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Internazionale online, 26 dicembre 2016 (c.m.c.)

Dopo anni che sento parlare di ecovillaggi senza averne mai visti, ho deciso di andare a visitarne un paio non lontano da dove vivo – in realtà ci sono ecovillaggi anche vicino a dove vivete voi. Volevo capire come vivono persone che hanno scelto di condividere la casa, a volte lo stipendio, spesso anche le idee e la visione del mondo. Persone che vanno d’accordo e decidono di darsi una mano, in sostanza. Piccole utopie contemporanee nell’era della fine delle ideologie.

Ero anche curiosa di vedere come vivono i bambini in posti del genere, se è vero il detto africano – oggi molto citato – secondo cui per crescere un figlio ci vorrebbe un intero villaggio, anche se poi ognuno sta chiuso nella propria casa.
Che la vita in comune possa essere una soluzione per combattere la piaga dei figli unici e la disoccupazione? Per dare vita a una vera alternativa antisistema? Sono andata a vedere tre comunità che fanno parte del Rive (Rete italiana villaggi ecologici) e che, con le dovute differenze, sono assimilabili alla definizione di ecovillaggio: un gruppo di persone che hanno scelto di lavorare insieme con l’obiettivo di un ideale o una visione comune.

La prima cosa che ho capito, visitando questi posti, è che qui bisogna essere pronti ad abbassare il proprio tenore di vita in cambio di una qualità della vita migliore: qui si lavora con meno stress, soprattutto per chi riesce a ritagliarsi un impiego all’interno della comunità, si vive in modo generalmente più sano, si usa meno l’auto, si mangiano cose più buone.

Certo non è una vita per tutti, però questa è la prima cosa da tenere presente. In alcuni ecovillaggi è necessario anche aderire a un «percorso di crescita personale», tuttavia queste comunità sono generalmente laiche. La seconda cosa che ho capito è che un ecovillaggio non è solo un posto dove si vive insieme, ma è, o dovrebbe essere, un centro di sperimentazione. Un luogo dove sperimentare l’agricoltura, i sistemi di riscaldamento, l’istruzione, l’edilizia, la cucina, l’economia ma anche nuove combinazioni di lavoro manuale e intellettuale, nuove forme sociali e nuovi rapporti tra le generazioni.

Più si sperimenta e più la comunità è viva e autosufficiente. Anzi, le comunità che 2016 hanno raggiunto l’autosufficienza economica – che non vuole dire non uscire mai a fare la spesa! – sono quelle in cui i residenti riescono a mantenersi lavorando internamente, talvolta rivolgendosi a un pubblico esterno organizzando corsi e seminari a pagamento.

Tuttavia, per parlare di ecovillaggi bisogna per forza tornare agli anni settanta. Tutto comincia nel 1971, quando un professore di San Francisco, Stephen Gaskin, le cui lezioni erano seguite da un folto pubblico e duravano intere nottate, fondò The Farm, il primo ecovillaggio del mondo, a Summertown, Tennessee (lo stesso anno in Danimarca era nata Christiana, la famosa comune di Copenhagen; e solo tre anni prima era stata fondata Auroville in India, anche se gli esperimenti comunitari cominciarono già nei primi dell’ottocento con le utopie socialiste).

Più di quarant’anni dopo The Farm esiste ancora, ospita 250 persone ed è impegnata a più livelli nel campo di ricerca sostenibile, nel frattempo la vita comunitaria è diventata una alternativa di vita più realistica (la rete Gen – Global ecovillagge network – che riunisce tutti gli ecovillaggi del mondo di cui fa parte anche Rive, la rete delle comunità italiane, testimoniano questa piccola e lenta fioritura).

Negli ultimi anni il fenomeno ha attirato un numero crescente di persone, anche solo in teoria e per varie ragioni: la sempre più bassa vivibilità delle grandi città, la crisi economica (vivere insieme normalmente costa meno), la fine della militanza politica o almeno di una certa militanza politica, una generale crisi dei valori, il radicamento del pensiero ambientalista e l’attenzione sempre più diffusa a uno stile di vita capace di futuro.

Ma quanti sono gli ecovillaggi italiani? Molte di queste realtà sono in costante divenire – se c’è una cosa da capire su di esse è che ci vuole tanto tempo per costruire una realtà di questo tipo – e secondo la Rive oggi in Italia ci sono una ventina di ecovillaggi, altri sedici in costruzione e ventidue progetti.

Si va dalle 600 persone di Damanhur in Piemonte e del Popolo degli elfi sull’Appennino pistoiese, le più popolate comunità nostrane, alla ventina di residenti che in media ospita una comunità. Per Francesca Guidotti, curatrice del libro Ecovillaggi e cohousing, i progetti sono in crescita esponenziale, ma come spesso accade più del 50 per cento fallisce nei primi tre anni, perché molti non capiscono il reale impiego di energie richiesto per realizzarli. Di solito, mi spiega Francesca, chi mette l’economia in condivisione totale è molto più forte, anche se per il singolo c’è molto più rischio e in ogni caso non tutti sono fatti per una vita essenziale e semplice.

Una lunga esperienza

Sulle colline tra Perugia e Terni, c’è Utopiaggia, l’ecovillaggio più antico e longevo d’Italia. Nel 1972 Ingrid, Bernd, Ildiko, Barbara e altri ragazzi decidono di fondare una comunità “anarchica e umanistica” in Bassa Baviera. All’inizio portano avanti la comunità Barhof in Germania e poi acquistano cinque ruderi abbandonati con 100 ettari di terreno in Umbria (per 480 milioni di lire). È il 1982 quando la comunità si trasferisce in Italia. Oggi Ildiko ha i capelli bianchi ma la stessa energia di trent’anni fa. Vive con Franco, bolognese, in una delle case del villaggio, lei tinge lana e seta con tinte naturali e lui è un ex giornalista di Lotta continua che ora scrive di bioagricoltura.

Beviamo un tè in una stanza inondata di luce e piena di libri, dove dal soffitto a travi penzolano gomitoli colorati. La loro è una vita semplice e ormai relativamente libera da impegni comunitari. Le riunioni sono una volta al mese e al venerdì sera c’è una serata ricreativa dove si fa musica e si sta insieme. L’età media dei 19 residenti (di cui solo sette italiani) è ovviamente abbastanza alta, ma ora abbassata dalla presenza di cinque bambini. «Vivere in coppia in un posto così selvaggio e isolato può essere molto noioso», mi dice Ildiko, «invece così ci divertiamo di più. Purtroppo una parte dei nostri figli è tornata in Germania, ma anche quelli che sono rimasti in Italia hanno trovato lavoro fuori di qui. La crisi non ha aiutato e forse non siamo riusciti a essere abbastanza autosufficienti. Facciamo pane, formaggio, ceramiche, tessuti, abbiamo le pecore, ma non basta».

Si vede che Ildiko e Franco sono persone speciali, emanano una sorta di dolcezza del vivere, nonostante lo stile di vita estremo che conducono. Sarà l’assoluta mancanza di fondamentalismo con cui si esprimono. O la lunga esperienza.

Allegria composta

Non lontano da qui, a Passignano sul Trasimeno, c’è Panta Rei, che ha l’ambizione di essere un centro di educazione permanente. Siamo accolti in un ampio refettorio che somiglia a un rifugio di montagna, con la differenza che dalle enormi vetrate si vede il lago Trasimeno. Le tavolate sono occupate quasi interamente da una quarantina di “studenti” di permacultura. Mangiamo verdure dell’orto, riso alla zucca e una buonissima tisana al rosmarino. Visitiamo le casette che sono belle e luminose, una è costruita sull’albero, un’altra ha una serra dentro casa.

Più a valle si intravede un orto gigantesco. C’è una allegria composta nell’aria. Appare subito chiaro che Panta Rei non è solo un villaggio ecologico, ma ha da sempre una vocazione all’educazione ambientale. Già negli anni ottanta, Dino Mengucci aveva fondato la cooperativa Buona terra, una azienda agricola biologica e fattoria didattica (la prima in Italia). Nel 1995 Mengucci e compagni decidono di recuperare un’area abbandonata e danneggiata da un incendio e nasce così Panta Rei. Formato da un’ampia struttura ricettiva e da piccole casette fatte di terrapaglia e materiali di recupero, il villaggio è completamente sostenibile al livello energetico (l’acqua viene da un sistema di fitodepurazione o dalla raccolta piovana, l’energia dai pannelli solari). Panta Rei oggi offre ospitalità anche a grosse comitive di studenti o di adulti ed è attivo quasi tutto l’anno con corsi e seminari di permacultura, yoga, ecologia.

All’interno ci sono anche una falegnameria e una calzoleria. «Panta Rei vuole essere una scuola da zero a cento anni», dice Beppe, residente dal 2011 e oggi braccio destro di Mengucci nel coordinamento. «A noi interessa attivare processi cognitivi, anche solo insegnare ai bambini a usare l’acqua in un certo modo. Sono cose semplici, che sembrano elementari, invece non è scontato essere coscienti di ciò che puoi cambiare e ciò che non puoi cambiare. In realtà le uniche cose che non puoi cambiare sono la nascita e la morte».

Come Findhorn in Scozia, un ecovillaggio che è stato un modello un po’ per tutte queste realtà, anche questa struttura sul piano legale è un “trust” (che si differenzia dalla fondazione perché anche se cambiano i capi la destinazione finale del luogo rimane le stessa). «Non siamo interessati a modelli, siamo interessati al cambiamento. Tutto scorre, panta rei».

La città della luce è un posto molto noto tra chi conosce il reiki. Nasce infatti come centro per l’insegnamento di questa pratica di guarigione e come associazione culturale, nel 1996, a Genova, ma nel 2006 approda sulle colline di Ripe, nelle Marche, dove una antica dimora storica di 2.500 metri quadrati accoglie oggi la comunità composta da una trentina di persone tra cui anche nonni e bambini.

Al primo impatto La città della luce sembra una sorta di centro benessere del bionaturale: oltre al reiki, qui si può praticare l’ayurveda, le costellazioni familiari, lo yoga e la meditazione, si possono comprare creme, monili, abiti in fibre naturali. In effetti l’intento di questo gruppo è proprio quello di offrire al mondo un nuovo modello di società, i cui pilastri poggiano sul benessere dell’individuo.

Ci accoglie Tirtha (Chiara) che ha 29 anni ed emana una notevole luce naturale, ha i capelli color mogano e i tratti di una nativa americana. Tirtha ci accompagna a vedere la grande casa, con le varie sale del reiki, dell’ayurveda e il campo degli ulivi, dove d’estate si fa yoga all’aperto. Poi andiamo alla Casa dei ciliegi, una casa a pochi chilometri dalla sede, dove abitano altre persone tra cui due bambini di tre anni e due asini. Qui Dhara (Janneke) ci mostra l’orto sinergico e il chicken tractor. Qui è dove d’estate si fa la cerimonia del temazcal o sweat lodge, in una specie di capanna fatta di legno di salice con all’interno pietre roventi. Finito il pranzo, vero momento conviviale della comunità, mi torna in mente una scena di Arcadia di Lauren Groff.

Arcadia è un romanzo americano che racconta la storia di una comunità utopica, dalla sua nascita al suo declino, passando dai suoi momenti più gioiosi a quelli più tragici (tra l’altro il romanzo è liberamente e parzialmente ispirato proprio a The Farm). Come tutti i bei romanzi Arcadia è anche la storia di un sogno infranto.

Ripenso alla scena in cui il ragazzino protagonista, dopo essere cresciuto dentro la comunità, approda a New York e qui realizza che non è la campagna a rendere unico l’esperimento di Arcadia ma la vicinanza, la connessione tra le persone. Che è poi quello che manca nella nostra società.

Vedendo queste persone vivere e mangiare insieme in questa sala affacciata sulle colline marchigiane, penso che in fondo hanno trovato un modo per non stare sole.

Ripenso anche a ciò che mi aveva detto Lauren Groff qualche anno fa: «Il problema è l’utopia. Perché l’utopia è un paradosso. È un esercizio intellettuale, che non tiene conto della natura umana: se sono coinvolte persone con i loro casini, le loro stravaganze, anche gli ideali sono per forza un po’ diversi. L’esperimento utopico è destinato a fallire. E sono convinta che il fallimento sia ciò che rende questi esperimenti così vitali, così simili alla vita stessa. Questo non vuol dire che siano meno importanti o meno interessanti. Sono interessanti, proprio perché falliscono. Le comuni utopiche non sono altro che una metafora della vita stessa e, come la nostra vita, destinate alla morte».

Certo, perché la forza vitale dell’esperimento comunitario risiede proprio nella dicotomia tra l’ideale e il limite connaturato nella natura umana: per vivere in una comunità non solo bisogna condividerne l’ideale, ma anche accettare il limite dell’essere umano, di ogni essere umano.

La città verde

Sono tante le ragioni che fanno fallire questi esperimenti. Secondo Francesca Guidotti «una comunità muore quando non ci sono più gli strumenti o le energie per mettersi in discussione». In generale mi pare che le comunità resistano meglio se non si allargano troppo. «Se manca la libertà, l’esperimento muore», dice Jacopo Fo, che 37 anni fa ha fondato con alcuni amici la libera università di Alcatraz e da due anni ha dato vita al progetto Ecovillaggio solare, dove per ora vivono 14 persone.

«A noi piace fare le cose piccole. Niente rigidità, nessun credo. Vogliamo solo facilitare il trasferimento delle persone in campagna, poi ognuno vive come vuole». In realtà l’ecovillaggio solare è un progetto di ampio respiro, una vera è propria “città verde”, dove ognuno avrà la sua abitazione e terreno, con aree comuni come la piscina, un’area di coworking, una sala per gli spettacoli; la particolarità sono le case restaurate o realizzate con le tecniche ecosostenibili più all’avanguardia per il fabbisogno energetico, all’interno di un’area protetta.

«Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta», diceva l’architetto Richard Buckminster Fuller, l’inventore della cupola geodetica e pioniere del pensiero olistico e ambientalista. Se aveva ragione Fuller, allora gli ecovillaggi sono davvero dei modelli nuovi e dei tentativi di anticipare elementi di un mondo migliore nelle crepe di quello esistente.

«Il 20 gennaio Trump assumerà i pieni poteri come presidente degli Stati Uniti e si annunciano per quel giorno e i successivi varie manifestazioni che contesteranno l’evento».

connessioniprecarie online, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)

Già si vedono i primi fallimenti dell’antitrumpismo, versione riveduta e corretta dell’italico antiberlusconismo di una quindicina di anni fa. Il riconteggio dei voti, richiesto dalla candidata verde Jill Stein per presunti brogli in Wisconsin, dove Trump ha prevalso su Clinton per soli 22 mila voti, si è concluso con l’assegnazione di 130 voti in più a Trump.

L’appello ai grandi elettori repubblicani per non confermare la vittoria di Trump, sostenuto con centinaia di migliaia di firme, non ha ottenuto alcun effetto. L’idea che sta alla base di queste iniziative è che Trump rappresenti un vulnus per l’assetto istituzionale americano che rimane, pur con alcune distorsioni, democratico e in salute.

Il preambolo della Costituzione americana, We the people, diventa il feticcio continuamente agitato, come se di per sé costituisse un antidoto al tycoon newyorchese. Ma dopo i tre strappi avvenuti negli ultimi 16 anni, tutti a svantaggio dei democratici, – Gore che prende più voti di Bush senza diventare presidente, i democratici con più consensi ma in minoranza, con 30 deputati in meno dei repubblicani alla Camera dei rappresentanti nel 2012 e i quasi 3 milioni di voti di scarto di Clinton rispetto a Trump – la distanza tra il sistema rappresentativo americano e la volontà degli elettori contraddice anche gli stessi principi della democrazia liberale.

La contraddizione si approfondisce se si guarda a una Hillary Clinton che vince nettamente nel 15% delle contee (in pratica le due coste), dove si produce il 65% del Pil, e Trump nel restante 85%, in quello che viene chiamato paese-cavalcavia. Detto in altri termini, una maggioranza elettorale e una potenza economico-finanziaria concentrate territorialmente che vengono sconfitte da una minoranza di elettori diffusa e articolata in una varietà di interessi anche contrapposti.

Come Trump e il suo establishment riusciranno a far convivere, non certo a comporre, l’estrema destra della Alt-Right con le concrete rivendicazioni degli operai del Michigan delusi dal sindacato e dal partito democratico rimane una domanda aperta. Anche se, osservando come si è mosso in questi due mesi scarsi il transition-team, il gruppo creato da Trump per gestire le nomine della futura amministrazione e il suo posizionamento politico, alcuni elementi vengono alla luce.

Dopo una prima fase in cui la scelta era orientata a ricucire con il gruppo dirigente del partito repubblicano, attenuando le fratture, si è repentinamente cambiato registro quando Trump e il suo staff, nel tour di «ringraziamento» post-elettorale attraverso gli Stati Uniti, hanno realizzato che, per mantenere il consenso, non potevano discostarsi molto da quell’immagine di populista autoritario e decisionista costruita nelle primarie e nella campagna elettorale. Un’immagine appunto che mette in tensione l’intero sistema istituzionale e rappresentativo senza però arrivare alla rottura conclamata. È la forza e la debolezza di Trump: non adeguarsi ma nemmeno rompere, pena essere travolto dal terremoto che lui stesso ha provocato.

Una presidenza, dunque, che sarà segnata da un defatigante e continuo work in progress, con l’incidente politico e diplomatico sempre dietro l’angolo. Tutto ciò può reggere a condizione che il conflitto sociale sia represso o, nella peggiore delle ipotesi, perimetrato e confinato politicamente e territorialmente. Non è un caso che nelle dichiarazioni di Trump e negli incarichi annunciati della prossima Amministrazione l’incompatibilità, implicita o esplicita, sia stata individuata nella lotta dei Sioux a Standing Rock, in Black Lives Matter e nella campagna per un salario minimo di 15 dollari all’ora.

La lotta iniziata dai Sioux Lakota contro l’oleodotto che inquinerà le falde acquifere dei loro territori ha progressivamente assunto il valore politico della contestazione generale. Una resistenza che dura da mesi, che ha richiamato nel Nord Dakota rappresentanti di centinaia di tribù di nativi e qualche migliaio di attivisti e che inquieta il team di Trump, che teme innanzitutto una possibile riedizione a Standing Rock dell’occupazione, armi alla mano, di Wounded Knee organizzata alcune centinaia di Sioux Oglala dell’American Indian Movement nel marzo-aprile del 1973.

In seconda battuta il timore deriva dalla possibile riproduzione in una grande metropoli dell’occupazione di spazi urbani e della possibilità che vengano autogestiti con un’organizzazione più strutturata di quella dimostrata da gran parte del movimento Occupy. Senza sottovalutare poi la possibilità che si attivino non prevedibili percorsi di politicizzazione, come ad esempio quelli dei giovani Sioux in dissenso con i consigli degli anziani che gestiscono i campi della protesta nel Nord Dakota.

Quanto a Black Lives Matter, nonostante la coalizione di gruppi, collettivi, associazioni che vi si riconoscono non stia attraversando, dopo l’elezione di Trump, una fase particolarmente dinamica di attivismo, essa mantiene tuttavia una capacità di mobilitazione che può ripresentarsi in ogni momento a causa di uno degli innumerevoli omicidi di afroamericani che la polizia continua a compiere. La necessità di un salto qualitativo, come quello tentato con Ferguson Action dopo l’esplosione della rivolta di due anni fa nella città del Missouri, continua a essere evocata.

Se in Black Lives Matter si consolidasse la tendenza che, anziché interpretare tutto come la volontà di affermazione di un suprematismo bianco, legge il razzismo istituzionale come il modo del «normale» funzionamento politico e sociale della cosiddetta società post-razziale americana, si aprirebbero spazi inediti di soggettivazione all’interno delle comunità afroamericane. Black Lives Matter continua a essere su un crinale tra la necessità di sostanziare politicamente e socialmente il razzismo istituzionale e la difficoltà a emanciparsi dal peso della tradizione delle lotte per i diritti civili degli anni ’60. È chiaro che, se dovesse imboccare decisamente la prima strada, per la presidenza Trump si aprirebbe un fronte difficilmente governabile con la sola repressione.

