La Nuova Venezia, 18 gennaio 2017
Venezia. Sono dieci i comuni del Veneziano che da quando sono arrivati i profughi nella nostro provincia, hanno firmato un protocollo con la Prefettura per impegnare queste persone in lavori socialmente utili. Si tratta di impegno su base volontaria e che sta dando dei buoni frutti sia rispetto all’impatto con le comunità che li ospitano, sia nel rendere meno oziosa la permanenza dei richiedenti asilo. I comuni che hanno un programma di inserimento con la disponibilità dei migranti sono: Annone Veneto, Salzano, Mira, Mirano, Fiesso, Dolo, San Donà di Piave, Cona, Cavallino e Stra.
Riferimenti
Vedi su eddyburg gli articoli raccolti sotto il titolo "Campi di concentramento e lavoro obbligatorio. Per il governo il futuro ha un odore antico" e la relativa postilla
il manifesto, 19 gennaio 2017 (c.m.c.)
Un’addizione di problemi: il terremoto che si aggiunge alla neve, la terra che trema e le strade impraticabili. E l’abbandono, che nelle zone terremotate è qualcosa più di un sospetto. La maggior parte delle richieste che dai Comuni partono all’indirizzo del governo e del commissario alla ricostruzione Vasco Errani rimangono lettera morta, oppure le risposte sono vaghe, impercettibili. Quando i riflettori si accendono, il coro dei sindaci è pressoché unanime, variano solo i toni: c’è chi chiede aiuto e chi mostra rabbia. Sono decine i paesi che stanno pagando il conto salato del post sisma: per lo più si tratta di centri abitati da poche migliaia di persone, posti da cui far sentire la propria voce è complicato.
Il sindaco di Camerino Gianluca Pasqui non le manda a dire: «Ho chiesto e sollecitato l’intervento dell’esercito, ma non ho ottenuto risposta. Ho chiesto al comando provinciale dei vigili del fuoco di informarmi sulle loro operazioni, ma ho dovuto chiamare i carabinieri perché la mia lettera venisse presa in consegna».
L’altro grande nemico è la burocrazia pachidermica, continua Pasqui: «Una firma, un nullaosta del Dicomac (la Direzione comando e controllo della Protezione civile, ndr) che manca sta tenendo sotto scacco un’intera popolazione che si trova a fare i conti con delle difficoltà enormi».
Anche il sindaco di Ascoli Guido Castelli invoca l’esercito: «Non abbiamo segnalazioni di danni, ma già nella notte tra martedì e mercoledì avevamo assistito a una serie di crolli per la neve. Il mio è un grido di allarme, l’emergenza è mostruosa». In città una strada è letteralmente franata a causa del maltempo: perché la terra che trema, nella giornata di ieri, è stata soltanto il contorno drammatico, e a fare i danni è stata quasi solo la neve.
Marco Rinaldi, sindaco di Ussita in provincia di Macerata, denuncia la situazione sulle strade: «Io viaggio perché ho il suv, ma non tutti ce l’hanno. Le ambulanze e i mezzi d’emergenza devono poter passare. L’Anas affronti questa emergenza immediatamente, ma è già troppo tardi». Il timore è che la bufera chiuda il valico sull’Appennino, a quel punto Ussita sarebbe di fatto isolata dal resto del mondo.
Da Acquasanta Terme (Ascoli), il sindaco Sante Stangoni è sull’orlo della disperazione: le tante frazioni del suo Comune sono state irraggiungibili per la gran parte della giornata di ieri e il mancato funzionamento delle linee telefoniche hanno reso impossibili anche i contatti. «Parliamo di una cinquantina di paesini e di quasi duecento chilometri di strade interne – racconta -. Stiamo rischiando tantissimo».
A Folignano, paese a est di Ascoli, è venuto giù il tetto della palestra comunale, non per il terremoto, ma per la neve. La struttura era stata inaugurata nel 2004. «Chiaramente non doveva crollare – dice il vicesindaco Matteo Terrani -, terminata questa emergenza spingeremo perché si faccia chiarezza sulle eventuali responsabilità».
il blog di GuidoViale, 15 gennaio 2017 (c.m.c.)
Fermare il flusso dei profughi che vogliono raggiungere l’Europa dall’Africa e dal Medioriente è impossibile. E’ un fenomeno che durerà decenni. Forse è possibile contenerlo e renderlo in parte reversibile. Ma questo significa aggredirne le cause: guerre, deterioramento ambientale provocato dai cambiamenti climatici e dalla rapina delle risorse locali, miseria e sfruttamento delle popolazioni.
