«L’illusione europea di poter restare al riparo dall’attacco del terrorismo internazionale suona dunque oggi come il segnale di un enorme e colpevole ritardo accumulato per quindici lunghi anni». Internazionale
.online, 11 settembre2016 (c.m.c.)
Commemorando per l’ottava e ultima volta nella sua presidenza le vittime degli attentati dell’11 settembre di quindici anni fa, Barack Obama ha fatto appello ai “valori costitutivi” dell’identità americana: pluralità, apertura, welcoming senza discriminazioni di razza, di sesso, di etnia, di fede religiosa. Solo restando fedeli a questi valori, ha aggiunto, «porteremo avanti l’eredità di quelli che abbiamo perduto».
Al netto di una lettura elettoralistica del suo discorso, evidentemente volto anche a marcare un discrimine netto rispetto ai valori di segno contrario che muovono la retorica e i programmi di Donald Trump, l’associazione fra l’eredità delle vittime dell’11 settembre e l’etica dell’apertura e della tolleranza sigilla degnamente un doppio mandato presidenziale contrassegnato dalla volontà di portare lo spirito pubblico americano fuori dalla scia di vendetta, ritorsione e revanchismo che avevano caratterizzato la reazione dell’amministrazione Bush agli attentati di quella limpida e fatale giornata di settembre di quindici anni fa.
Che Obama, e con lui la società americana, siano riusciti definitivamente o solo temporaneamente in questa impresa è una delle poste in gioco, se non “la” posta in gioco, della corsa alla Casa Bianca che si concluderà il 7 novembre. In attesa del responso, mai come quest’anno è opportuno guardare all’anniversario dell’11 settembre da questa sponda dell’oceano, con occhi europei.
Più d’un paragone, intanto, sorge spontaneo: per fare un esempio, fra l’appello di Obama ai valori fondamentali americani e quello recente di Valls ai valori fondamentali francesi, evocati nella fattispecie per combattere il burkini. O per farne un altro, fra il muro programmato da Trump ai confini con il Messico e quello già deciso dal governo inglese a Calais. Due tra i molti segnali che l’onda lunga dell’11 settembre si sta abbattendo sulle coste europee perfino con maggiore violenza che su quelle americane. E forse con meno anticorpi.
Dall’attentato a Charlie Hebdo in poi, passando per il Bataclan e per la lunga scia del terrore che ha insanguinato l’estate del vecchio continente, i roboanti e ricorrenti titoli su “l’11 settembre europeo” dicono solo metà della verità: l’Europa sta sperimentando adesso quel ventaglio di problemi e di angosce che quindici anni fa ha fatto irruzione sulla scena mondiale, ma da cui il vecchio continente ha creduto a lungo di essere immune delegandone il vissuto e la soluzione agli Stati Uniti. È questa la ragione per cui tutto il dibattito europeo sul terrorismo appare viziato, passatemi il gioco di parole, da uno stupore stupefacente, e da una ripetizione irritante.
Lo stupore stupefacente viene da lontano. Qualcuno forse ricorderà la diatriba sull’occidente diviso fra Marte (gli Stati Uniti) e Venere (l’Europa) che impegnò dopo l’11 settembre intellettuali e opinionisti sulle due sponde dell’Atlantico. Una diatriba fatua, non solo sul versante di chi da posizioni guerrafondaie difendeva le virtù di Marte contro la mollezza di Venere, ma anche sul versante opposto di chi difendeva la cautela di Venere contro l’irruenza di Marte sottintendendo, non senza una certa spocchia, un giudizio autoevidente sulla superiorità del modello europeo – pace e stato di diritto, integrazione universalistica e stato sociale – rispetto a quello americano – imperialismo e interventismo, eccezionalismo e sospensione facile delle garanzie, multiculturalismo ghettizzante.
Quella spocchia era molto malriposta, come i fatti si sono incaricati di dimostrare nel quindicennio successivo. Durante il quale sono stati semmai gli Stati Uniti a indicare, con l’elezione del primo presidente afroamericano, meticcio e riluttante a indossare i panni del gendarme del mondo, una via d’uscita dalla risposta identitaria e nazionalista, securitaria e guerrafondaia di George W. Bush all’11 settembre.
Mentre l’Europa non elaborava alcuna visione alternativa del Medio Oriente e si accodava a ranghi sparsi e subalterni a tutte le guerre in corso; e al suo interno, lungi dal presidiare il famoso “modello europeo”, consentiva che venisse smantellato pezzo per pezzo dai diktat neoliberali dell’Unione, e lungi dal tenere alta la bandiera dell’universalismo con nuove e preventive politiche di accoglienza e integrazione erigeva muri, si chiudeva a fortezza, emetteva editti contro l’uso del velo e faceva della paura degli invasori, terroristi e non, la propria retorica costitutiva.
Già stupefacente quindici anni fa (e già smentita, peraltro, dalle stragi di Madrid e di Londra del 2004 e 2005), l’illusione europea di poter restare al riparo dall’attacco del terrorismo internazionale suona dunque oggi come il segnale di un enorme e colpevole ritardo accumulato per quindici lunghi e decisivi anni. Non solo sul piano politico e geopolitico, ma anche, e forse ancora più colpevolmente, sul piano culturale. E qui vengo alla ripetizione irritante.
L’11 settembre non fu solo un evento sconvolgente per l’ordine mondiale. Fu anche, come si disse allora, un enorme evento filosofico. Mostrò la senescenza delle categorie consolidate del pensiero politico di fronte a una globalizzazione che sconvolgeva le stesse coordinate spaziali e temporali costitutive della modernità, e tutte le categorie – sovranità, identità, logica simmetrica amico-nemico – costitutive dell’ordine politico moderno.
L’interpretazione dell’attentato alle Torri gemelle in termini di scontro di civiltà, con l’islam all’attacco dell’occidente che domandava una ritorsione uguale e contraria, fu certamente la lettura mainstream che ispirò la reazione americana in Afghanistan e in Iraq, ma non fu l’unica, e fin da subito si rivelò, sulla base di una lettura attenta dell’evento, la più fallace: la forma, gli effetti, perfino l’estetica dell’attentato ne suggerivano un’altra.
Le quasi tremila vittime, di oltre 60 diverse nazionalità, dicevano che l’attacco non era all’America ma alle promesse cosmopolitiche della globalizzazione. La sceneggiatura hollywoodiana dei due aerei che tagliavano le Torri gemelle diceva che tutto, dalla tecnologia all’immaginario dell’attentato, non veniva da un altro mondo ma da un esterno interno all’occidente: Jacques Derrida parlò allora di un attacco autoimmunitario, molto prima che fossero i documenti dei terroristi reclutati dal gruppo Stato islamico fra gli immigrati europei di seconda generazione a certificare che l’islamizzazione del radicalismo, come la chiama oggi Oliver Roy, è un fenomeno che si alimenta nelle periferie delle nostre metropoli. Ancora, l’irruzione sulla scena dell’attentatore suicida, disposto a uccidersi per uccidere, diceva che nessuna guerra di tipo tradizionale può averla vinta sull’asimmetria di uno scontro privo di quella regola istintiva e primaria di deterrenza che consiste nel non dare la morte per salvaguardare la propria vita.
Di fronte a tutto questo ci fu chi come Oriana Fallaci reagì agitando la rabbia e l’orgoglio, un binomio tuttora coccolato dai nostri media mainstream a sostegno della xenofobia e dell’islamofobia montante. Ma ci fu anche chi come Judith Butler ne trasse materia, al contrario, per una ontologia politica della vulnerabilità e dell’interdipendenza, e per una pratica della convivenza basata sull’elaborazione del lutto. Ci fu chi, come James Hillman, lesse nella ferita che si era aperta nell’inconscio americano la sorgente di una inedita consapevolezza del limite della prima potenza mondiale. O chi, come Spike Lee, immaginò nella Venticinquesima ora di un tempo fuor di sesto la possibilità per il sogno americano di rimediare i propri errori.
Tracce di un pensiero della contemporaneità che come tutto, da quella luminosa e vitrea mattina di quindici anni anni fa, non è più lo stesso, ma che da quella ferita del corpo, del pensiero e dell’inconscio si è lasciato attraversare senza chiudersi in un arrocco difensivo, come sta avvenendo invece nel dibattito pubblico europeo sempre più dominato dall’ossessione securitaria.
Oggi, scrive il New York Times, c’è il rischio che i bambini americani nati dopo l’11 settembre non ne ricevano memoria alcuna, e guardando le immagini in tv chiedano «ma davvero è successo tutto quel casino?».
In Europa siamo noi adulti ad averne una memoria selettiva, abbarbicata a un bisogno di sicurezza che impugna i “valori fondamentali” come pietre per elevare muri, e nega il lutto a chi muore sui confini. Quindici anni dopo, anche per l’Europa c’è bisogno di una venticinquesima ora.
La Repubblica, 11 settembre 2016
La ricerca della verità sul sequestro, la tortura e la morte di Giulio Regeni riparte dall’uomo che lo ha tradito vendendolo per quel che non era: una spia. Da Mohamed Abdallah, questo il suo nome. Un sindacalista, si fa per dire. Quello che da ieri, alla Rai e su alcuni siti egiziani, posa a innocente, giurando di non aver mai denunciato Giulio. Di non sapere nulla dell’esposto del 7 gennaio di quest’anno da cui — per quanto ne ha riferito la Procura generale del Cairo alla Procura di Roma — sarebbero partite le indagini della Polizia di Gyza. L’uomo di cui Giulio annota sul computer gli incontri tre volte, traendone una conclusione che suona come un presagio. «Mohamed è una miseria umana».
In questi sette mesi, la vita di Mohamed Abdallah è cambiata. Oggi è vicino a una sigla sindacale filo governativa. Un salto rispetto a quando Giulio lo conobbe senza poter immaginare che quel signore, avido e con un passato da giornalista di gossip, dai modi spicci e carismatici, è un informatore degli apparati egiziani. Abdallah viene presentato a Giulio il 13 ottobre del 2015 negli uffici del Egyptian Center for Economic and social rights da Hoda Kamel, ricercatrice egiziana che in quel Centro lavora e che di Giulio al Cairo è bussola accademica. È l’inizio di una relazione catastrofica, di cui Giulio terrà in parte nota nel suo computer e che l’infido Abdallah, nel febbraio di quest’anno, racconterà a Repubblica con parole di cui oggi è possibile apprezzare l’untuosa falsità. Dice: «Ho incontrato Giulio tre, quattro, forse sei volte in tutto. Fino a quando lui non mi parlò di soldi che potevo avere se lo aiutavo nella sua ricerca. Allora decisi di non volerlo vedere più e anzi compresi di aver fatto male a parlargli, perché questo avrebbe potuto mettere in difficoltà sia il sottoscritto che lui».
È una manipolazione grossolana, svelata a posteriori non solo da quel che a Giulio accadrà, ma da quanto lui stesso annota nel suo computer in tre file, ora agli atti della Procura di Roma. Il primo, datato 13 ottobre 2015, risale proprio al primo incontro negli uffici dell’Egyptian Center for Economic and Social rights, ed è la lunga trascrizione in inglese (12 cartelle) dell’intervista in lingua araba sui temi dei sindacati indipendenti. Il secondo è di sette settimane più tardi, 8 dicembre. Abdallah ha dato appuntamento a Giulio nel quartiere Ramsis per un incontro con gli ambulanti. Scrive Giulio nel suo pc al termine di quella giornata: «Oggi mi sono reso conto di quanto Mohamed sia riconosciuto come leader dalla comunità degli ambulanti».
È ragionevole pensare infatti che in questo momento Giulio sia ancora convinto della possibilità di finanziare una ricerca specifica sul sindacato di Abdallah attingendo alle 10 mila sterline della borsa messa a disposizione dalla fondazione inglese Antipode. L’idea, tuttavia, tramonta rapidamente. Non appena Giulio viene a conoscenza del divieto in Egitto di finanziare sindacati o partiti in qualsiasi forma. Tanto che il ragazzo ne parla con Abdallah il 18 di quel mese di dicembre. Il colloquio tra i due, per quel che se ne ricava dall’appunto sul pc, è tutt’altro che edificante. Abdallah chiede brutalmente quanto ci sia per lui delle 10 mila sterline. Giulio replica che non se ne farà nulla. La sera scrive: «Pensavo che la sua disponibilità fosse per far del bene al sindacato. Non è così. Mohamed è una miseria umana».
In quella fine del 2015, aver troncato i rapporti con Abdallah non sembra preoccupare Giulio. O almeno così sostiene Hoda Kamel che di quel rapporto era stata in qualche modo l’ispiratrice. E tuttavia, intervistata da Repubblica al Cairo nel marzo scorso, è proprio lei a immaginare un ruolo di Abdallah nella fine che attende Giulio. Era dunque mosso dalla sua “miseria umana” Mohamed Abdallah quando il 7 gennaio di quest’anno si presenta in una caserma della Polizia avviando di fatto il conto alla rovescia che porterà Giulio alla morte. Ed è ragionevole pensare che, l’11 dicembre, quando Giulio sarà fotografato in un’assemblea dei sindacati da una ragazza, quella foto sia scattata non dagli apparati ma da qualche militante perché la “spia” potesse essere più agevolmente individuata dalla Polizia alla quale la si stava per consegnare.
Vedremo nelle prossime settimane come camminerà l’inchiesta egiziana. Un fatto è certo. L’aria è cambiata. Ieri è stato scarcerato il Presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, nonché consulente della famiglia di Giulio Regeni, Ahmed Abdallah. E, a fine mese i magistrati egiziani saranno di nuovo a Roma, dove vedranno per la prima volta la famiglia Regeni, che ha accettato l’incontro rassicurati del fatto che non si tratterà di una presa in giro. Non è peregrino immaginare che la Procura Generale del Cairo si presenterà ai Regeni non solo con parole di circostanza.
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Il Fatto Quotidiano online, blog, 10 settembre 2016 (c.m.c.)
Occorre rovesciare una retorica un po’ stantia che si basa sul ragionamento elementare secondo cui cambiare significhi sempre migliorare. Il “nuovo” non soltanto non è necessariamente il “meglio”, ma non è neanche davvero e sempre “nuovo”.
Prendete la riforma costituzionale: si usa l’argomento del cambiamento come se ciò fosse sinonimo di miglioramento. E a chi (tra i sostenitori meno convinti) fa notare che neanche la riforma cosiddetta Boschi è perfetta, si risponde «Non sarà perfetta, ma intanto è un cambiamento».
Gli antichi Greci, padri della democrazia, o anche le colonie magnogreche, avevano orrore del cambiamento tanto da proteggere le leggi con un sistema di modifica che aveva chiarissima la gravità dell’atto: all’apposita commissione dei Nomoteti ad Atene spettava la decisione finale sulle proposte di nuove leggi; a Locri Epizefirî Zaleuco, estensore mitico delle leggi che governavano la città, aveva previsto la legge del laccio per la quale, secondo il racconto di Demostene, chiunque a Locri avesse voluto proporre una nuova legge, avrebbe dovuto farlo con un laccio intorno al collo. Qualora la proposta non fosse stata approvata, egli sarebbe morto soffocato. Stobeo conferma l’idea che la legge del laccio avesse lo scopo di preservare l’antico diritto e l’assetto costituzionale della colonia, affinché i fondatori della città non dovessero incorrere nuovamente nell’ingiustizia subita nella madrepatria, da cui erano stati scacciati.
Non si tratta di una tentazione passatista per un sistema lontano secoli e con enormi differenze rispetto a ciò che oggi chiamiamo “democrazia” (qualunque cosa voglia dire, dato che tale definizione spesso camuffa un governo degli ottimati o dei tecnocrati o della finanza). Si tratta solo di ribadire che “cambiare” di per sé è una parola vuota, e che i contenuti possono anche essere insoddisfacenti, o addirittura dannosi. E che “non cambiare”, invece, può voler dire cambiare molto.
Prendiamo ancora la riforma: se vince il “No” cambia tutto, se vince il “Sì” non cambia niente. Infatti con il “Sì” non cambia il ruolo invadente della politica e segnatamente del governo in tutti i gangli vitali della vita pubblica del paese: il tentativo di accentramento verticistico del potere decisionale imprimerà un’accelerazione al processo di esautoramento del pluralismo culturale e politico (processo che è già in uno stadio avanzato).
Se vince il “No” cambia tutto sul piano politico: persino un eventuale “Renzi bis” sarebbe costretto a rimettere in discussione l’ubriacatura oligarchica e decisionistica (che poi è quasi solo una retorica, una fola: decidere tutto per non decidere niente) in cui ci siamo cacciati iniziando – per stare alla cronaca, ma potremmo andare più indietro nel tempo – col Porcellum, che consentiva ai partiti di spadroneggiare sulla selezione della classe politica a discapito degli elettori, passando per la lettera di Trichet e Draghi su su fino ai governi dell’eccezione. Se vince il “Sì” tutto questo non cambia, anzi si consolida e cristallizza per sempre, dando corpo al vecchio sogno prima craxiano e poi berlusconiano di un premierato forte o del “semipresidenzialismo”, trasfigurati ormai però dall’ingerenza delle burocrazie europee e della finanza mondiale.
Se vince il “No”, l’incantesimo si spezza: nessuno, almeno per qualche anno, potrà farsi prendere dalla fregola di inseguire ancora il progetto di svuotamento della democrazia parlamentare. Se vince il “Sì”, l’idea di prendere sul serio la democrazia, di ridare parola ai cittadini, di garantire la rappresentanza, di equilibrare governo e parlamento per garantire a questo rappresentatività e pluralismo e a quello efficacia e velocità, subisce un colpo (forse) mortale. Se vince il “No” non cambia la lettera della Costituzione, ma cambia radicalmente il segno delle riforme chieste dai cittadini.
Del resto, il fatto che se la Carta non cambia può cambiare ugualmente molto è iscritto nella storia della vita della Costituzione stessa: per esempio il mutamento della legge elettorale ha prodotto, a lettera immutata, un tale scossone da far passare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Perché il “No” non significa “No e basta”. Il “No” significa «Si cambi, ma rispettando la costituzione e i cittadini».
Chi pensa che il No sia la scelta dell’immobilismo, sbaglia. Certo in qualcuno quella tentazione passatista ci sarà pure. Ma il “No” è la posizione della mobilitazione, del movimento, della richiesta di cambiamento e novità. Il “Sì” è conservatore, insegue un progetto vecchio.
«Grecia. L’alleanza dei leader progressisti in vista del summit di Bratislava. L’attacco di Schauble: "Niente di buono"» I
l manifesto, 10 settembre 2016 (c.m.c.)
«Il summit del sud Europa» ha come obiettivo «il miglioramento della vita dei cittadini dell’Unione», ha dichiarato alla fine di questo «incontro a sette», il primo ministro greco, Alexis Tsipras. Le previsioni della vigilia sono state rispettate: nessuno scontro frontale con Berlino, nessun desiderio di isolazionismo politico, ma la volontà di contribuire in modo fattivo, a dare nuovo e diverso impulso alla costruzione europea. Italia, Grecia, Francia, Cipro, Malta, Portogallo e Spagna (malgrado Rajoy non abbia partecipato, a causa della perenne crisi politica di Madrid), sono convinte che si debba ricercare soluzioni migliori.
Per una gestione solidale della questione migratoria, per riportare in primo piano il valore ed il bisogno di un’Europa sociale, per potenziare e possibilmente raddoppiare i fondi del Piano Juncker riservati alla crescita e gli investimenti. «Contribuiamo al dialogo, abbiamo bisogno di una nuova visione, vogliamo ispirare i nostri popoli», ha dichiarato il leader di Syriza. Ed allo stesso tempo, ha sottolineato che si deve fare di tutto per rigettare, con forza, le chiusure nazionalistiche e la xenofobia.
Il prossimo incontro dei paesi del Sud Europa si terrà in Portogallo, e lo scopo, come hanno detto tutti, non è e non sarà dividere, ma arrivare ad un’«Unione migliore». Nel corso della conferenza stampa, Matteo Renzi ha sottolineato che «la scommessa di questo incontro di Atene è rinnovare un’idea di Mediterraneo da cui l’Europa tira fuori la parte migliore di sé». Perché non può essere solo «regole, finanza, austerity e tecnicità», ma deve voler dire anche «valori, ideali e dimensione sociale».