Sono passati 4 anni dal primo sciopero a New York – illegale secondo la legge in vigore in quello stato e in quella città – dei lavoratori dei fast food per un salario minimo di 15 dollari all’ora. Un movimento nato dall’impulso di associazioni del volontariato civile e religioso e di settori attivi del movimento Occupy, che inizialmente scontava l’opposizione dei principali sindacati. In questi 4 anni si sono succedute varie fasi: dalle giornate di azione coordinate a livello nazionale alla promozione di referendum in vari Stati alla pressione sulle amministrazioni locali per adottare delibere a sostegno del salario minimo. In mezzo c’è stato anche il tentativo della SEIU, il principale sindacato dei lavoratori pubblici, di governare il movimento tentando di azzerare la rappresentanza che si era dato.

Un tentativo che ha avuto però l’effetto di un boomerang quando si è scoperto che, per raggiungere il suo scopo, la SEIU aveva assunto temporaneamente alcune centinaia di precari, dopo un breve corso di «attivismo», pagandoli meno di 15 dollari all’ora. In altri termini, un sindacato che per sostenere la lotta per un salario minimo di 15 dollari all’ora sfrutta una forza-lavoro precaria pagandola meno della rivendicazione minima che vuole perseguire. Attualmente in nessuno Stato e in nessuna città, nonostante gli impegni presi, è in vigore un salario minimo di 15 dollari all’ora.

E dalla seconda metà di novembre il conflitto è ripreso in varie città e catene di fast food. La decisione di Trump di nominare a capo del Dipartimento del Lavoro Andrew Puzder, amministratore delegato della grande catena CKE Restaurants e nemico dichiarato del salario minimo, è un messaggio esplicito. Da una parte si annunciano grandi piani di investimento per ammodernare le infrastrutture del paese, al limite dell’aborrito keynesismo, scommettendo su un rilancio dell’industria manifatturiera e quindi di posti di lavoro, anche per consolidare il consenso tra gli operai che lo hanno votato; dall’altra, si vuole ulteriormente precarizzare, se non clandestinizzare, una forza-lavoro, soprattutto migrante o di origine migrante, che lotta per il salario minimo. Un fronte aperto che preoccupa non poco l’Amministrazione che sta per entrare in carica.

Il 20 gennaio Trump assumerà i pieni poteri come presidente degli Stati Uniti e si annunciano per quel giorno e i successivi varie manifestazioni che contesteranno l’evento. Inizia anche a circolare la parola sciopero con grande dispiacere di Richard Trumka, presidente della Afl-Cio, la maggiore confederazione sindacale, che si è affrettato a smentire un loro coinvolgimento.

Che sia ancora viva la memoria dello sciopero generale del novembre 2011, organizzato a Oakland dal movimento Occupy dopo 65 anni dall’ultimo sciopero generale, violando le leggi in vigore e scavalcando le organizzazioni sindacali?

«, Fuori dal tunnel. doppiozero online, 26 dicembre 2016 (c.m.c.)

Ormai fanno parte del paesaggio. Che si imbocchi la SS 24 sul lato settentrionale della valle o che si percorra la SS 25 lungo i pendii a sud della Dora Riparia, le bandiere, le scritte, i cartelli con sopra il logo no-tav sono onnipresenti in val di Susa. Li vedi appesi ai balconi delle case, sventolare nei giardini, penzolare dai tralicci a volte grigi di smog e lacerati dal tempo. I muri della valle sono pieni di slogan e persino sull’erba del versante sud del Musiné spiccano due grandi scritte bianche, visibili anche dal fondovalle. Sono i segni e i simboli della ormai ultra ventennale lotta contro il treno ad alta velocità.

Fino ad alcuni anni fa parlare di val di Susa significava evocare montagne ricche di storia, celebri monasteri come l’abbazia di Novalesa o la Sacra di San Michele, rifugi molto frequentati cari agli escursionisti come il Val Gravio, il Mariannina-Levi, il Cà d’Asti e ascensioni alpine come quelle al Rocciamelone, al Niblé, al Sommeiller. E sport invernali: con il suo grande comprensorio della Via Lattea e le note stazioni invernali di Sauze d’Oulx, Cesana, Clavière, Bardonecchia, Sestrière la val di Susa è stata uno dei primi templi dello sci alpino italiano.

Da una ventina di anni a questa parte, invece, “val di Susa” è diventata sinonimo di una lotta, intrapresa dagli abitanti della valle, in particolare della bassa valle, che ha acquisito una risonanza non solo nazionale, ma che ha travalicato i confini del Paese.

Qualche tempo fa, viaggiando su un treno verso Parma, mi è capitato di ascoltare una divertente conversazione tra due signore dall’inconfondibile accento emiliano, che sedevano nei sedili accanto al mio. Una diceva: «Se prendi il no-tav da Milano a Bologna ci metti un’ora e mezza» e l’altra rispondeva, «Lo so che con il no-tav si fa in fretta, però costa caro» e via così.

Da un lato mi veniva da sorridere per la confusione tra la sigla che indica il treno ad alta velocità e quella del movimento della popolazione della valle di Susa che al passaggio di quel treno nella valle si oppone; dall’altro, invece, mi colpiva come l’espressione “no-tav” fosse così penetrata nell’immaginario non solo locale, ma anche nazionale, tanto da entrare a far parte del linguaggio comune, anche se, talvolta, usato a sproposito.

Neppure un mese dopo un mio studente discuteva una tesi di laurea, basata su numerose interviste, sul neo-ruralismo nell’Imperiese in cui emergeva una nuova visione dell’economia, dell’ambiente e delle relazioni sociali da parte di questi giovani ritornati alla terra. Dal tono della discussione e della tesi traspariva in modo evidente il coinvolgimento personale del candidato, che in quei valori credeva assolutamente. Al termine della discussione la commissione ha espresso pareri favorevolissimi e il giovane si è laureato con il massimo dei voti. Appena uscito, un collega mi si avvicina e mi dice sorridendo, con tono compiaciuto: «Sembra proprio un tipico valsusino!».

Fino a una ventina di anni fa essere valsusini significava essere montanari come tanti altri o forse non significava nulla di particolare, se non il fatto di abitare in quella valle che da Torino corre a ovest dritta dritta verso la Francia; oggi questo aggettivo ha assunto significati più ampi, che vanno al di là dei confini territoriali, rinchiusi tra le montagne che si affacciano sulla Dora Riparia: valsusino oggi significa no-tav e no-tav significa resistenza, come illustrano le parole di un intervistato: «Quando vai in giro e qualcuno ti chiede da dove vieni? Se dici “vicino a Torino” tutto ok, la conversazione sta sul vago, ma se dici valle di Susa, scatta l’identificazione: è un marchio e “devi” parlare! È impossibile che non ti venga chiesto un parere sul tav ».

Diventata un vero e proprio logo, la sigla no-tav, con quel treno cancellato da una croce rossa, peraltro non risponde nemmeno al vero obiettivo della lotta. Il movimento, infatti, non si oppone al treno ad alta velocità tout court, ma alla realizzazione del tunnel, voluto dalle istituzioni nazionali e respinto dagli abitanti del luogo, che chiedono di vedere tutelato il loro territorio alla luce di dati che dimostrano la presenza di amianto e uranio nelle aree di scavo. L’immagine sensazionalistica e talvolta strumentale fornita dai media, che spesso hanno indugiato sugli scontri tralasciando la parte relativa ai contenuti della resistenza, ha distorto la percezione, che generalmente si viene ad avere dal di fuori, di ciò che accade nella valle.

In realtà la parte “violenta” del movimento è quanto mai minoritaria e spesso esterna alla popolazione della valle, dove invece si seguono altri percorsi, improntati a uno spirito assolutamente pacifista, anche se alquanto combattivo. È vero però che a volte è proprio la sordità o peggio la malafede dei media, che raramente parlano delle manifestazioni e delle iniziative pacifiche, ma calcano la mano solo sui gesti violenti, a innescare un circolo vizioso che spinge talvolta i manifestanti a usare forme di violenza per ottenere visibilità.

Secondo la logica che fa più rumore un albero che cade, di una foresta che cresce, ciò che è venuto a mancare, sul piano dell’informazione è una più corretta analisi dei profondi cambiamenti che stanno avvenendo in val di Susa, o almeno nella bassa valle, quella più coinvolta nella lotta contro il tav. Cambiamenti che, se osservati attentamente, sposterebbero l’immagine del movimento no-tav da un piano puramente antagonista (quando non addirittura terrorista) a quello di un laboratorio, dove si stanno sperimentando nuove forme di democrazia e di presa in carico di responsabilità, da parte dei cittadini, della cosa pubblica.

Voci e suoni

Il pomeriggio del 12 dicembre del 1992, nel cinema di Condove di fronte a un’assiepata assemblea di cittadini, grazie a una elaborazione effettuata al Politecnico di Torino, viene fatto ascoltare il rumore di un Tgv che passa in una valle alpina a 300 chilometri all’ora. Uno choc per i presenti: sentire un urlo che rimbomba, amplificato dai pendii montani che racchiudono la valle. Questo è uno dei tanti momenti, che hanno innescato il processo di riflessione, di presa di coscienza da parte di moltissimi abitanti della valle, che si è tradotto in un movimento, protagonista di una battaglia di opposizione contro la realizzazione della linea ad alta velocità (poi diventata ad alta capacità). A quell’urlo lanciato da un treno che corre follemente in una valle, si sono opposte da allora tante voci, sempre di più, voci diverse.

Nel corso della mia ricerca sul terreno, per indagare le trasformazioni indotte nella valle in seguito al movimento no-tav, ho raccolto molte di queste voci, ognuna delle quali raccontava una storia, che andava ben al di là della questione del treno, così come ogni storia era la storia di una vita e di memorie vissute prima del tav e che forse sopravvivranno al tav. Potrà forse colpire il numero di racconti riportati, a volta anche discordanti tra di loro, ma è stato necessario proprio per restituire l’idea del pluralismo che caratterizza il movimento no-tav, una delle sue caratteristiche principali e forse una delle chiavi principali della sua durata.

In compenso nel libro non si troveranno molti dati tecnici. Non era, infatti, mia intenzione discutere la questione del tunnel per l’alta velocità dal punto di vista tecnico – il problema è già stato ampiamente affrontato da persone competenti – ho voluto invece indagare sulle ricadute socio-culturali che oltre vent’anni di lotta hanno provocato in valle di Susa. Per esempio, il formarsi in bassa valle di una comunità di intenti e di saperi, che prima non esisteva o almeno non era animata da legami e relazioni forti né da una conoscenza condivisa come ora.

La minaccia del tunnel ha spinto la gente a unirsi in una lotta comune, ma ciò che forse rende diverso il no-tav da altri movimenti analoghi è la progressiva costruzione di un sapere condiviso, che poco a poco si è esteso a temi e ad argomenti che non riguardano solo il treno e le questioni a esso inerenti. Tale sapere ha portato la comunità o almeno molti dei suoi membri, ad avviare una profonda riflessione su temi ampi e attuali come il modello di sviluppo, le forme di rappresentanza democratica e i beni comuni. Nonostante il movimento no-tav non abbia perso la sua spinta né la sua vocazione antagonistica, è diventato anche e soprattutto un movimento “per” e non solo un movimento “contro”.

Non è semplice fare ricerca in un contesto conflittuale come quello della val di Susa, senza simpatizzare per una delle parti in causa. Questo potrebbe compromettere una certa oggettività, virtù peraltro messa in discussione dagli antropologi post-moderni. Ogni resoconto etnografico in fondo è più simile a una narrazione che a un trattato scientifico, come ebbe già a dire Edmund Leach e ogni narrazione presuppone un narratore identificabile, che porta con sé il suo bagaglio di esperienze e di convinzioni. A una visione presuntamente oggettiva ho cercato perciò di contrapporre una lettura “emica” degli eventi e delle reazioni a essi collegati.

Di fare emergere il più possibile le storie dei protagonisti del movimento. La mia idea iniziale di scrivere un saggio nel senso classico del termine, si è subito scontrata con la necessità di preservare e di restituire quelle voci, con tutta l’umanità che si portano dentro e che esprimono. Una scrittura troppo “tecnica”, una struttura troppo enunciativa avrebbero penalizzato la narrazione dell’esperienza di ricerca e la profondità dell’incontro.

Racchiudere quel flusso incessante di racconti, aneddoti, emozioni in categorie e in una forma di narrazione troppo schematiche sarebbe risultato penalizzante. Ogni forma di scrittura è una traduzione e ogni traduzione comporta un piccolo, necessario tradimento. Non solo perché il passaggio dalla narrazione, dall’immagine, dall’episodio vissuto alla parola scritta comporta un cambiamento di linguaggio, ma anche e soprattutto perché di mezzo c’è l’inevitabile opera di interpretazione che l’autore compie rispetto ai fatti. Fatti che in taluni casi sono già stati interpretati da chi all’autore li ha raccontati. Dopo che Clifford Geertz ci ha dimostrato come la personalità dell’autore emerga dal testo, indipendentemente dalla sua volontà, tanto vale evitare di nascondere la propria soggettività ed esplicitarla chiaramente.

Essere comprensibili è un dovere irrinunciabile e un linguaggio narrativo facilita l’operazione, in quanto sistema primario. Infatti noi impariamo a gestire un sistema narrativo prima ancora di imparare a parlare. Un tono eccessivamente tecnico e una scansione dei temi trattati troppo rigida contribuiscono a rendere elitario, per non dire settario il sapere antropologico (che troppo spesso appare come l’espressione di una comunità che dialoga solo con se stessa, al proprio interno, con i propri membri), ma soprattutto disumanizza al massimo l’esperienza sul campo che viene condivisa invece con gente normale che poco o nulla sa dell’accademia e dell’antropologia.

Il genere letterario-etnografico si adatta alla rappresentazione della vicenda antropologica, grazie alla sua capacità di connettere eventi, tempi e spazi diversi attraverso una trama costante e continua. La narrazione, quasi paradossalmente, diventa così meno metaforica e più realistica. L’assenza, o almeno l’ampiezza, di confini della narrativa permettono quindi di mostrare una realtà nelle sue molteplici sfaccettature, inclusa quella di chi scrive.

«La narrativa personale» come scrive Marie Louise Pratt, «media la contraddizione tra l’impegno richiesto dal lavoro sul campo e l’autoannullamento richiesto da una descrizione etnografica informale o almeno attenua alcune di queste angosce inserendo nel testo etnografico l’autorialità dell’esperienza personale».

Forse nessuna forma di scrittura riuscirà mai a restituire interamente il vissuto dei racconti, ma forse almeno un po’ dell’anima delle persone che ho incontrato, spero sia rimasta impigliata tra le righe.

«Il multiculturalismo e i suoi critici, ». il manifesto, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)

Ne Il multiculturalismo e i suoi critici (Nessun Dogma, pp. 94 p., 8,50 euro) lo scrittore e conduttore radiofonico britannico di origini indiane Kenan Malik affronta a viso aperto probabilmente «il tema» della sociologia contemporanea: come far fronte alle sfide di una società multietnica e multiculturale che, tra reflussi identitari neonazisti e criticità estremiste, si sta facendo largo nello spazio pubblico del Vecchio continente.

La buona notizia è che il saggio di Malik non contiene la ricetta per la panacea dei mali della modernità, preferendo alla presunzione dell’«ora ve lo spiego io» l’umiltà della messa in discussione di ogni preconcetto sul tema, anche quelli apparentemente insospettabili.

L’oggetto dell'analisi è il concetto stesso di multiculturalismo, affrontato nei primi capitoli col rigore millimetrico dell’accademico che, in un preambolo fondamentale per seguire il resto del saggio, cerca di fissare un significato neutrale e condiviso del termine stesso rifacendosi alle tenzoni filosofiche degli ultimi tre secoli. Lo fa spaziando dall’illuminismo ateo fino al romanticismo più «orientalista», facendo emergere le incrinature del pensiero che hanno dato vita alle due correnti antitetiche dei giorni nostri: quelli dello «scontro di civiltà» e quelli dell’«accoglienza e difesa delle peculiarità culturali».

La critica dei primi, che in Italia trovarono nell’ultima Oriana Fallaci il proprio portavoce più scellerato, si aggiunge agli sforzi di tutti quegli intellettuali progressisti contemporanei impegnati nel contrastare il ripiegamento identitario di una società stretta tra la «paura dell’altro» e una crisi socioeconomica dalla quale si fatica a intravedere una via d’uscita. Nulla di rivoluzionario, ma apprezzato promemoria.

Ma è la critica dei secondi che fa di questo saggio una lettura imprescindibile per chi ha a cuore il futuro dell’Europa, spingendosi in un’analisi impietosa di tutti gli errori madornali commessi in un passato recentissimo da chi, in ottima fede, ha provato a tutelare e difendere chi ha deciso di migrare in Europa. Un eccesso di zelo mal calibrato che, rileva Malik, ha dato vita a delle difese d’ufficio francamente imbarazzanti, come nel caso delle vignette blasfeme in Danimarca qualche anno fa.

Malik, dopo aver ripercorso la cronologia degli eventi ed evidenziato come «il caso» sia stato fatto esplodere dai media e non, come vorrebbe la vulgata comune, da folle di musulmani indignati, racconta: «il parlamentare danese Naser Khader, che è musulmano sebbene non osservante, racconta di una conversazione avuta con Toger Seidenfaden, direttore di Politiken, un giornale di sinistra molto critico verso le vignette. “Mi disse che le vignette offendevano tutti i musulmani”, ricorda Khader, “gli dissi che non ero offeso. Lui rispose: ‘Ma lei non è un vero musulmano’”. Agli occhi dei progressisti, in altre parole, essere un vero musulmano significa trovare le vignette offensive».

Gli incasellamenti automatici di comunità eterogenee secondo convenzioni unilaterali – pakistani=musulmani osservanti, ad esempio – hanno contribuito a fare il gioco delle destre, combattendo su un terreno scivoloso come quello della «civiltà» tra chi vuole difendere la propria e chi vuole tutelare quella altrui. Senza notare che «civiltà» e «cultura» sono concetti liquidi, che si modellano in base alle esperienze di vita vissuta, e che variano di generazione in generazione. Nei casi di Regno Unito e in Germania, infatti, «negli anni Sessanta e Settanta gli immigrati musulmani non smaniavano per manifestare le loro differenze ma, piuttosto, esigevano di non essere trattati in maniera differente.

Solo successivamente i musulmani, a partire da una generazione che ironicamente era molto più integrata di quella dei genitori, hanno iniziato ad affermare la propria peculiarità culturale. Questo è il paradosso dell’immigrazione e dell’integrazione con cui pochi intellettuali o politici sono disposti a confrontarsi o anche solo ad ammettere».

Un paradosso figlio, anche, di politiche per l’integrazione raffazzonate, stilate su preconcetti culturali in cui le comunità in arrivo vengono appiattite su caratteristiche fenotipiche appiccicate in fretta e furia dai legislatori su gruppi di persone che, spesso, hanno in comune solo la nazionalità sul passaporto. Al posto di una strategia per l’integrazione omnicomprensiva, i legislatori hanno preferito muoversi su linee di demarcazione etniche, creando di conseguenza conflitti tra le diverse comunità per le risorse da allocare, poiché «le persone si mobilitano in base a come gli sembra di poter ottenere risorse per affrontare questioni che ritengono importanti».

Secondo Malik, quindi, la sfida del multiculturalismo può essere vinta solo respingendo la paura in entrambe le sue manifestazioni uguali e contrarie: quella dell’«altro» e quella che impone di «monitorare la diversità per minimizzare gli scontri, i conflitti e le frizioni che porta subito dopo, che tutto debba essere graziosamente incasellato in nicchie di culture, etnie e fedi, che il disordine sia ripulito e ordinato».

Considerando il disordine come «materia prima dell’attivismo» e «base concreta per il rinnovamento sociale», Malik ci esorta a spogliarci dei preconcetti multiculturalistici all’apparenza più virtuosi e ad affrontare i cambiamenti inevitabili in corso nella nostra società – nostra di «tutti» – mettendo in discussione in primis la nostra presunzione, mal riposta, di essere dalla parte giusta della barricata.

. articolo21 online, 23 dicembre 2016 (c.m.c.)

Sento che il Natale, questo Natale, irrompe nei nostri giorni per ricordarci di non arrenderci al presente. A sussurrare all’orecchio di ciascuno che il presente non ci basta.

Qualche giorno fa un’amica, solitamente un po’ sopra le righe, diceva che questo presente non ci merita. E non è che non lo amiamo questo tempo carico di nubi che impediscono la luce del sole. Vorremmo piuttosto trasformarlo nell’oltre. In un orizzonte che desideriamo, intravediamo e vogliamo avvicinare.