Ci vogliono molte più risorse di quelle che l’Unione europea è disposta a sborsare per indurre gli Stati di origine o di transito dei profughi a trattenerli o a riprenderseli. Ma i soldi sono il meno. Ci vogliono programmi di pacificazione e riqualificazione di quei territori: porre fine alla vendita di armi e bloccare interventi e progetti che devastano territori e comunità. L’opposto di quanto proposto da Renzi con il migration compact: un documento che le armi non le nomina nemmeno, mentre ne prosegue a pieno ritmo la vendita. Ma che vorrebbe affidare la rinascita di quei paesi alle multinazionali che li devastano: le due che nomina sono Eni ed Edf, la società petrolifera italiana responsabile dello scempio nel delta del Niger e la società elettrica francese che alimenta le sue 56 centrali nucleari con l’uranio estratto schiavizzando il Niger.
Ma c’è un problema ancora più a monte: chi può promuovere la pacificazione del proprio paese e la riqualificazione del suo territorio? Non certo le popolazioni rimaste là: se ne avessero la capacità e la forza lo avrebbero già fatto. Meno che mai le potenze che guerre e devastazioni le stanno alimentando.
Le forze che possono promuovere iniziative del genere sono le comunità migranti già insediate da noi e i tanti profughi che sono riusciti a varcare i confini della “fortezza Europa”. Molti di loro, soprattutto coloro che sono fuggiti da una guerra, vorrebbero fare ritorno nei loro paesi di origine se solo ce ne fossero le condizioni. Molti altri sono pronti a farlo in un contesto di collaborazione tra paesi di origine e paesi di arrivo.
Tutti comunque conoscono i loro territori e le loro comunità di origine molto meglio di qualsiasi cooperante europeo. Adeguatamente supportate, non manca certo loro la capacità di individuare le soluzioni per ristabilire la pace, riqualificare il territorio, ricostituire le comunità dei loro paesi. La rinascita dell’Africa e del Medioriente avrà un riferimento irrinunciabile nelle comunità già presenti in Europa, una volta messe in grado di organizzarsi e di far sentire la loro voce, o non sarà.
Per questo il modo in cui profughi e migranti vengono accolti, inseriti nel tessuto sociale e valorizzati per il contributo che possono dare alla soluzione dei problemi che li hanno spinti a emigrare o a fuggire è l’unico modo serio per gestire un processo che l’Europa non sa affrontare; ma che la frantuma e la contrappone al mondo in fiamme da cui è circondata.
Ma non è tutto. L’Europa dovrà confrontarsi in forme sempre più acute con un terrorismo che viene dall’esterno, ma che recluta i suoi adepti soprattutto tra le comunità migranti già insediate al suo interno. Respingere i profughi nei paesi di origine o di transito significa rispedirli tra le braccia delle forze da cui hanno cercato di fuggire, rafforzarne le file, offrire carne da macello al loro reclutamento.
Bistrattare profughi al loro arrivo o trattare chi è già insediato tra noi come un corpo estraneo o un nemico significa promuovere il reclutamento di nuovi terroristi. Anche in questo caso la strada da seguire passa per le comunità di profughi e migranti già presenti o in arrivo in Europa. Parlano le stesse lingue, ne conoscono abitudini e atteggiamenti, frequentano o incrociano facilmente i connazionali che stanno imboccando la strada dello stragismo. Possono individuarli o bloccarli meglio di qualsiasi apparato di “intelligence”, che certo non ha da restare con le mani in mano. O, viceversa, possono essere, con una tacita connivenza, il loro brodo di coltura. La lotta contro il terrorismo passa inevitabilmente attraverso l’instaurazione di rapporti solidali con le comunità migranti.
Altre strade non ci sono. Chi prospetta i respingimenti come soluzione di entrambi i “problemi”, profughi e terrorismo – presentandoli per di più come legati, mentre non c’è maggior nemico del terrore di chi è fuggito da una guerra o da una banda di predoni – inganna sé e il prossimo. Un blocco navale per riportarli in Libia? Bisognerebbe conquistare anche tutta la costa libica, come ai tempi di quell’Impero che chi prospetta questa soluzione forse rimpiange. E poi gestire in loco i campi di concentramento; o di sterminio. O affidarsi a un accordo con le autorità locali, che per ora non hanno alcun potere né alcun interesse ad assumere un ruolo del genere se non lautamente retribuiti (come la Turchia). Per poi minacciare in ogni momento di aprire le dighe (come aveva fatto a suo tempo Gheddafi e come minaccia di fare Erdogan) se non vengono soddisfatte le loro pretese, ogni volta più pesanti e umilianti per tutta l’Europa.
