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Anche Crainz si iscrive tra quanti considerano Renzi un esponente della sinistra e valutano la sua riforma costituzionale isolandola dal contesto della strategia sistematicamente praticata dal segretario del PD dall'inizio della sua ascesa al trono. Per uno storico non è il massimo.

La Repubblica, 5 ottobre 2016

RIVELA molte cose l’appassionato dibattito su democrazia e oligarchia suscitato dall’articolo di Eugenio Scalfari e dal confronto stesso fra Gustavo Zagrebelsky e Matteo Renzi, come dimostrano le tante lettere arrivate al giornale. È una passione che segna da tempo i confronti e le assemblee pubbliche sulla riforma costituzionale: non mi riferisco qui (e non mi riferirò) alla “animosità da talk show” di alcuni protagonisti ma alla passione vera di molti cittadini, portati ad ingigantire sinceramente i rischi per la democrazia e a sentire vicina una sua crisi radicale ed irrimediabile. Non a caso stiamo parlando soprattutto del popolo della sinistra (quello della destra appare molto meno angosciato, esattamente come i suoi leader) ed ha qualche ragione il lettore che scrive in modo icastico: “la scomparsa di una identità di sinistra ha spalancato i cancelli dello zoo che ci circonda”. È questo popolo orfano di identità a muoversi, talora in modo esasperato, ed a spingerlo non è — o non è solo, a me sembra — la tradizionale “paura del tiranno”, su cui comunque non è lecito ironizzare. È qualcosa di più profondo e non ci parla di un immaginario “altrove”, ci parla di noi e delle nostre inquietudini. Per questo quella passione, portata talora a trasformarsi anch’essa in animosità, non va lasciata a se stessa e certo non può esser considerata solo il residuo di una sinistra ideologica. Per questo è “obbligatorio” passare dalla pancia (in primo luogo dalla nostra pancia) alla testa (in primo luogo alla nostra testa) come ha invitato a fare Mario Calabresi.

In questo passaggio ci aiuta certo la discussione classica su questi temi, e anche quella relativa alla democrazia novecentesca: una democrazia che ha sullo sfondo i processi di industrializzazione e il delinearsi della società di massa, la conquista del diritto di voto e l’affermarsi dei partiti di massa. Ci aiuta ancor di più, forse, una riflessione sulle ansie e sullo spaesamento indotti dal declinare di quella democrazia, dal suo incrinarsi per il drastico modificarsi della realtà sociale e culturale su cui si basava. Indotti, anche, dal contemporaneo e altrettanto radicale modificarsi delle modalità della politica. Viene da qui quello spaesamento, viene da qui quell’angoscia, e con questo dobbiamo misurarci. Diversi anni fa Bernard Manin, ricordato ieri da Nadia Urbinati, ha aperto la riflessione sulla “democrazia del pubblico” — sul trasformarsi cioè della comunità dei cittadini in una platea di telespettatori — e a questo si è aggiunta e sovrapposta poi la realtà della rete. Spettacolarizzazione della politica e delinearsi dei partiti personali hanno preso corpo insieme (e già prima della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, per quel che ci riguarda) logorando l’insediamento dei partiti della società e portando in ultima istanza, per dirla con Ilvo Diamanti ed altri, a partiti senza società e a leader senza partiti. Altri pilastri della democrazia novecentesca sono andati in crisi nei decenni scorsi, nel declinare dell’“età dell’oro” dell’Occidente. Quel declinare ha posto infatti in discussione le modalità tradizionali del welfare, così centrale per le democrazie occidentali (lo ha ricordato spesso con grande lucidità Ezio Mauro): sarebbe stato necessario un ripensamento generale sulle sue modalità e sulle possibilità di un suo allargamento — non di un suo restringimento — nel nuovo scenario che si è delineato, ma quel ripensamento non è venuto. Non è venuta neppure una riflessione sulla formazione e sulla selezione della classe dirigente, assolutamente urgente nel deperire e talora nel crollare delle precedenti forme dell’agire politico. E nel dilagare — non solo nel ceto politico — di forme di corruzione che hanno fatto impallidire quelle del passato.

C’è questo insieme di nodi, a me sembra, dietro le riflessioni sempre più insistite su Come la democrazia fallisce, per citare un libro di Raffaele Simone. C’è questa stessa ansia, questa stessa avvertita urgenza in un comune sentire sempre più diffuso, e non stupisce riconoscerlo nelle molte lettere giunte a la Repubblica o nei molti interventi che rendono talora incandescenti i confronti pubblici sulla riforma costituzionale. E che rischiano troppo spesso di renderli improduttivi, scontri fra opposte sordità, come avviene anche per due dei nodi evocati dal confronto fra Renzi e Zagrebelsky. In questo quadro di incertezze e disorientamenti, ad esempio, l’ipotesi di governi stabili diventa anche in molte assemblee e dibattiti non un segno di salute della democrazia ma quasi un rischio. E la sacrosanta attenzione al mantenimento e al rafforzamento delle figure e degli organi di garanzia porta talora a capovolgere la realtà: così è considerata addirittura un vulnus la norma che in realtà innalza il quorum necessario per l’elezione del Presidente della Repubblica, portandolo dalla maggioranza assoluta ai tre quinti dei votanti, e quindi al di fuori della portata di chi governa (a meno di non ipotizzare una assemblea letteralmente dimezzata nelle presenze, come ha fatto ieri Salvatore Settis). Evitare forzature polemiche o distorsioni è il primo passo per misurarsi con i nodi di fondo: sono nodi ineludibili e forse è un bene, non una iattura, che siano balzati in primo piano con tanta prepotenza. Lo è, per lo meno, se ad essi iniziamo faticosamente a dare alcune prime risposte.

E' di moda una pratica per eliminare i conflitti individuali. Ma così «si rischia di creare una società di palle di gomma immerse in una palude dove il tiro, che già parte debole, quando arriva non ha alcun effetto. Come dire: vai pure, tanto non dai fastidio a nessuno».

il manifesto, 5 ottobre 2016

Da alcuni anni è esplosa la moda del coach e sento sempre più persone che, quando gli chiedi che fanno nella vita, rispondono: «L’impiegato, ma anche il coach. L’infermiere e insieme il coach. Il parrucchiere e come secondo lavoro il coach». Se un tempo il coach era in sostanza l’allenatore di una squadra, dagli anni Settanta ha cominciato a entrare nelle aziende e lì sono comparsi gli executive, team, leadership coach, figure che, secondo la classificazione ICF, «attraverso un processo creativo stimolano la riflessione, spingendo i clienti a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale». In altre parole, insegnano strategie per tirare fuori il meglio di sé e dalle situazioni. Da lì il coaching si è allargato alla sfera privata e così sono spuntati i life, health, relationship, parent coach, gente che dovrebbe insegnare ad altra gente strategie per vivere meglio, stabilire relazioni costruttive con i colleghi, i figli, i coniugi, gli amici e se stessi. Premesso che nutro un’istintiva diffidenza verso chi, con tre anni di corso, si ritiene in grado di dare indirizzi esistenziali e comportamentali agli altri, parlare con qualcuno di loro apre visioni interessanti su come va il mondo.

Pochi giorni fa, una coach mi ha raccontato che cosa fa nello specifico. Il suo lavoro a tempo pieno è in una sede italiana della più importante banca tedesca. Lei, che ama il suo mestiere ma vorrebbe aprirsi alternative per il futuro, due anni fa si è iscritta a un corso di coach, la voce si è sparsa in ufficio e ora ha già un po’ di clienti a cui dà consigli gratis in attesa di terminare gli studi. Chi le chiede più aiuto sono le sue colleghe che vanno tutte, ma proprio tutte, da lei non per imparare a fare carriera, ma per apprendere l’esatto contrario, ovvero come non farsi schiacciare la vita e i pensieri dai rospi che devono ingoiare sul lavoro. «Tutte – racconta la mia informatrice – mi dicono la stessa cosa, e cioè che amano il loro lavoro e che sanno di essere brave perché hanno studiato, si sono specializzate, sono precise, efficienti. Quello che non sopportano è che nessuno dei capi, tutti maschi fra l’altro, se ne accorga e lo apprezzi. Insomma, vorrebbero essere considerate di più». E da lei che aiuto cercano? «Posto che è quasi impossibile cambiare la situazione, io insegno loro a trovare il modo per smettere di prendersela e rimuginare, destinando le energie a qualcosa di costruttivo. Poi ci sono i casi più impegnativi»[. Per esempio? «Beh, come quella collega che stava malissimo perché si rifiutava di vendere ai clienti titoli spazzatura e per questo era stata messa da parte.

Alla fine non ha resistito e se ne è andata». E gli uomini non le domandano nessun aiuto? «Sì, ma riguardano solo la sfera personale, in sostanza vogliono avere consigli sulla relazione di coppia». Tutto ciò mi spinge a fare alcune considerazioni. N.1. Riguardo al lavoro, le donne sollevano problemi diversi da quelli dei colleghi maschi. N. 2. I coach tentano di dare risposte a bisogni che altri non ascoltano. N. 3. I coach convogliano in un rapporto di sostegno a due quello che un tempo sarebbe diventato lotta di classe o di categoria. N. 4. I coach forniscono ascolto e strumenti di resistenza, o resilienza, che alla fine tengono a bada il conflitto interiore. N. 5. Il conflitto interiore è la premessa per il conflitto in generale. N. 6. Se si elimina l’idea di conflitto, si rischia di creare una società di palle di gomma immerse in una palude dove il tiro, che già parte debole, quando arriva non ha alcun effetto. Come dire: vai pure, tanto non dai fastidio a nessuno.

Il manifesto, 5 ottobre 2016 (p.d.)

Intorno al voto referendario crescono non gli argomenti, ma il rumore. Ora, per la riforma dell’Italicum: si modifica, e come? C’è una proposta Pd, e quale? Ma alla fine Renzi che vuole davvero?

Il cardine del sistema elettorale nel Renzi-pensiero è dato dal primo turno con soglia seguito da un ballottaggio senza soglia, con 340 seggi garantiti da un mega-premio di maggioranza. Solo questo può dare in un sistema ormai tripolare i numeri parlamentari truccati che realizzano il mantra renziano di sapere chi governa la sera del voto. Tutto il resto è contorno, dal premio alle coalizioni alla preferenza per i capilista.

Elementi rilevanti ma non decisivi, perché una accorta gestione delle candidature può comunque assicurare al premier una truppa di pretoriani fedeli. Dubito che Renzi intenda rinunciare agli strumenti veri del suo potere personale.

In ogni caso, la legge Renzi-Boschi impone di per sé il No nel referendum. La correzione dell’Italicum, che è solo una aggravante, non muterebbe il giudizio. Il premier ha propinato alla democrazia italiana due pillole al cianuro: riforma costituzionale e Italicum. Ciascuna basta a uccidere il paziente. E dunque bisogna rifiutare entrambe.

Il Sì cede nei sondaggi ma prima ancora negli argomenti portati nei dibattiti, a partire da quello dei risparmi. Renzi insiste sulla favola dei 500 milioni, ma il silenzio cala in platea quando si legge il documento della Ragioneria dello stato che certifica il risparmio per il senato a meno di 49 milioni all’anno, rendendo vera l’immagine di un diritto di voto scippato ai 50 milioni di elettrici e elettori italiani per un risparmio equivalente di meno di un caffè all’anno a testa. Il senato sopravvive, si taglia il diritto di votare i senatori. Il silenzio è poi tombale quando ancora si legge che non c’è risparmio quantificabile dalla cancellazione delle province in Costituzione, o dalla limitazione degli emolumenti per i consiglieri regionali. Mentre sopprimere il Cnel vale meno di nove milioni all’anno. Alla fine, con i suoi 500 milioni Renzi è il venditore di auto usate che vuole far passare un catorcio per una Ferrari.

Ma, si dice, abbiamo una camera delle regioni, in stile Bundesrat tedesco. È falso. Nel Bundesrat i governi dei Lander partecipano direttamente ai processi decisionali attraverso rappresentanti assoggettati a vincolo di mandato. Mentre nel nostro senato a mezzo servizio arriverebbero per ogni regione pochi consiglieri regionali e un sindaco, legati ai piccoli segmenti di territorio nei quali sono stati eletti, liberi di votare come vogliono. Una camera di frantumazione, di egoismi territoriali, di inciuci. Alla fine, il senato futuro somiglia non al Bundesrat tedesco, ma alla camera alta austriaca, che nell’opinione comune è un fallimento. L’affermazione che la riforma non rafforza il premier si colpisce ricordando il controllo del governo sull’agenda e i lavori parlamentari, con il voto a data certa. Che non sia toccata la parte I della Costituzione si nega perché i diritti in essa garantiti vanno attuati dal legislatore e dalle maggioranze di governo, e dunque l’architettura dei poteri è essenziale. La celebrata semplificazione si distrugge leggendo in parallelo gli artticoli 70 e 72 nella versione vigente e in quella riformata. Cede anche l’argomento della partecipazione democratica, di fronte a firme triplicate per la proposta di legge di iniziativa popolare, e referendum propositivi e di indirizzo rinviati a data futura e del tutto incerta. Mentre è indiscutibile e immediata la ri-centralizzazione nel riparto di competenze stato-regioni.

Alla fine di ogni dibattito rimane al Sì un solo argomento: non c’è alternativa. È lo scenario fine del mondo, disegnato dallo stesso Renzi e sollecitamente assunto da J.P.Morgan, Fitch, Confindustria, Marchionne, multinazionali e tutti i poteri forti dell’economia e della finanza, certo non per caso schierati con lui.

Ma per nessuna ragione si scambia una Costituzione – che può durare generazioni – con un governo in carica, destinato a fare le valigie in un tempo comunque breve. Se fosse uno statista, lo stesso Renzi ripulirebbe il campo da ogni gramigna politica e personale. Ma le sue aspirazioni non vanno oltre l’essere uomo di governo. Il più a lungo possibile.

«». connessioni precarie, 4 ottobre 2016 (c.m.c.)

Dobbiamo ammetterlo, questa volta il governo ci ha colto di sorpresa pubblicando un dis∫ocial di sua spontanea volontà, dimostrando di non avere ormai nemmeno l’ambizione di assumere le più vaghe sembianze di uno Stato orientato al benessere. Ci riferiamo al recente opuscolo diffuso dal sito investinitaly.com – il portale dell’ICE, l’agenzia per la promozione all’estero e l’internalizzazione delle imprese italiane, in cui compare il logo del Ministero dello Sviluppo Economico – e distribuito a Milano durante la presentazione del piano nazionale Industria 4.0, in cui il governo sfodera tutte le sue migliori carte al fine di attirare capitali e investimenti esteri. Ma quali carte?

Beh, nel mondo c’è chi può garantirsi un posto tra i grandi competitors globali attraverso dei primati tradizionali come le risorse in materie prime, la strategicità della propria posizione geografica, la produzione di sapere, o addirittura puntando sull’innovazione.

Allora l’Italia ha dovuto necessariamente trovare degli altri punti di forza, solidi e credibili, per far sì che i capitali del mondo possano intravedere nella penisola degli scorci di «investibilità» al di là di quella serie di catapecchie romane di cui siamo in possesso e che, lo sanno tutti, non serve proprio a nulla se non a impedire di costruire metropolitane più efficienti e ponti sugli stretti. Non è quella la grande bellezza!

Per fortuna però abbiamo una peculiarità dai tratti imbattibili, siamo un popolo in balia della miseria economica e della precarizzazione crescente, allora perché non smettere di pensare che sia un problema ed elevarlo invece a pregio? Il governo giura che da noi un ingegnere guadagna mediamente 38.500 € l’anno contro i 50.000 € della media europea… Una grande occasione! Se pensavate che impoverire il famoso e famigerato ceto medio fosse un problema, non avevate capito niente. Sono gli altri, tutti quei paesi che stanno messi leggermente meglio e che pur precarizzando i lavoratori, gli danno degli aiuti sociali, che sono un po’ sfigati.

Siccome propinandoci il Jobs Act, ci avevano garantito che la precarietà sarebbe andata a nostro favore, che i voucher avrebbero fatto emergere il lavoro nero e altre amenità di questi generi, ora verrebbe da pensare che ci abbiano accuratamente indebolito a tal punto da far di questo male il nostro punto di forza. Grazie, non ci avevamo mai pensato. La prossima volta che ci proporranno un salario indecente, senza contratto e con un calcio in culo al posto del preavviso di licenziamento, sapremo di essere in realtà baciati dalla fortuna. Beh certo ora che siamo sempre più impoveriti possiamo dire finalmente che investire in India, Vietnam o in Italia sia ormai la stessa cosa.

Noi sì che ci teniamo all’uguaglianza globale delle condizioni. Potremmo dire, senza timore di sbagliarci, che è stata trovata una soluzione più che efficiente al problema della delocalizzazione della produzione delle merci: «mai più Taiwan, ora anche in Italia puoi pagarli come se fossero asiatici»!

D’altronde a Prato sono in corso da anni sperimentazioni in questa direzione. Ma evidentemente dire che siamo un popolo di poveri iperqualificati non è sufficiente, infatti gli investitori non sono scemi e guardano al futuro, non sia mai che subentrino dei diritti e delle rivendicazioni per ottenere migliori condizioni.

Così il governo, per chiudere una volta per tutte la partita con i futuri investitori, gli fa giustamente notare che non c’è alcun pericolo in vista, le condizioni dei nostri lavoratori non potranno che peggiorare, perché il costo del lavoro è aumentato negli ultimi anni in maniera di gran lunga inferiore rispetto al resto di Europa: +1,2% contro la media del +1,7% altrove. Diciamo pure che ce ne eravamo accorti.

Quando il costo del lavoro cresce lentamente, per chi lavora il prezzo di dover lavorare è molto alto. Se a tutto ciò aggiungiamo che un welfare degno di tale nome è ormai latitante da anni, quale miglior investimento della povera, misera, qualificata e sfruttabile Italia? Pensiamo si siano però dimenticati di vantarsi anche della presenza di migranti quotidianamente sfruttati nelle catene di produzione nazionali…ah già, sarebbero sembrati razzisti e crudeli e quello non va affatto bene. Forse così avrebbero rivelato uno degli ingredienti principali di un sistema che tende a precarizzare le persone dividendole in categorie di «sfruttabilità».

Tutto questo dovrebbe andare nel capitolo «valorizzazione del capitale umano». Ciò che si mostra, invece, è il lato volgarmente disumano del capitale, davanti al quale il governo vanta oltre ogni senso del ridicolo la sua politica pro-business. Purtroppo, tanto per ripetere una vecchia verità davanti a tante nuove idiozie, noi non siamo nel business, noi siamo il business.

«L’elemento democratico non sta solo nel voto (eguale nel peso e individuale) ma nel voto che prende corpo all’interno di una società plurale, fatta di un reticolo di opinioni, liberamente formate, comunicate, associate, discusse e cambiate». La

Repubblica, 4 ottobre 2016 (c.m.c.)

«L’oligarchia è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono, salvo la cosiddetta democrazia diretta, quella che si esprime attraverso il referendum ». Eugenio Scalfari, che scriveva queste parole nell’editoriale di domenica scorsa, ci stimola con la sua lapidaria catalogazione a chiederci se questa riproposizione di Robert Michels sia utile a capire ( e soprattutto a gestire) la forma di governo nella quale viviamo, il governo rappresentativo. Un governo che agli elitisti antidemocratici del primo Novecento sembrava null’altro che un’astuta riedizione dell’oligarchia appunto, con le masse illuse che bastasse votare per vivere in democrazia.

Parlare di democrazia rappresentativa all’interno di questo universo concettuale, attivato proprio quando l’odiata democrazia si presentava sulla scena europea, ha poco senso. Meno ancora ne ha pensare di rubricare il governo rappresentativo come democratico. Nello schema duale proposto da Scalfari — decidere direttamente oppure essere governati da un’oligarchia — è difficile far posto al governo rappresentativo. Difficile, anche, vedere lo scivolamento del governo rappresentativo verso una concentrazione oligarchica del potere.

