanza non esiste più, se non in concomitanza del termine «attiva». La qualificazione è diventata da qualche tempo necessaria, come se non potesse esistere un cittadino in-attivo, in-competente: un cittadino contemplativo, che non produce nulla. Che gioca, legge, colora, perde tempo. Almeno alle scuole elementari.

L’approccio alla realtà, competitiva e perennemente incerta. Il report europeo da cui nasce il modello Entrecomp, quadro europeo di riferimento per l’educazione imprenditoriale richiamato dalla normativa ministeriale, si pone il problema pedagogico – come insegnare l’imprenditorialità – in un paragrafo specifico: «La componente conoscenza non rappresenta una sfida per l’educazione imprenditoriale metodi come letture o elaborazione delle informazioni non sono appropriati». Continua: «Elementi di competitività vanno introdotti gradualmente dalla primaria alla secondaria, per dare agli allievi l’opportunità di convalidare le loro idee e l’ambiente imprenditoriale/di start up [in cui operano]». Il paradigma della competitività, pilastro concettuale del manifesto La Buona Scuola fin dalle premesse – dove si afferma che «bisogna dotarsi di quel capitale umano per tornare a crescere, competere, correre» – è alla base del pensiero imprenditoriale.

Insegnare a pensare, ragionare e progettare in maniera imprenditoriale significa in sintesi: stabilire un equilibrio ambivalente e schizofrenico tra cooperazione e competizione; sviluppare la capacità di ridefinire continuamente i propri obiettivi; gestire l’incertezza in una realtà non predicibile e non controllabile.

Il paradigma pedagogico è ormai esclusivamente quello economicistico, in una cornice di vero e proprio darwinismo sociale. Come scrive Sarasvathy, autore di riferimento del cosiddetto effectuation approach, richiamato dal Sillabo europeo :«Un imprenditore sa che le sorprese non sono deviazioni dal cammino. Sono la norma, la flora e la fauna del paesaggio da cui ciascuno impara a forgiare il proprio percorso nella giungla».

Siamo proprio convinti di voler introdurre, fin dalle elementari, un simile atteggiamento nei confronti della vita e del futuro? Di trasformare l’infanzia in un “paese dei mostri selvaggi” le cui cifre più profonde siano l’incertezza e la destrezza, la competitività, l’arrivismo? L’arte di vendersi imparata sui banchi di scuola?

Dovrebbe essere noto. Alla macchina del “pensiero unico”, strumento essenziale per il dominio del neoliberisomo, l’intellettuale vero fa paura. Infatti dovrebbe essere una persona che aiuta a comprendere come va il mondo, perché va male e come si dovrebbe cambiarlo perché vivessero meglio le persone, e gli altri esseri, che lo popolano o lo popoleranno, . Quindi il suo requisito essenziale dovrebbe essere il pensiero critico. Dovrebbe saper vedere, e raccontare, non solo la verità delle cose così come esse vengono esposte dai predicatori del “pensiero unico”, ma soprattutto quelle che dietro le apparenze si nascondono.
La realtà è complessa: è figlia di una moltitudine di culture, filosofie, condizioni storiche e sociali. Quindi il primo compito per i padroni del “pensiero unico” è semplificarle: ridurre la cognizione e il giudizio in un sistema binario. Il padrone, e per lui il sistema Invalsi, sulla base del quale si valuta (e quindi si progetta e si costruisce) il processo formativo ti presenta un insieme ricco e articolato di domande, a ciascuna delle quali puoi rispondere solo SI oppure NO.

Comune.info-net, 2

La distruzione delle relazioni per avanzamento dei rapporti mercantili è una minaccia che qualcuno ha deciso di combattere riempendo di nuovi contenuti i meccanismi stessi che hanno contribuito al deragliamento della società. Ed ecco l’emergere dell’economia solidale: esperienze di produzione, acquisto e credito gestite vissute non con lo spirito della concorrenza, della sopraffazione, del profitto, ma della cooperazione, del rispetto, della ricerca del bene di tutti.

A fare da apripista è stato molti anni fa il commercio equo e solidale nato con l’obiettivo di garantire condizioni dignitose ai piccoli produttori del Sud del mondo. E qualche tempo dopo nacquero i gruppi di acquisto solidale, famiglie che si mettono insieme per comprare prodotti biologici e a km zero direttamente dai produttori locali, non solo con lo scopo di salvaguardare l’ambiente e la salute, ma anche di fare crescere formule economiche che esaltano l’inclusione, le relazioni umane, il sostegno reciproco. Un modo per dire che prima vengono le persone e poi gli affari.

E quando si fa questa scelta, inevitabilmente sboccia la solidarietà, la trasparenza, la partecipazione, tre ingredienti che questo sistema ha messo dietro la lavagna, ma che possono dare risultati strepitosi se rimessi al primo posto. Un esempio sono i prezzi concordati insieme fra produttori e famiglie acquirenti, tenendo conto dei bisogni e delle difficoltà delle due parti. Oppure l’abitudine di prefinanziare i produttori pagando la merce con mesi di anticipo sulle consegne per aiutarli a superare i periodi difficili. Ed ancora l’attenzione alle famiglie in difficoltà e la disponibilità del resto del gruppo a venire in loro soccorso, facendosi carico di parte della loro spesa. Può anche succedere che a partire dalle necessità del gruppo d’acquisto, si avviino progetti che oltre ad essere un modello di rispetto ambientale sono opportunità di lavoro per categorie svantaggiate come migranti e disabili.

Quando l’attenzione si sposta dal denaro alle persone possono anche succedere miracoli come quello di Firenze dove si è formato un gruppo di microcredito che effettua prestiti a tasso zero, in linea con la posizione degli antichi Padri della Chiesa che per voce di San Tommaso d’Acquino definivano l’interesse un’ingiustizia. L’elemento umano è così preponderante rispetto a quello monetario che ogni persona richiedente il prestito è affiancato da “accompagnatori” che lo aiutano a cercare soluzioni durature per uscire dalla propria posizione di difficoltà.

Iniziative analoghe stanno nascendo anche in altre città spesso per iniziativa di realtà ecclesiastiche, a dimostrazione che l’economia solidale è possibile ed è efficace. E per rafforzarsi e acquisire maggiore visibilità, si è costituita la Rete di Economia Solidale che oltre a voler permettere alle molteplici esperienze di incontrarsi e dialogare, vuole stimolare la sperimentazione di altre formule innovative non solo nell’ambito del mercato e dell’economia di vicinato, ma della stessa economia pubblica dove c’è bisogno di rinsaldare la cultura della partecipazione, della democrazia, dell’equità, dei diritti, dei beni comuni. Siamo in un momento di passaggio: abbiamo chiaro cosa dobbiamo abbandonare, ma non ancora verso dove dobbiamo andare in forma compiuta. Per questo le sperimentazioni sono di fondamentale importanza: ci aiutano a mettere insieme un nuovo puzzle, ben sapendo che la cornice dovrà essere riscritta da un nuovo pensiero, non di matrice economica, bensì politica, morale, ambientale, addirittura psicologica. Perché l’economia non è il risultato di sé stessa, ma della visione che abbiamo del mondo e dei valori che ci portiamo nei nostri cuori.


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Sbilanciamoci, Newsletter n. 550, 24 aprile 2018. La truffa per gonzi del debito pubblico: un manganello per obbligarci a ridurre i nostri redditi per far crescere ancora i loro. Con numerosi riferimenti

Il problema dell’Italia è il debito pubblico. Non è nemmeno un argomento su cui discutere, ma un assunto evidente. Posto che il debito pubblico è eccessivo e ci strangola, ragioniamo pure di quali siano le strategie più efficaci per ridurlo il più velocemente possibile. Ma è davvero così, o è forse necessario fare un passo indietro?

Più che l’ammontare del debito pubblico, il faro che guida ogni scelta di politica economica è il rapporto tra debito e PIL. Cerchiamo di capire perché con un esempio semplificato. Ho un debito di 20.000 euro. E’ tanto o poco? Dipende. Se sono disoccupato e nullatenente, è enorme. Se guadagno un milione di euro l’anno, sono spiccioli o poco più. In altre parole, il valore di un debito va riportato a quanto si guadagna. L’esempio è forse fuorviante, anzi troppo spesso si sente dire che uno Stato dovrebbe comportarsi “come un buon padre di famiglia”, mentre la contabilità e gli obiettivi di una famiglia, un’impresa e una nazione sono completamente diversi. L’idea è comunque di misurare il debito in rapporto alla ricchezza prodotta per capirne la sostenibilità.

Anche qui sono però necessarie alcune precisazioni, soprattutto considerando quanto il rapporto debito/PIL definisca le politiche europee e italiane. Se dobbiamo accettare l’austerità, se il mantra degli ultimi anni è che “non ci sono i soldi”, se dobbiamo tagliare su servizi pubblici, pensioni o sanità, il problema è uno solo: dobbiamo ridurre il rapporto debito/PIL, e dobbiamo farlo a marce forzate. Il fiscal compact prevede di rientrare in 20 anni al famigerato 60%, mentre l’Italia viaggia oltre il 130%. Il rapporto debito/PIL è il cardine attorno al quale devono girare le politiche di uno Stato sovrano: possiamo rimettere in discussione il welfare, i diritti conquistati in decenni di lotte, l’erogazione dei servizi di base, ma non un rapporto scolpito nella pietra. Una verità assoluta e immutabile, mentre i diritti fondamentali diventano variabili su cui giocare per rispettarla.