Considerazioni che valgono per tutti i paesi con cui il Governo italiano ha siglato o vuole siglare accordi del genere. Nel migliore dei casi le persone trattenute o “rimpatriate” riprenderanno la strada del deserto e del mare appena possibile. Nel peggiore…
Autorità, politici e media non spiegano che cosa significa riportare i profughi nei paesi di origine o di transito, posto che sia possibile. Intanto costa carissimo: tra viaggio, Cie resuscitati col plauso dell’Europa, costo degli accordi, apparati polizieschi e giudiziari, più di quanto basterebbe per dare casa, istruzione e lavoro a ognuno dei profughi da rimpatriare. Infatti lo si fa con pochissimi. Agli altri a cui non si riconosce il diritto di restare, si consegna un foglio di via intimandogli di abbandonare il paese entro sette giorni: senza soldi, senza documenti, senza conoscere la lingua, senza alcuna relazione con la popolazione. Vuol dire metterli per strada, consegnarli al lavoro nero; o alla criminalità, allo spaccio e alla prostituzione; o, cosa da non trascurare, al reclutamento jihadista. L’appello a impossibili respingimenti crea solo illegalità, criminalità, terrorismo.
Ma che succede nei paesi dove si vorrebbe rispedire gli esseri umani da fermare sul bagnasciuga dell’Africa o del Medioriente? Saperlo non è difficile e chi finge di ignorarlo se ne rende corresponsabile. Succede che i morti nell’attraversamento del deserto sono più di quelli (5.000 solo nel 2016) naufragati nel Mediterraneo. Ma gli uomini, le donne e i bambini che sopravvivono a quella traversata sono fatti oggetto di stupri, rapine, schiavitù e sfruttamento di ogni genere; o vengono imprigionati in locali al cui confronto Cona e Mineo sono Grand Hotel: affamati, maltrattati e umiliati in ogni modo.
E’ questa la soluzione? Quella finale? Condannarli a una fine del genere è cosa di cui domani i nostri figli e nipoti ci chiederanno conto. E i popoli respinti anche: e in modo tutt’altro che delicato.
Verso una civiltà della decrescita (a cura di Marco Deriu, Marotta&Cafiero) è primo volume di un ambizioso progetto editoriale che coinvolge ricercatori e attivisti di tutto il mondo».il manifesto, 19 gennaio 2017 (c.m.c.)
Indubbiamente, non c’è idea più radicalmente antagonista di quella di una società della decrescita, perché mette in discussione la stessa nozione di sviluppo inteso come grido di guerra lanciato dal «primo mondo» contro i popoli sbrigativamente definiti «sottosviluppati», cioè primitivi e inferiori.
La controprova è che i movimenti che sostengono l’allentamento della presa dell’economia sulla società vengono ferocemente disprezzati sia da destra che da sinistra. «I principi economicisti della crescita hanno invaso le teste e i cuori della gente», ha scritto Veronica Bennholdt-Thomsen nel libro Verso una civiltà della decrescita (a cura di Marco Deriu, Marotta&Cafiero, primo volume di un ambizioso progetto editoriale che coinvolge ricercatori e attivisti di tutto il mondo): tanto da far credere che non ci sia possibilità di benessere senza prosperità e prosperità senza una crescita permanente di beni e di servizi disponibili.
Progressisti e conservatori si dividono sulle modalità con cui conseguire la crescita economica e su come distribuirla, ma non sulla sua necessità. Siamo dominati da una mentalità produttivistica e lavorista che ha trasformato la crescita in un tabù e la «scienza economica» è la sua religione.
C’è ancora molto da fare per gli «obiettori della crescita», soprattutto se vogliono allargare il loro consenso oltre il ristretto perimetro delle persone già sensibili ai temi della salvaguardia del vivente (perdita di biodiversità, riscaldamento globale, inquinamento), della giustizia sociale a scala planetaria (accesso alla terra dei popoli indigeni, lavoro schiavo, sovranità alimentare), del contenimento di ogni forma di sopraffazione e violenza a partire da quella di genere.
L’associazione per la Decrescita (giovane casa editrice di Scampia) ha dato alle stampe questo libro in Creative Commons al prezzo easy di 10 euro per oltre 300 pagine. E poi l’ampiezza dei contributi presentati frutto, fra l’altro, del lavoro svolto nelle conferenze internazionali biennali che si sono svolte in diverse città europee, ultima Budapest, terzultima Venezia.