Però la democrazia rappresentativa non è un ossimoro. Ha un’identità e una tradizione sua specifica, con un pantheon di studiosi ( certamente diversi tra loro) di tutto rispetto, a partire da Montesquieu e Condorcet, dai Federalisti americani a J. S. Mill, autori a Scalfari familiari. Circa vent’anni fa Bernard Manin ha sistematizzato queste idee e proposto il governo dei moderni come un “ governo misto”, che tiene insieme forma oligarchica e forma democratica.

L’oligarchia non è democrazia. E quando ha un fondamento nel consenso elettorale libero e ciclico può combinarsi con la democrazia (per questo, Madison rifiutava il termine oligarchia e parlava di “aristocrazia natuale”, per distinguerla da quella cetuale che non discende dalla selezione elettorale).

L’elemento democratico non sta solo nel voto (eguale nel peso e individuale) ma nel voto che prende corpo all’interno di una società plurale, fatta di un reticolo di opinioni, liberamente formate, comunicate, associate, discusse e cambiate.

È il libero e plurale dibattito che dà alla selezione elettorale (di natura aristocratica, secondo gli antichi e i moderni) un carattere democratico. Quindi la democrazia elettorale e discorsiva limita l’oligarchia, non è oligarchia.

Perché è importante tenere insieme i pochi e i molti, o se si preferisce la distinzione di chi compete (poiché per competere occorre mostrare un’identità distinguibile) con la dimensione dell’eguaglianza democratica?

Tra le tante ragioni che si potrebbero addurre, una soprattutto merita attenzione: per impedire la solidificazione del potere dei selezionati; ovvero per scongiurare la formazione di una classe separata, oligarchica. La temporalità del potere (la sua brevità di esercizio) che l’elezione immette nel sistema e la subordinazione dell’eletto (o del candidato) all’opinione di ordinari cittadini: questo fa della democrazia rappresentativa non un ossimoro e non una malcelata oligarchia, ma un governo unico nel suo genere, che contesta l’identificazione della democrazia con il voto diretto.

E fa comprende perché nelle democrazie moderne la lotta, perenne, è sulle regole che presiedono alla formazione del consenso, all’organizzazione elettorale, e infine alla limitazione del tempo in cui il potere è esercitato. Nella tensione mai risolta fra diffusione e concentrazione del potere (democrazia e oligarchia) sta la dinamica della democrazia rappresentativa.

Consigli a Matteo Renzi (il cui potere del resto il fondatore del quotidiano e il suo gruppo hanno contribuito a costruire) e un affettuoso buffetto a Zagrebelsky, perché non sa abbaiare come Renzi. E idee discutibili su democrazia e oligarchia. La Repubblica, 2 ottobre 2016

FORSE i miei venticinque lettori, come diceva l’autore dei Promessi sposi, si stupiranno se, avendo visto alla televisione de La7 il dibattito tra Renzi e Zagrebelsky, comincio dalle nostre rispettive età: Renzi ha 41 anni, Zagrebelsky 73 ed io 93. Sono il più vecchio, il che non sempre è un vantaggio salvo su un punto: molte delle questioni e dei personaggi dei quali hanno parlato io li ho conosciuti personalmente e ho anche letto e meditato e scritto sulle visioni politiche dei grandi classici.

Nel dibattito l’accusa principale più volte ripetuta da Zagrebelsky a Renzi è l’oligarchia verso la quale tende la politica renziana. L’oligarchia sarebbe l’anticipazione dell’autoritarismo e l’opposto della democrazia rappresentata dal Parlamento che a sua volta rappresenta tutti i cittadini elettori.

Conosco bene Gustavo e c’è tra noi un sentimento di amicizia che non ho con Renzi e, mi dispiace doverlo dire, a mio avviso il dibattito si è concluso con un 2-0 in favore di Renzi ed eccone le ragioni.

Il primo errore riguarda proprio la contrapposizione tra oligarchia e democrazia: l’oligarchia è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono salvo la cosiddetta democrazia diretta, quella che si esprime attraverso il referendum. Pessimo sistema è la democrazia diretta. La voleva un tempo Marco Pannella, oggi la vorrebbero i 5 Stelle di Beppe Grillo. Non penso affatto che la voglia Zagrebelsky il quale però detesta l’oligarchia. Forse non sa bene che cosa significa e come si è manifestata nel passato prossimo ed anche in quello remoto.

***
A me il Renzi europeista piace. Facendolo sul serio si è anche conquistato un ruolo che prima di lui e molto più di lui si erano conquistati De Gasperi, Ciampi, Prodi e Draghi che però il ruolo, che sorpassa tutti gli altri, non l’ha ottenuto in quanto italiano e in rappresentanza dell’Italia, ma come banchiere centrale eletto da tutta l’Europa perché primo tra i primi, nonostante il parere della Bundesbank.

Per criticare il Renzi europeista molti sostengono che quel ruolo lui l’ha usato per fare colpo sugli italiani per ottenere più facilmente il loro consenso elettorale. Sbagliato: il popolo che vota se ne infischia del ruolo del suo partito in Europa. Semmai può interessarlo il nazionalismo. E visto che siamo in argomento aggiungo che non mi stupisce affatto la richiesta di Renzi di esser votato anche dal centrodestra, essendo lui il capo d’un partito di centrosinistra. Ma chi chiede voti a destra deve essere realmente di sinistra. Se invece si è collocato al centro, come di fatto è da tempo avvenuto, sarà la destra a chiedere i suoi voti e non viceversa.

La conclusione su questo punto è che lui voleva ritornare a quello che fu il programma di Veltroni quando, eletto segretario del Pd, descrisse le idee del partito al Lingotto di Torino e alle elezioni di pochi mesi dopo ottenne il 34 per cento dei voti, più i 4 di Di Pietro suo alleato.

Veltroni presentò il Pd come il partito che doveva ricostruire l’Italia su basi socialmente, economicamente e politicamente riformatrici per un paese da modernizzare. Renzi si presentò come rottamatore e non fu una presentazione felice. La rottamazione avviene in modo naturale se si modernizza un paese, ma non per ragioni anagrafiche. Infatti quella parola ormai Renzi non la usa più. Se ha fatto un dibattito con un anziano costituzionalista che ha trattato con grande rispetto, questa è stata una buona svolta. Comunque, chieda pure i voti al centrodestra, ma accentui le caratteristiche di sinistra democratica del suo partito. Una sinistra moderna, questo sì. Che si imponga non solo in Italia ma in tutta l’Europa. La modernità, l’ha detto più volte Mario Draghi, consiste nell’aumentare la produttività, puntare verso l’Europa unita, risanare un sistema bancario alquanto indebolito, creare un bilancio sovrano europeo e un Tesoro unico in grado di emettere buoni del Tesoro europei sul mercato. Su alcuni di questi elementi Renzi è d’accordo ma non lo è sulla politica economica che pure rappresenta il punto centrale. La sua politica economica si basa soprattutto sulle mance, a volte benfatte, più spesso malfatte ed elettoralistiche. E per finanziarle non fa che chiedere flessibilità all’Europa.

Ebbene, non si fa così la politica fiscale, specie quando si ha una tecnologia che rende assai più facile individuare il lavoro nero e l’evasione. Il reddito nero e l’evasione ammontano a centinaia di miliardi di euro. Ma quello che stiamo ottenendo da queste operazioni ammonta a stento a 50-60 milioni all’anno. Cioè niente.

Non parliamo del problema spese e tasse. In teoria dovremmo aumentare le prime e diminuire le seconde. Nei fatti avviene l’inverso: si aumentano le tasse e si diminuiscono le spese, oppure restano ferme tutte e due ed è ferma anche l’economia del paese, salvo la flessibilità e il costante aumento del debito pubblico.

La vera ed unica soluzione è un taglio massiccio del cuneo fiscale. Ne ho già parlato su queste pagine ma nessuna risposta c’è stata, sicché ne riparlo ancora.

L’ammontare dei contributi che imprese e lavoratori versano all’Inps ammonta a 300 miliardi dei quali i datori di lavoro versano all’incirca il 21 per cento e i lavoratori il 9. L’ipotesi da me suggerita è un taglio di 30 punti, pari a 90 miliardi. L’Inps naturalmente dovrebbe continuare a fornire i servizi previsti, ma le sue entrate avendo subìto questo taglio massiccio dovrebbero essere finanziate dallo Stato il quale a sua volta dovrà fiscalizzare l’importo con una tassazione moderata dei redditi a cominciare da quelli che superano i 120mila euro e aumentando a misura dei redditi più elevati. Per un certo aspetto si tratta d’una imposta sul patrimonio, ma l’aspetto più rilevante riguarda l’aumento della domanda e quindi dei consumi da parte dei lavoratori e dell’offerta da parte delle imprese, indotte a questo comportamento che non avviene una tantum e quindi mette in moto i motori di una politica progressista.

Misure del genere in realtà andrebbero prese anche dai paesi europei alcuni dei quali non hanno mai adottato queste soluzioni. Va detto però che in molti paesi i servizi pubblici vengono forniti direttamente dallo Stato e quindi la fiscalizzazione è già in corso.

Gentile presidente del Consiglio, vorrei conoscere che cosa lei pensa di questa proposta. L’ideale sarebbe che lei la mettesse in moto subito ottenendone al più presto le conseguenze positive.

Il manifesto, 4 ottobre 2016 (p.d.)



Ha sentito Giorgio Napolitano? Solo la vittoria del Sì, ha detto, restituirebbe la dignità al parlamento.
«Se avessi detto io che il senato e la camera sono ridotti a uno straccio sarebbe insorta mezza Italia. Non credo proprio che si possa parlare così del parlamento, per quante critiche gli si possano fare – e noi gliele abbiamo fatte».
Carlo Smuraglia, 93 anni, professore, avvocato e partigiano, è il presidente nazionale dell’Anpi. Dopo giorni di attacchi da parte dei sostenitori della riforma costituzionale, per via della decisione dell’associazione di schierarsi per il No, ha recuperato un po’ di tranquillità uscendo vincitore dal confronto pubblico con Renzi alla festa dell’Unità di Bologna.

Diceva delle critiche a questo parlamento.
La Corte costituzionale l’ha pesantemente delegittimato. Nella sentenza sul Porcellum si diceva che le camere avrebbero potuto andare avanti, ma per il tempo strettamente necessario a fare una nuova legge elettorale. Non certo una riforma «epocale» della Costituzione.

Adesso pare che di leggi elettorali questo parlamento voglia farne ben due e Renzi dice di essere pronto a riscrivere l’Italicum. Le fa piacere?
Chiariamo agli italiani che nessuna nuova legge elettorale sarà fatta prima del referendum. Non ce n’è il tempo. Stiamo parlando solo di chiacchiere e promesse di poco valore. Ed è davvero strano che dopo oltre un anno di silenzio – tanto è passato da quando è stato approvato l’Italicum – improvvisamente, gli esponenti della maggioranza comincino ad agitarsi adesso. Dimostrando così proprio quello che vogliono negare: c’è un collegamento strettissimo tra Italicum e riforma costituzionale.

Crede a Renzi che vuole correggere la legge elettorale?
Non gli credo, è stato lui voler porre addirittura la fiducia. Penso che sia solo un tentativo di confondere gli elettori. Ai quali invece è bene spiegare che dovranno giudicare la riforma costituzionale anche tenendo presente che una legge elettorale in vigore adesso c’è. È l’Italicum, e ci preoccupa molto.
Ha visto il confronto Renzi-Zagrebelsky in tv?Purtroppo no, ero in treno. Ne ho letto.
Che idea si è fatto?
Ce l’avevo già prima un’idea: in questi confronti le regole sono importantissime. Noi dell’Anpi, in vista del faccia a faccia di Bologna, che pure non era in tv, ci avevamo pensato per tempo. Non tutti sono abituati al linguaggio televisivo, bisogna che ognuno sia messo in condizione di esprimersi tranquillamente, non bisogna consentire a uno dei due di interrompere. Se Zagrebelsky fa un’osservazione di stretto diritto, Renzi non deve potergli rispondere sviando e parlando d’altro. Il confronto deve servire ai cittadini per capire, prima che a fare audience.

Lei è rimasto soddisfatto del suo confronto bolognese?
A parte qualche prevedibile tentativo di Renzi di parlare d’altro, nel complesso sì. Il segretario del Pd e io abbiamo dimostrato che si può ragionare su questi temi, pur partendo da posizioni lontane e da modi di essere lontanissimi.

Ha visto i manifesti del comitato del Sì che invitano a tagliare le poltrone dei politici?
Li ho visti e li trovo vergognosi. Ho anche letto, con piacere, che c’è qualcuno che vota Sì che gli ha trovati eccessivi. Meno male. Accarezzare il populismo nelle sue forme peggiori è sempre sbagliato, perché si ritorce contro tutti e contro la democrazia. E poi è molto facile obiettare a quello slogan: perché le poltrone dei senatori sono «poltrone», e quelle dei deputati, non sono toccate dalla riforma, no lo sono?

Che spiegazione si è dato degli attacchi all’Anpi?
Tutto è dipeso dalla nostra decisione di schierarci per il No. Tutti quelli che ci hanno attaccato si sono accorti di noi solo nel momento in cui abbiamo cominciato a dare fastidio sulla riforma. Fino a poco prima abbiamo avuto diversi esponenti della maggioranza alle iniziative che organizziamo di continuo. Poi si è cercato di negarci il diritto di prendere posizione sul referendum. Abbiamo reagito con fermezza, ricordando a tutti cos’è l’Anpi e perché è suo dovere denunciare i tentativi di stravolgere la Costituzione.

Avete annunciato l’intenzione di fare un appello al capo dello stato
Sì, perché sia garantito un minimo di parità di condizioni durante la campagna elettorale. Al momento non è così, ogni sera in televisione c’è il presidente del Consiglio che con la scusa delle più diverse cerimonie pubbliche fa campagna per il Sì. Dando corpo agli allarmi per la vittoria del No. Un ricatto continuo al quale spero proprio che i cittadini si sottrarranno con intelligenza.
A tre precise domande di Salvatore Settis l'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, replica ( non "risponde") con paroe che rivelano la statura dei complici di Matteo Renzusconi .

La Repubblica, 4 ottobre 2016

LA RIFORMA RICALCA
QUELLA DI BERLUSCONI
di Salvatore Settis

«Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, ex direttore della Scuola Normale di Pisa e editorialista di Repubblica, autore del libro Costituzione!(Einaudi, 2016) ci ha inviato una lettera aperta al presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha accettato di rispondergliı
ILLUSTRE Senatore Napolitano, ho la più grande considerazione per la Sua cultura politica e per la Sua figura, tra le poche di questi decenni che resteranno nella storia d’Italia. È proprio per questo che mi permetto di rivolgerLe rispettosamente tre domande a proposito della proposta governativa di modifica della Costituzione, sulla quale il popolo italiano si esprimerà in un referendum convocato secondo l’art. 138 della Carta.
Primo punto: la riforma che Lei oggi sostiene, e che ha sostenuto già da Capo dello Stato (al punto che il presidente del Consiglio l’ha definita “riforma Napolitano”), coincide in alcuni punti essenziali con la riforma Berlusconi-Bossi che Lei vigorosamente osteggiò con memorabili interventi, e che 16 milioni di italiani bocciarono nel referendum popolare del 2006. Analogo è il rafforzamento dell’esecutivo, in ambo i casi presentato come finalità delle modifiche. Assai simile è la metamorfosi del Senato (“federale” nel 2006, “delle autonomie” nel 2016), che in ambo i casi non esprime la fiducia al governo. Quasi identico al precedente del 2006, in questo nuovo tentativo di riforma, è il “bicameralismo imperfetto”, secondo cui ogni legge approvata dalla Camera dev’essere trasmessa al Senato, che può chiedere di riesaminarla, e deve comunque esprimersi sempre su numerose materie (artt. 55, 70, 72), nonché su tutte quelle che comportino «funzioni di raccordo» con le Regioni, i Comuni o l’Europa (art. 55). Quel che Lei, in un intervento al Senato del 15 novembre 2005, chiamò «una soluzione priva di ogni razionalità del problema del Senato, con imprevedibili conseguenze sulla linearità ed efficacia del procedimento legislativo» appare insomma assai vicino a quel che 56 costituzionalisti (tra cui 11 presidenti emeriti della Corte Costituzionale) hanno denunciato, nella riforma 2016, come «una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato, con rischi di incertezze e di conflitti». Di fronte a tali e tante affinità fra i due progetti di riforma costituzionale, e dato il Suo notevolissimo percorso attraverso le istituzioni, è naturale chiederLe: che cosa è cambiato in questi 10 anni perché Lei mutasse così radicalmente la Sua posizione?
Secondo punto. La proposta di riforma contiene alcune singolarità e incoerenze, fra le quali una che La riguarda anche personalmente, in quanto Presidente emerito. La riforma innova sull’elezione del Capo dello Stato, prevedendo che dal settimo scrutinio in poi bastino «i tre quinti dei votanti», cioè 220 voti sul quorum minimo di 366 (art. 64). Inoltre, secondo la Costituzione vigente (art. 67) «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione». La riforma Renzi-Boschi conserva tale funzione ai membri della Camera (art. 55), ma la toglie ai senatori, poiché (dice la relazione illustrativa) «il mandato dei membri del Senato è espressamente connesso alla carica ricoperta a livello regionale o locale », e perciò i senatori sono «rappresentativi delle istituzioni territoriali» (art. 57). Ma chi è stato Presidente della Repubblica, anche secondo la nuova proposta, è senatore a vita. Mi permetto perciò di chiederLe: che senso ha che Lei diventi, a norma della nuova Costituzione se approvata, rappresentante non della Nazione ma di Regioni e Comuni? Un’elezione del Presidente ad opera dei tre quinti non dell’assemblea ma dei votanti non ne inficia il ruolo di garanzia super partes? In che modo una tal riforma contribuirebbe alla dignità e autorevolezza del Capo dello Stato?

Infine: mentre Lei era ancora in carica come Presidente, un accreditato commentatore politico, Marzio Breda, scriveva sul Corriere della sera (1 aprile 2014) un articolo dal titolo “Da Napolitano un segnale sul percorso delle riforme”. In esso, citando una nota del Quirinale, Breda scrive che «la riforma per lui [il Capo dello Stato] è importante, anzi improrogabile», e va «associata alla legge elettorale ». E prosegue: «A questo proposito, basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J. P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indica nella “debolezza dei governi rispetto al Parlamento” e nelle “proteste contro ogni cambiamento” alcuni vizi congeniti del sistema italiano». Ora, il rapporto a cui si fa qui riferimento accusa le Costituzioni dei «Paesi della periferia meridionale, approvate dopo la caduta del fascismo », di avere «caratteristiche non adatte al processo di integrazione economica» perché risentono di «una forte influenza socialista» e sono «ancora determinate dalla reazione alla caduta delle dittature ». Il documento auspica che tali Costituzioni vengano prontamente modificate, e cita l’Italia come «test essenziale» in tal senso. Ma J.P. Morgan è la banca d’affari che sei mesi dopo questo rapporto dovette pagare una multa di 13 miliardi di dollari per aver venduto agli investitori prodotti finanziari pesantemente inquinati, contribuendo in modo determinante alla crisi finanziaria globale del 2008 ( Washington Post, 19 novembre 2013). La domanda è dunque: citando il rapporto J.P. Morgan in appoggio al Suo «segnale sul percorso delle riforme» Breda ha forzato la mano? Quell’analisi della banca americana può valere, come alcuni vorrebbero, come un argomento per riformare la Costituzione?