Perché il presente non basta a Martino, trent’anni con laurea e master sudati per il massimo dei voti e delle conoscenze, che perde entusiasmo e speranza ad ogni porta che si richiude cortesemente blindata al suo bussare.Vorrei non si arrendesse al presente nemmeno Gilda a cui senza troppi giri di parole hanno detto che le metastasi ormai diffuse decretano chiaramente che non le resta molto tempo.

Ma anche Mons. Dario de Jesus Monsalve, vescovo di Cali in Colombia e attivo mediatore di pace, vorrei che andasse oltre il presente che lo vede condannato a morte dai narcos e dai signori della guerra che qualche giorno fa gli hanno recapitato un messaggio in cui si legge che “il clero comunista” non merita di vivere. D’altra parte già il suo predecessore Isaías Duarte Cancino fu ucciso da una sventagliata di mitra nel 2002 mentre usciva da una chiesa.

Che non si arrenda al presente la folla di coloro che subiscono le guerre e la miseria pianificate e alimentate da altri.

C’è sempre un oltre che non ammette rese.Dobbiamo soltanto sforzarci di affrontare il tempo presente insieme.Ce lo ricorda un bambino piccolo e indifeso che nasce povero e si affida alle nostre premure. Dio che si fida di noi.

Business insider Italia online, 25 dicembre 2016

La popolazione dell’Africa sta esplodendo.

Secondo la stima delle Nazioni Unite, il continente vedrà la sua popolazione attuale di 1,2 miliardi raddoppiare entro l’anno 2050. Significa una crescita media di 42 milioni di persone – praticamente una nuova Argentina – ogni anno.
Guarda anche: la Cina ha un problema, invecchia
Una serie di importanti progetti di infrastrutture, incluso reti ferroviarie, dighe e soluzioni per l’energia pulita come pannelli solari, sono in costruzione, o in progetto, per “creare spazio” per tutte queste persone e per risolvere i problemi di spazio, traffico e igiene, per nominarne solo alcuni, che questa esplosione demografica comporta.
Ecco alcuni dei più grandi progetti che arriveranno in Africa nei prossimi decenni
1. Il corridoio Nord-Sud

Ernst & Young
Nel 2009 il Mercato Comune per l’Africa Orientale e Meridionale ha iniziato a lavorare sul Corridoio Nord-Sud, una serie di autostrade e reti ferroviarie che attraversano sette paesi per quasi 10 mila km. Il suo costo totale è di circa un miliardo di dollari.
2. Il porto di Bagamoyo (Tanzania)

REUTERS/China Daily
Il porto di Bagamoyo diventerà il porto più grande d’Africa, in grado di gestire 20 milioni di container ogni anno. Con un costo stimato di 11 miliardi di dollari una società di costruzioni pubblica cinese dovrebbe completare il porto entro il 2045.
3. Modderfontein New City (Sudafrica)

Shanghai Zendai
Nel 2013 la società di sviluppo cinese Zendai Property Limited ha annunciato che stava costruendo una città da 8 miliardi di dollari fuori Johannesburg, chiamata Modderfontein New City. Diventerà un centro direzionale per le imprese cinesi che stanno investendo in infrastrutture per l’Africa.
4. Konza Technology City (Kenya)

Konza City
Per non essere da meno, il Kenya avrà Konza Technology City, un centro per lo sviluppo di software da 14,5 miliardi di dollari appena fuori Nairobi. Il governo lo definisce “dove comincia la Savana di Silicio africana ”.
5. Collegamento Rabat-Salé (Marocco)

Jean Nouvel
Nel 2013 il Marocco ha lanciato un progetto di sviluppo urbano da 420 milioni di dollari nella Valle del Bouregreg. Costruendo in quell’area si creerà un collegamento tra Rabat e Salé, due delle città marocchine più vivaci e attualmente divise dalla valle.
6. Ferrovia Lagos-Calabar (Nigeria)

CCECC
All’inizio di luglio, Cina e Nigeria hanno firmato un contratto da 11 miliardi di dollari per costruire la linea ferroviaria costiera Lagos-Calabar. Si estenderà per 1.400 km e la sua apertura è attesa per il 2018.
7. Diga Gran Ethiopian Renaissence (Etiopia)

Ethiopian Herald
Al costo di 4,8 miliardi di dollari la Diga Gran Ethiopian Renaissence provvederà energia idroelettrica all’Etiopia e ai paesi limitrofi.
Ci sono state polemiche, tuttavia, sul fatto che la diga costringerà al trasferimento forzato di circa 20 mila persone.
8. Diga Grand Inga (Repubblica democratica del Congo)

Encyclopedia Britannica
Con una potenza di circa 39 mila MW all’anno la Diga Grand Inga sul fiume Congo, diventerà uno dei siti di produzione elettrica più grandi del mondo. Il costo totale per il suo sviluppo è stato stimato attorno ai 100 miliardi di dollari. I costruttori pensano di terminare il progetto per il 2025.
9. Parco solare Jasper (Sudafrica)

SR
Aperto in Sudafrica nel 2014, il parco solare Jasper produce circa 180 mila megawatt orari all’anno, in grado di alimentare 80 mila case. E’ il progetto di produzione di energia solare più grande del continente.
10. Nuovo Canale di Suez (Egitto)

Wikimedia Commons
Nel 2014 sono iniziati i lavori su un’estensione dell’esistente Canale di Suez. Il “Nuovo Canale di Suez” aggiunge 35 km in una nuova corsia per navi agli originali 164 km di canale e ci si aspetta che raddoppi il guadagno annuale grazie allo spazio maggiore per le navi.
11. Cemento (15 Paesi)

GE AFRICA/YouTube
Dangote Cement, il più grande produttore di cemento d’Africa, ha firmato nel 2015 un accordo da 4,3 miliardi di dollari con una società di ingegneria cinese per aumentare la sua capacità fino a 100 milioni di tonnellate in 15 Paesi entro il 2020. L’accordo renderà possibile la costruzione di molti altri progetti in tutto il continente.
Riferimenti

Vedi su eddyburg Gli sfrattati dello sviluppo
La Casa della Carità di Milano si prepara a celebrare il Natale con un Presepe che ci ricorda che le migrazioni forzate hanno sempre accompagnato la storia delle donne e degli uomini; anche di una coppia di genitori, Maria e Giuseppe, che, per i cristiani, sono stati i principali attori della Natività».

casadellacarità.org, 9 dicembre 2016 (m.c.g.)

Come vuole la tradizione, nel giorno dell'Immacolata abbiamo allestito il Presepe che quest'anno racconta le storie delle persone che incontriamo ogni giorno

Anche la Casa della carità si appresta a vivere il Natale. Come vuole la tradizione, nel giorno dell'Immacolata abbiamo allestito il Presepe, che è stato collocato proprio davanti all'ingresso di via Brambilla 10. Una tradizione che si rinnova di anno in anno, con la scena della nascita di Gesù che cambia sempre "forma", grazie alla fantasia della nostra operatrice Iole, che realizza il Presepe insieme alla collega di SoStare Chiara e ai preziosi volontari Gigi e Gianni.

«Credo che la Natività sia una storia di straordinaria contemporaneità, che continua a parlare al nostro presente. Nel pensare al Presepe di quest'anno, ho quindi chiesto a Iole che esso avesse un legame ancor più stretto con le storie che qui alla Casa della carità ascoltiamo tutti i giorni: le storie di coloro che bussano alla nostra porta chiedendo non solo di essere accolti, ma anche di essere ascoltati e riconosciuti in quanto esseri umani portatori di diritti e dignità, e non solo numeri, come invece spesso accade», ha detto don Virginio Colmegna.

Nell'allestire la scena, Iole ha allora pensato al brano biblico in cui si dice: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra [...] Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto». Per questo, a far da sfondo alla Sacra Famiglia sono dei rotoli di pergamena scritti in aramaico, a rappresentare i registri del censimento. Per collegarsi all'oggi, in primo piano davanti a Maria, Giuseppe e al Bambino ci sono invece decine di passaporti: di ogni parte del mondo, di diversi colori, nuovi oppure sgualciti a causa delle traversie dei viaggi che i proprietari hanno compiuto per arrivare fino a qui.

«Se al tempo di Gesù i registri erano lo strumento che attestava l'identità, oggi è il passaporto a dire chi sei e da dove vieni, dove puoi e soprattutto dove non puoi andare. In questo episodio Maria e Giuseppe compiono un viaggio verso Betlemme per farsi registrare, quindi per vedere riconosciuta la propria identità e la propria presenza. Millenni dopo, lo stesso accade per le centinaia di persone che si rivolgono alla Casa da ogni parte del mondo, chiedendo di poter essere registrate in via Brambilla [sede della Casa della casa della Carità la cui Fondazione è presieduta da don Virginio Colmegna], affinché vengano loro riconosciuti i più elementari diritti di cittadinanza», spiega l'operatrice.

Astensione "storica" perché fino a ieri gli Usa non avevano mai votato "contro" Israele. Ma Netanyahu va avanti come una

Panzerdivision. E l'ingiustizia in Terrasanta continua, contro la Palestina. il manifesto, 24 dicembre 2016

Grazie a una astensione, senza alcun dubbio storica, degli Stati Uniti, ieri sera il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione di aperta condanna degli insediamenti coloniali israeliani costruiti contro il diritto internazionale nei Territori palestinesi occupati. Le colonie – si legge nel testo – «non hanno validità legale». E’ il colpo di coda di Obama che Benyamin Netanyahu temeva e che ha cercato in tutti i modi di impedire. Gli Stati Uniti non possono appoggiare gli insediamenti coloniali e la soluzione dei Due Stati nello stesso tempo, ha spiegato la decisione di astenersi l’ambasciatrice americana all’Onu, Samantha Power. Rabbiosa la reazione di Israele. «Né il Consiglio di sicurezza dell’Onu né l’Unesco possono spezzare il legame fra il popolo di Israele e la terra di Israele», ha urlato l’ambasciatore israeliano all’Onu, Danny Danon sorvolando il “dettaglio” che i Territori palestinesi occupati non sono parte di Israele. Dopo aver sistematicamente bloccato all’Onu per otto anni ogni risoluzione di condanna dello Stato ebraico, Barack Obama ha inflitto un duro colpo a Netanyahu. Si è vendicato degli attacchi israeliani subiti per anni. Netanyahu inoltre non aveva esitato, nel marzo 2015, ad umiliarlo di fronte al Congresso Usa parlando contro l’accordo sul nucleare iraniano fortemente voluto dalla Casa Bianca.

È finita a stracci in faccia. Netanyahu, ingrato, dimenticando il recente via libera della Casa Bianca a un piano di aiuti militari a Israele per 40 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni, in anticipo sul voto di ieri sera, usando un funzionario governativo aveva accusato Obama e il segretario di stato John Kerry di aver messo in atto una «spregevole mossa contro Israele alle Nazioni Unite». Il presidente americano uscente, aveva aggiunto il funzionario, ha coordinato le mosse all’Onu con i palestinesi per riaffermare lo status di città occupata di Gerusalemme e della sua zona araba: «L’amministrazione Usa ha segretamente confezionato con i palestinesi, alle spalle di Israele, una risoluzione estrema che avrebbe dato il vento in poppa al terrorismo e al boicottaggio e che avrebbe fatto del Muro del Pianto territorio palestinese occupato». Obama, ha aggiunto, «avrebbe dovuto subito dichiarare la sua volontà di mettere il veto su questa risoluzione, invece l’ha sostenuta. Questo è un abbandono che rompe decenni di politica americana a protezione di Israele all’Onu e mina le prospettive di lavorare con la prossima Amministrazione nel far avanzare la pace».

». il manifesto, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)

«Il 2016 è stato un anno storico e turbolento», sostiene con marcato senso eufemistico Mark Zuckerberg in un messaggio video di fine anno registrato dal fondatore di Facebook assieme all’amministratrice Sheryl Sandberg, parte di una serie occasionale di one-on-ones in cui i due dirigenti discutono di temi «social». Questo particolare tête-à-tête ha avuto una eco negli Stati Uniti e in Europa per la valutazione con la quale Zuckerberg ha definito Facebook un nuovo tipo di mass media.

«Facebook non è un tecnologia tradizionale», ha detto il 31enne fondatore del social network che raggiunge di gran lunga più utenti di qualunque radio, televisione o giornale della storia. «Non si tratta di una tradizionale media company. Noi progettiamo una piattaforma tecnologica e ci sentiamo responsabili per come viene utilizzata».

Si tratta di una sostanziale modifica della linea ufficiale dell’azienda di Menlo Park che ad oggi ha tenuto a definirsi piattaforma tecnologica «neutrale» senza partecipazione attiva nel contenuto immesso dagli utenti. «Non scriviamo le notizie che la gente legge sulla piattaforma – ha sostenuto Zuckerberg -, ma allo stesso tempo sappiamo di essere molto più che semplici distributori. Siamo parte integrante del discorso pubblico».

L’acquisizione di una improvvisa consapevolezza editoriale segna una netta svolta per il social network. Facebook utilizzato da 1,8 miliardi di utenti, recentemente è stato ripetutamente chiamato in causa per il ruolo nella diffusione di notizie inattendibili, la marea montante di voci ed illazioni che ha contribuito sensibilmente ad alcuni dei fenomeni «storici» evocati a Zuckerberg, a partire dal voto inglese sulla Brexit per arrivare all’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti.

Per far fronte al proliferare di notizie imprecise o strumentali nella sezione trending l’azienda ha di recente sostituito lo staff editoriale con un algoritmo . Ma «l’automazione» della verità da parte dei programmatori è risultata altrettanto insoddisfacente. La scorsa settimana Zuckerberg ha annunciato l’accordo con una serie di partner giornalistici, fra cui la Abc News e la Associated Press alle quali appalterà le analisi di attendibilità.

I tentativi di mediazione «editoriale», oltre che l’inadeguatezza al ruolo dei programmatori di Silicon Valley, sottolineano la problematica attualmente legata ai social network. Mai come quest’anno è infatti stata esplicitata l’infuenza delle piattaforme come fonti di informazione.

L’elezione di Donald Trump (lui stesso inveterato twittatore), resa possibile in gran parte proprio da una campagna imbastita sul sistematico offuscamento demagogico tramite internet, ha messo al centro dell’attenzione il flagello delle fake news e le devastanti ripercussioni delle bufale virali emerse come più insidiose eredi della propaganda e fondamentali strumenti di persuasione populista.

Paradigmatiche sono ad esempio le attuali diatribe in Rete sull’assedio di Aleppo. Una tragedia efficacemente offuscata dalle infinite polemiche fra post virali che perorano, in termini propagandistici, le cause delle parti in guerra. Il popolo di Facebook è stato così sommerso dalle mille sterili polemiche a base di «like» e controlike, mentre i belliggeranti hanno potuto perseguire indisturbati (e rigorosamente al riparo da occhi giornalistici) i propri sanguinari fini.

Il turbine di «notizie» virali senza possibilità di verifica costituiscono l’orwelliano ecosistema post-giornalistico: una utile cortina fumogena per gli interessi economici, finanziari, geopolitici in campo. Il «turbolento» 2016 di Zuckerberg ha insomma esplicitato come non mai gli effetti potenzialmente devastatanti della «postinformazione» veicolata proprio dai social network.

La rappresentazione forse più agghiacciante a questo riguardo si è avuta il mese scorso con l’episodio pizzagate, quando un uomo armato ha fatto irruzione in una pizzeria di Washington minacciando personale e avventori. Il negozio era stato oggetto di una campagna social che aveva insinuato che fosse la centrale clandestina di un giro di pedofili gestito nientemeno che da Hillary Clinton e dal direttore della sua campagna elettorale, John Podesta. La bufala diffusa ad arte era stata potenziata da migliaia di «ri-post» fin quando un complottista lievemente più squlibrato aveva imbracciato un fucile minacciando la strage. Simili campagne calunniose stanno diventando una norma in Usa dove una costellazione di siti legati alla «Alt Right» usano simili arbitrarie accuse per aizzare l’odio complottista.

Di questa settinmana è invece la notizia di una famiglia ebrea in fuga dalla propria casa in Pennsylvania dopo che una campagna virale l’aveva tacciata di aver ottenuto la cancellazione della rappresentazione natalizia alla locale scuola media del «Cantico di Natale» di Dickens (la guerra contro il Natale è meme favorito di Donald Trump). La bufala paranoica, ormai è evidente, è sempre più precorritrice di una diffuso «anafabetismo dell’informazione» che rende plausibile ogni stravagante accusa proviente da un post scritto da un mitomane online. O da qualcuno vicino a un neoeletto presidente degli Stati Uniti.

Lo pseudogiornalismo viene cioè impiegato sempre più come arma contundente di un dilagante neomaccartismo per invalidare fondamentali meccanismi democratici e rimanda necessariamente alle responsabilità ora riconosciute anche da Zuckerberg. Ma permane un fondamentale equivoco: i social network ambiscono ad essere nuove agorà ma si tratta pur sempre di monopoli privati a scopo di lucro che commercializzano un unico prodotto: gli utenti.

Malgrado la narrazione ormai anacronistica di internet cone inarrestabile democratizzatore «orizzontale» della comunicazione, le piattaforme in rete rappresentano dunque un mastodontico trasferimento di strumenti di dialogo e «informazione» dalla sfera pubblica e politica a quella commerciale, al riparo da molta regolamentazione pubblica e quindi tantopiù suscettibili di strumentale manipolazione.

Nessuno con la possibile eccezione di Wladimir Putin (o Beppe Grillo), ha dimostrato di afferrare il concetto meglio di Trump, che ha come prima cosa nominanto Steve Bannon, operatore del massimo portale di bufale complottiste («Breitbart News»), a super-ministro della disinformazione e braccio destro nella Casa Bianca. E il «summit digitale» al quale Trump ha recentemente convocato i massimi dirigenti dei social network, subito accorsi al tavolo del nuovo inquilino della Casa Bianca, ha esposto la natura essenzialmente mercenaria del complesso tecno-info-industriale.

Il video dei due amabili impresari digitali che discettano disinvoltamente del futuro dell’informazione come di una strategia di new economy, ha trasmesso un affascinante – ed inquietante – scorcio dei nuovi poteri decisionali delle nostre vite.

«Donald Trump è stato eletto alla presidenza Usa perché ha saputo intercettare l’insofferenza della classe media bianca verso le minoranze, dalle donne agli immigrati. I parametri della politica a cui eravamo abituati sono stravolti. Il teorico dello storytelling ne discute con la filosofa americana Judith Butler

». La Repubblica, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)

Molti scrittori e intellettuali, negli Stati Uniti e in Europa, si sono pronunciati sul fenomeno Trump, il più delle volte per esprimere la loro costernazione o riprovazione, condannare i suoi eccessi linguistici o allarmarsi per le sue proposte, come la costruzione di un muro al confine con il Messico o l’espulsione di milioni di immigrati clandestini. Ho voluto discutere di questo con Judith Butler, filosofa americana che ha studiato gli effetti delle parole nel discorso politico a partire dal suo testo fondamentale Parole che provocano: per una politica del performativo.

Mi sembra che Trump sia una sorta di figura simbolo delle analisi che lei produce da vent’anni. Trump come “oggetto butleriano” per eccellenza, è d’accordo?
«Non sono sicura che Trump sia un oggetto adeguato per le analisi che ho l’abitudine di condurre. Non penso, per esempio, che vi sia una fascinazione legata alla sua personalità. E se prendiamo in considerazione la sua retorica, allora è necessario analizzare piuttosto gli effetti che produce su una frangia della popolazione americana.

Ricordiamoci che è stato eletto da meno di un quarto della popolazione, e che è solo grazie all’esistenza di un collegio elettorale arcaico che si appresta a diventare presidente. Non dobbiamo quindi immaginarci che Trump goda di un largo sostegno popolare. C’è una disillusione generale nei confronti della politica e un certo disprezzo nei confronti dei due principali partiti statunitensi. Tuttavia Hillary Clinton ha ottenuto più voti di Trump. Perciò, quando ci poniamo la questione dei sostenitori di Trump, la cosa che ci dobbiamo chiedere è come sia riuscita una minoranza della popolazione americana a portare Trump al potere.

Quello su cui ci interroghiamo è un deficit di democrazia, non un’ondata di consenso popolare. La minoranza che ha sostenuto Trump, la minoranza che è riuscita a strappare un successo elettorale, ha potuto farlo non soltanto in virtù della propria disaffezione verso la politica, ma anche in virtù della disaffezione di quella metà circa di elettori che non sono andati a votare. Forse il tema di cui dovremmo parlare è la perdita di democrazia partecipativa negli Stati Uniti.

