«»: per piegarci o per ribellarci?.MicroMega online,
Per quanto formalmente il prossimo 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci su un quesito che attiene alla riforma di parti importanti della nostra Costituzione, nella sostanza andremo a pronunciarci su un tema di massima rilevanza che attiene alla ridefinizione dei rapporti Stato-mercato in Italia.
In tal senso, al di là della contingenza del dibattito politico, il referendum assume una forte valenza ideologica. Dovrebbe essere ormai chiaro che la riforma Boschi-Renzi non fa altro che accentuare il processo di messa al bando dell’intervento pubblico in economia, già in buona parte realizzato con la revisione dell’articolo 81 della Costituzione e l’introduzione del vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. È vero che nel quesito che ci verrà sottoposto non leggeremo nulla di tutto questo, ma è sufficiente leggere i rapporti delle Istituzioni finanziarie internazionali che vogliono la riforma e i testi preparatori della riforma stessa per convincersi che l’oggetto del contendere è esattamente questo. Vediamo.
1) J.P. Morgan, in un rapporto del 28 maggio 2013, scrive che la crisi dell’Unione Monetaria Europea è anche imputabile al fatto che le costituzioni dei Paesi del Sud d’Europa (e il riferimento è soprattutto alla costituzione italiana) sono fondate su “concezioni socialiste … inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”, prevedendo “governi deboli nei confronti dei parlamenti” e “tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori”.
Il fatto che la riforma costituzionale sia eterodiretta, suggerita, se si vuol dire così, dalla finanza internazionale non dovrebbe poi destare così tanto stupore, se si ricorda che il passaggio dal Governo Berlusconi al Governo Monti fu, di fatto, la conseguenza di una lettera di ‘ammonizione’ inviata dalla BCE al Presidente del Consiglio italiano il 5 agosto del 2011. Non è qui in discussione una tesi complottistica: si tratta semplicemente di prendere atto, realisticamente, che la nostra sovranità politica non è piena, ed è sempre più limitata da ingerenze di Istituzioni estere che hanno – o possono avere – interessi economici in Italia. In sostanza, ciò che J.P. Morgan chiede è maggiore ‘governabilità’.
2) E il tema della maggiore ‘governabilità’ lo si ritrova nei documenti preparatori delle riforma, laddove si legge che “la stabilità dell’azione di governo” e l’”efficienza dei processi decisionali” sono le “premesse indispensabili” per far fronte alle “sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie” e, di conseguenza, “per agire con successo nel contesto della competizione globale”. Si tratta, con ogni evidenza, di una riforma della costituzione che è configurabile come un provvedimento di politica economica, e di un provvedimento di segno neoliberista.
Del resto, se si associa la già avvenuta revisione dell’art.81, l’impostazione ‘competitiva’ ed efficientistica del nuovo testo costituzionale all’abolizione del CNEL, il quadro dovrebbe essere sufficientemente chiaro. Si badi che è vero che oggi il CNEL può essere considerato un ente inutile, ma è altrettanto vero che non lo sarebbe affatto nel caso in cui lo Stato italiano svolgesse compiti di programmazione economica, così come peraltro previsti dal testo costituzionale attualmente vigente[1].
A ciò occorre aggiungere una considerazione di carattere più generale. Se, come scritto nei documenti preparatori della riforma, una costituzione deve adattarsi ai cambiamenti economici, da ciò segue che una carta costituzionale deve avere il massimo grado di flessibilità, potendo quindi essere riscritta laddove le trasformazioni indotte da un’economia globalizzata lo richiedono.
Questo sembra essere un discrimine essenziale fra chi ritiene che le costituzioni siano atti fondativi che stabiliscono principi inderogabili di carattere generale sui quali si determina la convivenza civile e chi ritiene che la ‘modernità’ impone fondamentalmente di trattare le costituzioni come leggi ordinarie. Le recenti esternazioni del Ministro Boschi sulla possibilità di intervenire successivamente sul testo rendono chiara la visione dei nuovi costituenti.
Assunto che la riforma riflette un preciso orientamento di teoria e di politica economica, occorre chiedersi: cosa significa, o cosa potrà significare, intervenire sul testo vigente per “agire con successo nel contesto della competizione globale”? La risposta la si ritrova nella propaganda che l’attuale governo sta conducendo per l’attrazione di investimenti, laddove si esplicita che è conveniente per le imprese estere investire in Italia perché nel nostro Paese i salari sono “competitivi” (leggi: bassi).
E la si ritrova anche nella Legge di Bilancio in discussione in Parlamento, i cui principali contenuti riguardano ulteriori misure di smantellamento dello stato sociale (riduzione dei finanziamenti per il servizio sanitario nazionale, riduzione degli stanziamenti per il sistema pensionistico), ulteriori misure di moderazione salariale e di compressione dei diritti di lavoratori, ulteriori sgravi fiscali alle imprese[2]. E dunque: la sola reale ragione per votare SI sta nella speranza che queste misure incentivino l’attrazione di investimenti in Italia.
Si tratta di una speranza dal momento che nessun provvedimento recente che si è mosso in questa direzione (in primis, l’abolizione dell’art.18) ha conseguito il risultato desiderato. Anzi: come ha messo in evidenza, di recente, il Governatore della Banca d’Italia, a partire da settembre l’Italia ha sperimentato un notevole deflusso di capitali finanziari (con un saldo netto negativo nell’ordine dei 354 miliardi negli ultimi due mesi) e, per effetto della produzione politica di incertezza, derivante dal fatto che questo Governo ha bloccato e spaccato il Paese sul quesito referendario per quasi un anno, lo spread sui titoli di Stato tedeschi, nel corso del mese di novembre, ha raggiunto quota 172: la soglia più alta dal luglio 2015.
Si osservi che l’aumento dello spread è del tutto indipendente dalla stabilità politica, se solo si considera il fatto che la Spagna ha visto ridursi i differenziali dei tassi sui suoi titoli pubblici rispetto ai bond tedeschi pur essendo molto faticosamente arrivata alla costituzione di un nuovo Governo dopo mesi di vuoto politico.
Che si cerchi di fuoriuscire dalla lunga recessione riscrivendo 47 articoli della Carta Costituzionale, peraltro in modo estremamente confuso, è l’ennesimo triste segnale dell’inettitudine di questo Governo e del fatto che l’Italia, ad oggi, è il vero malato d’Europa.
NOTE
[1] Sulle funzioni del CNEL, e sugli irrisori risparmi che deriverebbero dalla sua soppressione (dal momento che i suoi dipendenti non verrebbero licenziati in caso di vittoria del SI), si rinvia, fra gli altri, a Forexinfo, CNEL: cos’è e quanto ci costa, 3 novembre 2016. Si può anche osservare che l’argomento del risparmio dei costi della politica, ammesso che una Costituzione vada riformata per questo obiettivo e ammesso che il risparmio sia rilevante, è parte integrante di una visione delle funzioni dello Stato per la quale l’azione pubblica è sempre e necessariamente fonte di spreco. Il che è smentito dal dato di fatto per il quale, anche seguendo questa logica, con la Costituzione vigente (e contro l’argomento per il quale la ‘clausola di supremazia’ comporterebbe risparmi derivanti dai minori contenziosi Stato – Regioni) i maggiori risparmi – da quando sono state avviate le prime operazioni di spending review - sono stati conseguiti dagli Enti locali (circa il 30%, a fronte di circa il 12% dello Stato centrale nelle sue amministrazioni).
[2] Si veda http://www.flcgil.it/attualita/legge-di-bilancio-2017-misure-dal-sapore-elettorale-il-nostro-commento.flc
«La violenza sessuale maschile è un fatto sociale globale, l’espressione più brutale di un rapporto patriarcale di dominio che, in forme aggiornate all’ordine neoliberale, pretende di assoggettare le donne in quanto donne agli imperativi della produzione e della riproduzione sociale».
connessioniprecarie, 21 novembre 2016 (c.m.c.)
È in corso una sollevazione globale delle donne. Per lo più al di fuori dei circuiti organizzati e riconosciuti, con l’impeto improvviso della loro rabbia e delle loro aspirazioni, con una costante presenza di massa, in luoghi del mondo e in momenti distanti e diversi, le donne alzano la testa e la voce.
Il 26 dicembre 2012 in India, in seguito all’ennesimo stupro di una studentessa, centinaia di migliaia di donne sono scese in piazza per far sentire il proprio urlo di protesta. A febbraio del 2014 in Spagna le donne sono insorte contro il progetto del governo di restringere drasticamente il diritto di aborto, suscitando una mobilitazione transnazionale al loro fianco. Il 3 ottobre 2016 la Polonia è stata scossa dal primo sciopero delle donne contro le politiche antiabortiste di un patriarcato neoliberale che pretende di imporre un comando assoluto sui loro corpi.
Solo due settimane dopo in Argentina e in molti paesi dell’America del sud centinaia di migliaia di donne hanno imbracciato l’arma dello sciopero e si sono riversate nelle strade per far valere la loro presenza e la loro forza collettiva in seguito all’ennesimo, brutale stupro e omicidio di una ragazza che si è vista strappare il futuro da un gruppo di uomini. Proprio in queste ore in Turchia sta montando la protesta contro la proposta di legge volta a legalizzare lo stupro delle bambine attraverso il ‘matrimonio riparatore’.
La violenza sessuale è l’ultima risorsa di cui dispone il patriarcato per conservare con ogni mezzo necessario l’ordine produttivo e riproduttivo della società. In modi diversi e in ogni luogo del mondo, però, le donne si stanno ribellando contro la «cultura dello stupro» che vorrebbe fare dei loro corpi e delle loro vite oggetti pienamente disponibili. Le donne stanno obbligando gli uomini a una presa di posizione chiara, mostrando che la battaglia contro il patriarcato non è una «questione femminile», ma investe l’ordine globale della società.
In questo contesto globale, la manifestazione organizzata in Italia il 26 novembre è un’opportunità che va ben oltre la semplice partecipazione alla giornata internazionale contro la violenza sulle donne. È l’opportunità di produrre uno schieramento a partire dalla rabbia delle donne, dalle loro aspirazioni, dal rifiuto incondizionato della violenza sessuale come espressione più estrema, eppure per niente eccezionale, del dominio patriarcale.
In questo contesto, invocare una manifestazione separatista per proteggere le donne dai maschi violenti o di alcuni che si presume siano pronti a innescare lo scontro di piazza ‒ come alcune hanno fatto in nome di un femminismo di origine controllata ‒ significa rinunciare all’ambizione di obbligare anche gli uomini a una presa di posizione contro l’ordine di cui sono i principali beneficiari, agenti e rappresentanti.
Il problema non è verificare il significato storico e attuale del separatismo, ma di riconoscere la sfida globale raccolta dalle donne che il 26 novembre saranno in piazza. Eppure, mentre alcune pretendono la certificazione del femminismo d’ufficio, altre invocano la protezione delle istituzioni facendone l’unico luogo nel quale si può esprimere la piena cittadinanza delle donne. Il culto delle istituzioni e la paura dell’eventuale antagonismo della piazza ‒ che per loro a quanto pare è più rilevante dell’insubordinazione quotidiana e globale delle donne ‒ hanno così portato alcune donne ad annunciare la loro assenza dalla manifestazione del 26 novembre.
Probabilmente chi ha fatto questa scelta coltiva rapporti con istituzioni diverse da quelle che hanno azzerato i fondi destinati ai centri antiviolenza e ne hanno sgomberati alcuni con la forza, istituzioni molto migliori di quelle che vogliono legalizzare lo stupro in Turchia, istituzioni più democratiche di quelle che hanno risposto coi manganelli alle migliaia di donne scese in piazza in Argentina, istituzioni più giuste di quelle che tutti i giorni, in ogni parte del mondo, mettono sul banco degli imputati le donne che denunciano una violenza subita. La rivendicazione di un’assoluta differenza e la preventiva neutralizzazione istituzionale del 26 novembre non colgono cosa è evidentemente in gioco nella lotta globale che stanno portando avanti le donne.
Quella del 26 novembre non sarà una piazza ‘pura’, priva di contraddizioni, unita da un afflato femminile alla cura, alla relazione e alla non-violenza, ma sarà nondimeno una piazza che punta a coinvolgere in massa le donne per rendere visibile la guerra sessuale che viene quotidianamente combattuta contro di loro.
L’ispirata ricerca dell’autenticità femminile lascia poco spazio a conflitti e contraddizioni, quasi che avere un corpo di donna sia di per sé sufficiente a far valere una differenza politica. Le molte donne che negli Stati Uniti hanno votato Trump nonostante la sua aperta professione di fede maschilista dovrebbero però metterci in guardia contro queste illusioni naturalistiche. Noi sappiamo che non è un’impresa facile creare uno spazio di parola e visibilità per le donne che ogni giorno nelle case, per le strade, sui posti di lavoro fanno esperienza della violenza maschile o della sua costante minaccia, dello sfruttamento e dell’oppressione cui le costringe il regime transnazionale di divisione sessuale del lavoro, dell’ingiunzione al silenzio che impone sulle loro ambizioni l’ordine neoliberale con la sua pretesa di mettere a profitto i loro corpi fertili.
Il risultato del percorso di organizzazione che porterà al 26 novembre non è scritto, ma quel percorso esprime l’urgenza di offrire a tutte queste donne l’occasione di una presa di parola non come vittime, non come cittadine, non come genuine portatrici di valori alternativi ricamati in qualche salotto filosofico, ma come parte attiva di una battaglia per il potere che si combatte sui loro corpi. Queste stesse donne, però, rischiano costantemente di essere messe a tacere anche da chi tratta la violenza maschile come una delle molteplici forme di violenza di genere cui ogni individuo sarebbe costantemente sottoposto per il solo fatto di avere un corpo.
Benché i più avvertiti registrino la differenza tra uno stupro e la «violenza epistemica» subita da chi non si riconosce nei ruoli imposti dall’ordine eterosessuale, la definizione «violenza maschile contro le donne» non è il frutto di un arrendevole cedimento alla «matrice binaria» che regola il rapporto tra i sessi. Essa indica la continua pratica di potere che pretende di ridurre le donne a oggetti pienamente disponibili, a prescindere dal loro orientamento sessuale.
Non si tratta di negare l’esistenza di molteplici forme di discriminazione, né di stabilire un’equazione naturalistica tra il maschio e lo stupratore, ma di riconoscere che ogni volta che una donna è stata picchiata, stuprata e uccisa è stato un uomo a farle violenza. E questa violenza diventa una reazione tanto più feroce quanto più le donne in ogni parte del mondo, nelle più diverse condizioni, individualmente oppure in massa dimostrano di non essere disponibili a subirla docilmente. La violenza sessuale maschile non è la manifestazione contingente di un’astratta norma eterosessuale che agisce indifferentemente su tutti gli individui e che produce le loro differenze. La violenza sessuale maschile è un fatto sociale globale, l’espressione più brutale di un rapporto patriarcale di dominio che, in forme aggiornate all’ordine neoliberale, pretende di assoggettare le donne in quanto donne agli imperativi della produzione e della riproduzione sociale.
Se il 26 novembre ci offre l’opportunità di far sentire la nostra voce contro questo sistema di dominio, unendoci alla presa di parola di milioni di donne nel mondo, lo scontro che anima siti e social network italiani attorno al suo ‘vero’ significato rischia di oscurare e magari di vanificare quest’opportunità. Non c’è alcuna disponibilità alla discussione e alla contestazione, ma solo fazioni irreggimentate lungo confini tra generazioni e pratiche politiche che poco o niente dicono e permettono di dire alle donne che ostinatamente cercano di dare al proprio corpo e alla propria vita un ruolo e un significato diverso da quelli ai quali le obbliga il patriarcato neoliberale.
Le parti in causa si compiacciono di costituire piccole comunità di eletti a cui è dato decifrare il gergo delle ideologie mainstream (e ormai mainstream indica solamente chi la pensa diversamente da quella o quello che parla o che scrive), identificandosi attraverso un like. Intanto, per fortuna, ci sono moltissime donne che al grido «Non una di meno» stanno creando le condizioni perché il 26 novembre siano protagoniste anche coloro che da quelle comunità sono ben distanti, che non agiscono secondo i canoni certificati della «differenza» o del «genere», ma più ambiziosamente potrebbero infine riconoscersi politicamente a partire dal rifiuto della loro oppressione.
Questo rifiuto, probabilmente, non sarà in grado di esprimere e generare un nuovo ordine simbolico femminile, finalmente pacificato da ogni scomodo antagonismo, e neppure un nuovo universalismo nel quale, in un tripudio pluralistico, molteplici identità equivalenti potranno infine coalizzarsi. Eppure, esso può indicare la strada di una pratica femminista che è tale perché cerca di produrre per tutte le donne la possibilità di far valere politicamente, in un gesto di sovversione, la differenza specifica di cui ogni giorno fanno esperienza a partire dal proprio corpo.
La posta in gioco di questo femminismo possibile senza ipoteche e senza tutele è questa: essere parte di una sollevazione globale delle donne contro la violenza, per una presa di potere e di parola tale da obbligare ciascuno a schierarsi dalla parte delle donne.
. il manifesto, 23 novembre 2016 (c.m.c.)
La festa è finita, adesso pensiamo alle cose serie. Soldi e potere, non necessariamente in quest’ordine. Donald Trump è andato in televisione per delineare il suo programma di governo, interessante soprattutto per le cose che non ha detto. Non ha parlato del muro al confine con il Messico. Non ha parlato del divieto per i musulmani di entrare negli Stati uniti. Né di deportazioni di massa. Per queste tre promesse elettorali ci sarà tempo. Ciò di cui ha parlato sono le cose che non richiedono un voto da parte del Congresso.
Nell’elenco: ritiro dai negoziati del trattato di libero scambio Tpp, cancellazione delle restrizioni alla produzione di petrolio e carbone, deregolamentazione (che interessa soprattutto le banche, non a caso le grandi beneficiarie dell’ottimismo di Wall Street dopo le elezioni). Quello che Trump prepara per i suoi quattro anni di mandato è un sequel della presidenza Reagan 1981-1985: tagli delle tasse per i milionari, spesa per le infrastrutture, atteggiamento aggressivo verso i partner commerciali (ora ce lo siamo dimenticato, ma Reagan introdusse sanzioni e manipolò il valore del dollaro contro il Giappone, l’amico/nemico di allora).
I repubblicani in Congresso, dopo aver fatto ostruzionismo per otto anni contro i progetti di Obama di riparare strade, ponti e ferrovie, ora sembrano pronti a dimenticare tutti i discorsi sui terribili pericoli del deficit di bilancio e a spendere per creare buoni posti di lavoro.
Quello di Reagan era un «keynesismo militare», quello di Trump potrebbe essere un «keynesismo edilizio», basato sulle consuete ricette dei palazzinari: abolizione o aggiramento dei vincoli ambientali e urbanistici, via libera alla finanza creativa, incentivi fiscali a pioggia per le imprese. «Una truffa» lo ha prontamente definito Bernie Sanders, che pure continua a sottolineare la disponibilità dei democratici in Senato ad appoggiare un piano di ricostruzione delle obsolete infrastrutture americane, trascurate da decenni.
Si parla di investimenti per 1.000 miliardi di dollari ma è difficile che il Congresso a maggioranza repubblicana sia in grado di varare un piano così vasto in tempi brevi, anche perché Camera e Senato avranno il loro da fare per mantenere le promesse di cancellare ogni singolo provvedimento dell’era Obama. Per esempio, l’odiatissima razionalizzazione del sistema sanitario, l’Affordable Care Act, non può essere cancellato con un tratto di penna senza privare di cure 20 milioni di americani e provocare un terremoto di Borsa (la spesa sanitaria corrisponde a circa il 16% del Pil degli Stati Uniti).
Ci vorranno quindi un paio d’anni per trovare una soluzione che non sia immediatamente percepita come una catastrofe per i lavoratori a reddito medio-basso, tanto più che nel novembre 2018 si vota per Camera e Senato e le elezioni di metà mandato sono sempre difficili per il partito del presidente.