Ora che è finalmente certa la data del referendum, è urgente sviluppare la discussione sul merito della riforma e sulle sue ragioni. Una Sua autorevole risposta a queste poche domande sarebbe, io lo spero, un importante contributo in questa direzione.

I CONFINI DEL PREMIER
NON SONO DILATATI
di Giorgio Napolitano

Caro Professore, la ringrazio naturalmente per i generosi riconoscimenti rivolti alla mia persona già all’inizio della lettera: riconoscimenti peraltro introduttivi a domande insinuanti e ad aspre quanto infondate considerazioni relative al mio atteggiamento sulla riforma costituzionale approvata dal Parlamento.

Premetto che escludo di poter rispondere giornalisticamente su questa materia a questioni o osservazioni di singole personalità. Lo faccio qui brevemente, ed eccezionalmente, per cortesia verso il Direttore de La Repubblica.

Ma in generale, rinvio chiunque a quanto in materia ho detto e mi riservo di dire pubblicamente, rivolgendomi alla generalità degli interessati al confronto referendario in atto.

Ribadisco qui solo che non ho mai “mutato radicalmente” la posizione che assunsi sulla “riforma Berlusconi- Bossi”: della quale d’altronde non potetti nemmeno occuparmi ampiamente, o “vigorosamente”, in quanto entrai in Senato, chiamatovi come Senatore a Vita dal Presidente Ciampi, appena in tempo per pronunciare un sintetico intervento alla fine della discussione e alla vigilia del voto finale, il 15 novembre 2005. Una lettura non unilaterale e strumentale di quel mio testo mostra chiaramente che considerai essenzialmente come “inaccettabile”, di quella legge di riforma, il “voler dilatare in modo abnorme i poteri del primo ministro”, con un evidente “indebolimento dell’istituto supremo di garanzia, la Presidenza della Repubblica”. Del che non vi è traccia nella riforma attuale.

Diversi punti poi toccati dalla sua lettera, e sollevati da altri, hanno già ricevuto puntuali risposte da parlamentari autorevoli che sono stati gli effettivi protagonisti della definizione della legge, articolo per articolo, su cui il Parlamento si è espresso a larga maggioranza anche in Senato. Lei ne ha certamente preso nota, studiando e citando anche qualche fonte non italiana.

In quanto a me non sono, com’è ovvio, come Senatore di Diritto e a Vita, rappresentante elettivo della nazione, ma mi sentirò pienamente a mio agio anche nel nuovo Senato grazie a titoli di rappresentanza che mi sono stati conferiti con l’elezione a Presidente della Repubblica e con il successivo status attribuitomi dall’art. 59 della Costituzione.

Infine, per quanto mi riguarda, più in generale ho esposto organicamente le mie posizioni e i miei argomenti di carattere storico-istituzionale nell’ampio intervento in discussione generale alla I Commissione del Senato il 15 luglio 2015 (e nella dichiarazione di voto resa in Aula il 13 ottobre 2015). Sono certo che lei — nella lodevole grande attenzione che ha riservato a queste questioni, pur lontane dal campo di ricerca e di insegnamento in cui ha saputo eccellere — abbia letto attentamente il testo di entrambi quei miei interventi, peraltro facilmente a tutti accessibile. Per ausilio pratico, gliene invio comunque copia.

«La valenza di questo sciopero non può risolversi in una giornata ma deve diventare parte di un progetto.le donne esprimono un triplice potere, come donne, precarie e migranti, facendo valere politicamente la loro condizione specifica contro l’ordine globale del patriarcato neoliberale.»

connessioniprecarie online, 3 ottobre 2016 (c.m.c.)

«Qualunque potere non usi tu stessa sarà usato contro di te». Sulla pagina facebook Black Protest International queste parole di Audre Lorde accompagnano le ragioni delle donne polacche che oggi, lunedì 3 ottobre, scioperano contro la legge sull’aborto attualmente in discussione nel parlamento del loro paese.

Il significato della legge, che mira a eliminare anche le ultime eccezioni a una normativa già estremamente restrittiva, è chiaro: ciò che si discute nel parlamento polacco sono le condizioni politiche della subordinazione e dello sfruttamento di milioni di donne, il cui destino di «macchine da riproduzione» dovrebbe essere sancito per legge.

Un nuovo e più rigido «Ordo iuris», per riprendere il nome del gruppo che ha promosso l’iniziativa legislativa, deve essere organizzato a partire dal comando istituzionalizzato sul corpo delle donne. La #blackprotest, perciò, va ben al di là della rivendicazione di un diritto individuale alla scelta: facendo dello sciopero lo strumento della loro protesta, le donne polacche ambiscono a far valere il potere che esercitano nella produzione e riproduzione contro un ordine che pretende di usare quel potere contro di loro.

Lo scontro in atto in Polonia supera i confini nazionali. È certamente vero che la proposta di legge è avanzata e sostenuta da un governo di destra, che sta sovvertendo ogni procedura democratica, e in un contesto peraltro segnato dall’oltranzismo cattolico. Ed è altrettanto vero che, come sta avvenendo anche con il migration compact, il governo polacco non perde l’occasione di accentuare il suo attrito con l’Unione Europea, il cui parlamento ha criticato la proposta di legge considerandola una violazione delle fondamentali garanzie di libertà.

Tuttavia, anche questa politica nazionalistica e ultraconservatrice deve essere letta nella più vasta cornice delle politiche neoliberali poste in essere dall’Europa e dai suoi Stati. Come la libertà di muoversi, così anche la libertà di scegliere autonomamente sul proprio corpo va governata e, se necessario, repressa affinché sia funzionale agli imperativi della produzione e riproduzione sociale. Le donne polacche sono libere di accettare uno sfruttamento pari o più intenso rispetto a quello degli uomini, ma non sono libere di decidere su se stesse e sul proprio corpo né quindi di mettere in questione il dominio maschile.

La maternità diventa così una coazione sociale restando al contempo una responsabilità completamente individuale, come dimostra la pesantissima pena che sarebbe comminata alle donne che abortiscono, nel caso in cui la legge fosse approvata.

Come il Piano italiano per la fertilità – l’altra faccia dei ripetuti attacchi alla legge 194, che pure formalmente ancora garantisce il diritto di abortire – la legge polacca mira a neutralizzare gli effetti socialmente sovversivi del rifiuto della maternità come destino. Questo rifiuto le donne polacche lo hanno espresso in molti modi: non solo attraverso interruzioni ‘clandestine’ della gravidanza, praticate in Polonia nonostante le restrizioni imposte dalle normative statali oppure all’estero, ma anche attraverso la migrazione, che ha drasticamente trasformato le tradizionali forme patriarcali di organizzazione sociale, in primo luogo la famiglia, e che ha permesso alle donne di sottrarsi alla loro coazione.

L’abolizione e penalizzazione dell’aborto che questa legge vuole introdurre mirano quindi a restringere questi spazi di libertà femminile. Ciò non significa evidentemente un «ritorno tra le mura domestiche» delle donne polacche, il cui lavoro continuerà a essere essenziale alla produzione di ricchezza almeno quanto il loro salario – e le loro rimesse, nel caso delle donne migranti – continuerà a sostenere la riproduzione delle loro famiglie.

Il punto è semmai riaffermare la maternità come baluardo simbolico del dominio maschile e come fulcro della riproduzione dei ruoli e delle autorità di cui il neoliberalismo si alimenta. La dimensione di questo patriarcato neoliberale, assieme ai movimenti delle donne per sottrarsi alla sua presa, conferiscono a questa protesta un significato transnazionale, testimoniato dalla sua diffusione in decine di città europee: mentre le donne migranti provenienti dalla Polonia hanno la pretesa di far sentire la loro voce anche al di là dei confini, la #blackprotest riguarda la possibilità per tutte le donne, in ogni parte d’Europa, di rifiutare il comando neoliberale sul loro corpo.

In questo modo, lo sciopero diventa una pratica femminista in cui le donne esprimono un triplice potere, come donne, precarie e migranti, facendo valere politicamente la loro condizione specifica contro l’ordine globale del patriarcato neoliberale. Lo sciopero diventa una pratica femminista perché aspira a interrompere la produzione e riproduzione sociale a partire dal protagonismo di coloro che ne sono il pilastro.

Oggi le donne polacche non andranno al lavoro, sfidando tutti i limiti imposti dalla legislazione sullo sciopero e dalla loro quotidiana precarietà: le insegnanti e le docenti universitarie sospenderanno le lezioni, le madri non porteranno i bambini a scuola per consentire alle maestre che non possono scioperare di non lavorare, le precarie chiederanno il permesso speciale per donare il sangue in modo da potersi astenere dal lavoro o prenderanno un giorno di ferie.

L’importanza e la dimensione di massa della protesta – cominciata con una manifestazione dei 30mila donne a Varsavia nel mese di marzo – sono tali da aver obbligato alcune imprese a riorganizzare il lavoro affidando i turni di lunedì ai soli uomini, mentre il Teatro nazionale di Varsavia chiuderà i battenti e in quello Breslavia le cassiere saranno sostituite nelle loro mansioni dagli uomini.

I limiti oggettivi alla partecipazione saranno superati dando a tutte le donne la possibilità di manifestare in modo simbolico, lavorando con un nastro nero – che richiama il colore scelto per contrassegnare questa lotta e la sua rabbia – o diffondendo sui social network immagini accompagnate dall’hashtag ormai globale #CzarnyProtest. Alla fine della giornata, in settanta città polacche sono organizzate manifestazioni di piazza per dare a questa mobilitazione di massa la sua massima visibilità.

Non si tratta però soltanto di un’astensione dal lavoro produttivo: l’invito a interrompere ogni attività domestica e di cura, l’appello rivolto agli uomini a prendere parte a questa protesta facendo tutto ciò che è necessario per consentire alle donne di esserne protagoniste rompono il confine tra il pubblico e il privato e sovvertono la divisione sessuale del lavoro che lo sostiene.

Questo sciopero è uno sciopero sociale perché le donne che lo stanno mettendo in pratica rifiutano contemporaneamente la doppia subordinazione e lo sfruttamento che la produzione di ricchezza e la riproduzione della società impongono loro. Per questa ragione, lo sciopero delle donne polacche è uno sciopero politico: esso non difende le prerogative di una categoria, ma rompe gli assetti tradizionali dell’organizzazione sindacale del lavoro per far valere un rifiuto radicale della subordinazione e dello sfruttamento, come pure di ogni tentativo di criminalizzare quel rifiuto.

Esso non sopprime la differenza specifica delle donne in un generico appello all’unità, ma la afferma e in questo modo punta al cuore dell’ordine neoliberale e delle politiche che lo sostengono. Anche per questo, lo sciopero chiama in causa gli uomini: anziché difendere il loro privilegio, se davvero vogliono rovesciare sfruttamento e oppressione dovrebbero riconoscere la natura patriarcale dell’ordine neoliberale di cui essi stessi sono agenti e quindi scegliere da che parte stare.

Oggi in Polonia le protagoniste dello sciopero sono le donne. Ed è in un certo senso ironico che un governo che sta sistematicamente respingendo profughi e migranti si trovi in casa una protesta che assume il modello della «giornata senza di noi» inaugurata dai migranti latini negli Stati Uniti. Attraverso lo sciopero, queste donne si stanno riprendendo il potere che vuole essere usato contro di loro e sfidano i confini fisici e simbolici che sostengono la loro subordinazione come donne, precarie e migranti.

La valenza di questo sciopero non può risolversi in una giornata ma deve diventare parte di un progetto. Esso attraversa i confini, esprime un rifiuto di massa delle condizioni politiche che obbligano le donne alla subordinazione, ambisce a far valere il potere di una parte della società contro il suo ordine complessivo. Per tutto questo, lo sciopero delle donne polacche indica la direzione per ogni progetto di sciopero che abbia la pretesa di essere sociale e di sovvertire il presente.

«Il Comitato 3 ottobre ha voluto trasfondere nella “Carta di Lampedusa” questo spirito di accoglienza insito nell’isola stessa: è necessario abbattere ogni forma di confine, di visto, per affermare il libero diritto di cittadinanza di ciascuno».

Il Fatto Quotidiano online, 3 ottobre 2016 (c.m.c.)

Lampedusa. «Per quanto possano essere limitate, le isole non sono prive di drammi di portata universale. La storia non le ignora e in esse trova talvolta il suo epilogo. Altre volte invece la storia vi comincia».

Questa frase dello scrittore Predrag Matvejević – autore, tra gli altri, di Breviario Mediterraneo (edito per la prima volta da Garzanti nel 1991) – racchiude il senso più profondo della “Giornata nazionale della memoria e dell’accoglienza”, riconosciuta tale il 16 marzo 2016 grazie anche all’impegno di un’organizzazione senza scopo di lucro, riunitasi nel ‘Comitato 3 ottobre‘, data in cui nel naufragio al largo di Lampedusa – era il 2013 – persero la vita 368 migranti.

Qui la storia non finisce, ma si rinnova attraverso una richiesta fondamentale lanciata dal Comitato: bisogna proteggere le persone e non i confini. Una questione centrale per la politica europea: accogliere o respingere? Ecco che Lampedusa diventa una palestra formidabile per capire quale possa essere la rotta giusta. Quest’isola che negli ultimi sedici anni ha accolto 217. 591 immigrati e che lo ha fatto mantenendo la sua forte identità, la sua bellezza, il suo spirito, continuando ad alimentare quel seme dell’accoglienza che aveva già inciso nel proprio Dna. L’isola avrebbe potuto reagire diversamente?

Avrebbe potuto alzare muri o erigere barricate per respingere, quel 3 ottobre del 2013, i 368 corpi restituiti dal mare alla terra lampedusana? Le spoglie di giovani eritrei, ventenni scappati dalla feroce dittatura di Isaias Afewerki. E come avrebbe potuto non diventare la casa di tutti quegli altri corpi? I cadaveri arrivarono a 600 tanto che ci vollero due navi militari per portare via tutte quelle bare.

Il Comitato 3 ottobre ha voluto trasfondere nella “Carta di Lampedusa” questo spirito di accoglienza insito nell’isola stessa: è necessario abbattere ogni forma di confine, di visto, per affermare il libero diritto di cittadinanza di ciascuno. Un ordine umano diverso, fondato su valori differenti da quelli che governano il nostro quotidiano, ma l’unico capace di riempire di senso la storia di Lampedusa e permetterle di cominciare, di nuovo, a vivere, dopo l’orrore di tanta morte.

E non poteva che cambiare anche il modo di comunicare e rappresentare quell’immane tragedia. Così, per la ricorrenza del 3 ottobre si è tenuto a Lampedusa il ‘Prix Italia’, un premio internazionale organizzato dalla Rai che quest’anno si è concentrato sul tema delle migrazioni.

Tante le anteprime, a partire dall’ultima fatica di Marco Pontecorvo che qui ha presentato Il coraggio di vincere, storia di un giovane pugile senegalese. Di rilievo anche lo speciale del giornalista Domenico Iannacone, Lontano dagli occhi, che raccogliendo e riallacciando una serie di storie di migranti senza nome, fa così riacquistare loro, un’identità.

Il lavoro viene reso ancor più prezioso dalle parole di Andrea Camilleri: lo scrittore siciliano ci ricorda che un’isola non è mai chiusa dal mare, anzi, è proprio il mare ad allargare i suoi orizzonti; i muri non servono a nulla se non a ingabbiare le nostre paure rendendoci incapaci di immaginare e vivere nuove forme di convivenza.

«Arrestata a fine luglio, sulla base delle sue espressioni artistiche in una provincia a larga maggioranza kurda nonché dell’attività di direttrice di un’agenzia di stampa femminista, Jinha, Zehra Doğan non ha alcuna intenzione di arrendersi alla repressione cieca che divora la Turchia di Erdogan».

Comune.info, 2 ottobre 2016 (c.m.c.)

Alla fine di luglio Helen Stoilas informava sull’arresto di Zehra Doğan, in un articolo su The Art Newspaper, scrivendo: «L’artista e giornalista turca Zehra Doğan è tra gli arrestati questa settimana nel giro di vite del presidente Tayyip Erdogan dopo il colpo di stato militare fallito. Mercoledì 27 luglio, oltre a chiudere tre agenzie di stampa, 16 canali televisivi, 45 giornali, 15 riviste e 29 case editrici, secondo i dati ufficiali del governo, 47 giornalisti sono stati arrestati dalla polizia.

Negli ultimi cinque mesi, Doğan, che è il direttore dell’agenzia di stampa femminista Jinha, ha fatto reportage e ha dipinto dal quartiere Nusaybin della provincia di Mardin, una regione in gran parte kurda in cui è stato recentemente imposto un rigido coprifuoco. Secondo i suoi amici su Facebook, è stata arrestata dalla polizia mentre stava seduta in un caffè.

Giovedi, 21 luglio, Doğan è stata portata in tribunale, sulla base di una testimonianza anonima, che l’ha descritta e identificata come “una signora minuta con un anello al naso” – Doğan è stata accusata di essere un “membro di un’organizzazione illegale”, secondo l’agenzia Jinha.

La sua arte e la scrittura sono state usate contro di lei dalla procura come prova della sua appartenenza al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), un gruppo di sinistra militante che si batte per i diritti dei curdi in Turchia, che il governo ha etichettato come “organizzazione terroristica”. La corte ha stabilito che deve essere tenuta in custodia in attesa del processo, che potrebbe richiedere mesi.

«L’arte e dipinti non possono mai essere utilizzati in tal modo,» l’avvocato di Doğan, Asli Pasinli, ha detto ai media dopo il suo arresto. «Questo è un attacco all’arte e all’espressione artistica.»

(tradotto da http://theartnewspaper.com/news/turkish-painter-and-journalist-zehra-do-an-arrested/)

Ecco alcune parole di Zehra Doğan, per chi non la conosce:

«Ho sempre cercato di esistere attraverso i miei dipinti, le mie notizie, e la mia lotta come donna. Ora, anche se sono intrappolata tra le quattro mura, io continuo a pensare che ho fatto assolutamente il mio dovere in pieno. In questo paese, buio come la notte, dove tutti i nostri diritti sono stati incrociati con sangue rosso, sapevo che stavo per essere imprigionata.Voglio ripetere l’insegnamento di Picasso: pensi davvero che un pittore è semplicemente una persona che usa il suo pennello per dipingere insetti e fiori? Nessun artista volta le spalle alla società; un pittore deve usare il suo pennello come arma contro gli oppressori. Nemmeno i soldati nazisti hanno cercato Picasso a causa dei suoi dipinti, e tuttavia io sono a giudizio a causa dei miei disegni. Terrò disegno. Quando una donna rilascia fiumi di colori, è possibile lasciare la prigione. Ma sono solo pennellate …. Non dimenticate mai, è la mia mano che tiene il pennello!»

Sembrava che di Zehra Doğan si fossero perse le tracce, invece qualche giorno fa è apparso su http://bianet.org un articolo che rassicura, Zehra Doğan, nella prigione di Mardin, non si arrende e continua a fare la giornalista.

Le donne della prigione di Mardin hanno creato un giornale “Özgür Gündem Zindan” (Prigione). L’originale quotidiano Özgür Gündem era stato chiuso il 16 agosto con un’irruzione della polizia nell’edificio dove era ospitato il giornale e la decisione di “chiusura temporanea” della corte è stato riportata dal giornale filogovernativo Yeni Şafak il giorno prima.

Zehra Doğan, uno dei redattori dell’agenzia e altre donne della prigione di Mardin, hanno creato a mano il giornale di 8 pagine il 12 settembre. Le immagini che accompagnano gli articoli disegnate a mano dalle donne stesse.

Il titolo del giornale fatto a mano è stato “I prigionieri politici resistono nelle carceri per Ocalan,” e il sottotitolo recita “vivere a Nusaybin (città curda attaccata dall’esercito turco) è un tradimento secondo lo stato turco!“.