La mia opinione è che Trump ha scatenato una rabbia che ha diversi oggetti e diverse cause. Lo stato di devastazione economica e di delusione, la perdita di speranza nei confronti di un futuro economico determinato da movimenti economici e finanziari che devastano intere comunità hanno senza dubbio un ruolo importante. Ma altrettanto si può dire per l’accrescimento della complessità demografica degli Stati Uniti e le forme di razzismo, sia vecchie che nuove. Il desiderio di “fermezza” riguarda da una parte l’accrescimento del potere dello Stato contro gli stranieri, i lavoratori clandestini, ma si accompagna anche al desiderio di liberarsi del peso dello Stato, slogan che torna utile al tempo stesso all’individualismo e al mercato».

Se il fenomeno Trump può essere paragonato al fascismo è soprattutto rispetto al rapporto del leader con le masse che lo producono. In fondo, i grandi leader fascisti non avevano inventato il fascismo, ma si erano appropriati di uno scenario, quello di una piccola o media borghesia che viveva molto male il declassamento provocato dalla sconfitta militare e dalla crisi degli anni Venti, e la cui frustrazione si espresse, si saldò e trovò sfogo nell’odio per il proletariato. È un fenomeno comparabile a quello che si sta producendo negli Stati Uniti e in Europa, con il risentimento del piccolo bianco disprezzato e dimenticato a vantaggio delle minoranze visibili, nere, ispaniche, dei profughi senza documenti, delle donne e degli omosessuali.
«Forse è il momento di fare la distinzione tra le vecchie forme di fascismo e le nuove. Quelle che lei ha descritto sono le forme del fascismo europeo nella parte centrale del XX secolo.

Con Trump abbiamo una situazione differente, ma che definirei comunque fascista. Da una parte Trump è ricco, mentre la maggioranza di quelli che hanno votato per lui non lo sono. Eppure i lavoratori si sono identificati con lui, perché ha usato il sistema e ha avuto successo. Prendiamo l’esempio di com’è riuscito a sfruttare i debiti per non dover pagare le tasse. Hillary Clinton si sbagliava pensando che le persone comuni, che pagano le tasse, ne sarebbero state oltraggiate. In realtà si è guadagnato la loro ammirazione per aver trovato il modo di non pagare le tasse.

Loro vorrebbero essere come lui! Il lato fascista arriva, tuttavia, quando si arroga il potere di espellere milioni di persone, o addirittura di mandare Hillary in galera dopo il suo insediamento (su questo punto al momento ha fatto marcia indietro), di stracciare gli accordi commerciali a suo piacimento, di insultare il governo cinese, di chiedere la reintroduzione del waterboarding e di altre forme di tortura. Quando parla in questo modo, agisce come se avesse il potere esclusivo di decidere sulla politica estera, di decidere chi va in prigione, di decidere chi dev’essere espulso, di decidere quali accordi commerciali dovranno essere onorati, quali politiche estere dovranno essere disattese e quali ratificate. Allo stesso modo, quando afferma che vorrebbe picchiare o ammazzare qualcuno che lo interrompe tra la folla, rivela un desiderio omicida che, per dirlo sinceramente, tocca corde sensibili in molte persone.

Quando banalizza il sesso non consensuale o definisce Hillary una “donna meschina”, dà voce a una misoginia molto radicata, e quando giudica gli immigrati messicani degli assassini dà voce a un razzismo di vecchia data. Molti di noi hanno preso la sua arroganza, la sua boria ridicola, il suo razzismo, la sua misoginia, le sue tasse non pagate, per tratti caratteriali autodistruttivi, ma la verità è che per molte delle persone che hanno votato per lui erano cose eccitanti. Nessuno è sicuro che abbia letto la Costituzione, o che gliene importi qualcosa. È proprio questa indifferenza arrogante che attira la gente verso di lui. E questo è un fenomeno fascista. Se trasformerà le sue parole in atti, allora avremo un governo fascista».

Donald Trump ha fatto campagna elettorale in gergo, come tutti i leader fascisti, inventando il proprio “discorso sociale”, un miscuglio di facezie, smorfie, allusioni scatologiche, borbottii, slogan e anatemi.
Più che attraverso un discorso strutturato comunica attraverso segnali, un amalgama di slogan e insulti branditi come una potente arma di delegittimazione delle minoranze. Che analisi fa dello slogan di Donald Trump nel suo reality “The Apprentice”: “You’re fired” (sei licenziato, sei fuori)?
«Ancora una volta, l’atto del linguaggio presuppone che lui solo sia in grado di rifiutare alle persone il loro impiego, la loro posizione o il loro potere. Quello che è riuscito a fare, in parte, è comunicare questo sentimento di potere che si è autodelegato. Ricordiamoci anche che la collera contro le élite culturali prende la forma di una collera contro il femminismo, contro il movimento dei diritti civili, contro la tolleranza religiosa e il multiculturalismo.

Trump ha “liberato” l’odio dai movimenti e dai discorsi pubblici di condanna del razzismo: con Trump, si è liberi di odiare. Si è messo nella posizione di colui che era pronto ad affrontare la condanna pubblica per il suo razzismo e il suo sessismo e sopravvivervi. Anche i suoi sostenitori vogliono vivere il proprio razzismo senza vergogna, e questo spiega l’impennata improvvisa dei reati motivati dall’odio per strada e nei trasporti pubblici, subito dopo le elezioni: le persone si sono sentite “libere” di esprimere il loro razzismo come volevano. Partendo da qui, cosa possiamo fare per liberarci a nostra volta di Trump, “il liberatore”?».

A concentrarsi troppo sulla retorica, il lessico e la grammatica trumpiane si rischia di dimenticare una seconda dimensione, quella corporale, l’enorme “corporeità” delle sue performance nei comizi o nei talk show. Non serve aggiungere altro sulla sua pettinatura o il suo “orangismo”, ma c’è anche una gestualità molto particolare, il movimento delle mani, della bocca, un manierismo che si esprime attraverso mimiche inadatte, gesti ampollosi, una sovraesposizione della sua persona tipica dell’universo dei reality. Le statue di Trump nudo che si sono diffuse sulle piazze pubbliche delle città americane non sono la consacrazione di una forma di sacralità kitsch che prende di mira una sorta di contagio astioso, di provocazione corporale?Vedendolo pensavo alla frase di Kafka: “Uno dei più efficaci mezzi di seduzione del male è l’invito alla lotta”. Come analizza lei l’irruzione sulla scena politica di questa figura da reality?
«Sembra evidente che la presidenza diventa sempre più un fenomeno mediatico. C’è da chiedersi se molte persone non affrontino il voto con lo stesso approccio con cui affrontano le opzioni “Mi piace” e “Non mi piace” di Facebook.

Trump occupa spazio sullo schermo e questo genere di potenza minacciosa si nutre anche delle sue pratiche di molestie sessuali. Va dove vuole, dice quello che vuole e prende quello che vuole. Così, anche se non è carismatico nel senso tradizionale del termine, occupando lo schermo come fa lui guadagna in levatura e in potenza personale. In questo senso, consente un’identificazione con qualcuno che infrange le regole, fa quello che vuole, guadagna soldi, ha rapporti sessuali quando e dove vuole.

La volgarità riempie lo schermo così come vuole riempire il mondo. E molti si rallegrano di vedere questa persona maldestra e così poco intelligente pavoneggiarsi come se fosse il centro del mondo, e conquistare potere per mezzo di questa postura».

Di fronte alle accuse di menzogne, Trump si è difeso dicendo di praticare la cosiddetta “iperbole reale”, “un’esagerazione innocente, ma una forma efficace di promozione”. I media europei utilizzano sempre più spesso l’espressione “post-truth politics”, politica della post-verità, per designare l’assenza di distinzione tra vero e falso, tra realtà e invenzione, caratteristica che secondo Hannah Arendt era il tratto distintivo del totalitarismo. I social network avrebbero creato un nuovo contesto caratterizzato dall’apparizione di bolle informative indipendenti le une dalle altre, spazi chiusi che si prestano alle dicerie più folli, al complottismo e alla menzogna. E impermeabili al “fact-checking” dei media. Durante la sua campagna Trump ha saputo rivolgersi, attraverso Twitter e Facebook, alle sue piccole repubbliche del risentimento, e federarle creando un’onda sovreccitata. Lei che cosa pensa del concetto di “politica della post-verità”?
«In un modo o nell’altro, non riesco a credere che siano parole dello stesso Trump, ma di qualcuno che cerca di normalizzare e perfino di approvare la sua relazione disinvolta con la verità. Non sono sicura che ci troviamo in una situazione di post-verità.

A me sembra che Trump si scagli contro la verità, e metta bene in chiaro che non pretende di sostenere le sue affermazioni con le prove, né le sue proposte con la logica. Le sue dichiarazioni non sono totalmente arbitrarie, ma è pronto a cambiare posizione continuamente, legandosi unicamente all’occasione, al suo impulso e alla sua efficacia. Per esempio quando ha detto di Hillary Clinton che una volta diventato presidente la “getterebbe in prigione”, è stato acclamato da quelli che la odiavano, anzi questo ha consentito loro di odiarla ancora di più.

Naturalmente non ha il potere di “gettarla in prigione”, e non ne avrà il potere neanche come presidente, senza una procedura penale piuttosto lunga e il giudizio di un tribunale. Ma in quell’istante lui è al di sopra di qualsiasi procedura giuridica, esercita la sua volontà come crede e traccia il modello di quella forma di tirannia che non si preoccupa realmente di sapere se Hillary abbia commesso un reato penale. Al momento, i fatti sembrano indicare che non è così. Ma lui non vive in un mondo di fatti. Le sue affermazioni sul fatto che Hillary Clinton non avrebbe vinto il voto popolare senza i milioni che illegalmente hanno votato per lei non possono essere dimostrate, ma in quel momento lui espone in pubblico la sua ferita narcisistica e cerca di delegittimare il voto popolare.

Contestualmente, scarta del tutto l’idea che i voti in suo favore possano essere illegali. Ha poca importanza se si contraddice o se si capisce che rigetta esclusivamente le conclusioni che intaccano il suo potere o la sua popolarità. Questo narcisismo sfrontato e ferito e questo rifiuto di sottomettersi ai fatti e alla logica lo rendono ancora più popolare. Lui vive al di sopra della legge, ed è così che molti dei suoi sostenitori vorrebbero vivere».

Dopo il 2011 abbiamo visto rinascere, su scala internazionale, movimenti di piazza come Occupy, gli Indignados, la Nuit Debout, le Primavere Arabe… Nel suo ultimo libro, “Notes toward a Performative Theory of Assembly”, lei analizza le condizioni che hanno portato alla comparsa di questi movimenti e le loro implicazioni politiche, estendendo le sue analisi sulla performance politica. Quando dei corpi si radunano in piazza, scrive, sono dotati di un’espressione politica che non si riduce alle rivendicazioni o ai discorsi tenuti dagli attori. Quali sono le forze che impediscono o rendono possibile un’azione plurale di questo genere? Qual è la natura democratica di questi movimenti?
«“Comparsa” forse non è la parola più adatta per tradurre l’inglese appearance, ma bisogna convivere con i fantasmi della lingua.

Le manifestazioni e le riunioni spesso non bastano a produrre dei cambiamenti radicali, ma modificano la nostra percezione di cos’è il “popolo” e affermano le libertà fondamentali che appartengono ai gruppi nella loro pluralità. Non può esserci democrazia senza libertà di manifestazione, e non può esserci manifestazione senza libertà di movimento e di riunione.

Questa libertà presuppone dunque la mobilità fisica e la capacità. Tante manifestazioni pubbliche contro l’austerità e la precarietà presentano dei gruppi, in strada e allo sguardo del pubblico, che subiscono essi stessi un declassamento e una privazione di diritti. Inoltre, manifestando in quel modo affermano l’azione politica collettiva. Perciò, se siamo in grado di pensare alle assemblee parlamentari come parte integrante della democrazia, siamo in grado anche di comprendere il potere extraparlamentare delle manifestazioni di modificare la concezione pubblica di cos’è il popolo.

Soprattutto quando compaiono persone che teoricamente non dovrebbero comparire ci rendiamo conto che in qualsiasi discussione su chi è il popolo la sfera dell’apparenza e i poteri che controllano le sue frontiere e le sue divisioni vengono dati per scontati».

Michel Foucault analizzava la crisi della democrazia a cavallo del V e del IV secolo avanti Cristo ad Atene al tempo stesso come un problema discorsivo, il paradosso del “parlare con franchezza” in democrazia (la “parrèsia” è pervertita) e come uno spostamento della “scena” del politico dall’agorà all’“eklèsia”, cioè dalla città dei cittadini alla corte dei sovrani. Lo sviluppo di queste nuove scene democratiche comparse a partire dal 2011 può essere considerato una rivincita dell’agorà sull’“eklèsia”?
«Prima di chiederci che cosa significa parlare con franchezza al potere dobbiamo chiederci chi può parlare.

A volte, la presenza stessa di coloro che teoricamente dovrebbero restare muti nel discorso pubblico finisce per oltrepassare queste strutture. Quando gli immigrati clandestini manifestano, o quando le vittime di espulsioni si riuniscono, o quando quelli che subiscono la disoccupazione o tagli drastici alla loro pensione si mettono insieme, si iscrivono nell’immaginario e nel discorso in un modo che ci dà un’idea di cos’è o cosa dovrebbe essere il popolo. Certo, presentano delle richieste specifiche, ma mettersi insieme è anche un modo di presentare una richiesta fisica, una rivendicazione che prende corpo nello spazio pubblico e una richiesta pubblica ai poteri politici.

Quindi, in un certo modo, dobbiamo entrare nel dibattito prima di poter parlare con franchezza al potere. Dobbiamo spezzare i vincoli della rappresentanza politica, per svelare la sua violenza e opporci alle sue esclusioni. Fintanto che l’argomento della “sicurezza” continua a servire come giustificazione per l’interdizione e la dispersione delle manifestazioni, delle riunioni e degli accampamenti, la sicurezza sarà usata per decimare i diritti democratici e la democrazia stessa. Solo una mobilitazione su larga scala, una forma di coraggio incarnato e transnazionale, si potrebbe dire, riuscirà a sconfiggere il nazionalismo xenofobo e i vari alibi che oggi minacciano la democrazia».

Traduzione di Fabio Galimberti

». il manifesto, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)

Il terrorismo che colpisce nel mucchio è difficile da combattere. Ma scoprire una cellula attiva tra popolazioni insediate da tempo in Europa (base indispensabile per ogni attività terroristica) è molto più difficile che individuare un terrorista imboscato tra un gruppo di profughi. Soprattutto se alla loro registrazione all’arrivo – o alla partenza con corridoi umanitari – corrispondesse il diritto a una libera circolazione in tutta Europa.

Perché ciò per cui i profughi si oppongono alla registrazione, o la rendono inefficace, è il timore di rimanere intrappolati nel paese di sbarco. Che poi si traduce spesso nel famigerato decreto di espulsione differito che lascia allo sbando decine di migliaia di profughi (come Amis Amri) che il governo italiano non sa né rimpatriare né controllare rendendo facile il loro reclutamento da parte della Jihad.

La gravità della situazione impone di alzare lo sguardo sulle radici del problema. Dal secondo dopoguerra l’Europa, a partire dai suoi stati centrali, è diventata un’area di massiccia immigrazione: profughi dai paesi dell’Est (circa 10 milioni), migranti dai paesi meridionali (quasi altrettanti), poi anche dai paesi della sponda sud ed est del Mediterraneo, dalle ex colonie africane e del subcontinente indiano. Dall’ultimo decennio del secolo scorso gli arrivi sono proseguiti investendo anche i paesi dell’Europa mediterranea che prima avevano alimentato una parte cospicua di quel flusso.

Sono stati coinvolti più di 50 milioni di persone, molte delle quali, con i loro figli, sono poi diventate cittadini dei paesi di arrivo; per questo i migranti che non sono ancora cittadini europei sono solo 20 milioni circa. La maggior parte di quel flusso era costituita da «migranti economici» alla ricerca di un lavoro e di condizioni di vita migliori.

I più il lavoro l’hanno trovato, tranne poi perderlo e venir relegati in ghetti e banlieu nel passaggio dalla prima alla seconda generazione. Senza di loro l’Europa però non avrebbe mai conosciuto i «miracoli economici» degli anni ’50 e ’60 né il più stentato sviluppo dei decenni successivi e sarebbe rimasta in gran parte un continente sottosviluppato. E lo sarà ben presto, e sempre di più, se continuerà a cercar di fermare i nuovi arrivi.

Per una denatalità irreversibile, infatti, l’Ue (Regno unito compreso) perde circa 3 milioni di abitanti all’anno. Nel 2050, senza l’apporto di nuovi migranti, invece dei 500 milioni attuali ci saranno solo 400 milioni di abitanti, più o meno autoctoni: in maggioranza vecchi e sclerotizzati dal punto di vista fisico, economico e soprattutto culturale: una cosa che in Italia si comincia a vedere già ora. Eppure si sta facendo di tutto per fermare o per respingere i nuovi arrivi. Fino a pochi anni fa arrivava in Europa una media di 1,5 milioni di «migranti economici» all’anno (300mila in Italia, tutti o quasi regolarizzati da sanatorie di destra e sinistra). Ma l’anno scorso, invece, 1,5 milioni di profughi (170mila in Italia, in gran parte «in transito») sono stati considerati un onere insostenibile. Che cosa ha provocato quella inversione di rotta?

I governi dell'unione Europea hanno risposto alla crisi del 2008, tutt’ora in corso, con politiche di austerità che hanno portato a 25 milioni il numero dei disoccupati ufficiali (quelli effettivi sono molti di più). Se non c’è più lavoro, reddito, casa e assistenza per tanti cittadini europei non ce ne può essere per i nuovi arrivati: questo è l’argomento alla base della svolta impressa alle politiche migratorie.

A questa chiusura delle frontiere e delle menti si è poi sovrapposta un’ondata di «islamofobia» alimentata dalle stragi perpetrate da membri o simpatizzanti di organizzazioni terroristiche islamiste. Alla sensazione diffusa che «sono troppi», alimentata dall’austerità, si è così mescolato, ad opera dei numerosi imprenditori politici della paura, il tentativo di attribuire all’arrivo dei profughi la proliferazione del terrorismo.

Oggi di fronte alla marea montante delle destre razziste Angela Merkel sembra rappresentare un baluardo, nonostante le sue oscillazioni e i suoi arretramenti. Ma all’origine della «crisi dei migranti», cioè dell’idea che per loro non ci sia più posto in Europa, c’è proprio l’austerità di cui la Merkel è la principale sponsor. E senza affrontarne le cause, la sua collocazione politica l’ha posta sulla china di un progressivo cedimento all’oltranzismo xenofobo.

Ma è soprattutto il metodo adottato per arginare la «piena» dei profughi che ad essere per molti versi criminale e carico di rischi. L’accordo con Erdogan, che ispira tutti gli altri accordi con paesi di origine o transito di profughi, imprigiona milioni di esseri umani nelle mani di governi e bande armate che hanno già dimostrato una vocazione a sfruttarli fino all’osso per poi farne scempio. Ma espone anche gli Stati europei al ricatto (già messo in atto a suo tempo da Gheddafi e oggi ventilato da Erdogan) di aprire le dighe di quei flussi se i rispettivi governi non saranno acquiescenti.

Ma alcuni semplici punti vanno messi in chiaro.

1. I profughi di oggi fuggono in gran parte da quelle stesse forze che sono gli ispiratori, se non gli organizzatori, degli attentati che stanno insanguinando le città europee. Respingerli significa ributtarli in loro balia e, in mancanza di alternative, costringere una parte a diventarne le future reclute.

2. La politica dei rimpatri è impraticabile se non per piccoli gruppi: per mancanza di interlocutori affidabili, per il costo (tanto è vero che vengono espulsi «per finta»), per il rischio di pagarla avallando le peggiori dittature e, non ultimo, perché è una politica di sterminio, anche se «esternalizzato».

3. La distinzione tra migranti economici e profughi politici su cui si regge la prospettiva dei rimpatri è un alibi privo di basi: sono tutti migranti ambientali, mossi da conflitti sempre più atroci innescati da un deterioramento radicale del loro habitat. C’è ormai una sovrapposizione netta tra i paesi centroafricani investiti dalla crisi climatica, quelli coinvolti in conflitti riconducibili a organizzazioni islamiste e l’origine dei maggiori flussi di profughi.