Cerchiamo allora di capire se questo rapporto sia davvero l’unico parametro da prendere in considerazione. Con i limiti ricordati in precedenza, torniamo a un esempio semplificato. Guadagnate 20.000 euro l’anno, e avete un debito di 20.000 euro con vostro fratello, che non vuole nessun interesse e non ha fissato nessuna scadenza. Seconda situazione. Guadagnate sempre 20.000 euro l’anno, e avete un debito di 10.000 euro, ma è ora un debito di gioco, contratto con un pericoloso strozzino che vi chiede interessi del 30% al mese, arrivando a minacciarvi se sgarrate di un solo giorno. Il rapporto tra debito e ricchezza annuale è ora al 50%, la metà rispetto all’esempio precedente. In quale delle due situazioni preferireste però trovarvi? L’esempio – ripetiamo nuovamente, estremamente semplificato e persino inesatto se riportato tout court a uno Stato – può chiarire come né l’ammontare del debito né il suo rapporto alla ricchezza prodotta siano gli unici elementi da considerare. Sono almeno altrettanto importanti altri fattori: quanti interessi paghiamo, la scadenza, a chi lo dobbiamo e altri ancora.

E’ stupefacente quanto poco ci si domandi – tra statistiche, impegni e dichiarazioni onnipresenti sulla riduzione del debito – per cosa lo Stato si stia indebitando. Torniamo ancora all’esempio semplificato. Ho un contratto a tempo indeterminato da 20.000 euro l’anno. Vado in banca e chiedo un mutuo da 200.000 euro, a 30 anni, per l’acquisto della casa. Qualsiasi banca concederebbe tranquillamente un tale prestito. Eppure il rapporto tra debito e guadagni annui è del 1.000%.

Secondo caso. Guadagno sempre 20.000 euro l’anno, e ne prendo in prestito 10.000 per andarmeli a giocare al casinò. Il rapporto debito / reddito è ora piuttosto contenuto, al 50%, ma chi considererebbe questa un’operazione saggia? Il “buon padre di famiglia” è quello che si indebita poco, o quello che usa bene le risorse a disposizione, mentre sia l’importo sia il rapporto tra debito e reddito annuo sono del tutto secondari?

Tre domande

Torniamo ora al caso Italia, e al suo debito per definizione “eccessivo”. E’ incredibile che nelle discussioni su austerità, fiscal compact e dintorni ci sia così poco spazio riservato al merito della questione. Il problema è il rapporto debito / PIL o come viene usata la spesa pubblica? Se al di à degli slogan e dei dogmi volessimo entrare nel merito, forse bisognerebbe partire da alcune domande:

1) Perché dalla metà degli anni ‘90 al 2008 – senza austerità e senza fiscal compact – il rapporto debito / PIL è quasi costantemente sceso, passando da oltre il 120% al 103%?

2) Perché solo dopo il 2008 – tra l’altro proprio durante l’applicazione delle politiche di austerità – si è impennato arrivando a superare il 130%?
3) A cosa serve il debito pubblico, o, in altre parole, dove vanno a finire i soldi del debito? Com’è possibile che l’Italia per 20 anni abbia sempre avuto – con l’eccezione di un solo anno – un avanzo primario (ovvero più entrate che uscite al netto degli interessi sul debito), ma non veniamo fuori dalla spirale del debito?
Il punto centrale
Quest’ultimo punto in particolare è centrale. Lo Stato italiano ogni anno incassa più di quanto spende. Approssimando, da almeno venti anni tasse e imposte superiori ai servizi erogati, alla faccia dei ritornelli sullo “Stato spendaccione” e secondo cui “viviamo al di sopra delle nostre possibilità”. Se il rapporto debito / PIL continua a crescere, i motivi sono essenzialmente due.
Il primo è l’ammontare degli interessi che paghiamo ogni anno sul debito. Realizziamo avanzi primari (saldo tra entrate e uscite), ma andiamo comunque in deficit a causa della spesa per interessi. Il secondo motivo è che nel rapporto debito / PIL non conta solo il numeratore, ma anche il denominatore. Se il PIL non cresce (o diminuisce come avvenuto negli scorsi anni), sono guai.
Se questa è l’analisi, le soluzioni che ci hanno imposto funzionano? La risposta è semplice: no. L’austerità e i tagli alla spesa pubblica non fanno calare la spesa per interessi, se non in maniera forse indiretta – i sostenitori dell’austerità insistono sull’argomento secondo cui i mercati finanziari si fiderebbero più di noi se tagliassimo la spesa pubblica, permettendoci di finanziarci a tassi più bassi. Altri studi indicano come in realtà l’effetto dell’austerità sul debito/PIL sia opposto. E non sembrano essere studi di parte, anzi.
Negli scorsi anni una ricerca del FMI chiariva come, per la maggior parte delle economie occidentali, l’austerità provocava una caduta del PIL superiore a quella del debito, ovvero un rapporto debito/PIL che continuava ad aumentare. Secondo alcuni quotidiani statunitensi un “clamoroso mea culpa” al quale non sono però seguite revisioni delle politiche economiche. Con l’austerità parliamo quindi di ricadute sul rapporto debito / PIL incerte e tutte da verificare, a fronte di impatti sociali e in termini di diseguaglianze immediati e decisamente pesanti.

Strade alternative

Sarebbero allora possibili strade alternative? Sicuramente si. Alcuni anni fa due economisti hanno avanzato una proposta nota come “Padre Plan”, che prendeva di mira non l’ammontare del debito, ma la spesa per interessi. Semplificando al massimo, prevedeva che la Banca Centrale Europea scambiasse titoli di Stato dei diversi governi europei con titoli a zero interessi e senza scadenza. Tornando all’esempio precedente, ho un debito con uno strozzino, a tassi di interesse e scadenze che mi stanno massacrando. Mio fratello mi presta i soldi per estinguerlo. Il debito ora ce l’ho con lui, ma è senza scadenza e senza interessi.
Mi impegno a restituirglielo poco per volta. Fuor di metafora, invece che essere indebitati con i mercati finanziari, sotto la scure dello spread, del giudizio dell’oligopolio delle agenzie di rating e succube della speculazione finanziaria, mi indebito a tasso zero e senza scadenza con una banca centrale, impegnandomi a diminuire questo debito con tempi “umani” e non con quelli assolutamente folli dettati dal fiscal compact.

La principale obiezione dei “rigoristi” contro questa o analoghe soluzioni, è che senza pressioni “non faremmo i compiti”. Italiani fannulloni che devono essere costretti dal famigerato vincolo esterno (in questo caso l’UE e i suoi diktat) perché per nostra natura siamo deboli e corrotti. Nel merito, venti anni di avanzo primario, e una costante diminuzione del rapporto debito/PIL tra il 1995 e il 2008 mostrano la fallacia di un tale argomento. Come detto sono proprio gli interessi sul debito e l’austerità a trascinarci a fondo. Ancora prima, è del tutto inaccettabile l’impianto teorico che nuovamente pone parametri economici arbitrari come obiettivi in sé e diritti fondamentali dei cittadini come variabili su cui giocare. Il debito come arma, spread e minacce come strumenti per smantellare welfare e conquiste del lavoro.

In ultimo, anche volendo dare credito alla necessità di “fare i compiti”, il Padre Plan non prevedeva un intervento della BCE per scambiare l’intero debito pubblico. Potrebbe essere la parte eccedente il famigerato 60% o anche meno. Si tratterebbe comunque di una boccata di ossigeno da decine di miliardi di euro l’anno per lo Stato italiano, che eventualmente potrebbe continuare a finanziarsi sui mercati (a tassi inferiori, avendo conti pubblici migliorati) per la parte rimanente.

Liberare risorse dalla spesa per interessi significherebbe avere un margine di manovra per investimenti pubblici che potrebbero trainare una crescita del PIL, con conseguente riduzione proprio del rapporto tra debito e PIL. Anche qui il ritornello sulla “spesa pubblica improduttiva” è una foglia di fico che non può nascondere scelte puramente ideologiche. Innumerevoli studi mostrano come un euro di investimenti pubblici ben indirizzati possa generare diversi euro di aumento del PIL. La stessa idea di “spesa improduttiva” dovrebbe indicare ben altro. Di fatto, dal punto di vista dei conti pubblici l’unica spesa pubblica realmente improduttiva è proprio quella per interessi (in particolare per quelli pagati ai detentori esteri di titoli di Stato).

Parliamo di investimenti nella ricerca, nel welfare, nella mobilità sostenibile, nella transizione energetica, per creare buona occupazione. Per l’ennesima volta, non è possibile che non vengano fatti perché gli obiettivi sociali e ambientali vengono subordinati al rispetto di parametri economici del tutto arbitrari e a dogmi ideologici fallimentari.

La questione del debito va affrontata dal punto di vista qualitativo, non quantitativo. Cosa si fa con la spesa pubblica molto prima di quanta se ne fa. La semplice realtà è che oggi servirebbe più debito pubblico. Primo perché questi investimenti sono tanto urgenti quanto necessari; secondo perché le decisioni sul debito devono essere funzionali a obiettivi sociali, occupazionali, ambientali, non viceversa; terzo perché l’ammontare del debito non è il parametro su cui basare le politiche economiche, così come non lo è il rapporto debito/PIL.
Il debito pubblico è una questione politica, non economica
Dopo decenni di retorica a senso unico, troppo spesso anche a sinistra sembra però impossibile rimettere in discussione determinati assunti, a partire dal fatto che il debito pubblico è eccessivo. Se vogliamo cambiare strada, serve però il coraggio e la lungimiranza per ripensare le stesse fondamenta dell’attuale fallimentare modello, e aprire spazi di dibattito e riflessione.
Il debito non è una questione economica, è una questione politica. L’anno prossimo si vota per il rinnovo del Parlamento europeo. Abbiamo un anno di tempo. Un anno per costruire un percorso e delle proposte forti, che possono sembrare oggi provocazioni ma che permetterebbero il necessario e radicale cambio di rotta in UE. E’ ora che la democrazia riaffermi il proprio primato sulla finanza, se ancora è in grado di farlo. Vogliamo provarci?