Per formare il cittadino europeo di domani, il quale dovrà essere «kalos kai agathos», con un forte riferimento alla dimensione etica del suo agire. E Francois Hollande, dal canto suo, ha ribadito il bisogno di unità e coesione, per riuscire a dare speranza alle popolazioni dei paesi membri dell’Unione, specie quelle dei paesi che si affacciano sulla sponda mediterranea. La questione principale, quindi, è riuscire a rilanciare al più presto politiche di crescita, che possano avere ricadute positive sull’ occupazione e sulla vita concreta dei cittadini.
Il presidente francese e tutti gli altri partecipanti al vertice sanno bene che dopo il referendum sulla Brexit, non si può più far finta di niente, e che bisogna cercare di far sentire la propria voce, per incidere sul cammino che, d’ora un poi, seguirà l’Ue. «Non vogliamo creare un gruppo separato, ma l’Europa ha bisogno di un nuovo orientamento», ha spiegato il presidente di Cipro, Nikos Anastasiadis. Al momento, si può dire che l’iniziativa politica di Alexis Tsipras ha raggiunto il suo scopo: dimostrare che in questa realtà europea non c’è più un pensiero unico neoliberale, proporre delle iniziative concrete (come il rafforzamento del piano Juncker) e rendere l’ incontro dei leader del Sud Europa, un appuntamento stabile.
Non solo di quelli a orientamento progressista, come ha dimostrato la partecipazione all’iniziativa, di Cipro e Spagna. Perché un problema come quello dei giovani, «che non guardano al futuro con speranza, e chiedono un lavoro di qualità»- come ha detto il primo ministro portoghese Antonio Costa- in questo vastissimo Mezzogiorno fatto di disoccupazione e sofferenza, travalica anche le divisioni di carattere meramente ideologico.
Al vertice di Atene ha voluto reagire con stizza, una parte importante dei popolari: il ministro delle finanze tedesco, il noto falco Wolfgang Schauble, ha dichiarato che «per lo più, quando i leader socialisti si incontrano, non viene fuori nulla di buono». E il capogruppo dei popolari al Parlamento Europeo, Manfred Weber, ha deciso di rincarare la dose, convinto che Renzi e Hollande «si stiano lasciando manipolare da Alexis Tsipras» e che «questo atteggiamento non sia davvero indice di senso di responsabilità».
Prese di posizione estreme, che sono indice di nervosismo, in vista del vertice dei capi di stato e di governo europei a Bratislava, tra una settimana, dove si dovrà dare indicazioni concrete su priorità e scelte dell’Unione.
Da
il manifesto riprendiamo la petizione promossa da A Buon diritto, Amnesty international Italia, Antigone, Cild e la famiglia Regeni e diretta al premier Renzi: «Caso Regeni: l’ambasciatore italiano non deve tornare in Egitto». Lanciata il 3 settembre su Change.org, ha già raccolto quasi 14mila firma su 15mila. 10 settembre 2016
Tra pochi giorni, il 3 settembre, saranno trascorsi sette mesi dalla tragica morte di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ventottenne rapito, torturato e ucciso al Cairo. In un’intervista rilasciata a Riccardo Iacona (Presa diretta, lunedì 29 agosto) la madre, Paola Regeni, ha affermato: “È importante che il nuovo ambasciatore Cantini non scenda al Cairo: non dobbiamo dare questa immagine distensiva”.
Condividiamo la sua preoccupazione. Il ritorno in Egitto del nostro ambasciatore, infatti, sarebbe inteso dalle autorità egiziane come un segnale della volontà di ristabilire normali rapporti politico-diplomatici tra i due Paesi. Riteniamo che ciò sarebbe assai inopportuno, tanto più alla vigilia dell’incontro tra gli investigatori italiani e quelli egiziani, previsto per l’8 e 9 settembre.
Lo scorso 8 aprile il governo ha richiamato a Roma l’ambasciatore italiano in Egitto, Maurizio Massari “per consultazioni”. Poi, nelle settimane successive, Massari è stato destinato ad altro incarico e sostituito da Giampaolo Cantini. Ma quest’ultimo non ha ancora preso servizio presso l’ambasciata italiana al Cairo e resta, per così dire, “richiamato” in Italia senza che ancora sia stato chiesto al governo egiziano il “gradimento” sul suo nome.
Noi pensiamo che così la situazione debba rimanere per ora. E che il richiamo in Italia dell’ambasciatore rappresenti un primo ed elementare provvedimento da cui non recedere: e da rafforzare, piuttosto, con altre e più incisive misure. Insomma, non può essere consentita una sorta di “distensione” tra i due Paesi dal momento che, da parte delle istituzioni politiche e giudiziarie egiziane, nulla è stato fatto per far progredire la ricerca della verità sull’assassinio del nostro connazionale.
Di conseguenza, il richiamo dell’ambasciatore va inteso come premessa di altre iniziative di pressione democratica nei confronti del regime egiziano. Perché, questo è il punto, il governo italiano finora non ha assunto alcun altro provvedimento efficace: e dalle autorità egiziane sono giunte oltraggiose e false affermazioni, ostinati silenzi e vere e proprie forme di depistaggio.
Dunque, senza risposte adeguate e veritiere e senza atti di concreta cooperazione con le istituzioni italiane, non ha alcun senso che l’ambasciatore Cantini si insedi nell’ambasciata italiana al Cairo.
Luigi Manconi, Presidente di A Buon diritto
Antonio Marchesi, Presidente di Amnesty international Italia
Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone e di Cild – Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili
I genitori di Giulio, Paola e Claudio Regeni
L’avvocata della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini
Se c’è uno spazio politico nel quale la sinistra può ritrovare la sua ragion d’essere è quello europeo. È lì che la politica può incidere sui grandi nodi strutturali del nostro tempo (disoccupazione, immigrazione, mobilità sociale, sfide ambientali e climatiche, terrorismo ecc.) e offrire proposte e visioni alternative».
Il manifesto, 10 settembre 2016
Ho seguito con molto interesse, ma anche con altrettanto scetticismo, il dibattito sulla «morte della politica» ospitato dal manifesto. Confesso subito che la stessa espressione o «slogan» – come lo chiama Alberto Burgio – della «morte della politica» non mi convince affatto. Per almeno due ragioni.
La prima è che la politica non muore; al massimo, si indebolisce, si affievolisce, entra in un apparente letargo e finisce per essere temporaneamente confusa con l’amministrazione dell’esistente. Ma la politica rimane comunque al suo posto, seppure in forme meno visibili e appariscenti.
La seconda ragione è che mai come in questo momento, se allarghiamo i nostri orizzonti al di fuori della piccola Italia, la politica – quella «grande» a cui faceva riferimento Gramsci – torna a mostrarci la sua vera natura, che per molto tempo avevamo cercato di addomesticare. Nel corso degli ultimi anni, assistiamo quasi quotidianamente ad eventi eminentemente politici: Stati che reclamano la loro sovranità, militari che inscenano (maldestri) colpi di Stato, intere popolazioni costrette a fuggire dai loro territori per motivi etnici o religiosi, nazioni che intendono difendere i loro confini nazionali con chilometri di filo spinato o con muri faraonici. L’elenco può essere allungato a piacimento, ma credo sia più che sufficiente a mostrare che la «notte della politica» (se così era) è finita e siamo all’alba di un grande risveglio.
Finora, il dibattito dedicato alla «morte della politica» si è concentrato quasi esclusivamente – direi ossessivamente (ad eccezione degli interventi di Stefano Fassina e Yanis Varoufakis) – sul contesto italiano e sulle cause «domestiche» della crisi.
La mia impressione, invece, è che per capire lo stato attuale della politica (e della sinistra) serva una prospettiva esterna, internazionale. Mi spiego meglio. A mio avviso, quando oggi si discute di crisi della politica credo che, implicitamente o no, si faccia riferimento all’idea di uno «spazio politico», quello che gli inglesi chiamano polity per distinguerlo tanto dalla politics (il «gioco del potere») quanto dalla policy (l’ambito delle politiche pubbliche).
E mi pare evidente, al di là delle nostalgie nazionalistiche dello stesso Fassina, che lo spazio politico che oggi si trova maggiormente sotto stress è quello dello Stato-nazione, che non ha più la forza, gli strumenti, le capacità per fare fronte alle pressioni delle grandi multinazionali, alle dinamiche dei mercati finanziari internazionali, ai processi migratori di scala continentale, ai disastri climatici o ambientali che superano i confini dei singoli Stati.
In questo senso, la crisi della politica su cui ruota l’intero dibattito è, in realtà, una crisi dello spazio politico nazionale, il quale, da solo, non è più all’altezza delle sfide innescate da economie sempre più integrate a livello internazionale. È qui, su questo snodo, che la crisi della politica si riflette dentro la crisi della sinistra, non solo italiana.
E su questo ha pienamente ragione Burgio nel sottolineare che l’attuale crisi della sinistra è «una crisi organica, non episodica», e cioè molto più strutturale che congiunturale. Del resto, come potremmo spiegarci l’uscita – per così dire – a destra (con crescita dei partiti populisti, nazionalisti e xenofobi) dopo la più grave crisi economica che il mondo occidentale abbia sperimentato almeno negli ultimi due secoli? Una crisi – si badi bene – prodotta da un neo-liberismo senza freni, totalmente «sregolato», che ha drammaticamente fatto tornare a crescere le diseguaglianze sociali ed economiche dopo una lunga fase di riduzione.
In teoria, tra il fallimento della ricetta neo-liberale e l’esplosione delle (nuove) diseguaglianze esistevano praterie per la crescita delle forze di sinistra. E invece stanno regredendo un po’ dappertutto perché incapaci di, o impossibilitate a, offrire risposte adeguate alla crisi economica nella quale siamo ancora tutti intrappolati. Qui sta l’elemento strutturale dell’attuale debolezza della sinistra, legata a doppio filo con la crisi della dimensione politica nazionale.
Se questa diagnosi è corretta, mi pare chiaro che (soprattutto) i partiti di sinistra debbano incominciare seriamente a interrogarsi su quale sia il nuovo spazio politico idoneo alle sfide che ci troviamo di fronte. Per le forze politiche di destra o conservatrici, che hanno da sempre fatto leva su uno «Stato minimo», la debolezza della politica è un aspetto secondario, marginale. Ci penseranno altri fattori – gli animal spirits, i singoli individui, i gruppi di interesse ecc. – a fare i loro conti con l’economia e con i mercati. Ma per la sinistra la politica – intesa come spazio politico all’interno del quale poter governare e regolare anche i fenomeni economici – è fondamentale: simul stabunt, simul cadent, o stanno assieme o non staranno per nulla.
Se c’è uno spazio politico all’interno del quale la sinistra può ritrovare la sua ragion d’essere è sicuramente quello europeo. È lì che la politica può incidere sui grandi nodi strutturali del nostro tempo (disoccupazione, immigrazione, mobilità sociale, sfide ambientali e climatiche, terrorismo ecc.) e offrire proposte e visioni alternative ai cittadini.
Certo, non è questa Europa la soluzione, ma sicuramente è dentro l’Europa che va cercata. Per questo trovo sterili le proposte di Fassina, per il quale la risposta ad un «astratto e impolitico europeismo» sarebbe il semplice ritorno alle prerogative dello Stato-nazione, cercando di rimettere il dentifricio della globalizzazione dentro il tubetto nazionale: impossibile.
Ugualmente velleitarie, ma almeno indirizzate verso il giusto bersaglio, mi paiono le soluzioni «movimentiste» di Varoufakis, secondo cui la nuova Europa potrà nascere soltanto da forme diffuse di disobbedienza sociale e territoriale. Se però sono queste le uniche soluzioni sul tavolo, ho l’impressione che la «notte della sinistra» sarà ancora molto lunga.
«La crisi dell’autorità e l’evaporazione di una figura chiave nella riflessione del grande sociologo». La
Repubblica, 9 settembre 2016 (c.m.c.)
Giobbe ha dovuto tenere a mente una grande verità, imparandola in maniera dura: «So questo per la verità, che nessun uomo può vincere la sua causa contro Dio. Se un uomo sceglie di discutere con lui, Dio non risponde a una domanda su mille» (Gb 9; 2-3). Da qui in avanti si capirà cosa vuol dire questa verità di Giobbe.
Molti anni fa Italo Calvino, proprio sui giornali, aveva parlato di una specie di centro “strano”, affermando che: «La società moderna tende verso un complicato set-up, che gravita verso un centro vuoto, ed è in questo spazio, che si rivela vuoto, che tutti i poteri e valori si riuniscono».
Questo processo potrebbe aver dato il via, per ricordare ancora Calvino, a una potente teoria di forza centripeta del vortice di contemporaneità, ad un centro schizzato dai “cadaveri” dei tanti che aspiravano in passato a stabilirsi in un presunto centro che in realtà si è scoperto poi vuoto. Mi sono già confrontato sul tema religioso in molte occasioni e tornerò a farlo ad Assisi nel dialogo con Papa Francesco il 20 settembre prossimo. Ora però l’aspetto più interessante, in questo scritto, è quello che riguarda una figura tradizionalmente vincente e, da qualche tempo, tragicamente perdente: il Dio Padre, il Padre, la Patria. Una precisazione.
Da quanto visto in Polonia, nei luoghi dello sterminio, ma non solo, questo discorso del “centro vuoto” non tocca neanche in parte il pontefice attuale, che esercita un ruolo di Padre sui giovani in cerca di un centro che non trovano. Tralascio al momento quest’aspetto. Non ho intenzione di affiancare il “cadavere” del Padre o di Dio Padre a quello di chi sta esercitando un grande ruolo, anche politico, come Papa Francesco.
Il cadavere che ha attirato l’attenzione di Lacan era il Padre; per Nietzsche era il Padre di tutti i padri: Dio; per molti altri, la Patria, un’altra tipologia di padre. Dio, il Padre, la Patria sono i nomi diversi dati a una totalità più grande della somma delle sue parti (individuali): basti pensare ad esempi molto importanti come il Leviatano di Hobbes.
Invece la figura del Sovrano di Schmitt ha dimostrato di avere caratteristiche particolari. In Political Theology, il filosofo definisce la figura del “sovrano” (altra variante del padre) non tanto per la sua prerogativa di legiferare, ma per la sua irresponsabilità, a volte, nella violazione della legge, un motivo (quasi come un curioso paradosso) giustifica l’atto del fare le leggi e poi di infrangerle; un atto, pur sempre decisionale, esclusivamente basato sulla volontà del sovrano, anche se in negativo; in ultima istanza, il sovrano è colui che non deve rendere ai soggetti del suo governo né scuse e nemmeno spiegazioni delle sue mosse.
È colui che ha in assoluto la libertà decisionale che tutti noi – i suoi soggetti, dipendenti dai suoi voleri e dalle sue scelte – dobbiamo tenere in conto, anche quando si basano sulla violazione della legge. Paradossalmente, però, il “timore e tremore” generato, come direbbe Kierkegaard, dal confronto con una tale potenza assoluta, prepotente e insopportabile, imperscrutabile e incalcolabile, sembra essere un artificio culturale ingegnoso ed efficace, in grado di rendere sopportabile – anzi, addirittura vivibile – una vita vissuta di fronte al destino ostinatamente impenetrabile.
Invece di esacerbare il confronto con il potere, attenua il terrore, altrimenti incurabile, dell’ignoto. Dio, Padre, Re vede ulteriormente e sente più di me. Non solo egli sa che cosa il futuro ha in serbo, ma lo rende flessibile. Egli è onnisciente e onnipotente; se lui desiste dal fare quello che ho a cuore, deve essere perché sa, mentre io, con la mia ragione, non so e non sarei in grado di capire davvero se sapessi.
Tendo a individuare il 1755 come l’anno in cui il mandato per lo sgombero di Dio dal centro dell’universo ha cominciato ad essere redatto – anche se, piuttosto che parlare di sfratto di Dio, sarebbe meglio parlare di abbandono del centro, abbandono del dovere o fuga di un inquilino insolvente. Nel 1755 accadde un triplo disastro. Terremoti, incendi e inondazioni in rapida successione toccarono Lisbona, a quel tempo generalmente considerata come uno dei principali centri del potere europeo, grazie alla sua ricchezza, ma anche per la sua cultura. Lisbona fu distrutta, ma i colpi della distruzione cadevano a caso; come Voltaire era pronto ad osservare: «sia l’innocente che il colpevole subiscono questo male inevitabile». Il verdetto di Voltaire era cristallino: il soggiorno di Dio al centro dell’universo non era riuscito a superare la prova della Ragione e della Morale impostate dagli esseri umani. Ora toccava agli uomini la nuova gestione. Lo sfratto era avvenuto.
Attraverso i due secoli successivi abbiamo imparato comunque, e nel modo più duro, che i “manager umani” sono capaci di fare molto caos, con razionalità e senso morale; così come abbiamo imparato la resistenza del Grande Ignoto nel fare un passo indietro, e la fermezza di vincoli che ostacolano i “manager umani”, i quali comunque sono ben al di sotto nel raggiungere l’onniscienza, per non parlare dell’onnipotenza. Ad esempio, lo Stato e il mercato, le due agenzie che la Ragione e la Morale hanno elaborato in consultazione reciproca, anche se non necessariamente in pieno accordo delle due agenzie, gestiscono parte dell’universo ma sono fallite e continuano a fallire, lasciando frustrate le aspettative degli uomini.
Il
padre, non in senso carnale, ma metaforico, appartiene al più piccolo frattale nella successione gerarchica dei frattali. Egli è in grado, ad esempio, di costituire insiemi di frattali più distanti per dare vita, poi, a un tessuto, in biologia, visto che il frattale si usa anche lì. Quel tipo di padre–frattale arriva più vicino al ruolo di societas e communitas. Prove e tribolazioni attuali affliggono la “figura paterna” e riflettono, in forma sintetica, i processi che interessano le idealizzazioni, su qualsiasi livello, della struttura frattale-paterna. Occorre considerare il numero crescente di bambini che crescono in famiglie con un solo genitore, resta tuttavia il ruolo di un padre simile a quello di cui parlava Tommaso d’Aquino: “Deus otiosus o absconditus”, soprattutto attraverso la sua assenza e la non interferenza.
Se entrambi i genitori biologici discutono se rimanere sotto lo stesso tetto o no, i legami genitori– figli sono sempre più sciolti, allo stesso tempo è spogliata la struttura dell’autorità. Lo svuotamento improvviso di un “centro gravitazionale” è stato spalleggiato dalla rinuncia forzata o volontaria dei genitori, che quasi si sono dimessi dal loro ruolo. E mi si permetta di aggiungere che gli scrupoli morali che potrebbero in futuro seguire a tale resa tendono ad essere affrontati con i beni e i servizi acquistabili sul mercato e più comunemente con l’uso dei beni che offrono la possibilità di vivere una condizione di tranquillità morale, che a sua volta apre la porta sempre più alla commercializzazione degli aspetti più intimi della solidarietà umana. Con quali esiti?
( Traduzione a cura di Dorella Cianci)
«La sola ribellione non servì nel ’68 figuriamoci adesso. Reinventare «i disubbidienti» non è sufficiente, né qui e tanto meno in Europa. A Varoufakis dico: per restituire sovranità al popolo europeo servono invenzione, progetto, organizzazione, egemonia, le "casematte"». il manifesto, 9 settembre 2016
Ho visto e letto negli ultimi giorni due cose che mi hanno reso contenta, e tuttavia mi hanno anche indotto a riflessioni polemiche. Mi confesso in pubblico (quello dei lettori del
manifesto, si intende, in grado, forse, di condividere le mie soddisfazioni e pure i miei mugugni).
Comincio dal «visto»: Assalto al cielo, il film sul ’68 di Francesco Munzi, presentato fuori concorso al festival di Venezia e su cui ha scritto Silvana Silvestri. Sono andata a vederlo perché Munzi è un bravissimo regista, ha fatto bei film, specie l’ultimo, Anime nere. Insomma: una garanzia preziosa visto che la materia è stata fino ad oggi quanto mai maltrattata.
Penso all’orrenda celebrazione ufficiale del quarantesimo, otto anni fa, quando il movimento che pur con tutti i suoi errori e difetti ha segnato un cambiamento d’epoca è stato generalmente ridotto a «sesso droga e rock and roll».