Il giornale di 8 pagine comprende sezioni sulle donne, la politica, la cultura e le arti, l’ecologia e l’attualità, e anche una pagina in lingua curda.

Özgür Gündem Zindan ha pubblicato anche alcune interviste a donne detenute, ha affrontato argomenti come l’oppressione contro le donne, le detenzioni e le violazioni dei diritti nella prigione, così come lezioni di disegno sulla pagina di cultura e delle arti ed i benefici di prezzemolo e aglio nella pagina sull’ecologia (Ct / DG).

(tradotto da http://bianet.org/english/women/178859-women-prisoners-create-handmade-newspaper-ozgur-gundem-zindan)

«I governanti dei Paesi dell’Est credono possibile rispondere alla sfida planetaria della migrazione ricostruendo una nuova cortina di ferro». La Repubblica, 3 ottobre 2016 (c.m.c.)

Solo una macabra farsa: questo era il referendum ungherese contro gli stranieri e contro “i diktat” di Bruxelles fortemente voluto dal premier Viktor Orbán. E tale si è rivelato. Il popolo cui amano fare appello piccoli e grandi dittatori questa volta ha preferito tacere. Forse ha fiutato l’inganno e ha evitato di acclamare l’uomo forte di Budapest. Ma il danno resta per l’immagine di quel Paese e per il destino futuro dell’Europa.

La grande speranza si è rivelata una fugace illusione: avevamo creduto che la caduta del Muro di Berlino se non proprio la “fine della storia” avesse, almeno in Europa, segnato la fine dell’età dei muri e dei reticolati di filo spinato. E invece sta accadendo esattamente il contrario. Quella che una volta tra ammirazione e sospetto veniva chiamata Mitteleuropa sembra tornata preda di antichi fantasmi e di pulsioni identitarie nell’illusione di trovare risposte alle sfide del mondo globale in una inattuale autarchia economica e spirituale.
I governanti dei Paesi dell’Est Europa capeggiati proprio da Orbán credono possibile dare risposta alla sfida planetaria rappresentata dalla migrazione di popolazioni in fuga dalle guerre del Medio Oriente, o dalla miseria del continente africano, ricostruendo quella che, per più di mezzo secolo, era stata causa delle loro sofferenze: una nuova cortina di ferro.

Un passo dopo l’altro, una crisi dopo l’altra, dunque, l’Europa procede spedita verso la sua disunione politica e culturale: come capitò ai sonnambuli che scivolarono senza neppure averne consapevolezza nella Prima guerra mondiale, gli europei potrebbero uno di questi giorni scoprire di aver superato il punto di non ritorno verso uno storico fallimento. Un fallimento che appare tanto più paradossale in quanto i governi dei singoli Paesi cercano risposte nazionali, o peggio ancora nazionaliste, a sfide che essi stessi definiscono di natura globale e condannano in tal modo i propri Paesi e l’intera Europa ad un declino irreversibile.
Oggi, come accadde negli anni ’20-’30 del Novecento, assistiamo infatti allo scontro di “due Europe”: quella che crede che sia possibile governare le metamorfosi in atto nel segno della giustizia sociale, della libertà e dell’universalismo dei diritti. L’altra che, invece, fa politica con la paura e l’odio e insinua la velenosa convinzione che sia possibile impedire l’irruzione del mutamento innalzando Muri e chiudendo i confini nazionali.
Sappiamo come andò a finire allora. Non è del resto un caso che, da buon conoscitore della storia europea, Helmut Kohl nel discorso tenuto nell’ottobre del 1993 dinnanzi all’Assemblea nazionale francese avesse messo in guardia gli europei ricordando loro che «gli spiriti maligni non sono stati banditi per sempre dall’Europa» e ammonendo che «ad ogni generazione si pone di nuovo il compito di impedire il loro ritorno, di superare i pregiudizi e di far cadere i sospetti ».
La previsione fatta dal Cancelliere dell’unificazione tedesca appare drammaticamente confermata da quanto accade oggi in tutto il Vecchio Continente, dalla Brexit all’anarchia spagnola. E soprattutto dall’enorme potenziale di consenso che movimenti xenofobi e populisti riescono a catalizzare anche in Paesi di antica civiltà giuridica e storica tradizione di universalismo politico com’è il caso della Francia.
La verità è che in quel Paese come in molti altri, Italia compresa, si contrappongono, provocando una crescente conflittualità politica e spirituale che supera la classica contrapposizione tra destra e sinistra, due “visioni del mondo”. Una è convinta non solo della possibilità di governare la dimensione di questo esodo carico di tragedie, ma anche che questo fenomeno rappresenti un obbligo morale e al tempo stesso una opportunità per il futuro che altrimenti la demografia condannerebbe a un declino irreversibile. L’altra è una “visione del mondo” dominata da dubbi e paure, da pregiudizi ma anche da timori diffusi tra le parti più deboli, socialmente e culturalmente, delle società europee sulla possibilità di riconquistare o quanto meno di difendere determinati livelli di sicurezza sociale.
Come pure i valori tradizionali che guidano il funzionamento della vita quotidiana, minacciati dalla sensazione di non essere più padroni del proprio destino di cui è metafora la crisi della sovranità sui confini nazionali. Oggi è molto difficile formulare una ragionevole previsione sui destini d’Europa o addirittura di quello che abbiamo imparato a indicare, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, come l’Occidente.
Non sappiamo se le istituzioni dell’Unione europea reggeranno l’urto del terribile ciclo elettorale che vedrà coinvolti nei prossimi dodici mesi — nel settembre del 2017 si svolgeranno le elezioni in Germania — praticamente tutti i principali Paesi del Vecchio continente. Né quale America uscirà dal confronto tra il feroce populismo di Trump e l’occidentalismo tradizionale ma dallo scarso carisma di Hillary Clinton.
Certo tutto sarebbe diverso se l’Europa fosse in grado di esprimere una politica, se sapesse e potesse parlare con una sola voce. Se: ma non è così. Le democrazie europee strette in una implacabile tenaglia, da un lato le questioni globali e dall’altro la necessità di conquistare legittimità politica parlando un linguaggio locale, tra dover elaborare un “nuovo racconto” che tenga conto delle mutate condizioni geo-politiche e geo-economiche del pianeta-mondo dell’età globale e dover dare ascolto alle attese spesso corporative di cittadini protagonisti di cicli elettorali sempre più brevi, rischiano il corto circuito. Se da qualche parte in Europa c’è qualche leader capace di impedire che essa faccia bancarotta una seconda volta nel giro di un secolo, è questo il momento che si faccia sentire.
Hic Rhodus, hic salta.

IIl Bo online, 26 settembre 2016

In questi giorni mi trovo in Etiopia. Sono qui per incontrare i nostri medici impegnati in questo paese, verificare il lavoro che stiamo compiendo, incontrare la controparte locale. Arrivare ad Addis Abeba, anche a distanza di pochi mesi, mi suscita sempre grande curiosità e tante domande. Questa metropoli è un cantiere aperto, un fermento continuo, un via vai compulsivo e caotico. È simbolo di un continente in cammino: l’Africa. L’Africa è in movimento, da sempre, da quando la conosciamo. Appena ti sposti un po’ dalla città, ecco comparire la terra rossa, le capanne, la gente vestita di stracci, i bambini, tantissimi, che corrono e sbucano da qualsiasi parte guardi, le donne che compiono anche chilometri a piedi, con le doglie, per andare a partorire in un centro di salute o in un ospedale. Vedi tanta povertà e miseria.

Un continente in cammino, ma verso dove? Talvolta mi trovo a pensare cosa farei al loro posto. Cosa proverei, come riuscirei a vivere in una capanna, senza acqua corrente e luce, con un solo pasto al giorno, senza la possibilità di accedere alle cure quando sono malato o magari senza poter mangiare, a causa di una lunga siccità. “Se tutti i bianchi capissero che a meno di un millimetro da questa pelle nera si trova lo stesso sangue rosso, gli stessi nostri tessuti, le stesse terminazioni nervose che portano al nostro cervello le pene o il ristoro”. Questo scriveva nel lontano 1957, Lido Rossi, un medico Cuamm morto a causa di una nefrite in Swaziland. Sotto la pelle, scorre lo stesso sangue, le medesime sensazioni, gli stessi sogni e desideri.

Migranti da dove e perché? Le migrazioni ci sono sempre state. Quello che spesso non vediamo è che la maggior parte di questi flussi rimane all’interno del continente africano. Le immagini degli sbarchi sulle coste del sud Italia sono ingannevoli. Meno di un terzo della migrazione in Africa occidentale, per esempio, si sta muovendo verso l’Europa. I movimenti più consistenti si registrano all’interno della sub-regione e dell’Africa centrale. Nel 2015, ben 65,3 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare la propria casa per fuggire a guerre, persecuzioni, violenze, secondo i dati di Unhcr. I flussi maggiori sono dai paesi in conflitto e da quelli bloccati da condizioni climatiche particolarmente avverse. Siria, Afghanistan, Somalia, Sudan, Congo, Iraq sono in primo piano nei flussi migratori.

Per fare alcuni esempi, nel 2015, il Sud Sudan ha visto oltre 600.000 persone fuggire dal paese, cioè il 5% della popolazione.

Le rotte sono incerte, oltre che insicure, molti si sono fermati in Etiopia, per esempio dove in un anno è arrivato oltre 1 milione di migranti provenienti principalmente da Somalia, Sud Sudan, Eritrea.

In Italia, dall’inizio del 2016, sono arrivate 124.475 persone, attraversando il Mediterraneo, più o meno la stessa quantità di persone che dal Sud Sudan è emigrato verso l’Uganda nei soli mesi di luglio e agosto di quest’anno. I paesi che ospitano più rifugiati nel mondo sono Pakistan (1.616.500), Iran (857.400), Libano, Giordania, Kenya, Etiopia, Ciad.

Vediamo ogni giorno che molti rifugiati arrivano in Europa, ma la maggior parte di chi emigra rimane in paesi vicini, paesi già di per sé fragili, che si trovano a dover affrontare la criticità dell’accoglienza.

A lavorare nelle periferie del mondo non ci si abitua mai del tutto, però si impara a “mettersi al servizio”, si apprendono metodi e si affinano strumenti che possano essere efficaci e sostenibili, pienamente consapevoli della fragilità del sistema in cui si opera. Una fragilità dovuta a mille cause: l’ambiente, il clima, le guerre, l’insicurezza alimentare, le epidemie, il terrorismo. Ciò che i conflitti lasciano alle popolazioni sono miseria, una rete sociale e di lavoro quasi inesistente, l’indebolimento delle forme di aiuto. Ed è così che un paese già fragile sembra andare in pezzi. La riposta della popolazione a tutto ciò è molto spesso la fuga. Si fugge dalla guerra, dalla siccità, dai disastri ambientali, dalla fame. Penso a paesi come la Sierra Leone alle prese con la difficile ricostruzione di una società dopo lo tsunami dell’Ebola; o al Sud Sudan dove la guerra civile impera, dove violenza e morte sono all’ordine del giorno.

Da parte nostra, la risposta è lavorare con i governi locali e in sinergia con le istituzioni internazionali, ma anche lavorare dal basso e portare cura. Di fronte all’insicurezza alimentare crescente, per esempio, abbiamo attivato servizi che rispondano concretamente ai bisogni della popolazione. In Etiopia, nell’ospedale di Wolisso, è funzionante un’unità di terapia nutrizionale che cura ogni anno 3.000 bambini. Anche in Sud Sudan è attivo un servizio di screening nutrizionale, affiancato da un’attività di formazione per le mamme: sono 2.000 i bambini che vengono monitorati ogni mese. Un altro esempio? John, un autista sud sudanese impegnato con il Cuamm a Yirol. Nel 2007, appena conosciuto, gli ho chiesto “What is your dream, John?” E lui: “Andare in Europa e dare un futuro ai miei figli”. Oggi, se gli chiedi, quale sia il suo sogno, fiero, ti risponde: “Rimanere nel mio paese e fare quanto mi è possibile per migliorare la nostra situazione. Ora abbiamo un ospedale, c’è una scuola, ho un lavoro. C’è una speranza per i miei figli”.

Se non possiamo incidere su guerre, disastri climatici e ambientali, possiamo agire sui sistemi sanitari dei paesi in cui operiamo e sulla formazione per migliorare la qualità della vita di chi incontriamo nel nostro cammino, possiamo arginare la miseria più estrema e contenere il numero di persone costrette a fuggire alla ricerca di dignità.

Lo abbiamo visto in Karamoja, una regione molto povera dell’Uganda: grazie anche al miglioramento delle condizioni sanitarie, la sua popolazione di circa 1,5 milioni abitanti non emigra verso altri paesi. Ben venga quindi l’idea di una sorta di “Piano Marshall” per l’Africa perché solo investendo nello sviluppo dell’Africa e credendo nelle potenzialità di questa gente, si può migliorare la loro condizione e, di conseguenza, anche ridurre il flusso delle migrazioni.

Il Bo è il giornale online dell'Università degli studi di Padova

Questo indecente governo italiano, sostenuto da un indecente Parlamento, continua a incoraggiare gli evasori fiscali( e a rendere sempre più poveri gli italiani). «Stabilità 2016. Si può tornare a commerciare liberamente con le società offshore »

Il Fatto Quotidiano online , 1° ottobre 2016 (p.s.)

È ufficiale: per il fisco italiano i paradisi fiscali non esistono più, si può commerciare liberamente con qualsiasi società offshore e perfino scaricarsi le spese e i pagamenti effettuati dalla dichiarazione dei redditi senza giustificazioni. La rivoluzione copernicana che ha drasticamente cambiato verso ai vecchi e superati metodi per mettere almeno un freno all’evasione, alle frodi e alle fughe di capitali, è contenuta in un comma della legge di Stabilità 2016. Sfuggito all’occhio dei più, una circolare dell’Agenzia delle Entrate gli ha dato in questi giorni piena attuazione.

Dal periodo d’imposta 2016 non sarà più necessario indicare separatamente in dichiarazione i costi considerati fino all’anno scorso in “black list”. Di più: saranno deducibili dall’imponibile secondo le regole ordinarie, come tutti gli altri. Di colpo tutto diventa più vecchio e privo di valore, a cominciare proprio dalla lista dei paesi a fiscalità “privilegiata” contenuta in un decreto ministeriale del 23 gennaio 2002 e costantemente aggiornata fino all’anno scorso in Gazzetta ufficiale. Serviva ad applicare una normativa che dal primo gennaio non è più in vigore.

Si dice che l’idea di far sparire la “black list” dall’ordinamento fiscale sia venuta proprio al premier Mattero Renzi dopo l’imbarazzo provato durante una visita in Oman, la Svizzera d’Arabia. Il Paese arabo è inserito nell’elenco degli Stati considerati dall’Italia paradisi fiscali e pare che nel sultanato, uno dei più grandi paesi investitori del mondo, l’abbiano presa come un affronto personale. Rottamarne solo uno? E gli amici degli Emirati? Allora via tutti.

E così nel cervellone dell’anagrafe tributaria, in grado di incrociare milioni di dichiarazioni di redditi d’impresa, non si illuminerà più un led quando nel campo della sede di una società comparirà “Bahamas” o “Panama” . La residenza nelle Isole Vergini britanniche o nelle Tremiti farà scattare le medesime, remote, probabilità di una procedura di controllo e le operazioni finanziarie per scambiare parcelle e fatture con una società che risiede nelle Cayman finiranno anonimamente nel calderone del bilancio, come il pagamento di un qualsiasi fornitore brianzolo.

Il ministero dell’Economia osserva che l’obiettivo dei provvedimenti è favorire l’attività economica e commerciale transfrontaliera delle nostre imprese. Fino al 2014 tutte le spese erano considerate indeducibili, a meno che il contribuente non dimostrasse che le imprese offshore fornitrici svolgevano una prevalente attività commerciale e che le operazioni effettuate rispondevano a un effettivo interesse economico.

Nell’intenzione del legislatore si sarebbero salvaguardate le imprese che commerciano effettivamente tra loro su grandi piazze di scambio a fiscalità agevolata come Hong Kong, Singapore o gli Emirati arabi. Mentre avrebbe reso difficile – o meno facile – le triangolazioni con società e soggetti “virtuali” domiciliati su uno scoglio oceanico. I vincoli di legge sono stati attenuati già nel 2015, fino a scomparire nella circolare 39/E/2016 dell’Agenzia delle Entrate.

La battuta d’arresto della normativa italiana sul contrasto ai paradisi fiscali arriva proprio quando esplode alle Bahamas il nuovo filone dell’inchiesta giornalistica internazionale che ha già portato allo scoperto i nomi nascosti dietro centinaia di conti correnti e società offshore, gestiti dallo studio Mossack Fonseca di Panama e pubblicati in Italia dal settimanale L’Espresso. Banchieri, industriali, nobili e finanzieri e tanti professionisti, avvocati, commercialisti: sono 417 i file riconducibili agli italiani scoperti nel database di Bahamas Leaks dall’International Consortium of Investigative Journalists, Icij).

Questa seconda, gigantesca fuga di notizie dopo i “Panama papers” riguarda i dossier di 175 mila società archiviate nel Registrar General Department, di Nassau. Il lavoro dei giornalisti ha portato alla luce solo una piccola parte dei capitali e delle imposte sottratte al fisco nelle decine di paradisi fiscali che, nonostante per l’Italia siano precipitati nel limbo, sono utilizzati ancora a pieno ritmo per far sparire o riciclare con facilità patrimoni dalla provenienza inconfessabile. Basta davvero un clic.

Il governo fascista dell'Ungheria ha perso la sua battaglia contro i rifugiati. Il referendum contro quel minimo di tolleranza espresso dall'Unione europea non ha raggiunto il quorum. Ma la lotta perché vincano ragione e carità, insieme a solidarietà e lungimiranza, prosegue. La Repubblica online, 2 ottobre 2016, h20,19

IL REFERENDUM contro la ripartizione Ue dei profughi in Ungheria non ha raggiunto il quorum. Il presidente dell'Ufficio elettorale nazionale ungherese (Nvi), Andras Patyi, ha detto in tv che non è stato raggiunta l'affluenza del 50%. Parlando al telegiornale della sera, Patyi però non ha fornito cifre riservandosi di annunciarle più tardi.

L'istituto demoscopico vicino al governo, Nezopot, ha pubblicato un exit-poll secondo il quale - con 3,2 milioni di preferenze - il 'No' ai migranti ha ottenuto il 95% dei voti validi, mentre i sì sarebbero stati appena 170 mila (5%).
Secondo il deputato Gergely Gulyas, membro del partito Fidesz del premier Viktor Orban, promotore della consultazione per respingere le quote, il dato è del 45%.
Le operazioni di voto sono iniziate alle 6 ora italiana per concludersi alle 19. I primi risultati dovrebbero essere resi noti dopo le 20.
Il premier Viktor Orbàn esce sconfitto da questa consultazione elettorale. Ha presentato il referendum come passaggio cruciale per la difesa dell'identità cristiana dell'Europa minacciata dalle migrazioni di "masse di persone sfortutante invitate" dall'Ue e sperava di ottenere un avallo plebiscitario alla sua politica concretizzatasi nella barriera di filo spinato eretta alla frontiera con la Serbia. Un muro, voluto dal premier, per impedire che l'Ungheria continuasse a essere un corridoio verso la Germania e la Scandinavia.

Non ci sono molte speranze quando l'espressione di un popolo è coartata da una dittatura che adopera, con grande spiegamento di forze, gli strumenti antichi e moderni della demagogia e sfrutta il disagio provocato dall'austerity.