Oltre alla sanità, l’amministrazione Trump dovrà occuparsi di nominare un giudice per il posto vacante alla Corte Suprema e questo potrebbe essere più difficile del previsto se in Senato i democratici ricorreranno all’ostruzionismo, com’è prevedibile. La maggioranza repubblicana, 52 a 48, potrebbe non essere sufficiente per raggiungere l’obiettivo di ricreare una solida maggioranza conservatrice nella Corte, che è stato un tema fortemente mobilitante per gli elettori repubblicani, terorizzati dall’idea di un potere giudiziario nelle mani dei democratici per un’intera generazione se Hillary Clinton fosse stata eletta.
Le promesse elettorali sono facili, le soluzioni legislative difficili, e in materia di immigrazione tutto è ancora più complicato. Trump ha fatto degli immigrati, in particolare dal Messico, il capro espiatorio ma non è chiaro come la nuova amministrazione intenda concretamente affrontare il problema.
Spettacolarizzare le espulsioni di chi ha commesso reati non costa nulla, rimandare in America Latina centinaia di migliaia di bambini e ragazzi che hanno seguito i genitori alla ricerca del Sogno americano potrebbe essere un boomerang.
Senza contare che immigrati ci sono perché fanno dei lavori umilianti per pochi dollari al giorno: se li si caccia le lobby dell’agricoltura si faranno sentire ancora più rapidamente delle organizzazioni di difesa dei diritti civili.
bilanciamoci online, 21 novembre 2016 (c.m.c.)
Perchè questa quasi-guerra fratricida? Qual’è la ragione così urgente che ha mosso la dirigenza del Partito democratico e del Governo ad imporre una campagna referendaria su questa riforma della Costituzione, così frettolosa, così imperfetta, e soprattutto così divisiva? Perchè decenni di manicheismo da guerra fredda tra comunisti e democristiani non hanno diviso così fortemente il paese come questo referendum che cade in un tempo post-ideologico? Propongo due ordini di risposte a queste domande, uno che cerca di capire la filosofia di questa proposta di revisione, e uno che cerca di valutare l’impatto di questa campagna referendaria sulla cittadinanza.
Fatti e Miti
Hanno detto i suoi promotori che è la storia a chiedere questa riforma; lo chiedono trenta (per Renzi settanta) anni di tentativi di cambiare la nostra democrazia, troppo pluralista e assembleare, troppo orizzontale e poco attenta alla governabilità. Ma nessuno sa esattamente che cosa questo significhi, anche perchè la storia siamo noi, e quindi è il presente, questo presente, che vuole questa riforma. Figlia di questo presente, la filosofia sulla quale riposa questa riforma è poco amante dell’intermediazione, del pluralismo e di quella complessità che - ce lo siamo dimenticato? - è la società liberale e democratica stessa a generarla.
Questa filosofia riposa su due miti: velocità di decisione e semplificazione per aiutare la velocità. E si impone, o cerca di imporsi, con un metodo che è ad essi coerente: insofferente per il dissenso, violento nel linguaggio, dominatore nell’uso monopolistico dei mezzi di informazione, e plebiscitario nella forma del consenso chiesto ai cittadini. Per chi mastica un poco di filosofia politica lo scenario è Schmittiano.
Da che cosa sono supportati i miti della velocità e della semplificazione? Non da prove fattuali, ovviamente. Certo, non sul fronte della “velocità” di decisione; anche perché questo governo di coalizione ha dimostrato di riuscire in pochi giorni a sopprimere diritti del lavoro che resistevano almeno dal 1970. Velocissimo è stato anche il precedente governo Monti nell’approvare la riforma delle pensioni e addirittura nell’inserire la norma del pareggio di bilancio nella Costituzione. La velocità in queste riforme amate dai “mercati” (e molto poco digeribili per quei democratici che assegnino a questa parola un valore superiore a quello della sigla di un partito) è stata possibile la Costituzione vigente. Quindi perchè?
E che dire del mito della “semplificazione”? Se semplificare comporta approntare mezzi per l’attuazione celere delle decisione, allora il problema è risolvibile con regolamenti nuovi, sia parlamentari che della burocrazia. Perchè andare ai poteri fondamentali dello Stato? Perchè, probabilmente, il mito della semplificazione è coerente a una visione dirigistica del potere politico, che sta davvero stretto a una costituzione democratica com’è la nostra.
Semplificare può voler dire molte cose e nulla insieme. L’argomento piace molto ai populisti di tutti i continenti e tempi: e sta per superamento della fatica del dover cercare mediazioni e consensi, secondo il mito molto dirigistico di snelline le rappresentanze, di sfoltire i protagonisti dei processi decisionali, per contenere i tempi di decisione e togliere ostacoli a chi decide. È un mito ben poco democratico, e non perchè la democrazia significa perdere tempo, ma perchè, come scriveva Condorcet, non si fida di chi vuol dare più potere all’organo di decisione, il governo, un argomento di cui «sono lastricate le strade verso la tirannia».
Senza bisogno di andare così lontano come Condorcet, possiamo tuttavia nutrire seri dubbi che una semplificazione decisionale sia sicura per chi crede nel potere di controllo, limitazione e monitoraggio, ovvero sorveglianza. Chi propone questa riforma non ha un’idea molto positiva della democrazia, ritenendola troppo esosa in termini di tempo e troppo esigente in termini di controllo. Ecco perchè ci propone una riforma che depotenzia la democraticità della nostra Costituzione.
Resa meno democratica, ovvero, meno rappresentativa delle diverse istanze, territoriali o politiche, e più interessata a localizzare la sede apicale della decisione trascinando gli organismi collettivi invece di essere da questi trascinato: non a caso nella proposta di revisione ha un posto di rilievo il principio della temporalità stabilita dal Governo, che può predeterminare i tempi di discussione del Parlamento e chiedere che esso sospenda i suoi ordinari lavori per occuparsi prima e subito dei suoi decreti. L’implicita ammissione è che colpa della lentezza e della complessità sia il Parlamento, e tutti gli “organi assembleari” come con fastidio chiamano la democrazia rappresentativa i dirigisti. Contro “l’assemblearismo” è in effetti da settant’anni che gli insoddisfatti della democrazia tuonano nel nostro paese, a partire proprio dalla Consulta.
Distanza dei cittadini e poteri accentrati
La revisione della Costituzione pone inoltre problemi molto seri quanto al rapporto istituzioni e cittadini. Su questo aspetto pochi si sono soffermati e propongo qui alcune riflessioni.
Le ragioni per non sostenere questa proposta di revisione sono di vario genere: da quelle relative al merito (a come ridisegna il Senato, le funzioni delle Regioni e la relazione tra i poteri dello Stato) a quelle più direttamente politiche o di prudenza politica. Su queste seconde non si discute mai abbastanza. La Costituzione di uno stato democratico dovrebbe avere uno sguardo lungo, essere pensata in relazione non all’oggi ma a qualunque tensione o problema possa succedere domani.
Questa prospettiva ha reso la Costituzione italiana vigente un’ottima Costituzione, capace di reggere molti stress: gli anni di piombo, impedendo che le istituzioni si facessero convincere dal canto delle Sirene che chiedevano governi di emergenza, sospensione dei diritti e stato di polizia; e poi l’assalto da parte della corruzione dei partiti prima e del patriomalismo berlusconiano poi. Se l’opinione, anche politica, ha spesso tentennato, le istituzioni hanno tenuto la barra diritta perchè la Costituzione ne disegnava i poteri e le funzioni in maniera tale che nessuna di esse potesse prendere sopravvento o avere un potere superiore.
Se la nostra democrazia ha tenuto e la stabilità è stata garantita nel corso degli anni nonostante i diversi governi (un problema da attribuirsi semmai al sistema elettorale) è stato perchè le istituzioni hanno tenuto. E questo è dimostrato dal fatto che il declino di legittimità dei partiti e degli attori politici non ha scalfito la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, perchè queste non hanno dato l’impressione di essere dominate completamente dai partiti. Vi è da temere che un Senato composto per voto indiretto alimenti nei cittadini l’impressione che la loro incidenza sulle istituzioni sarà più debole mentre il potere di decisione degli attori politici più opaco e fuori dal loro controllo. Il rischio è che le istituzioni siano a poco a poco percepite come proprietà di chi le occupa; che la distanza tra istituzioni e società aumenti. E con essa che cresca il senso di illegittimità delle istituzioni.
Inoltre, pensata in funzione di neutralizzare esecutivi ingombranti (scritta in funzione anti-fascista), la Costituzione del 1948 si presenta come molto ben corazzata contro i nuovi populismi. Decentrare il potere e spezzarne la tendenza alla concentrazione (con un governo che impone i tempi e l’agenda al Parlamento) è mai come in questo tempo essenziale a fermare i tentativi di assalto che possono venire dalle forze nazional-populiste. Questo non è il tempo migliore per una Costituzione che concentra i poteri e indebolisce i controlli e il ruolo delle opposizioni.
Negli Stati Uniti ci si preoccupa in questi giorni degli effetti che potrà avere l’accumulo di potere e l’allineamento sotto un unico partito di tutti i poteri dello Stato: la Casa Bianca, il Congresso, il Senato e la maggioranza della Corte Suprema. Indubbiamente la governabilità e la velocità delle decisione saranno facilitate con l’amministrazione Trump e la sua maggioranza granitica. Ma siamo convinti che questo sia desiderabile?
Una campagna velenosa
Chi si è schierato con Renzi, leggiamo spesso sui quotidiani, ha rischiato il linciaggio morale. D’altro canto che si è schierato contro Renzi ha perso amici e si è trovato/a classificata con i Casa Pound o gli anti-sistema e con i populisti di tutte le risme. Una guerra di parole e dichiarazioni fratricida, come non si era visto neppure con la proposta di riforma lanciata dal Governo Berlusconi. Forse perché la lotta è ora tutta a sinistra o tra chi in modi diversi si sente vicino al PD, questa campagna ha avuto il sapore di una piccola guerra civile, di una guerra civile di parole. Ricordiamo il caso Roberto Benigni, il primo a scatenare questa guerra.
Rispondendo alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per ‘renziano’ confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Benigni la scorsa primavera ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: «Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto».
Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. E’ questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica. Chi non sta dalla sua parte è messo nell’”accozzaglia” degli sgradevoli.
Questa trappola ci ha impedito di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci ha fatto essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendo e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.
È da anni, da quanto Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica – con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero ad una vittoria o ad una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettaccolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.
Le ragioni a favore o contro sono spessissimo passate in secondo piano. Questo succede soprattutto oggi che siamo in dirittura di arrivo. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono mortalmente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibbiato il titolo di lacchè del potere, a chi vota Nò è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota Nò sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa di desidera innovare.
Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, sarebbe stato opportuno mettere sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: il carattere di questa nuova versione della Costituzione e gli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum (una legge dello Stato il cui peso ingombrante è stato accantonato da Renzi con la promessa verbale a Gianni Cuperlo, di rivederla dopo il 4 dicembre). Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate.
Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento ma il quaranta per cento. E’ legittimo farsi queste domane e voler discutere di queste questioni. E’ legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quando potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.
E invece, il clima è da mesi rovente, rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge – la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra. Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno alla fine resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente più colpiti da una battaglia personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Tutti ci siamo fatti e ci facciamo conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale – per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.
Quale che sia l’esito, dopo il 4 dicembre 2016 il nostro sarà un paese più diviso. Cui prodest?
«Se la misericordia,porterà a un sostanziale cambiamento di punto di vista, questo potrà scuotere davvero i pilastri che fanno della donna l’altra-altro, da venerare sugli altari e da condannare all’inferno del corpo e dell’istinto». il manifesto, 22 novembre 2016 (c.m.c.)
Non cambia strada, papa Francesco. Alla chiusura del Giubileo, licenzia la Lettera Apostolica “Misericordia et misera” e istituisce la giornata mondiale dei poveri. Nello stesso testo conferma quanto stabilito all’inizio del Giubileo: ciascun sacerdote avrà la facoltà di assolvere, nell’ordinaria confessione, senza procedure particolari, donne e medici che praticano l’aborto.
Di fatto il papa abolisce la scomunica, prevista nel Codice di diritto canonico all’articolo 1398. Bergoglio procede dritto sulla strada della misericordia, la virtù che tutti hanno imparato a conoscere nell’affannato mondo dei consumi, un mondo che pure depreca, per voce degli albergatori romani, che questo giubileo non abbia portato un incremento di guadagni.
E soprattutto nonostante le critiche interne alla Chiesa, le prese di posizione ostili. Ultimi a venire allo scoperto erano stati qualche giorno fa quattro cardinali ultraconservatori, Walter Brandmüller, Raymond L. Burke, Carlo Caffarra e Joachim Meisner, che in una lettera pubblica si sono detti preoccupati degli effetti confusivi della pastorale sul matrimonio e i divorziati. Non si preoccupa, Bergoglio, procede nella sua opera che si ispira direttamente al Vangelo.
Lo si comprende dal titolo della Lettera: «Sono le due parole che sant’Agostino utilizza per raccontare l’incontro tra Gesù e l’adultera (cfr Gv 8,1-11). … ’Rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia’». Una posizione molto chiara, anche nel merito dell’aborto: «Vorrei ribadire con tutte le mie forze che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente. Con altrettanta forza, tuttavia, posso e devo affermare che non esiste alcun peccato che la misericordia di Dio non possa raggiungere e distruggere quando trova un cuore pentito che chiede di riconciliarsi con il Padre».
E se per i praticanti il senso di quanto sostiene il Papa è all’interno della loro fede, non meno forte è l’impatto per tutti. Per la centralità del cristianesimo, nella costruzione del mondo di parole e simboli in cui siamo immersi, soprattutto in Italia. Per le domande che vengono poste.
Cosa è il peccato? Cosa il perdono? Detti così sembrano i dubbi che affliggono Pio XIII, il protagonista di The Young Pope, la serie appena conclusa che ha dato voce a parole che non risuonano più nel discorso pubblico contemporaneo. Un papa immaginario – integralmente reazionario per debolezza e paura della vita – che nella penultima puntata, proprio sull’aborto e in generale il peccato, si chiede se non condannare «tutti, tranne le donne».
In un discorso laico, fuori dal contesto della fede, appare chiaro che nella via tracciata da papa Francesco l’aborto non è più una colpa speciale, in quanto tale imperdonabile, che quindi pone fuori dalla comunità. Come altro, per esempio l’omicidio, non esclude dal contesto umano, dalla comunità dei credenti. Se questa de-rubricazione sia a tutti gli effetti un mattone rimosso, un varco che smuove la millenaria costruzione patriarcale di cui la Chiesa cattolica è parte integrante, è tutto da vedere.
Soprattutto va considerato se la misericordia, che secondo Francesco non è un’astrazione, ma pratica, vita vissuta, porterà a un sostanziale cambiamento di punto di vista. E se si scuotano davvero i pilastri che fanno della donna l’altra-altro, da venerare sugli altari e da condannare all’inferno del corpo e dell’istinto.
Come si è già detto in altre occasioni, non è questo il terreno in cui papa Bergoglio apre nuove porte. Il gesto più forte, a chiusura del Giubileo, è la giornata mondiale dei poveri, la via maestra di questo pontificato.
La sconfitta della Clinton ha il merito di mostrare innanzi tutto ciò che era evidente agli osservatori non accecati dai miti. Il bipartitismo del sistema politico americano è da tempo la più colossale finzione della democrazia rappresentativa della nostra epoca».
il manifesto, 22 novembre 2016 (c.m.c.)
La recente vittoria di Trump è anche un caso di studio per tanti aspetti illuminante. Pur nelle sue ambiguità e contraddizioni, il successo di questo personaggio eterodosso ci parla innanzi tutto di noi, delle nostre modeste capacità di lettura della società americana e del capitalismo dei nostri anni. Non si tratta dell’incapacità previsionale del risultato elettorale, che ha riguardato quasi tutti gli istituti demoscopici, ma del conformismo politico, della cecità moderata con cui non solo i gruppi di centrodestra, ma anche la sinistra tradizionale ha guardato agli Usa negli ultimi anni.
La sconfitta della Clinton ha il merito di mostrare innanzi tutto ciò che era evidente agli osservatori non accecati dai miti. Il bipartitismo del sistema politico americano è da tempo la più colossale finzione della democrazia rappresentativa della nostra epoca. Come aveva denunciato, tra tanti altri, il giornalista britannico Will Hutton, nel brillante quadro comparativo Europa vs USA.
Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società è più equa (Fazi 2003), da tempo il Partito democratico e quello repubblicano conducono la stessa politica di centro. Considerati i costi altissimi delle campagne elettorali americane, Hutton mostrava come la raccolta dei fondi da parte dei candidati dei due partiti finisse col legare il loro successo ai finanziamenti da parte del potere economico. Annacquando le pretese riformatrici del Partito democratico e integrando nell’establishment politico-economico-finanziario-militare che da decenni costituisce un unico blocco alla guida degli Usa.
Al posto della competizione si è creato un monopolio politico. Un monopolio che neppure Obama ha scalfito più di tanto. E milioni di cittadini americani lo hanno da tempo certificato disertando le urne.
Per questo quando Walter Veltroni e i suoi compagni fondarono il Partito democratico si ispiravano a una esperienza storica ormai esaurita. Hanno inseguito e raggiunto un treno finito in un binario morto. Un abbaglio non casuale, anzi rivelatore dell’incapacità di quella sinistra di afferrare ciò che stava accadendo nel corpo profondo del capitalismo contemporaneo. Così Veltroni dichiarava di non essere stato mai comunista prendendo le distanze da un rapporto privilegiato con la classe operaia. Rapporto fondativo del Pci e condizione imprescindibile per la comprensione dei fenomeni sociali.
Infatti se ci si nega l’analisi di ciò che accade al lavoro non si comprende nulla delle trasformazioni in atto nelle società. Come tanti osservatori non solo italiani, i novatori del nostro sistema politico non capirono quel che stava accadendo ai lavoratori americani. Non soltanto i jobs, anche i più qualificati, sono diventati precari, permanently temporary, permanentemente temporanei, secondo uno splendido ossimoro.
Ma una massa considerevole di operai sopra i 55 anni fu espulsa da fabbriche e servizi con le ristrutturazioni degli anni’90. La giornata del lavoro si è pesantemente allungata: «Neppure la maggioranza degli schiavi nel mondo antico – denunciò lo storico B.Hunnicutt – e i servi durante il medioevo lavoravano così duramente, cosi’ regolarmente, e così a lungo come noi» (Take back your time, 2003).
Ai primi del nuovo millennio i lavoratori americani lavoravano in media 200 ore in più all’anno rispetto ai due-tre decenni precedenti. Tutto questo ben prima della grande crisi del 2008. In realtà da tempo, chi aveva occhi per guardare, poteva scorgere l’ attacco che non solo negli Usa, ma su scala mondiale, veniva mosso al lavoro umano in tutte le sue molteplici espressioni sociali.
L’incapacità di comprendere ciò che accadeva e accade alla classe operaia americana, componente fondamentale della middle class, è diventata cronica anche negli anni di «uscita» dalla crisi. I rassicuranti bollettini riportati dalla grande stampa sul Pil che «torna a crescere» e sulla «disoccupazione ai minimi», nasconde la stagnazione dei redditi popolari, l’indebitamento crescente delle famiglie, la precarietà del lavoro e il suo sfruttamento intensivo, le disuguaglianze vertiginose, la fine della mobilità sociale. Non poteva durare la struttura del sistema politico a fronte della distruzione del blocco sociale che lo aveva fin qui sostenuto.
La vittoria di Trump è la paradossale rottura di un sistema che doveva avvenire per mano di Bernie Sanders. È evidente che i Democratici americani e quelli del Pd, sono, a vario titolo, agenti essi stessi della crisi della democrazia rappresentativa del nostro tempo. Puntare sulle cosiddette riforme, cioè sulla trasformazione del sistema politico, è un surrogato rispetto alla necessità di sanare le disuguaglianze, ridare centralità al mondo del lavoro. Il resto lo fa la sinistra radicale, capace di leggere i fenomeni, ma dispersa e divisa e perciò impotente.