Non mi sono sbagliata: il film è rispettoso della serietà dell’impegno e della passione politica che hanno animato una consistente parte della generazione arrivata alla maturità quasi mezzo secolo fa e le immagini - moltissime custodite dall’Archivio del movimento operaio e democratico, ma quasi mai arrivate ad un pubblico largo - sono bellissime. Inedita e straziante l’intervista ai genitori del brigatista Walter Alasia. E però. Munzi dice a Montini su Repubblica: «Non volevo che quel movimento restasse ostaggio della memoria di quelli che l’hanno vissuto», che fossero loro gli «unici titolati a parlarne». «Ho esposto i fatti - continua - perché i giovani sappiano dove stava andando l’Italia».
Il film glielo ha davvero fatto capire? Munzi stesso, che nel ’68 non era neppure nato, si è fatto un’idea di cosa è stato? Su questo ho molti dubbi e anche qualche preoccupazione. È vero che ognuno di noi - come giustamente scrive Silvana - avrà una diversa lettura del film a seconda della propria personale esperienza di quegli anni. Il ’68 - che in realtà in Italia durò dieci anni – ha del resto avuto molte anime ed è difficile ridurlo ad una unica espressione. Ma io credo che un dialogo con chi invece all’epoca era già nato non sarebbe operazione oziosa, perché dai frammenti di assemblee infuocate e di manifestazioni violente - che certo ci sono state - non si ricava il senso più profondo, e in questo senso comune, di quella sollevazione generazionale. Che non fu una reazione disperata e puramente utopica, ma la presa di coscienza - maturata dopo il ricco decennio dello sviluppo neocapitalista - dei limiti di un modello di modernizzazione che, se chiuso entro l’orizzonte capitalista, si sarebbe rovesciato in barbarie. Fu, insomma, una precoce critica della modernizzazione in un’epoca in cui buona parte della sinistra tradizionale partecipava al balletto Excelsior.
Fu, certo, anche un movimento antiautoritario, ma la sua specifica caratteristica, fu di aver capito che la libertà non è individuale ma fonda le sue vere radici nei rapporti sociali di produzione (fu questa la frase più popolare di Marcuse). Di qui la ricerca di un rapporto con la classe operaia, che, è vero, produsse anche scontri e incomprensioni, ma fu vitale per determinare un mutamento della lotta nella fabbrica, inizialmente indotto da minoranze, poi contagioso e infatti alla fine veicolato dallo stesso sindacato, che ne garantì l’estensione. Fu merito della Cgil e della Fim-Cisl aprirsi al movimento, sia pure non senza scontri durissimi, al movimento, cosa che non avvenne che in Italia. Gli anni ’70 furono infatti ricchi di conquiste e non solo di disastri.
Poi abbiamo perso. Non solo per i nostri errori, ma anche per quelli di una sinistra tradizionale che stentò a capire. E iniziò una tragica involuzione. Il sistema operò, come così spesso nella storia, una rivoluzione passiva: assunse le istanze libertarie individuali che non mettevano in discussione il potere, e espulse quanto invece dava fastidio. Se insisto a difendere il nucleo comune e vero della memoria sessantottina non è per autodifesa, ma proprio per stabilire un dialogo critico (e autocritico) con quelli nati nei ’90.
Per quanto ho letto invece, mi riferisco all’articolo di Yanis Varoufakis sul manifesto di martedì 6. Sono contenta, perché chiarisce nuovamente e con più chiarezza di quanto aveva fatto in una assemblea a Roma qualche mese fa di essere contrario ad abbandonare il campo di battaglia europeo e a ripiegare su impossibili soluzioni nazionali. Così come auspica il gruppo che fa capo a Lexit, la sinistra pronta ad abbandonare l’Unione europea. I miei dubbi nascono dalla strategia proposta: se vogliamo restituire sovranità al popolo europeo e togliere il diritto di deliberare ai poteri extrapolitici, estranei al sistema democratico, cui il liberismo l’ha affidato, basta la ribellione? Ribellarsi è giusto e utile, ma non mi pare che reinventare «i disubbidienti» sia sufficiente, né qui e tanto meno in Europa. Proprio perché il demos europeo va costruito, decisivo è costruire quegli organismi intermedi che collegano i cittadini con le istituzioni e che possono incidere sulle decisioni riappropriandosi del diritto a deliberare che gli è stato espropriato. Voglio dire costruire un vero sindacato europeo dotato dei diritti di cui è dotato a livello nazionale; reti fra le città per progetti comuni che ripensino il modo di vivere (quanta ispirazione dalla bellissima Biennale di architettura di quest’anno, intitolata significativamente «Siamo al fronte»); rete di organismi consolidati che comincino a gestire direttamente pezzi della società; media comuni sì da evitare la frammentazione dell’opinione pubblica europea su cui gioca il potere. Anche partiti europei veri.
Ma allora non basta disubbidire, occorre invenzione, progetto, organizzazione, egemonia. Senza casematte, ci diceva Gramsci, il campo di battaglia è pericoloso.
Dissento radicalmente da Stefano Fassina ("La sinistra nella morsa del liberismo", il manifesto del 2/9) secondo cui: «il demos europeo non esiste. Il demos è nazionale per radici culturali, storiche e sociali. La democrazia o è nazionale o non è». Per questo non posso che concordare con la critica che Yanis Varoufakis muove a quelle stesse posizioni ("Europeisti contro gli oligarchi", il del 6/9). Non è chiaro che cosa Fassina intenda per demos, che poi vuol dire popolo, gente: verosimilmente coesa e organizzata in corpi intermedi.
Dalle sue parole risulta che condizione della democrazia sia la condivisione di un comune spirito nazionale. Ma mai come ora nella storia dell’Italia repubblicana, ma anche in quella di tutti gli Stati europei usciti dalla seconda guerra mondiale, il conflitto, inteso come non condivisione di un comune sentire, risulta tanto irriducibile da dissolvere l’idea stessa di un demos comune.
Al centro di di quel conflitto c’è una enorme «variabile» che né Fassina né Varoufakis considerano: l’alternativa tra accogliere o respingere profughi e migranti e tra includere o emarginare i cittadini europei con origini in altri paesi. Certo, non c’è modo di accogliere e includere se non si è disposti a riconoscere i più elementari diritti nemmeno a una parte crescente dei cittadini europei. Ma non c’è niente di condiviso, per usare due figure emblematiche, tra Matteo Salvini, capo della Lega, e Domenico Lucano, sindaco di Riace; né tra chi condivide parole e atti dell’uno o dell’altro, anche se Salvini tutti sanno chi è, mentre di Lucano ben pochi hanno sentito parlare, nonostante che la rivista Fortune lo consideri una delle persone più importanti della Terra.
Ma non c’è niente di condiviso neanche tra coloro che non vorrebbero prendere posizione né per l’uno né per l’altro, perché il conflitto tra quelle polarità è destinato comunque a crescere e a decidere il futuro dell’Italia e dell’Europa. Lo vediamo alla prova del voto in Austria, dove i partiti tradizionali sono quasi scomparsi a favore degli opposti schieramenti «accogliere o respingere»; nel Regno Unito dove il voto sulla Brexit si è svolto, in modo più confuso, sullo stesso tema; in Francia e Germania, dove domina ormai la competizione politica; in diversi paesi dell’Europa dell’Est, dove si è già risolto, per ora, a favore del respingere: anche là dove profughi e immigrati quasi non esistono.
Oggi hanno la meglio, anche perché l’establishment europeo è sempre più allineato con le loro pretese, i fautori del respingere: ma anche se la pensano tutti allo stesso modo, non possono costituire un fronte comune e meno che mai un demos europeo, perché ciascuno spinge il proprio paese ad allontanarsi da tutti gli altri: parlano di difendere le frontiere comuni dell’Europa, ma ciascuno difende e rafforza le sue: e qui frontiera non vuol dire solo confine geografico, ma anche culturale, sociale, economico e politico.
Dal lato opposto, nelle pratiche, se non nelle politiche – perché queste non ci sono – di accoglienza, come in quelle di ibridazione culturale e sociale con chi già è insediato in Europa, si sta invece costituendo, anche se scarsamente consapevole di sé, un vero demos europeo: un fronte comune di persone, soprattutto giovani, che si riconoscono al di là dei confini nelle scelte e nelle iniziative di tutti coloro che si adoperano per accogliere e per far incontrare le diverse culture e che hanno come comune punto di riferimento l’Europa: non l’Unione Europea e le sue istituzioni, e meno che mai l’euro; non l’Italia o la Francia, la Grecia o la Germania, ma l’Europa come meta legittima di persone come noi, che cercano in questo continente una sopravvivenza che nel loro paese di origine è negata; un luogo da cui offrire sostegno economico, morale e culturale alle loro comunità rimaste a casa o a metà strada; e forse anche un trampolino per ritornare, in condizioni diverse, da dove sono partiti.
È un sentire comune a profughi, migranti e cittadini europei impegnati a fare dell’Europa non una fortezza, la cui chiusura porta inevitabilmente alla frantumazione, ma uno spazio aperto a una progettazione condivisa di vite, convivenze ed economie completamente diverse.
D’altronde, riempire bocche e schermi di ingiunzioni a respingere e rimpatriare è facile; ma tradurle in pratica è un’altra cosa: nel «migliore» dei casi, significa ributtare coloro che cercano rifugio in Europa tra le braccia – o gli artigli – delle bande da cui cercano di fuggire; le stesse che stanno minando anche la sicurezza dei cittadini europei; nel peggiore, condannarli a morte nei paesi di origine, in quelli di transito, o in mare: uno sterminio.
Dunque in gioco non c’è solo l’Unione Europea, né solo l’euro, ma il progetto di un’Europa che, se ridotta a fortezza, è destinata a dissolversi. Per questo sia gli «spinelliani senza se e senza ma» irrisi da Fassina sia quelli che «se e ma» ne producono dozzine, devono fare i conti con questa evenienza (e non «emergenza») su cui si gioca il destino politico, sociale e culturale del continente.
Dovrebbe però essere chiaro che, anche se i loro confini non combaciano, euro e Unione Europea sono indissolubilmente legati: se crolla l’uno si dissolve anche l’altra. I tentativi di tenerli separati, come quello fatto da Luciano Gallino a cui Fassina si richiama, sono giocati sul piano giuridico: testimonianza di una pervicace volontà di salvare il progetto europeo.
Ma il problema non è giuridico, bensì politico.
Fassina, che da tempo ha abbracciato l’idea che uscire dall’euro porterebbe il paese fuori dalle secche in cui l’hanno arenato le politiche europee, invoca l’autorità di Stighitz, che prospetta due soluzioni per cercare di salvare euro e Unione: un «piano A» con tutti quegli ingredienti, dagli eurobond a politiche fiscali e del lavoro comuni, considerati necessari a rilanciare «la crescita». Ma Stiglitz sa che non verrà mai condiviso da chi governa oggi l’Europa. In subordine, un «piano B»: dividere l’euro in due, uno per i paesi «forti» e uno per quelli dell’Europa mediterranea, così da attenuare la divaricazione prodotta dalla condivisione della stessa valuta.
È l’opzione cui si aggrappa Fassina: una soluzione intermedia rispetto a una competizione a suon di svalutazioni a cui aprirebbe le porte il ritorno alle valute nazionali (e che finirebbe per azzerare i vantaggi di una svalutazione, non meno dell’attuale compressione salariale).
Ma che cosa potrebbe mai indurre a gestire la divisione in due dell’euro governi che non sono in grado, per cultura, interessi costituiti e prassi consolidate, di metterlo in salvo invertendo rotta di 360 gradi?
Abbiamo già visto all’opera la forza di inerzia di quell’establishment, che ha finito convincere anche persone come Fassina a votare e cercare di gestire scelte demenziali come il pareggio in bilancio.
Senza un conflitto per ridisegnare in modo aperto confini e strutture di governo dell’Europa quelle politiche non saranno mai in grado di autocorreggersi. Perché il demos di cui ha bisogno la democrazia non è quello che deriva dal condividere culture e storie nazionali, bensì quello che si sta costituendo nel conflitto che mette in gioco il futuro di tutti.
Invece di cercare di salvare gli assetti esistenti va messa all’ordine del giorno una nuova configurazione dell’Europa, capace di promuovere dal basso, anche al di là dei suoi confini geografici, coinvolgendo i migranti e le loro comunità di origine, e a partire dai movimenti già in atto e dalle città ribelli a cui si richiama Varoufakis, ciò che l’attuale governance europea non riesce né vuole promuovere dall’alto: una radicale conversione ecologica di tutto il tessuto sociale ed economico.
Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2016 (p.d.)
Si chiamava Antifaschistischer Schutzwall, l’avevano eretto in una notte i soldati russi, cadde il 9 novembre 1989 quando il governo di un paese che non esiste più - la Ddr - decretò l’apertura delle frontiere. Che Berlino sia l’ultimo muro, disse l’intera Europa. Non è andata così. Alcuni sono rimasti. Altri ne verranno costruiti, non più antifaschistischer ma anti-afrika-nischer. O anti-poveri.
Il muro anglo-francese prossimo venturo ha un modello: due alte barriere separano le spagnole Ceuta e Melilla dal circostante Marocco, una doppia corsia di sei metri di rete e lame affilate, stesa nel 1999 dalla Spagna tra le proteste della monarchia marocchina. Altri muri segnano le ferite d’Europa. A Belfast sono 99 i muri coronati di filo spinato che separano ancora oggi i quartieri cattolici da quelli protestanti - e la pace in Irlanda del Nord è stata firmata nel lontano 1998. Ogni anno il 12 luglio tutte le logge massoniche del Regno Unito percorrono le strade delle città nordirlandesi celebrando la vittoria del re protestante Guglielmo d’Orange sul re cattolico James II. Lo fanno da trecento anni. Ogni volta si rischia che finisca a botte o peggio a pistolettate.
Un muro separa ancor oggi la Cipro turca dalla Cipro greca: 12mila soldati greci da una parte, circa 40mila soldati turchi dall’altra. Il progetto fu sbrigativo: nel 1963 il generale inglese Peter Young prese una matita verde e tracciò una linea sulla mappa di Nicosia, creando la sola capitale divisa rimasta al mondo. Il muro di Nicosia sbudella case e strade con una terra di nessuno fatta di costruzioni sbrecciate e vicoli devastati che chiamano Zona Morta.
In attesa che Donald Trump vinca le presidenziali e costruisca il muro tra Usa e Messico (il suo “impenetrable, physical, tall, powerful, beautiful, southern border wall”), formazioni di ultradestra dilagano in Europa.
In Germania l’Afd di Frauke Petry ha appena stracciato la Cdu di Angela Merkel in Meklenburgo, è già nei parlamenti di tre Laender e l’anno prossimo entrerà di certo nel Bundestag. In Francia il Front National di Marine Le Pen è ormai il primo partito. In Olanda il Pvv anti-europeo e anti-immigrati di Geerd Wilders avrebbe, negli ultimi sondaggi, un quarto delle intenzioni di voto. Il Belgio ha nel governo i nazionalisti fiamminghi dell’N-Va di Bart De Wever ha il 33%. La Slovacchia ha già un elettore su cinque che vota l’estrema destra, e i neonazisti del Sns di Marian Kotleba hanno l’8% e tre ministri. In Ungheria Jobbikha preso il 20% alle politiche del 2014 e il partito nazionalista euroscettico Fidesz esprime il premier, Viktor Orban. Un tribunale ungherese ha chiesto la condanna (rischia a due anni) di Petra Laszlo, la cineoperatrice che nel settembre scorso aveva fatto lo sgambetto ai i migranti in fuga dalla polizia. In Polonia il presidente Duida e la premier Szydlo appartengono al partito ultraconservatore Pis. In Grecia i neonazisti di Alba dorata sono la terza forza con il 7%. In Austria lo xenofobo Fpoe aveva perso di un soffio la presidenza - ma il ballottaggio andrà ripetuto. E nel Regno Unito l’euroscettico Ukip di Nigel Farage ha vinto la Brexit obbligando i tory a cambiare guida (Theresa May) e linea (a destra). Altri muri in arrivo.
Un contributo rigoroso al lavoro di chi cerca di ricostruire la politica a partire dallo studio delle condizioni reali degli sfruttati (sul mercato del lavoro, nella città e nella società), e abbia imparato che in Italia una sinistra non c'è.
Il manifesto, 7 settembre 2016
Tutto è politico, anche il terremoto, come è visibile ora, dopo i giorni di silenzio e di lutto dovuti al dolore e alla tragedia. Sono politiche le scelte, le prospettive, i progetti realizzati e quelli mai iniziati, le speranze e perfino la corruzione. Per questo mi lascia perplessa parlare di morte della politica.
Mentre certamente è stata consumata una fine, la fine di una forma politica che a lungo abbiamo chiamato sinistra, e che comprende un insieme variegato di organizzazioni, sigle, pratiche, anche movimenti, oltre che un linguaggio e una visione del mondo. Una fine non riconosciuta, continuamente rinviata e posticipata, e per questo sì, trasformata in una cristallizzazione di parole, di pratiche che non dicono più nulla, neanche a chi le perpetua con ostinazione.
Peggio di una morte, per essere chiara, perché ci si è incaponiti a non nominarla, non vederla, e senza riconoscimento non si può elaborare il lutto, tutto si è trascina con sempre minore slancio, con nulli o quasi effetti visibili. Rimangono il rancore, le infinite accuse reciproche, la ripetizione di riti e comportamenti vuoti, parodie del potere che non c’è.
La novità è che ora, forse perché non c’è più nulla da smuovere, non ci sono più obiezioni e resistenze. Il rischio caso mai è il contrario. Confondere questa fine con la fine di tutto, della politica tout court. In un certo senso l’operazione opposta a quelle di Francis Fukuyama, quando nel 1992 proclamava la fine della Storia a fronte della caduta del muro di Berlino e della conseguente vittoria del capitalismo. Perché ha senso contemplare una fine, se si sposta lo sguardo su ciò che può cominciare. Altrimenti si tratta di una resa senza condizioni. E si lascia il campo a chi della cecità, e della confusione che ne è derivata, ha tratto il massimo profitto. In tutti sensi possibili. Economico e politico.
Un aspetto della complessità è che il fantasma della sinistra continua ad esistere, nello scenario politico italiano. Viene identificato con il Pd che pure, fin dalla sua nascita, da quando fu detto che lavoratori e imprenditori ne erano referenti allo stesso titolo, ha abbandonato la ragion d’essere di un partito di sinistra, anche moderato. La difesa della parte più debole della società, la lotta contro le ingiustizie. L’insieme del corpo politico di quel partito, e della società, in prima linea il sistema dei media, hanno assecondato il rovesciamento del campo del riformismo, bandiera nobile di una delle forme della sinistra. Altro che difesa dei deboli.
L’efficienza, la redditività assunte come valori unici hanno aperto la strada a politiche a sostegno delle esigenze di multinazionali e banche. Le riforme sono diventate ciò che favorisce il potere, l’establishment. L’inquinamento del linguaggio è una malattia grave: parole, idee, cose non dicono più ciò che dicevano. È in questa battaglia che la sinistra alternativa/radicale è stata spazzata via, una vicenda che andrebbe ripensata con attenzione e che non è solo il risultato di un’operazione mediatica.
Nel contesto di un cambiamento di segno che ha investito le socialdemocrazie europee. Senza dimenticare i segni di inversione, basti pensare alle tensioni del Labour Party, con Corbyn corpo estraneo all’establishment blairiano, o alle scelte di rottura dei partiti socialisti rispetto alle grandi alleanze in Portogallo e Spagna, quest’ultima una partita tuttora aperta. In Italia Renzi ha radicalizzato la fisionomia del Pd, con una significativa torsione verso il centro, unita a una tensione al potere personale. Molto in sintonia con i progetti dell’establishment internazionale, come è evidente nell’intreccio tra Italicum e la de-forma costituzionale.
Qui si colloca la fine della sinistra. Quella popolare, di massa, quella alternativa, che pur divise anche ferocemente, hanno una lunga storia comune di scambi vitali che hanno segnato la società, hanno portato i risultati che hanno cambiato la vita dei lavoratori, delle donne, dei più poveri. Quei risultati che ora sono attaccati uno ad uno. A cominciare dalle condizioni di vita dei più giovani. La domanda è questa. Perché le sofferenze sociali, sempre più estese e insostenibili, non trovano una voce adeguata? Perché gli 11 milioni di italiani che hanno deciso di rinunciare a curarsi, di fronte a un sistema sanitario sempre più costoso, non sono al centro delle nostre battaglie? Perché il Jobs Act, che pure è stato ampiamente criticato, è passato nel sostanziale silenzio sociale?