Il manifesto, 2 ottobre 2016

L’unica incertezza non riguarderebbe l’esito del voto, visto che la vittoria del No è data praticamente per scontata, piuttosto l’affluenza alle urne. Lo scontro sui migranti tra Viktor Orbán e l’Unione europea si giocherà tutto sul raggiungimento o meno del quorum, su quanti elettori si recheranno oggi alle urne per dire la loro nel referendum voluto dal premier ungherese contro le quote di profughi decise da Bruxelles e stando alle quali 2.300 richiedenti asilo dovrebbero essere trasferiti nel paese. Il quesito è di quelli che non lasciano molta scelta: «Volete consentire all’Ue di decidere sulla ricollocazione obbligatoria in Ungheria di cittadini non ungheresi senza il consenso del parlamento?» è la domanda che 8,3 milioni di magiari troveranno sulla scheda. Secondo i sondaggi l’83% di loro segnerà una croce sulla casella con scritto «No», contro il 13% dei favorevoli e un 3% intenzionato ad annullare il voto.

A preoccupare il governo ungherese è però proprio l’affluenza, dato che a 24 ore dal voto solo il 42% degli intervistati ha affermato di volersi recare alle urne. Pochi, dal momento che perché la consultazione sia valida occorre che venga superata la soglia del 50%, apparentemente ancora lontana. Per questo dopo mesi di campagna referendaria durante i quali contro i profughi è stato detto di tutto, dai sospetti di terrorismo all’accusa di mettere in pericolo la cultura cristiana del paese, fino all’ultimo Orbán non ha smesso di esasperare i toni: «Abbiamo difeso le frontiere dell’Ungheria e così anche quelle dell’Unione europea, fatto che in futuro sarà riconosciuto dai libri di storia», ha detto il premier riferendosi alla decisione di alzare muri ai confini con Serbia, Croazia e Slovenia e invitando i suoi connazionali a «mandare un messaggio chiaro a Bruxelles».

In realtà le barriere hanno fermato fino a un certo punto i migranti. Nonostante reti metalliche e filo spinato, infatti, dall’inizio dell’anno alla fine di agosto sono stati 26.759 i profughi provenienti dalla Serbia fermati in Ungheria, un numero in costante crescita nel corso dei mesi. Di questi, 8.413 sono stati intercettati dalla polizia nella fascia di 8 chilometri dalle frontiere istituita recentemente dal governo e all’interno della quale chi viene sorpreso è rispedito immediatamente oltre confine. «Un provvedimento che ci preoccupa molto, perché le persone che vengono fermate non hanno la possibilità di richiedere l’asilo ma vengono respinte verso la Serbia senza una procedura o una decisione formale» spiega Gábor Gyulai, direttore del programma asilo del Comitato Helsinki Ungherese che si occupa del rispetto dei diritti umani ed è l’unica organizzazione del paese che dà assistenza legale gratuita ai migranti. Insieme ad altre 22 Ong il Comitato ha lanciato la campagna «Questo è il nostro paese, invalida il referendum» con cui spera di contrastare «le politiche inumane adottate dal governo ungherese contro i rifugiati» grazie alle quali in sette mesi solo 290 richiedenti asilo si sono visti riconoscere una forma di protezione internazionale.

In realtà i migranti rappresentano solo una parte della partita che Orbán sta giocando contro l’Unione europea. Una vittoria dei «No», tanto più forte quanto più alta sarà la partecipazione al voto, lo rafforzerebbe ulteriormente, consentendogli di continuare con maggiore forza l’opera di contrasto delle politiche europee, non solo quelle sui migranti, confermandolo inoltre come vero leader del gruppo di Visegrad (oltre all’Ungheria, Polonia, repubblica Ceca e Slovacchia). «Orban vede il voto sui rifugiati come un modo per scuotere l’Unione europea», titolava qualche giorno fa il Financial Time. E Péter Krekó, direttore del think tank Political Capital, spiegava al giornale: «Ha già fatto capire di avere un’agenda europea che va al di là della questione migratoria. Orbán punta a essere una forza di trasformazione all’interno dell’Ue». Viceversa, il mancato raggiungimento del quorum segnerebbe una sconfitta pesante per la Fidesz, il partito del premier, a tutto vantaggio del movimento di estrema destra Jobbik che punta a vincere le elezioni del 2018. «Per questo motivo Orbán sta già dicendo che non è importante quante persone andranno a votare», prosegue Gyulai.

Timori dietro i quali si nasconde un malumore crescente tra gli ungheresi, molti dei quali sono costretti a emigrare in cerca di condizioni di lavoro migliori di quelle che trovano in patria.

Se è vero che l’economia tiene, grazie anche ai ricchi contributi elargiti dall’Unione europea (5,6 miliardi di euro nel 2015), è vero anche che i salari – in media l’equivalente di 350 euro al mese – sono troppo bassi perché gli ungheresi possano pensare al futuro con serenità. E molti, soprattutto i giovani, preferiscono cercare fortuna all’estero, proprio come i loro coetanei mediorientali o asiatici che il governo respinge ogni giorno. Negli ultimi cinque anni tra i 300 mila e i 500 mila magiari hanno scelto di vivere in un altro paese, prevalentemente in Germania, Gran Bretagna e Austria. Contraria a ogni forma di immigrazione, paradossalmente l’Ungheria si ritrova così ad aver bisogno dei migranti per supplire alla carenza di manodopera. Mancherebbero 22 mila informatici oltre a infermieri, cuochi, camerieri e addetti alle pulizie. Al punto che il ministro dell’Economia Mihály Varga a luglio aveva annunciato misure per attrarre lavoratori stranieri nel paese, salvo poi fare marcia indietro.

Dietro il voto di oggi c’è tutto questo ma, forse, anche il futuro dell’Europa. Una vittoria di Orbán darebbe ulteriore fiato anche ai nazionalismi presenti in molti stati alcuni dei quali, come Germania e Francia, prossimi a importanti scadenze elettorali, e rafforzerebbe l’idea che sia possibile ignorare le disposizioni dell’Unione europea. Con l’Ungheria che rischia di giocarsi qualcosa in più: «La paura degli immigrati creata ad arte dal governo avrà effetti negativi nella società e sulle future generazioni», conclude Gyulai. «Per decenni sarà impossibile avere una politica ragionevole sull’immigrazione che aiuti lo sviluppo del paese».

Riferimenti
Qui il pamphlet menzognero che il dittatore "democratico" ha inviato a tutti gli ungheresi, e un articolo di Nadia Urbinati

il manifesto, 2 ottobre 2016

COME DIFENDERE IL LICEO CLASSICO
DAI SUOI NEMICI
di Tiziana Drago

Eschilo e i mercanti. L'obiettivo è limitare gli studi classici solo ai ricchi. Reagire alla volontà di sanzionare la criticità dei saperi teorici rispetto al mercato
«Tutte le volte che negli studi di antichità si fanno sentire esigenze di rinnovamento, tanto più è necessario, se non si vuole costruire sulla sabbia, mantenere l’esercizio del “mestiere”». D’altra parte, «senza il possesso della deprecata »tecnica» l’interesse storico rimane velleitario». Così un filologo materialista e «leopardiano» come Timpanaro prendeva posizione, negli anni ’70, contro l’eclettica disponibilità con cui la filologia inglobava i nuovi strumenti strutturalistici e antropologici, spesso in nome di malcelate «civetterie interdisciplinari».

Oggi, nel contesto duro e inasprito del declino italiano, in cui il diritto alla formazione è diventato un costo non più sostenibile, l’ipocrisia dilagante ammanta di ragionevolezza l’attacco portato al cuore delle discipline classiche sotto forma di auspicata amputazione della lingua greca e latina. L’argomentazione si sposta di volta in volta dall’ambito statistico (il calo di iscrizioni al liceo classico) a quello economico (i saperi improduttivi, la spesa senza ritorno immediato) a quello sociologico in versione falsamente egualitaria (gli studi classici come sacca di privilegio: è l’argomento di detrattori di comprovato egualitarismo quali Vespa, Ichino, Berlinguer).

L’amorevole premura di preservare i più giovani dalla innegabile difficoltà di interpretare un testo antico è un regalo avvelenato che cela molti degli inquietanti propositi di trasformazione della scuola e dell’università che sono nell’aria e la volontà di sanzionare la colpevole distanza dal mercato dei saperi teorici. Tanto più autoritario questo intendimento, in un curioso connubio di liberismo selvaggio e controllo dei destini individuali e collettivi, quando nega la possibilità di studiare le lingue antiche nelle loro sfumature all’interno dell’unico curriculum scolastico pubblico in cui questo è ancora consentito. Quando questo progetto sarà compiuto, chi può avrà a disposizione il college privato in cui studiare a dovere le lingue classiche e chi annaspa capirà senza equivoci che il liceo classico è roba da ricchi e dovrà accontentarsi di qualche briciola di cultura dell’antico.

Racconta Franz Mehring che Karl Marx «ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale, restò sempre fedele ai suoi antichi greci e avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine anime di mercanti che volevano togliere agli operai l’interesse per la cultura antica».

STUDENT ACT:
RENZI E LA FILANTROPIA
DEL CAPITALE UMANO
di Roberto Ciccarelli

Diritto allo studio. Invece di finanziare e rifondare il sistema del diritto allo studio il governo eroga micro-misure simboliche per 500 studenti «plusdotati». Il ministero dell'Economia invita a investire in Italia perché i laureati costano meno. Bassi salari e alla competizione al ribasso nel lavoro della conoscenza. La filosofia del capitale umano è parte integrante della tradizionale politica economica italiana

Il «capitale umano» al tempo di Renzi. Vediamo cosa significa questa espressione neoliberale, passepartout per le politiche neoliberiste che si applicano all’istruzione e alla ricerca nella legge di bilancio prossima ventura. La misura simbolica che conferma la trasformazione dello Stato in un’agenzia filantropica. Si parla di premiare 500 studenti «plusdotati» o «gifted» delle scuole medie o dei licei adottandoli come si faceva nell’Inghilterra raccontata da Charles Dickens. La misura, finanziata con 10 milioni di euro prevede un assegno mensile, l’assegnazione di un tutor e la possibilità di inviare questi «figli della nazione» all’estero per coltivare un «talento» individuato con strumenti e indicatori «meritocratici» ancora tutti da identificare. La misura compassionevole si aggiunge al bonus più populista che c’è: i 500 euro del «bonus cultura» per i 18enni per libri, musei e cinema. Si tratta di una carta prepagata di Poste Italiane riservata quest’anno a oltre 570 mila ragazzi dal costo di 290 milioni.

UN’ALTRA REGOLA RENZIANA: invece di istituire un reddito per tutti, quindi anche per gli studenti, si discriminano categorie sociali e si segmenta il corpo sociale, non più con criteri di merito ma generazionali. Prevista una manciata di borse di studio fino a 15mila euro l’anno per studenti meritevoli e con redditi bassi che potranno pagarsi tasse e affitti. Voi direte: in una casa dello studente, ad esempio. Proprio per nulla. La filantropia neoliberista esclude il rifinanziamento – e il ripensamento – del diritto allo studio agonizzante per tagli che hanno moltiplicato le diseguaglianze tra gli studenti. Si parla di uno «sgocciolamento» di microrisorse che non rimediano alla dismissione programmatica del welfare studentesco. Anche quest’anno il governo elargirà la monetina di consolazione per il diritto allo studio: 50 milioni del Fondo integrativo statale (Fis). Ne servirebbe quantomeno 200 all’anno per tutti gli studenti che ne hanno diritto. In totale saranno stanziati 450 milioni, comprensivi di una «no tax area» per chi ha un Isee tra 12 e15 mila euro con esenzione dalle tasse universitarie. Per essere decente l’esenzione dovrebbe interessare chi ne ha uno inferiore ai 28 mila euro. Il sottosegretario Faraone ha annunciato un confronto. Prima impongono le norme, poi ne vogliono parlare. Concertazione ai tempi della meritocrazia. Nome in codice dell’operazione è Student act.

DIETRO IL FATALE ANGLISMO c’è la filantropia dickensiana. Il suo risvolto reale si trova nella brochure «Invest in Italy» del ministero dell’Economia diffusa alla presentazione del piano «Industria 4.0». «L’Italia – si legge – offre un livello competitivo dei salari che crescono meno che nel resto dell’Ue». Bassi salari e competizione tra la forza lavoro specializzata. Questo è il «capitale umano» nella neolingua renziana. È il futuro meritocratico che a«Industria 4.0». «L’Italia – si legge – offre un livello competitivo dei salari che crescono meno che nel resto dell’Ue». Bassi salari e competizione tra la forza lavoro specializzata. Questo è il «capitale umano» nella neolingua renziana. È il futuro meritocratico che attende gli studenti.

Riforme. Dalla post-democrazia di fatto alla post-democrazia di diritto».

ilmanifesto, 2 ottobre 2016 (c.m.c.)

Sino ad oggi il dibattito sul referendum si è mosso tra questi due poli: le precisazioni dei costituzionalisti contrapposte e l’odio per la casta e la politica della gente.

L’esempio più chiaro di questa contrapposizione è stato il dibattito di venerdì scorso tra Renzi e Zagrebesky. Si è trattato del classico dialogo tra sordi o meglio, tra due persone che parlano lingue diverse.

Zagrebesky faceva appello alla teoria, in particolare ai principi giuridici che una costituzione deve rispettare per essere accettabile.

Renzi conduceva il dibattito in nome del «fare». Ed usava la tecnica all’americana di abbattere, a qualsiasi costo, la credibilità dell’avversario con attacchi, neanche tanto velati a gufi, parrucconi, professori, che paralizzano il fare, trincerandosi nelle loro torri d’avorio da «pensionati d’oro».

Mentre Zagrebesky cercava di spiegare le ragioni del no, Renzi voleva solo demolire l’immagine del suo avversario agli occhi della gente comune.

Ma a parte questa impostazione all’americana, per cui sicuramente si era allenato con coach e spin doctor, anche il dialogo appariva privo di senso. Perché quando Zagrebesky illustrava un concetto, Renzi lo traduceva velocemente in un problema concreto a cui le sue leggi avrebbero da tempo trovato soluzione.

Come se di fronte a Socrate che parla del concetto di cavallinità, Renzi rispondesse: abbiamo disciplinato l’uso del cavallo su strada con numerose normative che riguardano l’uso del basto e la ferratura.

Probabilmente pur essendo in televisione il dibattito era seguito da un pubblico «alto» che ha seguito il discorso del professore Zagrebesky. Ma il grosso della campagna si giocherà in contesti più popolari ed oggi l’astrazione, la concettualizzazione, sembrano provenire da un passato «dipinto col pelo di cammello».

Secondo me il discorso dovrebbe invece partire da un punto di vista globale. In che modo una revisione della Costituzione, può avere conseguenze non solo sulla politica, ma anche sull’economia e perché banche e multinazionali sponsorizzano il SI con tanta aggressività da minacciare tutte le possibili disgrazie nel caso di vincita del NO?

E qui il discorso si fa difficile.

Il motivo è che le analisi globali vengono giudicate ideologiche quando non cospirazioniste. E si dice che bisogna giudicare le cose in modo semplice, a partire dal contenuto concreto della legge. Che prevede comunque meno indennità da pagare e rappresenta quindi un risparmio.

Sono figlio di una generazione che ha appreso a dubitare di ogni evidenza.

Con il crollo del muro di Berlino è venuto meno anche il concetto di lotta di classe. Se non esistono socialmente interessi in contrasto, perché dovrei diffidare?

Intanto la forbice sociale si è così divaricata da creare la crisi permanente dei consumi. Oggi ci insegnano che l’arricchimento di pochi genera benessere e lavoro per tutti. Peccato che questa redistribuzione dei redditi sul territorio tardi a realizzarsi. In realtà nella crisi proletariato e classe media si sono impoveriti, sino a cadere in miseria, ma i ricchi sono diventati infinitamente più ricchi di quanto non lo fossero prima della crisi stessa.

Io continuo a dubitare. Ci hanno convinto che la lotta di classe è pura ideologia per praticarla contro di noi e vincerla senza che ce ne rendessimo conto.

«La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi», ha dichiarato Buffet. Oggi le tutele sociali devono essere espulse dalla costituzione per rendere le masse prive di potere contrattuale ed assoggettabili.

L’attuale disegno di riforma costituzionale a firma Boschi, è stato steso sotto le direttive della banca J.P. Morgan, che ha definito le costituzioni dei paesi del Sud Europa «comuniste».

Se ormai il comunismo non c’è più, per le élites finanziarie anche il semplice testo costituzionale pecca di estremismo. Perché, a differenza che negli Stati Uniti, le nostre costituzioni partono da un concetto di democrazia che non esalta l’individuo e la sua lotta contro tutti, ma la società e la cooperazione in quanto connaturate alla natura umana. «L’uomo è un animale politico».

Non esiste democrazia senza bene comune. Una democrazia di individui in lotta per il bene personale è un ossimoro. Questo è tanto più valido in un’epoca in cui le élites sono multinazionali e depredano ogni territorio a cui hanno libero accesso.

Vorrei ricordare il precedente del referendum di dieci anni fa.

Allora fu respinta la riforma perché, in virtù dei suoi molteplici conflitti di interessi, gli italiani ritennero pericoloso dare tutto il potere a Berlusconi. Gli interessi di Berlusconi erano comunque dentro i confini del Paese. Il suo ulteriore arricchimento poteva aver ricadute di occupazione e fiscali qui. Anche Mussolini, a suo tempo, con la legge Acerbo, gemella dell’Italicum, concentrava il potere nelle sue mani per promuovere l’autarchia.

Oggi banche e multinazionali non hanno residenza se non in paradisi fiscali.Esse impongono trattati come il TTIP che avranno la conseguenza di avvelenarci senza neppure un ritorno in chiave di lavoro o di ricchezza. Trattati come questo vanno sottoscritti in fretta, prima che l’opinione pubblica si opponga e prima che si formi un’opposizione parlamentare.

L’eutanasia dell’opposizione perseguita da Renzi in vari modi ed oggi con la riforma elettorale, ha questo scopo. «Lasciatemi lavorare» significa: lasciatemi decidere senza controllo, affidando il paese a chi ritengo opportuno.

Questo sistema di governo in cui apparentemente il potere è affidato al popolo, ma il popolo è di fatto esautorato di ogni potere si chiama post-democrazia.

Ecco, con la riforma costituzionale, siamo chiamati a ratificare una post-democrazia di fatto per trasformarla in una post-democrazia di diritto.

La Repubblica, 2 ottobre 2016

Sulle rovine di Aleppo si decide la riscossa di Bashar al Assad o la tenuta del sedicente Stato Islamico. Ma ormai la devastazione di uno fra gli insediamenti umani più antichi della Storia è totale: mancano cibo, acqua e medicine. Ieri al centro dei bombardamenti — di caccia russi o siriani governativi — c’è stato il principale ospedale nella zona in mano ai ribelli, danneggiato in modo pesante, a seconda delle fonti si dice da bombe a grappolo o da barrel bombs.

Ma che il martirio sia nutrito di tecnologie moderne o di brutalità rudimentale, il risultato non cambia: per i civili di Aleppo restano strumenti di atrocità.

CLUSTER BOMB
Le cluster bomb (bombe a grappolo) sono costituite da un contenitore e numerose sub-munizioni, cilindretti grandi poco meno della lattina di una bibita: quando la bomba principale viene sganciata, le bombette vengono disperse in modo casuale. Non essendo la loro posizione controllabile, non sono registrate in una mappa e la bonifica è molto difficile.

Ad Aleppo bombe cluster “Rbk-500 Shoab 0,5” sarebbero state sganciate dall’artiglieria e dall’aviazione russa o da quella di Damasco: Mosca non aderisce alla convenzione che mette al bando le cluster, ma ha firmato l’impegno delle Convenzioni di Ginevra a non colpire indiscriminatamente i civili. Organizzazioni umanitarie segnalano che le cluster sono utilizzate dai caccia Su-24, Su-25 e Su-34 schierati nella base russa di Shagol e in quella siriana di Hmeymim, il Cremlino nega.