Riferimenti

Sull'argomento vedi su eddyburg gli articoli di Edoardo Salzano e Roberto Camagni, discutiamo del debito pubblico, di Roberto Camagni, il debito pubblico, D'accordo, ma..., di Susanna Böhme Kuby, Si può non pagare quando è ingiusto, di Francesco Gesualdi, Il debito pubblico è come il colesterolo , e l'intervento - secondo noi conclusivo - di Marco Bersani Il tabù dell'annullamento del debito

il Fatto quotidiano,
Oggi è il 25 aprile e non è facile parlarne. Si festeggia la Liberazione dai nazifascisti e – contestualmente – l’ultima volta (73 anni fa) in cui il Paese si è veramente alzato in piedi e ha scritto una pagina di storia di cui andare fieri. I buoni hanno cacciato i cattivi a schioppettate dopo averne viste e sopportate di tutti i colori, il dittatore è finito appeso come nelle fiabe o nelle rivoluzioni, si è riunito un Paese, è nata una buonissima Costituzione, molto avanzata per i tempi, e ancora oggi decente baluardo al nuovo (vecchio) che avanza. Ognuno ha il suo 25 aprile e se lo tiene stretto nonostante mala tempora currunt.

I primi risultati su Google cercando “25 aprile” (sezione “notizie”, ora mentre scrivo) sono i seguenti: “25 aprile, chi apre e chi chiude tra le grandi catene”. “Che tempo farà nei ponti di 25 aprile e primo maggio”. Poi la solita querelle sui palestinesi con la kefieh (se possano o no andare alla manifestazione), e infine un’inchiesta giornalistica (a Pesaro) secondo la quale solo due studenti su dieci sanno cosa significhi la data. Chiosa (quinta notizia) un titolo de Il Giornale: “Il falso mito del 25 aprile. Un italiano su tre: che cos’è?”.

Eppure, oggi è il 25 aprile, e si festeggia. Non solo nelle grandi e piccole manifestazioni, ma in molti gesti di devozione popolare. Chi (esempio) ha mai fatto a Milano il giro delle lapidi dei partigiani fucilati, dove l’Anpi depone le corone con piccole volanti cerimonie, conosce un’intensità speciale, di quelle che rendono giustizia all’anniversario, che lo celebrano veramente.

Perché per anni ci hanno detto che ormai era soltanto retorica, discorsi vuoti, consuetudine, e invece no: nonostante il rischio di consunzione, la festa ha resistito, ed è ancora viva. Negli anni, i partigiani sono stati tirati di qua e di là per la giacchetta (disse un giorno la Boschi che “quelli veri” votavano sì al suo referendum), sballottati ora come figurine edificanti, ora come reliquie. Santificati e demonizzati. Il Pd milanese, che l’anno scorso alla manifestazione portò surreali bandiere blu, quest’anno sfilerà con le belle facce dei partigiani sugli striscioni, a segnalare che il 25 aprile è piuttosto elastico a seconda della bisogna, della tattica, dell’aria che tira.

E però si festeggia lo stesso, perché con tutto il discutere dotto e complesso su populismo, populismi e populisti, quella là, quella del 25 aprile, è stata la volta che si è visto veramente un popolo.

Dunque, ognuno ha il suo 25 aprile, e ognuno può mettere in atto gesti e trucchi per non farsi fregare dalle retoriche passeggere, dagli usi strumentali, dalle stupidaggini negazioniste.

Il mio metodo è di riprendere in mano, per qualche minuto, i volumi delle lettere dei Condannati a morte della Resistenza, e di andare a salutarne qualcuno. E poi torno sempre lì, da Giuseppe Bianchetti, operaio, 34 anni, di vicino Novara, fucilato dai tedeschi nel febbraio del ’44:

«Caro fratello Giovanni, scusami se dopo tutto il sacrificio che tu hai fatto per me mi permetto ancora di inviarti questa mia lettera. Non posso nasconderti che tra mezz’ora verrò fucilato; però ti raccomando le mie bambine, di dar loro il miglior aiuto possibile. Come tu sai che siamo cresciuti senza padre e così volle il destino anche per le mie bambine. T’auguro a te e tua famiglia ogni bene, accetta questo mio ultimo saluto da tuo fratello. Giuseppe. Di una cosa ancora ti disturbo: di venire a Novara a prendere il mio paletò e ciò che resta. Ciau tuo fratello Giuseppe«

Leggo questa lettera ogni anno, da anni, perché in quel “paletò” da andare a prendere a Novara insieme a “ciò che resta” mi sembra di vedere una dignità inarrivabile, con la parola “popolo” che si riprende il suo posto. Siamo stati anche questo, per fortuna e sì, bisogna festeggiare.

Corriere della Sera,

La democrazia vive se riesce a creare benessere. Se, cioè, si dimostra in grado di distribuire un dividendo ai propri cittadini. Il neoliberismo, figlio della società welfarista e consumerista degli Anni 60 e 70, ha interpretato questo compito nei termini di un aumento delle possibilità individuali di scelta. In un sistema a possibilità crescenti (quello nato dalla combinazione tra globalizzazione e finanziarizzazione), un’idea vincente. È l’incepparsi di questa dinamica che, a partire dal 2008, ci ha fatto entrare in un’altra epoca storica.

Il punto è che il benessere è multidimensionale. Ha certamente a che fare con gli aspetti quantitativi e materiali della nostra vita, come avere a disposizione più beni, poter scegliere tra più possibilità, che però non li esauriscono. In particolare, si è sottovalutato il fatto che la sicurezza è un bene primario. Da molti anni se ne parla. Basterebbe citare Bauman, ripetutamente tornato sul punto. Ma, è solo dopo il 2008 che la questione da privata è diventata pubblica. La ragione è semplice: anche se non vogliamo ammetterlo, il tipo di crescita che abbiamo costruito tende a generare una insicurezza diffusa che tocca la vita quotidiana di un numero elevato di persone. Un effetto che è diventato sempre meno sostenibile al punto da rendersi indipendente dall’effettivo andamento delle cose, così come rappresentato dai dati statistici.

Si pensi all’esito paradossale delle riforme del lavoro di Renzi. In effetti, grazie al Jobs act l’occupazione nel suo complesso è cresciuta in Italia tanto che oggi, in Italia, si contano più di 22 milioni di occupati: un record storico. Ma il problema è che tale crescita è stata più quantitativa che qualitativa: la quota di lavoro instabile o mal pagato rimane troppo alta. Così che la percezione diffusa rimane problematica. O si pensi al tema dei migranti. I numeri non sono mai stati apocalittici e da tempo i flussi si sono arrestati. Ma, al di là dei dati (che dimostrano che non c’è stato un aumento degli atti criminosi), la percezione diffusa è di vivere in un mondo estremamente insicuro: il mix tra informazione mediatica ed esperienza quotidiana produce l’idea di un mondo ormai alla deriva, in cui il singolo cittadino si trova a dover gestire da solo questioni molto complesse (come appunto la convivenza con gruppi etnici completamente diversi e sconosciuti).

L’elenco potrebbe continuare: incertezza ambientale, spesso associata ai disastri naturali e alle inadempienze dei lavori pubblici; esposizione al terrorismo, che si mescola con i venti di guerra; arretramento lento ma continuo delle protezioni offerte dal welfare; fino ad arrivare a legami famigliari sempre più fragili (con il correlato drammatico della violenza domestica).

A tutto ciò si aggiungono poi altri fattori: la fine delle ideologie e la perdita di qualsiasi narrazione condivisa; la confusione del mondo ipermediatizzato dove è sempre più difficile distinguere il vero dal falso; e l’invecchiamento della popolazione, strutturalmente associato a maggiore instabilità e fragilità esistenziale.

Il problema, come scriveva Luhmann, è che la paura non è controllabile dai sistemi funzionali. Anzi, in taluni casi la miglior prestazione funzionale può correlarsi con più paura senza riuscire a eliminarla. Il che tende a far emergere un nuovo stile di morale che si fonda non più su norme, ma sul comune interesse a ridurre la paura. Le nostre società si strutturano ormai attorno a questa nuova faglia. Chi è protetto - perché ha un lavoro stabile, vive in un quartiere ordinato, ha una buona istruzione e di una rete relazionale solida - non riesce a percepire il problema. E non si accorge che dispone di beni che una società avanzata non è più in grado di produrre a sufficienza per tutti.

Se si tiene conto di tutto questo, si capisce l’errore delle élite in questi ultimi anni: non aver voluto vedere gli effetti collaterali della crescita e di conseguenza non aver capito che, nelle mutate condizioni storiche, il benessere distribuito non era più né quantitativamente né qualitativamente adeguato.

Solo così si capisce che questo è un tempo di politica e non di tecnica. La richiesta di sicurezza - spesso guardata con sicumera dalle élite - che viene dai ceti popolari è che sia ristabilito il filtro di una comunità politica in grado di riparare la vita quotidiana dall’esposizione alle conseguenze problematiche della crescita tecno-economica. Che questa istanza venga interpretata solo nella prospettiva sovranista - e in taluni casi decisamente reattiva e violenta - può essere un problema, anche perché le proposte di soluzione sono vaghe e ben poco convincenti. Ma a mancare è soprattutto la capacità di proporre un’idea di sicurezza positiva - non come chiusura o contrapposizione ma come relazione e inclusione - che presupponga un’idea più ampia e articolata di benessere. Una bella sfida, tutta politica.

il manifesto, 2

«La propaganda contro gli immigrati alimenta politiche sovraniste e xenofobe, che spesso guadagnano il governo dei paesi europei. L’Italia è sul piano inclinato»
Il 25 aprile e il rapporto tra fascismo e razzismo. Non sono la stessa cosa, ma sono parenti stretti. Il razzismo era in auge anche prima dell’avvento del nazifascismo: il colonialismo veniva legittimato con la pretesa superiorità dell’«uomo bianco».

Ma è stato il nazismo, prima, e il fascismo, dopo, indipendentemente uno dall’altro, a fare della “difesa della razza”, poi dell’assoggettamento e infine dello sterminio delle “razze inferiori” le loro bandiere.
Oggi però quel rapporto si invertito. Non è il fascismo a promuovere il razzismo. E’ un razzismo ormai diffuso in tutta Europa, e particolarmente virulento in Italia, che coincide con il rigetto e la fobia nei confronti dell’immigrato, del profugo, dello straniero, a dar fiato alla nostalgia di fascismo e nazismo. Per le destre sovraniste e nazionaliste si è rivelato una “gallina dalle uova d’oro”, grazie anche al sostegno di quasi tutti i mass media; per la maggioranza di coloro che lo condividono, anche se non lo praticano, è uno stato d’animo, una risposta “facile” e immediata che “spiega” il peggioramento e la precarietà della propria condizione.