Una prima risposta, dolorosa, ritengo sia in quella fine non consumata, che ha reso teatrali e sempre più vuote le proteste. Non conflitto reale, ma messa in scena del conflitto. E forse per quel punto di cui ha scritto Enzo Scandurra su questo giornale: che si è finito per assomigliare, nei comportamenti e nei pensieri, a quel potere a cui ci si opponeva. Non bastano l’invocazione della legalità, la lotta anti-casta, le idee che guidano il Movimento 5stelle, a dare una visione del mondo. Movimento che occupa lo spazio dell’opposizione, e che viene votato da chi ancora va a votare, perché ha una forza ritenuta comunque utile.
Con onestà va detto che una visione non è a portata di mano. E non ci sono ricette taumaturgiche. Non c’è un re che possa imporre la mano e guarire il popolo malato. Due punti mi sembrano chiari. Occorre comprendere, conoscere, interpretare lo stato delle cose. Quello attuale, in tutte le sue dinamiche. Cioè occorre studiare, riflettere, pensare. Lo so, sembra assurdo quando ciò che urge è l’azione. Ma su cosa agire, e come? Al di là delle denunce, delle polemiche ci siamo chiesti, per esempio, perché il corpo delle donne si trova al centro dello scontro politico internazionale? Quale rovesciamento, del progressismo e dei femminismi, è in corso? A quale lavoro, quale rendimento, sono chiamati i corpi, le relazioni affettive, compresi piaceri e depressioni? Insomma, sappiamo a quale disegno sociale ci si oppone? Abbiamo gli attrezzi giusti? L’altro punto è praticare il realismo e la generosità delle battaglie. Uno dei modi per ostinarsi a non riconoscere la fine, e quindi occultare la decomposizione in corso, è rinchiudersi nei propri ambiti.
Movimenti, associazioni, gruppi. Donne, uomini, generi diversi. Un passo necessario è uscire da sé, guardarsi intorno. E scegliere insieme. Penso al referendum costituzionale. La vittoria del No non risolve i problemi specifici, è ovvio. Ma permetterà di affrontare con forza, e quadro istituzionale non compromesso, ogni battaglia
«Evgeny Morozov. L’esperto mondiale dei nuovi media: “Lo Stato dovrebbe proteggere i nostri dati in mano a Apple o Facebook, non trattarci alla pari”».
Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2016 (p.d.)
L'Italia è un ottimo esempio dello strapotere dei colossi digitali. Evgeny Morozov, 32 anni, è uno degli esperti dei nuovi media più stimati al mondo e venerdì sarà in Italia per il Festival della Comunicazione di Camogli. E sulle strategie digitali italiane è molto diretto.
Morozov, partiamo dalla cronaca. Che ne pensa del caos Apple-Irlanda?
Ci sono tre ordini di problemi. Primo: in Europa non esiste coerenza fiscale. Secondo: le aziende digitali giocano sulla collocazione del loro business perché i loro guadagni sono online. Terzo: fanno accordi con i governi, da pari a pari. La Silicon Valley è diventata un nuovo mostro.
In che senso?
Questi giganti hanno acquisito troppo potere, penetrano e utilizzano ai loro fini le istituzioni statali. L’Italia è un caso di scuola. Il governo non cerca l’innovazione, ma solo la sua immagine da vendere: stringe accordi o assume consulenti che vengono dalle multinazionali, proprio come è successo con Amazon (il nuovo consulente di governo per il digitale, Diego Piacentini, è un suo alto dirigente in aspettativa ndr).
Quale rischio si corre?
Questi consulenti non hanno esperienza nel settore pubblico e così si crea una graduale privatizzazione di un bene dello Stato mascherata da progresso: si aiutano i colossi a fare cose che i governi avrebbero dovuto fare loro e lo stesso linguaggio usato serve a mascherare la natura politica delle operazione compiute da queste società: si parla di
big food,
big energy e
big finance, ma nessuno parla di
big data. Google e Facebook sono imprese: i loro servizi non sono gratis. Si pagano con i nostri dati.
Come li ottengono?
Con gli oggetti intelligenti, la cosiddetta “internet delle cose”: è possibile tracciare tutto, ma solo loro hanno le infrastrutture per farlo. Il proprietario di una casa può verificare se le persone a cui l’affitterà sono affidabili: ci sono società che possono informarlo. A pagamento.
Una sorta di schedatura.
Ormai si è ben oltre il controllo delle mail. Si pensi alle
smart city presenti nelle agende di società come Microsoft, Hp o Cisco. Tutto, in queste città del futuro, è dotato di sensori. Informazioni che fanno gola ai governi e all’
intelligence, che però da sola non potrebbe mai averle.
Come evitarlo?
Affrontando la questione della proprietà dei dati. C’è un mercato, eppure non c’è nessun quadro regolatorio, nessuna struttura legale che formalizzi questo rapporto.
Potremmo vendere i nostri dati?
C’è chi lo teorizza. Molti dei dati che produciamo, però, potrebbero servire a migliorare il tessuto sociale e gli strumenti pubblici. Non dico di lasciarli alla completa gestione statale, ma di trovare il giusto equilibrio.
Chi dovrebbe farlo?
Istituzioni e gruppi sociali che non siano privati o aziende multinazionali.
Perché non ci si riesce?
Non si comprende ancora la portata di questi temi. La sinistra continua a combattere la
Fire Industry (Finanza, assicurazioni e immobiliare, ndr), ma se non ne percepisce le metamorfosi digitali non potrà mai vincere
Come trova l’Italia?
Il renzismo ha quasi completamente distrutto la capacità di discutere seriamente di tecnologia e digitale. Tutto è astratto, basato sull’idea che l’economia possa ripartire se si creano dieci centri con stampanti 3d. È folle. È un’Italia piena di bullshit, supercazzole. Ci sono personaggi come Riccardo Luna (Digital Champion del governo ndr ), che non hanno nessuna esperienza tecnologica però vogliono creare l’impressione che tutto sia possibile se si invita Google o Amazon. L’unico modo che hanno per dare la sensazione che qualcosa si muova è invitare pensatori vicini a Washington e alla Silicon Valley e creare think tank in cui non c'è nessuna attività utile ma solo lobby. È una tragedia: 20-30 anni fa l'Italia era un grande centro industriale, aveva tutto. Ora ci sono solo parole.
«Pomigliano. Il dramma dimenticato dei lavoratori licenziati da Marchionne dopo le proteste per le condizioni di lavoro in fabbrica».
Il manifesto, 7 settembre 2016 (c.m.c.)
La vicenda dei lavoratori della Fca (già Fiat) di Pomigliano-Nola che si sono suicidati o hanno commesso gesti estremi a causa del perdurare di condizioni di lavoro insostenibili sul piano materiale e psicologico è nota ai lettori di questo giornale, così come è conosciuto «l’happening» che ha messo in scena la rappresentazione del suicidio dell’Ad Sergio Marchionne per «estremo rimorso», azione di provocazione e di satira atta ad evocare i gesti disperati dei compagni di lavoro. Questa rappresentazione ha dato il motivo all’azienda di licenziare gli operai che hanno inscenato il suicidio in effigie di Sergio Marchionne.
I lavoratori licenziati si sono rivolti al tribunale del lavoro per fare revocare il provvedimento che a mio parere ha tutti i tratti della rappresaglia. Il tribunale del lavoro, sia in primo grado che nel ricorso di competenza, ha dato ragione all’Azienda con questa fattispecie di motivazione: «un intollerabile incitamento alla violenza (…) una palese violazione dei più elementari doveri discendenti dal rapporto di lavoro gravissimo nocumento morale all’azienda e al suo vertice societario, da ledere irreversibilmente (sic!) il vincolo di fiducia sotteso al rapporto di lavoro».
In seguito, nel riesame del ricorso, il tribunale di Nola ha confermato il primo giudizio. In questa motivazione si legge che le manifestazioni messe in atto: «hanno travalicato i limiti del diritto di critica e si sono tradotte in azioni recanti un grave pregiudizio all’onore e alla reputazione della società resistente, arrecando alla stessa, in ragione della diffusione mediatica che esse hanno ricevuto, anche un grave nocumento all’immagine».
Ritengo che queste parole - dato che le sentenze non si discutono - meritino un’analisi spassionata per trarne un ammaestramento non solo sullo specifico dell’accaduto ma anche di carattere generale e persino universale. L’azienda ritiene che l’azione drammatica della messa in scena di un suicidio in effigie rechi nocumento all’immagine, pregiudizio all’onore, alla reputazione e nuovamente nocumento morale.
Il suicidio reale, carnale, tragico e «violento» di tre esseri umani invece non recherebbe, a quanto pare, danno di sorta al buon nome dell’azienda. Forse i vertici ritengono essere quei suicidi indipendenti dalle condizioni lavoro, dalla cassa integrazione, dallo stillicidio dell’erosione continua dei diritti sociali, dal peggioramento inarrestabile delle prospettive di vita, forse si tratta di un’epidemia suicidaria dovuta all’insostenibile pressione del benessere come in Svezia, visto che il numero di suicidi nel reparto di Nola di quella leggendaria azienda ex vanto dell’italico genio ex italico, pare essere di cento volte superiore alla media nazionale.
Il capo della Fca, imprenditore, pare non cogliere il senso di un suicidio reale quando è causato da disperanti e umilianti condizioni di vita. Mi permetto di suggerirgliene uno servendomi del linguaggio usato da un suo collega meno fortunato di lui che si è tolto la vita a seguito dei morsi della crisi che lo ha rovinato. Ai familiari ha lasciato uno scritto lapidario per spiegare le ragioni del suo gesto: «la dignità è più importante della vita!». Dovrebbe essere semplice da capire, la vita senza dignità cessa di essere tale per diventare sopravvivenza.
Da noi in Italia non c’è stato un dibattito serrato, profondo e diffuso sul concetto di dignità come è accaduto invece in Germania a partire dalla redazione della Costituzione pensata e ratificata all’indomani della micidiale esperienza nazista. Il primo articolo di quella carta recita: «Die Würde des Menschen ist unantastbar. Sie zu achten und zu schützen ist Verpflichtung aller staatlichen Gewalt». (La dignità umana è intangibile. Rispettarla e proteggerla è obbligo di ogni potere statale). Ecco quale è il primo è fondante merito della giustizia sociale come del resto proclama anche il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
L’attacco portato allo statuto dei lavoratori è un attacco all’idea stessa di dignità del lavoratore nel lavoro e nella vita. È da qui che è necessario ripartire chiedendoci «se questo è un operaio», che è privato dei diritti, che vive sotto ricatto, a cui non è concesso di progettare la propria esistenza e di costruire un futuro migliore per i propri figli, che non può neppure protestare con il legittimo linguaggio della provocazione concesso ad ogni disegnatore satirico, a cui per non perdere il posto si chiede di accettare la condanna alla disperazione senza alzare la testa, come l’ultimo dei servi.
Jacobin e e tradotta da Francesca Conti. La città invisibile online, 6 settembre 2016, con postilla
11 anni fa David Harvey pubblicò il libro “Breve storia del Neoliberismo”, che è diventato uno dei libri di riferimento sul tema. Da allora abbiamo visto nuove crisi economiche e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza, che nelle loro critiche alla società contemporanea spesso hanno come obiettivo il neoliberismo.
Cornel West parla del movimento Black Lives Matter come di un “J’accuse” al potere neoliberista; Hugo Chaves chiamava il neoliberismo una “strada per l’inferno”; e i leader dei sindacati stanno sempre più utilizzando il termine per descrivere l’ambiente più grande nel quale si svolgono le lotte su posto di lavoro. Anche la stampa mainstream ha ripreso ad utilizzare il termine, anche se solo per sostenere che il neoliberismo non esiste.
Ma di cosa stiamo parlando esattamente quando parliamo di neoliberismo? E com’è cambiato dalla sua genesi alla fine del 20esimo secolo?
Bjarke Skaerlund Risager, ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia e Storia delle Idee dell’Università di Aarhus, ha fatto una lunga disussione con David Harvey sulla natura politica del neoliberismo, come ha trasformato le modalità di resistenza, e perchè la Sinistra deve ancora prendere sul serio la fine del capitalismo.
Neoliberismo è un termine ampiamente utilizzato oggi. In ogni caso, spesso non è chiaro a cosa si riferiscano le persone quando lo utilizzano. Può essere riferito ad una teoria, una serie di idee, una strategia politica, o ad un periodo storico. Potresti cominciare con lo spiegare come tu interpreti il neoliberismo?
Ho sempre affrontato il neoliberismo come un progetto politico portato avanti dalla calsse capitalista quando si è sentita fortemente minacciata sia politicamente che economicamente verso la fine degli anni 60 e negli anni 70. Volevano disperatamente lanciare un progetto politico che fosse capace di mettere un freno al potere della classe lavoratrice.
Sotto molti aspetti era un progetto controrivoluzionario. Avrebbe stroncato sul nascere quelli che a quel tempo erano i movimenti rivoluzionari nella maggior parte del mondo in via di sviluppo – Angola, Mozambico, Cina, etc.. – ma anche quella marea crescente di influenze comuniste in paesi come l’Italia, la Francia e , pur in maniera minore, la minaccia di un loro ravvivarsi in Spagna.
Anche negli Stati Uniti i sindacati produssero un Congresso Democratico che, nelle intenzioni, era piuttosto radicale. Nei primi anni 70, i sindacati insieme ad altri movimenti sociali forzarono un mucchio di riforme e di iniziative riformiste che erano anti- aziende: nacquero l’ Agenzia di protezione dell’ambiente (Environmental Protection Agency), la Direzione per la sicurezza e salute occupaizionale (Occupational Safety and Health Administration), le varie forme di protezione dei consumatori, e una serie di provvedimenti per rafforzare la classe lavoratrice come non era mai accaduto in passato.
In questa situazione esisteva in effetti una minaccia globale alla forza della classe capitalista e allora la domanda era “Che fare?”.
La classe dominante pur non essendo onniscente riconosceva che c’erano diversi fronti sui quali c’era da combattere: il fronte ideologico, quello politico e soprattutto c’era da combattere per sconfiggere la classe lavoratrice in qualsiasi modo possibile. Da tutto questo emerse un progetto politico che chiamerei neoliberismo.
Puoi parlare un po’ degli aspetti ideologico e politico e dell’attacco ai lavoratori?
L’aspetto ideologico risale al consiglio di un tale che si chiamava Lewis Powell. Powell scrisse un memorandum in cui diceva che le cose erano andate troppo in là e che il capitale aveva bisogno di un progetto collettivo. Il memorandum aiutò a mobilitare le Camera del Commercio e il Business Roudtable.
Anche le idee erano importanti sul fronte ideologico.
L’opinione all’epoca era che le università fossero impossibili da organizzare perchè il movimento studentesco era troppo forte e le facoltà troppo progressiste, così fondarono tutti questi think-thank come il Manhattan Institute, l’Heritage Foundation, la Ohlin Foundation. Questi think-thank portavanono con sé le idee di Freidrich Hayek e Milton Friedman e la teoria economica dell’offerta.
L’idea era quella che questi think-thank facessero ricerche serie, e alcuni di loro le fecero, – per esempio il National Bureau of Economic Research era una istituzione privata che fece ottime e accurate ricerche. Queste ricerche sarebbero poi state pubblicate in maniera indipendente e avrebbero influenzato la stampa e passo dopo passo avrebbero accerchiato e infiltrato le università.
Questo processo ebbe bisogno di un lungo periodo di tempo. Io credo che adesso abbiamo raggiunto il punto in cui non c’è più bisogno di una realtà come la Heritage Foundation. I progetti neoliberisti si sono ormai impossessati delle università.
Rispetto ai lavoratori, la sfida era rendere la classe lavoratrice locale competittiva con quella globale. Una strada era aprire all’immigrazione. Negli anni 60 per esempio i tedeschi importavano lavoratori dalla Turchia, la Francia dal Maghreb, il Regno Unito dalle ex-colonie. Ma tutto questo creò molto malcontento e insoddisfazione.
Allora scelsero l’altra strada, quella di portare il capitale dove c’era forza lavoro a basso costo. Ma affinchè la globalizzazione funzioni devi ridurre le tasse relative alle esportazioni e rafforzare il capitale finanziario perchè il capitale finanziario è la forma di capitale più mobile. Così il capitale finanziario e cose come le fluttuazioni della moneta divennero fondamentali per mettere un freno alla classe lavoratrice.
Allo stesso tempo i progetti ideologici di privatizzare e e deregulare crearono disoccupazione. Così disoccupazione a casa, delocalizzazione del lavoro ed un terzo componente: un cambiamento tecnologico, una deindustrializzazione attraverso l’automazione e la robotizzazione. Fu questa la strategia per stroncare i lavoratori.
Questo fu un assalto ideologico ma anche economico. Per me il neoliberismo è questo: è un progetto politico e io credo che la borghesia e i capitalisti l’abbiano messo in atto a poco a poco.
Non credo che abbiano iniziato leggendo le teorie di Hayek o qualcosa del genere, credo che semplicemente in maniera intuitiva abbiano detto ”Dobbiamo sconfiggere i lavoratori, come facciamo?”. E poi hanno scoperto che esisteva una teoria che giustificava tutto questo, che l’avrebbe supportato.
Dalla pubblicazione di “Breve storia del capitalismo” nel 2005 è stato versato molto inchiostro su tutto questo. Sembrano esserci due fronti principali: gli accademici che sono più interessati nell storia intellettuale del neoliberismo e persone la cui preoccupazione sta nel “neoliberismo attualmente esistente”. Dove ti posizioni?
C’è una tendenza nelle scienze sociali, alla quale tendo a resistere, di cercare la “teoria del proiettile-singolo” di qualcosa. Ci sono alcune persone che dicono che il neoliberismo è un’ideologia e così scrivono una storia ideologica di questo.
Una versione di questo è il tema della governamentalità di Foucault che vede le tendenze neoliberiste già presenti nel 18esimo secolo. Ma se si tratta il neoliberismo solo come un’idea o una serie di pratiche limitate di governamentalità, si troveranno moltissimi precursori.
Ciò che manca qui è il modo in cui la classe capitalista ha organizzato i propri sforzi durante gli anni 70 e i primi anni 80. Io credo che sarebbe giusto dire che al tempo – nel mondo anglosassone – la classe capitalista divenne molto unita.
Erano d’accordo su molte cose, come il bisogno di una forza politica che li rappresentasse davvero. Così si comprendono la presa del partito repubblicano e il tentativo di sottomettere, almeno in parte, il partito democratico.
A partire dagli anni 70 la corte suprema prese diverse decisioni che permettevano alla classe capitalista di comprare le elezioni più facilmente di quanto non avesse potuto fare in passato.
Per fare un esempio, si può guardare alle riforme sul finanziamento delle campagne elettorali che hanno trattato i contributi elettorali come una forma di libertà di espressione. Negli Stati Uniti c’è una lunga tradizione di capitalisti che comprano le elezioni ma adesso è stato legalizzato ciò che prima era fatto sottobanco come corruzione.
Soprattutto io penso che questo periodo sia stato definito da ampi movimenti che attraversavano diversi fronti ideologici e politici. E il solo modo per spiegare l’ampiezza di questo movimento è riconoscendo l’alto livello di solidarietà all’interno della classe capitalista. Il capitale riorganizzò il suo potere in un tentativo disperato di recuperare la sua ricchezza economica e la sua influenza, che era stata seriamente erosa tra la fine degli anni 60 e durante i 70.
Ci sono state numerose crisi dal 2007. In che modo la storia e il concetto del neoliberismo ci aiuta a capirle?
Ci sono state molte poche crisi tra il 1945 e il 1973; ci sono stati momenti difficili ma non grandi crisi. La svolta verso politiche neoliberiste avvenne in bel mezzo della crisi degli anni 70 e l’intero sistema ha subito una serie di crisi da allora. E naturalmente le crisi producono le condizioni delle future crisi.