Ma anche la guerra civile (e mondiale) in Siria è partita da una rivolta contro il feroce regime di Assad innescata dal deterioramento ambientale del territorio; di quel fiume di profughi, e delle devastazione e degli orrori che li hanno fatti fuggire, i governi europei recano una pesante responsabilità: attraverso la Nato e la Turchia, appoggiandosi sui più feroci regimi mediorientali, non hanno esitato a fare della popolazione siriana in rivolta un ostaggio delle peggiori bande islamiste, Isis compreso, di cui ora sono il bersaglio. E facendo entrare i campo i bombardieri russi che hanno trasformato la guerra in conflitto mondiale.

4. Trasformare l’Europa in una fortezza, posto che sia possibile, significa metterla in mano a forze razziste e antidemocratiche al suo interno; ma anche perpetuare uno stato di guerra al di fuori dei suoi confini. Se nella fortezza non si può più entrare, diventerà sempre più difficile anche uscirne. Qualcuno farà mai turismo o affari leciti in luoghi come lo Stato islamico o tra i Boko haram?

5. Per questo restiutuire a ogni cittadino europeo i diritti sociali, civili e politici e garantire ai profughi i diritti che spettano a ogni essere umano è un’unica battaglia. Ed è l’unico modo, alla lunga, di prosciugare lo stagno dove sguazza il terrorismo islamista.

Difficile riuscire a giovare, al tempo stesso, a Matteo Salvini, raggiungendolo nel suo inferno razzista e xenofobo, e a Matteo Renzi, al quale si toglie l'unico antagonista numericamente significativo. Grillo sembra esserci riuscito. A meno che il movimento che ha creato riesca a liberarsi di lui.

La Repubblica, 24 dicembre 2016

Adessoè il momento di agire e proteggerci, scrive Beppe Grillo sul blog del Movimento5 Stelle. E aggiunge, tra le cose da fare subito, il rimpatrio immediato -« a partire da oggi» - di tutti gli immigrati irregolari. E lasospensione del trattato di Schengen - con la chiusura immediata dellefrontiere - in caso di attentati in Europa almeno finché il livello di allertanon si è abbassato.


«Due agenti della polizia, Cristian Movio e Luca Scatà - dice il capopolitico M5S - stanotte hanno rischiato la loro vita durante un banalecontrollo di documenti.
L'uomoche avevano fermato era l'assassino di Berlino che ha subito estratto la pistola ferendo Cristian.Luca, poliziotto in prova e con appena 9 mesi di servizio, ha reagito a sanguefreddo, ha sparato e ha ucciso il terrorista. Due eroi, che hanno rischiato didiventare due nuovi santi laici. Tutta l'Italia, tutta l'Europa sono grate aquesti due ragazzi. Io personalmente mi sento in dovere di ringraziarli eabbracciarli, specialmente Cristian che ora è in ospedale con una spallaforata».

Ma, continua Grillo, «è folle che due agenti ordinari debbano essere messia repentaglio e ritrovarsi ad avere a che fare con un terrorista ricercato damezza Europa. Questo accade perché la situazione migratoria è ormai fuoricontrollo». Secondo il Movimento 5 Stelle, «l'Italia sta diventandoun viavai di terroristi, che non siamo in grado di riconoscere e segnalare, chegrazie Schengen possono sconfinare indisturbati in tutta Europa».

Il blog conclude con quattro punti programmatici perché «Bisogna agireora». Quindi, «chi ha diritto di asilo resta in Italia, tutti gliirregolari devono essere rimpatriati subito a partire da oggi»; comesecondo punto: «Schengen deve essere rivisto: qualora si verifichi unattentato in Europa le istituzioni devono provvedere a sospenderloimmediatamente e ripristinare i controlli alle frontiere almeno finché illivello di allerta non sia calato e tutti i sospetti catturati»
; terzo:«creazione di una banca dati europea sui sospetti terroristi condivisa contutti gli stati membri, utilizzando anche quelle attuali; quarto, quello che i5 stelle hanno già proposto con una mozione approvata dal Parlamento,«revisione del regolamento di Dublino».

«Fino a oggi è stato il tempo del dolore, della commozione, dellasolidarietà - conclude Beppe Grillo - adesso è il momento di agire eproteggerci».

Prima di lui, aveva parlato Matteo Salvini: «Bisogna votare nel 2017, conprimo punto del programma lo stop all'ingresso di qualsiasi tipo diimmigrazione, fatti salvi donne e bambini che scappano dalle guerre», hadetto il leader della Lega. «In Italia non deve più entrare uno spillo,dal

2017 su la cerniera».

Arriva anche il commento di Giovanni Toti, governatore della Liguria:«Dobbiamo ripristinare i controlli alle frontiere, ai valichi ferroviari,nei porti, identificare chi arriva sui barconi. Sono sempre stato per un'Europaaperta e accogliente e non penso che la soluzione sia chiudersi

nella paura eliminando i nostri modelli di libertà:chi non ha nulla da nascondere non ha problemi a mostrare un documento neiposti di controllo. Chi invece ha qualcosa da nascondere sarebbe bene noncircolasse liberamente».

«La crisi del capitalismo nel saggio di Sergio Cesaratto "Sei lezioni di economia" per Imprimatur editore. Dopo anni di egemonia del neoliberismo, sono molti gli economisti che chiedono un’inversione di rotta. Sfuggire alla nostalgia e alla demonizzazione. Il primo degli appuntamenti sul

’17 è a Roma». il manifesto, 22 dicembre 2016 (c.m.c.)

Le vie nazionali di rottura con il liberismo sono l’unica via credibile per mettere in discussione il sistema di disoccupazione di massa e ingiustizia sociale affermatosi con la globalizzazione finanziaria. E questo vale soprattutto in Europa, dove la costruzione reale della Unione ha fatto delle politiche di austerità un fondamento costituente della unione stessa.

Questa è la tesi di uno splendido piccolo manuale di economia e storia del pensiero economico che Sergio Cesaratto ha voluto condensare nelle sue (Imprimatur editore, euro 17). Un saggio che affronta le principali teorie sul capitalismo, partendo da Ricardo e Marx per giungere a Keynes a Sraffa e alla teoria oggi dominante, il marginalismo neoclassico. Un libro che in questo percorso ci fa incontrare tutti i temi e le politiche economiche che caratterizzano la crisi attuale.

Sergio Cesaratto, con Alberto Bagnai e pochi altri, fa parte di quella pattuglia di economisti eterodossi che da tempo mettono in discussione alla loro radice le politiche di austerità. E che per questo giungono a ritenere necessaria la messa in discussione dell’euro e al limite della stessa Unione Europea.

Economisti eterodossi, come lo stesso Cesaratto si autodefinisce, il che non vuol dire economisti della sinistra. Essendo molti di questi oramai parte, come le forze di centrosinistra a cui fanno riferimento, dello schieramento liberista. Economisti eterodossi sono tutti coloro che non accettano il dominio del pensiero degli economisti neoclassici e quello della politica liberista che ne è derivata. Senza dimenticare mai che il dominio di questa scuola, nata nella seconda metà dell’Ottocento per ripudiare Ricardo e tutti quegli economisti che davano troppe armi a Marx, non nasce dalla superiorità teorica, ma dalla forza del potere capitalistico che l’ha fatta propria.

Cesaratto mette in giusto ridicolo le teorie dell’equilibrio e del profitto e salario «naturali», cui tenderebbe ogni economia se non ci fossero interferenze dello stato nel libero mercato. Il mondo attuale, governato dai principi della economia ortodossa neoclassica, ne rappresenta la totale falsificazione. La realtà non è così, non è vero che tagliando lo stato sociale e i salari alla fine si raggiunga l’equilibrio, facendo ripartire produzione ed occupazione. E tuttavia le politiche liberiste, nonostante falliscano i loro stessi obiettivi, vengono continuamente riproposte, grazie anche ad un sistema di potere culturale e mediatico in cui dilaga la memoria del pesce rosso. Che si sa dura un minuto e quindi permette di ripetere come nuovo e all’infinito sempre lo stesso atto.

Ma la società dei pesci rossi non si è formata in un minuto. Il primo esperimento mondiale di politiche liberiste nel dopoguerra si è avuto nel Cile di Pinochet. In quel paese, dopo il golpe del 1973 che assassinò Allende e decine di migliaia di militanti della sinistra, si precipitarono i Chicago boys di Milton Friedman; con i loro esperimenti alla dottor Mengele, per usare le parole di Cesaratto su ciò che può accadere in alcuni paesi d’Europa. Il Cile allora come la Grecia oggi sono state le cavie di terribili esperimenti sociali.

La sperimentazione del massacro sociale in paesi cavia chiarisce che il liberismo attuale è prima di tutto ordoliberismo. Cioé è il frutto dell’incontro tra il potere economico e il potere politico, che diventa anch’esso fattore ed agente del mercato. Tutta la globalizzazione attuale non esisterebbe senza accordi, leggi, trattati, tra gli stati e negli stati. È un liberismo costituente quello che abbiamo di fronte È il potere conservatore ed elitario di Von Hayek quello che emana le leggi che distruggono le conquiste sociali e di democrazia dei popoli, quelli europei in particolare. E lo stato del capitalismo liberista è proprio l’Unione Europea.

Per Cesaratto, l’«unione politico-monetaria svuota del tutto lo Stato nazionale dei poteri monetari e fiscali, privando le classi lavoratrici del loro terreno naturale di conflitto: il proprio Stato nazionale. La democrazia si riduce così alle lotte per le libertà civili, coerentemente ritenute centrali dai radicali (il resto la fa il mercato). L’incompatibilità fra euro ed Europa sovranazionale da un lato, e democrazia dall’altro, è totale».

Euro e Unione Europea non sono dunque terreni neutri, bensì sono lo strumento individuato dalle classi dominanti europee per imporre un roll back continentale a tutto il mondo del lavoro. Sconfitto e crollato il socialismo reale, la socialdemocrazia europea è stata assorbita nella ideologia e nel potere liberista, mentre le sinistre radicali non sono state in grado di produrre altro che buoni sentimenti.

Profetiche appaiono le parole di decenni fa di Bob Rowthorn, economista eterodosso e comunista britannico, riprese da Cesaratto : «La crisi che colpisce milioni di cittadini britannici è ora su di noi. Se la sinistra intende sfruttare questa situazione, essa deve adottare un programma che offra alla gente qualche speranza, e deve dunque ragionare in termini di qualcosa di più pratico della rivoluzione europea o mondiale. Coloro che attaccano una strategia nazionale per il socialismo in Gran Bretagna come destinata al fallimento e si appellano a una rivoluzione europea o mondiale possono sembrare molto rivoluzionari. Ma nei fatti la loro è la dottrina della disperazione, e per quanto molte delle loro opinioni possano ispirare una piccola avanguardia di simpatizzanti, essi non possono che ispirare demoralizzazione fra le masse di lavoratori a cui non offrono niente».

Dopo la crisi di tutte le sinistre radicali europee, vecchie e nuove, la irriformabilità e l’alterità dell’euro e della Unione Europea dovrebbero essere il punto di partenza di ogni progetto e schieramento democratico anti austerità. Euro ed Unione Europea sono oggi lo strumento della regressione sociale e democratica in Europa, sono la Santa Alleanza del ventunesimo secolo.

Si possono solo combattere e rompere, non riformare. Il libro di Sergio Cesaratto ci aiuta meticolosamente a capirlo e ci impone una risposta concreta, non di galateo, alla sua conclusione politica: «senza utopismi, dobbiamo declinare il tema dell’autonomia nazionale in senso solidaristico verso gli altri popoli, per un nuovo ordine economico e politico internazionale; dobbiamo, soprattutto, porre i temi della piena occupazione e della giustizia sociale come la ragion d’essere della sinistra, dimostrando che sono obiettivi possibili».

«La politica richiede capacità di guardare lontano, la politica impone di interrogarsi sulle conseguenze degli atti compiuti, e trarne le conclusioni». E invece, questi che hanno occupato il Palazzo...

MicroMega online, 23 dicembre 2016 (c.m.c.)

Lo so, dovremmo esserci abituati, dovremmo avere ormai gli anticorpi, dovremmo non stupirci più. E forse neppure arrabbiarci. Eppure... Eppure, al di là della rabbia, rimane un doppio quesito a cui non è facile trovare soluzione. Il primo riguarda il totale scollamento della classe politica, specialmente quella di governo (centrale e locale), dalla società: i rappresentanti dai rappresentati, gli eletti dagli elettori. Quando poi gli eletti lo sono grazie a una legge incostituzionale, oppure non hanno ricevuto alcun mandato parlamentare, neppure per tal via (si ricordi il caso clamoroso di Matteo Renzi), la cosa diventa evidentemente più grave.

In breve, lor signori se ne infischiano di quello che "la gente", ossia il popolo, il demos fondamento della "democrazia", chiede. Hanno "straperso" (cito Renzi) al referendum, e hanno fatto in tutta tranquillità un governo del "Sì". Hanno conservato al potere tutti coloro che si erano contraddistinti per accanimento nella campagna per l'approvazione della "riforma costituzionale", e addirittura hanno promosso la signora Maria Elena Boschi: un vero e proprio calcio in faccia a 20 milioni di cittadini e cittadine. E così, vanno avanti per la loro strada, incuranti, ciechi, sordi, insopportabilmente autoreferenziali, o semplicemente piegati ai veri loro "elettori": grandi banche, alta finanza, cartelli di imprenditori, BCE, e così via.

Ieri in Parlamento si è votato di nuovo a favore del TAV, opera sciagurata, costosissima, e fonte di guai, per tutti. Ogni studio di settore, geologico, economico, sociologico, paesaggistico, ha dimostrato, con numeri veri (non quelli fasulli del fasullo “Osservatorio” governativo), che il “supertreno” in Val di Susa non ha senso, e potrà portare benefici finanziari a pochi, sostanzialmente le ditte appaltatrici, e danni a tutti gli altri cittadini, e in primis ai valsusini, vessati, oppressi, da una vera e propria occupazione militare del territorio che dura da troppo tempo, con un incredibile accanimento di magistratura (la Procura di Torino) e forze dell’ordine, che in questo caso davvero sembrano le forze dell’ordine padronale. E allora: perché non sospenderla? perché non impiegare le risorse nelle opere utili, necessarie, improcrastinabili? Messa in sicurezza del territorio, misure di prevenzione antisismica, riassetto idrogeologico, per esempio... No. Si va avanti, imperterriti.

Altro esempio; i voucher, un insulto a chi lavora, un abominevole ritorno all’indietro, culturale prima che ideologico, e il Jobs act, un fallimento clamoroso, secondo dati certificati dall'Istat e da altri istituti: un ceto politico responsabile cancellerebbe gli uni e l'altro. Invece no, si va avanti. E l'orrido Poletti, ministro dei miei Lavoro, dopo aver lodato voucher e Jobs Act, se ne esce con una frase che è un capolavoro di imbecillità, un vero e proprio atto di guerra a una generazione che quelli come lui hanno costretto alla fuga da questo Paese condannato.

Non nuovo a uscite come l’ultima, del 19 febbraio scorso, Poletti, che ha un curriculum scolastico di Istituto tecnico (e basta!), si permette di deridere i giovani che stanno fuori. Giovani con tanto di lauree, spesso dottorati e master, che la classe politica ha deciso scientemente di espellere, incurante dei danni sociali di medio e lungo termine che una tale decisione comporterà. Pochi giorni prima sempre lui, il “ministro cooperativo”, come è stato etichettato felicemente, aveva sentenziato: «110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21 anni. Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più, si butta via del tempo che vale molto di più di quel mezzo voto».

Non ci ha neppure spiegato quale laurea si possa raggiungere a 21 anni (ma è poco pratico di università….: allora glielo spiego: a quell’età anche il più solerte studente potrebbe al massimo una Triennale che vale come il 2 di picche) E ha un’altra aggravante, quella di suo figlio, ultraquarantenne (non laureato, ça va sans dire!) che non ha avuto bisogno di emigrare, lavorando per uno dei tanti gangli del sistema cooperativistico una volta detto “rosso”, e in particolare per una cooperativa giornalistica che gode di lauti finanziamenti pubblici. Un altro insulto alle migliaia di giovani bravi, che si arrabattano con collaborazioni giornalistiche retribuite con oboli miserandi, non retribuite affatto. E naturalmente leggo sui giornali “il governo fa quadrato intorno al ministro del Lavoro”…

Ma cambiamo settore: e dal Lavoro (o meglio dal Non lavoro) passiamo all'istruzione? Stiamo aspettando che la nuova ministra, anch’essa priva di uno straccetto di laurea (forse persino di un vero diploma di Scuola superiore) cancelli la "Buona scuola": lo farà? No, non lo farà, magari al massimo proverà ad escogitare “aggiustamenti”, che forse finiranno per essere le classiche toppe peggio del buco. E, rimanendo nel settore, poiché non viene immediatamente ritirata la “riforma Gelmini”, che ha devastato gli atenei italiani? Oltre tutto una legge voluta e realizzata (la sola!) da Berlusconi. Allora il PD, sia pure senza barricate, era formalmente contrario.

Da anni è al governo. Perché l’ha tenuta, quell’osceno “ridisegno” dell’Università italiana? Esiste l’istituto dell’abrogazione: la sola cosa da fare, in casi di leggi cattive e dannose, è tirare un tratto di penna: abrogare la Legge Gelmini, abrogare il Jobs act, abrogare la “buona scuola”, e aggiungo la cosiddetta “riforma della Pubblica Amministrazione, firmata dalla ministra Madia, bocciata clamorosamente dalla Corte costituzionale: risultato? La legge è là, operante, e la Madia è stata confermata al suo dicastero.

E così seguitando, in un infinito elenco di scorrettezze istituzionali, all’insegna di una gigantesca stoltezza politica. In fondo non ha senso lamentarsene. Questi governanti sono in grado di essere altro da sé? Possono essere all’altezza dei ruoli che ricoprono? La risposta è nei loro atti. In ciò che fanno quotidianamente e in ciò che non fanno. La politica richiede capacità di guardare lontano, la politica impone di interrogarsi sulle conseguenze degli atti compiuti, e trarne le conclusioni. Dopo la vittoria clamorosa del “No”, nessun ministro del governo Renzi avrebbe dovuto essere confermato. Si sarebbe dovuto fare un governo istituzionale il cui unico compito era portare il Paese alle elezioni. Si è fatto un Renzi bis senza Renzi, ma nella sua ombra. Scandalosamente, tanto più per coloro che (Boschi, Fedeli…) avevano garantito le proprie dimissioni dal governo o addirittura dal Parlamento in caso di bocciatura della “riforma”.

Sono là, promosse entrambe. E vanno coi loro sodali avanti per la loro strada che non è la nostra. Vanno avanti, incuranti, sordi e ciechi davanti ai bisogni più evidenti del Paese, alle richieste più drammatiche della società, di quella parte sempre più ampia (dati Istat alla mano) di vecchi e nuovi poveri, di disoccupati, inoccupati, cassintegrati, di giovani o ex giovani senza futuro. I Poletti (un nome e direi anche ormai un volto simbolo), vanno avanti per una strada senza uscita, resistono alle loro scrivanie, mentre la casa brucia. Il Palazzo non si piega alla Piazza. Anche se nel Palazzo restano in pochi e la Piazza pullula di umanità scontenta e furiosa. Ma i Poletti sono tranquilli. Procedono. Restano. Governano. Un cupo “muoia Sansone con tutti i filistei” sembra guidare il loro agire.

Il secondo problema che mi pongo, riguarda la provenienza politica di larga parte di costoro, quelli del “Sì”, quelli del Tav, quelli del Jobs Act, quelli che l’articolo-18-è-superato, quelli della “Costituzione va aggiornata”, quelli dell’ “abbiamo una banca”…: ebbene, costoro da dove vengono? Dal PCI-PDS. E allora ti chiedi: ma come? Si sono formati nel Partito comunista? In quello di Enrico Berlinguer!? Certo non sono nati politicamente nel 1989. Allora qualche domanda su quella tradizione, o meglio sugli esiti di quella tradizione nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, quanto meno, bisognerà porsela.