«». La Repubblica,
Le pesanti minacce rivolte da De Luca a Bindi rappresentano in modo esemplare il concentrato potenzialmente esplosivo di utilizzo del linguaggio dell’odio e del sessismo. Un concentrato che si ritrova spesso sui social media, ove all’insulto pesante contro le donne, o una donna in particolare, si accompagnano minacce, inviti alla violenza altrui (il più comune è lo stupro, possibilmente di gruppo) e/o all’autoviolenza, al suicidio.
È un tipo di violenza cui sono esposte tutte le donne, a prescindere dal loro ruolo pubblico, come testimoniano anche gli ultimi drammatici fatti di cronaca, ma cui sono particolarmente esposte le donne in politica, a motivo non solo della loro maggiore visibilità, ma del loro trovarsi in un luogo e con funzioni che ancora troppi considerano non di loro pertinenza.
Lo documenta anche una ricerca dell’Unione interparlamentare (che raccoglie rappresentanti di 171 paesi), che segnala come non si tratti solo di minacce e umiliazioni verbali e sotto condizione di anonimato, ma spesso anche di veri e propri attacchi fisici. Fa specie che questa combinazione si trovi in un politico dal ruolo non marginale, visto che governa una regione, che quindi non solo dovrebbe essere capace di un linguaggio più sorvegliato di chi utilizza i social network per dare sfogo alle proprie frustrazioni e di un atteggiamento culturale e morale un po’ più civilizzato rispetto a chi sfoga il proprio livore sui social network.
Eppure, non dovremmo stupirci più di tanto. Non abbiamo dovuto aspettare l’ultima campagna presidenziale americana e Trump per vedere irrompere nel linguaggio politico questo concentrato di odio e sessismo, spesso in combinazione con il razzismo e l’omofobia.
De Luca e le sue esternazioni fuori controllo sono solo la variante “pittoresca” di un fenomeno molto più diffuso, in cui la lunga storia del sessismo in politica e tra i politici (si veda il libro di Filippo Battaglia, Sta zitta e va in cucina. Breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo) trova oggi nuovi sbocchi e legittimazione espressiva nello sdoganamento del linguaggio dell’odio anche in sedi insospettabili, persino nelle stesse aule parlamentari, in primis contro gli avversari politici.
Due politologhe torinesi, Marinella Belluati e Silvia Genetti, analizzando alcuni dibattiti parlamentari dell’ultimo anno, hanno trovato che nel 12,45% degli interventi in aula sono presenti vere e proprie espressioni di disprezzo, insulto, dileggio, squalificazione come esseri umani nei confronti di qualcuno, nella maggior parte avversari politici (negli altri casi nei confronti degli immigrati e degli omosessuali).
E quando l’oppositore attaccato/insultato è una donna, non mancano le venature anche pesantemente sessiste. Lo sanno bene Boldrini e Boschi, oltre a Bindi stessa, che il collega parlamentare D’Anna, di Ala, ha pensato bene di rassicurare dopo le minacce di De Luca con le parole «L’unico nemico dell’onorevole Bindi è madre natura», riecheggiando il non dimenticato insulto di Berlusconi.
Sessismo, razzismo e omofobia non sono automaticamente equiparabili alla violenza. Ma il sessismo, il razzismo, l’omofobia e tutte le forme di squalificazione in nome di una particolare caratteristica, costituiscono l’anticamera dell’odio e della violenza.
Quando si considera qualcuno inferiore, o non legittimato ad essere dove è, il passo verso l’aggressione è breve. Per questo si tratta di un atteggiamento inaccettabile e da fermare sempre, tanto più da parte dei politici in quanto responsabili della costruzione del discorso pubblico.
«Noi votiamo No, anche se lo stesso faranno molti altri che hanno idee politiche opposte alle nostre; non sono loro l’oggetto del voto del 4 dicembre, ma la legge fondamentale del Paese: la Costituzione italiana».
libertàgiustizia online, 21 novembre 2016(c.m.c.)
Se Gad Lerner può dire di votare Sì nonostante Renzi, altri possono dire di votare No nonostante molti di coloro che votano No abbiano idee politiche non condivisibili. In altre parole, il voto sul referendum costituzionale non è un voto su o contro Renzi: e infatti c’è chi vota Sì, come Lerner, pur distinguendosi da Renzi. E’ vero anche l’opposto: si può votare No pur non avendo le stesse idee politiche di molti coloro che votano No.
Il referendum sulla Costituzione taglia trasversalmente le idee e le appartenenze e, nonostante lo abbia promosso il Governo Renzi, l’opposizione a quella proposta del suo Governo non si identifica necessariamente con il giudizio sul Governo. Il referendum non si propone di “mandare a casa” Renzi. Non è un plebiscito su di lui e sul suo esecutivo.
Dunque, distinguiamo la legge fondamentale da chi la usa. Noi votiamo No, anche se lo stesso faranno molti altri che hanno idee politiche opposte alle nostre; non sono loro l’oggetto del voto del 4 dicembre, ma la legge fondamentale del Paese: la Costituzione italiana.
IGiandomenico Crapis il manifesto, 20-21 novembre 2016
DALLA CARTA NATA DALLA RESISTENZA
ALLO STATUTO ALBERTINO
di Mario Agostinelli e Giuseppe Vanacore
«Referendum. Se vince il sì alle riforme, alla camera siederanno deputati di regia, scelti dal governo e dai capipartito. E il nuovo senato non elettivo indebolirà i diritti sociali»
In base alla superiorità della Camera «elettiva» e l’invenzione di un senato di nominati (camera di seconda mano) senza legittimazione territoriale diretta, come si attuano i diritti sociali che la Costituzione ha programmato nella prima parte e ha posto in gestione a istituzioni locali autonome, partiti e forme associative riconosciute nella seconda? Uno stravolgimento che determina la definitiva soluzione di continuità con l’attività legislativa costituzionalmente orientata e che a partire dagli anni ’60 aveva prodotto la legge sul divieto di licenziamento (legge 604/66); lo Statuto dei lavoratori (legge 300/700); la riforma delle Autonomie locali (legge 382/75); l’abolizione dei manicomi (legge 180/78); la riforma delle pensioni, la riforma sanitaria (legge 833/78). Tantissime le norme che condizioneranno in senso negativo il nostro sistema democratico, con dissimulazioni che talvolta appaiono come un vero e proprio raggiro.
Innanzitutto non è vero che si abolisce il bicameralismo: è vero altresì che il senato non è più elettivo. La ragione non emerge mai con chiarezza nei dibattiti: eppure è semplice: l’articolo 57 della Costituzione attuale afferma che i senatori sono eletti a suffragio universale su base regionale.
Questa norma impedisce una legge elettorale con un premio di maggioranza a livello nazionale. Ed è per questa ragione – di inconsistenza di rappresentanza – che Renzi è approdato alla decisione di abolire l’elezione diretta del senato, prevedendone invece la nomina da parte dei consigli regionali. Ogni funzione del senato sarà così di puro complemento alla dinamica partitico-politica in corso in quel momento, senza alcun collegamento con la rappresentanza diretta e l’autonomia dei territori.
Con questa riforma costituzionale i livelli essenziali (non minimi!) di assistenza (Lea), enucleati della riforma sanitaria e posti a presidio del diritto alla tutela universale della salute (art. 32 Cost.) non assurgono a criterio costituzionale e si riducono a una scaramuccia tra il governo centrale e regionale all’atto della finanziaria.
Fuorviante l’obiezione che elevarli a tale rango rischierebbe poi di limitarli, perché è noto che i Lea rappresentano la garanzia di uguaglianza su tutto il territorio nazionale, tanto che un domani di fronte a tentativi di tagli – come è già successo – costituirebbero una robusta difesa e un argine invalicabile sotto il quale non sarebbe possibile andare. E’ bene sapere che il vincolo del pareggio di bilancio in costituzione vuol dire, invece, che l’esercizio di diritti fondamentali dipenderà dalle risorse correnti disponibili, mentre l’individuazione delle prestazioni sanitarie e sociali essenziali verrà affidata semplicemente ad un provvedimento amministrativo di competenza del governo, con una funzione solo residua e caritativo-compensativa delle Regioni. Sanità a gogò e privatizzazioni quindi, come voleva Formigoni.
Con l’alibi della semplificazione, si affidano alla legislazione esclusiva dello stato, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale della energia (materia finora concorrente), nonché le infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione. Anche il governo del territorio diventa di competenza esclusiva dello stato, così come la tutela e la sicurezza del lavoro (applicatelo alla TAV o alla discarica delle scorie, all’Ilva o a Seveso!).
Di fatto alle Regioni – a parte pochi residui – non spetterà la potestà legislativa sulla generalità delle materie: morte quindi all’alternativa di società fatta di «formazioni sociali» e di autonomie che sta scritta nella prima parte della Costituzione.
Ma c’è un’ultima osservazione che non ci deve sfuggire, la guerra. L’innovazione esplicita è che il senato, secondo l’articolo 78 della nuova Costituzione, viene escluso dal partecipare alla deliberazione della guerra e al conferimento al governo dei relativi poteri, in base a una gestione riservata al primo ministro e ai suoi deputati. E ciò è molto strano, perché il senato dovrebbe rappresentare le realtà territoriali (anche se in forme non dirette), dove ci sono le case e i corpi delle persone che più di tutti sarebbero colpiti dalla guerra.
Rendiamoci conto di un tremendo paradosso: rimane il bicameralismo, quello dello Statuto Albertino, ma con un rovesciamento. Con la riforma proposta, la camera dei deputati diventa lei la camera alta. Con l’Italicum in essa siederanno infatti dei deputati di nomina «regia», che cioè saranno nominati dall’alto, ovvero dal governo e dai capipartito, e sarà così assicurata la continuità del potere, e sotto l’ombrello dei minor costi della politica, si farà garante che tutto resti com’è.
Il senato, che si presentava come il punto forte della «riforma» rivela invece la sua funzionalità a colpire la democrazia sociale della Costituzione antifascista. Grazie a Renzi che ci sta dando tutto il tempo per compiacerci del No.
A RETI UNIFICATE,
IN TV RENZI SI FA IN QUATTRO
di Vincenzo Vita
«Il parabolico. Premier Millecanali è riuscito a battere Berlusconi»
L’esposto presentato dal Comitato per il No al referendum costituzionale sulle violazioni della par condicio di questa campagna in corso è davvero il minimo sindacale. La costante negazione di un corretto diritto all’informazione meriterebbe qualche attenzione generale in più. Anche da parte delle forze di sinistra, che talvolta sembrano ignorare la gravità di quello che accade.
Stiamo parlando della torsione filogovernativa di grande parte dei media. Questi ultimi, oggi persino in misura maggiore rispetto all’età berlusconiana, sono diventati una componente di una sorta di sistema politico allargato, piuttosto che un rigoroso contropotere.
Ecco il perché si è sentita l’esigenza di ricorrere allo strumento dell’esposto, cui l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è tenuta a rispondere, e non con qualche richiamo flebile e burocratico.
La legge 249 che istituì l’Agcom introduce meccanismi sanzionatori affidati ad un organismo che si voleva “cattivo” e determinato. La normativa sulla par condicio è aggirata bellamente attraverso la costante presenza nelle reti e nelle testate di Renzi, il quale usa molti travestimenti: statista europeo, presidente del consiglio, leader di partito, esponente di punta del Sì.
È così che salta ogni conteggio delle presenze radiotelevisive. Renzi, infatti, quando parla sembra una star delle telepromozioni, in cui il conduttore del programma a un certo punto apre il siparietto pubblicitario, forte della presa sul pubblico del programma stesso.
Sono forme sofisticate di manipolazione, che le istituzioni preposte alla vigilanza dovrebbero sorvegliare. E punire, quando necessario. Le ultime due settimane prima del voto sono decisive nella formazione dell’opinione elettorale. Ecco, quindi, che si esige un comportamentale adeguato alla bisogna. Adesso, subito. Altrimenti, come già è accaduto in passato, il «riequilibrio» è richiesto a cose fatte.
Un punto, poi, merita un chiarimento. Il concetto di «riequilibrio». Con l’invito a Matteo Salvini, Fazio non pareggia la presenza della scorsa domenica di Renzi. Renzi è il Sì. Salvini, con rispetto parlando, non sintetizza le ragioni del No.
Serviva uno dei costituzionalisti prestigiosi che diedero vita alla campagna contro la revisione della Costituzione. O il presidente dell’Anpi, altrettanto decisivo. La forma è sostanza. E viceversa. O Salvini è una sineddoche, la parte per il tutto? Insomma, la Rai e Fazio non possono cavarsela così. Siamo seri.
RENZI A RETI UNIFICATE:
«IL NO UN’ACCOZZAGLIA»
ESPOSTO BIS ALL’AGCOM
di Maria Teresa Accardo
«Le mille balle blu. Nei Tg Rai il governo da solo doppia tutti gli altri protagonisti. Dal premier pioggia di insulti: "Non voterei no neanche ubriaco". Il Comitato all’autorità garante: intervenire subito, negli ultimi giorni cruciale un’informazione»
Una presenza del governo in tv «abnorme», una «vistosa violazione delle leggi» sulla par condicio durante le campagne elettorali. È durissimo, ma soprattutto molto dettagliato il nuovo esposto del Comitato per il No che arriva all’Agcom, dopo il «buffetto» imbarazzante che la stessa autorità negli scorsi giorni aveva impartito alle tv in cui dilaga la presenza del fronte del Sì. Soprattutto grazie ai suoi massimi esponenti, premier e ministri. L’esposto, il secondo, è firmato dai costituzionalisti Alessandro Pace e Roberto Zaccaria, e dai rappresentanti del No Alfiero Grandi e Vincenzo Vita. È corredato da tabelle che vale la pena léggere con attenzione per verificare quella che viene definita «la vistosa sovraesposizione del presidente del consiglio e di esponenti del governo nell’informazione diffusa dalla concessionaria pubblica», con particolare riferimento ai principali Tg (Tg1, Tg2, Tg3, RaiNews). Una situazione particolarmente delicata, visto che siamo a meno di due settimane dal voto e cioè nel cruciale momento in cui gli «indecisi» si fanno un’idea di cosa votare. Spesso grazie alla tv.
Il «tempo di antenna», cioè la somma del tempo di notizia e quello di parola, di Renzi e del governo in totale «è superiore al 42 per cento». Nel dettaglio: «Nelle tre edizioni principali dei telegiornali Rai di domenica 13, lunedì 14, martedì 15 e mercoledì 16, il presidente del consiglio ha avuto rispettivamente 62 secondi di tempo di parola, 63 secondi, un minuto e 34 secondi ed un minuto e 22 secondi. Una quantità di tempo di parola che da sola doppia quella totalizzata da tutti gli altri soggetti politici».
Ormai siamo all’ultimo miglio della campagna referendaria. Per questo il Comitato chiede all’Autorità di intervenire «prontamente ed incisivamente» per ripristinare il diritto dei cittadini a «un’informazione imparziale». Anche per evitare il ridicolo delle sanzioni a futura memoria, quelle che arrivano fuori tempo massimo a voto celebrato, grande classico dell’autorità garante dell’era berlusconiana.
Ma se in tv il premier fa un gioco sempre più duro grazie a direttori compiacenti, anche fuori non scherza. I sondaggi, che lo penalizzano (da ieri non sono più pubblicabili) gli suggeriscono di tentare il tutto per tutto per la rimonta. E quindi via a insulti, sarcasmi, sfottò all’indirizzo del fronte del No: altro che «restiamo al merito della riforma», i suoi comizi ormai sono show che finiscono per aizzare gli spettatori contro gli avversari politici. Come ieri a Matera. Il premier ha definito il No «l’ennesima accozzaglia di tutti contro soltanto una persona». Renzi si rivela sempre più un talento da palco: ammiccamenti, persino imitazioni (D’Alema è il bersaglio preferito): «Stanno mettendo insieme un gioco delle coppie fantastico. Meglio di Maria De Filippi. Abbiamo fatto capire a Berlusconi e Travaglio che si vogliono bene a loro insaputa, D’Alema e Grillo, uno che sostiene la politica e uno l’anti politica. E poi Vendola e La Russa», ieri ha detto. Poi però, stavolta a Caserta, gli è toccato fermare i suoi dal cacciare in malo modo un signore che lo contestava. Al grido già sentito (alla Leopolda) «fuori, fuori». Poco prima aveva detto, a proposito dei referendum propositivi: « Se uno vota 5 Stelle come fa a votare No? Nemmeno ubriaco». I deputati M5S replicano a stretto giro: Renzi mette insieme volti diversi?, «Agli italiani basta vedere la sua faccia per sapere quale sia la scelta giusta».
Lo scontro a distanza si fa molto ruvido anche dentro il Pd. Roberto Speranza, in tour in Sicilia per difendere le ragioni del No, replica al segretario: «Accozzaglia? Siamo di fronte alla solita arroganza, quella del ’Ciaone’ pronunciato dopo il referendum sulle trivelle a cui parteciparono oltre 15 milioni di italiani». Da sinistra Pippo Civati intanto invoca una parola da Romano Prodi, storico leader dell’Ulivo. Lo fa da Bologna, dove ieri ha riunito i suoi per la manifestazione «Per noi è no». Accanto a lui c’era Silvia Prodi, la nipote dell’ex premier. Il quale ex premier da settimane è dato ’ tendenza No’. Lui però non parla: e questo lo salva dagli attacchi forsennati che Renzi riserva ai protagonisti della sinistra di ieri che non votano Sì «per riprendersi le poltrone di prima».
PERCHÉ LA RIFORMA È DANNOSA
DA UNA PROSPETTIVA FEMMINISTA
di "Femministe per una Costituzione Fica"
«Con il nostro No ci uniamo ad altri soggetti insubordinati ed esclusi, a chi cerca vie d’uscita dal precariato, a chi vuole accogliere i migranti e a chi costruisce reti di intimità e cura al di fuori della famiglia nucleare!»
“Il 4 dicembre mi tengo libera. Io voto no”: è uno degli slogan che lanciamo come “Femministe per una Costituzione Fica”. È un invito esplicito a non astenersi e a votare No, perché “questa riforma ci tocca e quando le donne dicono No, è No”.
In cosa il No femminista è diverso dagli altri No
Una riforma come quella proposta ostacola il nostro agire politico come femministe, perché riduce gli spazi di democrazia e confronto. Limita la politica a una questione di governabilità e rafforza i poteri dell’esecutivo, espressione di una minoranza che si fa maggioranza schiacciante e decide per tutti. Come femministe lavoriamo nei territori per avere maggiore partecipazione, per creare alternative all’autoritarismo, al maschilismo che ancora dilaga nei posti di lavoro e nei luoghi della politica, alle misure di austerità che con tagli alle spese sociali e con privatizzazioni colpiscono le donne più degli uomini. Per tutto questo diciamo “no” e da qui partiamo per rinnovare la nostra attuale Costituzione. Sono altre, infatti, le modifiche alla Costituzione che potremmo sostenere: dall’eliminazione del pareggio di bilancio all’inserimento di una chiara formulazione del diritto alla casa, alla riscrittura dell’articolo 29 che definisce la famiglia “società naturale”, fino a chiarire che il lavoro su cui si fonda la Repubblica non è solo quello produttivo, ma anche quello riproduttivo.
I punti più dannosi della riforma da una prospettiva femminista
Con questa controriforma torniamo a una concezione del potere come qualcosa che appartiene a un piccolo gruppo di persone che con una legge elettorale iper-maggioritaria può facilmente ottenere una maggioranza decisiva alla Camera dei deputati (340 su 630 seggi). Sarà solo questa Camera a dare la fiducia al governo e a deliberare lo stato di guerra. Sarà un’artificiosa maggioranza a controllare l’elezione del presidente della repubblica, dei giudici costituzionali e dei membri laici del consiglio superiore della magistratura. In altre parole, non ci saranno contrappesi al “capo” – come lo chiama l’Italicum – che “guida” la lista che vince le elezioni. Il Senato diventerà una farsa, dovendo rappresentare istituzioni territoriali svuotate di ogni autonomia dal governo centrale. L’unica cosa certa è che non avremo più il diritto di eleggere i componenti del Senato. Non si tratta delle “dittatura della maggioranza”, ma dello strapotere di una minoranza. Per di più questa minoranza approverà le leggi secondo procedimenti legislativi molto complessi. Sarà sempre più difficile quindi esercitare alcun controllo politico. Questa riforma infatti parla una lingua burocratica che allontana la cittadinanza dalla cosa pubblica. Noi invece troviamo fondamentale che la Costituzione sia scritta in un italiano facilmente comprensibile a tutte/i.