L’establishment è riuscito a scaricare sul capro espiratorio la “colpa” dei danni che l’alta finanza sta inferendo a tutto il resto della popolazione con una crisi che viene presentata ormai come un dato naturale. Ma è sbagliato sostenere, come fanno alcuni, che fascismo e antifascismo sono solo fattori di distrazione di massa, perché il vero fascismo è quello delle politiche imposte dalla finanza globale, per lo più indicate con il termine, del tutto inappropriato, di neoliberismo. Perché, in caso di necessità – per loro – quelle politiche non sono incompatibili con qualche forma di fascismo. Ma è altrettanto sbagliato invocare un fronte comune (o “un governo di salute pubblica”) che faccia argine a fascismo e nazionalismo, senza vedere che a promuoverli è proprio quel razzismo, negato a parole, che ispira le politiche di respingimento, disumanizzazione e sopraffazione di profughi e migranti, condivise dalla maggior parte dei governi e dei partiti.

Luigi Manconi mette in guardia dal chiamare razzista chi nel razzismo sente di star precipitando perché non ha argomenti da contrapporgli, ma vorrebbe evitarlo. Gli argomenti oggi correnti, spesso basati su falsi infami, o nascondendo la realtà, sono solo quelli che promuovono il razzismo: quelli diffusi tutti i giorni capaci di spalancare le porte all’onnipresenza di Salvini e alle ragioni del “così non si può andare avanti”. Mentre a chi, giorno dopo giorno, affronta. in condizioni sempre più precarie, un’ostilità diffusa verso profughi e migranti non viene prestata alcuna attenzione. Non hanno voce nei partiti, dove si assiste a una corsa alla criminalizzazione sia dei profughi che di chi esprime o pratica la solidarietà nei loro confronti.

Per alcuni il razzismo apertamente professato è un modo per recuperare una propria identità, distrutta dalla precarietà, dalla mancanza di prospettive e dall’ignoranza; facile che in queste condizioni si approdi al fascismo. Ma per i più è solo un modo per “sfogare” il proprio malessere; però è un piano inclinato, lungo cui è facile scivolare, ma è sempre più difficile tornare indietro.

In parte lo abbiamo già visto con le politiche messe in atto da Minniti: più morti in mare grazie alla criminalizzazione e all’allontanamento delle navi della solidarietà; più respingimenti – effettuati e rivendicati dalla “guardia costiera” libica con i mezzi forniti dal governo italiano – per riportare i profughi “salvati” in mare alle stesse violenze, torture, ricatti, schiavitù da cui cercavano di fuggire; qualche rimpatrio forzato (altro che 600mila!), fatto a scopo mediatico, perché farli tutti costa troppo e richiederebbe accordi con i paesi di destinazione, anche “oliando” i regimi corrotti da cui quei profughi sono fuggiti.

Respingere non significa solo restituire dei fuggiaschi disperati alle vecchie schiavitù, ma anche esporli al reclutamento delle bande che hanno reso invivibili i loro paesi: così tra pochi anni l’Europa sarà circondata da guerre e bande armate da est a sud. E dopo il Niger forse andremo, non invitati, e in puro stile coloniale, a fare la guerra ai migranti in altri paesi; per ridurre anche loro come sono stati ridotti Libia, Siria, Iraq e Afghanistan, dove una volta messo il piede è sempre più difficile andarsene. Moltiplicando così il flusso di chi fugge. Ma anche gli “stranieri” e i profughi che sono già arrivati negli anni, e che continueranno ad arrivare anche più numerosi in futuro, condannati per legge a essere “clandestini”, o trattati come intrusi anche dove si erano inseriti, o avrebbero potuto inserirsi, costituiranno sempre di più un “problema” per tutti.

Un alibi per imporre a tutti restrizioni e dispotismo: sul lavoro, a scuola, nella spesa pubblica, nella vita quotidiana, sulla possibilità di associarsi e di lottare: ecco da dove nascerà il nuovo fascismo.
Autorità e governi dell'Unione europea sono ben contenti che l’Italia adotti politiche più feroci verso i migranti: gli risolve un problema che non sanno e non vogliono affrontare. Ma in questo modo trasformano l’Italia (e la Grecia, quando Erdogan riaprirà le dighe che ha eretto, a pagamento) in quello che è oggi per noi la Libia: un campo di concentramento in cui bloccare – e massacrare – quelli che da Ventimiglia, Como e al Brennero non devono più passare.

Esistono le alternative, ma solo se si guarda lontano, verso tutti i paesi che circondano il Mediterraneo, dal Medio oriente al Sahel. Perché quel flusso oggi inarrestabile si potrà invertire solo se quei profughi verranno accolti, inseriti nel lavoro e in una comunità, messi in condizione di contribuire non solo al Pil e alle casse dello Stato, ma anche alla nostra cultura, alla nostra vita quotidiana, al risanamento ambientale del nostro territorio, al contenimento della catastrofe climatica che li ha costretti a fuggire dal loro. Essere poi messi in condizione di far ritorno, se lo desiderano, nelle loro terre di origine. Se ci adopereremo per liberarle dalle armi che vendiamo, dalla guerra e dalle dittature che sosteniamo, dallo sfruttamento delle loro risorse che arricchiscono solo chi è già molto ricco, dal degrado del loro ambiente di cui siamo in gran parte la causa.

molto tempo non collocavamo un articolo nella cartella "stupidario". Certamente ci siamo distratti. Oggi cogliamo una buona occasione: l'intervista rilasciata da Stefano Boeri. Il massimo poeta del barocchismo letterario... (segue)

molto tempo non collocavamo un articolo nella cartella "stupidario". Certamente ci siamo distratti. Oggi cogliamo una buona occasione: l'intervista rilasciata da Stefano Boeri. Il massimo poeta del barocchismo letterario, Giambattista Marino, ha scritto «è del poeta il fin la meraviglia / parlo dell'eccellente e non del goffo, / chi non sa far stupir, vada alla striglia!». Non possono anche gli architetti essere poeti? Certamente, pensiamo noi, e ce ne vengono in mente molti, da van der Rohe a Le Corbusier, da Palladio a Gropius, da Aravena a Bunelleschi. Chissà perché non ci è mai venuto in mente Stefano Boeri, immaginifico inventore del “bosco verticale”, denominazione attribuita a un gruppo di grattacieli milanesi, Ne abbiamo parlato qualche tempo fa su

eddyburg, pubblicando un interessante articolo di Duccio Facchini giustamente intitolato “Un bosco d’interessi immobiliari”.

Apprendiamo oggi, da la Stampa, che Boeri sta pensando di trapiantare i suoi “boschi verticali” su Marte, e farne magari “un pianeta d’interessi immobiliari. Lì i promotori e l’architetto possono stare tranquilli; lì non ci sono ancora né fastidiosi ecologisti né minacce di leggi contro il consumo di suolo, né cittadini ben pensanti e nerboruti che possano osare di passarlo alla striglia.

Qui è ripresa l’intervista di Fiorella Minervini, la Stampa, 24 aprile 2018:
C’è un architetto che sta progettando il nostro futuro su Marte. È il visionario Stefano Boeri, professore al Politecnico di Milano e autore del Bosco Verticale, l’edificio giudicato nel 2015 più bello del mondo; di recente è stato nominato presidente della Triennale e la vuole aperta al mondo e al futuro. Boeri lavora con il suo Studio Sba con 60 giovani architetti a Milano, e altri 25 a Shanghai. Da sempre si occupa dell’ambiente, ha collaborato con la commissione dalla sindaca Hidalgo in vista della legge che prevede a verde il 20% dei tetti di Parigi. I suoi progetti prevedono vaste zone di città abitate da alberi e giardini; l’ambizione sarebbe un «fiume verde» nel cuore di Milano al posto degli scali dismessi dalle Ferrovie.
Ora la scelta ecologica è su Marte. E a Milano per la Design Week ha appena presentato l’allestimento The Future of Living con il suggestivo The Planet of the Future, installazione immersiva ispirata alle atmosfere del Pianeta Rosso: il progetto trasferisce idealmente su Marte oggetti e prodotti esposti con aziende produttive, e li confronta con immagini che il cinema ha regalato al nostro immaginario. E’ un’atmosfera speciale, coinvolgente, tutta calata nel colore rosso. Boeri è convinto che lo scenario anticipi le risposte agli effetti drammatici del cambiamento climatico, per l’innalzarsi del livello negli oceani.

Architetto come mai pensa a Marte, la Terra è così a rischio ? «L’idea è nata da una ricerca che stiamo conducendo sul cambiamento climatico. Da tre anni dirigo alla Tongji University di Shanghai il dipartimento Future City Lab col professor Li Xian Gninge. Tempo fa ci è stato chiesto di pensare a come affrontare un futuro in cui, in seguito all’innalzamento degli oceani, la città verrebbe per gran parte inondata dalle acque. Dopo aver pensato a una diga e aver immaginato un sistema di cupole sotto i grattacieli, abbiamo scoperto che l’Agenzia spaziale cinese lavorava già a progetti di colonizzazione di Marte. Così abbiamo proposto di immaginare, come risposta all’innovazione, di realizzare delle vere e proprie città-foreste sulla superficie del Pianeta Rosso. Del resto anche il nostro Cnr e l’Esa studiano come colonizzare Marte. Così come fanno altri studi di architettura come quello di Norman Foster e quello degli architetti danesi Big, che stanno testando nuovi spazi marziani nel deserto degli Emirati Arabi. Anche in Oman si fanno tentativi con astronauti per simulare la vita su Marte».