Nel 1982 -85 ci fu una crisi del debito in Messico, Brasile, Ecuador, fondamentalmente in tutti i paesi in via di sviluppo, inclusa la Polonia. Nel 1987-88 ci sono state grosse crisi negli Stati Uniti delle istituzioni creditizie. Ci fu una ampia crisi in Svezia nel 1990, e tutte le banche dovettero essere nazionalizzate.
In seguito ci furono l’Indonesia e il Sud Est Asiatico nel 1997-98, e poi la crisi si spostò in Russia, in Brasile ed infine colpì l’Argentina nel 2001-2.
Ci furono problemi negli Stati Uniti nel 2001 che furono risolti spostando il denaro dal mercato azionario a quello immobiliare. Ma nel 2007-8 il mercato immobiliare implose, e così avemmo la crisi anche qui.
Se guardi una mappa del mondo puoi vedere le tendenze delle crisi muoversi in giro per i vari paesi. Pensando al neoliberismo è utile comprendere queste tendenze.
Una delle grandi manovre di neoliberalizzazione fu espellere tutti i keynesiani dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale nel 1982 – una pulizia totale di tutti i consiglieri economici che abbracciavano una visione keynesiana.
Furono rimpiazzati da economisti classici fedeli alla teoria dell’offerta e la prima cosa che fecero fu di decidere che da quel momento il FMI avrebbe dovuto seguire una politica di aggiustamento strutturale ogni qual volta e ovunque ci fosse stata una crisi.
Nel 1982, come già accennato, ci fu una crisi del debito in Messico. Il FMI disse “Vi salveremo”. In realtà ciò che stavano facendo era salvare le banche d’investimento di New York e implementare una politica di austerità.
La popolazione messicana soffrì una perdita del 25% del suo standard di vita nei 4 anni successivi al 1982 come risultato delle politiche di aggiustamento strutturale del FMI.
Da allora il Messico ha subito circa quattro aggiustamenti strutturali. Molti altri paesi ne hanno subiti più di uno. Questa è diventata una pratica standard.
Cosa stanno facendo alla Grecia adesso? E’ quasi una copia di quello che fecero al messico nel 1982, soltanto che lo fanno in maniera più scaltra. Ma questo è quello che accadde negli sStati Uniti nel 2007-8. Salvarono le banche e fecero pagare la popolazione attraverso politiche di austerità.
C’è qualcosa riguardo le crisi recenti e i modi in cui sono state gestite dalla classe dominante che ti ha fatto ripensare la tua teoria sul neoliberismo?
Intanto, non credo che la solidarietà all’interno della classe capitalista sia quella che era. Da un punto di vista geopolitico, gli Stati Uniti non sono in una posizione di prendere iniziative globali come lo erano negli anni 70.
Io penso che stiamo vedendo una regionalizzazione delle strutture del potere globale all’interno del potere statale – egemonie regionali come la Germania in Europa, il Brasile in America Latina, la Cina in Asia.
Ovviamente, gli Stati Uniti hanno ancora una posizione globale, ma i tempi sono cambiati. Obama può andare al G20 e dire “Dovremmo fare questo”, e Angela Merkel può dire “Noi non lo faremo”. Questo non sarebbe accaduto negli anni 70.
Così la situazione geopolitica è diventata più regionalizzata, c’è maggiore autonomia. Io credo che questo in parte sia un risultato della fine della Guerra Fredda. Paesi come la Germania non si affidano più agli Stati Uniti per essere protetti.
Inoltre, quella che è stata chiamata “la nuova classe capitalista” formata da Bill Gates, Amazon, e della Silicon Valley ha una politica differente da quella rispetto a quella tradizionale legata al petrolio e all’energia.
Come risultato tendono ad andare ognuno nella propria direzione, perciò c’è molta rivalità tra diversi settori, per dire, energia e finanzia, e energia e la Silicon Valley e così proseguendo. Ci sono serie divisioni che sono evidenti su una cosa tipo il cambiamento climatico, per esempio.
L’altra cosa che io reputo cruciale è che l’offensiva neoliberista non passò senza una forte resistenza. Ci fu una resistenza di massa da parte della classe lavoratrice, dai partiti comunisti in Europa, e così via.
Ma potrei dire che all’inizio degli anni 80 la battaglia era stata persa. Così, nella misura in cui la resistenza era scomparsa, la classe lavoratrice non aveva più il potere che aveva avuto prima, la solidarietà all’interno della classe dominante non era più necessaria.
Non devono più unirsi e fare qualcosa contro le battaglie dal basso perchè non c’è più alcuna minaccia. La classe dominante sta facendo molto bene e quindi non ha bisogno di cambiare niente.
Eppure, mentre la classe capitalista sta facendo molto bene, il capitalismo sta facendo molto male. I tassi di profitto hanno recuperato, ma i tassi di reinvestimento sono tremendamente bassi, così una sacco di denaro non sta tornando indietro nella produzione e sta fluendo nell’appropriazione di terre e nell’acquisizione di asset.
Parliamo di resistenza. Nel tuo lavoro, mostri quell’apparente paradosso che il violento attacco neoliberista ha proceduto in parallelo con un declino della lotta di classe – perlomeno nel Nord del mondo – a favore di “nuovi movimenti sociali” per la libertà individuale. Potresti chiarirci come secondo te il neoliberismo ha favorito l’ascesa di certe forme di resistenza?
Questa è una frase su cui pensare a lungo. Cosa succede se ogni modello di produzione dominante, con la sua particolare configurazione politica, crea un modello di opposizione come una sua immagine allo specchio.
Durante l’era dell’organizzazione fordista del processo produttivo, l’immagine specchio erano i grandi movimenti sindacali centralizzati e i partiti politici democraticamente centralisti.
La riorganizzazione del processo di produzione e la svolta verso l’accumulazione flessibile durante il periodo neoliberale ha prodotto una sinistra che è, in molti modi, il suo specchio: che fa rete, decentralizzata, non gerarchizzata. Penso che sia molto interessante.
E in una certa misura l’immagine allo specchio conferma quello che invece sta provando a distruggere. Alla fine penso che i sindacati sostennero il fordismo.
Io credo che molta della sinistra oggi, essendo molto autonoma ed anarchica, stia rafforzando la fase finale del neoliberismo. A molte di persone nella sinistra non piace sentirlo.
Ma ovviamente nasce una questione: c’è un modo di organizzarsi che non sia un’immagine allo specchio? Possiamo rompere quello specchio e trovare altro, che non sia giocare in mano al neoliberismo?
La resistenza al neoliberismo può avvenire in molti modi differenti. Nel mio lavoro io metto sempre l’accento sul fatto che il punto in cui il valore si realizza è anche un punto di tensione. Il valore si produce nel processo di lavoro, e questo è un aspetto molto importante della lotta di classe. Ma il valore è realizzato nel mercato tramite la vendita, e c’è molta politica in questo.
Molta resistenza all’accumulazione capitalista avviene non solo nel processo di produzione ma anche tramite il consumo e la consapevolezza di quel valore.
Prendete una fabbrica di auto: le grandi fabbriche impiegavano circa 25.000 persone; oggi ne impiegano 5.000 perché la tecnologia ha ridotto il bisogno di lavoratori. Perciò più lavoratori vengono rimossi dalla sfera delle produzione, sempre di più ne vengono spinti nella vita urbana.
Il punto principale di scontento nella dinamica capitalista si sta spostando in maniera crescente dalle lotte sulla realizzazione del valore – verso la politica della vita quotidiana in città.
I lavoratori ovviamente contano e ci sono molte questioni che sono cruciali. Se siamo a Shenzhen in Cina le lotte sul processo lavorativo sono dominanti. E negli USA dovremmo aver supportato lo sciopero a Verizon, ad esempio.
Ma in molte parti del mondo le lotte sulla qualità della vita quotidiana sono dominanti. Guardate alle grandi lotte negli ultimi dieci-quindici anni: una cosa come Gezi Park a Istanbul non è stata una lotta dei lavoratori, è stato lo scontento verso la politica della vita quotidiana e la mancanza di democrazia e di processi decisionali; nelle rivolte nelle città brasiliane nel 2013 c’era ancora una volta il malcontento verso la politica della vita quotidiana: trasporti, possibilità e lo spendere così tanto denaro in grandi stadi mentre non si sta spendendo nulla nel costruire scuole, ospedali e case a buon mercato. Le rivolte che abbiamo visto a Londra, Parigi e Stoccolma non riguardano il processo lavorativo, ma la politica della vita quotidiana.
Questa politica è parecchio differente dalla politica che esiste nel processo di produzione. Nel processo di produzione c’è il capitale contro il lavoro. Le lotte sulla qualità della vita urbana sono meno chiare nella loro configurazione di classe.
Chiare politiche di classe, che di solito vengono da una comprensione del processo di produzione, divengono teoricamente confuse quando si fanno più realistiche. È una questione di classe ma non nel senso classico.
Pensi che parliamo troppo del neoliberismo e troppo poco del capitalismo? Quando è appropriato usare l’uno o l’altro termine, e quali sono i rischi che si corrono nel sovrapporli?
Molti liberal dicono che il neoliberismo è andato troppo in là in termini di diseguaglianza di reddito, ed anche con le privatizzazioni, che ci sono un sacco di beni comuni di cui dovremmo prenderci cura, come l’ambiente.
C’è una gran varietà di modi per parlare del capitalismo, come la sharing economy, che si è rivelata altamente capitalizzata e molto sfruttatrice.
C’è la nozione di capitalismo etico, che si è rivelato essere semplicemente un modo ragionevole di essere onesti invece che di rubare. Perciò c’è la possibilità nella testa di alcune persone di un qualche tipo di riforma del neoliberismo in qualche altra forma di capitalismo.
Io penso che sia possibile fare un capitalismo migliore di quello che esiste adesso. Ma non molto.
I problemi fondamentali sono oggi talmente profondi che non c’è modo di andare avanti senza un forte movimento anticapitalista. Perciò vorrei porre la questione in termini anticapitalisti invece che in termini anti–neoliberisti.
E credo che il pericolo sia, quando ascolto le persone parlare di anti-neoliberismo, che non ci sia la percezione che è proprio il capitalismo stesso, in qualsiasi forma si presenti, il problema.
La maggior parte degli anti- neoliberisti fallisce nel far fronte ai macro-problemi della crescita composta infinita – i problemi ecologici, politici ed economici. Perciò preferirei parlare di anticapitalismo che di anti-neoliberismo.
postilla
L'analisi critica di David Harvey al neoliberismo (declinazione italiana di ciò che nel mondo anglosassone si definisce "neoliberalism") è un classico, soprattutto per chi si occupa di città e territorio. Lo studioso, che è uno dei più interessanti utilizzatori del pensiero di Gramsci, si è occupato nei suoi numerosi scritti dei rapporti tra trasformazioni del sistema economico sociale e condizioni della città e del territorio. A proposito di questa intervista, (il testo originale è raggiungibile a questo link) vogliamo esprimere un piccolo stupore e due forti sottolineature.
Lo stupore è per il fatto che, nell'illustrare il percorso di formazione della strategia neoliberista, Harvey non faccia riferimento all'attore del suo inizio: la Mont Pèlerin Society. Rinviamo, a questo proposito, a uno scritto di Luciano Gallino.
La prima sottolineatura riguarda l'attenzione di Harvey al fatto che la resistenza alla marcia trionfale del neoliberismo sia oggi espressa più dalle tensioni che nascono dal disagio sofferto dalle persone per le condizioni della città e del territorio che dalle condizioni del lavoro: più dalla città che dalla fabbrica.
La seconda sottolineatura è dell'ultima frase dell'intervista: dove ricorda che l'avversario non è il neoliberalismo, ma il capitalismo, il Proteo di cui il neoliberalismo è l'attuale incarnazione.
Il manifesto, 6 settembre 2016 (p.d.)
C’è uno spettro che si aggira confuso attorno al referendum costituzionale ed è quello della fantomatica «democrazia decidente» o – per i suoi sostenitori più arcigni – «governante». Si tratta di un’invenzione tutta italiana, forse di vaghissima ispirazione francese, che non conosce alcuna traduzione o corrispettivo in altre democrazie europee, che «decidono» e «governano» senza alcun bisogno di appiccicare aggettivi impropri al loro sistema politico democratico.
È solo in Italia che questa espressione insignificante e fuorviante ha fatto strada, grazie al contributo indefesso di costituzionalisti di corte affetti da «nuovismo» cronico e sempre pronti ad assecondare le voglie dei potenti di turno, i quali chiedono più spazi per il (loro) governo e meno impedimenti alle (loro) decisioni. Ma il costituzionalismo non era nato per limitare, controllare, controbilanciare il potere di chi ha potere? La domanda è retorica, ma le risposte sul punto sono quasi sempre balbettanti.
Tuttavia, anche prendendo per buona l’etichetta di «democrazia governante», ci sono almeno tre ragioni per cui l’attuale progetto di revisione costituzionale non ci consegnerà una struttura di governo più stabile in grado di prendere decisioni più efficienti. La prima ragione è, per così dire, di contesto. Le democrazie nazionali – come ha scritto Peter Mair nel suo libro postumo (Ruling the void, 2013) tradotto da Rubbettino – sono destinate, e lo saranno sempre di più, a «governare il vuoto», a decidere tra alternative che non esistono, a regnare sul nulla. Ormai, le decisioni che contano e che incidono sui «margini di manovra» dei governanti nazionali sono prese altrove, al di fuori del recinto statale, da istituzioni sovranazionali dove il volere dei cittadini e la sovranità del popolo arrivano soltanto di riflesso, come un’eco lontana quasi impercettibile. Chi sognava una democrazia governante ha, dunque, sbagliato bersaglio e avrebbe fatto meglio a guardare all’Europa, non all’Italia.
La seconda ragione per cui questa fantomatica democrazia-che-decide è una, neanche troppo pia, illusione è che alla sua base c’è una diagnosi fallace. Da almeno un ventennio è sotto i nostri occhi, ma fingiamo di non vederlo: non è il «motore» (cioè l’impianto istituzionale) ad essersi inceppato, ma è il pilota, chi sta al posto di comando che non è più in grado di svolgere adeguatamente il proprio mestiere. Lo dico più chiaramente: non sono (tanto) le istituzioni che non funzionano, ma sono i partiti e i loro dirigenti, che avrebbero il compito di guidare il sistema politico, a non essere all’altezza della loro funzione. Ma, pur di non ri-formare se stessi, si industriano in ambiziosi progetti istituzionali destinati a girare perennemente a vuoto: avremo (ci dicono) un motore più veloce, ma non sapremo dove, come e con chi andare. E il riformismo dall’alto – si sa – ha sempre fatto pochissima strada, non solo in Italia.
L’ultima ragione della fallacia della cosiddetta democrazia governante in salsa italiana è che, pur progettata allo scopo prevalente di prendere decisioni rapide e «in tempi certi», manca clamorosamente il suo bersaglio.
L’impianto istituzionale che emerge dalle riforme elettorali e costituzionali ci consegna un senato sgangherato per composizione e confuso nelle sue funzioni. Il nuovo procedimento legislativo non sarà più snello, lineare o chiaro, ma dovrà percorrere un tortuoso iter – distinguendo ogni disegno di legge per tipologia, per materia e, in certi casi, anche per contenuto (generale o specifico) – che sarà foriero di numerosi conflitti inter-istituzionali e non produrrà né più leggi (come chiedono i «riformatori») né leggi migliori (come vorrebbero gli italiani).
Neanche la nuova legge elettorale, il tanto sbandierato Italicum, ci aiuterà a costruire una democrazia del buon governo. Restare immobilizzati in carica per cinque anni, a dispetto delle prestazioni e delle capacità dei governanti, oltre ad essere in contrasto con i principi del parlamentarismo, non è affatto sinonimo di stabilità politica. L’Italicum produrrà una rigidità istituzionale tipica del presidenzialismo, senza averne importato pesi e contrappesi. Alla fine, ci troveremo con un governo statico e stagnante, incapace di prendere buone decisioni, ma inamovibile dal potere.
Cercavano una democrazia governante e ci stanno propinando una «democrazia sgovernata». Meglio l’esistente che l’indecente.
Una dimostrazione di come sia proprio la cultura il miglior modo per ricominciare a vivere e ritrovare una vita e una speranza comune. Internazionale online, 5 settembre 2016 (c.m.c.)
Caffè e libri. È il nome di un caffè che ha appena aperto nel centro di Baghdad. Alla festa d’inaugurazione poeti e scrittori hanno letto passi dei loro libri con accompagnamento di musica dal vivo. Il locale si trova a pochi isolati dal centro commerciale di Karrada dove il 3 luglio un attentato del gruppo Stato islamico (Is) ha ucciso più di trecento persone.
«È un’avventura», spiega il proprietario Yasser Adnan, 28 anni, «ma qui la vita è tutta un’avventura». Yasser ha concepito il locale come una sorta di memoriale per suo padre, un famoso libraio ucciso nella sua libreria in via Al Mutanabi in un attentato nel 2007. La sua foto è appesa davanti all’ingresso del locale.
Quest’avventura non è la prima del suo genere. Fin dagli anni trenta del novecento, i caffè nei pressi delle moschee e degli altri centri di appartenenza settaria sono stati il luogo di ritrovo della classe media istruita. Era in quei locali che la gente ha cominciato ad ascoltare le notizie dal mondo grazie a quelli che leggevano i giornali ad alta voce.
I muri del caffè di Adnan sono coperti di libri, i libri di suo padre. Il locale è stato disegnato per offrire ai giovani un posto tranquillo per leggere, e offrendo il wi-fi gratuito Adnan cerca di attirare i ragazzi. Nel retro c’è uno schermo dove ogni tanto vengono proiettati dei film.
Dopo il suo reading, il poeta Hamid Qasim ha elogiato l’idea di aprire un centro culturale in questo quartiere affollato,« in un momento in cui la storia culturale del nostro paese è minacciata dal terrorismo e da un governo reazionario». Il regista Muhannad Hayali ha ricordato «l’importanza di un locale come questo a Karrada. Questo quartiere era frequentato da gente che veniva da ogni parte dell’Iraq, di ogni religione e gruppo etnico. La cultura potrà offrire loro un’identità comune?».
(Traduzione di Gabriele Crescente)
«Una timida democratizzazione e la Lexit dall’Ue sono due opzioni opposte, ma destinate entrambe alla sconfitta e a rafforzare le oligarchie economiche e finanziarie».
Il manifesto, 6 settembre 2016 (p.d.)
«Una risposta all’articolo di Stefano Fassina pubblicato su questo giornale il 2 settembre. Il brano che qui presentiamo è tratto da un lungo saggio scritto da Yanis Varoufakis e che sarà pubblicato in contemporanea dalla rivista «Jacobin», dal sito spagnolo publico.es, dal quotidiano francese «Libération» e da quello tedesco «Neues Deutschland
Nel giro di pochi mesi, due referendum hanno scosso l’Unione europea e la stessa sinistra europea: nel luglio 2015 l’Oxi in Grecia, e nel giugno 2016 la Brexit nel Regno unito.
Una parte della sinistra europea, esasperata dalla miscela di autoritarismo e fallimento economico che caratterizza l’Ue, propone ora di «rompere con l’Ue»; è la Lexit. DiEM25, il transnazionale Movimento per la democrazia in Europa, rifiuta questa logica e offre un’agenda alternativa ai progressisti del continente.
Il punto non è se la sinistra debba scontrarsi con l’establishment dell’Ue e le sue politiche abituali. La questione è invece in quale contesto, e all’interno di quale narrazione politica comune questo scontro debba svolgersi. Esaminiamo le tre opzioni.
L’euroriformismo standard, praticato tipicamente dai socialdemocratici, sta perdendo rapidamente terreno. Si fonda su un errore: l’Unione europea non soffre di un deficit di democrazia al quale si possa porre rimedio con «un po’ più di democrazia», «più Europa», «riforma delle istituzioni europee» eccetera.
L’Ue è stata intenzionalmente costruita per tenere il demos fuori dai processi decisionali affindandoli a un cartello composto dalle grandi imprese europee e dal settore finanziario.
Nel quadro dell’attuale regime e delle attuali istituzioni dell’Ue, «più Europa» e riforme graduali equivarrebbero alla formalizzazione e legittimazione dell’Unione dell’austerità europea secondo le linee del Piano Schäuble. Questo acuirebbe la crisi che colpisce i cittadini europei più deboli, renderebbe più attraente la destra xenofobica e in ogni caso accelererebbe la disintegrazione europea.