BUNKER-BUSTER
Secondo testimonianze filmate, i caccia da attacco al suolo Su-25 “Frogfoot” di Mosca hanno sbriciolato interi isolati di Aleppo utilizzando bombe “Betab-500”, in grado di penetrare attraverso strati di cemento prima della detonazione. Sono le equivalenti delle americane “bunker-buster”, destinate a distruggere rifugi sotterranei e arsenali di munizioni. Sarebbero già state usate contro installazioni dello Stato Islamico, ma fino ad ora mai adoperate in un contesto urbano.

BARREL BOMB
Economiche e facili da assemblare, sono l’equivalente per l’aviazione degli ordigni improvvisati IED. Si costruiscono con un contenitore cilindrico, come un bidone da petrolio, riempito di rottami metallici o da prodotti chimici aggressivi, come il cloro, assieme a una grande quantità di esplosivo, fino a una tonnellata. Vengono lanciate anche da elicotteri, provocando danni molto gravi perché i frammenti di metallo si spargono per un’area vasta. Secondo la Rete siriana per i diritti umani, nella prima metà dell’anno ne sarebbero state sganciate su Aleppo oltre seimila. Secondo Human Rights Watch, le bombe-barile hanno preso il posto delle armi chimiche per spargere paura fra la popolazione. Nel febbraio 2014 il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha chiesto alle parti nella risoluzione 2139 di non farne utilizzo. Ma secondo Amnesty quell’anno le persone uccise ad Aleppo dalle bombe-barili sono state oltre tremila.

AUTO-BOMBA
Sono lo strumento del terrore preferito per attacchi a obiettivi statici: ad Aleppo sono state usate (con un guidatore kamikaze) contro le caserme militari. Basate su automobili cariche di esplosivo, a volte fatte esplodere da lontano con un telecomando, sono un mezzo privilegiato per i miliziani del sedicente Stato islamico.

BOMBE AL FOSFORO
Il fosforo bianco è un materiale altamente infiammabile, usato per munizioni incendiarie o destinate a produrre fumo per nascondere le manovre. Le munizioni al fosforo possono essere lanciate dall’aviazione, ma anche dall’artiglieria leggera in dotazione alle truppe di terra. Le persone colpite lamentano ustioni gravi fino alla morte, soffocamento, danni all’apparato digerente e respiratorio.

ARMI CHIMICHE

Già nel 2013 razzi contenenti gas nervino Sarin sono stati usati contro la popolazione della zona di Khan al Assal, ad Aleppo. Governo siriano e miliziani dello Stato islamico si rinfacciano la responsabilità dell’attacco, in cui sono morte 26 persone. Il Sarin in possesso del governo siriano verrebbero da depositi sfuggiti ai controlli internazionali, quello in mano agli integralisti, secondo diverse testimonianze sarebbe stato fornito dall’Arabia Saudita. Il gas nervino ha l’effetto di paralizzare il sistema nervoso, fermando anche la respirazione e provocando la morte delle persone colpite. Nell’agosto scorso Dandanya, nella zona di Aleppo, controllata dalle Forze siriane democratiche (curde) è stata colpita con razzi che hanno diffuso gas irritante, probabilmente iprite: se respirato, può provocare il soffocamento. I curdi accusano del bombardamento le forze armate della Turchia.

Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato e si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale».

connessioniprecarie.org, 2 luglio 2017 (c.m.c.)

L’intervista è stata realizzata mercoledì 28 giugno a Bologna, dove Judith Butler si trovava come promotrice della conferenza internazionale «The critical tasks of the University» e per partecipare alla Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory (Duke University, University of Virginia, Università di Bologna).

La scorsa settimana hai promosso a Bologna un convegno internazionale sul ruolo critico delle università, che in questo momento negli Stati Uniti, dichiarandosi santuari per i migranti senza documenti, si stanno attivamente opponendo alle politiche di deportazione di Trump. Pensi che anche questo tipo di iniziativa rientri nel loro ruolo critico e come sarà colpita dalla riorganizzazione dello Stato pianificata da Trump e Bannon e dall’azione sempre più arbitraria della polizia?
È molto importante che le università dichiarino lo status di «santuari». Manda un segnale forte al governo federale dichiarando che le università non applicheranno le politiche di deportazione. Il programma di Trump non è ancora effettivo, ma i funzionari dell’immigrazione e incaricati delle deportazioni possono agire autonomamente in modo più aggressivo, perché non c’è una politica federale chiara, il presidente dice una cosa, le corti di giustizia vanno in un’altra direzione, cosicché i funzionari decidono in modo discrezionale di andare nelle scuole o nelle case per cercare le persone senza documenti. Le università però hanno il potere di decidere se consegnare ai funzionari i nomi di quelli che non hanno documenti o se resistere alle loro richieste. Hanno il potere di bloccare l’implementazione dei piani di deportazione e questo significa che possiamo diventare parte di un più vasto network che resiste all’applicazione delle politiche federali.

Anche alla luce di questo tipo di resistenza, alcuni vedono nell’elezione di Trump un’opportunità per i movimenti sociali. Condividi questa prospettiva?
Ci sono due modi di leggerla. C’è chi crede in una concezione dialettica della storia per cui un movimento di resistenza, per crescere, ha bisogno di un leader fascista, sicché dovremmo essere contenti in questa circostanza. Da parte mia non sarò mai contenta di avere un leader fascista, o neofascista, o autoritario… stiamo ancora cercando di capire come descrivere questo potere. Spero che i movimenti sociali non abbiano bisogno di questo per essere galvanizzati. C’è però un secondo modo di vederla, e che sono più disponibile ad accettare, per cui il trionfo della destra negli Stati Uniti ha reso imperativo che la sinistra si unisca con una piattaforma e una direzione davvero forti. Non è chiaro se questo possa accadere attraverso il partito democratico, o se ci debba essere un movimento di sinistra ‒ il che non coincide necessariamente con una politica di partito ‒ che sappia che cosa sta facendo e come e, su questa base, possa decidere se accettare un partito, o se avanzare le proprie rivendicazioni a un partito. Ma non è detto che si debba cominciare dall’essere un partito politico. A volte è positivo che i movimenti sociali diventino un partito politico, non è necessariamente qualcosa a cui opporsi, ma non dobbiamo accomodarci in una distinzione o situazione esistente, per cui ci sono i democratici, i repubblicani e tutto il resto è considerato una minoranza radicale senza potere. È il tempo che i movimenti sociali si coalizzino per formare un movimento forte, che abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia, e questo significa avere ideali e piattaforme separate dalla politica di partito. Solo a questo punto un movimento sociale è nella posizione di negoziare.

In che modo la campagna elettorale, e in particolare l’apertura di Sanders verso i movimenti sociali ‒ che è stata spesso contraddittoria e incapace di raccogliere le loro istanze ‒ può offrire indicazioni rispetto a come strutturare l’opposizione a Trump nei termini che hai appena descritto?
La corsa di Sanders alla presidenza è stata molto interessante, perché ha messo insieme molta gente ed è stata molto più popolare di quanto Clinton si aspettava che fosse, conquistando alle primarie anche Stati che si pensava avrebbero sostenuto Hillary. Ma è stato anche frustrante, perché non era chiaro se Sanders sapesse come rivolgersi agli afroamericani, sembrava che pensasse che quella di classe fosse l’oppressione primaria e quelle di razza e genere fossero secondarie, e questa è una prospettiva che abbiamo combattuto negli anni’70 e ’80. Da una parte si è vista una sinistra capace di attrattiva, e questo è stato interessante, ma forse non lo è stata abbastanza. Forse è necessario distinguere Sanders dall’«effetto Sanders», che sta coinvolgendo molti più gruppi permettendo loro di pensare che possono avere un po’ di potere. Sanders si è definito socialista, anche se in una versione soft, ma un partito socialista non c’è ancora anche se alcuni si sono appellati a lui per uscire dal partito democratico e costituirne un altro. Vedremo se può succedere negli Stati uniti, sarebbe degno di nota.

I migranti sono stati protagonisti negli ultimi anni di importanti movimenti sociali e sono tutt’ora impegnati nell’organizzazione dell’opposizione al razzismo istituzionale di Trump. Nel tuo lavoro hai molto insistito sulla loro posizione, sottolineando il modo in cui hanno esercitato performativamente un «diritto ad avere diritti». Ma possiamo considerare i migranti non solo come una figura dell’esclusione da «noi, il popolo», ma anche come una prospettiva che ci permette di capire le trasformazioni contemporanee della cittadinanza e del lavoro nel suo complesso. Come fai i conti con queste trasformazioni nella tua teoria della precarietà?
Forse non ho una teoria della precarietà, ti posso dire che cosa sto facendo adesso, perché ho scritto Vite precarie dopo l’11 settembre per rispondere a quelle circostanze storiche, ma in altri libri sono emerse altre circostanze e magari si possono adattare ad alcune persone e ad altre no. Nel bene e nel male, il mio è un pensiero vivente e può cambiare, non ho una singola teoria che si adatti a tutte le circostanze, posso modificare la mia teoria, questo è il modo in cui lo descriverei. Quello che posso dire è che io vivo nello Stato della California e l’agricoltura lì si basa fondamentalmente sul lavoro migrante, se Trump fosse in grado di deportare migranti messicani senza documenti, costruire muri e bloccare l’afflusso di nuovi messicani, i principali interessi economici che lo hanno supportato sarebbero immediatamente in difficoltà. Di fatto l’economia della California funziona con i migranti senza documenti, non ci sono dubbi. E se andiamo indietro nella storia della California, vediamo che le ferrovie sono state costruite dai migranti cinesi. Molti di noi sono stati migranti, mia nonna non parlava nemmeno bene l’inglese, siamo arrivati, siamo andati a scuola, ci siamo dimenticati di essere migranti, pensiamo che i migranti siano sempre gli altri. Ma chi non è un migrante? Questa dimenticanza è parte della formazione del soggetto americano ed è diventata davvero pericolosa nel momento in cui abbiamo deciso che i migranti sono esterni a quello che siamo. Sono parte di quello che siamo, ci basiamo sul loro lavoro, siamo il loro lavoro.

Contro questa condizione, i migranti – non solo negli Stati Uniti ‒ hanno scioperato, e l’8 marzo di quest’anno c’è stato uno sciopero transnazionale delle donne. Nel tuo ultimo libro (Notes toward a Performative Theory of Assembly, nella traduzione italiana L’alleanza dei corpi) tu includi lo sciopero tra i modi in cui è possibile ‘assemblarsi’. Lo sciopero non è solo un modo di convergere, ma stabilisce anche una linea di opposizione nella società, una linea lungo la quale si pratica l’interruzione di un rapporto sociale di potere. La tua riflessione sulle assemblee articola la necessità o la possibilità di questo tipo di linea di conflitto come condizione stessa dell’assemblea?
Spesso, quando i sindacati vogliono unirsi per discutere le condizioni del loro lavoro, assistiamo a tentativi disperderli o negare il loro diritto di riunirsi in assemblea. Almeno nel diritto degli Stati Uniti e in qualche misura in quello internazionale, questo diritto nasce anche dalle assemblee sindacali, fatte per discutere le condizioni di lavoro o per decidere di scioperare. Ci sono modi di riunirsi in assemblea là dove c’è uno sciopero. Ma nell’era di internet possiamo entrare in rete nel web e decidere uno sciopero senza riunirci di persona. La vera domanda diventa allora come il modo tradizionale di funzionamento dell’assemblea, per cui i corpi si assemblano nello stesso spazio, sta in relazione con il networking digitale, o con una modalità politica di mettersi in rete che può anche essere la base per lo sciopero. Non intendo dire che nella vita contemporanea non c’è assemblea senza un insieme di connessioni digitali, o che non sappiamo nemmeno di essere assemblati se non mandiamo un messaggio che lo comunica. Tuttavia, l’assemblea può dare voce a certe rivendicazioni che devono essere comunicate attraverso il web. Di solito gli scioperi, soprattutto quelli internazionali, che sono molto interessanti, sono principalmente forme di messa in rete per la resistenza. Si tratta di una forma tra le altre possibili di associazione e alleanza tra gruppi, una forma che è legata all’assemblea anche se non sono esattamente la stessa cosa. Non c’è un’unica sfera pubblica per tutti, nemmeno internet è la stessa sfera pubblica per tutti, non tutti ce l’hanno e non tutti comunicano, non c’è un’unica sfera pubblica globale, non c’è una piazza mondiale. I media aiutano a fare in modo che succeda, quando succede. L’anno scorso coloro a cui non è assolutamente permesso di assemblarsi, i detenuti nelle prigioni palestinesi, negli Stati uniti e in altre parti del mondo, hanno fatto uno sciopero della fame. Molte persone che si opponevano alla pratica carceraria dell’isolamento sono andate in sciopero della fame e lo hanno fatto esattamente nello stesso momento. Hanno comunicato attraverso le reti di sostegno dei prigionieri, hanno creato un network internazionale senza bisogno di un’assemblea, hanno scioperato nello stesso momento per attirare l’attenzione dei media sul fatto che l’isolamento è una pratica disumana a cui tutti insieme si stavano opponendo. Alleanze a rete di questo tipo sono precisamente quello che è necessario per portare una questione al centro dell’attenzione politica. Anche lo sciopero delle donne è molto interessante perché non ha un solo centro, ed è accaduto in tutto il mondo in modi e luoghi diversi.

Infatti, lo sciopero dell’8 marzo è stato lanciato dalle donne argentine di Ni una menos con un appello internazionale che ha avuto un’incredibile risonanza in tutto il mondo. Non si è trattato di uno sciopero tradizionale, inteso come strumento di contrattazione sindacale, ma è stato un modo per rifiutare una condizione di violenza e oppressione che assume molte forme
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Lo sciopero della fame e quello delle donne non sono scioperi tradizionali, di tipo sindacale, ed è importante che siano accaduti. La cosa che mi pare più interessante sono i network che li hanno resi possibili e che hanno permesso che accadessero, perché questi network possono comporre movimenti globali di solidarietà. Se però si riducono a uno sciopero che dura per un certo numero di ore per un giorno solo, questo non è abbastanza, perché un’azione simbolica. Ma anche un’azione simbolica può aiutarci a vedere quali sono i network, chi sono le persone che ne fanno parte in Argentina, qual è la loro relazione con la Turchia, con Bologna o con il Sudafrica. Il punto è usare l’occasione dello sciopero simbolico per solidificare reti internazionali che possano poi produrre effettivamente un senso più forte della sinistra femminista transnazionale o dell’opposizione transnazionale alle condizioni inumane nelle prigioni.

Forse però ci sono delle differenze tra lo sciopero della fame in prigione e lo sciopero delle donne o quello dei migranti. In prigione diventa un modo di conquistare in primo luogo quello che chiami un «diritto di apparire» per mettere sul tavolo rivendicazioni che altrimenti sarebbero inascoltate. Lo sciopero delle donne e quello dei migranti hanno stabilito una linea di conflitto, nel caso dell’8 marzo la linea in cui si mostra che la violenza patriarcale è la base per la riproduzione di rapporti sociali di potere su scala globale. Da questo punto di vista è interessante che lo sciopero sia stato proposto in Argentina, dove la violenza contro le donne sta diventando un’arma sistematica del governo neoliberale.
Penso che anche lo sciopero della fame in prigione stabilisca una linea di opposizione, perché in prigione tu non comunichi, non ti riunisci in assemblea, non avanzi rivendicazioni soprattutto se sei in isolamento. La voce dei detenuti non si sente, hanno bisogno di altri che possano articolare la loro posizione, che parlino per loro, e attraverso quel network hanno trovato il modo di articolare una rivendicazione che altrimenti non sono nella condizione di avanzare e che riguarda la violenza strutturale delle prigioni, che è anche un confronto frontale con quella violenza strutturale. Osservando il modo in cui le prigioni funzionano in Brasile o in Argentina, diventa evidente la relazione delle prigioni con la violenza della polizia, con il femminicidio, possiamo trovare una violenza strutturale che le connette. Angela Davis lavora sulle prigioni negli Stati uniti e in Brasile e sostiene che la violenza delle prigioni si manifesta attraverso un razzismo che colpisce i poveri e le donne in modo strutturale, una violenza dello Stato che articola disuguaglianze sociali fondamentali. D’altra parte dobbiamo considerare che i media hanno i loro cicli. Quanto più ci appoggiamo ai media per creare connessioni transnazionali, tanto più dobbiamo stare attenti al modo in cui il ciclo dei media ci fa diventare una notizia che un attimo dopo scompare. C’è un momento in cui siamo in sciopero e poi chi se ne ricorda? Che cosa succede poi? Come si traduce questo in pratiche o nuovi network, in nuove possibilità per i movimenti? Il modo in cui i media gestiscono lo sciopero di un giorno può dargli vita per un momento e poi estinguerlo. Dobbiamo trovare modi per lavorare contro questa temporaneità dei media per sostenere le nostre connessioni politiche.

Il problema riguarda però la capacità di accumulare sufficiente potere da forzare i media a dare conto di quello che accade. Lo sciopero è precisamente un modo di dare prova di un potere, che è in primo luogo il potere di non essere vittime, di rifiutare una condizione di oppressione.
Sono d’accordo. Dire, come spesso fanno i media, che le donne non si mobilitano o che siamo ormai post-femministe per me non è altro che una barzelletta. Non sarò mai post-femminista. È grandioso avere un momento globale in cui le donne emergono in marcia, come è successo a Washington e in tutto il mondo il 21 gennaio, ma questo deve continuare a succedere, e abbiamo bisogno di scioperi e manifestazioni che abbiano le loro infrastrutture, i loro network, i loro modi di sviluppare fini e strategie e forme di resistenza. Dobbiamo costruire queste connessioni.

La marcia del 21 gennaio e lo sciopero dell’8 marzo hanno visto le donne protagoniste ma hanno coinvolto moltissimi altri soggetti. Le donne in queste occasioni hanno posto una questione generale, ad esempio rifiutando le politiche neoliberali che smantellano il welfare e che impongono proprio alle donne di farsi carico del lavoro riproduttivo e dei servizi che non sono più erogati dal pubblico. A questo riguardo, pensi che le donne, in virtù della loro posizione materiale e simbolica, possano avere anche una posizione specifica nella lotta contro le relazioni neoliberali di potere su scala globale?
Io penso che le donne debbano assumere una posizione politica specifica per via del fatto che sono prioritariamente responsabili di relazioni di cura nei confronti dei bambini o degli anziani, e quando i servizi dello Stato e pubblici sono distrutti dal neoliberalismo o dal fallimento di altre infrastrutture, penso che questo ponga su di loro un carico ulteriore che ha effetti anche sul lavoro produttivo. Vorrei dire anche, però, che è estremamente importante includere tra le donne anche le donne trans, che dobbiamo avere una visione più ampia di che cosa significa essere una donna, una visione che includa anche le donne che non prendano parte alla riproduzione o al lavoro domestico, che hanno scelto di non essere o semplicemente per altre ragioni non sono sposate, che hanno altre alleanze sessuali e sono senza figli. Le donne ora vivono forme sociali molto diverse che includono e devono includere anche le donne trans. Uno dei problemi che ho con l’idea che le donne siano completamente identificate con la sfera riproduttiva è che in questo modo si operano delle restrizioni. Se, nel cercare di dare una specificità e una visibilità alle condizioni materiali delle donne, stabiliamo una specifica comprensione simbolica di che cosa la donna è, tutte le donne ne sono colpite, diventa un limite.