Il nostro No si coalizza con il No di altri gruppi
Con il nostro No ci uniamo ad altri soggetti insubordinati ed esclusi, a chi cerca vie d’uscita dal precariato, a chi vuole accogliere i migranti e a chi costruisce reti di intimità e cura al di fuori della famiglia nucleare. Non abbiamo niente a che spartire con chi, come Salvini e Adinolfi, strumentalizza questo voto per perseguire campagne razziste e omofobe. Noi ci uniamo a tutte le donne, gli uomini e le soggettività che assumono il conflitto fra i sessi come un terreno per lottare contro altre diseguaglianze e discriminazioni. Diciamo No con chi si batte contro il verticalismo del potere, le facili guerre, il parlamento ostaggio del governo, lo svilimento del diritto di voto, l’aumento dei procedimenti legislativi, i governi di false maggioranze. E poi, non dimentichiamoci, che questa è una riforma voluta da un governo sostenuto da un parlamento eletto con una legge elettorale già dichiarata incostituzionale.
Per noi, questa volta, è importante non astenersi
Quello del 4 dicembre non è un voto per elezioni amministrative o politiche. Per alcune di noi è difficile trovare rappresentanza istituzionale e, quindi, l’astensione o l’annullamento della scheda elettorale può sembrare la scelta migliore. Questo referendum è diverso. Non solo non c’è quorum, ma si vota per respingere una controriforma che, in nome della governabilità e dell’efficienza, renderà l’Italia sempre più facile preda dei biechi interessi, nazionali e sovranazionali, delle politiche di austerità neoliberiste indirizzate dalle grandi società finanziarie come J.P.Morgan o dai gruppi alla Bilderberg. L’attuale Costituzione resta una delle migliori al mondo, per i suoi contenuti, le finalità e anche per la forma. La Costituzione, infatti, deve essere facilmente comprensibile a tutte e tutti in modo che ciascuna possa verificare che venga rispettata e attuata. Una Costituzione illeggibile, quale quella profilata dalla riforma, è utile solo a chi vuole evitare che si rivendichino i diritti e i principi in essa garantiti. Noi vogliamo andare oltre, non possiamo certo tornare indietro.
REFERENDUM, UNA LETTERA APERTA
A FABIO FAZIO
di Giandomenico Crapis
Caro Fazio, Lei è garbato, è simpatico, duetta alla perfezione con Littizzetto, ha varato con scelta indovinata un gradevole talk show con Salemme, Marzullo e Frassica, ha ripreso, sia benedetto, il «Rischiatutto» di Bongiorno. Lei invita gli attori e le attrici che piacciono, gli artisti emergenti, i cantanti che vanno, gli scrittori che vendono, gli sportivi di successo. Con loro la conversazione è piacevole, leggera, divertente, a volte anche interessante. Insomma, Fazio, Lei fa un bel programma, complimenti, e i risultati gliene danno atto. Però quando sceglie di cimentarsi con la politica Lei non funziona più. Di Pietro direbbe che con la politica Lei non ci «azzecca» niente. Tanto che, non di rado, quando invita i politici inciampa, scatena il caso, combina qualche guaio.
Invita Renzi, come la scorsa settimana, in piena par condicio elettorale: una dimenticanza. E l’Agcom l’ha bacchettata. La dimenticanza, perdipiù, è recidiva, infatti era successo anche a maggio scorso: altra ospitata, altra polemica, altro intervento Agcom, perché anche allora c’erano elezioni amministrative alle porte. Ancora: nel 2014 ci sono le primarie Pd per la scelta del segretario. E Lei che fa? Decide di offrire il palcoscenico della sua trasmissione ai candidati: Renzi, naturalmente, poi Cuperlo. Ma dimentica Civati, che però non se la prende più di tanto e le risponde con l’ironia.
Insomma pare proprio che quando Lei ha a che fare con par condicio o campagne elettorali, insomma con la politica, si confonda, sfiori l’incidente, perda d’un tratto quell’equilibrio che invece dispensa altrove con sapienza. Quella che la porta a selezionare per il suo programma un parterre di ospiti sempre nuovi, scelti con cura ed attenzione.
Virtù che smarrisce quando ha a che fare con i politici. Per dire: il premier in un anno è venuto da Lei già tre volte: non le sembra sinceramente un po’ troppo per una trasmissione della domenica sera? Faccia uno sforzo di fantasia e se proprio deve invitarli, questi politici, vada a scovare quelli meno noti, il cui lavoro magari meritevole si svolge lontano dal teatrino e senza riflettori. Le riuscirebbe molto meglio.
Anche perché, poi, Lei è troppo gentile, tanto educato, così poco incline al contraddittorio vivace, per avere a che fare con la politica. Sicchè lo spettacolo non è mai all’altezza: se alla star di turno basta far raccontare qualcosa di sé e dell’ultimo disco (o film, o libro), al politico devi pur rivolgere qualche domandina cattiva, impertinente, guardi che perfino Vespa lo fa. Metterlo, magari un pochino, in difficoltà. Una cosa che non è mai stata nelle sue corde.
La comprendiamo, ognuno ha il suo carattere. Ma se inviti Renzi per fagli fare uno spot per il sì, e l’Agcom ti rimprovera, poi devi invitare per il No un esponente del maggior partito di opposizione, e se non c’è Grillo puoi chiamare pur sempre Di Maio, che è vicepresidente della Camera, o un Di Battista, ma non Salvini. È l’abc del giornalismo. Altrimenti sorge il dubbio che tutto ciò non accada a caso, ma sia il frutto di una strategia. E noi questo non lo vogliamo pensare.
Veda Fazio, Lei ci piace molto quando fa quello che sa fare, meno quando si mette a fare cose che non sa fare. Ci perdoni l’impertinenza se ci permettiamo di rivolgerLe, con sincerità ma con affetto, un dolce rimprovero: lasci perdere la politica. Non fa per Lei.
Una utile premessa a un ragionamento sulla "sinistra" in Italia. Per andare avanti bisognerebbe domandarsi che cosa non si sapeva vedere del mondo nel XX sec. e che cosa si sa vedere oggi.
il manifesto, 19 novembre 2016, con postilla
Come mai in Italia non c’è una sinistra dalle dimensioni elettorali e dalla forza attrattiva di Podemos, Linke, Syriza mentre quello spazio è occupato dai 5 Stelle? È un rompicapo a cui applicarsi in attesa del referendum del 4 dicembre. Il «caso italiano» dei decenni passati (la società più politicizzata d’Europa con la più ramificata sinistra politica e sociale) è infatti evaporato del tutto presentando ben altre anomalie e peculiarità.
La data fondamentale di passaggio ravvicinato è il 1989: «socialismo reale» in frantumi, «svolta» del Pci. Si aprì allora una violenta diaspora tra chi intendeva liquidare storia e patrimonio di quella sinistra e chi voleva provare a rinnovarla.
La «carovana» di Achille Occhetto non aveva ancoraggi ideali, se non un generico aprirsi al nuovo con una contemporanea presa di distanza dal socialismo europeo (l’ombra di Craxi).
Il fronte del «no» si divise invece all’interno del Pci tra i promotori di un nuovo partito (Sergio Garavini, Armando Cossutta, Lucio Magri e altri) e chi riteneva possibile rimanere nel «gorgo» (Pietro Ingrao, Aldo Tortorella, Giuseppe Chiarante e per una fase Fausto Bertinotti).
Rifondazione comunista finì per nascere più su una spinta emotiva di resistenza che su un progetto di ripensamento a fondo dell’esperienza comunista bisognosa di novità progettuali, organizzative e di innovative pratiche politiche. La segreteria di Bertinotti cercò di superare l’handicap dell’atto di nascita collocando Rifondazione sulla frontiera dei movimenti.
La rottura col governo Prodi nel 1998 e le successive scissioni (Comunisti unitari, Pdci, Sel) sui temi del governo e della collocazione politica hanno però reso via via impraticabile l’ipotesi di un partito neocomunista non testimoniale. Si è dimostrata inoltre assai fragile l’idea che il comunismo italiano potesse salvarsi indenne dallo tsumani grazie alla sua diversità positiva. A loro volta i movimenti – quello no gobal innanzitutto – non sono riusciti a occupare con una proiezione politica lo spazio lasciato libero (gli indignados e Podemos in Spagna sono l’esempio contrario).
Le «due sinistre» si sono successivamente allontanate ulteriormente, Pds-Ds da una parte e Rifondazione dall’altra. Una chance di rimescolare le carte la ha avuta Sergio Cofferati che tra il 2001-2003 coagulò intorno alla Cgil e a sé, sul tema della difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, di una sinistra dei diritti e del lavoro, una domanda che attraversava sia Rifondazione sia i Ds.
Poteva allora nascere un Partito del lavoro come riaggregazione di una nuova sinistra non più figlia solo della diaspora comunista e come alternativa al progetto di Partito democratico che andava decollando? È probabile. Ed è assai probabile che sarebbe cambiata pure la storia successiva delle due sinistre.
Resta tuttora un mistero la scelta di Cofferati di ghettizzarsi nel ruolo di sindaco a Bologna e di rinunciare perfino a una battaglia politica interna quando il Pd prese forma, riaprendola solo dopo la sua esclusione dalle liste regionali piddine in Liguria.
All’afasia di Rifondazione e al tentativo di Sel di avviare una controtendenza, ha fatto pendant la navigazione perigliosa del Pd voluto da Prodi, D’Alema, Veltroni, Rutelli. Quando la sinistra Ds di Fabio Mussi decise di non aderire al Pd echeggiando un refrain musicale dei Dik Dik («Io mi fermo qui»), le cose erano andate troppo oltre le previsioni di quella componente per modificarne il corso: non restava che tentare la risalita con Sel.
Dopo aver perso per strada Prodi e Rutelli, aver preso atto del «ritiro» di Veltroni, la conquista del Pd da parte di Matteo Renzi ha finito di fare la frittata e ha segnalato – a seconda del punto di osservazione – il fallimento del progetto Pd o il suo inevitabile inveramento. Mentre la sinistra si divideva e tentava riaggregazioni, diventava ancora più grave la crisi della politica italiana e iniziava a germogliare la fenomenologia che ha dato origine al Movimento 5 Stelle: corruzione dilagante, separazione abissale tra istituzioni, attività politica e vita reale, opinione pubblica sempre meno interessata ai partiti, rancore come reazione alle stagioni militanti.
La cosiddetta «antipolitica» ha così iniziato a dilagare senza che le due sinistre adottassero le contromisure. Riforma della cultura politica e delle sue pratiche, questione morale non sono state ritenute priorità.
Ecco così che il grillismo è diventato capace di tenere insieme spinte trasversali di sinistra e di destra, sollecitazioni ambigue e contraddittorie socialmente unificandole in un generico ma motivato disprezzo per la politica e i partiti oltre che in una sbandierata deideologizzazione di riferimento.
Lo spazio politico ed elettorale che altrove è occupato a sinistra da Podemos, Linke e Syriza in Italia è saldamente presidiato dai 5 Stelle. Ed è prevedibile che lo sarà anche nel medio periodo con concrete chance di andata al governo.
postilla
Tre quarti di ciò che c’era nella sinistra del secolo scorso si è lasciato conquistare o corrompere dal neoliberalismo, frutto tossico del capitalismo globalizzato, alimentato nelle sue serre culturali (a partire dalla Mont Pèlerin Society e dalla Trilaterale). L’altro quarto si attarda ancora con i temi che erano centrali allora (lo sfruttamento in fabbrica, la visione delle istituzioni come luogo di possibile composizione del conflitto tra sfruttati e sfruttatori, la centralità del Primo mondo sul resto del pianeta, la sottovalutazione della questione ambientale, il segno ancora progressista del compromesso storico tra capitale e lavoro, una visione limitata del lavoro umano e una concezione condivisa della "sviluppo"). Eppure, i segni premonitori erano visibili da tempo: Packard, Galbraith, Harvey (per nominarne solo alcuni) seppero vederli. Alcune intelligenze politiche seppero comprenderli, e altri seppero raccontare la mutazione antropologica che stava avvenendo, ma i loro ammonimenti vennero ignorati.
Forse cominciare a ragionare su quali erano i meccanismi, gli autori e le vittime dello sfruttamento ieri e oggi potrebbe aiutare a comprendere che cosa fare, in che direzione muoversi per costruire (non ri-costruire) qualcosa di analogo alla sinistra di ieri. Ma il primo passo da compiere dovrebbe essere divenir consapevoli che per superare il male che i secoli passati ci hanno lasciato è andare alle loro radici e svellerle. Essere radicali significa questo
Le Monde Diplomatique» novembre 2003 (ripreso da www.disinformazione.it)
Dirigenti delle multinazionali, governanti dei paesi ricchi e sostenitori del liberismo economico hanno rapidamente compreso che dovevano agire di concerto se volevano imporre la propria visione del mondo. Nel luglio 1973, in mondo allora bipolare, David Rockefeller lancia la Commissione trilaterale, che segnerà il punto di partenza della guerra ideologica moderna. Meno mediatizzata del forum di Davos, la Trilaterale è molto attiva, attraverso una rete di influenze dalle molteplici ramificazioni.
Trent’anni fa, nel luglio 1973, su iniziativa di David Rockefeller, figura di spicco del capitalismo americano, nasceva la Commissione trilaterale. Cenacolo dell’élite politica ed economica internazionale, questo circolo chiusissimo e sempre attivo formato da alti dirigenti ha suscitato, soprattutto ai suoi inizi, molte controversie (1). All’epoca, la Commissione si prefiggeva di diventare un organo privato di concertazione e orientamento della politica internazionale dei paesi della triade (Stati uniti, Europa, Giappone). L’atto costitutivo spiega: «Basata sull’analisi delle più rilevanti questioni con cui si confrontano l’America e il Giappone, la Commissione si sforza di sviluppare proposte pratiche per un’azione congiunta. I membri della Commissione comprendono più di 200 insigni cittadini impegnati in settori diversi e provenienti dalle tre regioni». (2)
La creazione di questa organizzazione opaca in cui a porte chiuse e al riparo da qualsiasi intromissione mediatica si ritrovano fianco a fianco dirigenti di multinazionali, banchieri, uomini politici, esperti di politica internazionale e universitari, coincideva all’epoca con un periodo di incertezza e turbolenza della politica mondiale. La direzione dell’economia internazionale sembrava sfuggire alle élite dei paesi ricchi, le forze di sinistra apparivano potenti, soprattutto in Europa, e la crescente interdipendenza delle questioni economiche chiamava le grandi potenze a una cooperazione più stretta. Rapidamente, la Commissione trilaterale si impone come uno dei principali strumenti di questa concertazione, attenta al tempo stesso a proteggere gli interessi delle multinazionali e a «chiarire» attraverso le proprie analisi le decisioni dei dirigenti politici. (3)
Come i re filosofi della città platonica, che contemplavano il mondo delle idee per infondere la loro trascendente saggezza nella gestione degli affari terrestri, l’élite che si riunisce all’interno di questa istituzione molto poco democratica si adopera nel definire i criteri di un «buon governo» internazionale.
Veicola un ideale platonico di ordine e controllo, assicurato da una classe privilegiata di tecnocrati che mette la propria competenza e la propria esperienza al di sopra delle profane rivendicazioni dei semplici cittadini: «La cittadella trilaterale è un luogo protetto dove la techné è legge – commenta Gilbert Larochelle. E dove sentinelle dalle torri di guardia vegliano e sorvegliano. Ricorrere alla competenza non è affatto un lusso, ma offre la possibilità di mettere la società di fronte a se stessa. Il maggio benessere deriva solo dai migliori che, nella loro ispirata superiorità, elaborano criteri per poi inviarli verso il basso». (4)
All’interno di questa oligarchia della politica internazionale, le cui riunioni annuale si svolgono in varie città della triade, i temi vengono dibattuti in una discrezione che nessun media sembra più voler disturbare. Essi sono oggetto di rapporti annuali (The Trialogue) e di lavori tematici (Triangle Papers) realizzati da équipes di esperti americani, europei e giapponesi scelti molto accuratamente. Questi documenti pubblici, regolarmente pubblicati da circa trent’anni, mostrano l’attenzione che la trilaterale rivolge ai problemi globali che trascendono le sovranità nazionali, come la globalizzazione dei mercati, l’ambiente, la finanza internazionale, la liberalizzazione delle economie, la regionalizzazione degli scambi, i rapporti Est- Ovest (all’inizio), il debito dei paesi poveri.
Contro «gli eccessi della democrazia»
Gli interventi ruotano intorno ad alcune idee fondanti, ampiamente riprese dalla politica. La prima è la necessità di un «nuovo ordine internazionale». Il quadro sarebbe troppo angusto per trattare grandi questioni mondiali la cui «complessità» e «interdipendenza» vengono continuamente riaffermate. Un’analisi del genere giustifica e legittima le attività della Commissione che è sia un osservatorio privilegiato sia il capomastro di questa nuova architettura internazionale
.
In tal senso gli attentati dell’11 settembre hanno fornito una nuova occasione di ricordare, durante l’incontro di Washington nell’aprile del 2002, la necessità di un «ordine internazionale» e di una «risposta globale» a cui sono esortati a partecipare i più importanti dirigenti del pianeta sotto l’egidia statunitense. Alla già citata riunione annuale della trilaterale erano presenti Colin Powell (segretario americano) Donald Rumsfeld (segretario alla difesa) Richard Cheney (vicepresidente) e Alan Greenspan (presidente della Federal Reserve). (5)
La seconda idea fondante, che trae origine dalla prima, è il ruolo tutelare della triade, in particolare degli Stati uniti, nella riforma del sistema internazionale. I paesi ricchi sono invitati ad esprimersi con una sola voce e a unire i propri sforzi in una missione destinata a promuovere la «stabilità» del pianeta grazie alla diffusione del modello economico dominante. Le democrazie liberali sono il «centro vitale» dell’economia, della finanza e della tecnologia. Un centro che gli altri paesi dovranno integrare accettando l’ordine che esso si è dato.
L’unilateralismo americano sembra tuttavia aver messo a dura prova la coesione dei paesi della triade, i cui dissidenti si esprimono nei dibattiti della Commissione. Nel suo discorso del 6 aprile 2002, durante la già citata riunione, Colin Powell ha quindi difeso la posizione americana sui principali punti di disaccordo con il resto del mondo, ovvero rifiuto di firmare gli accordi di Kyoto, opposizione alla creazione di una Corte penale internazionale, analisi dell’«asse del male», intervento americano in Iraq, appoggio alla politica israeliana, e via dicendo.
L’egemonia delle democrazie liberali rafforza la fede nelle virtù della globalizzazione e della liberalizzazione delle economie espressa dal pensiero della trilaterale. La globalizzazione finanziaria e lo sviluppo degli scambi internazionali sarebbero al servizio del progresso e del miglioramento delle condizioni di vita di un gran numero di persone. Ma esse presuppongono la rimessa in causa delle sovranità nazionali e la soppressione delle misure protezioniste.
Questo credo neoliberista è dunque spesso centro dei dibattiti.