Un’opzione evocata, fra gli altri, da Tariq Ali: per sconfiggere la misantropia della destra xenofobica dovremmo far nostra la sua proposta di referendum nazionali per l’uscita dall’Ue.
Ma è realistico pensare che, proponendo dei referendum per l’uscita dall’Ue, la sinistra possa «bloccare le forze della destra xenofoba e nazionalista guadagnando l’egemonia e ridirezionando la rivolta popolare?» E questa campagna è coerente con i principi fondamentali della sinistra? DiEM25 risponde con due no, e per questa ragione rifiuta l’opzione Lexit.
La necessaria disobbedienza
La posizione che avremmo potuto assumere prima dell’entrata in vigore del mercato comune e dell’Eurozona non può essere la stessa di adesso, in presenza di queste istituzioni. Fa infatti una bella differenza il fatto che il nostro punto di partenza è un’Europa senza frontiere (nella quale i lavoratori europei hanno libertà di movimento) rispetto a un’Europa come quella dei primi anni 1950, quando gli Stati nazionali controllavano le frontiere e poterono creare una nuova categoria di proletari italiani o greci chiamati
gastarbeiters, cioè lavoratori ospiti.
La Lexit pone seri pericoli. I sostenitori della Lexit pensano davvero che oggi la sinistra possa vincere la battaglia per l’egemonia contro la destra xenofobica appoggiando le richieste di quest’ultima circa la costruzione di nuove barriere e la fine della libertà di movimento? E allo stesso modo, pensano davvero che la sinistra vincerà la guerra delle idee e della politica contro l’industria dei combustibili fossili sostenendo la rinazionalizzazione della politica ambientale?
Sotto la bandiera della Lexit, a mio giudizio, la sinistra subirà gigantesche sconfitte su entrambi i fronti.
DiEM25 propone un movimento paneuropeo di disobbedienza civile e governativa con l’obiettivo di consolidare un’opposizione democratica alle scelte delle élites europee a livello locale, nazionale e di Ue.
Come DiEM25 non crediamo che l’Unione europea si possa riformare con i canali abituali della politica europea. La nostra controproposta è uno scontro con l’establishment europeo sulla base di una campagna di disobbedienza alle «leggi» dell’Ue a livello locale, regionale e nazionale, senza però pensare all’uscita dall’Unione.
Il popolo inesistente
Se noi non molliamo, delle due l’una: o molleranno loro (e in questo caso l’Ue ne risulterà trasformata) oppure l’Ue sarà fatta a pezzi dal suo stesso
establishment. Se l’
establishment (Commissione, Banca centrale europea, Berlino e Parigi) smembrerà l’Ue per punire i governi progressisti che rifiutano di obbedire alle sue politiche insane, questo galvanizzerà le politiche progressiste in tutta Europa come la Lexit non potrebbe mai fare.
La posizione del DiEm25 sull’Ue riflette il tradizionale internazionalismo della sinistra, che è una componente essenziale di DiEM25.
DiEM25 propone una ribellione che porti a una democrazia autentica a livello dei governi locali e nazionali e dell’Ue. Non diamo priorità all’Ue rispetto al livello nazionale, né a quest’ultimo rispetto al livello regionale e locale.
In un recente intervento Stefano Fassina sostiene (citando Ralf Dahrendorf) che la democrazia a livello di Ue «non è possibile… perché un popolo europeo, un demos europeo per una democrazia europea, non esiste». Continua Fassina: «Fra gli idealisti e gli euro-fanatici, alcuni continuano a pensare che l’Unione europea si possa trasformare in una sorta di Stato nazionale, solo più grande: gli Stati uniti d’Europa.»
Questa obiezione di sinistra all’appello di DiEM25 per un movimento paneuropeo è interessante e stimolante. Sostiene che la democrazia è impossibile a livello sovranazionale perché un demos deve essere caratterizzato da un’omogeneità nazionale e culturale. Marx non sarebbe affatto d’accordo! E posso immaginare lo stupore degli internazionalisti di sinistra, i quali hanno sognato e combattuto per una repubblica transnazionale dall’Atlantico all’Oriente.
La sinistra ha sempre sostenuto che l’identità è qualcosa che si crea con la lotta politica (di classe, contro il patriarcato, contro gli stereotipi, per l’emancipazione dall’Impero ecc.).
DiEM25, proponendo una campagna paneuropea di disobbedienza alle élites transnazionali, per creare un demos europeo che realizzi una democrazia europea, è in sintonia con l’approccio tradizionale della sinistra: proprio quell’approccio criticato da Fassina e dagli altri che sostengono il ritorno alla politica basata su una nazione/un parlamento/una sovranità , riducendo l’internazionalismo alla «cooperazione» fra gli Stati nazionali europei.
Un’agenda paneuropea
Per sostenere la priorità che accorda al livello nazionale, Fassina evoca Antonio Gramsci e la sua «categoria nazionale-popolare», allora sviluppata per dare radici popolari e capacità egemonica al Partito comunista italiano. Gramsci voleva in realtà spiegare che per progredire a livello internazionale occorreva un movimento progressista a livello locale e nazionale. Non era nelle sue intenzioni privilegiare il livello nazionale rispetto a quello transnazionale e sostenere che le istituzioni democratiche transnazionali fossero indifendibili e/o indesiderabili.
Nello stesso spirito gramsciano, DiEM25 insiste sul fatto che la nostra ribellione europea dovrebbe avvenire a ogni livello: città, regioni, capitali nazionali e Bruxelles, a parità di priorità. Solo una rete paneuropea di città ribelli, prefetture ribelli, governi ribelli, un movimento progressista può diventare egemone in Italia, Grecia, Regno unito, ovunque.
Qualcuno potrebbe chiedere: «Perché allora fermarsi al livello dell’Ue? In quanto internazionalisti, perché non militate per una democrazia su scala planetaria?» La nostra risposta è che lo facciamo. Abbiamo forti legami con la «rivoluzione politica» di Bernie Sanders negli Stati uniti e con militanti nei vari continenti. Ma dal momento che la storia bene o male ha partorito un’Europa senza frontiere, con politiche comuni in campo ambientale e in vari altri campi, la sinistra (per definizione internazionalista) deve difendere quest’assenza di frontiere.
E dunque: che fare?
DiEM25 respinge la campagna eurolealista per riformare l’Ue lavorando nel contesto dell’establishment, ma anche la posizione della Lexit che assume la disintegrazione dell’Ue come obiettivo. DiEM25 è nato per creare una vera alternativa: un movimento senza frontiere in tutta Europa (Ue e non Ue) basato su un’alleanza di democratici appartenenti a varie tradizioni (di sinistra e non solo) e a tutti i livelli dell’impegno politico (paesi, città, regioni, Stati).
A chi definisce utopistico il nostro movimento per una democrazia paneuropea, rispondiamo che si tratta di un obiettivo legittimo e realistico per il lungo periodo.
Non possiamo sapere se l’Ue si democratizzerà o si dissolverà. Lottiamo per la prima eventualità preparandoci comunque ad affrontare la seconda.
L’Agenda europea di DiEM25 propone una campagna unificante grazie alla quale un’Internazionale progressista europea possa contrastare l’Internazionale nazionalista che è in continua crescita.
Lanciare e sviluppare una grande campagna internazionalista in tutta Europa per un’Unione democratica significa che l’Ue non possa e non debba sopravvivere nella sua forma attuale.
Una campagna che ha come coordinate la denuncia dell’incompetenza dell’establishment autoritario dell’Ue; il coordinamento della disobbedienza civile, civica e governativa in tutta Europa. Illustrare con la struttura stessa di DiEM25 come una democrazia paneuropea possa lavorare a tutti i livelli e in tutti gli ambiti
Tutto questo mira alla elaborazione di un’agenda europea omnicomprensiva con proposte intelligenti, modeste e convincenti per «aggiustare» l’Ue (e anche l’euro) e al tempo stesso per gestire progressivamente la disintegrazione dell’Ue e dell’euro, se e quando l’establishment la provocherà.
«Tra sudditanza e cittadinanza attiva è chiara la differenza. La differenza la farà il voto per il NO alla riforma Renzi-Boschi con la consapevolezza che la Costituzione si potrà in futuro cambiare in meglio».
coordinamentodemocraziacostituzionale online, 5 settembre 2016 (c.m.c.)
Premessa
Conoscere per votare è il titolo di queste riflessioni. Un titolo che vuole parafrasare l’insegnamento di Einaudi a proposito del:“conoscere per deliberare”.
Quattro aspetti sono da tenere presente per una doverosa informazione che renda edotti i cittadini italiani sui seri e fondati motivi per votare No alla proposta governativa di riformare la costituzione.
1) Necessità di una informazione completa, testo alla mano, sui contenuti specifici della riforma che, per come hanno dimostrato autorevolissimi costituzionalisti in numerosi documenti e appelli, non è un cambiamento per migliorare, ma per peggiorare in modo pericoloso l’ordinamento costituzionale;
2) Necessità di informare i cittadini sull’intreccio tra riforma costituzionale e legge elettorale. Infatti entrambe le leggi sono state preordinate per trasformare i cittadini in sudditi di un ordinamento senza validi contropoteri, un ordinamento che sostanzialmente finirebbe per essere posto sotto l’egemonia di un uomo solo al comando;
3) Necessità di sottolineare il fatto che qualsiasi normativa, specialmente quella avente valore costituzionale, va valutata sia nei dettagli che nei significati dell’insieme del corpo normativo, atteso che ci sono effetti innumerevoli in conseguenza di un previsto cambiamento di oltre 40 articoli sui 139 che compongono la nostra Carta;
4) Necessità di evitare di personalizzare l’opposizione alla condotta del Capo del Governo per non mischiare gli aspetti del renzismo e dell’anti renzismo con i contenuti effettivi delle riforme le quali pregiudicano di per se stesse l’ordinamento democratico del nostro Paese, a prescindere dalle considerazioni riguardanti l’attuale inquilino di Palazzo Chigi.
Quest’ultimo aspetto, ispirato al rispetto dovuto alle istituzioni e alle differenti opinioni dei cittadini, sta dimostrando una sorprendente sopraffazione in danno delle ragioni del no alla riforma. Ciò accade a causa del ruolo che stanno svolgendo i vertici governativi a favore di essi medesimi. Infatti il Governo non sta svolgendo un ruolo istituzionale nell’interesse di tutti i cittadini, ruolo che è un atto dovuto per assicurare un sereno confronto tra i contrari e i favorevoli alle riforme.
Tutti stiamo toccando con mano che c’è un impari scontro tra il gigante Golia e Davide. Golia è, ovviamente, il gigantesco apparato governativo mobilitato e impiegato per perpetuare, attraverso la riforma costituzionale e la legge elettorale, il renzismo e la sua idea dell’appropriazione dei palazzi del potere nel cui interno dovrebbe regnare il metodo del “comando” senza contropoteri.
L’appropriazione della RAI in senso monopolistico da parte del Governo, è la prova visibile e incontrovertibile della natura e del contenuto delle idee-guida e degli scopi del renzismo, che sono una visione politico-programmatica tutta concentrata sulla conquista e sull’uso proprietario del pubblico potere. La chiave di lettura delle riforme, quindi, diventa inevitabilmente l’esame del perché e del percome si vorrebbe cambiare, in senso peggiorativo, una consistente e significativa parte della Costituzione.
Le date da ricordare e i due appuntamenti dell’autunno 2016
Il renzismo ha raggiunto il risultato che si era posto, cioè l’occupazione del palazzo del Potere Esecutivo, nel Febbraio del 2014, dopo due mesi dalla Sentenza N. 1 del 13 Gennaio 2014 con la quale la Corte Costituzionale ha accertato e dichiarato che la legge elettorale denominata porcellum è incostituzionale.
Le date e le modalità con le quali ha conquistato Palazzo Chigi e le date in cui è partito il disegno di stravolgere la Costituzione sono fatti che non hanno bisogno di commenti: parlano da sole.
Con la sua azione di Governo il renzismo, senza alcun mandato popolare, si è impegnato in modo sconcertante per farsi una legge elettorale e una costituzione di comodo. Queste leggi hanno il prevalente scopo, dichiarato, di perpetuare il renzismo. Sono state fatte votare con atti di imperio, richiesta di fiducia, canguri e ricatti politici vari ad un Parlamento delegittimato politicamente in quanto eletto con una legge elettorale incostituzionale. La maggioranza governativa si è allargata via via raggiungendo un record di voltagabbana accorsi in aiuto del Governo.
Dall’estate del 2016 siamo sotto il bombardamento di una indescrivibile propaganda governativa a favore del “sì” nel prossimo referendum in cui necessita votare SÌ o NO ad una riforma che, di fatto, punta a dare legittimazione politica a scelte fatte da novelli costituenti sulla cui credibilità politica c’è molto, ma molto da discutere.
Ci sono due appuntamenti importanti nel prossimo autunno.
Uno in cui il popolo potrà riprendersi la sovranità nel referendum in cui la posta in gioco è il tentativo del Governo di farsi approvare una costituzione di comodo.
L’altro concerne il giudizio che si svolgerà il prossimo 4 ottobre 2016 innanzi alla Corte Costituzionale perché i sostenitori del NO hanno eccepito presso molti Tribunali, vizi di costituzionalità nella legge elettorale denominata “italicum” e imposta dal renzismo con la richiesta di fiducia.
La propaganda governativa, le televisioni e molti giornalisti non si soffermano su questo dettaglio, che non è di poco conto. Sta di fatto che molti cittadini italiani sono stati indotti a credere che questa udienza innanzi alla Corte faccia parte di una normale procedura. Non si mette in giusto risalto che questo giudizio è subito dal Governo. Ciò comporta, a prescindere dalle decisioni che dovesse adottare la Corte, una grave disinformazione in danno dei diritti all’informazione.
Il potere costituito che diventa potere costituente
È noto il “potere di attrazione” della funzione governativa. Non è caso di soffermarsi sulla fenomenologia del “fascino” e della capacità di persuasione di chi abbia in mano le leve del potere.
Costituzionalisti, politici e intellettuali di varie scuole di pensiero, hanno sostenuto e sostengono che ci sono pericoli per la democrazia qualora il Governo non faccia un passo indietro nelle occasioni in cui si debba legiferare in materia costituzionale. Del resto non è immaginabile che ogni governo si faccia una sua costituzione di comodo. Ecco perché si usa dire che non spetta al potere costituito trasformarsi in potere costituente.
Calamandrei disse chiaramente che quando in Parlamento si discute di Costituzione i banchi del Governo devono essere vuoti.
Tutti noi abbiamo visto, invece, che la votazione della riforma costituzionale, che porta il nome Renzi-Boschi, è stata approvata con i banchi del Governo pieni di ministri e con i banchi dell’opposizione vuoti in segno di protesta per l’invadenza governativa. Una invadenza avvenuta non solo nella fase finale del voto, ma manifestatasi con atti di imperio governativi di varia natura durante tutto il processo di formazione della volontà facente capo alla funzione legislativa.
Addirittura il Governo ha preteso di rimuovere dalle Commissione Affari Costituzionali parlamentari che, invocando la libertà di coscienza, non erano d’accordo con i diktat governativi. Questa invadenza, che è stata consegnata alla storia, non la si può cancellare dalla memoria degli italiani, nemmeno dopo gli esiti del prossimo referendum costituzionale.
I pericoli che si intravedono nel ruolo invasivo del Governo in materia costituzionale non sono astratti principi enunciati dai costituzionalisti. Li abbiamo toccati con mano quando abbiamo visto e sentito le aggressioni verbali consumate dai vertici governativi contro i costituzionalisti che criticavano le riforme. Non dobbiamo sottovalutare i termini spregiativi usati: “gufi”, “rosiconi”, “professoroni”. La tecnica denigratoria è comune a quella usata nei regimi totalitari: il fascismo usava denigrare il “culturame”.
Quando voteremo un NO sonoro nel prossimo referendum sarà la volta buona, per noi cittadini, di dire grazie ai “professoroni” che non si sono lasciati né intimidire e né irretire dal “fascino del potere” e che hanno avuto il coraggio di descrivere per filo e per segno le mille ragioni per votare NO. E sia ben chiaro che il NO dei “professoroni” e il nostro NO, di cittadini, non è un NO a qualsiasi riforma, che è sempre possibile attuare in futuro come lo è stato in passato, ma un NO a questa specifica riforma per le modalità con cui è stata realizzata e per i suoi contenuti.
Qualche esempio di disinformazione
Necessita far sapere ai cittadini che il Senato non sarebbe soppresso, ma sostituito allo scopo principale di nominarlo a cura dei soliti noti e, quindi, allo scopo di togliere ai cittadini il diritto di eleggere i senatori. Si vuole mettere mano al Senato per togliere diritti, non per aumentarli.
La questione dei risparmi, se effettivamente stessero a cuore dei nuovi costituenti, sarebbe stata risolta o sopprimendo completamente il Senato oppure diminuendo del 50% il numero dei deputati e dei senatori. Autorevolissimi costituzionalisti non sono riusciti a mettersi d’accordo sul numero dei differenti procedimenti legislativi che darebbero origine le inspiegabili norme dell’art. 70. Chi parla di 7 procedimenti, chi di 10. In molti sono d’accordo nell’affermare che si passerebbe da un bicameralismo perfetto ad un bicameralismo confuso e produttivo di conflitti e paralisi legislativa.
Basta leggere il famigerato art. 70 per rendersi conto che i rottamatori hanno voluto sporcare la Costituzione vigente, che aveva ricevuto il premio letterario Strega per la sua chiarezza e per la facile comprensione del testo. È da ricordare, in proposito, che la Costituzione italiana è stata scritta, a suo tempo, con frasi di poche parole per renderle comprensibili a tutti i cittadini. Ciò per mettere il cittadino nella condizione di capire la Legge delle leggi senza il bisogno di chiedere spiegazioni ad esperti del diritto.
Spesso, come conseguenza della propaganda governativa, si sentono bugie, slogan e sorprendenti luoghi comuni.
Si può fare qualche esempio. È facile sentire dire che da 70 anni si aspetta di riformare la Costituzione, affermazione, questa, che il Presidente del Consiglio e il Ministro delle riforme hanno avuto modo di fare. Non è pensabile che i due alti esponenti del Governo ignorino che la Costituzione non ha ancora 70 anni di età perché è entrata in vigore il 1948. Ma è singolare che la medesima “bugia” sia stata diffusa al plurale, nel senso che sono stati in due a disseminarla. È da considerare, invece, che tra gli effetti della propaganda irresponsabile si verifica il tipico fenomeno così riassumibile: se butti in aria un pugno di farina non lo puoi più raccogliere.
L’immensa forza della propaganda a favore del “sì”
Pericolosa è la propaganda governativa quando il Governo da potere costituito si trasforma in potere costituente.
Non è un caso che il Governo si sia appropriato in termini monopolistici della RAI. Si possono addirittura quantificare le ore di TV messe a disposizione del governo per propagandare il “si” e lo scarsissimo spazio lasciato ai sostenitori del NO.
Non è un caso che di tutto si parla, meno del fatto che questa riforma è stata voluta, non dal popolo sovrano e non dai governati, ma dal Governo, un Governo che si regge sulla fiducia ottenuta da un Parlamento dichiarato eletto con una legge elettorale incostituzionale.
Non è un caso che il record dei voltagabbana accorsi a sostegno del Governo sia stato stabilito in questa diciassettesima legislatura.
Non è un caso che una delle parole-guida dei voltagabbana, il “cambiamento”, sia uno degli argomenti forti del Governo Renzi, che insiste sull’importanza del cambiamento a prescindere dal valutare quando il cambiamento sia introdotto per migliorare o per peggiorare.
Non è un caso che nella propaganda governativa si dica che è meglio “cambiare” la Costituzione, anche se con qualche errore di scrittura, piuttosto che non cambiare niente.
Non è un caso che il Governo abbia messo in atto un’occupazione dei palazzi del potere, RAI compresa, con modalità senza precedenti.