Quando Berlinguer nella famosissima intervista a Eugenio Scalfari nel 1981, parlava della “degenerazione” dei partiti, divenuti mere “macchine di potere”, quanta consapevolezza aveva che il suo proprio partito era divenuto esattamente così? Forse era un timore che non osava confessare pubblicamene, forse un monito ai suoi e un avvertimento. Non lo sapremo mai, ma sappiamo che con la sua morte, pochi anni dopo, il freno che la sua figura in sè stessa costituiva, venne meno. E fu campo libero per le centinaia, le migliaia di Poletti che vivevano nel sottobosco della tradizione del PCI, una tradizione che col comunismo aveva ben poco a che fare, e che invece si era mischiata e fusa con ambienti del socialismo craxiano, con ambienti bancari, imprenditoriali, ecclesiastici (a cominciare dalla cattolicissima Compagnia delle Opere).

La mutazione genetica del Partito non è iniziata con la Bolognina di Achille Occhetto, ma era in corso da tempo, da molto tempo. E oggi, ahinoi, dobbiamo constatare che proprio coloro che ne provengono sono i più fervidi esecutori delle politiche di aggressione alla democrazia e delle pratiche di disgregazione sociale. Un tragico paradosso per chi aveva creduto nella giustizia, nell’eguaglianza, nella libertà. Per fortuna, potremmo concludere, sono tutti morti. E i sopravvissuti non sembrano aver conservato neppure memoria di un tempo in cui essere comunista significava, essenzialmente, due cose: essere onesti e stare “dalla parte” del proletariato.

». La Repubblica, 22 dicembre 2016 (c.m.c.)

Decidano i cittadini ». Non ci sta Domenico Lucano, sindaco calabrese di Riace, a vedere sporcare con sospetti e illazioni il modello amministrativo che ha trasformato il suo paese in un esempio mondiale di accoglienza. A poche ore dalla diffusione sul web di una registrazione rubata, con cui una mano anonima lo ha accusato di avere pilotato un appalto, il sindaco si è dimesso.

Quarantesimo uomo più influente al mondo per Fortune, fra i selezionatissimi ospiti chiamati da Francesco per discutere di migrazioni, il primo cittadino di Riace è diventato un punto di riferimento mondiale. Ma a casa qualcuno sta tentando di fargli lo sgambetto, pubblicando una serie di audio rubati. Le registrazioni appaiono tutte su un canale YouTube aperto, qualche settimana fa, da tale Rocco Sapienza. Un nome falso, come il profilo cui è collegato, ma in grado di pubblicare conversazioni reali.

Nella prima, il sindaco discute delle politiche calabresi di accoglienza con il suo braccio destro Antonio Capone. Nella seconda, tutta in dialetto, confusa e disturbata, Lucano parla con i suoi ex assessori Renzo Valilà e Maurizio Cimino, all’epoca anche vicesindaco. Non si tratta di un incontro recente, perché i due sono stati defenestrati, non senza coda polemica, nel maggio scorso.
L’argomento però è di stringente attualità per gli affamati Comuni calabresi: i fondi in arrivo dalla Regione per contrastare il dissesto idrogeologico.

Chi ha diffuso l’audio voleva dare ad intendere che quei soldi fossero stati dirottati su di un inesistente campo sportivo. In realtà, afferma Lucano con un lungo post su Facebook, nel corso di quella conversazione lui avrebbe solo spiegato ai suoi assessori dell’epoca che quei soldi sarebbero bastati non solo per mettere in sicurezza l’area, ma anche per «renderla fruibile per attività ricreative, scolastiche, sportive». Uno spiazzo aperto a tutti, insomma.

Solo in futuro «e con uno specifico contributo» - afferma il sindaco - l’opera sarebbe stata trasformata in un campetto in piena regola per «fare felici i ragazzi di Riace e i numerosi ragazzi che vengono da ogni parte del mondo. Dove sta il male di tutto questo? ». «Non voglio – aggiunge il sindaco - che ci siano ombre in grado di offuscare l’orizzonte politico e sociale che ha indicato una via possibile e alternativa nella prassi politica, soprattutto dei piccoli governi locali».

Tanto meno – aggiunge - «che focolai di speranza e di luce vengano spenti per autorizzare chiunque a dire con i soliti luoghi comuni sulla politica “tanto sono tutti uguali” ». Per questo motivo Lucano ha deciso di presentare le proprie «non irreversibili» dimissioni, rimettendo il proprio mandato nelle mani dei cittadini. A decidere sul suo futuro sarà un’assemblea aperta, convocata per il prossimo 30 dicembre. Un appuntamento cui in tanti – sindacalisti, attivisti, ma anche semplici cittadini di tutta la provincia – hanno assicurato la propria presenza, mentre fioccano gli attestati di stima e solidarietà all’indirizzo di Lucano.

Lui però rimane in silenzio. Secondo chi gli sta vicino, il sindaco dimissionario sa chi sta diffondendo le registrazioni. E non a caso – affermano – nel suo post sottolinea «le mafie forse hanno imparato una nuova strategia: non mi chiamano con le persone che contano, amici degli amici, io non riconosco queste autorità; non mi fanno intimidazioni, violenze eclatanti perché sono consapevoli di rendermi più forte, rimangono due possibilità: la mia vita o le diffamazioni e le denigrazioni ».

«Grateful dead economy». il manifesto, 21 dicembre 2016 (c.m.c.)

Dal titolo e dall’accattivante copertina potrebbe sembrare un libro eccentrico, una trovata di subvertising, invece Grateful dead economy. La psichedelia finanziaria di Andrea Fumagalli (AgenziaX; pp. 190, euro 15) analizza in maniera innovativa, critica e creativa tre concetti-chiave al centro del dibattito politico contemporaneo: comune, open source e monete alternative.

Andrea Fumagalli è docente di Economia Politica all’Università di Pavia. Le sue ricerche vertono sulla precarietà del lavoro, il reddito di base, le trasformazioni del capitalismo contemporaneo. Una attività di ricerca inscindibile dall’impegno nei movimenti sociali. Oltre a , tra i suoi libri vanno ricordati: L’Antieuropa delle monete, con Lapo Berti (manifestolibri); La moneta nell’impero, con Christian Marazzi e Adelino Zanini (ombre corte); Lavoro male comune (Bruno Mondadori); inoltre ha curato Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, con Sergio Bologna (Feltrinelli); La moneta del comune, con Emanuele Braga (DeriveApprodi).

Fumagalli sostiene che un tempo la psichedelia era sinonimo di creatività e sovversione, ma ora regnano l’impotenza e la depressione sociale. Forse è perché la finanza e la mercificazione economica si sono appropriate non solo del corpo ma anche dei cervelli, dei sensi e dell’eros, costringendoli a vivere una vita di elemosina e precarietà? Lo abbiamo chiesto all’autore.

Cos’è la psichedelia finanziaria e qual è la relazione tra i Grateful Dead e la proposta della moneta alternativa «commoncoin»?

I Grateful Dead sono stati non solo uno dei gruppi musicali che più hanno inciso sulla controcultura, ma anche un tentativo di cooperazione sociale. Oggi, l’esperienza della costruzione di un esodo costituente fa tesoro dello spirito innovativo della controcultura.

Il progetto della «commoncoin» è la continuazione dell’esodo della nave spaziale di «Blows against the Empire», celebre disco dei Jefferson Staship con Jerry Garcia tra gli ospiti, o della riflessione di Marx sull’importanza delle comuni agrarie della Russia pre-sovietica?

Recupero la riflessione di Marx sulla Comune e sull’accumulazione originaria. Ma faccio riferimento anche al fatto che negli Usa le forme di conflitto nel mondo del lavoro assumono una forma diversa di quelle in Europa. Là c’è sempre stata la possibilità della via di fuga rappresentata dalla frontiera e dal suo mito, una forma di esodo che trova continuazione nelle comuni degli anni Sessanta e nel cyberspazio delle controculture di fine Novecento. Queste esperienze dimostrano però che le forme di alternatività al capitalismo sono destinate a diventare canali di innovazione del capitale se non si dotano di un’autonomia economica.

Nel tuo libro manca l’ipotesi di un pensiero sulla strategia rivoluzionaria. Un concetto chiave nel pensiero di Marx…

Nella cultura marxista, la rivoluzione è realizzabile solo se viene individuato un soggetto di riferimento. Senza soggetto rivoluzionario non c’è possibilità di rivoluzione. Questo tema rimanda alla definizione di classe. Al momento non si può più parlare di classe sociale ma di condizione sociale. Infatti non uso la definizione «classe precaria» ma scrivo di condizione precaria. Le condizioni sociali, di lavoro e di vita si sovrappongono: questo rende più complesso il processo di omogeneizzazione. La presa di coscienza diventa processo di soggettivazione.

Nel recente passato parlavamo di operaio-massa, che esiste ancora ma non è più il centro unico della valorizzazione che oggi deriva dallo sfruttamento delle economie di rete, delle economie di apprendimento e dalla riproduzione sociale. I lavoratori di questi segmenti non sono in grado di definire un soggetto rivoluzionario se non si completa il processo di soggettivazione.

E tale processo è oggi tanto più difficile quanto questi segmenti sono facile preda dell’immaginario capitalista. Forse è possibile procedere attraverso forme di esodo in grado di assediare il capitale, che è cosa diversa da trasformarlo dall’interno, strategia forse oggi più improponibile che la rivoluzione stessa. È necessario acquisire competenze migliori per affrontare la frontiera tecnologica. Bisogna saper creare algoritmi altrettanto potenti di quelli utilizzati dal capitale.

In questo mesi sto seguendo, da osservatore, le lotte dei riders di Foodora: nel loro caso le comunicazioni digitali tramite algoritmi diventano le forme che definiscono anche giuridicamente le forme di comunicazione dei rapporti di lavoro. È possibile sviluppare un contro-algoritmo che decida la distribuzione delle commesse in maniera più consona alle esigenze dei riders? O è meglio creare un algoritmo che fa opera di sabotaggio? Le competenze tecnologiche forse è meglio utilizzarle per creare alternatività qui e ora, anche se non è da escludere l’intervento sui rapporti di forza.

Come si combinano elementi di teoria marxista e sapere hacker? Come si costruisce un circuito finanziario alternativo?

I movimenti controculturali e quelli cyber hanno cercato di creare le premesse per un mondo liberato. Ma non hanno definito una cassetta degli attrezzi in grado di garantire questa autonomia, che sviluppi una consapevole autodeterminazione culturale e politica del singolo e la possibilità di dotarsi di sostenibilità economica e finanziaria, condizione necessaria, anche se non sufficiente, affinché le iniziative alternative siano in grado di autosostenersi senza correre il rischio di essere riassorbite.

I primi elementi di questa cassetta degli attrezzi sono costituiti dallo sviluppo di una moneta alternativa in grado di definire un circuito monetario e finanziario alternativo, non assimilabile a quello capitalistico, non condizionato dalle oligarchie finanziarie, ma capace di creare le basi per una psichedelia finanziaria dal basso; e dall’introduzione di un reddito di base incondizionato, inteso come remunerazione della vita messa a valore, finanziato dalla stessa moneta alternativa. Una sperimentazione che val la pena di tentare.

21 dicembre 1956. Stati Uniti . Sentenza della corte suprema che ha dichiarato incostituzionale la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblico. Riportiamo un approfondimento di Nadia Venturini estratto da un articolo del

La Stampa, 30 novembre 2015 (c.m.c.)


Il Sud 50 anni fa

E’ difficile crederlo, guardando Obama e Michelle, ammirando gente dello spettacolo come Oprah Winfrey e Denzel Washington. Eppure la segregazione esisteva davvero negli undici stati che avevano fatto parte della Confederazione durante la Guerra Civile. Era un sistema rigido che teneva i neri separati dai bianchi nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto. Relegava i neri in scuole di livello inferiore, li escludeva da molte occupazioni e prevedeva salari più bassi. Ma soprattutto ogni stato elaborava stratagemmi legali per impedire ai neri di registrarsi per votare, come ha descritto molto bene la regista Ava DuVernay nel film Selma.

I neri sapevano dove nascondersi per organizzare le loro azioni

La segregazione conteneva un paradosso: la legislazione del sud obbligava a mantenere ad uso esclusivo dei neri una serie di spazi pubblici molto eterogenei (chiese, bar, associazioni ricreative, barbieri e beauty shop) e quindi permetteva agli afroamericani di avere luoghi in cui potersi nascondere e organizzare all’insaputa dei bianchi, senza dover ricorrere a stratagemmi.

Un fenomeno che riguardava in modo particolare le donne, spesso escluse dai livelli dirigenti delle organizzazioni per i diritti civili. Perfino nel memorabile giorno della Marcia su Washington, nessuna donna parlò sul palco. Per questo motivo, la vicenda di Rosa Parks ci consente di scoprire un risvolto ancora poco conosciuto di quella che fu la lotta per i diritti civili degli afroamericani.

Chi era Rosa Parks prima di diventare famosa

Non era né anziana, né stanca: però si era stancata di subire. Aveva 42 anni, faceva la sarta, era attiva nel volontariato della sua chiesa e da vent’anni attivista della NAACP di cui, a Montgomery, era segretaria del responsabile locale E.D. Nixon.

Rosa McCauley Parks aveva accumulato esperienze come attivista per i diritti civili, fin da quando negli Anni 30 aveva partecipato col marito Raymond Parks alla campagna per la liberazione dei 9 ragazzi di Scottsboro, ingiustamente accusati di stupro. Dopo la fine del boicottaggio di Montgomery era diventata un’icona nazionale, ma sia lei che il marito avevano perso il lavoro. Dovettero trasferirsi a Detroit e ripartire da zero. Rosa veniva invitata a convegni e manifestazioni, ma non le offrirono mai un impiego adeguato alla sua esperienza di attivista. Continuò come volontaria ad impegnarsi sul tema della giustizia criminale e del trattamento dei neri nel sistema giudiziario.

Quando venne arrestata a Montgomery nel 1955, non si era seduta nella parte bianca del bus, ma in quella intermedia di separazione delle razze, che veniva occupata solo quando il bus era molto affollato. L’autista le ordinò comunque di alzarsi per cedere il posto a un uomo bianco, Rosa rifiutò, venne imprigionata e liberata la sera stessa grazie alla cauzione pagata dall’avvocato bianco antirazzista Clifford Durr. E.D. Nixon progettò la causa giudiziaria che avrebbe portato la Corte Suprema, un anno dopo, a decretare l’incostituzionalità della segregazione sui mezzi di trasporto. Intorno alla vicenda di Rosa si creò una mobilitazione della comunità nera: 40mila persone fra chiese, associazioni, donne di ogni estrazione sociale.

L’intervento di Martin Luhter King in difesa di Parks

Il 5 dicembre, giorno del processo, in un’affollata assemblea tenuta in chiesa, alla Parks non venne data la parola ma fu Martin Luther King a sottolineare la sua reputazione di buona cittadina. Una rispettabilità inattaccabile, quella più compatibile con la definizione della femminilità nel dopoguerra, in cui la maggior parte degli afroamericani tentavano di aderire ai valori della società dominante per ritagliarsi uno spazio personale e professionale anche nel mondo segregato del sud. Parks divenne così una sorta di bandiera della causa per la desegregazione dei mezzi pubblici di Montgomery e poi un’icona del movimento.

Non soltanto Rosa:le altre donne della ribellione

Nel 1955 Rosa Parks era un’attivista molto consapevole, cosciente che la scandalosa situazione dei bus di Montgomery non era dovuta solo alla segregazione, ma ai deliberati maltrattamenti degli autisti bianchi verso la prevalente utenza nera. Rosa e Nixon avevano partecipato ad una Leadership Training Conference della NAACP, organizzata da Ella Baker, che aveva contribuito a rafforzare i progetti di azioni legali contro la segregazione. Inoltre durante l’estate la Parks aveva partecipato ad un seminario presso Highlander Folk School (link) dove aveva conosciuto Septima Clark e Bernice Robinson: un incontro fra donne formidabili.

Jo Ann Robinson . fu lei a ideare il boicottaggiodei bus

Il boicottaggio degli autobus di Montgomery iniziò il 5 dicembre 1955 e si concluse il 21 dicembre 1956: fu una delle più straordinarie dimostrazioni di resistenza non violenta che si ricordino. Migliaia di afroamericani rinunciarono al trasporto pubblico per un anno intero.

I neri pagavano il biglietto e poi venivano lasciati a terra

Ma quel boicottaggio non fu progettato da Rosa Parks o da Martin Luther King o dai leader afroamericani. Fu ideato da Jo Ann Robinson, presidente del Women’s Political Council, un’associazione femminile afroamericana. Occorre spiegare che tre quarti dei passeggeri degli autobus erano neri e subivano vari abusi. Il regolamento prevedeva che dopo aver pagato la propria tariffa, gli utenti neri scendessero per risalire dalla porta posteriore, ma talvolta venivano lasciati a terra, e le donne spesso subivano maltrattamenti. Molte lamentele arrivavano al WPC della Robinson la quale già nel 1954 aveva avvisato il sindaco che 25 organizzazioni locali erano pronte ad avviare un boicottaggio degli autobus.

Quella notte passata a stampare volantini di propaganda

Quando seppe dell’arresto di Rosa Parks, Robinson agì con prontezza e segretezza. Nella notte fra il 1° e il 2 dicembre 1955, stilò un breve comunicato anonimo, nel quale riferiva che «un’altra donna negra è stata arrestata e gettata in carcere perché ha rifiutato di alzarsi e cedere il posto ad una persona bianca sull’autobus». Invitava quindi i cittadini neri a non prendere gli autobus il 5 dicembre, giorno del processo. Il volantino era anonimo, conciso e privo di retorica. Fu stampato nella notte in diecimila copie.

La Robinson, con l’aiuto di studenti e colleghi, utilizzò di nascosto il centro stampa del college e all’alba venne organizzata la distribuzione presso scuole, negozi, birrerie, saloni di bellezza e barbieri. Alle due del pomeriggio ogni volantino era stato passato più volte di mano: «Praticamente ogni uomo, donna o ragazzo nero a Montgomery conosceva il progetto e faceva passaparola. Nessuno sapeva da dove fossero venuti i volantini o chi li avesse fatti circolare, e a nessuno importava. Nel profondo del cuore di ogni persona nera vi era una gioia che non osava rivelare», raccontava tempo dopo la Robinson.

Le domestiche di colore ostentavano calma a casa dei bianchi

Insomma, era stato un gruppo di donne che, con furtiva abilità, aveva innescato la protesta. Il che testimonia ancora una volta come negli Anni 50 per i neri dissenzienti del sud la dissimulazione della protesta fosse considerata vitale. Le domestiche, ad esempio, che lavoravano fino a tardi presso le famiglie dei bianchi, quel giorno lessero di corsa e di nascosto il volantino per poi distruggerlo subito dopo e continuare a lavorare di buon umore, per non fare trapelare nulla.

Bernice Robinson e l'attivismo delle parrucchiere

I volantini del boicottaggio di Montgomery venivano lasciati soprattutto nei saloni di bellezza. Già, perché molte parrucchiere ed estetiste erano attiviste dei diritti civili, ormai da decenni. Parecchie di loro erano aderenti alla NAACP e diffondevano fra le loro clienti i materiali per potersi registrare e votare.

Le beauticians nere erano professioniste indipendenti, mediamente più colte di altre donne che svolgevano lavori umili. Talvolta disponevano di un negozio attrezzato, talvolta esercitavano nelle proprie case, ma erano tutte piccole imprenditrici libere dal controllo bianco, che potevano affermare una leadership riconosciuta nelle loro comunità. L’importanza di questa professione traeva origine da uno dei tratti distintivi delle donne nere, disprezzato dal razzismo bianco e invece esaltato dalla cultura del Black Power: i capelli ricci, difficili da trattare, che richiedevano l’uso di prodotti specifici e l’abilità di professioniste specializzate. Fino agli Anni 60 prevaleva lo stile conformista che imitava le acconciature delle donne bianche: poi emerse la scelta ribelle di portare i capelli afro, come Angela Davis.

Le beauticians nere controllavano uno spazio fisico, il beauty shop, che era nel contempo pubblico e privato: forniva uno spazio intimo riservato alle donne, in cui le estetiste potevano parlare liberamente con altre donne per incoraggiarle all’attivismo o alla registrazione elettorale. La specificità professionale e l’indipendenza economica le portavano a sostenere diverse forme di attivismo politico. Highlander aveva organizzato alcuni seminari di formazione dedicati proprio a queste professioniste all’inizio degli Anni 50: essendo in contatto con tutti i settori della popolazione afroamericana, con donne di classi e formazione diverse, le beauticians erano in grado di raccogliere informazioni di ogni tipo e diffonderle fra le loro clienti.