Perché proprio il Pianeta Rosso e a quando il primo viaggio? È relativamente vicino, ci vogliono solo tre mesi di viaggio e presenta alcune condizioni simili alla Terra, anche se la temperatura è mediamente molto più bassa e l’anno solare è di 680 giorni. Nel progetto di Space&Interiors abbiamo collaborato con l’Agenzia Spaziale Europea e l’Istituto Nazionale di Astrofisica, che ci hanno messo in contatto con l’astronauta Luca Parmitano e ci hanno aiutato a capire come si possa abitare la superficie di Marte. Non c’è ancora una data precisa per la prima spedizione su Marte, ma se noi non ci saremo più, avremo aperto la via ad altri viaggiatori».

Dal punto di vista pratico come vi siete mossi? «Abbiamo immaginato una nave spaziale che porti nell’atmosfera marziana delle vere e proprie grandi sfere vegetali, come dei grandi semi da far atterrare sulla superficie del pianeta rosso. Grandi gusci verdi che al loro interno permetteranno di ricreare condizioni atmosferiche adatte alla vita delle specie viventi terrestri. L’installazione che racconta questo progetto si chiama “Seeds of Mars” e l’abbiamo esposta, oltre che in questi giorni a Milano grazie all’invito di Federlegno/Made, anche alla Biennale di Shanghai. In entrambi i casi abbiamo coinvolto imprese e aziende che lavorano sugli arredi e i materiali edilizi chiedendo loro di raccontare come pensano di affrontare le sfide del futuro. Gli abbiamo detto: “Noi vi portiamo su Marte, ci state?” Loro hanno accettato».

Di che materiali sono i «gusci»? «Sono estremamente sofisticati, ricoperti da pellicole con pannelli fotovoltaici che producono l’energia utile per recuperare e riciclare l’acqua che serve per far crescere il verde. Come ci ha spiegato Parmitano, nello spazio potranno abitare solo dei sistemi totalmente chiusi dove tutto, a partire dall’acqua, viene riciclato e recuperato».

E sulla Terra cosa va fatto al più presto per migliorare le città? «Noi promuoviamo il primo Forum internazionale sulla forestazione urbana a novembre. La verità è che oggi le città producono il 70% della CO2 presente nella nostra atmosfera, che è la causa dei cambiamenti climatici, mentre i boschi ne assorbono il 40%. Perciò uno dei modi più efficaci per combattere il riscaldamento del pianeta è moltiplicare i boschi e le superfici vegetali nelle nostre città; un po’ come decidere di combattere il nemico sul suo stesso campo. Bisogna fare di tutto e con urgenza per invertire i cambiamenti climatici. E’ una sfida che non possiamo permetterci di perdere. Ciò che oggi appare fantascientifico potrebbe rivelarsi nei prossimi decenni realistico e richiedere una risposta immediatamente praticabile, a tutti i livelli».

la Repubblica,
Da sempre il 25aprile è il segnale di un clima: "racconta" il modificarsi di unPaese, il suo vivere il proprio passato e il suo immaginare il futuro. Ed è unosfregio il primo segnale venuto quest'anno, il rifiuto della giunta dicentrodestra di Todi di dare il proprio patrocinio alle celebrazioni dell'Anpi:l'antifascismo sarebbe "di parte", per una giunta che ha il sostegnodi CasaPound. Non è affatto un segnale minore, mentre sul proscenio sisusseguono incauti osanna alla "Terza Repubblica".

E ancora unavolta il 25 aprile chiama in causa tutte le parti in campo: "rivela"la cultura - o l'incultura - dei vincitori, ma anche la capacità di risposta -e la cultura - di chi non si rassegna, di chi non è disposto a cedere il campoquando sono in discussione i valori fondativi della comunità nazionale.Interroga dunque i nuovi "vincitori", il 25 aprile di quest'anno, eda essi esige risposte: anche da chi le ha sempre eluse. E interroga al tempostesso la sinistra, la costringe a riflettere su se stessa. O meglio: su quella"dissipazione di sé" che sembra prevalere. E l'urgenza di unariflessione non episodica è rafforzata e accentuata da molti altri, allarmantisegnali venuti nei mesi scorsi. Una riflessione che coinvolga l'educazionequotidiana alla democrazia (la quotidiana "pedagogia dellaCostituzione") e la mobilitazione politica e civile: così come è semprestato nella nostra storia, lontana o recente.

Può essereutile ricordare il clima di vent'anni fa o poco più, quando venne proclamatol'avvento di una seducente "Seconda Repubblica". In quel 1994 andavaal governo, sotto il segno di Berlusconi, una coalizione che comprendeva per laprima volta anche il Movimento sociale di Gianfranco Fini (un Movimento nonancora depurato a Fiuggi dalle sue radici neofasciste), assieme a una Lega chealimentava umori secessionisti. E se Fini proclamava allora Mussolini "ilpiù grande statista del secolo", trovando la "comprensione" diBerlusconi, gli faceva eco la allora presidente della Camera, Irene Pivetti:"Le cose migliori per le donne e la famiglia le ha fatte Mussolini",disse (era leghista, Pivetti, ma non disse cose molto diverse cinque anni fa lacapogruppo grillina a Montecitorio, Roberta Lombardi).

A completare ilquadro venne allora un programma televisivo sulla caduta del fascismo, Combatfilm, che proponeva un messaggio di sostanziale equiparazione fra le due partiin conflitto. Fascismo e Resistenza pari sono per la Rai, commentava MarioPirani su questo giornale, mentre Barbara Spinelli osservava: in pochi giorni èavvenuto qualcosa di importante in Italia, "c'è clima di banalizzazionedel Ventennio, di libertinismo verbale, licenza assoluta di dire. Morta la"Prima Repubblica" tutto diventa possibile, tutto diventapermesso". Un giudizio scritto allora, ma che rischia di ritornaredrammaticamente attuale.

In quel 1994 larisposta fu chiara e netta: una sinistra disorientata e sconfitta sepperitrovare se stessa e le proprie ragioni (anche se il primo stimolo non vennedai partiti o dai sindacati, ma da un piccolo quotidiano, il manifesto). La mobilitazione fu realmente ampia e confluìnella grande manifestazione nazionale del 25 aprile di quell'anno, a Milano:"un'altra Italia" non era scomparsa e a partire da essa era possibilericostruire nella coscienza di tutti le ragioni della democrazia. E questoavvenne, in una "Seconda Repubblica" per altri versi infausta: siavviò da quel 1994 il percorso che portò una destra sin lì neofascista arinnegare le proprie radici (un merito di Gianfranco Fini che non può esseredimenticato). E il 25 aprile si impose anche a chi, come Silvio Berlusconi, siera sempre sentito estraneo a esso: ci vollero 15 anni, ma il 25 aprile del2009, nella Onna colpita dal terremoto, come capo del governo pronunciò undiscorso esemplare. In contrasto esplicito con quel che aveva sostenuto sin lì(e non da solo).

Anche allora il25 aprile era stato più forte, e naturalmente non vanno dimenticate neppurealtre e più lontane fasi della nostra storia repubblicana, quando lediscriminazioni nei confronti delle associazioni partigiane e delle sinistreerano quotidiane. Avveniva metodicamente negli anni Cinquanta, nel clima della"guerra fredda", con punte talora estreme: nei confronti degliantifascisti, ad esempio, continuarono a funzionare a lungo quei controlli dipolizia e quelle "schedature" del Casellario politico centrale che ilfascismo aveva ampliato a dismisura. Tempi lontani, appunto, travolti allora damobilitazioni popolari che videro attivamente presenti i giovani (le"magliette a strisce" del luglio 1960): travolti, più in generale, dauna modernizzazione del Paese che si coniugava all'ampliamento della democraziae alla progressiva attuazione dei valori e dei principi sanciti dallaCostituzione.

Modernizzazionee ampliamento della democrazia, progredire del Paese e rinsaldarsi dei valoridell'antifascismo, in una mobilitazione culturale, politica e civile contro chisi opponeva a essi in modo esplicito o contro chi ne appannava la rilevanzadecisiva (tratto comune a non pochi "vincitori" del 4 marzo): questoè stato il tratto fondativo della nostra storia repubblicana, e sempre il Paeseha saputo rispondere. È ancora così? Questa è la vera domanda che il 25 apriledi quest'anno pone alla sinistra nel suo insieme, nel momento in cui il suoruolo decisivo - se non la sua stessa esistenza - sembra messo in discussione.Ed è una domanda sul futuro del Paese: riguarda ciascuno di noi.
Guido Crainz, la Repubblica, 22 aprile 2018

L’articolo è tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto,
È stata Juliet Schor, sociologa al Boston College, ad accorgersi del fenomeno. Stava studiando le famiglie che negli Usa praticano il cosiddetto downshifting, vale a dire la riduzione dei consumi, la decelerazione nella vita quotidiana, l’attitudine alla sobrietà e alla semplicità dei rapporti umani. E si accorse ben presto di una stranezza: nessuna delle famiglie che aveva fatto quella scelta aveva bambini in casa.

Da quella scoperta fu indotta a occuparsi del consumismo fra i bambini americani e scoprì un continente sommerso.In alcuni mesi di ricerca fu in grado di constatare una frattura storica sconvolgente: per la prima volta nella storia l’influenza formativa sui bambini dalle mani delle famiglie e degli insegnanti era passata alle imprese. Queste avevano lavorato alacremente per allargare un mercato ancora vergine e pressoché illimitato. Dal 1980 al 2004 gli investimenti in pubblicità destinata all’infanzia erano passati da 15 milioni di dollari l’anno a 15 miliardi.
Non è naturalmente un fenomeno americano. La Psicologa Susan Linn in un saggio del 2010 del Worldwatch Institute dedicato alla «commercializzazione nella vita dei bambini», ha rilevato che le sole industrie alimentari spendono circa 1,9 miliardi di dollari l’anno in campagne di marketing mirate ai bambini di tutto il mondo. Non è una pratica senza conseguenze: «L’organizzazione mondiale della sanità e altre istituzioni per la salute pubblica identificano nel marketing rivolto all’infanzia un fattore rilevante dell’epidemia globale di obesità infantile».