Il tifo e gli “aiutini” stranieri per il Governo
Non è un caso che il Governo abbia reclutato un esperto americano della propaganda, Joe Messina, per sostenere il “sì” ad una costituzione di comodo. Questo reclutamento suscita perplessità e interrogativi di varia natura e consegna alla storia un altro capitolo sullo “spirito costituente” che caratterizza l’operato dei novelli padri e madri costituenti. I Padri costituenti reclutarono i più autorevoli linguisti (di lingua italiana) per rendere chiaro e comprensibile a tutti i cittadini il testo non divisivo, ma unificante. Il Capo del Governo e Capo del suo partito (un’organizzazione di parte) ha ora reclutato un americano propagandista (di lingua inglese) per avere sostegno propagandistico a favore di un testo costituzionale incomprensibile, prevaricante e divisivo.
Non mancano aiuti dalla stampa estera al Governo con articoli che disegnano scenari apocalittici se non vincesse il “si” alla Costituzione Renzi-Boschi. La “narrazione” governativa sulla riforma e sulla finalità del progetto “renziano” convergono con questi ineffabili “aiutini”. E convergono anche nel non entrare, testo alla mano, sui contenuti della normativa. Sarebbe “curioso” chiedere a questi giornalisti se l’abbiano tradotto in lingua inglese e, quindi, letto e capito l’art. 70, che è di diffide comprensione anche per gli esperti del diritto costituzionale italiano. Ma stiano sereni gli aiutanti del Governo. Siamo in molti a voler conoscere per deliberare, quindi conoscere per votare. Votare in modo consapevole e responsabile, anche nei confronti dei nostri figli e dei nostri nipoti, significa approfondire il testo che dovremo lasciare in eredità alle future generazioni.
Le parole chiave del renzismo
Come cittadino italiano, mi duole, sinceramente, di dover mettere a fuoco i sorprendenti (per usare un eufemismo) comportamenti dei vertici governativi. Infatti mi ritrovo in sintonia con la scuola di pensiero riferibile al filosofo svizzero Amiel: «L’esperienza di ogni uomo ricomincia daccapo. Soltanto le istituzioni diventano più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva e, da tale esperienza, da tale saggezza, gli uomini soggetti alle stesse norme non cambieranno certo la loro natura ma trasformeranno gradualmente il loro comportamento».
Cosa viene generato dal renzismo e in particolare dal suo modo di fare e dal suo linguaggio?
L’ABC e la storia del renzismo le troviamo specchiate in tre parole chiave:
1) “Arroganza”, che si percepisce da ogni azione e da ogni parola, com’è il caso della parola “rottamazione” usata nei confronti di persone e istituzioni, Costituzione compresa;
2) “Bugia”, pronunciata con l’uso spregiudicato dei media (ad esempio “stai sereno Enrico”, il famoso messaggio rivolto al Presidente del Consiglio pro-tempore pochi giorni prima di farlo fuori per prendergli la poltrona);
3) “Comandare”, nel senso che chi vince le elezioni comanda per 5 anni e nel senso che l’idea fissa del renzismo è l’occupazione dei palazzi del potere. L’idea di “comandare” e di voler comandare all’interno di qualsiasi istituzione quasi sempre disconosce e agisce in dispregio della qualità e dell’efficacia del saper “dirigere” e del saper governare nel rispetto degli interessi generali.
Tra le parole improprie e al limite della bugia usate dal renzismo, ne cito un paio.
La prima è l’uso improprio della parola “modernità”, nel senso che il renzismo vuole e persegue, di fatto, non la modernità, ma il ritorno all’antichità dell’uomo solo al comando cancellando tutta la cultura e tutta la vera modernità iniziata con il recepimento dei principi della divisione dei poteri teorizzati da Montesquieu.
La seconda è l’uso ingannevole della parola “cambiamento”, nel senso che il messaggio del renzismo tende a persuadere la gente ad accettare l’idea di un cambiamento a prescindere dell’entrare nel merito del proposto cambiamento che, com’è noto, può essere in meglio o in peggio. Sta di fatto che le sue riforme sono tutte improntate al peggio e alla complicazione (altro che semplificazione) come si può capire, ad esempio, leggendo gli articoli 70 e 71 della sua proposta di riforma. Invero una semplificazione c’è, quella di costruire un ordinamento senza contropoteri per dare mano libera all’inquilino di Palazzo Chigi. Tra le complicazioni introdotte c’è anche l’allontanamento dei cittadini dalla politica triplicando il numero delle firme necessarie per una iniziativa popolare (da 50 mila a 150 mila firme di difficilissima e costosissima certificazione).
Alcune significative dichiarazioni dei vertici governativi
È appena il caso di ricordare che il 9 agosto 2016 è intervenuta una dichiarazione sconcertante da parte del Ministro Maria Elena Boschi. Secondo il Ministro sarebbe una mancanza di rispetto al Parlamento la proposta di votare NO alla riforma. Siccome l’art. 138, secondo e terzo comma, della Costituzione prevede la possibilità di referendum popolare su revisioni costituzionali che non abbiano ottenuto il voto di due terzi dei componenti il Parlamento, l’affermazione del Ministro confligge con quanto stabilito da questo articolo e quindi equivale ad ingannare i cittadini per poter far loro credere che solo il voto “SÌ” rispetterebbe la democrazia parlamentare. È di solare evidenza, altresì, che l’affermazione del Ministro configura due gravissimi attacchi ai principi, uno alla libertà del cittadino e uno all’autodifesa normativa sancita dalla Costituzione.
Quasi contemporaneamente alle dichiarazioni del Ministro Boschi sono rimbalzate nelle TV le notizie di una affermazione de capo del Governo Renzi che promette di distribuire ai poveri i presunti risparmi conseguenti al suo progetto di sopprimere il Senato. In proposito ha dato i numeri: 500 milioni che darà alla povertà.
Conclusioni
Non ci sono parole innanzi al discredito e allo sfregio messi in campo contro le istituzioni e contro l’architettura costituzionale da parte della subcultura della rottamazione. Stiamo assistendo ad una propaganda di regime e a linguaggi che hanno i connotati tipici della sopraffazione per perpetuare l’occupazione dei palazzi del potere.
Un cenno è d’obbligo alla legge elettorale imposta dal Governo con voto di fiducia ed intrecciata con la riforma costituzionale. Essa è denominata ‘italicum’, ma si dovrebbe chiamare “Acerbum” per le sue similitudini con la legge elettorale Acerbo a suo tempo destinata a legittimare il fascismo. Questa legge “Acerbum”, peraltro, uccide il principio liberale “una testa un voto” previsto dalla Costituzione.
In questi tempi caratterizzati da una legislatura, la XVII, eletta con una legge elettorale incostituzionale, è diventata di solare evidenza una “resistibile ascesa” nei palazzi del potere di una grande voglia di trasformare i cittadini in sudditi di un uomo solo al comando. Si vorrebbero restringere, non allargare i diritti dei cittadini. Addirittura si vorrebbe togliere per sempre il diritto dei cittadini di eleggere il Senato in capo al quale sono stati previsti compiti e funzioni per paralizzare in futuro riforme razionali (anche di natura costituzionale) di segno diverso da quello attualmente egemone.
L’egemonia dell’attuale Governo non è rappresentativa della maggioranza degli italiani, come ha dimostrato la Sentenza N. 1 del 2014 della Corte Costituzionale. In pratica una minoranza fattasi maggioranza col trucco dell’incostituzionale porcellum e con l’aiuto di voltagabbana, ha predisposto un intruglio di norme che, per come avvertono costituzionalisti autorevoli, sta tentando di far passare una sostanziale modifica dell’art. 1 della Costituzione nella parte in cui è previsto che la sovranità appartiene al popolo.
Tra sudditanza e cittadinanza attiva è chiara la differenza. La differenza la farà il voto per il NO alla riforma Renzi-Boschi con la consapevolezza che la Costituzione si potrà in futuro cambiare in meglio, non in peggio.
«Secondo l’Istat, 800 mila donne, con l’arrivo di un figlio, sono state costrette a lasciare il lavoro, perché licenziate o messe nelle condizioni di doversi dimettere».
Il Fatto Quotidiano online, blog lettori, 5 settembre 2016 (c.m.c.)
La sgangherata campagna per il Fertility Day promossa dal Ministero della Salute, ha però avuto il pregio di sollevare l’attenzione sulla condizione femminile in Italia, dal punto di vista sia lavorativo che “riproduttivo”. Innanzitutto, alcuni dati.
Nel 2015 sono state registrate circa 488mila nascite, quindicimila in meno rispetto al 2014. Si tratta del minimo storico mai raggiunto dallo Stato italiano. Per trovare dati simili bisogna tornare al 1917-18, quando una buona fetta di popolazione maschile in età fertile era al fronte, nelle trincee. È anche vero che l’età del concepimento si sposta sempre più avanti: l’Italia è il Paese con le mamme più vecchie d’Europa. Per dire: in Romania le neo-mamme over 35 sono il 10,9%, in Italia il 34,7%. In Liguria, Lazio, Sardegna un bambino su dieci nasce da mamme ultraquarantenni.
I numeri vanno tutti nella stessa direzione: l’Italia è il terzultimo Paese europeo per numero di donne occupate, davanti alle sole Grecia e Macedonia. In Italia lavora solo il 57% delle donne tra i 25 e i 54 anni e la media è di 1,3 figli per coppia.
Sempre in Italia, più di 5 donne su 10 sono senza reddito da lavoro e, per quelle che il reddito lo hanno, la retribuzione media pro capite (calcolata tra impiegate e operaie) si ferma sotto i 25mila euro annui, mentre quella di un uomo sfonda il tetto dei 31mila.
In Svezia le donne che lavorano sono l’83% e la media-figli sale a 1,9. Il motivo è piuttosto semplice: il lavoro della donna porta alla coppia uno stipendio in più. E se lavori e decidi di fare un figlio è perché hai un sistema di welfare che ti permette di conciliare i tempi della famiglia con quelli della professione.
Analizzando gli investimenti statali, la spesa pubblica per la famiglia, pari a 16,5 miliardi, spiegano gli autori di uno studio curato dall’Ufficio studi di Confartigianato, è appena l’1% del Pil, a fronte degli interventi per gli anziani che, tra pensioni e spesa per la salute, corrispondono al 20% del Pil. In pratica, per 1 euro speso a favore della famiglia se ne dedicano 20 agli over 65.
Il basso livello di spesa per la famiglia colloca l’Italia al 22° posto tra i Paesi Ue per la quantità di risorse dedicate a questo capitolo di interventi pubblici che, nella media dei Paesi europei, si attesta all’1,7% del Pil. Al contrario, la spesa pubblica per anziani in Italia supera del 4,9% la media europea che si attesta ad una quota pari al 15,1% del Pil.
L’esigua quantità di spesa pubblica in servizi per la famiglia incide negativamente sulla natalità e penalizza l’occupazione femminile. Secondo lo studio di Confartigianato, infatti, per le donne tra 25 e 44 anni senza figli il tasso di attività lavorativa è dell’82,1%, ma scende al 63% per le donne della stessa età con figli, con un gap di oltre il 19%. Segno che lo Stato non offre quei servizi che consentono alle madri di conciliare il lavoro con la cura della famiglia. E per la cura dei figli le donne si affidano soprattutto a reti di aiuto informale con il 51,4% dei bambini con meno di due anni accudito dai nonni, mentre il 37,8% frequenta un asilo nido. La baby sitter viene scelta come modalità di affido prevalente soltanto dal 4,2% delle madri lavoratrici. L’arrivo di un figlio costa il posto di lavoro a un’italiana su due.
Secondo l’Istat, 800 mila donne, con l’arrivo di un figlio, sono state costrette a lasciare il lavoro, perché licenziate o messe nelle condizioni di doversi dimettere. A subire più spesso questo trattamento, non sono le donne delle generazioni più anziane ma le più giovani, le residenti nel Mezzogiorno (10,5 per cento) e le donne con titoli di studio basso (10,4). Una volta lasciato il lavoro solo il 40,7 ha poi ripreso l’attività, con delle forti differenze: su 100 donne licenziate o indotte a dimettersi riprendono a lavorare 15 nel Nord e 23 nel Sud.
In un paese come il nostro, già segnato da una bassa occupazione femminile un nuovo, possibile anticorpo alla “resa” delle donne è la riforma del welfare aziendale introdotta dalla Legge di Stabilità, ora in attesa del decreto attuativo.
Al contrario che in Italia, la Francia è la patria delle mamme-lavoratrici in Europa. Oltralpe il 74% delle madri con figli sotto i 15 anni ha un lavoro e il Paese vanta il tasso di natalità più alto: 2,1 figli per donna ed è al quarto posto nella classifica della Cnn dei Paesi dove è più facile vivere da mamma e papà.
Su otto Stati recensiti dal network americano, sette (l’ottavo è il Canada) si trovano in Europa: Islanda, Svezia, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Finlandia e Norvegia.
In Islanda lavora l’85% delle madri con figli sotto i 15 anni, e in Danimarca l’84%, dove la spesa per le famiglie è l’8,6% e la legge prevede 6 mesi al 100 per cento dello stipendio, in Norvegia 10 mesi al 100 per cento oppure 12 all’80 e vi è una percentuale di 1,8 figli per donna.. Dove esiste il congedo per padri, circa l’85 per cento dei neopapà ne usufruisce.
Tutti questi Paesi sono accomunati da un welfare molto attivo e attento a permettere alle famiglie a trovare un nuovo equilibrio vita-lavoro dopo l’arrivo dei figli e, non a caso, lì si fanno più figli. Al sud Italia la dinamica occupazionale è peggiore che al nord. E’ sempre stato così, però ora è ancora peggio.
Qui, a fronte di uomini capifamiglia che hanno perso il lavoro e che si sono ritrovati costretti a casa, ci sono state parecchie donne che si sono messe alla ricerca di un lavoro al posto del marito o del compagno per far fronte alle gravi criticità familiari. Sono infatti aumentate le donne capofamiglia occupate che si sono accontentate di qualsiasi tipo di lavoro pur di garantire un reddito per la famiglia. Aumento delle occupate immigrate, maggiore permanenza sul lavoro delle ultracinquantenni e riattivazione nella ricerca del lavoro da parte delle donne del sud spiegano quindi la maggiore tenuta dell’occupazione femminile . Anche se le donne hanno pagato un prezzo a tutto ciò: il peggioramento della qualità del lavoro.
Quello della sovra-istruzione è un altro fenomeno che purtroppo è anche aumentato e non solo al Sud. Laureate che risultano occupate ma che svolgono impieghi per cui la laurea non è affatto necessaria. Inoltre, sono diminuite le professioni tecniche e cresciute quelle non qualificate. E poi è letteralmente esploso anche il part-time involontario.
In questa situazione vi è un segmento anagrafico che sta peggio ed è quello delle giovani, fino a 34 anni di età. Per loro il calo dell’occupazione è continuo dall’inizio della crisi. In questo senso sono colpite come i loro coetanei maschi, e in alcuni casi di più.
Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2016 (p.d.)
Portare il freddo in Africa per evitare che il cibo prodotto venga buttato prima di arrivare sul tavolo dei consumatori. In un’epoca di tecnologie avanzate, uno spreco davvero paradossale, soprattutto in un continente dove la fame uccide così tanto”: è questa l’ultima scommessa di Madi Sakande, originario di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, in Italia dal 1997, alla guida di una storica azienda di refrigerazione e climatizzazione a Calderara di Reno, nel Bolognese.
Una storia di sfide e successi quella di Sakande, classe 1972, sbarcato dal Burkina Faso con un visto turistico per fare visita a un parente immigrato, un periodo di clandestinità e una sanatoria nel 98. A 25 anni, la voglia di esplorare il mondo e il sogno nel cassetto di diventare calciatore lo portano in Italia. Un sogno infranto per via di un infortunio in pieno allenamento sportivo nel Foggiano, pochi mesi dopo il suo arrivo. Guardandosi indietro, Sakande ricorda: “Al mio arrivo in Italia non capivo niente quando mi parlavano. Conoscevo solo la parola ‘ciao’, quella della mascotte italiana ai mondiali del 90. Al l’inizio la difficoltà maggiore era di non potere comunicare!”. Nel Sud Italia, come molti dei suoi connazionali, ha lavorato nei campi, alla raccolta dei pomodori e “quando sei senza documenti, ti sfruttano come se fossi uno schiavo”.
La svolta è arrivata dopo il trasferimento a Bologna. Grazie ad una formazione scientifica e all’esperienza professionale nel settore dei frigoriferi nel paese di origine, per dodici anni Sakande si è fatto le ossa in un’azienda del settore del freddo e condizionamento per la quale ha curato l’ufficio commerciale, girando per tutta l’Emilia Romagna e l’Italia, diventando responsabile della clientela anche nei paesi dell’Europa dell’Est. “Non mi sono mai perso d’animo di fronte a pregiudizi e ostacoli, facendo affidamento sulla mia determinazione e forza interiore – confida – ispirandomi alla grande figura di Thomas Sankara, ho capito che se vuoi cambiare la tua vita e il mondo che ti circonda la rivoluzione deve cominciare dentro di te. Dalle difficoltà nascono le opportunità più grandi di crescita. E questo è sempre stato un mio cavallo di battaglia”.
Nel 2010, la voglia di realizzare un progetto professionale in proprio per “non dipendere più da nessuno”. Con un gruppo di colleghi la decisione di cominciare una nuova avventura, prendendo il timone della New Cold System srl, (allora Cold System, prima ancora conosciuta come ditta Tovoli Aldo, ndr) azienda con 60 anni di esistenza che stava attraversando un periodo di crisi. “Abbiamo subito capito che dovevamo puntare su formazione e innovazione se volevamo farla crescere. Il settore della refrigerazione e climatizzazione è in piena trasformazione e crescita per via dei cambiamenti climatici e del mutato stile di vita.
Così, giorno dopo giorno, io per primo, con soci e dipendenti abbiamo seguito corsi di formazione continua affinché ogni nostro progetto fosse davvero innovativo” dice con entusiasmo Sakande, che è anche docente del Centro Studi Galileo e consulente dell’Unido (Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale) per la formazione e la certificazione dei tecnici e delle aziende a norma CE 303/08.
Un ulteriore riconoscimento è arrivato lo scorso giugno con l’assegnazione del Premio all’Imprenditore Immigrato del 2016, rappresentante di eccellenza di tutte e cinque le categorie (crescita, occupazione, innovazione, imprenditoria giovanile e responsabilità sociale) all’ottava edizione del concorso del Money Gram Award. In passato era già stato premiato come migliore imprenditore all’Africa-Italy Excellence Award.
Con nove dipendenti e un fatturato di circa 2 milioni di euro, la New Cold System srl vende i suoi prodotti esclusivamente alle aziende e trasmette il suo know-how progettando impianti ad hoc innovativi sul mercato italiano, ma sta puntando sempre di più all’internazionalizzazione.
Per ottobre sarà pronto un impianto di refrigerazione alimentato con energia solare che potrà essere utilizzato per conservare carne, pesce, frutta e verdura nelle zone più remote dell’Africa, quelle senza corrente elettrica. Fino ad oggi l’interruzione della catena del freddo costringe a buttare tra il 50 e 70% di quello che si produce. “Il mio impegno professionale va oltre l’aspetto tecnico-commerciale: è doveroso mettere la proprie competenze al servizio della società, specie in quelle zone in difficoltà – conclude Sakande – che conosco bene. Allo stesso modo, nel nostro quotidiano dobbiamo ritrovare umanità e non smettere mai di lavorare in modo costruttivo per le generazioni future, superando paure e pregiudizi”.
Una visione ottimistica della proposta di "modifica ragionevole" della Costituzione. Se son rose fioriranno, e a noi le rose piacciono.
Il manifesto, 4 settembre 2016
La proposta d’Alema sull’oggetto del referendum (e gli effetti sul collegato italicum) colma un vuoto nel confronto tra noi del “No” e i sostenitori del “Sì”. Il vuoto di una proposta riformatrice del testo costituzionale, per una autentica “revisione”. Insisto: revisione, non eversione della forma di governo (e di stato) premeditata e avviata a mezzo dei due combinati mostriciattoli Renzi-Boschi.