Septima Poinsette Clark, insegnante e rivoluzionaria

Bernice Robinson venne coinvolta in questi contesti nel 1955 dalla cugina Septima Poinsette Clark (link). Insegnante elementare a Charleston, nel 1956 venne licenziata perchè non aveva voluto dimettersi dalla NAACP. Bernice aveva vissuto a lungo a New York, dove aveva appreso il mestiere di estetista e di sarta: quando dovette tornare a vivere a Charleston, trovò difficile abituarsi nuovamente alle restrizioni della segregazione. Divenne attiva nella NAACP locale, e costruì a lato della sua casa un laboratorio da estetista. Mentre faceva una messa in piega, incitava le clienti a registrarsi per votare.

Septima Clark condusse la Robinson al centro culturale Highlander, dove incontrarono Rosa Parks. Ognuna di loro nell’estate del 1955 prese decisioni che avrebbero sconvolto le loro vite. Bernice si fece convincere da Septima ad organizzare una scuola di cittadinanza nelle zone rurali più povere della South Carolina. Gli afroamericani erano in gran parte analfabeti, per cui non potevano registrarsi. La scuola di cittadinanza doveva dare un’alfabetizzazione primaria e un’educazione civica per conseguire questo obiettivo.

Il modello di scuola popolare che aveva creato ebbe successo, molti afroamericani riuscirono a registrarsi, e vennero aperte scuole analoghe in tutto il sud. Dopo tre anni, Bernice lasciò il suo beauty shop, perché ottenne il ruolo di coordinatrice della formazione in tutto il sud. Viaggiava continuamente ed era in contatto con tutti i leader afroamericani. Nel 1965 andò con Septima a Selma per alcuni mesi, per insegnare ai neri locali a scrivere la propria firma.

Il Voting Rights Act del 1965 coronò gli sforzi di migliaia di donne afroamericane che avevano lottato per superare gli ostacoli posti dagli stati del sud al diritto di voto. Avevano creato oltre 900 scuole popolari, permettendo la registrazione di centinaia di migliaia di afroamericani. Erano donne determinate e coraggiose, venivano spesso dalle classi popolari, e alcune di loro avevano cominciato pettinando e truccando altre donne.

«È il momento culminante di un capitalismo che, avendo la propria egemonia in crisi, deve adoperarsi in ogni modo per favorire il consenso, per fare sì che l’odio e l’amore delle masse siano indirizzati, dove i signori del mondialismo hanno deciso debbano essere indirizzati». Il Fatto Quotidiano, il blog di Diego Fusaro, 20 dicembre 2016 (c.m.c.)

Ed è subito terrore. Ancora una volta. Secondo modalità che ritornano sempre invariate, sempre le stesse. Quasi come se si trattasse di un copione già scritto, un orrendo copione da mettere in scena a cadenza regolare. Questa volta è stato il turno di Berlino. Permettetemi, allora, di svolgere alcune considerazioni generalissime sul terrorismo e sulla sua funzione nel quadro storico post 1989.
1) Gli attentati si abbattono sempre e solo sulle masse subalterne, precarizzate, sottopagate e supersfruttate. L’ira delirante dei terroristi non si abbatte mai, curiosamente, sui luoghi reali del potere occidentale: banche, centri della finanza, ecc. I signori mondialisti non vengono mai nemmeno sfiorati. I terroristi avrebbero dichiarato guerra e poi attaccherebbero solo le masse schiavizzate, rendendo – guarda caso – un buon servizio ai signori mondialisti della finanza sradicata: i quali vedono il loro nemico di classe (le masse sottoproletarie, precarizzate e pauperizzate) letteralmente bombardato e fatto esplodere da agenzie terze;

2) Il terrorismo produce un grandioso spostamento dello sguardo dalla contraddizione principale, il nesso di forza classista finanziarizzato. A reti unificate ci fanno credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano del capitalismo finanziario (guerre imperialistiche, ecatombi di lavoratori, suicidi di piccoli imprenditori, popoli mandati in rovina);

3) Ci fanno ora credere che il nemico, per il giovane disoccupato cristiano, sia il giovane disoccupato islamico e non il delocalizzatore, il magnate della finanza, l’apolide e sradicato signore del mondialismo che sta egualizzando il pianeta nella disuguaglianza del libero mercato. Per questa via, il conflitto servo-signore è, ancora una volta, frammentato alla base. Si ha l’ennesima guerra tra poveri, della quale a beneficiare sono coloro che poveri non sono. Il terrorismo frammenta il conflitto di classe e mette i servi in lotta tra loro (islamici vs cristiani, orientali vs occidentali);

4) Il terrorismo permette l’attivazione di quel paradigma securitario che, ancora una volta, giova unicamente al signore globalista e finanziario. Si attiva il modello Patriot Act Usa: per garantire sicurezza, si toglie libertà. Meno libertà di protesta, meno libertà di organizzazione, più controlli, più ispezioni, più limitazioni. La massa terrorizzata accetta ciò che in condizioni normali mai accetterebbe: la perdita della libertà in nome della sicurezza;

5) Si prepara il terreno – prepariamoci – per nuove guerre: guerre terroristiche e criminali contro i crimini del terrorismo. Come accadde in Afghanistan (2001) e recentemente in Siria. Il terrorismo legittima l’imperialismo occidentale, l’interventismo umanitario, il bombardamento etico, le guerre giuste, e mille altre pratiche orwelliane che, chiamate col loro nome, rientrerebbero esse stesse nella categoria del terrorismo. L’imperialismo occidentale coessenziale al regime capitalistico viene legittimato e fatto accettare alle masse terrorizzate e subalterne.

A differenza di Pasolini, io non so i nomi. Credo, tuttavia, di sapere che cos’è davvero il terrorismo. È la fase suprema del capitalismo. È il momento culminante di un capitalismo che, avendo la propria egemonia in crisi (per dirla con Gramsci), deve adoperarsi in ogni modo (letteralmente: in ogni modo) per favorire il consenso, per riallineare le masse, per disarticolare il dissenso, per sincronizzare le coscienze, per fare sì che l’odio e l’amore delle masse siano indirizzati, secondo le debite dosi, dove i signori del mondialismo hanno deciso debbano essere indirizzati.

Il manifesto, 20 dicembre 2016 (p.d.)

L’Osservatorio sul precariato dell’Inps conferma il boom dei voucher: tra gennaio e ottobre 2016 sono stati venduti 121,5 milioni «buoni lavoro», valore nominale di 10 euro, destinati al pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio. Rispetto ai primi dieci mesi del 2015, quando il nuovo precariato aveva già battuto il record del 2014 (+67,6%), si tratta di un incremento del 32,3%.

La norma sulla tracciabilità dei voucher, da poco attivata, non sembra fermare il boom del lavoro a scontrino che integra e a volte sostituisce il lavoro propriamente detto. Il ministro del lavoro Poletti ieri ha detto di aspettare i risultati a partire «dal prossimo mese. Se i dati ci diranno che anche questo strumento non è sufficiente a riposizionare correttamente i voucher la cosa che faremo è rimetterci le mani».

Il pressing della sinistra Pd sul governo Gentiloni continua, mentre incombe la decisione della Consulta sui referendum della Cgil su voucher, articolo 18 e appalti. «Dietro questi voucher dilaga una forma di precarietà indifendibile che colpisce i più deboli – sostiene Roberto Speranza che si è candidato alla segreteria del Pd – In Parlamento c’è già una buona proposta. Non si può più aspettare». «Occorre tornare allo spirito e alla lettera della legge Biagi – sostiene Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro del Senato – Sull’articolo 18, infine, la situazione è più complessa: sarebbe prioritario concentrarsi sui temi dei licenziamenti disciplinari, di quelli collettivi e del mantenimento dell’articolo 18 nel caso di cambio di appalto».

«Sui voucher questo strumento non ci possono essere interventi correttivi o migliorativi: l’unica soluzione è l’abolizione che dovrebbe fare il Parlamento. In caso contrario si vada al referendum» sostiene Arturo Scotto (Sinistra Italiana). «Poletti dice anche che il jobs act fa bene al Paese e non vede motivi per i quali si debba modificare. Per fortuna li vedono gli italiani e li vedranno anche nelle urne» aggiunge Pippo Civati (Possibile).

Il monitoraggio dell'Inps permette di analizzare altri aspetti decisivi del Jobs Act che il neo-presidente del consiglio Gentiloni «non ha nessunissima intenzione di cambiare sull’articolo 18». Continuano a calare le assunzioni a tempo indeterminato senza articolo 18, il settore sul quale sono stati investiti almeno 11 miliardi di euro in sgravi contributivi triennali alle imprese. Dopo il taglio degli incentivi (da 8.040 a 3.250 euro per neo-assunto) questa tipologia di contratti ha registrato una diminuzione di 492 mila unità, pari a –32% rispetto ai primi dieci mesi del 2015.

Nel 2016 le assunzioni con esonero contributivo biennale sono state 323 mila, le trasformazioni dei rapporti a termine che beneficiano del medesimo incentivo ammontano a 117 mila, per un totale di 440 mila rapporti di lavoro agevolati, il 33,9% delle assunzioni/trasformazioni a tempo indeterminato. Rispetto al 2015, la differenza è enorme: il rapporto era pari al 60,8%. Gli incentivi continueranno fino al 2018. Le imprese del Sud li incasseranno a pieno titolo anche nel 2017.

Crescono i licenziamenti tra chi ha un contratto a tempo indeterminato, in particolare quelli per giustificato motivo oggettivo e quelli per giusta causa: i primi sono passati dai 380.292 dei primi dieci mesi del 2015 ai 399.613 del 2016; i secondi da 47.728 dello scorso anno ai 60.817 di quest’anno. I licenziamenti complessivi sul tempo indeterminato (507 mila) sono in aumento rispetto al 2015 (490 mila) e diminuiscono rispetto a due anni fa (514 mila). L’obbligo alle dimissioni on line abbia inciso su questo andamento.

Aumenta il precariato che resta la forma dominante del mercato del lavoro. Lo si vede dai numeri assoluti. Il totale delle assunzioni a tempo indeterminato, a termine, apprendistato o stagionali avvenute nel settore privato sono state 4 milioni e 833 mila nei primi dieci mesi del 2016. I contratti a tempo determinato sono 3 milioni e 106 mila, in aumento sia sul 2015 (+4,9%), sia sul 2014 (+7,6%). Le assunzioni con un contratto in apprendistato sono aumentate di 38 mila unità (+24,5%).

La ricetta del jobs act è un assistenzialismo statale alle imprese in un’economia senza domanda. Questa è l’eredità che il renzismo ha lasciato al governo senza Renzi: crescita dilagante del precariato dentro e fuori il perimetro del lavoro subordinato e un trasferimento di ingenti risorse pubbliche alle imprese.

Il 75% dei nuovi rapporti di lavoro sono precari. Questo è il calcolo della Fondazione di Vittorio (Cgil), confermato anche dal nuovo report dell’Inps. «Il Jobs Act è una ricetta amara e sbagliata – sostiene Tania Sacchetti (Cgil) – non produce occupazione di qualità, dispensa meno diritto, tutele nel lavoro e lascia piena discrezionalità alle imprese».

«La necessità di una corretta informazione come antidoto all’hate speech è il contributo che abbiamo ritenuto di portare ai lavori della Commissione contro l’intolleranza e l’odio».

Articolo21 online, 20 dicembre 2016 (c.m.c.)

Un anno fa, nel presentare la precedente edizione di questo rapporto, definivamo “impressionante” ma “non sorprendente” la quantità di articoli e di servizi televisivi che i media italiani avevano dedicato all’immigrazione nel corso del 2015: una crescita da 70 al 180 per cento nella carta stampata e fino al 400 per cento nelle tv.

“Non sorprendente” perché nel corso di quell’anno si erano verificati alcuni eventi che, in base agli ordinari “criteri di notiziabilità”, erano di rilevanza assoluta ed era dunque fisiologico che avessero prodotto un gran numero di articoli e di servizi: il naufragio del 18 aprile (a pochi mesi dalla sospensione dell’operazione Mare Nostrum) con 800 vittime, e la morte del piccolo Aylan Kurdi con quella sequenza fotografica che commosse il mondo.

Nel 2016 non si sono verificati eventi di quella portata eppure – ci dice l’analisi dell’Osservatorio di Pavia – quei numeri impressionanti si sono sostanzialmente ripetuti: una leggera flessione quanto ai servizi televisivi, un ulteriore incremento nei titoli delle prime pagine dei quotidiani nazionali.

Il dato quantitativo, insomma, si è stabilizzato: si parla molto più di prima dell’immigrazione, anche in assenza di notizie clamorose. Se negli anni passati se ne parlava in occasione di tragedie del mare, di gravi fatti di cronaca nera, dei ciclici aumenti degli sbarchi (le “invasioni”) e, spesso in chiave emergenziale, in coincidenza con le campagne elettorali, adesso se ne parla con continuità, quasi tutti i giorni, e vi si arriva attraverso percorsi un tempo praticati, raramente, da pochi specialisti del settore: dalle analisi sull’organizzazione del lavoro a quelle sull’equilibrio del sistema pensionistico, dagli studi sulla nuova imprenditoria ai rimedi per frenare lo spopolamento delle zone interne. Il tema dell’immigrazione è entrato, in modo strutturale e pervasivo, nel sistema dell’informazione.

L’approdo auspicato da anni – far uscire l’emigrazione dall’eterna emergenza e considerarla finalmente una delle ordinarie tematiche sociali del nostro Paese e del nostro tempo – è stato dunque raggiunto dai media italiani? O è stato il tema a espandersi in una misura tale da imporsi ai media, anche quelli che lo snobbavano considerandolo di scarsissimo appeal per i loro lettori e ascoltatori? È difficile dare una risposta netta. Di certo i due processi non sono alternativi tra loro.

L’impressione è che si siano verificati entrambi. L’immigrazione, attraverso la sua drammatica forza autonoma, si è imposta come tema centrale dell’agenda europea e, contemporaneamente, è cresciuto il numero dei professionisti che hanno deciso di approfondirlo. Ipotesi, quest’ultima, che avanziamo anche alla luce della grande partecipazione dei colleghi alle iniziative formative che abbiamo curato in questi dodici mesi.

A confermare l’avvenuto “approdo alla normalità” il calo della “componente ansiogena” delle notizie e il comparire, nei toni e negli stili delle notizie sull’immigrazione, di modelli tipici dell’informazione politica. Se negli anni scorsi i media più ostili all’accoglienza abbondavano di allarmi, adesso utilizzano lo strumento dell’ironia, e a volte del sarcasmo. È più difficile brandire un tema diventato “normale” e si preferisce, quando è possibile, liquidarlo. In un certo senso, mentre se ne vorrebbe contestare la legittimità, si conferma attraverso il linguaggio il pieno ingresso dell’immigrazione nell’agenda politica.

Ma la conferma più chiara viene da alcuni dei dati illustrati in questo rapporto. Gli analisti dell’Osservatorio di Pavia hanno rilevato che nei servizi sull’immigrazione mandati in onda nel corso del 2016 dai tg nella fascia prime time, i politici italiani sono presenti una volta ogni tre e quelli europei una volta ogni cinque. Complessivamente, i politici sono dunque presenti, quando si parla di immigrazione, in un servizio su due. Una percentuale che cala drasticamente quando si esamina la presenza di esponenti politici in servizi dedicati ad altre tematiche pure di grande rilevanza sociale.

Inoltre, quanto alla carta stampata, si è constatato che nella metà dei titoli dedicati all’immigrazione si fa riferimento esplicito a esponenti politici italiani e/o europei. Come ben sanno i colleghi che ci hanno seguito in questi anni, il nostro “chiodo fisso”, l’assunto metodologico che ci guida, è chiarire che le regole della Carta di Roma non costituiscono un mansionario per giornalisti “buoni” e “politicamente corretti”. Il nostro codice deontologico non fa altro che riferire a un tema particolarmente complesso e delicato qual è l’immigrazione le regole deontologiche generali. Su questo assunto si fonda la convinzione che, sperimentandole sull’immigrazione, possiamo migliorare e affinare le nostre capacità professionali. Proprio come un chirurgo che migliora le tecniche operatorie intervenendo sul corpo dei pazienti più fragili.

I dati sulla crescente presenza di esponenti politici nei servizi dedicati all’immigrazione, mentre rappresentano una formidabile conferma della “normalizzazione” del tema, sono anche una conferma della tendenza del nostro sistema informativo ad assecondare l’agenda politica. Un’agenda nella quale l’immigrazione compare come terreno di scontro.

Abbiamo preso atto, finalmente, del fatto che era ora di smetterla di usare toni ansiogeni ed emergenziali per un fenomeno che dura da più di vent’anni, ma la politica ancora non l’ha fatto. Lo scontro si riaccende in seguito a eventi connessi per larga parte all’accoglienza. Gli sbarchi sono diventati “normali”, ma non lo è ancora quel che succede un attimo dopo. Raccontiamo nei dettagli che “sono arrivati”, ma continuiamo a spiegare molto poco perché “sono partiti”. Teniamo la conta dei migranti e dei rifugiati vittime del Mediterraneo e riferiamo di indagini e processi che hanno per protagonisti trafficanti di esseri umani, ma non raccontiamo con altrettanta attenzione i canali alternativi sicuri e legali già attivi, dal reinsediamento ai corridoi umanitari.

La possibilità di un’informazione completa sull’immigrazione – un’informazione che, tra l’altro, sappia spiegare a lettori e telespettatori non solo gli effetti degli arrivi, ma anche le cause delle partenze e delle fughe – continua e entrare in conflitto con una politica che non riesce a trovare un orizzonte condiviso e parla (e litiga) con un’intensità tale da togliere spazio alla voce dei diretti interessati. E che, ancora, sostanzialmente impone la sua agenda, interferendo anche nei percorsi virtuosi.

Diminuisce l’utilizzo di un termine giuridicamente inappropriato come “clandestino”, ma si enfatizza lo status di rifugiato dell’autore di un reato. Anche quando non lo è, come nel caso delle violenze contro le donne compiute la notte di Capodanno a Colonia. Un quadro che conferma la necessità di un sistema di informazione che segua percorsi autonomi, che vada a fondo nelle notizie, che fornisca ai cittadini un quadro completo dei problemi in modo che possano formarsi un giudizio. Come si vede, partendo dall’immigrazione si arriva a conclusioni che riguardano tutti i giornalisti, anche quelli che si occupano di tutt’altro.

La “normalizzazione” ha determinato anche un abbassamento dei toni. Questo Rapporto ci dice che l’hate speech, il discorso d’odio, non riguarda in modo diretto il sistema dei media tradizionali. Non “produciamo” hate speech e, nella generalità dei casi, evitiamo di diventarne veicolo. Facciamo, con una certa efficacia, da filtro. Una buona notizia. Tuttavia dovremmo riflettere sul fatto che l’hate speech, quello che dilaga nei social network, trova alimento nella cattiva informazione. Ed è questa la ragione per cui non possiamo sentirci innocenti.

La necessità di una corretta informazione come antidoto all’hate speech è il contributo che abbiamo ritenuto di portare ai lavori della Commissione contro l’intolleranza e l’odio, la Commissione Joe Cox, istituita su iniziativa della presidente della Camera Laura Boldrini. Consideriamo il fatto della sua istituzione il primo tentativo di ragionare assieme, anche sulle modalità di formazione dell’agenda, tra politica, associazioni umanitarie e professionisti della comunicazione.

Un confronto utile a definire senza equivoci i reciproci ambiti. Ma anche necessario al sistema dell’informazione che ha nei social network dei formidabili alleati e delle insidiose serpi in seno. Se, infatti, per un verso i social consentono di diffondere in una misura un tempo impensabile i contenuti informativi, per altro verso agiscono come organi di informazione autonomi, privi di un direttore responsabile e animati da una moltitudine di redattori, alcuni dei quali totalmente irresponsabili, che diffondono notizie false che in alcuni casi configurano autentici incitamenti all’odio razziale.

Il filtro dei media professionali non è da solo sufficiente in assenza di regole certe che impongano ai social di attenersi alle norme dell’ordinamento giuridico a cui sono sottoposti i loro utenti, i cittadini dei Paesi in cui operano. Questo è il terreno nel quale gli operatori dell’informazione e la politica devono, con urgenza, incontrarsi.

Nuovo regalo ai parassiti che hanno fatto il loro nido nel mondo della finanza. Chi pagherà? Ciò che resta del nostro welfare:dalla sanità all’assistenza, dalla formazione alla ricreazione, dalle bellezza all’utilità delle nostre città.