Durante l’incontro annuale dell’aprile 2003 a Seul è stata trattata in particolare la questione dell’integrazione economica dei paesi del Sud-Est asiatico e della partecipazione della Cina alle dinamiche della globalizzazione. Le riunioni dei due anni precedenti avevano dato occasione al direttore generale dell’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) Mike Moore di professare devotamente le virtù del libero scambio. Moore, dopo aver ricoperto di improperi il movimento anti-globalizzazione, aveva dichiarato che era «imperativo tenere a mente ancora e sempre quelle prove schiaccianti che dimostrano che il commercio internazionale rafforza la crescita economica». (6)
La tirata del direttore del Wto contro i gruppi che reclamano una globalizzazione diversa – chiamati «e-hippies» - sottolinea la terza caratteristica fondante della trilaterale: l’avversione per i movimenti popolari, che si era espressa nel celebre rapporto della Commissione sul governo delle democrazie redatto da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki (7).
Questo rapporto, del 1975, denunciava gli «eccessi della democrazia», espressi secondo gli autori dalle manifestazioni di contestazione dell’epoca. Manifestazioni che, un po’ come oggi, mettevano in causa la politica estera degli Stati uniti (ruolo della Cia nel golpe cileno, guerra del Vietnam) ed esigevano il riconoscimento di nuovi diritti sociali. Il rapporto provocò all’epoca molti commenti indignati che si scatenarono contro l’amministrazione democratica del presidente James Carter, essendo stato egli stesso un membro della trilaterale (come più tardi il presidente Clinton). (8)
Dall’inizio degli anni ’80, l’attenzione della stampa per questo tipo di istituzioni sembra essersi rivolta più che altro su incontri meno chiusi e soprattutto più divulgabili tramiti i media, come il Forum di Davos. L’importanza delle questioni dibattute nell’ambito della trilaterale e il livello di coloro che in questi ultimi anni hanno partecipato alle sue riunioni sottolineano però la sua persistente influenza. (9)
Note:
(1) Le Monde diplomatique ha dedicato molti articoli all’argomento nel corso degli anni ’70.
(2) Il numero dei «distinti cittadini» ammessi alla Commissione è stato in seguito allargato e oggi comprende più di 300 membri.
(3) Sulle reti di «coloro che decidono» si legga «Tous pouvoirs confundus», Epo, 2003
(4) Gilbert Larochelle, «L’imaginaire technocratique» Montreal, 1990, p.279
(5) I discorsi di questi interventi sono accessibili al sito ufficiale della Commissione: www.trilateral.org
(6) Mike Moore, «The Multilateral Trading Regime Is a Force for Good: Defend It, Improbe It». Riunione della Commissione trilaterale del’11 marzo 2001
(7) Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, «The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission», New York University Press, 1975
(8) Zbigniew Brezinski era stato uno dei grandi architetti di questa organizzazione prima di diventare il principale consigliere del presidente Carter sulle questioni di sicurezza nazionale
(9) David Rockefeller, Georges Berthoin e Takeshi Watanabe (1978) Prefazione a «Task Force Reports»: 9-14, New York University Press, p IX
Sarebbe interessante se qualcuno dei fautori del SI contestasse argomentatamente queste lucide affermazioni. Ma forse la maggioranza degli italiani preferisce stare sotto padrone e pensare meno.
La Repubblica, 19 novembre 2016
AMICI lettori, pensate davvero che la “riforma” costituzionale Renzi-Boschi-Verdini non costituisca un pericolo per le vostre libertà? Provate a ragionare su questi ineludibili dati di fatto.
Oggi in Italia vi sono tre schieramenti che ottengono grosso modo il 25/30% dei voti (il resto si disperde tra forze minori). Poiché ormai un terzo degli italiani non va a votare (e il fenomeno è in crescita), con la “riforma” suddetta e la concomitante nuova legge elettorale (sia nella versione Italicum che, forse ancora peggio, in quella “corretta Cuperlo”), chi rappresenta solo il 17/20% dei cittadini otterrà una schiacciante maggioranza assoluta in Parlamento (di nominati, dunque fedeli al Capo “ perinde ac cadaver”), il controllo della Corte Costituzionale, del Consiglio Superiore della Magistratura (da cui dipendono tutte le nomine ai vertici di Procure Tribunali e Cassazione), la scelta del Presidente della Repubblica (e la possibilità di facile impeachment nel caso non piacesse più e non si “allineasse”), il controllo della Rai, tutte le nomine delle Authority di “garanzia” (Consob, Privacy, ecc.), oltre ovviamente al governo.
Potrebbe vincere Renzi, potrebbe vincere Grillo, potrebbe vincere la destra- destra (in declinazione Berlusconi/ Salvini o Berlusconi/Parisi, a seconda degli umori di Arcore). Io voterò M5s, come faccio già da tempo, ma avrei paura se a questa forza andassero i poteri previsti dalla contro-riforma (chiamiamola col suo nome, vivaddio!) Renzi-Boschi-Verdini. E ne avrebbero anche i “cinquestelle”, responsabilmente, visto che hanno proposto una legge elettorale “proporzionale corretta” (tipo Spagna e in parte Germania) e sono impegnati per il No.
Perché con la contro-riforma costituzional-elettorale (le due cose sono inscindibilmente intrecciate proprio nel disegno dei promotori), un leader da 17/20% di consenso dei cittadini avrebbe un potere che sfiora quello di Putin e di Erdogan, senza necessità di ricorrere alla galera e alla violenza. E, ripeto, chi sia questo leader dipenderebbe da spostamenti minimi di voti (nel caso del turno unico saremmo addirittura alla roulette). Davvero questa prospettiva non vi gela il sangue?
Se non vi fa paura vuol dire che avete superato in atarassica serenità zen il più “disincarnato” dei monaci orientali, il che sarà magari ottimo per la vostra psiche e le vostre future reincarnazioni, ma per il funzionamento di una democrazia è micidiale. In ogni democrazia fondamentale è il rispetto delle minoranze, le garanzie per i bastian-contrario, i diritti civili e gli spazi di comunicazione reale di quella minoranza delle minoranze che è il singolo dissidente. Niente di tutto questo resta in piedi con le contro-riforme Renzi-Boschi-Verdini.
Vi flautano nelle orecchie: ma è il prezzo da pagare per l’efficienza, per la velocità del processo legislativo. Davvero ci siete cascati? Non l’avete ancora letto l’articolo 70 controriformato? Claudio Santamaria lo ha recitato in pubblico, alla manifestazione indetta da MicroMega con Maltese, Rodotà, Zagrebelsky, Carlassare, Ovadia e tanti altri, lo ha letto come si conviene a un grande attore e come esige la punteggiatura di quella pagina e mezzo (attualmente l’articolo 70 è di una riga): un incomprensibile labirinto mozzafiato di commi e sottocommi, su cui i giuristi hanno già dato una dozzina di interpretazioni diverse, una sbobba procedurale che garantirà ricorsi su ricorsi fino alla Corte Costituzionale. Santamaria ha detto che sembrava scritta da Gigi Proietti in uno dei suoi momenti satirici di grazia. Forse, ma certamente con la collaborazione del notissimo e manzoniano dottor Azzeccagarbugli.
Vi sventolano davanti agli occhi lo specchietto per le allodole dei costi della politica che diminuiscono, davvero ve la siete bevuta? Qualche decina di milioni in meno: costa assai di più ogni settimana semplicemente tener in vita l’ipotesi del Ponte sullo Stretto (se poi, con il Sì nelle vele, lo costruiranno davvero, saremmo a una tragedia da piangere per generazioni). E se i senatori saranno un pochino di meno, in compenso i politici regionali e comunali che andranno in quegli scranni godranno del premio più ambito per i troppi politicanti che della politica fanno mercimonio e profitto: l’amatissima immunità. I costi della politica si tagliano in radici riducendo a zero le migliaia e migliaia di consigli di amministrazioni delle “partecipate”, le migliaia e migliaia di consulenze di nomina politica, il groviglio ciclopico di enti inutili, e insomma i milioni di persone che “vivono di politica”, e lautamente, per meriti che con il merito hanno ben poco a che fare.
Millantano che con il Sì combatterete la Casta, ma la Casta sono loro, ormai, il giglio magico e le sue infinite propaggini, l’indotto di nuovi piccoli satrapi messo in moto dalle Leopolde, le incredibili mediocrità assurte a posizioni apicali, le imbarazzanti nullità innalzate nell’Olimpo dell’intreccio affaristico- politico, che ormai fanno apparire uno statista perfino Cirino Pomicino.
Col No, il No che conta, vince invece la società civile di questo quarto di secolo di lotte. Che ha come programma l’unica grande riforma necessaria: realizzare la Costituzione, che i conservatori di sempre hanno bloccato, edulcorato, sfigurato, avvilendola nella camicia di forza della “Costituzione materiale”, democristiana prima, del Caf (Craxi Andreotti Forlani) poi, infine di Berlusconi (che con le sue televisioni ammicca al Sì e a chiacchiere sta col No, il solito piede in due scarpe), e oggi del suo nipotino Renzi.
Se col tuo voto vincerà il No, amico lettore, non ci sarà nessuna instabilità, semplicemente diventerà inevitabile un governo di coerenza costituzionale, e si aprirà la strada per l’unico rinnovamento di cui l’Italia ha bisogno, quello che porta scritto “giustizia e libertà” e come stella polare ha l’eguaglianza incisa nella Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza.
”
«Disperati per la mancanza di credibili argomenti di merito, i sostenitori del Sì sono ripiegati nella loro ultima ridotta: occorre comunque votare a favore della riforma, anche se si tratta di un cambiamento peggiorativo, perché altrimenti cade il governo e arrivano i barbari (variamente incarnati da Grillo o Salvini)».
il manifesto, 19 novembre 2016
Il ragionamento è sorprendente. E non tanto perché, se davvero il Paese è costretto al bivio tra una riforma dannosa e un populismo pericoloso, occorrerebbe anzitutto chiamare a risponderne chi – Renzi – lo ha irresponsabilmente messo in questa condizione. Davvero sarebbe una consolazione rimanere nelle mani di una persona tanto incapace e spregiudicata?
Ma, soprattutto, la posizione sorprende perché, per evitare un pericolo ipotetico ed evitabile oggi, crea un pericolo reale e inevitabile domani.
Iniziamo dal primo. Nessuno può realmente sapere cosa accadrà il 5 dicembre in caso di vittoria del No, se Renzi si dimetterà o resterà al suo posto. In questi giorni sta cercando in tutti i modi di drammatizzare la situazione, ma quale realmente sarà il quadro politico all’indomani del referendum, quale la posizione delle diverse forze politiche, quali i convincimenti del Presidente della Repubblica è impossibile prevederlo.
Molto dipenderà anche dalla misura della sconfitta del Sì, perché, qualora fosse limitata, Renzi potrebbe pur sempre rivendicare un risultato superiore rispetto all’attuale consistenza del suo partito. Il punto fondamentale, in ogni caso, è che con la prevalenza del No occorrerà riscrivere le leggi elettorali per Camera e Senato, essendo il quadro elettorale attuale calibrato sulla vittoria del Sì.
Sul tavolo c’è già la proposta dei 5 Stelle, molto ben congegnata dal punto di vista tecnico e, soprattutto, largamente connotata in senso proporzionalistico (sia pure con soglie di sbarramento implicite piuttosto elevate). Anche Forza Italia, attraverso Silvio Berlusconi, ha lasciato intendere una propensione per la proporzionale. Se anche il Pd muovesse in questa direzione, svaporerebbe qualsiasi rischio che una eventuale vittoria delle forze populistiche possa tradursi in un loro governo incontrastato, perché la loro consistenza elettorale è ben lontana dalla maggioranza assoluta dei consensi. È questo che ci si aspetta da una forza politica responsabile: che, una volta individuato un pericolo, metta in campo le strategie atte a scongiurarlo. Tanto più, se si tratta di strategie a portata di mano… Detto più nettamente, se vincesse il No nessun panico è giustificato: si faccia una riforma elettorale sul modello proporzionale e si torni al voto. Quale che sarà il risultato, nessuno avrà le leve del potere a sua completa disposizione.
Tutto il contrario se vince il Sì. Il cambiamento di Costituzione creerebbe infatti un’incredibile concentrazione di potere nelle mani del partito di maggioranza e, in particolare, del suo “capo”, che si ritroverebbe alla guida sia del governo sia della maggioranza parlamentare. L’esecutivo, vero nuovo fulcro del sistema, otterrebbe i poteri necessari a condizionare sia l’attività del Parlamento (grazie al voto a data certa) sia l’attività delle regioni (grazie alla clausola di supremazia affidata al governo anziché, com’era nella Costituzione del 1948, al Parlamento). Persino l’autonomia degli organi di garanzia – Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, Csm – ne risulterebbe gravemente compromessa, a causa delle modalità di elezione o dei vincoli posti alle loro modalità di funzionamento.
Insomma: dalla vittoria del Sì scaturirebbe un sistema del tutto squilibrato, avulso dalla tradizione del costituzionalismo, più simile a quel che si vede oggi in Russia o in Turchia che all’assai più ponderato presidenzialismo statunitense. Certo, con il Sì Renzi resterebbe al suo posto, ma quale certezza c’è che lo steso accada anche dopo le elezioni politiche del 2018? Lo scenario è apertissimo e nessuna persona di buon senso, dopo l’elezione di Trump, può escludere a priori una vittoria delle forze populiste. Un esito che, a quel punto, con il nuovo sistema costituzionale, metterebbe il vincitore in condizione di governare l’Italia per 5 lunghissimi anni, senza incontrare ostacoli di sorta.
Ecco allora che, a prendere sul serio la preoccupazione che vanno esprimendo i sostenitori del governo, se ne ricava un potente argomento a favore del No. Chi davvero è preoccupato che le elezioni possano essere vinte da una forza politica che reputa pericolosa (quale essa sia), chi davvero teme il ripetersi in Italia di un caso Trump, non può far altro che votare No, perché il No è l’unica garanzia che, anche se dovesse vincere il peggior politico del mondo, chi accede al potere non si troverà in condizione di poter fare quello che vuole.
Tra camorra a destra e De Luca a "sinistra," l'unica restistenza nell'infelice Campania viene dalla denuncia degli intellettuali e dalle azioni della magistratura?
La Repubblica, 19 novembre 2016
COSA significa, in terra di camorra, in quella che era conosciuta come terra di lavoro e ora invece è terra di disoccupazione, la condanna a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa a Nicola Cosentino, ex sottosegretario all’economia e fedelissimo dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi? Significa sancire una sconfitta, non certo una vittoria. La sconfitta di chi in questi lunghi anni ha raccontato i rapporti tra criminalità e politica e con la sentenza ha avuto ragione. La sconfitta di chi credeva di poter immaginare un percorso diverso dove l’imprenditoria che va avanti, quella che crea ricchezza e che cresce, può essere imprenditoria legale, che vince onestamente. La sconfitta di chi nella politica — sono rimasti in pochi — vede ancora possibilità di cambiamento. Di chi ancora crede che la politica debba indicare una direzione, essere visionaria, dare l’esempio.
E Nnelle ore in cui si ragionava su cosa significasse quella condanna — una condanna in primo grado arrivata dopo 141 udienze e oltre 200 testimoni ascoltati — ad abbassare il livello, a svilire ulteriormente il tenore del dibattito politico in un Paese che già crede che chi fa politica sia un ladro o un buffone, arrivano le pietre (pietre e non parole) che il governatore della Campania Vincenzo De Luca lancia a Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia, colpevole, secondo De Luca, di averlo inserito nella lista degli impresentabili alla Regionali del 2015 per un procedimento penale legato alla vicenda del Sea Park mai realizzato a Salerno, processo all’esito del quale De Luca è stato, lo scorso settembre, assolto.
Per me De Luca impresentabile resta, non alle elezioni ma davanti ai suoi elettori, davanti agli italiani e ai cittadini campani, per la mancanza di consapevolezza del suo ruolo e l’incapacità di comprendere che il territorio su cui come governatore agisce, dà a termini come «infame» e a espressioni come «si dovrebbe ammazzare», significati precisi, che quotidianamente trovano una declinazione pratica.
E allora mi sono chiesto se Cosentino, condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, avrebbe mai potuto pronunciare le parole che De Luca si è fatto scappare a margine dell’intervista a “Matrix”. Me lo sono chiesto e mi sono riposto di no, perché Cosentino è nato e cresciuto in un territorio in guerra, quello dominato dal clan del casalesi; perché Cosentino sa e ha sempre saputo che dare dell’infame, esplicitare desideri di morte, hanno significati precisi.
Come lo sa chi vive in determinate realtà pur non essendo camorrista. Sono messaggi che le organizzazioni criminali mandano, ordini che comunicano. Sentenze che decretano. Da qui la consapevolezza di quanto De Luca, da governatore della Campania, sia in realtà completamente inconsapevole rispetto al suo ruolo e rispetto a cosa voglia dire essere Politica in Campania. Perché la Politica non deve solo fare, ma anche essere. Essere rispetto, essere esempio, essere visione.
Ma non voglio speculare sulle parole, perché in tutta onestà non credo che il governatore De Luca abbia mai avuto legami con la criminalità organizzata e spero di non essere mai smentito su questo, ma si è sempre presentato come un politico del fare e quindi mi sento legittimato nel domandargli dove sono le telecamere di videosorveglianza che dopo la morte di Gennaro Cesarano, avvenuta a settembre del 2015, aveva promesso come urgente priorità al Quartiere Sanità? Le telecamere sono state messe nelle zone turistiche, ma alla Sanità ha paura a camminarci chi ci vive, figuriamoci se ci vanno i turisti. È dal 6 settembre 2015 che gli abitanti della Sanità aspettano le 13 telecamere e i rilevatori di targa che ancora non ci sono e che avrebbero un effetto deterrente immediato. De Luca uomo del fare, De Luca fulmine di guerra, cosa sta aspettando?
E ancora più grave considero la vicenda che riguarda la chiusura dell’Ospedale San Gennaro di cui si sta meritoriamente occupando tra gli altri padre Alex Zanotelli. Alla Sanità un ospedale non è solo un luogo dove si va per farsi curare, ma un presidio di legalità. Il primo reparto a essere chiuso è stato il più importante di tutti, il reparto maternità. E il danno è stato enorme perché ostetrici e ginecologi sono medici particolari, entrano nelle famiglie e in quel quartiere prendevano in cura tutti, dando consigli sull’alimentazione, provando a far diminuire il consumo di sigarette, facendo prevenzione. Come è possibile non capire quali saranno le conseguenze del mancato rispetto degli accordi con il territorio? Come è possibile che anche chiudere l’ospedale San Gennaro alla Sanità avrà ripercussioni nefaste sul contrasto alla criminalità organizzata?
Ma poi mi domando quale sia la differenza tra il dare della cagna a una donna come ha fatto Trump e chiamare infame un’altra e dire «sarebbe da ammazzare ». Nessuna: una violenza verbale premiata dall’elettorato che la ritiene garanzia di sincerità e quindi di onestà politica. Una violenza verbale calata in una realtà, quella che viviamo, in cui i ragazzini impugnano armi e altri si fanno saltare in aria. Quando capirà questa politica che le parole sono creazione di azioni? Che quando la politica parla male agisce male, quando parla violentemente agisce violentemente. Come dannazione non capirlo?
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«Il sostituto del processo Stato-mafia, Nino Di Matteo, spiega, stavolta da Palermo, perché si batte per il no al referendum: "Obbedisco solo alla Costituzione, non ai gove
rni"». Il dubbio online, 18 novembre 2016 (c.m.c.)
«Noi non facciamo spot. Parliamo della riforma costituzionale, certo, ma proponiamo discussioni di merito». Michele Pagliaro fa di mestiere il sindacalista: è il segretario della Cgil Sicilia. Annuncia l'incontro palermitano che di lì a poche ore, mercoledì pomeriggio, vedrà sul banco degli oratori il pm antimafia Nino Di Matteo. Titolo: "Le nostre ragioni del no". Promotore, con l'organizzazione di Susanna Camusso, l'Associazione nazionale partigiani, rappresentata dal presidente Carlo Smuraglia.Location austera come si conviene: la sede della Società di Storia patria, nel cuore del capoluogo siciliano.