Sono completamente d’accordo, e il punto mi sembra precisamente la possibilità di rifiutare quel modo di essere identificate come donne. Si tratta di rifiutare la divisione sessuale del lavoro che costringe le donne a occupare certi ruoli, proprio questo rifiuto diventa politicamente rilevante oggi. Ma allo stesso tempo l’idea di includere le persone trans nella categoria delle donne non rischia di limitare la possibilità di questo rifiuto, esattamente perché presuppone una definizione identitaria di che cosa sia «donna»?
Non credo. Sta già succedendo. Ci sono persone che vivono come donne, senza essere riconosciute come tali. E ci sono persone riconosciute come donne che non si pensano affatto come donne. Dobbiamo accettare che spesso la percezione sociale non corrisponde all’esperienza vissuta delle persone. Non è solo una questione identitaria perché riguarda il modo in cui sei trattata a casa, a scuola, nelle istituzioni religiose, nel lavoro, se sei chiamata nell’esercito, quale bagno usi… ci sono un sacco di questioni pratiche che dipendono dalla designazione di genere, che può anche avere implicazioni concrete sulla vivibilità o invivibilità della vita. Se qualcuno mi interpella come donna in un certo modo e si aspetta che io viva in quel modo, in certe circostanze sociali, non potrei vivere in quella società, dovrei andarmene, ci sono implicazioni concrete e materiali che seguono a questo tipo di designazione e penso che se ci limitiamo a parlare di questioni di identità ‒ come ti definisci, qual è il tuo pronome, se è una questione di scelta individuale e di nominare se stessi – ci sfugge il fatto che spesso si tratta di una questione di vita o di morte.

Capisco il punto ma mi piacerebbe insistere. Da una parte sostieni, e sono d’accordo, che sia necessario rifiutare l’identificazione delle donne con le loro funzioni riproduttive, con i ruoli di madre, moglie, di coloro che sono ‘naturalmente’ deputate alla cura. In questo senso non si tratta semplicemente di una scelta individuale, ma di contestare l’imposizione di un ruolo e di una posizione sociale e la riproduzione di un rapporto di potere che presuppone quel ruolo e quella posizione. Dall’altra sostieni che altre soggettività di genere dovrebbero essere considerate donne, perché questo colpisce materialmente la loro possibilità di vivere. È indiscutibile che sia necessario allargare il riconoscimento di diritti civili e sociali, ma non c’è una qualche contraddizione tra il primo e il secondo punto, nella misura in cui il primo implica il rifiuto di una definizione che comporta anche l’imposizione di un ruolo, mentre il secondo la presuppone?
Questo mi permette di chiarire quello che intendo. Penso che ci siano molte donne che vogliono essere e sono madri e questo significa molto per loro, e non dovrebbero rifiutarlo, è grandioso che siano madri, hanno un grande piacere a essere madri e a vivere come vogliono vivere, e ci sono donne che vogliono essere sposate ed essere sposate con uomini. E se lo vogliono e questo le soddisfa è giusto e non devono rifiutarlo. Ma dare una definizione di donna che valga per tutti è un errore. Perché questo limita le possibilità all’interno dello spettro di che cosa significa essere una donna. Ci sono altre che non vogliono essere madri ma si pensano nonostante tutto come donne, che hanno relazioni di convivenza senza essere sposate e non intendono farlo, e questo è un altro spettro di possibilità in quello che chiamiamo essere donna. E ci sono donne trans che sono donne in molti modi, che sentono con forza che questo è esattamente ciò che sono socialmente e psicologicamente, e vogliono vivere in quella categoria ma non hanno lo spazio di farlo. Non penso che quelle che sono sessualmente donne debbano rifiutare di fare figli o di sposarsi, non lo direi mai, ma ci sono lesbiche che vogliono sposarsi e questo va bene, e ci sono trans che vogliono avere figli e sposarsi e questo va bene, e se non vogliono sposarsi e avere figli potrebbero comunque essere coinvolte nella cura dei figli con altre persone, non dobbiamo prendere una sola scelta e renderla una norma per tutti, questa sarebbe una forma di violenza simbolica.

Lo sarebbe senz’altro. Ma non bisognerebbe perdere di vista una critica della famiglia come luogo in cui si organizzano rapporti di oppressione e di dominio. Se guardiamo la cosa dal punto di vista della libertà individuale è certamente necessario mantenere l’apertura che hai appena descritto. Ma istituzioni come il matrimonio e persino la scelta, certamente personale, della maternità vanno anche pensate in relazione al loro significato sociale, ai ruoli che prescrivono alle donne ed è in questo senso che sono state oggetto della critica femminista. Proprio questo cercavo di dire all’inizio: le donne in un certo modo hanno la possibilità, proprio perché si suppone che occupino certe posizioni, di criticare quelle istituzioni in quanto riproducono rapporti sociali di potere.
Capisco questo, ma penso che le istituzioni abbiano una storia, non sono le stesse in ogni cultura e contesto storico. Per esempio, se il femminismo vuole essere globale è estremamente importante che veda che non tutte le donne si muovono in una cornice di libertà individuale come in Europa, che ci sono diversi rapporti di connessione familiare e parentela che allargano la famiglia, e che questa non ha solo la forma della famiglia nucleare. Se pensiamo alla parentela e alla famiglia nucleare come una modalità di parentela tra le altre, e a relazioni di sostegno diverse dalla famiglia nucleare, partire da un modello occidentale è un’ingiusta imposizione culturale. Non mi interessa la questione della scelta personale e individuale, mi interessa di più che cosa è invivibile, è una cornice diversa, perché per alcune persone non sarebbe vivibile la struttura familiare o la struttura di parentela allargata, mentre per altre persone è l’unico modo per sopravvivere e fiorire, e altre persone vivono forme di ambivalenza fortissime nella struttura familiare, come uomini che si prendono cura della casa o curano i figli o sono in rapporti che non dipendono dalla divisione sessuale del lavoro. Ci sono alcune persone che stanno attivamente ristrutturando questi rapporti e ci stanno riuscendo in qualche misura, le famiglie lesbiche e gay non sono famiglie tradizionali, sono famiglie miti, ci sono madri dal primo matrimonio o dal secondo matrimonio, con un padre gay, le relazioni di amicizia possono dare strutture di parentela più elaborate. Non penso che possiamo risalire a Engels per trovare la famiglia come una struttura oppressiva che rimarrà sempre tale, l’analisi strutturalista non ci permette una concezione storica della famiglia, e io penso che ci serva un’analisi che ci permetta di capire come questa istituzione funziona.

Sono d’accordo che non si possa prescindere dalle condizioni storiche in cui si articola la critica alla famiglia. Ma mi pare anche piuttosto chiaro che nelle condizioni attuali, in Europa e non solo in Europa, il neoliberalismo sta riportando al centro una concezione tradizionale della famiglia, e quindi prescrivendo alle donne una specifica posizione, perché si tratta di una struttura fondamentale di riproduzione della società, tanto più in un contesto in cui la fine di ogni politica sociale impone un’assoluta individualizzazione delle responsabilità per la propria vita come quella che tu stessa descrivi nella tua riflessione. Mi pare che questo renda necessaria una critica femminista della famiglia e non solo l’idea che debba essere allargata a figure che non rientrano nel suo modello.
Capisco quello che dici e possiamo complicare ancora di più questa situazione perché abbiamo un femminismo neoliberale, abbiamo Hillary Clinton, lei si è fatta da sola, è un autoimprenditrice, vuole che le donne avanzino negli affari, che facciano le piccole imprenditrici, si è forse preoccupata se la cura dei figli sia finanziata e non sia soggetta a tagli e coinvolta in politiche di austerità? Avrebbe dovuto! E invece è con i Clinton che sono cominciati i tagli ai welfare e l’abbattimento di tutto quello che è rimasto della socialdemocrazia negli Stati uniti. Molte donne non hanno votato per lei, molte donne nere non si sono sentite rappresentate da lei, molte donne bianche povere non si sono sentite rappresentate da lei, il suo femminismo è completamente centrato sull’autoavanzamento e questo è l’obiettivo neoliberale.

Questo è stato un punto ampiamente dibattuto nell’accademia negli Stati uniti quando Nancy Fraser ha sostenuto che il femminismo è diventato l’ancella del neoliberalismo, e che questo è accaduto nel momento in cui le identity politics hanno preso il posto delle istanze di redistribuzione della ricchezza durante gli anni ’80.
Penso che anche qui dobbiamo distinguere il femminismo che è diventata una politica ufficiale di Stato, anche se per certi versi non lo è più, non abbiamo più femminismo nelle istituzioni e nemmeno donne, è stato un colpo di coda durissimo. Ma molti aspetti del femminismo socialista, del movimento delle donne contro la violenza, o dei movimenti contro la povertà che in modo sproporzionato colpisce le donne non sono stati ascoltati dal femminismo ufficiale. Ed è una pena vedere come il femminismo sia stato incorporato, ne saranno forse contente le femministe liberali, che sono soprattutto o esclusivamente bianche, ma la critica del liberalismo o del neoliberalismo non è certo esaurita.

Questo ci riporta alla capacità dei movimenti di consolidarsi. Nelle tue note sulle assemblee hai molto insistito sul fatto che le assemblee sono temporanee, contingenti, e sottolinei che ciò non è necessariamente un limite perché possono accadere in ogni momento. Questa idea di contingenza o transitorietà come si confronta con il problema della continuità e dell’organizzazione delle assemblee? Se la contingenza è il modo di essere delle assemblee, non c’è il rischio che solo la loro rappresentazione nelle istituzioni possa dare loro continuità?

Oltre alla temporaneità io ho sottolineato che le assemblee possono articolare un certo tipo di critica. Per esempio anche lo sciopero delle donne dell’8 marzo ha articolato dei principi, per cui il punto diventa come quei principi sono tradotti in pratiche e organizzazione e movimento. Penso che il grande momento pubblico abbia un’importanza quando i principi che annuncia sono raccolti da altri tipi di movimento che magari non sono così spettacolari e pubblici. Ma c’è un altro punto che mi interessa sottolineare: un’assemblea che dura molto tempo diventa un accampamento, o magari un’occupazione, che dura più tempo o si allarga e può diventare un movimento sociale e anche una lotta rivoluzionaria. A seconda da quanto spesso accadono, da quanto grandi diventano, da quanto a lungo durano, puoi tracciare il modo in cui ciò che comincia come un piccolo gruppo di persone che si riunisce può trasformarsi nel tempo e nello spazio in un più largo e sostenuto movimento sociale. Questo mi interessa e mi porta a pensare allo sciopero generale, non uno sciopero per un giorno, non «oggi non lavoriamo», ma «non lavoreremo più finché non cambiano le condizioni», non solo questo giorno ma ogni giorno finché queste condizioni sono mantenute. Lo sciopero generale è il rifiuto di un regime, di un’intera organizzazione del mondo, della politica, di un regime di apartheid, di un regime coloniale, li abbiamo visti abbattuti dai movimenti di massa. So che la gente dice che i movimenti non possono fare niente, invece lo fanno, sbagliamo a sottovalutare il potere dei movimenti di massa, ma ci vuole tempo per accumulare e la gente deve avere più di qualche slogan per andare avanti, devono sapere che ci sono principi, un’analisi, per potersi considerare parte di quello che sta succedendo e che quello che accade in una parte del mondo è connesso a quello che succede da un’altra parte. Se pensiamo alle popolazioni che sono rese precarie dalle politiche economiche neoliberali, o da governi autoritari, o dalla decimazione dei beni pubblici, dei sussidi, dell’educazione, della salute, ci sentiamo molto soli finché non realizziamo che altri stanno facendo esperienza dell’accelerazione e intensificazione della povertà o dell’abbandono o della perdita del lavoro. Deve essere chiaro che questo accade sul piano transnazionale e deve essere messo in termini che la gente possa capire, perché possa riconoscere l’ingiustizia della propria sofferenza. C’è il pericolo che la gente pensi che la propria situazione è solo un problema locale, quando invece ha una dimensione transnazionale. E se possiamo tornare indietro alla lotta al femminicidio, quella è un’enorme ispirazione per me, perché ci sono statistiche terribili su quante donne e quanti trans sono uccisi in un posto come l’Honduras, che forse ha le statistiche peggiori, in Brasile in Argentina, sono statistiche sconcertanti, ma lo sforzo di costruire network tra le donne e quelli che si oppongono ai femminicidi è impressionante. Mi rendo conto di quanto duro debba essere leggere quelle statistiche, riunirsi e fare un’analisi che la gente possa accettare e quanto è stato importante per quel movimento essere prima di tutto interamericano, e che i tribunali abbiano dichiarato il femminicidio un crimine. Il problema è che la polizia in tutti quegli Stati non ha nessuna intenzione di farsi carico del crimine e riconoscerne l’importanza, e spesso arrestano le donne che denunciano, è un terrorismo di Stato inflitto a coloro che portano questo problema in pubblico, perché la struttura del patriarcato locale e le alleanze patriarcali tra la polizia e lo Stato sono molto forti. Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato, in cui si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani e si rivolgono alle corti interamericane e producono alleanze transnazionali non dipende dal potere dello Stato, ma chiede conto allo Stato della sua complicità. Penso che questo sia enormemente interessante, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale, quindi penso che dovremmo studiare questi movimenti e trarne ispirazione. Forse non sono ancora riusciti a porre fine a questa pratica atroce, ma hanno allargato la possibilità di farsi ascoltare, ora il mondo sa che cosa accade, e hanno prodotto network per supportarsi e sviluppare impressionanti pratiche di resistenza.

I

l trattato per il commercio tra Unione europea e Canadà ha gli stessi contenuti del TTIP: privilegia gli interessi economici delle aziende ai diritti sociali e ambientali dei cittadini: la democrazia all'oligarchia dei potenti. %Attac, 30 settembre 2016.

Mentre il TTIP sembra in netta difficoltà (ma massima attenzione ai colpi di coda di una sua approvazione “light”- ministro Calenda lancia in resta- nel prossimo incontro del 3 ottobre a New York), diventa sempre più concreto il “piano B” delle grandi multinazionali e delle lobby finanziarie per far rientrare dalla finestra quello che per ora, grazie alla straordinaria mobilitazione internazionale, sembra faticare ad entrare dalla porta.

Stiamo parlando del CETA, ovvero dell’accordo di libero scambio tra UE e Canada, che il prossimo 27 ottobre verrà ufficialmente firmato per giungere al voto del Parlamento Europeo entro dicembre.

Si tratta del primo vero accordo commerciale su larga scala dell’Ue con una grande nazione occidentale, il Canada, e promette vantaggi commerciali per 5,8 miliardi di euro all’anno, un risparmio per gli esportatori europei di 500 milioni di euro all’anno (grazie all’eliminazione di quasi tutti i dazi all’importazione) nonché -ca va sans dire- 80mila nuovi posti di lavoro.

Dunque qual è il problema? Lo stesso del TTIP e di tutti gli accordi di libero scambio, che servono a mettere in sicurezza il modello liberista, ponendo definitivamente i profitti e gli interessi delle grandi imprese fuori dal Diritto e dai diritti.

Credo sia chiaro a tutti come l'approvazione del CETA, oltre che un danno di per sé, diventerebbe il vero cavallo di Troia per far passare, nei fatti prima ancora che nella normativa, il TTIP.

A CETA approvato, la maggior parte delle multinazionali americane, già attive sul territorio canadese, potranno citare in giudizio nei tribunali internazionali privati le aziende europee, avvalendosi della clausola Ics (Investment court system, ovvero il sistema giudiziario arbitrale per la difesa degli investimenti), omologo all'organismo arbitrale inserito nel TTIP.

Sarà il Parlamento Europeo a rappresentare le preoccupazioni dei cittadini? Come per tutti gli altri trattati, anche il CETA è stato negoziato con il minimo coinvolgimento dei parlamentari europei e l’accordo, composto da più di 1500 pagine, è stato reso disponibile in tutte le lingue dell’Unione solamente dal luglio 2016.

Saranno i Parlamenti nazionali a non ratificare un accordo che viola i diritti sociali e del lavoro, privatizza i beni comuni e mette a rischio la sicurezza ambientale e alimentare? Naturalmente, la gran parte dei parlamentari non sa nemmeno di cosa si stia parlando, ma nel caso avessero intenzione di informarsi per poter decidere, ecco servito per loro l'ennesimo attentato alla democrazia: è notizia recente l'appello di 41 Parlamentari europei -in prima fila Alessia Mosca del PD- che chiedono che il CETA entri in vigore senza la ratifica dei Parlamenti nazionali!!

Dovrà essere ancora una volta la mobilitazione dei cittadini a fermare il CETA, il TTIP e tutti gli accordi che vogliono che diritti, beni comuni e democrazia siano considerati variabili dipendenti dai profitti.

Sarà un autunno caldo e la mobilitazione per fermare CETA e TTIP non potrà che incrociare la battaglia per il NO al referendum costituzionale.

Perché entrambi parlano di democrazia: una cosa troppo seria per lasciarla in mano agli interessi finanziari.

Riferimenti
Per sapere che cos'è il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) leggi su eddyburg l'articolo do Giovanna Ricoveri e l'intervista a Colin Crouch.

Il Fatto Quotidiano, 1° ottobre 2016

Lorenza Carlassare, professoressa emerita di Diritto costituzionale all’Università di Padova, è stata la prima donna in Italia ad avere questa cattedra. A guardarla ha la grazia di un personaggio di un romanzo di Agatha Christie, però le cose non le manda a dire, soprattutto quando in ballo c’è la Costituzione.

La cosa che le dà più fastidio di questa retorica?
Dire che con l’approvazione di questa riforma avremo benefici economici. È una cosa semplicemente ridicola.

Lo sostengono anche molti potentati economici.
Avranno paura che cada il governo. Dimenticando che era stato Renzi a legare la sua permanenza a Palazzo Chigi all’esito del referendum.

È anomalo che un governo si intesti una riforma costituzionale?
Assolutamente, il governo non dovrebbe avere niente a che fare con la modifica della Costituzione. Anzi, dovrebbe restarne fuori, essere imparziale. Intestarsela è contro lo spirito della Costituzione.

Perché questa riforma non va bene?
Perché non è vero che porta a una semplificazione del procedimento legislativo né che viene superato il bicameralismo paritario. Così come è previsto dalla riforma avremo un Senato che non è più eletto dai cittadini ma che manterrà molti poteri, anche in campo legislativo: basti dire che parteciperà paritariamente con la Camera a un’eventuale riforma costituzionale.

Qualcuno potrebbe dire, però, che nell’approvazione della stragrande maggioranza delle leggi il nuovo Senato avrà pochi poteri.
Non è vero, se prende il lunghissimo e noiosissimo nuovo articolo 70 c’è scritto che ogni legge approvata dalla Camera deve passare dal Senato, che può proporre modifiche. A questo punto ci sono un’infinità di ipotesi, divise per materia e per modalità, che possono comportare conflitti tra le due Camere. È lo stesso articolo che prevede questa possibilità di conflitti. E aggiunge che saranno risolti dai presidenti delle due Camere in accordo tra loro.

E se non c’è l’accordo tra i due?
Non si sa cosa accadrà. Ma si rende conto che razza di complicazione?

E cosa dice sull’elezione del presidente della Repubblica?
Qui le motivazioni sono addirittura basate sul falso e sull’inganno. I fautori della riforma dicono di avere aumentato le garanzie alzando, dopo le prime votazioni, le percentuali da maggioranza assoluta ai 3/5. Però dimenticano di dire che sono i 3/5 dei votanti anziché dei componenti. Le garanzie le abbassano, altro che alzarle.

Si dice che con l’Italicum si saprà subito dopo chi ha vinto. Ma in una Repubblica parlamentare è una cosa corretta?
Assolutamente no. Spetta al presidente della Repubblica aprire le consultazioni per capire chi potrà ricevere la fiducia delle Camere, dopodiché gli dà l’incarico per chiedere la fiducia. Non si può sapere il giorno dopo le elezioni chi sarà premier. In una Repubblica parlamentare funziona così.