Il Fatto quotidiano, 20 dicembre 2016 Mesi passati a smentirlo, pochi minuti per approvarlo e presentarlo alla stampa alle nove di sera con una conferenza lampo convocata senza nessun preavviso: il governo approva così la bozza di intervento per soccorrere il sistema bancario. Il Consiglio dei ministri metterà sul piatto 20 miliardi che serviranno allo Stato per ricapitalizzare diversi istituti di credito in difficoltà: in testa Monte dei Paschi di Siena, ma anche le due popolari venete (Vicenza e Veneto Banca), Carige e le 4 banchette nate dalle ceneri di Etruria, Marche, Carife e Carichieti. Che la situazione sia seria lo conferma la modalità “notturna” dell’annuncio e le facce funeree che il premier Paolo Gentiloni e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan mettono su in sala stampa. Anche il nome (“Operazione salva risparmio”) dà l’idea della portata: puntellare diverse banche per evitare una crisi sistemica dopo gli interventi disastrosi fatti negli ultimi due anni.

Le misure vere finiranno in un decreto già scritto da tempo e limato negli ultimi giorni. “Le modalità saranno da definire”, spiega Padoan, ma a grandi linee l’ennesimo “salva banche” è chiaro. Matteo Renzi se l’è tenuto nel cassetto per settimane, ritardando fino a dopo il referendum la resa dei conti. D’altronde ammettere che la carta bianca data a Jp Morgan sul futuro di Monte dei Paschi si sta rivelando una fregatura non era un bel biglietto per presentarsi agli elettori. Il decreto conterrà anche garanzie pubbliche per la liquidità del settore. Il governo Renzi aveva ottenuto a luglio scorso una deroga dall’Ue per garantire le emissioni obbligazionarie delle banche “solvibili” ma con difficoltà a rifinanziarsi: un problema che all’epoca non esisteva e invece oggi sì, proprio a causa del mancato intervento del premier, consapevole da mesi di dover intervenire. Il decreto farà salire il debito nel 2017 e proprio perché modificherà i saldi di finanza pubblica dovrà essere approvato attraverso il percorso previsto dall’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio: il governo dovrà prima ottenere dal Parlamento – a maggioranza assoluta – il permesso di peggiorare i saldi. Ieri il Cdm ha autorizzato proprio questa richiesta da fare alle Camere, in un voto forse già mercoledì. La fretta è per i guai di Mps.

La prima indiziata è infatti proprio la banca senese, alle prese con un aumento di capitale da 5 miliardi che Renzi – in forza del 4 per cento detenuto dal Tesoro – ha affidato alla banca dell’amico Jamie Dimon (con commissioni stellari). Gli investitori sono rimasti freddi: terminerà giovedì, mercoledì invece si chiude l’offerta di conversione volontaria delle obbligazioni subordinate in azioni riaperta la scorsa settimana. La banca, con l’avallo della Consob (che in due settimane si è smentita) punta a convincere i 40 mila piccoli risparmiatori che hanno in tasca bond per 2,16 miliardi. Ma non basta. E il governo è pronto a un “intervento precauzionale” partecipando all’aumento di capitale. “Anche sottoscrivendo azioni di nuova emissione”, spiega Padoan.

Problema: dal 2013 l’Ue vieta agli Stati di risolvere le crisi bancarie senza prima accollare una parte dei costi ai creditori degli istituti: è il cosiddetto burden sharing. Se lo Stato ci mette i soldi, almeno gli obbligazionisti subordinati devono contribuire, possibilmente con una conversione forzata dei bond in azioni. A rimetterci sono anche gli azionisti. Se il governo interverrà, una parte (o tutta) dei 4,3 miliardi di obbligazioni di Mps seguiranno questa strada. L’accordo con l’Antitrust Ue, guidato dalla Commissaria Margrethe Vestager, prevede che poi lo Stato possa risarcire i piccoli risparmiatori (forse all’80%). Questo intervento è “precauzionale”, perché non riguarda banche non in dissesto. Altrimenti si applicherebbe il “bail-in” previsto da una direttiva del 2014: il conto del dissesto viene scaricato sugli azionisti, poi sugli obbligazionisti e se necessario perfino sui depositanti sopra la soglia dei 100.000 euro garantiti. È l’approccio che il governo ha applicato a novembre 2015 per Etruria scatenando il panico.

Il Tesoro non userà subito i 20 miliardi. Prima di natale o capodanno farà un decreto con le misure più urgenti per il settore: la sospensione dell’obbligo di trasformazione in spa (forse per sei mesi) delle popolari, resa necessaria visto che il Consiglio di Stato ha stroncato la riforma e chiamato in causa la Consulta; un’ulteriore rata che sarà chiesta a tutte le banche italiane per ripulire Etruria & C. e permetterne la vendita (il conto è ormai di oltre 4 miliardi) e ulteriori sgravi fiscali.

Il governo aveva pensato di fare un decreto unico, ma l’entità della cifra l’ha obbligato a passare dalle Camere. A Mps servono 5 miliardi, per le venete si parla di 3, tra i 500 milioni e 1 miliardo per Carige e un altro (pare) per CariCesena e CaRim. Tutto questo perché il fondo salva banche Atlante, partecipato dal settore ma anche dalla pubblica Cdp, messo in piedi in fretta e furia a marzo scorso ha finito i soldi.

CITTÀ DEL VATICANO «È brutto, è brutto...». L’arcivescovo Nunzio Galantino è appena uscito da una riunione, sera tardi, ancora non sapeva. Berlino, il mercatino di Natale, il camion che piomba sulla folla come a Nizza, i morti. «Questi atti, con la loro disumanità, vogliono paralizzarci la vita. A questo mira chi compie questa violenza bestiale». Il segretario generale della Cei resta in silenzio per un attimo, sospira. «Per questo dobbiamo continuare a vivere, è evidente».

Eccellenza, l’Italia e l’Europa sono piene di mercatini di Natale. Già prima del Giubileo la Chiesa invitò a non cedere alla paura. Che si può dire, ora?
«Chi fa queste cose si propone proprio di paralizzarci. A Natale, ovvio, l’impatto è ancora più brutto. Si capisce la paura, lo scoraggiamento, la rassegnazione. Ma non è un segno di incoscienza dire: non possiamo fare il loro gioco e dare a queste persone il potere di annientare qualsiasi voglia di vivere, di andare avanti, di cambiare. Eppure non basta affermare tutto questo».

In che senso?
«Dire che non bisogna farsi vincere dalla violenza e dalla paura può essere una frase stupida e vuota, se non è seguita dall’impegno di ciascuno a prendersi le proprie responsabilità. Ad essere tutti più uniti, più tolleranti. E guardarsi dalla violenza, anche nell’uso del linguaggio».

C'è una violenza diffusa?
«Io non voglio mettere tutto insieme. Però la volgarità e l’aggressività del linguaggio alimentano un clima che incattivisce le persone e allontana gli sforzi di convivenza pacifica. Esiste anche un terrorismo del linguaggio, si uccide anche con la calunnia. Guardi nei media, in tv, la politica. Per non parlare dei social network: la parola di un imbecille vale come quella di un Nobel, come diceva Eco, e spesso la parola di un violento o di un guerrafondaio ha molto più sostegno».

Torneranno le polemiche sullo scontro di civiltà...
«Ogni violenza è ingiustificabile e inaccettabile, tanto più per motivi religiosi. Ma lo scontro di civiltà è ciò che si propongono i violenti. Se anche ci fosse questo, e io non lo credo, al fondo c’è soltanto egoismo e sopraffazione. Guadagna chi ha interessi di potere o denaro, chi commercia in armi. Alla fine, nelle guerre, va a morire la povera gente. I signori si arricchiscono».

C’è stato anche l’assassinio ad Ankara dell’ambasciatore russo...
«Bisognerà capire cosa c’è dietro, non si uccide un ambasciatore così, per caso. Anche questo innescherà un meccanismo di ritorsioni...».

Nel 2017 saranno passati cent’anni dalla «lettera ai capi dei popoli belligeranti» di Benedetto XV, l'«inutile strage» della Grande guerra. Francesco parla di una «terza guerra mondiale a pezzi», rischia di essere altrettanto inascoltato?
«Temo di sì, i Papi finora sono stati inascoltati: egoismi e interessi hanno la meglio. Senza risalire a Benedetto XV, pensiamo alle parole chiare di Giovanni Paolo II all’inizio della Guerra del Golfo. Francesco ci sta inviando a rispettare la vita. Il terrorista non rispetta la vita. E nemmeno chi usa violenza, anche verbale».

Che si può fare?
«Tante cose belle che si fanno in questi giorni sono trattate alla stregua di addobbi natalizi: passata la festa, li si ripone negli scatoloni. Lo sforzo per la pace deve andare avanti».

C'è chi pensa che, nonostante i contorcimenti che compie per restare in sella, e la tremula pavidità dei suoi avversari interni, Renzi sia ormai andato. Sarebbe bello, ma finché resta vivo il ventre he lo generò il cielo sarà sempre oscuro.

Corriere della sera, 19 dicembre 2016

Si può comprendere il fascino del Mattarellum sul Pd, dopo il pasticcio indigesto regalato nei mesi scorsi con l’Italicum. È il tentativo di tenere in vita quanto più possibile il maggioritario, spingendo i partiti a coalizzarsi.

Di fatto, rappresenta l’estrema risorsa alla quale il vertice vuole ricorrere per ricreare le premesse di vittorie ormai ingiallite: soprattutto se riuscisse la forzatura di togliere l’appoggio al governo guidato da Paolo Gentiloni, e andare a elezioni anticipate a giugno. Ma l’operazione si presenta difficile. Il sistema che prende il nome dall’attuale capo dello Stato, Sergio Mattarella, e che fu approvato dopo i referendum elettorali del 1993, appartiene a un’altra epoca politica. Fu usato nel 1994, nel 1996 e nel 2001. Produsse coalizioni che, non certo per colpa del Mattarellum, rivelarono presto le crepe a causa della loro eterogeneità. E questo in un’Italia in cui il bipolarismo era la forma che il sistema politico aveva assunto dopo la fine della Guerra fredda e della Prima Repubblica; e in cui i partiti, per quanto in continua mutazione, esistevano.

Risuscitare artificiosamente il bipolarismo in una fase di frantumazione delle forze politiche, e con un Parlamento spaccato in almeno tre tronconi, avrebbe poco senso. L’impressione è che dovrebbe servire a dimostrare che il Pd è e rimane il partito-perno di una fantomatica coalizione in fieri; e che Renzi, dopo le primarie, sarebbe il candidato «naturale» a Palazzo Chigi. Tuttavia, lo schema non convince. Intanto, se davvero si vuole approvare una riforma elettorale con le opposizioni, il Mattarellum non è la soluzione. Silvio Berlusconi, indicato come uno degli interlocutori obbligati, è per il sistema proporzionale.
Ma, al di là delle preferenze del capo di FI, la sensazione è che nello stesso Pd e nella maggioranza la proposta sia vista con scetticismo. Di nuovo, serpeggia il sospetto di una legge pensata su misura per elezioni a breve termine e per la rivincita di un vertice dem umiliato dal referendum del 4 dicembre. Dunque, non l’inizio di una nuova stagione, ma l’ultimo colpo di coda per fare sopravvivere quella appena archiviata. D’altronde, avere bollato il responso referendario come una regressione verso la Prima Repubblica conferma la difficoltà a analizzare con freddezza quanto è accaduto.

In realtà non si può parlare di ritorno indietro, se non altro perché sette anni di crisi economica hanno segnato l’elettorato; perché la crisi dei partiti è generalizzata, e tocca lo stesso Movimento 5 Stelle e le sue pretese di essere «altro»; e perché il potere personale ha mostrato tutti i suoi limiti, non capendo i mutamenti profondi della società italiana. Invece di inseguire coalizioni inesistenti, sarà meglio fotografare in modo fedele l’Italia. E prendere atto, con realismo, che forse solo dopo un voto si conosceranno i contorni di un governo. Fare una legge qualunque per andare al voto subito sarebbe, quella sì, un’operazione da Prima Repubblica. Ma poi il Pd dovrà spiegare all’elettorato perché ha affondato un suo governo appena formatosi. Il proporzionale, corretto quanto si vuole, non è un destino. A oggi, appare il prodotto inevitabile degli errori commessi dagli epigoni di riforme calibrate sulle ambizioni effimere di una nomenklatura, non sugli interessi duraturi del Paese.

«Dobbiamo chiederci se capiamo chi sia la donna che l’etichetta di migrante rischia di renderci indecifrabile. Siamo in grado di capire di che cosa sono portatrici quelle donne? Le riconosciamo soggetti di trasformazione?»

comune-info, 18 dicembre 2016 (c.m.c.)
Come abbiamo visto in occasione della splendida manifestazione del 26 novembre a Roma e nel dibattito del giorno successivo, tra i moltissimi gruppi e associazioni di donne in lotta per denunciare le violenze subite dalle donne ovunque nel mondo, è emerso quest’anno anche il drammatico tema delle violenze e degli abusi che le migranti richiedenti asilo sono costrette a subire nelle loro tremende odissee.

Si tratta infatti di una questione centrale per le femministe di oggi, come dice in questo appello Helen Pankhurst, nipote della celebre suffragetta Emmeline:

«Quando la situazione di una donna è così disperata che è costretta ad impegnarsi in ‘sesso di sopravvivenza’ per garantirsi una protezione maschile per il suo viaggio, questa è una questione femminista. Quando una donna è costretta ad arrancare per centinaia di miglia a piedi, pesantemente incinta e con bambini malnutriti in braccio, questa è una questione femminista… quando le donne abortiscono sul ciglio della strada in un paese sconosciuto; quando le madri sono costrette a mandare i propri figli non accompagnati sui gommoni nel buio, per niente sicure di poterli rivedere vivi; quando le donne che stanno raggiungendo il Regno Unito sono maltrattate e umiliate, o detenute durante la gravidanza per il reato di richiedere asilo: queste sono questioni femministe. Urgenti, disperate, scandalose questioni femministe. E, come femministe, dobbiamo agire».

Non c’è alcun dubbio, siamo di fronte a una delle più drammatiche questioni femministe della nostra epoca. Ma c’è un grande pericolo nella costruzione e nella narrazione della categoria “migrante”, assurta nel bene e nel male a centro di ogni discorso politico, culturale, mediatico, antropologico, quasi fosse uno schermo nero, un black mirror utile a coprire qualsiasi finzione o distorsione della realtà, in un senso e nel senso opposto.

Su una sorta di video eternamente acceso, scorrono a ritmo continuo fuggevoli immagini di donne, uomini, bambini che perdono la loro corporeità, la loro verità, per entrare a far parte di una rappresentazione che si confonde con mille altre cui assistiamo dalle nostre case. La popolazione migrante diventa così un teorico “insieme” reso compatto e inconoscibile dalla spettacolarizzazione che ce la offre in pasto, stimolando secondo i casi indecenti rifiuti o lancinanti sensi di colpa.

Quando poi nelle piazze, negli alberghi, nei paesi sperduti entrano in scena i corpi veri e l’insieme inizia a sciogliersi, allora appare un mondo di soli uomini che “fanno paura” perché appaiono “troppo giovani, troppo alti, troppo forti”, grazie a un immaginario regressivo che divide il mondo tra noi e loro, i “minacciosi altri” da cui difendere le “nostre donne”, che invece nella realtà sappiamo essere esposte alle violenze di partner autoctoni. Ma dove sono le tante donne che in tv abbiamo visto sbarcare dalle navi, stanche, spaurite, avvolte nelle gellabie, spesso con i bambini stretti in braccio? Che cosa accade dopo lo sbarco, perché sembrano quasi svanire nel nulla?

È un fenomeno inquietante: la presenza delle donne migranti nelle nostre città e nei nostri territori viene resa invisibile da quei dispositivi ufficialmente destinati a “proteggerle”, che nei fatti le sottraggono immediatamente alla vista ricoverandole in centri impenetrabili. Ci rendono così impossibile monitorarne le condizioni, il rispetto dei diritti, la regolarità delle procedure, e soprattutto ci impediscono il contatto, l’inizio di un dialogo, il loro riconoscimento come persone.

Tuttavia l’inconoscibilità dei soggetti migranti, e in particolare delle donne, viene prodotta anche dall’opacità della stessa categoria “migrante” che cancella e appiattisce le differenze con una forzata universalizzazione. Chiediamoci allora se sappiamo metterci davvero in gioco rovesciando la comune percezione di questa realtà anche dentro di noi. Dobbiamo chiederci se capiamo davvero chi sia la donna che l’etichetta di migrante rischia di renderci indecifrabile.

Una prima cancellazione riguarda la consapevolezza della ricchezza culturale dei paesi d’origine dei richiedenti asilo. Dire migranti per una troppo grande quantità di persone in Occidente significa ormai pensare a qualcosa di nebuloso senza storia e senza cultura, e senza differenze. Un’ignoranza che impedisce di leggere la realtà, fra l’altro cancellando anche la memoria di un femminismo non occidentale di antica data (risale al 1944 il primo Congresso femminista arabo organizzato da Hodā Shaʿrāwī, egiziana, pioniera del movimento femminista egiziano e arabo).

Queste nuove presenze in parte ci disorientano e la difficoltà di entrare con loro in un vero rapporto ci spinge a cristallizzarle nel momento dell’esodo, senza vedere il prima e soprattutto il dopo della loro vicenda. Eppure la rottura dell’ordine che queste donne sperimentano nell’esilio, rischiando violenze, abusi e persino la morte, esprime un’eccedenza sovversiva rispetto alla norma omologatrice del mondo globalizzato, come dice Lidia Curti :

«L’oscillazione delle identità e dei linguaggi spezza la compattezza della parola "migrante", una superficie che rischia di essere impenetrabile, limita esseri pur complessi e mutevoli a un solo momento, cristallizzati nel passaggio tra origine e destinazione, nella fuga come in un fermo immagine. Senza più movimento o differenziazioni […] È anche soggetto politico non univoco che parla contro la violenza arbitraria della legge e di quella nascosta nelle pieghe della vita quotidiana, un soggetto politico che mette in questione il nostro concetto di modernità».

Allora la domanda da porci in particolare adesso, rispetto alle migranti che arrivano da noi in questa fase storica, è se siamo in grado di capire di che cosa sono portatrici. Non sono solo persone che hanno attraversato tutti gli orrori possibili, sono anche e soprattutto soggetti di autotrasformazione e trasformazione. Hanno compiuto un viaggio nell’altrove, un viaggio nel futuro che mette in discussione le nostre regole, il nostro concetto di modernità, il nostro femminismo, la nostra idea di democrazia, così carente da molti punti di vista.

Sempre secondo Curti:«La migrante ha costante coscienza di sé, di ciò che è e di ciò che diviene. La nuova appartenenza richiede un passaggio interiore tra quello che è e ciò cui aspira – o deve aspirare – ad essere. Ella è uno spazio di differenze, un soggetto molteplice, la cui voce richiede ascolto attento alle pieghe della sua condizione e non la sommaria rappresentazione che la parola evoca: l’identità migrante è instabile, fluida, ricca di ibridità».

Quindi non si tratta solo di denunciare e svelare le violenze dei nostri meccanismi occidentali ai loro danni, dobbiamo anche e soprattutto costruire il terreno di confronto e disponibilità al nostro stesso, profondo mutamento. Dobbiamo rompere quella categoria compatta come un muro che cancella le individualità, le soggettività, le storie, sviluppando un progetto che non finga un’inesistente identità fra noi, diverse per status, colore, origine, e non ancora ibridate dalla sperata mescolanza, ma metta in luce ciò che realmente ci accomuna, l’essere tutte – noi e loro – corpo estraneo e straniero nell’ordine patriarcale.

Solo accettando il mutamento che ci mette in discussione e rompe tutte le categorie, potremo forse riuscire a far emergere le voci e la forza delle donne migranti come soggetti autonomi che stanno mutando se stesse, il luogo dell’origine e quello di destinazione.

Proviamo allora a uscire dalle generalizzazioni e dalle categorie per trovare insieme strade di libertà alla ricerca di una nuova cittadinanza «che prescinda dalla nazione e si riferisca ad affiliazioni diverse. Si può pensare a un movimento sociale, culturale o politico; un evento congiunturale; un’aura affettiva; una localizzazione geografica diversa da quella tradizionale, che tenga conto delle complesse intraetnicità che coinvolgono il nostro rapporto con l’altro e dell’altro con noi», suggerisce Lidia Curti, e questa credo sia la direzione verso cui potremmo muoverci come femministe oggi.

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