Ma con Di Matteo non ci si limita mai alla sobria accademia. C'è sempre un tocco di appassionato furore, che neanche stavolta il magistrato fa mancare. L'apice arriva quando il sostituto che rappresenta l'accusa al processo Stato-mafia spiega perché lui, magistrato, attacca a testa bassa la riforma e suoi promotori: «Ci sono momenti in cui un magistrato ha il dovere etico di esprimersi: io non dimentico di aver giurato fedeltà alla Costituzione, non obbedienza ai governi o ad altre istituzioni politiche, né alle persone che rivestono, alcune volte anche indegnamente secondo il mio parere, le cariche istituzionali».
Toni da crociata, che trovano ispirazione nell'idea del giudice come paladino estremo della Costituzione, illustrata mesi fa da un altro pm palermitano, Roberto Scarpinato: «La magistratura deve vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze di governo», disse a Repubblica il procuratore generale, «e fra più interpretazioni possibili della legge, deve privilegiare quella conforme alla Costituzione». Fino a impedire che, di quest'ultima, le «maggioranze» possano arrivare ad alterare i principi fondamentali.
Di Matteo come Scarpinato, dunque: guardiano estremo della democrazia, pronto a battersi contro gli altri due poteri dello Stato. Certo sarà inevitabile d'ora in poi leggere all'interno di tale quadro ideologico i diversi aspetti della vita pubblica del pm Di Matteo, dalle sue accuse al processo sulla "trattativa" alla sua aspirazione a far parte della Direzione nazionale antimafia (è di nuovo in lizza per uno dei 5 posti di sostituto, dopo aver rifiutato di esservi trasferito d'ufficio dal Csm).
E diventa d'altra parte difficile ricordarsi che Di Matteo è un pubblico ministero quando dice, come ha fatto sempre giovedì a Palermo, che «la riforma è stata adottata e votata da un Parlamento eletto con una legge elettorale dichiarata illegittima dalla Consulta» e che «un Parlamento così eletto non è moralmente legittimato a modificare la Costituzione». Nessuno in platea gli chiede di indicare il punto in cui la Carta parla di legittimazione morale a riformarla.
All'incontro organizzato da Cgil e Anpi, il pm ha sfoderato tutto l'armamentario oratorio già visto in recenti altre uscite referendarie, a Firenze per esempio: la riforma firmata da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, dice, «segue un percorso di sostanziale restaurazione, una svolta in senso autoritario». La magistratura deve schierarsi in prima linea per impedire che sia portata a termine l'offensiva contro le istituzioni democratiche. Anche perché la riforma produrrebbe sul potere giudiziario «gravi conseguenze».
Comprometterebbe in modo irreparabile il «delicato equilibrio, fondamento di ogni democrazia, del principio di separazione dei poteri: c'è il rischio di sbilanciarlo», appunto, «a vantaggio del potere esecutivo rispetto a quelli legislativo e giudiziario». La maginot è la Costituzione che non va «cambiata» ma semplicemente «applicata», a partire da quella che evidentemente per il pm della "trattativa" è l'architrave dello Stato moderno: «Considerare mafia e corruzione come negazione dei principi costituzionali e principali fattori di inquinamento della democrazia».
Il merito di cui parlava il povero segretario della Cgli Pagliaro resta schiacciato dalla metapolitica: Di Matteo si limita all'ormai consumata tesi per cui «non si può scindere il giudizio sulle modifiche alla Costituzione da quello sulla legge elettorale, che sacrifica il principio di rappresentatività sul totem della stabilità dei governi». Spunta se non altro uno slogan originale: «Si passa da un bicameralismo perfetto a uno confuso». Perché? «Il Senato continuerà ad esistere: si ingenererà una confusione totale sull'impiego part time di consiglieri regionali e sindaci, che dovranno svolgere entrambe le cariche».
Tutta qui, la nuova Costituzione che Renzi vorrebbe far ingoiare agli italiani. «L'unica certezza sarà l'acquisizione di spazi di immunità penale per consiglieri e sindaci, che, senza voler colpevolizzare in maniera generalizzata, sono largamente interessati da indagini e processi in corso». Ecco. E qui interverrà la magistratura inquirente igiene del mondo. Senza neppure dover forzare la legge all'interpretazione più fedele alla Carta, come predica Scarpinato.
«Perché senza riformare le relazioni commerciali tra grande distribuzione e trasformatori non sarà possibile eliminare lo sfruttamento nei campi. Che non è solo quello dei braccianti, e riguarda anche l’ambiente». Altreconomia online, 18 novembre 2016 (c.m.c.)
Intervista al portavoce, Fabio Ciconte. Spolpati è il terzo rapporto della campagna #filierasporca, che dopo aver analizzato negli anni precedenti la mancanza di trasparenza della grande distribuzione organizzata e il mercato dell’arancia, nel 2016 si è dedicata all’industria del pomodoro.
Per quattro mesi Fabio Ciconte, direttore di Terra! onlus e portavoce della campagna, e il giornalista Stefano Liberti, si sono dedicati a un’indagine sul campo, intervistando gli attori della filiera, anche i “caporali” e i trasformatori: grazie a queste testimonianze restituiscono una lettura mai banale delle strozzature e delle inefficienze che hanno reso quasi “naturale” lo sfruttamento, in un mercato che vale 3 miliardi di euro.
Senza sminuire la condizione dei braccianti, e plaudendo la nuova legge sul caporalato, si ricorda che ormai l’85% della raccolta è meccanizzata. «Piace, specie a voi giornalisti, raccontare le storie sempre in maniera sensazionalistica, emergenziale: queste permette di nascondere all’opinione pubblica le principale cause di questo fenomeno che riguarda la manodopera, ad esempio quello, drammatico, delle aste on line» spiega Ciconte, secondo cui anche l’eccessiva meccanizzazione comporta però problemi «di natura ambientale, relativi all’esigenza di aumentare continuamente la resa per ettaro, anche in assenza di manodopera».
Che cos’è un’asta on line? È quel momento, generalmente a primavera, in cui i gruppi della grande distribuzione organizzata (GDO) pubblicano su portali con accesso riservato le proprie richieste di prodotto per l’autunno successivo. Riflettiamo, dice Ciconte: «Il prodotto verrà raccolto a partire dal mese di agosto, e a quel punto viene trasformato. Mesi prima, senza aver cognizione di quel che sarà l’annata agricola, l’industriale ha raggiunto un accordo con la GDO, sulla base di due successive aste, la seconda delle quali, decisiva, fatta con offerte al ribasso. Questo processo si fa a maggio, quando le fabbriche sono chiuse e il pomodoro non è ancora stato comprato. Da quell’offerta dipenderà il prezzo d’acquisto proposto agli agricoltori, che sono costretti ad accettare».
Quasi tutte le catene della grande distribuzione non hanno accettato di rispondere alla domande di #filierasporca, che è un campagna di Terra! onlus e DaSud. «L’unica che lo ha fatto è Coop, che ha confermato di partecipare alle aste on line: lo fanno tutti. Il 17 novembre, con la conferenza stampa alla Camera dei deputati, lanciamo una mini campagna per chiedere l’abolizione delle aste on line, ed è una richiesta che avanziamo al governo, chiedendo un impegno agli attori della GDO» aggiunge Ciconte.
Alcuni marchi, «come Esselunga in occasione del secondo rapporto -spiega il portavoce di #filieraspoarca-, hanno risposto che loro non sono interessati ad interloquire per politiche aziendali; altri lo fanno, ma non danno informazioni e si nascondono dietro ragioni di business, concorrenza, privacy: la realtà è che anche i trasformatori sono soggetti deboli, molti dei quali ormai producono solo il private label della GDO. Esistono, infatti, pochissimi marchi ‘riconosciuti’: il leader del settore è Mutti, che di fatto non partecipa alle aste on line, perché ha un potere d’acquisto forte. Gli altri, tutti piccoli o disorganizzati, si trovano dentro questa morsa. E a loro volta mettono dentro questa morsa i loro fornitori».
Spolpati sottolinea il ruolo ambiguo di un altro attore fondamentale della filiera, ovvero le O.P., organizzazioni di produttori (riconosciute e con tanto di albo sul sito del ministero delle Politiche agricole): «Nascono per aggregare l’offerta, su impulso dell’Unione europea. Le ritengo un soggetto importante: è utile che esiste un’aggregazione tra ‘piccoli’ che faccia da contraltare all’industria e alla GDO, e nel distretto Nord del ‘pomodoro industriale’, a Parma, Piacenza e Ferrara, le OP funzionano: si sottoscrive un contratto, fissando il prezzo d’acquisto, e questo viene rispettato; nel Sud, molte delle O.P. sono in realtà organizzazioni di carta che esistono per prendere i fondi europei destinati al settore, senza farsi carico di alcune responsabilità, senza assumere in alcun modo il rischio d’impresa, firmando i contratti di vendita all’industria per nome e per conto del produttore».
Nel Sud Italia, dove 30mila ettari sono coltivati a pomodoro ed esistono 84 impianti di trasformazione, le O.P. sono 39, contro le 14 del Nord Italia (che ha 26 impianti di trasformazione e una superficie dedicata al pomodoro di 40mila ettari). «L’estrema frammentazione e la loro frequente disconnessione dal mondo agricolo rendono uno dei principali ostacoli allo sviluppo di una filiera funzionante, in cui i diversi attori lavorano in un sistema integrato» spiega il rapporto. Questa disconnessione Ciconte la traduce con un dato: la gran parte delle O.P. del Sud hanno sede in Campania, dove hanno sede gli impianti di trasformazione, mentre oggi la produzione avviene principalmente tra le province di Foggia e Potenza, tra Puglia e Basilicata.
«Il rischio è che ogni anello della filiera lavori per fregare l’altro, com’è successo a settembre 2016, quando le piogge intense durate una settimana hanno portato a una diminuizione del prodotto. A quel punto il produttore ha la possibilità di andare con un autotreno carico di pomodori di fronte all’industria, e metterlo in vendita a 130 euro per tonnellata, quando il contratto firmato stabiliva un prezzo di 87 euro. L’anno scorso, però, quando c’è stato un esubero di produzione questo potere di stracciare il contratto lo avevano i trasformatori» dice Ciconte. È un circolo vizioso da cui -allo stato attuale- risulta difficile uscire, a meno che tutti gli attori della filiera non prendano l’impegno di farlo.
A partire, magari, da una legge sulla trasparenza, quella che con la pubblicazione del rapporto Spolpati la campagna #filierasporca avanza a governo e Parlamento. Due gli elementi chiave: l’introduzione di una “etichetta narrante” sui prodotti agroalimentari, in particolare su quelli (agrumicoli in primis) dove insiste il fenomeno del caporalato; l’introduzione dell’elenco pubblico dei fornitori che permetta la loro tracciabilità lungo la filiera: «è sufficiente un elenco, consultabile sui siti web delle aziende, in cui siano indicati tutti i fornitori di ciascuna» spiega il rapporto.
». il manifesto, 18 novembre 2016 (c.m.c.)
Sul segno reale della vittoria di Donald Trump, le opinioni in merito paiono tanto polarizzate quanto la società che l’ha prodotta. È l’incedere della crisi che sta stravolgendo non solo la vita materiale di milioni di persone, ma anche subculture politiche consolidate e sistemi istituzionali tra i più stabili. Il disfacimento della Obama coalition e l’affermazione del fenomeno Trump proietta una luce globale sul Midi francese già roccaforte del Pcf e ora bacino di consensi per la vandea lepenista; o ancora sull’Emilia fu rossa che alza barricate contro un pugno di donne e bambini migranti.
La crisi attuale, nella lettura che, per certi versi anticipandola, ne è stata data da Giovanni Arrighi, è la piena epifania della crisi del sistema egemonico della grande fabbrica integrata e imperniato sugli Stati uniti d’America, in realtà già avviata alla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Il modello di Arrighi prevede che ogni ciclo espansivo del capitalismo giunga a saturazione per una doppia pressione che si scatena sui profitti: pressione orizzontale dovuta alla concorrenza tra imprese, pressione verticale dovuta alla spinta delle rivendicazioni delle classi subalterne.
Si produce dapprima una «crisi-spia» del sistema egemonico, cui il capitale tende a sfuggire tramite il ricorso alla finanziarizzazione. Il boom borsistico dà luogo ad una euforia dei mercati mondiali che rende possibile un momentaneo superamento della crisi (le belles époques). Ma allo scoppio della bolla la crisi esplode con violenza ancor maggiore, con la conseguenza della ripresa del conflitto sociale, questa volta allargato dai subalterni alle classi medie, cioè a quei gruppi sociali che avevano costituito il collante del precedente regime di accumulazione; che avevano fatto sì che esso si instaurasse in termini di egemonia e non di puro dominio.
Il tema della condizione di questa classe media, delle sue aspirazioni e delle sue frustrazioni, è oggetto di una contesa egemonica all’interno dei Paesi a capitalismo maturo e tra le cosiddette economie emergenti. Nel corso della belle époque le disuguaglianze sono in genere socialmente tollerate, ma nel momento in cui le prospettive di stagnazione si fanno «secolari» non possono più esserlo. A determinare l’esito politico dei processi sociali innescati concorre la capacità dei soggetti organizzati di politicizzare e attrarre a sé nuovi protagonisti del conflitto sociale.
Negli Stati uniti di questo primo scorcio di XXI secolo il tema è tornato in auge. Uno studio del 2012, a cura del Pew Research Center, recava l’eloquente titolo The lost decade of the middle class. Il dato econometrico sulle disuguaglianze ha ben presto lasciato il passo alla disputa politica tradizionale tra democratici e repubblicani. Lungi dal rappresentare un’alternativa reale al cosiddetto establishment, Trump ne è una particolare e nuova incarnazione, nel tentativo di sussumere e neutralizzare reali istanze sociali.
Lo sfarinamento delle classi medie, e l’emergere di nuovi protagonisti, sta introducendo tuttavia mutamenti massicci nei sistemi politici liberal-democratici. Quello dell’impermeabilità dello scontro partitico a quanto si muove nella società non è uno scenario sostenibile. Iniziarono già ad inizio secolo i regimi oligarchici latinoamericani a crollare sotto l’urto della crisi. Seguì la Grecia, con la pratica scomparsa di uno dei pilastri del regime liberale, il Pasok, e di lì a breve saltarono altri sistemi bipolaristi, come quello spagnolo sorto dalla Transizione e quello italiano che aveva caratterizzato la seconda repubblica. E già la V Repubblica francese si avvia a essere sconvolta dall’ondata lepenista.
Se il bipartitismo made in Usa sarà in grado di assimilare la presidenza Trump e la contemporanea spinta radicale manifestatasi nel corso delle primarie nel sostegno al socialista Sanders è forse ancor presto per dirlo. Di sicuro c’è che la governance neoliberale, l’estremo centro in cui ci sono spazio e risorse per rispondere a tutte le più disparate istanze provenienti da una società frantumata, o meglio ancora inesistente, crollano assieme all’illusione dell’eternità della belle époque.
«La crisi – annotava Gramsci – crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifici, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere».
La caduta dei pilastri di un ordine che tramonta può essere gravida di grandi pericoli, ma allo stesso tempo di altrettanto grandi opportunità di riarticolazione politica del sociale. Un terreno del tutto nuovo che le forze democratiche non possono permettersi di lasciare in balia dei tanti Trump che si candidano a monopolizzarlo.
il manifesto, 18 novembre 2016
Non mancano, apparsi negli ultimi mesi, studi seri che affrontano, in punto di diritto e nella loro rilevanza politica, le questioni sollevate dalla attuale proposta di riforma costituzionale che interviene su quasi cinquanta articoli della Carta.
Si tratta di contributi ai quali può opportunamente far ricorso chi voglia acquisire i termini e gli argomenti sui quali è impostata e viene articolandosi la discussione in corso e intenda farsi, pertanto, un’opinione ponderata in vista dell’imminente referendum. Quegli studi seri mettono bene in luce gli intendimenti che orientano le correzioni che si vogliono apportare al dettato e allo spirito della Costituzione. Detto in estrema sintesi: depotenziare il ruolo centrale del parlamento e conferire poteri accresciuti all’esecutivo.
Tale il nucleo della riforma. Che poi, nella fattispecie, questa opzione di principio si affermi in un articolato denso di idiotismi giuridici, quindi foriero di complicanze facilmente prevedibili (si pensi solo al nuovo Senato: modalità della sua composizione; funzioni; competenze; sue relazioni con la Camera dei deputati) è da imputare alla scarsa e difettiva qualità della cultura del legislatore, ovvero alla rozzezza di un ceto politico ampiamente espresso da clientele corrotte e per lo più selezionato in virtù di legami personali (non per caso si tratta di un parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale).
Sta di fatto che la scelta che opera al rafforzamento della funzione esecutiva è, nella torsione che muta la figura costituzionale del presidente del Consiglio dei ministri (Art. 95) in capo del Governo, bene interpretata dal primo ministro in carica. Si dirà che, nel caso di Matteo Renzi, non mancano elementi caricaturali, nella mimica e nei gesti e più nell’eloquio e nella fraseologia. Ma sarebbe un errore attribuirli ad un tratto solo caratteriale. Molti osservano in lui l’esercizio di doti brillanti, se virtù sono l’astuzia e la spregiudicatezza, ma di poco momento e di un costrutto illusionistico che rasenta l’irresponsabilità.
Anche la qualità dei capi è varia e diversa la loro durata. Si vuol dire che la figura del Capo, in politica, vive di sottolineature e di accentuazioni. Esse debbono connotare in modo riconoscibile prese di posizione e decisioni espresse secondo un tratto personale che, di necessità, pur se a varie gradazioni e a intensità diverse, si afferma e cresce da una retrostante radice apodittica. Il capo interpreta.
In politica più che attore è autore. E anche la qualità degli autori varia. Valga il vero. Nella quotidiana discussione che agita in gran crescendo la campagna referendaria in corso, uno dei cavalli di battaglia prediletti di Renzi è il seguente: da oltre trent’anni si ammette che è necessario intervenire sulla Costituzione.
Dopo tanta inconcludenza oggi, grazie a un Capo del Governo che non si fa intimidire dai cacadubbi, ecco, la riforma si fa. Un taglio definitivo col passato di un’aula parlamentare tanto ciarliera quanto inetta. Una riforma che apre al futuro. Questa ricostruzione è – coerentemente, va detto – una caricatura operata da Renzi in veste di autore di storia. Dicevamo di contributi seri che val la pena leggere. Mi sia permesso consigliarne uno che si deve a Giuseppe Cotturri, pubblicato da Ediesse. Alludo a “Declino di partito. Il Pci negli anni Ottanta visto da un suo centro studi”, prefazione di Maria Luisa Boccia. Si può apprezzare qui, illustrato nel corso di un quindicennio, il ricchissimo, esemplare lavoro di ricerca analitica, di elaborazione teorica e giuridica e di coinvolgimento di soggetti politici e sociali svolto sulla riforma della Costituzione dal “Centro studi e iniziative per la Riforma dello Stato” presieduto da Pietro Ingrao.
«Commento al libro di Johan Rockström e Mattias Klum
Grande mondo, piccolo pianeta. La prosperità entro i confini planetari». Casa della cultura, Milano, online, 18 novembre 2016 (c.m.c.)
Il libro di Johan Rockström e Mattias Klum, Grande mondo, piccolo pianeta (sottotitolo: La prosperità entro i confini planetari, Edizioni Ambiente, 2015), nelle sue 219 pagine porta un contributo alla tesi che il progresso tecnico e la crescita economica comportano, sì, problemi ambientali locali e planetari ma che loro stessi sono in grado di attenuare e risolvere.
Già nella metà dell'Ottocento l'americano George Marsh aveva parlato dell'uomo come "modificatore" della natura ma, senza tornare troppo indietro nel tempo, si può dire che l'attenzione per gli effetti negativi delle attività umane sulla natura e l'ambiente cominci negli anni Sessanta del secolo scorso: un periodo di grande e rapido sviluppo economico e tecnologico dei paesi industrializzati - Unione Sovietica compresa - mentre nei paesi poveri stavano crescendo i movimenti di liberazione dai domini coloniali e la volontà di trarre beneficio, per i rispettivi popoli, dalle risorse naturali (minerali, fonti di energia, prodotti agricoli e forestali) che fino allora erano stati sfruttati da paesi e società stranieri.