Secondo lei perché il premier ha forzato così tanto su questa riforma?
Lui vuole modificare il sistema per arrivare a una verticalizzazione del potere e concentrarlo attorno alla figura del premier. Così potrà decidere tutto senza essere disturbato.

«L'Espresso online, blog "Piovono rane", 1° ottobre 2016

Di dubbia utilità per chiarire agli italiani su che cosa si voterà tecnicamente il 4 dicembre, il dibattito di ieri tra Renzi e Zagrebelsky è stato invece prezioso per confrontare due approcci cognitivi alla democrazia, ai cittadini, ai media, alla politica, al passato e al futuro. E si tratta di due approcci cognitivi agli antipodi.

A destra sul nostro schermo c'era un signore - Zagrebelsky - per il quale la complessità è un valore. Bastava vedere la quantità di frasi subordinate, bastava vedere lo sforzo (spesso "fisico" e quasi sempre vano) nel tentare di sintetizzare nei tempi televisivi questioni costituzionali sempre in bilico tra il giuridico e il politico, tra la forma e la sostanza, tra il singolo articolo e il quadro complessivo.

C'era, a destra dei nostri schermi, un signore che ha dedicato una vita a spiegare che la democrazia rappresentativa non è il sistema in cui comanda chi ha più consenso in un'istantanea dell'opinione pubblica, bensì è un insieme di regole, comportamenti, soppesamenti, bilanciamenti, garanzie, limiti, collaborazioni e confronti: e questo, secondo lui, è ciò che rende migliore una democrazia diffusa da una plebiscitaria.

A sinistra c'era invece un altro signore - Renzi - che ha come visione e obiettivo la semplicità e/o la semplificazione, il superamento degli ostacoli, la realizzazione rapida di ciò che ha deciso il leader che ha preso più voti.

C'era un signore, a sinistra nel monitor, secondo il quale lo scopo di una riforma costituzionale è il superamento dei (troppi, secondo lui) intralci che la democrazia disegnata dai nostri padri costituenti pone al leader della parte che ha vinto le elezioni, anche se le ha vinte di un solo voto e con una maggioranza solo relativa.

Questa dialettica è stata la cifra - a volte sottintesa - di tutto il confronto, la cui natura mediatica ha ovviamente consentito al secondo di maramaldeggiare: la televisione è infatti per antonomasia il luogo della semplificazione, a iniziare proprio dalla banalizzazione del messaggio, dal tempo ridotto in cui lo si deve comunicare, dal reperimento della frase concisa e sintetica che attira l'attenzione del telespettatore e gli resta dentro.

La televisione è il luogo-medium nel quale la semplicità è regina, anzi è essa stessa semplificazione in sé, per natura: quindi è del tutto contronatura farvi passare una teorizzazione del valore della complessità.

La vittoria mediatica di Renzi è stata pertanto evidente e abbastanza strabordante, direi. Al netto forse di qualche strafottenza di troppo, di qualche paraverbale che per artificiosità e arroganza gli ha creato saltuari effetti boomerang nella ricerca della simpatia, ma si sa che Renzi è fatto così e non lo si cambia.

Se però usciamo dalla logica del ring e del chi "ha vinto", è stato interessante vedere - in controluce, dietro quei due signori, dietro le loro diverse convinzioni e modalità espressive - tutta la crisi della democrazia contemporanea, dagli Stati Uniti all'Europa: un sistema di autogoverno dei cittadini che la cultura occidentale ha elaborato in diversi secoli, con molta fatica e molto sangue, e che adesso attraversa una crisi epocale, svuotata com'è da poteri, meccanismi e dinamiche che nessuno ha eletto.

E l'aspetto interessante stava nelle due diverse risposte a questa crisi: da un lato Renzi, convinto che il problema consista nell'insufficiente perimetro decisionale del leader eletto, quindi nell'eccesso di "intralci"- cioè di distribuzione e bilanciamento dei poteri; dall'altro Zagrebelsky, secondo il quale proprio perché la democrazia decide sempre di meno bisogna renderla più diffusa, più orizzontale, più partecipata, più condivisa, in altre parole più abitata da ciascuno di noi, meno regalata a un "capo".

"Capo" del resto è stata la parola-boa del confronto, a un certo punto.

Con Zagrebelsky che faceva notare come per la prima volta questa parola viene inserita nelle norme fondanti di una democrazia, mentre secondo lui in democrazia non ci deve essere un "capo" come tale, bensì un servizio per la garanzia di tutti; Renzi invece che la difendeva, quella parola, soprattutto dal punto di vista dell'efficacia decisionale, ma anche da quello della legittimità democratica, in quanto capo eletto. In quanto "unto dal Signore", si diceva un ventennio fa, laddove "il Signore" era il popolo, quindi conferiva piena legittimità democratica al comando.

Tutto questo, appunto, pone domande che travalicano i nostri confini, e che hanno a che fare con tutta la crisi delle democrazie rappresentative, con la personalizzazione-concentrazione della politica ma anche con l'utopia-distopia opposta, quella cioè basata sull'assemblea permanente dei cittadini-decisori nell'agorà digitale.

Tutto questo è stato culturalmente prezioso, si diceva: tuttavia mi pare che ieri sera abbia avuto a che fare un po' marginalmente - diciamo, "come sfondo" - con i contenuti della riforma Boschi.

La quale riforma ha soprattutto alcune caratteristiche discutibili che in parte ieri sera sono emerse ma in parte no (almeno se non vogliamo credere che il suo ubi consistam sia nel risparmio di qualche stipendio e nell'abolizione del Cnel).

Ad esempio, l'allontanamento dei cittadini dalla rappresentanza e dai luoghi della decisione. Il Senato - con tutti i poteri che gli sono rimasti, tutt'altro che indifferenti - verrebbe scelto dal ceto politico anziché dagli elettori. E questo è un punto non irrilevante: perché se anche accettassimo l'idea che il "capo" debba avere meno intralci, non pare il massimo considerare tra questi intralci anche i cittadini. Un allontanamento, peraltro, confermato dall'aumento di numero di firme necessarie per una legge di iniziativa popolare.

Altrettanto marginalmente - a parte un passaggio quando davanti alla tivù eravamo rimasti in pochi malati di politica - è emersa la questione del nuovo pezzo di classe dirigente con doppio incarico, amministratori locali e senatori della Repubblica: il che nel migliore dei casi significa che questi svolgeranno male uno dei due incarichi, nel peggiore dei casi vuol dire che tra gli amministratori locali si cercherà di diventare senatori per carriera, per status, per traffico di influenze, per ottenere l'immunità parlamentare.

Ma quello che è emerso in modo ancora meno chiaro è il grande paradosso di questa legge, cioè il maggior livello di complicazione dei meccanismi legislativi, determinato sia dall'articolo 70 sia dal nuovo rapporto Stato-regioni. Riuscire a diminuire la partecipazione dei cittadini aumentando il livello di complicazione legislativa è un record tutto italiano e (altro paradosso) è esattamente frutto di quella cultura da azzeccagarbugli che Renzi ha attaccato per tutta la serata.

Infine, grazie al recente cambiamento di rotta voluto da Renzi, non si è di fatto potuta affrontare la questione del sistema di rappresentanza complessivo che emergerebbe dalla riforma Boschi e dalla futura legge elettorale, insieme. Perché il mix tra Italicum e Senato boschizzato era una cosa da brividi, ma adesso il premier si fa forte del fatto che l'Italicum verrà cambiato, quindi non accetta critiche sul "combinato disposto". Peccato che non si sappia comeverrà cambiato, quindi andremo a votare una riforma costituzionale i cui effetti saranno diversi a seconda della legge ordinaria che verrà fatta dopo, per l'altro ramo del Parlamento.

Andremo a votare, in sostanza, senza avere gli strumenti per sapere quali effetti reali avrà il nostro voto: e anche questa impossibilità di conoscere le conseguenze della nostra scelta dà la misura della sempre maggiore sottrazione di potere ai cittadini, dell'allontanamento tra elettori e decisioni reali.

Non so se tutto questo sarebbe potuto emergere, in televisione, per i motivi di cui sopra.

Probabilmente no.

Il che fa venire il dubbio che il referendum del 4 dicembre sia - culturalmente parlando - anche un referendum su questo: cioè sul valore o disvalore della semplificazione estrema, della "SpotPolitik" (cit. Giovanna Cosenza), della politica post-verità o di messaggi iperpopulisti e distorsivi come questo - peraltro non esclusivi di Renzi, sia chiaro, ma trasversalissimi.

Ecco, forse evitare di precipitare lì - nello "stiam diventando tutti più scemi" cantato da Gaber - è perfino più importante che schivare il pasticcio della Boschi.

12 COMMENTI 8
Eparrei
1 ottobre 2016 alle 11:40

Può essere, ma io lo vedo come un effetto della mancanza di informazione corretta. Siamo in pieno mito della caverna platoniano, insomma. Occorrerebbe rompere le catene....

Piero Filotico
1 ottobre 2016 alle 11:44

Per fortuna siamo in parecchi a pensarla come te.
https://unfilorosso.wordpress.com/2016/10/01/zagrebelsky-una-lezione-di-stile-e-di-saggezza/

Cave Asinus
1 ottobre 2016 alle 12:06

Renzi è disposto a tutto per vincere, anche a passare per ignorante. Ha sentenziato che il bicameralismo paritario statunitense non è come quello italiano perché gli Stati Uniti sono una Repubblica presidenziale.

Il bicameralismo paritario è il sistema che regola l'iter di formazione delle leggi ed è indipendente dalla struttura della Repubblica. Il presidente degli Stati Uniti è titolare solo del potere esecutivo (art. 2 Cost.), il potere legislativo è interamente nelle mani del Congresso (art. 1 Cost.), l'equivalente del Parlamento dei Paesi europei, composto dalla Camera dei rappresentanti e dal Senato, entrambe elette a suffragio universale.

Negli Stati Uniti come in Italia un testo per diventare legge dev'essere approvato alla stessa maniera sia dalla Camera dei rappresentanti che dal Senato. Lo shutdown che paralizzò il Congresso nel 2013 fu causato dal mancato accordo tra le due Camere sul provvedimento Obamacare. Inoltre la Costituzione degli Stati Uniti è "vecchia" di oltre 200 anni.

Renzi ha detto una sciocchezza ed è passata solo una settimana dall'altra freddura "chi vota No mantiene il finanziamento ai partiti", già aboliti da Letta e non disciplinati in nessuna parte della Costituzione. Ovviamente non poteva mancare l'altra pubblicità ingannevole sui 500 milioni di risparmio che nessuno ha certificato. L'unico risparmio documentato è quello della Ragioneria dello Stato ed è pari - sudditi: udite, udite - a 57,7 milioni. Le Province, altro pilastro dell'apostolato governativo, sono già state "abolite" (leggasi sostituite dalla Città metropolitane).

«“Se ci limiteremo a fare dell’accoglienza”, ha concluso Barbara Spinelli, “non li avremo veramente salvati, ma avremo solo suggellato il loro sradicamento”».

Il blog di guidoviale, 30 settembre 2016 (c.m.c.)

Sabato scorso a Milano quasi quattrocento persone, in due sale tra loro distanti e collegate in streaming (Palazzo Reale e Camera del lavoro: una sola non bastava a contenere tutti), hanno seguito per l’intera giornata il convegno "Il secolo dei rifugiati ambientali?" Promossa da Barbara Spinelli con il gruppo parlamentare europeo GUE/NGL, l’iniziativa è stata organizzata dalle associazioni Laudato sì – Credenti e non credenti per la casa comune, CostituzioneBeniComuni e Diritti e Frontiere con il sostegno del gruppo consiliare Milano in comune e del Centro europeo Jean Monnet.

Numero e qualità dei relatori hanno funzionato da richiamo, ma le adesioni dimostrano anche che finalmente si comincia a capire che, volenti o nolenti, questo è il tema più urgente e impegnativo del presente e degli anni a venire. Le relazioni in programma, divise in quattro sezioni, ciascuna delle quali affidata alla moderazione di una delle quattro parlamentari europee presenti, si sono succedute a ritmo serrato.

Numerosi i momenti di confronto, le valutazioni non sempre convergenti e le suggestioni che le associazioni promotrici sottoporranno nei prossimi mesi a verifica in altri incontri sui temi che questa prima iniziativa ha posto sul tappeto. E non è mai mancata, nel susseguirsi degli interventi, quella connotazione emotiva di chi mette al centro del suo impegno non solo l’elaborazione di dati e analisi, ma soprattutto l’esistenza di persone esposte a rischi e sofferenze di ogni genere, il cui destino è indissolubilmente legato al nostro modo di stare al mondo e di praticare la convivenza. Qui si accenna solo a quattro temi che hanno dominato il dibattito.

Il primo è l’ambito e la legittimità della qualifica (o “etichetta”) di “rifugiato ambientale”. La convenzione di Ginevra garantisce protezione internazionale alle vittime di guerre e persecuzioni politiche, religiose o sociali, ma non contempla questa figura. Secondo Roger Zetter dell’Università di Oxford il tentativo di estendere la stessa protezione a coloro che hanno abbandonato il loro paese a causa di disastri o del degrado ambientale crea più problemi che vantaggi: diluisce il concetto di profugo, riducendo l’esigibilità dei diritti che oggi gli vengono riconosciuti. Ma soprattutto è dubbia la verifica della condizione di profugo ambientale, perché il rapporto tra degrado ambientale ed esodo non è mai diretto; molti altri fattori si vanno ad aggiungere nel corso del tempo nel motivare l’abbandono di un paese e nel definirne le tappe intermedie.

“L’ambiente non perseguita” come fanno invece un regime o una guerra. Ciò non implica certo che non ci si debba far carico dei problemi creati a intere popolazioni dai cambiamenti climatici o dal degrado ambientale; ma il problema va affrontato con un approccio diverso da quello del diritto di asilo. A questa posizione si è contrapposto François Gemenne dell’Università di Versailles-Saint Quentin che, evidenziando l’avvento dell’antropocene, l’era geologica in cui le principali trasformazioni del pianeta sono riconducibili all’opera dell’uomo, ne trae la conclusione che a provocare l’esodo delle persone e delle popolazioni colpite da disastri o degrado ambientale non è “l’ambiente”, ma siamo noi: gli abitanti dei paesi sviluppati, con i nostri consumi, il nostro stile di vita, il nostro sistema economico, che mettono in forse la vita di miliardi di altri esseri umani. Per questo i profughi ambientali sono vittima di una persecuzione vera e propria e come tali hanno diritto a una protezione non meno di chi è perseguitato da guerre o regimi.

Il secondo tema emerso con forza è la dimensione planetaria del disastro ambientale, giunto ben al di là di quanto politici e media lascino credere, di fatto nascondendolo. Un dato messo in luce da quasi tutti gli interventi, ma soprattutto da Emilio Molinari, prendendo spunto dalle crisi idriche in corso o attese nei prossimi decenni, e da Vittorio Agnoletto, che si è soffermato sul land grabbing e sull’imposizione, tramite trattati di partenariato, di rapporti di scambio devastanti con i paesi del Sud del mondo. L’origine dei profughi ambientali è questa. La cosa era stata prevista e denunciata da tempo da esperti e agenzie varie: tra cui il Pentagono, che già nel 1994 aveva scritto che Europa e USA si dovevano attrezzare militarmente per respingere i flussi che quei disastri avrebbero provocato, pena il rischio di esserne sommersi. E’ l’individuazione nei profughi dei nemici dell’Occidente del 21esimo secolo!

I numeri li ha poi forniti soprattutto Stephane Jaquemet, delegato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati: tra l’altro, 27,8 milioni di sfollati interni (quelli che non hanno varcato i confini del loro paese) nel 2015. Guerre e violenze ne hanno creato 8,6 milioni; i disastri ambientali 19,2. Tra il 2008 e il 2014 157 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro terre e almeno un terzo di loro non ha più potuto farvi ritorno. Solo una frazione infinitesima di quei flussi ha sfiorato l’Europa, i cui governi trovano però la cosa insostenibile.

Sull’intreccio tra guerre, degrado ambientale, ma anche tra degrado e progetti cosiddetti di sviluppo, si è soffermata Marica Di Pierri, portavoce dell’associazione A Sud, mostrando come le aree interessate da questi tre fenomeni si sovrappongano quasi sempre sulla carta geografica. Francesca Casella ha citato l’intervento della cooperazione italiana con l’impresa Salini nella costruzione di un sistema di dighe nella valle dell’Omo (Etiopia) che ha provocato espulsione e massacro di un’intera popolazione: il risvolto nascosto di tante Grandi Opere.

Sul rapporto tra giustizia sociale e giustizia ambientale, cioè rispetto della Terra, della Natura, dei suoi cicli, dei suoi diritti, è intervenuto Giuseppe di Marzo, coordinatore delle campagna Miseria Ladra, Reddito di Dignità e Patto sociale per Libera, mentre il Coordinatore per l’ecosostenibilità della Cooperazione allo sviluppo Grammenos Mastrojeni ha spiegato come delle due grandi matrici ambientali maggiormente colpite dal degrado ambientale, oceani e suolo, il secondo sia quello dove è più facile intervenire perché, affidando alle popolazioni locali la gestione di progetti per restituire fertilità del suolo, se ne salvaguardia l’identità sociale, e con essa un’alternativa all’emigrazione e una possibilità di ritorno; mentre la desertificazione disgrega le comunità e rende impraticabile la coesione e la cura del territorio.

Infine, il tema dell’accoglienza è stato affrontato di petto da don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità di Milano e animatore dell’associazione Laudato sì. L’emergenza di cui si parla non è la nostra, ma è di coloro che arrivano: sono i portatori di una rivendicazione di diritti e di dignità, mentre noi li “categorizziamo” in profughi e migranti economici per poterli respingere e nasconderci l’origine del problema. La politica non riesce a vedere nei nuovi arrivati una risorsa, ma solo un problema.

Per questo occorre “deistituzionalizzare” l’emergenza, riconoscendo a tutti i diritti fondamentali di cittadinanza. Sulle politiche di respingimento fondate su accordi con le peggiori dittature, come quella eritrea di Afarwerki, che obbliga tutti a un servizio militare permanente in una guerra che dura da decenni, si è soffermato Padre Mussa Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia, e sono ritornati molti oratori; soprattutto Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto di asilo a Palermo, per denunciare il fatto che le politiche europee nei confronti dei profughi si riducono ormai tutte all’ esternalizzazione dei confini, cercando di affidare il contenimento di quell’esodo a regimi che non rispettano i più elementari diritti umani.

Elly Schlein, parlamentare europea del gruppo S&D, ha sintetizzato in un unico intervento i punti critici delle politiche dell’Unione Europea in materia; ma il senso complessivo del convegno era stato anticipato dalla relazione introduttiva di Barbara Spinelli: occorre risalire alle radici dei processi di espulsione dei profughi ambientali; rivedere le teorie economiche il cui concetto di sviluppo provoca in realtà i danni che sono all’origine di quei flussi; ma soprattutto attrezzarsi per intervenire sull’origine dei processi. Troppo spesso l’accoglienza, anche quella virtuosa praticata da molte ONG, si limita a compiti di tipo infermieristico: alleviare le sofferenze dopo che i danni sono stati provocati, invece di combatterne le cause. Addirittura ci sono ONG che si dedicano a “curare le ferite” sociali provocate dagli investimenti delle organizzazioni che le finanziano.

E’ il caso, per esempio, delle ONG che fanno capo a George Soros, investitore nel carbone e proprietario di azioni di imprese giganti come Peabody Energy and Arch Coal. “Se ci limiteremo a fare dell’accoglienza”, ha concluso Barbara Spinelli, “non li avremo veramente salvati, ma avremo solo suggellato il loro sradicamento”

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