Non è solo la pubblicità, ovviamente.Tutta la cultura capitalistica dei nostri anni cerca con feroce determinazione in ogni angolo del vivente materia da cui estrarre profitto. E trova sempre solerti figure intellettuali pronti a fornire motivazioni di utilità generale. Negli Usa è esplosa la questione dell’abolizione nelle scuole della pausa di ricreazione. La motivazione è stata quella di rendere more productive, più produttivi i bambini, che devono impiegare tutto il tempo scolastico ad apprendere. Eppure è noto, e non da oggi, che proprio il gioco, tra i bambini, è una esperienza formativa decisiva per il loro futuro e per il futuro di tutti noi. «La spiritualità – ricorda ancora la Linn – e i progressi scientifici e artistici si fondano tutti sul gioco. Il gioco promuove attributi essenziali a una popolazione democratica, quali la curiosità, il ragionamento, l’empatia, la condivisione, la cooperazione e un senso di competenza, cioè la convinzione che un individuo possa cambiare le cose in questo mondo». E il gioco sta sparendo nel XXI secolo, sostituito da attività istituzionalizzate e disciplinate (scuole, palestre), dalla fruizione passiva della tv, dagli intrattenimenti digitali sempre più pervasivi, al punto da creare ormai patologie di massa.

Ma ora è l’Europa che entra più esplicitamente in campo per forgiare esemplarmente la nostra infanzia. Non per creare zelanti e totalitari consumatori, ma addirittura volitivi e vincenti imprenditori. In un documento di 40 pagine elaborato dal Joint Research Centre dell’Unione europea, e varato nel 2016, il cosiddetto Entrecomp: the entrepreneurship competence, framework più importante delle 8 competenze europee, che il Miur esorta ad assumere come riferimento teorico anche per la scuola italiana, è la capacità di fare impresa.

Per intenderci e per usare le espressioni dei nuovi manager che si stanno impossessando della scuola europea, occorre fare apprendere come si diventa capitalisti di successo «attraverso metodi di insegnamento e apprendimento nuovi e creativi fin dalla scuola elementare».

Già i bambini di 5 o 6 anni dovrebbero apprendere ad «assumersi rischi», «prendere iniziative», imparare a «mobilitare gli altri», ecc. Si tratta, per chi stenta a credere – ma si leggano in rete gli articoli di Rossella Latempa sulla rivista Roars – di un passo in avanti, rispetto alle esortazioni degli anni scorsi, da parte del ministero dell’Istruzione, a fornirsi di «competenze trasferibili», soprattutto quelle digitali, «che i datori di lavoro esigono sempre di più». Dalla a scuola a servizio delle imprese, alla scuola che ha per fine ultimo quello di creare imprese.

Non ci sono dubbi. Siamo di fronte a un assurdo e strisciante progetto di assoggettamento totalitario della base formativa del cittadino europeo alle ragioni dell’economia capitalistica. Il pensiero unico vuol crearsi le basi antropologiche della propria infinita riproduzione. Ma che società sarà quella popolata da un uniforme esercito di imprenditori? Quanto può durare un mondo di uomini che vogliono, tutti, competere e vincere? E che fine fa l’infanzia, chi protegge i nostri bambini contro tali progetti di pedofilia economicistica? Quando reagiremo, di fronte a queste forme ormai dispiegate di criminalità intellettuale?

NENAnews,

Martedì 17 aprile si è celebrata in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza l’annuale giornata di sostegno ai palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Alcune migliaia di manifestanti hanno sfilato a Gaza fino ad arrivare davanti alla sede della Croce Rossa dove numerose bambine mostravano le foto dei principali detenuti, diventati simboli della resistenza all’occupazione.

Stesse immagini, anche se in tono minore, in Cisgiordania dove le manifestazioni maggiori si sono tenute a Betlemme e Ramallah. Al contrario dello scorso anno non si sono registrati scontri con le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, spesso accusate dalla popolazione di essere complici dei numerosi arresti di questi ultimi anni.

Dopo le dichiarazioni di Trump, riguardo alla città di Gerusalemme come capitale dello stato ebraico, e la reazione da parte del presidente Abu Mazen nei confronti degli ormai defunti “accordi di Oslo”, gli apparati di sicurezza palestinesi hanno, almeno temporaneamente, sospeso molte attività di collaborazione con i militari di Tel Aviv.

Secondo Addameer, ong palestinese per i diritti dei detenuti palestinesi, sono circa 6.500 i prigionieri nelle carceri israeliane, di cui circa 350 minorenni, 62 donne e 26 giornalisti. Tra i detenuti una cinquantina hanno passato oltre 30 anni in prigione e circa 700 necessitano di cure mediche urgenti, negate dalle autorità carcerarie di Tel Aviv. L’ultimo dato riportato da Addameer riguarda gli oltre 500 prigionieri palestinesi incarcerati in regime di detenzione amministrativa.

Secondo il diritto internazionale, la detenzione amministrativa può essere usata solo per “ragioni imperative di sicurezza” in una situazione di emergenza, decidendo caso per caso. L’utilizzo della detenzione amministrativa da parte di Israele, al contrario, è spesso una pratica di massa, ordinaria, come alternativa al tribunale militare soprattutto quando i palestinesi arrestati rifiutano di confessare durante l’interrogatorio. In un recente comunicato il segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (sinistra radicale), Ahmed Sa’adat, incarcerato da oltre 12 anni, ha affermato che “Israele si professa uno stato di diritto, anche se continua a uccidere civili indifesi nei Territori Occupati e all’interno delle sue prigioni si è incarcerati, senza un’accusa precisa, e si può rimanere in detenzione per anni senza un processo, visto che la detenzione amministrativa è utilizzata come forma illegale di repressione politica contro la resistenza”.

Tra le foto dei detenuti portate in corteo spiccavano numerosi simboli della lotta contro l’occupazione e la violenta repressione sionista. Quella di Ahed Tamimi, ragazzina 17enne di Nabih Saleh, arrestata per aver schiaffeggiato due militari israeliani davanti alla sua abitazione. Ahed è diventata, infatti, il simbolo della rivolta nei Territori Occupati e della determinazione palestinese a resistere anche per il coraggio dimostrato durante i feroci interrogatori – resi visibili recentemente – alla quale è stata sottoposta dalle autorità di Tel Aviv.

Per quanto riguarda gli esponenti politici primeggiavano, invece, le immagini di Marwan Barghouti, l’esponente di Fatah incarcerato durante la Seconda Intifada e leader della protesta dello scorso anno contro i soprusi israeliani nei confronti dei prigionieri politici. Quella di Khalida Jarrar, esponente politica del Fplp in detenzione amministrativa, senza una precisa accusa, dallo scorso luglio o quella di Salah Hamouri, attivista e militante franco-palestinese del Fplp, arrestato dalle forze israeliane ad agosto.

Il caso di Hamouri ha avuto una maggiore eco in Francia, con numerose proteste da parte di esponenti politici della sinistra d’oltralpe, visto che il giovane avvocato è stato fermato per il semplice fatto di aver contestato il governo Netanyahu per l’utilizzo indiscriminato della detenzione amministrativa e per la negazione dei fondamentali diritti civili nei confronti dei prigionieri politici palestinesi.

Numerose sono le manifestazioni di sostegno in tutta Europa e in diverse città italiane per tutta la settimana. Lo scorso sabato, ad esempio, si è tenuto a Roma un convegno sui prigionieri politici con esponenti palestinesi, giuristi ed associazioni solidali alla causa palestinese. Un incontro organizzato per “rivendicare l’assoluta illegalità portata avanti da Israele” e per manifestare la solidarietà al popolo palestinese in un momento di lotta come quello della “Marcia del Ritorno” a Gaza con una trentina di civili uccisi e oltre 4mila feriti durante le proteste pacifiche di questo mese.

Senza risposta, da parte del governo israeliano, le accuse di Amnesty International e della sua responsabile per il Medio Oriente, Magdalena Mughrabi, che ha affermato come “la detenzione arbitraria di esponenti politici e attivisti sia un vergognoso esempio dell’abuso da parte delle autorità israeliane della detenzione amministrativa per incarcerare sospetti indefinitamente senza accusa né processo, in uno stato che, dal 1948, ha imprigionato circa un milione di palestinesi”.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto, Corriere della sera, 20 aprile 2018.

VERTECCHI: LA SOCIETÀ
DELL’EROISMO DEVIATO»

di Alessandra Pigliaru

«Bullismo. Un’intervista al decano dei pedagogisti italiani sul caso di Lucca e le tensioni tra studenti, docenti e genitori negli istituti. "Non c’è un vero cambiamento in questi episodi recenti. Assistiamo a una forma di esibizionismo, ma la scuola non vive in un luogo separato dal mondo"»

Chiedeva il sei politico lo studente dell’Itc «Carrarà» di Lucca, mentre sbeffeggiava l’uomo di 64 anni a cui ha chiesto di inginocchiarsi domandandogli chi comandasse. Un atto di prepotenza a cui si è tristemente abituati, eppure nella congiuntura dei cinquant’anni del ’68 è piuttosto straordinario osservare come la parabola della contestazione studentesca sia così diversa nel deserto politico contemporaneo che, spesso, non prevede nessun orizzonte di radicalità in cui inserirsi. Né di nuove parole e pratiche da inventare per sottrarre l’insofferenza al puro scacco del disagio. Ciò che emerge è allora la reiterazione della violenza che diventa tortura nella prossemica di quanto accaduto a Lucca e nella riproducibilità tecnica della scena che ci si apprestava ad allestire.

Ne abbiamo parlato con Benedetto Vertecchi, decano dei pedagogisti italiani e protagonista cruciale del dibattito sull’educazione anche in relazione al sistema scolastico. Già presidente del Centro europeo dell’educazione (Cede) e dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione (Invalsi). «Mi sono laureato proprio nel ’68 – racconta il professor Vertecchi che, tra gli impegni accademici, ha collaborato a numerose ricerche promosse dall’Ocse e dall’Association for the Evaluation of the Educational Achievement -. La rozzezza a cui si assiste oggi allora era inimmaginabile. Esisteva un esprit de finesse, a cominciare dalla preparazione politica e culturale degli studenti – oggi quasi del tutto assenti. Ciò nonostante il conflitto sociale era aspro e si aveva la capcità di aprirlo con un senso e un significato».