A quel che si legge, D’Alema proporrebbe: a) la ridefinizione del rapporto di fiducia al governo in modo che intercorra con la sola camera dei deputati, il superamento quindi del bicameralismo perfetto; b) la riduzione del numero dei membri del parlamento a 400 per la camera e a 200 per il senato, (in totale, trenta in meno del numero attuale dei soli deputati) per contenere l’estensione del ceto parlamentare alle funzioni da svolgere a seguito del riparto delle competenze con l’Ue; c) la soppressione del Cnel e delle province, d) le modifiche al Titolo V segnalate dalla decennale giurisprudenza della corte costituzionale.
Il tutto si tradurrebbe in emendamenti a 5 o 6 soli articoli della Costituzione, come notava, giovedì scorso, su questo giornale, Massimo Villone. Li chiamo “emendamenti” a ragion veduta.
Come tali dovrebbero essere e dimostrare di essere, non solo pertinenti formalmente, ma logicamente coerenti al testo della Costituzione e al suo spirito.
I meriti della proposta vanno sottolineati. Non soltanto e non tanto perché dimostrano l’infondatezza della accusa al “no” di cieco conservatorismo delle … virgole della Costituzione. Ma perché, di fatto e con rilevanza politica assai notevole, trasforma il “no” in un “sì” a una diversa modifica della Costituzione che accoglierebbe le proposte revisioniste oneste rendendole di costituzionalità indubitabile.
La proposta inoltre, offre ai sostenitori del “si” al governo e/o in parlamento, una chance che sarebbe grave rifiutare. Quella di dimostrare, accogliendola, che i loro intenti non sono affatto quelli temuti e da noi motivati e denunziati e che perciò essi sono disposti a raggiungerli anche in modi diversi dai contenuti della Renzi-Boschi che allarmano così tanto vasti settori dell’opinione pubblica. Modi che già hanno il favore delle minoranze parlamentari e che, con quello del Pd, in ambedue i rami del parlamento, costruirebbero un consenso adeguato per una revisione costituzionale degna di questo nome. Rifiutare tale proposta dimostrerebbe tutta la perversità del disegno istituzionale renziano.
Ci si deve però chiedere come e in che senso la proposta D’Alema (da spersonalizzare chiamandola, ad esempio, «dei cinque emendamenti alla Costituzione») possa essere accettata. È difficile immaginarlo ma ci si può provare. Sapendo che il suo presupposto è la vittoria del “no” ed è indefettibile. A tale presupposto dovrebbe corrispondere se non un sì, qualcosa che, senza somigliargli troppo, non gli si opponga. Lo si può ipotizzare come giudizio positivo sulle singole parti della proposta, su ciascuno degli emendamenti alla Costituzione. Sarebbe quindi auspicabile, e non solo da questo punto di vista, la presentazione alla camera e al senato di un progetto di legge costituzionale con tale contenuto.
La proposta intanto ha sortito un successo importante e immediato. Renzi ha riconosciuto che «se vince il “no” non casca il mondo».
Non si deve escludere perciò un ulteriore ripensamento di Renzi. A fronte dell’eccesso dei toni che ha lamentato riconoscendo la sua parte di responsabilità, potrebbe decidere, in nome dell’unità politica della Nazione sulla Legge fondamentale della Repubblica, di uscire dalla mischia, elevandosi al di sopra di essa quale presidente del consiglio e lasciare al corpo elettorale la più ampia e serena autonomia decisionale su tutte e due le alternative in campo. Quella della legge costituzionale sottoposta al referendum respingendola e quella che potrebbe ottenere un più ampio consenso. Di fronte a tale sua decisione non potremmo che riconoscerli il più alto senso di responsabilità istituzionale.

«Repubblica, 4 settembre 2016 (c.m.c.)
Non c’è scampo alla retorica della purezza in politica: funziona fino a quando chi la brandisce non amministra.
Si tratta di una logica polemica, adatta a chi sta all’opposizione. Il problema è che quando un movimento di questo tipo si candida al governo della cosa pubblica, si espone fatalmente a subire gli effetti della retorica dei puri. Nella dimostrazione di impotenza che sta dando il Movimento 5 Stelle con il tentativo di formare una giunta nella Capitale vi è forse la prova più inequivocabile della logica aberrante e distruttiva cresciuta dalla macerie di Tangentopoli, sulla quale ha preso forma il movimento di Beppe Grillo: quella che identifica il buon governo con la purezza della coscienza morale, che crea un’alternativa tra “trasparenza”e “competenza”.
Lo scriveva molto bene Massimo Giannini in chiusura della sua analisi, due giorni fa: il «motto “meglio inesperti che disonesti”, per quanto rassicurante, non può più bastare».
Non solo non può bastare, ma è suicida; assurdo, sbagliato alla radice. Si sorregge sull’idea che la capacità politica sia diabolica e corrotta. Che l’ingenuità sia miglior divisa della prudenza; che anzi, a ben guardare, non ci sia nulla che si possa a ragion veduta chiamare “competenza politica”.
La competenza sarebbe infatti solo di un tipo: quella che si misura nei campi professionali, frutto di conoscenze tecniche e di valutazioni oggettive. Su queste premesse impolitiche ha preso corpo il metodo del M5S di raccogliere i curriculum vitae per scegliere candidati politici e amministratori. Come se essere un buon professionista sia lo stesso che essere un buon attore politico. Questa è l’idea di buon governo coltivata dall’antipolitico Movimento Cinque Stelle.
Il Movimento sta annaspando e, diciamo pure, rischiando di fallire la sfida per il governo di Roma (una sfida che, certo, è il frutto di decenni di cattivo governo e di illegalità di cui i cinquestelle non sono responsabili). Rischia di fallire a causa del suo rifiuto della politica e della forma partito come organizzazione moderna e, vivaddio, democratica della politica. Che ci siano stati e ci siano partiti e politici corrotti non vale a liquidare partiti e attori politici. La patologia non squalifica la fisiologia. Da qui i pentastellati dovrebbero procedere se vogliono far sì che il loro progetto di buon governo di Roma non fallisca e che l’appello alla trasparenza sia efficace.
La “trasparenza” nell’agire pubblico è definita da leggi e norme etiche condivise che danno certezza di conoscenza. Un gruppo politico ha alcuni obiettivi che tutti devono essere messi nella condizione di sapere se e come sono attuati; perché, per esempio, le persone preposte per la loro attuazione si sono ritirate. Quali sono le ragioni dei dissensi. La trasparenza non nasce per magia da una serie di commenti pubblicati sulla pagina Facebook della sindaca, scriveva Giannini, e non coincide con «una lettura banalmente burocratica delle dimissioni del suo capo di gabinetto». È il giudizio politico, la valutazione sulle ragioni di quelle dimissioni come di ogni altra scelta pubblica che fa di un documento un documento politico. La trasparenza non consiste nel dare conto del fatto “nudo e crudo”.
Se i giudizi politici sono annullati per non uscire dal tracciato secco e spoglio del fatto, se la burocratica comunicazione è identificata con la trasparenza, allora la capacità di scelta e di azione, e infine di giudizio politico degli attori è gravemente menomata. Il blog al posto del partito e il resoconto scarno al posto del giudizio politico: sono queste le strategie che decretano la fatale impotenza del M5S. Mesi fa avevamo parlato dell’insostenibilità pratica della retorica della purezza, un ideale di onestà come qualità della morale soggettiva non dell’etica pubblica. Oggi gli effetti di quella logica si mostrano nell’impasse in cui si trovano Raggi e i “suoi” amici o gli “altri”, i non “suoi”.
È fatale: se la politica per essere nobilitata si fa una succursale o del comportamento privato o di quello burocratico, l’esito sarà non la buona politica ma una guerra tra gruppi. È paradossale che per evitare il “compromesso” (svilito spesso ad inciucio) e per praticare la regola della professionalità tecnica i cinquestelle finiscano per dare corpo al peggio della corruzione in politica: la lotta tra fazioni. Mentre chi sta fuori non è messo nella condizione di sapere e capire.
«Unione europea e euro. Priva di una cultura politica aggiornata alle contraddizioni del liberismo, la sinistra rimane ai margini della storia e diventa complice di una spirale distruttiva della Ue, oltre che della moneta unica».
Il manifesto, 3 settembre 2016
Una serie di interventi ospitati da
il manifesto nel mese scorso (da Ciocca a Lunghini) è ruotata intorno a un punto efficacemente sintetizzato da Valentino Parlato (11 Agosto): «l’attuale crisi, a differenza di quella del ’29, non scuote la cultura: stagnazione dell’economia e stagnazione della cultura … Dobbiamo renderci conto, ed sotto i nostri occhi, che senza cultura la politica – come scrive Alberto Burgio – muore». È una valutazione valida per tutte le sinistre al di qua e al di là dell’Atlantico, dentro e fuori il perimetro della esangue famiglia socialista europea. È utile, in particolare, per noi, Sinistra Italiana, avviati inerzialmente verso un congresso rituale, senza ragioni fondative adeguate.
Eppure sono evidenti le discontinuità di fase. Le elezioni regionali in Francia, le presidenziali in Austria, le amministrative in Italia, i successi anti-establishment di Trump e Sanders e la virata a manca di Hillary Clinton negli Usa e, infine, la Brexit indicano l’insostenibilità economica, sociale e democratica del capitalismo liberista. Un fatto enorme. A guardar bene, la Brexit nel 2016 potrebbe rappresentare per il liberismo reale quello che il crollo del Muro di Berlino ha rappresentato nel 1989 per il socialismo reale.
Per noi, nell’euro-zona, l’insostenibilità del liberismo reale è un dato politico ancora più rilevante poiché abbiamo «costituzionalizzato» la versione più estrema del paradigma oramai alle corde: lo statuto della Bce da un lato e il fiscal compact dall’altro, nel quadro delle politiche di svalutazione del lavoro iniziate in Germania dalle «riforme Hartz», l’atto di gran lunga più anti-europeo compiuto nella Ue nel secondo dopo guerra.
Nonostante i caratteri di fondo dei trattati europei e dell’unione monetaria, nella sinistra storica europea, riformista o critica, e nei giovani movimenti genericamente anti-establishment, la discussione rimane prigioniera di un astratto e impolitico europeismo alternativo. La «stagnazione della cultura» a sinistra oggi è il principale ostacolo all’affermazione di movimenti, sindacati e partiti orientati a ricostruire soggettività sociale e politica del lavoro, condizione necessaria per rivitalizzare la democrazia, ridurre le diseguaglianze e riavviare l’economia all’insegna della riconversione ambientale.
Per aprire una discussione utile, in particolare per chi è in fase costituente, l’ultimo saggio di Joseph Stglitz, premio Nobel nell’economia e icona della sinistra, offre una preziosa opportunità. Il professore della Columbia University, difficile da scomunicare con l’accusa di moda di sovranismo o neo-nazionalismo, nel suo «The Euro. How a common currency threatens the future of Europe», ripropone un’analisi consolidata, da tempo espressa da tanti economisti eterodossi e mainstream, anche in Italia: l’ordine economico e sociale dell’euro è insostenibile poiché determina dinamiche divergenti tra i paesi partecipanti, genera stagnazione e nel migliore dei casi, grazie a una politica monetaria disperata, equilibri sempre più arretrati di sotto-occupazione.
In altri termini, l’assenza o la prolungata anemia dell’economia non è soltanto conseguenza di risposte sbagliate a incidenti esogeni. La «stagnazione secolare» è la fisiologia del sistema euro in quanto fondato sulla svalutazione del lavoro e sulla marginalizzazione delle classi medie. Il problema dell’euro-zona non è l’austerità, ma l’impianto dei trattati e la politica economica mercantilista praticata con largo consenso bipartisan dal paese leader. In sintesi, l’euro è stato un errore politico di portata storica.
In astratto, le soluzioni esistono per orientare in senso pro-labour la moneta unica. Nel testo di Stiglitz si ritrova una rubrica di «riforme strutturali». Il problema, chiaro al prof Stiglitz ma inavvertito dai nostri spinelliani senza se e senza ma, è l’assenza del consenso minimo richiesto nei contesti nazionali per approvare le correzioni necessarie. Purtroppo, il demos europeo non esiste. Il demos è nazionale per radici culturali, storiche e sociali. La democrazia o è nazionale o non è.
In tale quadro, data l’impraticabilità politica del Piano A, Stiglitz propone il «suo» Piano B: il superamento cooperativo dell’euro («amicable divorce») per arrivare a un euro del Nord e un euro del Sud o, scenario preferibile, all’uscita della Germania dalla moneta unica.
Alle medesime conclusioni di Stiglitz, sebbene con argomenti di superficie, era arrivata un’altra icona della sinistra critica italiana, Luciano Gallino, nel suo testamento politico, rimosso anche dai discepoli più intimi: «Come (e perchè) uscire dall’euro ma non dall’Unione europea».
Allora, che fare per salvare l’Unione europea dall’euro? Innanzitutto, una lettura fondata della fase, l’abbandono del miraggio degli Stati Uniti d’Europa e l’archiviazione della richiesta del Ministro del Tesoro dell’Euro-zona (a trattati vigenti, sarebbe ulteriormente regressivo sul piano democratico e recessivo sul versante economico). Quindi, l’avvio di una discussione ordinata, protetta dalla Bce, per un Piano B sulle linee raccomandate da Stiglitz. Immediatamente, l’innalzamento delle retribuzioni in Germania per consentire un significativo aumento degli investimenti pubblici nei paesi più in difficoltà dell’eurozona senza effetti dirompenti sulle loro bilance commerciali.
Invece, come fossimo negli anni ’90, il governo, supportato dall’establishment, ripropone ulteriori misure supply-side: tagli al welfare per ridurre le tasse sulle imprese e smantellamento del contratto nazionale di lavoro. Svalutazione del lavoro per ridurre il gap di competitività e puntare alla domanda interna di qualcun altro. Una ricetta seguita da tutti i Paesi euro. Quindi, inutile a migliorare la posizione relativa della singola economia ma efficacissima a deprimere la domanda interna dell’eurozona, a incancrenire la stagnazione e spingere le classi medie verso la chiusura nazionalista.
Priva di una cultura politica aggiornata alle contraddizioni del liberismo reale e della sua versione estrema incarnata dall’europeismo reale, la sinistra qui e oltre confine rimane al margine della storia e si fa involontariamente complice di una spirale distruttiva dell’Unione europea, oltre che della moneta unica. Il dibattito su il manifesto è una preziosa occasione per recuperare.
Il Manifesto, 3 settembre 2016 (p.d.)
Il governo somiglia a un club di sciamani. Evoca in suo soccorso forze misteriose per arginare la presenza del male (il terribile zero) che non sa come affrontare con politiche efficaci. Il ministero dell’economia, con le sue danze propiziatorie, gioca con i numeri e anticipa una crescita inesistente. Tocca all’Istat rimettere le cifre in ordine e confermare, nei giorni di Cernobbio, che la ricetta del governo dei bonus è miseramente fallita. Dopo «63 governi dormienti» Renzi si vantava di aver restituito velocità, vigore, ottimismo. Rivendicava persino un ritrovato contatto con la felicità. «Quando attaccano Happy days non lo fanno perché si sentono lontano da Fonzie, ma perché si sentono lontani dalla felicità», diceva Renzi. E però, dopo tre anni di potere vissuti secondo l’ «Italia col segno più», i numeri sgonfiano un chiacchiericcio che produce ormai più irritazione che consenso.
Sebbene abbiano una grande pazienza, i nudi fatti, a un certo punto, si infastidiscono dinanzi a una overdose di comunicazione deviante per la quale la realtà è solo un fastidio e «il vittimismo è un ostacolo alla crescita». Strattonati, i fatti reagiscono alla dittatura dell’ottimismo per decreto.
Senza opposizione e controllo, il governo riesce nell’impresa di affondarsi da solo, con l’incontinenza del suo cinguettio infinito che opera nel mondo del presso a poco. Le sue metafore, spacciate per fascinosa ipermodernità, cominciano a stufare anche i più distratti consumatori di spot che si infastidiscono dinanzi alla strafottenza del governo via tweet («si scrive legge di stabilità, si pronuncia legge di fiducia»). Il pubblico, sebbene indotto dai media alla passività, avverte che la narrazione delle «buone notizie» non corrisponde al vissuto reale. E per questo sente una crescente avversione per un potere che, anche dinanzi alle tragedie, gioca alla fabbricazione di pure trovate linguistiche, come Casa Italia, o in mezzo alle macerie pensa alla prenotazione di incontri mitici con archistar.
Una forma espressiva ricorrente della retorica renziana è quella che scandisce «è finito il tempo». L’intenzione del potere è di rimarcare l’eccezionale portata innovativa del governo del fare. Ogni campo sfiorato dalla mano magica dello statista gigliato diventa incredibilmente fertile. Una svolta epocale si registra ovunque il novello uomo del destino abbia deciso di intervenire, naturalmente con la sua proverbiale velocità di pensiero ed energia corporale.
E, in effetti, qualcosa di epocale nell’azione di governo c’è. Ma non è quella raccontata dalla narrazione («La Quaresima è finita», fantasticava un titolo di Repubblica), che viene trasmessa a media unificati: è o no l’Italia negli ultimi posti nella classifica mondiale della libertà di informazione? Il tempo è finito in senso letterale perché, per la prima volta, si inverte un ciclo storico lungo che ampliava le aspettative di vita. La spesa pubblica per la sanità, e per la prevenzione delle malattie, registra negli ultimi anni un decremento significativo, con conseguenze inevitabili sulla qualità della vita. Mentre il triangolo dell’Etruria dedicava un triennio dell’attività parlamentare per escogitare misure forzate utili a prolungare artificialmente la durata delle legislature e prefigurare gli esiti delle elezioni, la vita delle persone si contraeva senza rimedio. Un nesso tra fuga del pubblico e insicurezza si avvertiva anche nei rapporti di lavoro, abbandonati alla deregolazione della volontà padronale chiamata Jobs Act.
Anche qui «è finito il tempo» della costante contrazione delle morti bianche. E dopo 15 anni di regolare diminuzione, nel 2015 le morti sul lavoro crescono di oltre il 16,5%. Sarà che l’Italia riparte (o come si esprime la ministra Boschi «ha riavviato i motori»), ma per 1.172 lavoratori il tempo è finito per sempre nel dannato 2015.
È «finito il tempo» in cui cresceva la propensione allo studio. Dieci anni fa 73 diplomati su 100 si iscrivevano all’università. Oggi solo 49 su 100 sfidano lo scetticismo del ministro Poletti sul valore dello studio, soprattutto quello che si chiude con lode. Con il 23% di giovani con laurea (metà dei francesi) l’Italia è alla coda dei paesi europei nella scolarizzazione, altro che fandonie sulla generazione Erasmus.
Il governo ora invoca la flessibilità nei bilanci («i soldi me li prendo. Punto»), ma lo fa per distribuire bonus elettoralistici, per trasferire gli scarsi fondi pubblici alle imprese (decontribuzioni, tagli Irap: «Ancora sgravi per chi assume, meno di prima però, affrettarsi prego»), togliendoli ai servizi collettivi e alle politiche industriali. Oltre che inique (niente Tasi per tutti) e antisociali (nessun bonus agli incapienti), le politiche populistiche dell’esecutivo (un neolaurismo che ha appreso le fresche tecniche del marketing pubblicitario) sono del tutto inefficaci.
Mentre l’Europa dichiara guerra alle miliardarie evasioni fiscali del colosso americano dell’informatica, Renzi suole farsi riprendere a palazzo Chigi con una mela, che non è quella che sollecitava la curiosità di Newton («Sono stato denunciato da una associazione consumatori perché uso il Mac e dicono che faccio pubblicità occulta. Ragazzi, una camomillina, una tisana e passa la paura»). Quali sono le potenze che sostengono questo ceto politico della piccola borghesia toscana che dalle rive dell’Arno si accasa nella capitale e che prima sfrecciava con la bici e poi vola con il nuovissimo sup-jet?
All’ombra del Credito fiorentino e di Banca Etruria, dei consigli di amministrazione delle filiali locali, è nato il temibile potere costituente del partito della nazione che, con appoggi massicci e coperture illimitate, pone le basi della terza repubblica. Una palude di scambi, intrighi, ambizioni che accumula influenza nei giornali, nelle società controllate e partecipate, nella Tv e però ha un fondamentale difetto: abile nell’uso delle slide, non sa governare. L’improbabile timoniere annuncia che «l’Italia prosegue la lunga marcia». Verso la catastrofe.