Violenza e sfruttamento si manifestavano anche nei confronti della Natura (con la enne maiuscola): le esplosioni sperimentali delle bombe nucleari stavano diffondendo polveri radioattive su tutto il pianeta; il crescente uso di pesticidi per aumentare la produzione agricola spargeva sostanze tossiche fra i viventi, vegetali, animali, compreso l'"animale uomo"; la crescente produzione di merci della società dei consumi si traduceva in una altrettanto crescente produzione di agenti inquinanti da parte delle fabbriche e delle stesse, sempre più estese, città; nuove sostanze chimiche e armi erano usate, nella guerra del Vietnam e nelle tante guerre e guerriglie, contro la popolazione civile.
Negli stessi anni le fotografie della Terra scattate dai satelliti artificiali mostravano che questa grande e bella sfera era ricca di acqua e foreste, ma era limitata, l'unica nostra casa nello spazio da cui trarre materie utili alla vita e in cui mettere le scorie delle attività umane. Prima negli Stati Uniti, poi in Europa, si diffusero così due parole sovversive: limite e ecologia; proprio quel Kenneth Boulding - che il libro di critica fin dalle prime pagine - aveva contribuito a diffondere, nella metà degli anni sessanta, l'idea che dobbiamo vivere sul nostro pianeta come gli astronauti in una capsula spaziale, "Spaceship Earth", perché solo da questa Terra possiamo trarre i beni per la vita e solo in essa possiamo rigettare i nostri rifiuti.
Nel corso di pochi anni fra il 1965 e il 1972 si sono moltiplicati libri e articoli che mettevano in guardia circa la strada imboccata dall'umanità, fino al libro più sovversivo di tutti, apparso nel 1972 - The Limits to Growth di Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows; Jørgen Randers e William W. Behrens - che in poche pagine invitava l'umanità a porre "limiti alla crescita" della popolazione e della produzione industriale di merci, se si volevano evitare prevedibili crisi economiche, ecologiche e sociali come guerre e malattie.
Ben presto il potere economico capì che questo modo di ragionare avrebbe disturbato il mondo degli affari fondato proprio sulla crescita delle merci e del denaro e passò al contrattacco. Alcuni importanti economisti accademici, come l'inglese Wilfred Beckerman, spiegarono che mai la crescita economica avrebbe potuto comportare nuovi danni ambientali, anzi che solo la crescita avrebbe potuto risolverli. Altri sostennero che una limitazione della crescita economica avrebbe danneggiato i paesi più poveri che, al contrario, avrebbero potuto uscire dalla loro condizione di miseria soltanto se avessero potuto disporre di più merci e beni materiali. Altri ancora, invece, come Colin Clark, si sforzarono di riportare il mondo alla ragionevolezza dimostrando, dati alla mano, che le risorse della Terra sarebbero state sufficienti a sfamare fino a 40 miliardi di persone (allora la popolazione mondiale era di meno di 4 miliardi).
Una svolta importante si ebbe nel 1987 quando fu pubblicato il rapporto intitolato Il futuro di tutti noi elaborato da una commissione di studiosi, economisti e politici - la World Commission on Environment and Development, WCED - coordinati dalla ministra svedese Gro Harlem Brundtland. Nel rapporto si sosteneva che è vero che esistono problemi ambientali associati alla crescita dell'economia e della produzione agricola e industriale ma che, con opportuni accorgimenti finanziari e scientifici, sarebbe stato possibile raggiungere un futuro "sostenibile". "Sostenibile" - il contrario di insostenibile, insopportabile, che non può durare a lungo - divenne così la bandiera di un vasto movimento destinato ad arginare le proposte di decrescita, tanto che la Conferenza delle Nazioni Unite che si tenne a Rio de Janeiro nel 1992, a venti anni da quella precedente sull'Ambiente umano, scelse proprio come tema quello dell'Ambiente sostenibile.
Ormai il concetto di sostenibilità è stato adottato anche da molti movimenti ambientalisti, dai governi, dalle imprese, per cui l'aggettivo sostenibile è oggi tranquillizzante garanzia di un futuro di progresso, sviluppo, crescita e benessere. Esso accompagna anche prodotti, comportamenti e merci come garanzia del loro carattere ecologico.
Esiste un gran numero di libri, riviste, conferenze, programmi politici e cattedre universitarie che spiegano la sostenibilità degli affari umani, anche in anni di crisi questi primi due decenni del XXI secolo. A questo punto non resta che vedere se e come è possibile risolvere in maniera sostenibile le principali contraddizioni ambientali e sociali con cui stiamo facendo i conti. Un aiuto viene dal libro che citavo all'inizio. Come spiega la "Prefazione", esso è diviso in tre parti. La prima elenca le sfide ambientali; la seconda spiega che si può avere insieme prosperità e maggiore giustizia fra gli abitanti della Terra e fra le generazioni nel rispetto delle dimensioni, "piccole", come dice il titolo, del pianeta; e la terza elenca varie soluzioni tecniche già sperimentate e che funzionano, all'insegna della "resilienza", cioè della capacità di adattamento e di correzione in funzione dei mutamenti ambientali. Sono queste soluzioni che meritano una analisi più dettagliata.
La possibilità di muovere a grandi distanze e velocemente persone e cose è stata una delle grandi conquiste del XX secolo. L'invenzione del motore a scoppio, i perfezionamenti della raffinazione del petrolio, i progressi nei trasporti terrestri con autoveicoli e camion hanno modificato le città e tutta l'economia mondiale. Oggi gli autoveicoli che percorrono le strade del mondo sono oltre un miliardo. Col passare del tempo si è però visto che i comodi rapidi e continui cambiamenti di velocità, consentiti dal motore a scoppio, sono accompagnati da una combustione parziale della benzina e del gasolio con conseguenti emissioni di gas inquinanti, alcuni nocivi, che fanno sentire i loro effetti soprattutto negli spazi urbani.
Inoltre, si è osservato che i trasporti assorbono una rilevante frazione, circa il trenta percento, dei consumi totali di derivati del petrolio. Per passare a trasporti sostenibili, le case automobilistiche si sono impegnate nella produzione di motori che usano meno carburante e inquinano di meno per ogni chilometro percorso, anche per adeguarsi a limiti sempre più severi imposti da molti stati europei. Un contributo importante alla diminuzione dell'inquinamento dovuto al traffico automobilistico è stato dato dall'introduzione delle marmitte catalitiche capaci di trasformare i composti del carbonio in anidride carbonica e gli ossidi di azoto in azoto gassoso.
Se proprio occorre spostarsi in automobile, è possibile diminuire i consumi di carburante e l'inquinamento facendo in modo che più persone che fanno lo stesso percorso utilizzino un solo autoveicolo: si tratta del cosiddetto car-sharing già incoraggiato da molte aziende ed uffici o autonomamente organizzato fra colleghi o conoscenti che quotidianamente percorrono lo stesso tratto di strada. Tuttavia, le maggiori speranze sono riposte nella transizione verso automobili elettriche. I successi sono rapidissimi: alcune case automobilistiche hanno già messo in commercio veicoli dotati di batterie che possono essere ricaricate in stazioni poste lungo le strade o addirittura dalla rete elettrica domestica.
Nell'attesa che questo sistema si consolidi e diffonda, gli autoveicoli con motori a scoppio potrebbero essere alimentati con carburanti diversi da quelli petroliferi, per esempio derivati dalla biomassa come l'alcol etilico, il cosiddetto bioetanolo, ottenibile da sottoprodotti agricoli o da piante non alimentari, o gli esteri degli acidi grassi chiamati biodiesel, anche questi ottenibili da grassi non alimentari o di scarto.
Il problema della mobilità è strettamente legato a quello delle città che saranno in futuro sempre più grandi e sempre più affollate ma che possono essere riprogettate con spazi verdi e ricreativi e strade adeguate alla mobilità dei mezzi di trasporto sia privati sia pubblici. Dove possibile, come sta avvenendo in diversi contesti, andrebbero previsti anche percorsi riservati alla mobilità in bicicletta: questo sarebbe un modo semplice e al tempo stesso importante per diminuire i consumi di energia e l'inquinamento. Oltre a ciò è necessario considerare che la città ha un suo metabolismo: tutti i materiali - cibo, acqua, merci - che entrano nella città ne escono, dopo un tempo più o meno breve, sotto forma di rifiuti gassosi, liquidi e solidi.
Per lo smaltimento di questi ultimi - in molte metropoli si arriva a mezza tonnellata di rifiuti solidi urbani all'anno per abitante - diventa sempre più difficile trovare spazi e tecnologie che non provochino inquinamenti. Per rendere le città sostenibili sarebbe necessario adottare tecniche per il riciclo di tutto quanto è possibile: carta, vetro, metalli, separarti dai rifiuti, sono già materie "seconde" per molti cicli produttivi e se ne possono ricavare nuove merci con minore consumo di energia e riducendo l'estrazione di materie prime dalla natura.
Maggiori difficoltà, se non si mettono in campo politiche per il riciclo, si hanno con i rifiuti di plastica, difficilmente decomponibili da parte dei microrganismi, i grandi riciclatori naturali di quasi tutta la materia. Molti sforzi sono fatti per arrivare a oggetti di plastica che siano biodegradabili partendo da materie vegetali attraverso il contributo di una chimica "verde", ma il problema rimane aperto e interessa in particolare gli shoppers, i sacchetti per il trasporto delle merci dal negozio a casa: solo in Italia vengono usati 20 miliardi di sacchetti all'anno, spesso dispersi nell'ambiente.
Cibo e acqua sono beni essenziali per la popolazione umana in continua crescita. Per evitare l'estensione delle terre coltivabili - che comporta perdita di biodiversità e sottrazione di spazi indispensabili per le popolazioni locali - è possibile aumentare la resa produttiva per ettaro con un uso più razionale dei concimi, evitando cioè che il loro uso eccessivo provochi alterazioni degli ecosistemi.
Anche le tecniche di aratura possono essere perfezionate in modo da evitare la distruzione degli strati superficiali di fertile humus. L'irrigazione, che assorbe circa il 70% di tutta l'acqua utilizzata nel mondo, può essere effettuata con molta meno acqua. La riflessione sulla sostenibilità va poi estesa ai tipi di alimentazione. Spesso le carenze alimentari sono dovute a mancanza di proteine di elevata qualità, come quelle degli alimenti di origine animale, mentre molte proteine vegetali, soprattutto dei cereali, sono povere di amminoacidi essenziali. L'allevamento del bestiame da carne e latte comporta però un elevato consumo di prodotti agricoli sottratti all'alimentazione umana.
Proteine con buona composizione di amminoacidi sono contenute nelle leguminose, le piante capaci anche di fissare l'azoto atmosferico e di crescere senza bisogno di concimi azotati artificiali. Una migliore conoscenza e una maggiore diffusione dei legumi - una volta chiamati "la carne dei poveri" - aiuterebbe a migliorare l'alimentazione di molta parte della popolazione umana. Grandi progressi nella disponibilità di alimenti per i paesi poveri e le classi più disagiate dei paesi industrializzati potrebbero essere realizzati attraverso la lotta agli sprechi nella lunga catena che va dai campi, alle industrie di trasformazione, alla distribuzione nei negozi, alle famiglie. Si calcola che ogni anno vada perduto oltre un miliardo di tonnellate di prodotti che potrebbe essere destinato all'alimentazione umana.
Forse il più delicato dei problemi ambientali che abbiamo di fronte riguarda i mutamenti climatici provocati da un lento inarrestabile riscaldamento dell'intero pianeta Terra. Tutte le attività umane, il metabolismo delle persone, degli animali e delle fabbriche, libera nell'atmosfera gas che vanno dall'anidride carbonica, prodotta dalla combustione dei combustibili fossili in ragione di oltre 30 miliardi di tonnellate all'anno, al metano liberato dagli animali da allevamento e dalla decomposizione dei rifiuti organici, ad altri gas di origine industriale, complessivamente indicati come "gas climalteranti" o "gas serra": la loro crescente presenza trasforma l'atmosfera in una specie di barriera che trattiene il calore solare come fa il vetro di una serra.
L'aumento della loro concentrazione nell'atmosfera influenza il bilancio fra la radiazione solare visibile che arriva sulla superficie della Terra e la radiazione infrarossa che la Terra riemette verso il cielo, un equilibrio che finora ha consentito di conservare la temperatura "media" del pianeta intorno a circa 15 gradi Celsius. Da mezzo secolo un aumento di tale temperatura, per ora valutabile in circa un grado Celsius, sta provocando in alcune zone del pianeta piogge intense e improvvise intercalate da periodi di siccità; in altre l'avanzata dei deserti e siccità; in altre ancora la fusione di una parte dei ghiacci polari e di alta montagna e un conseguente lento aumento del livello degli oceani per ora stimabile di alcuni millimetri all'anno. All'effetto serra contribuisce anche la progressiva distruzione delle foreste per estrarre minerali e per espandere coltivazioni commerciali.
Al problema del riscaldamento planetario e a un minore uso dei combustibili fossili si potrebbe far fronte con strumenti fiscali - come una tassa applicata a chi usa tali combustibili - o tecnologici - come la diffusione di impianti fotovoltaici che producono elettricità dal sole, con centrali termoelettriche azionate dal vapore prodotto concentrando la radiazione solare mediante specchi su adatte caldaie, con pale tenute in moto dall'energia del vento, con centrali idroelettriche che utilizzano la forza delle acque in movimento: tutte fonti "pulite" e continuamente rinnovabili -. E magari - perché no? - con centrali nucleari. Si è già accennato che anche la parte dei prodotti petroliferi richiesti dai trasporti terrestri può essere sostituita da carburanti liquidi ricavati dalla biomassa.
Il libro di Rockström e Klum contiene molti altri esempi di soluzioni tecniche e di proposte innovative sostenibili, qua e là realizzate concretamente e con successo: porta dunque un messaggio di speranza e di ottimismo sul futuro dell'umanità con "illimitate opportunità di abbondanza", in marcia verso l'obiettivo del "triplo zero: zero emissioni, zero perdita di biodiversità, zero espansione dei terreni agricoli". Alla fine della lettura del libro restano però alcuni dubbi. Purtroppo la natura non fa sconti a nessuno. Ogni attività umana, sia pure virtuosa e apparentemente sostenibile, non fa altro che prelevare materie dalle riserve, grandi ma non illimitate della natura, trasformarle in cose utili, la cui massa è inferiore a quella delle materie prelevate. Inoltre, tanto gli scarti della trasformazione, tanto le cose utili, dopo l'uso, ritornano nell'ambiente naturale in forma di scorie e rifiuti.
Questi possono in parte essere trasformati in altre cose utili, ma in quantità inferiore e di qualità peggiore rispetto a quella delle materie originali. Insomma non esiste nessun "zero rifiuti" e si ha una continua perdita di risorse naturali e un continuo peggioramento della qualità delle risorse disponibili, compresa la perdita di fertilità dei terreni agricoli. Questo terribile vincolo è imposto dalle leggi della termodinamica e della conservazione della massa. Le "opportunità di abbondanza", promesse dal libro in realtà non sono "illimitate" e col limite ci si scontrerà tanto più presto quanto maggiore e rapida sarà la corsa verso tale abbondanza.
Quindi se ci sta a cuore assicurare i beni essenziali - cibo, acqua, salute, istruzione, dignità - a tutti, comprese le persone delle classi più disagiate dei paesi ricchi e quelle dei paesi poveri, in un pianeta i cui abitanti aumentano ancora oggi di sessanta milioni all'anno, bisognerà giocoforza passare dal mito dell'abbondanza a quello dell'abbastanza. Anche così le attività umane continueranno a impoverire le risorse della natura e a contaminare tali risorse con le loro scorie ma, almeno, ciò avverà più lentamente.
Ogni accelerazione del cammino sulla via dell'abbondanza comporta l'impoverimento, oltre che della natura, di "qualcuno", il che provoca inevitabilmente conflitti, malattie, rivendicazioni, migrazioni. È lo scenario che abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni, sotto i lustrini del lusso, le luci sfolgoranti, le promesse della pubblicità: con buona pace dei libri come quello di cui si è parlato. So che, di questi tempi, citare il pensiero espresso da Papa Francesco nell'enciclica Laudato si' è considerato da taluni politicamente poco corretto. Tuttavia il modesto autore di queste note - per quel poco che ha studiato in molti decenni sui rapporti fra attività umane e modificazioni ambientali - ritiene che il Papa, quando mette in guardia nei confronti dei nostri modi di produzione e di consumo, abbia proprio ragione.
Il Sì è la continuità del sistema politico. Il capitalismo non garantisce più lo sviluppo, quello italiano è ormai sinonimo di stagnazione permanente. In questa stagnazione si cercano di porre continuamente delle pezze a un sistema politico al capolinea. Il No renderà difficile mettere nuove toppe». il manifesto, 17 novembre 2016 (c.m.c.)
Al referendum del 4 dicembre votare sul governo «sarà inevitabile», spiega Giorgio Galli, decano della politologia italiana, docente di dottrine politiche all’Università degli Studi di Milano, studioso del «bipartitismo imperfetto» della Prima Repubblica quando Dc e Pci si confrontavano senza che questo producesse alternanza. Negli ultimi anni, fra l’altro, ha analizzato le riforme di Renzi (in L’urna di Pandora delle riforme, con l’avvocato Felice Besostri). Dunque si voterà su Renzi «innanzitutto perché lui stesso ha intrecciato la riforma e il suo futuro di presidente del consiglio. Per questo gli italiani voteranno più su sui mille giorni del governo che sulla riforma».
Il suo giudizio sui mille giorni di Renzi qual è?
Non molto positivo. È riuscito a fare molto meno di quello che aveva promesso. L’economia resta stagnante. Oggi sfida l’Europa come un euroscettico ma è un’oscillazione notevole rispetto al forte investimento di credibilità che aveva fatto sull’Europa.
Dal famoso semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione oggi siamo allo sbianchettamento delle bandiere europee.
Nella prima parte della campagna referendaria ha sostenuto che a differenza dei suoi predecessori aveva ottenuto importanti risultati in Europa. Ora invece rinuncia a questo aspetto e mette in evidenza la forza con cui avanza le richieste.
Renzi dice: il Sì è cambiamento, il No è conservazione.
È il contrario. Il Sì è la continuità del sistema politico. Il capitalismo non garantisce più lo sviluppo, quello italiano è ormai sinonimo di stagnazione permanente. In questa stagnazione si cercano di porre continuamente delle pezze a un sistema politico al capolinea. Si è cominciato con la rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale: una toppa per tenere in piedi un sistema. Poi le prime larghe intese con tutto il centrodestra, le seconde con una parte del centrodestra. Tutti tentativi di rappezzare un sistema in grave difficoltà. L’ultimo di questi tentativi è il governo Renzi. Rafforzarlo significa rafforzare la continuità di questi rammendi. Il No, al contrario, renderà difficile mettere nuove toppe.
La vittoria del No rappresenta la possibilità di rompere la continuità?
Il No è la possibilità che i giochi si riaprano. Con un trauma, ma piccolo. Del resto ormai in tutti i paesi europei si esprime, in diversi modi, esigenze di cambiamento molto radicali.
Renzi invece oggi si presenta come una forza antisistema. Dice: «Il sistema è tutto schierato per il No». È singolare che un governo si presenti antisistema. E comunque è evidente il contrario: dalla Confindustria alle banche fino all’ambasciatore americano, il sistema è pesantemente schierato dalla parte di Renzi.
Però non tutto il No è «antisistema». Il No di Berlusconi, ammesso che alla fine voti No, è chiaramente di altra natura.
Berlusconi sa, e dal suo punto di vista è giusto, che una vittoria del No lo metterebbe in una posizione di forza quando si ricostituirà un qualche tipo di Patto del Nazareno, cosa che accadrà in ogni caso. Ma la vittoria del No va al di là del contingente interesse tattico di ciascun protagonista. Sarebbe un’altra prova nella sfida al potere economico, abbastanza in linea con quello che succede in Europa, anche se con caratteristiche diverse.