Cosa è cambiato nel fenomeno del bullismo?

«Il cambiamento non è nel fenomeno in sé ma nell’amplificazione consentita dai mezzi di comunicazione. È vero tuttavia che il bullismo classico era un fenomeno ben diverso perché inteso come forma di manifestazione della forza di chi non ha coraggio; quello a cui invece assistiamo oggi è una forma di esibizionismo, considerando l’enfasi di un certo «eroismo deviato».

Il problema non è nella Rete però…

«È più facile diffondere esempi di bullismo e trarne un beneficio perverso come ritorno di immagine. Detto questo, lo sviluppo di attività in cui compare la prevaricazione di un singolo o di un gruppo sull’altro non è qualcosa che riguarda solo la scuola. Sappiamo che è presente in altri ambiti, assistiamo quotidianamente all’imbarbarimento della cultura sociale che passa per un deterioramento del linguaggio (pensiamo solo alla pessima lingua utilizzata dai nostri politici), esiste una violenza verbale, una lingua sguaiata, veicolata dalla televisione e dagli altri mezzi di comunicazione che diviene un esempio piuttosto pervasivo per chiunque, soprattutto per chi è giovane. Una forma di autorizzazione, di legittimazione alla violenza. Non è una questione morale, è che anche il linguaggio determina dei comportamenti conseguenti».

Crede si tratti di una rottura del patto con la scuola o il problema è un altro?

«Non è il patto con la scuola a essersi rotto, bensì quello della convivenza sociale. Il fatto che simili episodi, variamente articolati, non avvengano esclusivamente in ambito scolasticosignifica che dobbiamo guardare all’ampiezza delle condizioni sociali. Del resto dovremmo finirla con la divisione tra l’educazione formale e quella informale; la scuola non vive in un luogo separato della società.».

Come mai gli e le studenti non riconoscono autorevolezza a chi insegna? È un’esautorazione che passa dalle famiglie?

«La figura dell’insegnante è molto indebolita perché ha perso molti dei caratteri che prima la distinguevano da altri ruoli. Ora l’insegnante è più simile a un professionista intermedio con funzioni modeste e soprattutto ricopre un ruolo non socialmente desiderabile. Il «credito» che gode nei confronti dei genitori è altrettanto modesto. Se consideriamo l’aspetto economico, il lavoro dell’insegnante è sempre stato piuttosto sottopagato; la differenza tra allora e oggi risiede nel prestigio culturale. Cioè è diminuito il credito sociale esattamente come la densità culturale di cui era portatore e a cui poteva dedicarsi. Ora alle scuole vengono dati una quantità di compiti tra i più vari e che tengono molto impegnati nel loro svolgimento».

SCHEDA: VIRALE IL VIDEO DELL’UMILIAZIONE
Ha fatto il giro della rete il video dello studente dell’istituto tecnico Carrarà di Lucca mentre umilia e minaccia il suo docente, chiedendogli il 6 e intimandolo di mettersi in ginocchio. Di ieri è un altro video, proveniente dalla stessa scuola, con protagonisti tre studenti minorenni – accusati ora di violenza privata aggravata in concorso e dunque iscritti nel registro degli indagati. Anche il preside ha presentato denuncia formale.
LA SCUOLA É SOLA
di Alba Sasso

Quel che colpisce nelle immagini diffuse dai media sui fatti della scuola di Lucca è un’aria di tragica normalità. Ricorda altre recenti vicende come quella di una insegnante, quasi in «balia» di una classe in pieno subbuglio, rassegnata, impossibilitata ad agire. Tanto da non essere neppure stata lei a denunciare il fatto. Non è comunque sempre la stessa liturgia: in alcuni casi la classe sembra indifferente o estranea a quanto avviene, in altri casi parteggia per l’una o per l’altra parte.

Ma quel che è più preoccupante è che al di là dei fatti, quel che sembra interessare gli alunni è la «visualizzazione» di quegli stessi fatti e la loro diffusione nel web. Che finisce col contare, anche di più della vita reale. E allora non siamo più solo in una situazione di allarme singolo. Siamo in una situazione nella quale quello a cui stiamo assistendo rischia di essere solo la punta di un iceberg: l’evidenza di un malessere più profondo, che le recenti riforme o presunte tali non solo non hanno risolto, ma addirittura aggravato.Quella scuola che ci raccontano quei video è una scuola antica, quella della lezione frontale, dove conta il voto che assolve o condanna. Dove gli insegnanti sembrano stremati e soli, senza neanche la voglia di socializzare i problemi. Dove il tema di cosa si insegna e si impara a scuola, e come, sembra una questione dimenticata.

Vi ricordate:«un po’di inglese, un po’ di informatica» o le quattro chiacchiere a proposito di sapere della scuola contenute nella legge 107? Ma questa scuola non è la realtà. Anzi le è antitetica. L’individualismo ha permeato la società, le famiglie sostengono i figli, anziché educarli, tutto marcia al contrario.

Si è interrotta, e da tempo, nonostante l’impegno «accanito» di tanti docenti che continuano a fare una «buona scuola», una riflessione sul rapporto tra cultura della scuola e contemporaneità, sul sapere capace di fornire strumenti per conoscere, capire, diventare cittadine e cittadini di un mondo sempre più vasto. E si è pensato addirittura che per essere preparati al mondo, che poi sarebbe solo quello della produzione, possa bastare l’esperienza dell’alternanza scuola-lavoro, realizzata come fosse un’ altra materia di studio. E con esperienze denunciate dalle stesse studentesse e studenti come inutili o addirittura negative. (dai McDonald a Zara).

Manca da tempo un’attenzione, forse anche un bilancio di quel che sta succedendo nelle scuole. Dove certo, i fatti di questi giorni non sono la norma, ma rappresentano un allarme, di cui tener conto. Colpisce ancora il silenzio delle famiglie di fronte a questi fenomeni, quelle famiglie che spesso si comportano solo da utenti, alle volte rissosi e violenti, piuttosto che come componente essenziale del più complessivo governo del sistema.

La scuola è sola, di fronte a problemi enormi. Sono soli i suoi insegnanti, «stanchi di guerra», sono soli quei bulli, sono sole le famiglie e sono soli persino i dirigenti. E purtroppo la scuola torna alla ribalta solo per questi «scandali».

E allora bisogna ricominciare a ricostruire quel tessuto solidale nella scuola e intorno alla scuola, come già tante scuole e territori fanno- ma di loro non c’è traccia nei media- perché hanno capito, a differenza dei mestieranti della politica, che i luoghi della formazione sono decisivi per costruire un futuro migliore per tutte e tutti.

ETICA ED EDUCAZIONE
di Antonio Polito

Perché non reagisce? Perché non lo punisce? Guardando il video girato in quella classe di Lucca, dove uno studente pretende con la violenza il sei politico dal suo docente, e un altro lo prende perfino a testate con un casco, ci siamo tutti fatti questa domanda: perché il professore non esercita la sua autorità?

È da qui che bisogna partire se si vuol trarre una lezione dalla impressionante sequenza di insegnanti intimiditi e maltrattati da «branchi» di studenti, che si filmano e si rilanciano sui social. Ma non per interrogarsi sul coraggio personale di chi viene umiliato. Nessuno, salvo forse chi opera nelle forze dell’ordine, ha un dovere al coraggio fisico sul lavoro.

No, la domanda che dobbiamo farci è come sia potuto accadere che un insegnante si possa sentire così solo, così indifeso, così deprezzato e abbandonato, dalla scuola, dai genitori, dal resto della società, da preferire di lasciar correre, magari sperando di evitare guai peggiori all’istituto e ai suoi stessi alunni. La domanda che dobbiamo farci è dunque politica: se non esista oggi in Italia un’emergenza educativa che dovrebbe costringerci tutti a riflettere e ad agire per ripristinare un principio di autorità nelle nostre scuole.

Qui non si tratta di uscirsene con la solita lamentazione sui bei tempi andati, dare la colpa al ’68 e alzare le spalle come se non ci fosse ormai più niente da fare. Si tratta invece di rimettere in piedi nella nostra era, fatta di smartphone e di Rete, con i giovani come sono fatti oggi, un’idea di libertà che non sia licenza e di autorità che non sia imperio. Anzi, si tratta di far leva proprio sullo spirito critico dei nostri ragazzi, oggi mille volte più stimolabile che in passato, per indirizzarlo verso il bene, piuttosto che verso il male.

Il senso di onnipotenza che pervade un adolescente, e che gli deriva tra l’altro anche da una struttura fisica del cervello ancora in formazione, può condurre infatti a esiti molto diversi.

Sui media finiscono quelli peggiori, vediamo in azione giovani che sembrano aver del tutto smarrito il senso del limite, la linea di confine che passa tra la vita reale e quella virtuale, e che spesso nella vita reale sembrano quasi recitare per il pubblico dei social, ansiosi di costruirsi un’identità di successo, perché oggi si ha successo se si è famosi, qualsiasi sia il motivo della fama.

Ma, diciamoci la verità: da quanto tempo noi, società degli adulti, abbiamo smesso di occuparci di una buona semina, di saperi e di valori, in questi cervelli così fertili, in questi cuori così ricettivi? E, soprattutto, da quanto tempo abbiamo smesso di occuparci della manutenzione non solo delle scuole, ma anche dei docenti: della loro frustrazione, della loro fatica, delle loro solitudini?