Brexit è considerata una vittoria del vituperato populismo.
La democrazia rappresentativa è in crisi ovunque, in Europa e non solo. E non a causa di alcuni anni di populismo ma a causa di decenni di svuotamento del potere politico da parte del potere economico. Oggi il problema delle democrazie occidentali sono le 500 multinazionali che governano il mondo, non i populismi. E il piccolo trauma sarebbe prenderne atto. Finché il potere politico sarà quasi impotente di fronte al potere economico la continuità è garantita. Il No è la critica alla continuità. Una possibile sfida al sistema.
Negli Usa Trump è una sfida al sistema?
Al di là dei protagonisti, negli Usa come nella Brexit si è espresso il voto degli svantaggiati della globalizzazione. E a questa crisi c’è una declinazione italiana. Ne ho appena scritto in Scacco alla superclass (Mimesis Edizioni, ndr), ovvero scacco a quel mondo che si riunisce a Davos non per decidere i destini del mondo – lo fa in altri luoghi – ma per celebrare il proprio ruolo. Nella postdemocrazia il potere economico ha preso la supremazia su quello politico. O la democrazia rappresentativa affronta il potere economico o è destinata a decadere.
In Italia comanda la finanza, non il governo Renzi?
Nella stessa misura dei governi che lo hanno preceduto. La crescita del populismo è l’espressione di questa crisi. Che si affronta solo se il controllo dei cittadini si estende dall’area della politica a quella dell’economia.
È l’elogio della cittadinanza a 5 stelle?
I 5 stelle sopravvalutano la democrazia elettronica. Il sogno di Casaleggio in fondo era una democrazia diretta fatta di tecnologia informatica. Invece fare in modo che i cittadini si riapproprino della loro condizione è molto più complicato.
«Codici aperti. Un’intervista con Parag Khanna autore di
Connectography nel quale analizza il rapporto tra cooperazione e competizione nella geoeconomia». il manifesto, 17 novembre 2016 (c.m.c.)
Parag Khanna può essere considerato un enfant prodige della geoeconomia, novella disciplina che cerca di spiegare i conflitti globali a partire dalle dinamiche e dalla resistenze che incontra il neoliberismo. A questa espressione Khanna preferisce invece quella di capitalismo supply chain, cioè della centralità che hanno la distruzione delle merci a livello globale. I suoi saggi hanno fatto molto discutere.
Indiano di nascita, saggista prolifico ha pubblicato per Fazi I tre imperi. Come si governa il mondo, mentre Codice ha mandato in libreria L’età ibrida, firmato con Ayesha Khanna. Parag Khanna sarà sabato a Milano dove parteciperà a Book city, presentando il nuovo saggio Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale (Fazi editore, pp. 613, euro 26). Affabile, si è mostrato subito disponibile per un’intervista con un giornale leftwing, cioè non proprio in linea con quanto esprime nel libro.
Connectography può essere letto come un libro sulla fine della sovranità nazionale e sul declino del «sistema mondo» emerso dopo la Seconda Guerra mondiale. Concorda con questa interpretazione?
Connectography è un saggio che affronta la «rivoluzione» rappresentata dalla tendenza, in qualche misura inarrestabile, a quella che chiamo la connettività globale, intendendo con questo la stringente interdipendenza economica, politica e sociale tra gli stati. È una tendenza secolare, che ha però subito una accelerazione con la caduta del Muro di Berlino, il collasso dell’Unione Sovietica, l’affermarsi del capitalismo su scala globale. Infine sarebbe difficile parlare di Connectography senza fare riferimento a Internet, primo esempio di un dispositivo che svolge una funzione non solo di comunicazione, ma anche di coordinamento a livello internazionale.
Tutti questi elementi hanno contribuito a disegnare una nuova mappa delle connettività dove è vigente una gerarchia di potere più stringente di quella del passato nella relazione tra gli Stati. Questo non significa che finisce la sovranità nazionale. La realtà contemporanea vede semmai una maggiore competizione tra gli Stati per esercitare la loro influenza nella connettività globale a partire dalla loro «specializzazione». Così gli stati produttori di energia cercheranno di acquisire potere, facendo leva sul fatto che forniscono petrolio o gas naturale ad altri paesi. Lo stesso si può dire per chi produce manufatti tecnologici: perché il mondo della connettività globale sarebbe una suggestione se non fosse all’opera una catena globale delle merci che usa gli stati nazionali per funzionare a dovere.
I confini e le frontiere sono stati lo spazio economico e politico che ha regolato i flussi di capitale, di merci e di uomini e donne. Spesso i confini sono violati, aggirati da uomini e donne che esercitano il loro diritto a spostarsi, considerando la mobilità un diritto inalienabile. Lei che ne pensa?
Da sempre le società sono state «alterate» dalla presenza dei migranti. È un fenomeno che è sempre esistito, così come è sempre accaduto che le società ospiti siano riuscite ad assimilare gli «stranieri». Potrei citare l’esperienza della mia famiglia o di me stesso, ma non credo che questo aiuti a fornire una risposta. Quel che posso dire è che in Europa negli ultimi due anni si è parlato spesso di emergenza migranti paventando una invasione ostile alla civiltà europea. C’è stata cioè una diffusa reazione di rigetto che ha rimosso un fattore fondamentale: il ruolo importante del lavoro dei migranti nei paesi europei, Italia compresa.
Questo se ci riferiamo all’Europa. Se allarghiamo però la prospettiva dovremmo affrontare il tema di come sta cambiando la geografia sociale, le migrazioni di centinaia di milioni di persone (alcuni studi parlano di quasi due miliardi di persone in movimento) che si spostano da un paese all’altro nel Sud est asiatico e in Africa. Nessuno da quelle parti parla di invasione. Da questo punto di vista il caso europeo è quasi marginale rispetto a questo trend globale.
La libera circolazione dei capitali è spesso considerata una delle cause dell’impoverimento delle società e della crescita delle diseguaglianze sociali. Cosa ne pensa?
Preferisco parlare di cattiva allocazione di capitale per spiegare la crescita delle diseguaglianze sociali. Il commercio e gli investimenti sono essenziali per garantire la crescita economica dei paesi, sia di quelli ricchi che di quelli poveri. Il problema è dunque come governare la distribuzione e l’allocazione dei capitali. Per me, il problema non è il capitalismo, bensì la cattiva regolamentazione dell’attività economica con politiche fiscali e sociali sbagliate.
Nel nuovo ordine mondiale, i Big Data, il web, la comunicazione sono importanti settori dell’economia mondiale. Molte imprese che sviluppano software hanno base negli Stati Uniti. Lo stesso per la progettazione dei microprocessori: sono cioè espressione di una perdurante egemonia statunitense?
Le maggiori imprese sono certo americane, ma ci sono anche società coreane, cinesi, giapponesi. Tra esse la competizione è massima. Poi ci sono imprese come Google, che offrono gratuitamente i loro servizi, consentendo così una riduzione dei costi di altre attività economiche e lo sviluppo di prodotti innovativi. Più che parlare di egemonia statunitense, preferisco parlare della tecnologia made in Usa come un’utility.
Nel suo libro, lei scrive della diffusione delle zone economiche speciali: esempi di una ridefinizione della sovranità nazionale?
Le zone economiche speciali sono il risultato di scelte politiche nazionali. Vengono scelti dei partner interni e «stranieri» per favorire investimenti nel paese. Tutto ciò è finalizzato alla crescita economica interna e allo sviluppo di infrastrutture che possono rendere il paese ulteriormente attrattivo per investimenti di capitale. Questo favorisce anche l’aumento di lavoratori qualificati, facendo diventare quel paese un nodo delle catene globali del valore. Non sono quindi d’accordo con chi parla delle zone economiche speciali come esempi di sfruttamento dei paesi ricchi verso i paesi poveri o emergenti, bensì come un esempio di quella connettività globale alla quale facevo riferimento.
Cina, Brasile, India, Russia, Sud Africa sono stati indicati come paesi emergenti nella nuova geografia economica. La crisi del 2008 ha però cambiato le carte in tavola. Non possiamo dunque considerare la «Connectography» come la mappa di una sovranità imperiale in formazione?
Preferisco parlare di una mappa delle connessioni che legano le metropoli e le città del mondo. I Brics non sono una categoria importante. È più importante capire quali siano i link tra New York, Londra, Singapore, Dubai, Lagos, Hong Kong che non sapere se uno dei paesi dei Brics è emergente o meno. Le mappe del potere futuro o di quello contemporaneo possono emergere da come saranno strutturati questi legami, quali le gerarchie metropolitane che emergeranno, quali funzioni svolgeranno nel flusso globale di capitali e merci. E di come queste città distribuiranno la ricchezza accumulata nel resto dei paesi dove sono collocate.
PLa Repubblica, 17 novembre 2016
Si può dire in tanti modi: i fatti non contano più, la menzogna e la diceria hanno rimpiazzato la verità, la gente crede alle frottole. “Post-truth”, post-verità, riassume il concetto ed è diventata la «parola internazionale dell’anno». L’ha scelta l’Oxford Dictionary, bibbia e punto di riferimento della lingua anglosassone (e non solo), definendola come «l’aggettivo che descrive una situazione in cui i fatti obiettivi sono meno influenti sull’opinione pubblica rispetto agli appelli emotivi e alle convinzioni personali».
E’ il termine che in un certo senso ha deciso le due elezioni cruciali degli ultimi dodici mesi: il referendum britannico sulla Brexit e le presidenziali americane. Ma incarna un fenomeno ancora più ampio, va dalla politica alla società, dal pubblico al privato, dall’Occidente ai paesi emergenti. Domina il web, in particolare i social network, come sottolinea ilmea culpain questi giorni di Facebook e Twitter, ma dilaga anche su altri media, la tv, i talk-show radiofonici, i giornali, nelle battute che si ascoltano al bar, sul bus, in ufficio.
Il suo uso, affermano gli esperti del dizionario di Oxford, è aumentato del 2000% nel 2016 rispetto all’anno precedente, trainato da eventi come il referendum della Gran Bretagna per uscire dall’Unione Europea e la corsa alla Casa Bianca, nei quali i dati di fatto sono stati sommersi da una propaganda priva di riferimenti reali e in cui, ha osservato qualcuno, il cuore (o meglio la pancia) ha surclassato il cervello.
La scelta della parola dell’anno, da parte della “madre di tutti i dizionari” (la prima edizione risale al 1857), mira a riflettere sull’evoluzione del linguaggio. Qualche volta la parola selezionata dalla versione inglese e da quella americana del dizionario divergono, ma quest’anno ha prevalso “post-verità” in entrambi i casi. C’erano altri contendenti per il titolo, fra cui “alt-right”, diminutivo di “alternative right” (gruppo ideologico di destra estremamente reazionario e conservatore) e “brexiteer”, brexitiano o brexitiere. Ma “post-truth” ha superato tutti, come sottolineano fra l’altro una recente copertina dell’Economist dedicata al tema e un’infinità di articoli che lo analizzano e denunciano su giornali di mezzo mondo. «Non mi sorprenderei se diventasse una delle parole che caratterizzano il nostro tempo», commenta Casper Grathwohl, presidente dell’Oxford Dictionary.
Secondo i ricercatori, la parola fu usata per la prima volta nel ‘92 in un saggio del commediografo serbo- americano Steve Tesich per il settimanale The Nation, ma allora era intesa come ”dopo che è emersa la verità”, non nel senso attuale di “indifferenza alla verità”. Il termine segnala anche, osserva il dizionario, la crescente diffusione di espressioni con il prefisso “post” seguito da trattino. Peccato che a seguirlo, in questo 2016 di incredibili sorprese politiche, sia la “verità”, intesa come qualcosa di cui si può fare a meno.
Riferimenti
«Riceviamo e pubblichiamo l'intervento del Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani sulle giornate internazionali della tolleranza e degli Studenti».
ATnews online,16 novembre 2016 (c.m.c.)
Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti umani, in occasione del 16 novembre, Giornata internazionale della tolleranza, istituita dall’UNESCO nel 1995, allorché gli Stati membri fecero propria la Dichiarazione dei Principi sulla Tolleranza, e del 17 novembre, Giornata internazionale degli studenti, indetta per la prima volta nel 1941 a Londra dal Consiglio internazionale degli studenti (International Union of Students) per commemorare gli eccidi nazisti di studenti e professori cecoslovacchi, che si schierarono apertamente contro il regime nazista e rivendicarono il diritto allo studio e il diritto degli studenti ad esprimersi, propone di coinvolgere gli studenti in una serie di attività simboliche finalizzate al recupero della memoria storica, della solidarietà e del rispetto dell’altro.
Parlare di tolleranza oggi, in un mondo caratterizzato da conflitti, incomprensioni e sfruttamento dell’uomo sull’uomo e più che mai attuale e necessario. Ogni forma di pacifica convivenza e di fruttuosa collaborazione nasce dall’accettazione delle diversità. L’omologazione dei costumi e dei credo politici / religiosi solo in apparenza costituiscono il viatico per la serenità e la concordia.
Storicamente la coesistenza di culture diversa è spesso stata foriera di sviluppo e stabilità. Memori delle esperienze precedenti (basti pensare agli USA o all’Impero Romano) dobbiamo guardare all’incontro con il diverso da noi come a una possibilità di crescita, anche se questo comporta uno sforzo nello sconfiggere i nostri pregiudizi e preconcetti.
In Italia, ormai da tanti anni, stiamo assistendo a continui sbarchi provenienti dalle aree geografiche più a rischio umanitario; la vita umana diventa sempre più precaria e si rischia di anestetizzarsi rispetto al dolore altrui. Solo per questo motivo è doveroso intervenire nelle scuole e divulgare quanto più è possibile della tolleranza, dell’umanità e dell’empatia.
In merito al diritto allo studio e al diritto degli studenti ad esprimersi riteniamo fondamentale ricordate che tali principio sono presenti sia nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (art. 26) sia nella nostra Costituzione (art. 33 Cost. e art. 34 Cost.).
E’ di vitale importanza per la crescita di uno stato non solo che i giovani abbiano accesso all’istruzione, ma che siano accompagnati in un percorso di crescita finalizzato all’autonomia di pensiero e alla formazione di uno spirito critico. Condizioni che comportano scambio dialettico e libera espressione. Se la parola si spegne cala il buio sul futuro.
Si propongono come attività operative in classe la lettura della preghiera di Voltaire, la discussione della canzone Imagine di John Lennon, la proiezione del film Freedom Writers diRichard LaGravenesee un invito a realizzare un flash mob in classe o in aula magna formando una catena umana simbolo dell’unione fra le diversità.
“Ho imparato a rispettare le idee altrui, ad arrestarmi davanti al segreto di ogni coscienza, a capire prima di discutere, a discutere prima di condannare.”(Norberto Bobbio)
«La globalizzazione deregolata ha prodotto i suoi frutti avvelenati, è sfuggita di mano alle èlite che l’hanno promossa, e si riaprono contraddizioni di enorme portata, su cui le forze democratiche e di sinistra dovrebbero sforzarsi di intervenire
».il manifesto, 16 novembre 2016 (c.m.c.)
Qualcuno comincia a chiedersi quale impatto avrà l’elezione di Trump sul voto italiano del 4 dicembre. In particolare, comincia a circolare un argomento: «Teniamoci caro e stretto il nostro Renzi: avete visto cosa può accadere? Un Trump è sempre alle porte». Si può rispondere che Renzi è parte del problema, non la soluzione. Siamo nell’epoca in cui domina il sentimento anti-establishment e su questa idea il presidente-segretario ha disegnato la propria immagine e la propria «narrazione».
Questa strategia ha funzionato quando si trattava di contrapporsi a una precedente leadership di partito. Dimostrando tutti i suoi limiti quando si è trasfusa in un’azione di governo. Non ci si può auto-dipingere come il corifeo dell’anti-elitismo e poi esaltare le doti dell’ing. Marchionne. Non si può trasudare di retorica quando si esaltano le «punte» avanzate dell’innovazione e della creatività italica, senza tener conto che – per definizione – quando qualcuno riesce a «emergere» altri sono necessariamente «sommersi» (o «dimenticati», per usare l’espressione che Trump, molto abilmente, – ed è una chiave della sua vittoria – ha usato nel suo primo discorso).
Non si può proporre una riforma della Costituzione parlando “contro” i politici e la politica, e non pensare poi che qualcun altro – molto più credibile di te – se ne gioverà ampiamente. Renzi non è l’argine al populismo: al contrario, ha profondamente legittimato un discorso pubblico «populista». E non – si badi bene – di un qualche «populismo di sinistra», come pure sarebbe possibile provare a fare, ma di un populismo che si nutre di tutti i tasselli ideologici di destra che hanno profonde radici nella cultura politica italiana, e che già avevano fatto la fortuna di Berlusconi: qualunquismo, antiparlamentarismo, rifiuto della politica come mediazione, «decisionismo»…
Il secondo ritornello dice che «non c’è alternativa a Renzi», come qualcuno dice, motivando il proprio Sì. La vittoria del No sarebbe il classico «salto nel buio»?
Tutt’altro. Intanto, la vittoria del No aprirà la via ad un più fisiologico sviluppo della situazione politica. In primo luogo, costringerà a fare una riforma elettorale sensata e coerente (non l’incredibile «bricolage» contenuto nel documento partorito dalla commissione del Pd); e, in secondo luogo, – sulla base di una legge elettorale decente, e in vista delle elezioni del 2018 – , potrebbero crearsi le condizioni per tornare ad orientare la politica italiana sull’asse destra-sinistra, non su quello sistema/anti-sistema.
Il più potente antidoto al veleno del populismo di destra è la riapertura di un conflitto politico aperto e regolato, che abbia al centro i grandi temi del nostro tempo: uguaglianza e ridistribuzione della ricchezza (contro privilegi e ingiustizie), democrazia e partecipazione (contro accentramento, plebiscitarismo, tecnocrazia). Solo così, i “dimenticati» non saranno abbandonati nelle mani del tycoon di turno, o almeno si potrà provare a evitarlo. E per riuscirci, bisognerà anche che – da sinistra – su questi due grandi temi, giustizia sociale e democrazia, si riesca a dire qualcosa di nuovo e di credibile.
Ci sarà bisogno di tempo per metabolizzare il senso e le conseguenze dell’elezione di Trump. Sarà veramente in grado il neo-eletto di perseguire le politiche neo-protezionistiche che ha promesso, senza aprire un fase storica di guerre commerciali (e forse non solo commerciali)? È davvero possibile tornare indietro, dai livelli attuali di integrazione dell’economia mondiale, senza innescare una reazione a catena altamente destabilizzante? O non ci riuscirà, ed allora ben presto saremo di fronte all’ennesima manifestazione tipica dei cicli populisti, con il rapido alternarsi di aspettative salvifiche e poi di disillusioni e risentimenti?
Si dovrà riflettere sulla nuova fase in cui la sindrome dell’«apprendista stregone» esplode in tutta la sua virulenza. In particolare, le analisi che dipingevano un dominio neoliberista compatto, pervasivo e totalizzante, devono oggi lasciare il campo ad analisi – e possibilmente, azioni politiche – guidate da tutt’altri presupposti.
Si ritiene davvero che anche la sinistra possa puntare su un ripiegamento all’interno dei confini dei vecchi stati nazionali, o non è suo compito – difficilissimo ma ineludibile – quello di indicare la via di una democrazia trans-nazionale, in grado di «addomesticare» le tendenze distruttive delle logiche sistemiche (impersonali, «automatiche») del capitalismo contemporaneo e di prospettare per esso nuove forme di regolazione?
Nel suo piccolo, anche Renzi è un apprendista stregone. Per questo, la vittoria del No, il 4 dicembre è un essenziale spartiacque. Se il No vincerà, sarà per motivazioni diverse, anche opposte. Toccherà alla sinistra, se sarà in grado di farlo, orientare la rivolta contro le «elite» in senso democratico e progressista.