Nel suo libro, Ultimo banco, Giovanni Floris riferisce quel che gli ha detto la vicepreside di un istituto del Sud: «Un ragazzo, grazie allo studio, ha l’occasione di dimenticare le mode che ossessionano il gruppo di amici; un bullizzato ha l’occasione di scoprirsi più forte del bullo: la scuola è il mondo in cui il pensiero autorizza l’alunno a crescere libero da stereotipi e costrizioni». È così; o meglio, dovrebbe essere così. Ma noi abbiamo lasciato che i sacerdoti di questo culto della libertà che è l’educazione venissero un po’ alla volta spogliati di ogni rispetto. Lo abbiamo fatto noi famiglie, che scambiamo il pezzo di carta con l’istruzione trasformandoci in sindacalisti dei nostri figli, pronti a ricorrere perfino al Tar contro la valutazione degli insegnanti. Lo ha fatto lo Stato che ha consentito di trasformare i docenti nella categoria di laureati peggio pagata. Lo ha fatto un’austerità di bilancio che ha salvato molte spese inutili ma ha lasciato invecchiare e deperire il nostro corpo docente (in Germania a fine carriera un professore della scuola secondaria guadagna 74.538 euro, in Italia 39.304).

E lo ha fatto una cultura fintamente permissiva, cinica e narcisistica, che spinge a dar ragione ai giovani anche quando hanno torto: per pavidità, per convenienza, perché i ragazzi sono oggi generosi consumatori, divoratori di mode, e modelli per adultescenti che non vogliono invecchiare mai, e per questo vengono vezzeggiati anche nei loro peggiori difetti.

Ieri il raccontava di che cosa è successo in un istituto milanese nel quale il preside ha avuto il coraggio di punire un gruppo di studenti che avevano diffuso sui social le immagini intime di una ragazzina, obbligandoli a una corvée di pulizie nella scuola. Ebbene, molti genitori hanno preso le parti dei figli: punizione eccessiva, quasi una gogna, in fin dei conti la colpa è della ragazza che mandava in giro le sue foto.

Contro questo demone del giustificazionismo, questa paura della responsabilità etica, normativa e talvolta perfino punitiva che i veri educatori devono invece assolvere, bisogna combattere una guerra comune. Il cui esito non è certo meno importante, per le sorti della comunità nazionale, di quello della crisi di governo.

Internazionale (a.b.)

A un anno esatto dal lancio della campagna “Ero straniero, l’umanità che fa bene” per una legge d’iniziativa popolare di riforma della legge sull’immigrazione in Italia, il 19 aprile a Roma le stesse associazioni hanno lanciato la campagna “Welcoming Europe, per un’Europa che accoglie”, un’iniziativa di cittadini europei per chiedere alla Commissione europea di scrivere una legge comune europea sull’immigrazione e sull’asilo in particolare su tre punti: la creazione di canali umanitari per i rifugiati attraverso lo strumento della sponsorship, la protezione delle vittime di sfruttamento lavorativo e di violenze e la depenalizzazione del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per le organizzazioni umanitarie che aiutano i migranti non a scopo di lucro.

L’obiettivo è raccogliere un milione di firme in un anno in almeno sette paesi europei. La proposta è stata registrata alla Commissione europea nel dicembre 2017 ed è stata approvata il 14 febbraio 2018. Tra i promotori dell’iniziativa ci sono: Radicali italiani, Arci, Asgi, Arci, Action Aid, A buon diritto, Cild, Oxfam, Fcei, Casa della carità, Cnca, Agenzia scalabriniana per la cooperazione e lo sviluppo, Legambiente, Baobab experience.

Oltre che in Italia, si sono costituiti comitati promotori in Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Ungheria.

I tre punti della proposta


Canali umanitari, protezione delle vittime di sfruttamento lavorativo e depenalizzazione della solidarietà sono i tre pilastri della proposta. Una volta che le firme saranno raccolte la proposta sarà presentata alla Commissione europea, che dovrà a sua volta scrivere e promuovere una norma europea da sottoporre all’approvazione del parlamento e del consiglio. La commissione non è obbligata a tener conto dell’iniziativa dei cittadini.

«La prima proposta riguarda i richiedenti asilo, chiediamo che sia introdotta la sponsorship privata. Chiediamo cioè d’introdurre la possibilità, sulla scia dei corridoi umanitari realizzati in Italia, di avere un finanziamento per le sponsorship private», spiega Claudia Favilli, docente di diritto europeo all’università di Firenze e socia dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. «I privati, le associazioni, le organizzazioni possono farsi carico dell’accoglienza di rifugiati e del percorso di d’integrazione dei rifugiati, come nel modello canadese», continua. Al momento non è previsto in nessuna legislazione, il caso dei corridoi umanitari promossi in Italia dalla Comunità di sant’Egidio, dalla diaconia Valdese e dalla Cei sono stati un’eccezione. «Si tratta di mettere a sistema l’esperienza sperimentata con i corridoi umanitar», conclude Favilli.

In Italia non viene distinto
chi favorisce l’immigrazione clandestina a scopo di lucro
e chi compie questo reato a scopo umanitario

La seconda proposta prevede che le vittime di violenza e di sfruttamento lavorativo, anche se irregolari, siano tutelate se decidono di denunciare i datori di lavoro. «La proposta prevede che ci sia un sistema strutturato di garanzie a tutela di queste persone che vogliono denunciare il lavoro nero. Questo infatti è il motivo per cui molte persone non denunciano, perché sono ricattabili, hanno paura di essere espulse», afferma Favilli.

Il terzo punto riguarda la criminalizzazione della solidarietà: «Chiediamo che sia modificata la direttiva 2002 numero 90 dell’Unione europea che obbliga gli stati a prevedere sanzioni per l’ingresso irregolare in Europa. La direttiva è formulata in un modo molto generico e quindi non qualifica in nessun modo il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per scopi umanitari».

Questo ha fatto sì che 24 stati europei prevedono sanzioni anche per chi aiuta i migranti irregolari a scopo umanitario. “In Italia non viene distinto che favorisce l’immigrazione clandestina a scopo di lucro e chi, lateralmente alla sua attività umanitaria, può compiere questo reato”, afferma Favilli.

Solo quattro stati europei, tra cui la Germania, hanno declinato il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina distinguendo tra chi lo compie a scopo di lucro e chi lo compie mentre sta svolgendo un’attività umanitaria. «In Italia per esempio anche gli umanitari possono essere incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, salvo poi dover dimostrare che hanno agito in uno stato di necessità cioè per salvare la vita a qualcuno o evitare un danno grave», continua Favilli.

postilla
È sconcertante che la civiltà ruropea, dopo aver promosso e favorito i diritti universali degli appartenenti all'umanità, rifiuti di riconoscere questi diritti a chi proviene dalla sponda meridionale del Maditerraneo. Il significato di questo reiterato rigetto ha una sola, terrorizzante, spiegazione: il germe del razzismo è così profondamente penetrato nel sangue degli europei da farli deventare tutti identici ai nazisti di Hitler. (a.b.)

il manifesto, 1organizzata

«Penisola arabica. Esposto di Rete disarmo e altre ong per l’export di bombe sarde all’Arabia saudita»
L’Italia è colpevole di crimini di guerra in Yemen, in combutta con la fabbrica di Rwm Italia Spa di Domusnovas in Sardegna, di proprietà del gruppo industriale Rheinmetall, con sede a Dussendorf in Germania. In estrema sintesi è questa la tesi con cui la Rete Disarmo, insieme ad altre organizzazioni che si battono per la fine di uno dei conflitti più ignorati e insieme più mortiferi del mondo arabo, ha sferrato la sua battaglia legale contro le ipocrisie e le opacità dell’export di sistemi d’arma in Italia.

L’esposto è stato depositato alla procura della Repubblica di Roma e presentato ieri con una conferenza stampa internazionale. «Si tratta di una denuncia penale molto ben documentata», ha spiegato Francesca Cancellaro dello studio Gamberini incaricato di seguire l’azione legale intentata contro i vertici la Rwm Italia e dell’Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento, cioè il comitato che indirizza per conto di Palazzo Chigi l’attività parlamentare di verifica e concessione delle autorizzazioni all’esportazione di armi in base alla legge 185.

Anche se il direttore dell’Uama, il ministro Francesco Azzarello, ha fatto sapere a stretto giro di essere «sereno» e «a completa disposizione della magistratura», la vicenda di cui dovrà rispondere, se la magistratura italiana aprirà un fascicolo, non sarà né semplice né generica.

Nel dossier presentato in procura si fa riferimento, con foto e testimonianze, alla morte di sei persone, incluso una donna incinta e quattro bambini, nel villaggio yemenita di Deir Al Hajari, situato in una zona di nessuna rilevanza strategica, senza insediamenti militari, un villaggio popolato solo di civili inermi.

I sei morti identificati furono provocati da un raid aereo della coalizione militare a guida saudita l’8 ottobre 2016. Successivamente nel cratere dell’esplosione sono stati rinvenuti i resti delle bombe incluso un anello di sospensione che, fatti analizzare da una società specializzata , si possono far risalire alla produzione dello stabilimento sardo della Rwm di fine 2016 cioè dopo la deflagrazione del conflitto armato in Yemen.

I legali dicono che a quel punto, dopo le denunce dell’Onu, essendo «notorio» che in Yemen si stavano consumando violazioni dei diritti umani, autorizzare l’export di questo secondo lotto di bombe verso l’Arabia saudita è stato «grave», «con un profilo di colpevolezza da verificare» e ipotizzano per il governo il reato di abuso d’ufficio in violazione della legge 185, che vieta l’export verso paesi belligeranti, e della normativa sovranazionale, sia come Posizione comune europea del 2008 sia del trattato sul commercio di armi firmato dall’Italia nel 2013.

Riferimenti

La produzione di armi sempre più letali in Italia è stata spesso denunciata su queste pagine. L'alibi dell'occupazione è sempre stato sollevato come pretesto per contraddire l'imperativo morale e il dettato costituzionale di non contribuire a fomentare le guerre con la produzione di armamenti. Delle bombe prodotte dall'azienda tedesca in Sardegna ci siamo occupati in particolare con i due articoli

Vedi su eddyburg gli articoli Viaggioa Domusnova la città della fabbrica d'armi, LaRWM: pronti a testare la bomba in Sardegna, ripresi da Avvenimenti e da Altreconomia

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