L’intento della pubblicazione è dimostrare come la decrescita possa costituire un quadro interpretativo e un «orizzonte di pensiero culturalmente ampio» (Deriu) capace di mettere in relazione i più importanti filoni del pensiero critico con le diverse componenti dei movimenti sociali, ecologisti, femministi, indigeni… impegnati nell’attuare «proposte di transizione che si richiamano a una trasformazione significativa di paradigma o di civiltà» (Escobar).
La decrescita infatti attinge a più fonti. Dall’ecologia politica (il più letto e apprezzato dai lettori de il manifesto è stato sicuramente Andre Gorz), dalla bioeconomia e dall’economia ecologica (Georgescu-Rogen), dalla critica allo sviluppo (Gilbert Rist), dall’antiutilitarismo (Alain Caillé e il Mauss), dalla critica dell’etnocentrismo e dell’antropocentrismo (Marshall Sahlins), dalla filosofia della convivialità (Ivan Illich), dalle teorie della complessità in campo scientifico contro il riduzionismo (Gregory Bateson), dall’ecofemminismo (Carolyn Merchant) e da altre teorie ancora.
La decrescita può, d’altra parte, essere declinata in vari modi. Da quello, più semplice e banale, della diminuzione dei flussi di materia e di energia impegnati nel «metabolismo sociale», ovvero della sostenibilità dei cicli produttivi in un ecosfera dalle capacità di rigenerazione limitate, a quello dell’«austerità morale», per usare l’espressione di papa Bergoglio al terzo, recente incontro con i rappresentanti movimenti popolari mondiali.
La decrescita si presta anche a molti fraintendimenti. Chi la intende come una risposta adattiva necessitata, un imperativo di sopravvivenza a causa del sovrasfruttamento del pianeta, chi, al contrario, come una libera scelta, una «passione gioiosa» che ci permetterebbe di vivere meglio (buen vivir) con noi stessi e con il nostro prossimo, comunque e a prescindere dall’esistenza dei picchi del petrolio e dalla rarefazione di tutte le altre risorse naturali.
Il volume contiene un capitolo dedicato all’ecofemminismo e alla teoria della sussistenza (cura delle condizioni della riproduzione della vita) che più di ogni altra ha la forza di rovesciare in radice la «guerra alla natura» intentata dalla cultura patriarcale.
Decrescita, quindi, come cambiamento dei modelli di pensiero e pratiche sociali concrete. Tutto il contrario di un’ideologia predeterminata a tavolino. «Solo» la sperimentazione di nuove forme di convivenza, di reciproche responsabilità fiduciarie, di applicazione del «principio materno» del nutrire e del curare e del guarire applicato non soltanto alle persone, ma all’intero essere vivente chiamato Terra.
Lettera43 online, 17 gennaio 2017 (c.m.c.)
Non è una novità. E dunque non c’è da stupirsi. Occorre invece sforzarsi di capire. O, come diceva Spinoza, «non ridere, non piangere, non detestare, ma comprendere». Difficile, in questo caso, non piangere e, soprattutto, non detestare. Dal 1989 a oggi l’offensiva del capitale ai danni del lavoro procede ininterrottamente, inanellando un successo dietro l’altro: quelle che si chiamano abitualmente “riforme” – l’hanno capito ormai pure i bambini – sono tali solo per la parte del capitale. Di conseguenza, hanno come obiettivo puntualmente raggiunto la decomposizione dei diritti, delle conquiste dei lavoratori e delle tutele del mondo lavorativo.
L'ipocrisia di chi parla di "riforme". Basterebbe avere, in fondo, l’onestà per chiamare le cose con il loro nome: senza usare formule patetiche e ingannatorie come “riforme”, “Jobs act”, e via discorrendo, di ipocrisia in ipocrisia. È questa, in breve, la storia reale dal 1989 a oggi, al di là della lieta narrazione che canta un mondo di libertà e democrazia.
Quale libertà, in effetti, per i lavoratori ridotti all’umiliazione permanente del voucher? Il voucher offende la dignità umana e segna l’apice dell’alienazione, giacché riduce il lavoratore a merce disponibile, sottopagata e supersfruttata, alle dipendenze della volontà padronale. Non serve – come falsamente si dice – a evitare il lavoro in nero: serve, invece, a evitare contratti regolari, tutelati e dignitosi.
Voucher, lavoro non pagato (modello Expo di Milano), contratti intermittenti, stage come corvée postmoderne: ecco il paradisiaco mondo delle libertà post-1989, il meglio che la religione del libero mercato sappia venderci. La stessa eliminazione del reintegro nel posto di lavoro (prevista dall’ex Art. 18) per chi viene licenziato senza giusta causa – sostituita da un generico risarcimento (art. 3 Jobs Act) – si pone come la più bieca ridefinizione del lavoro inteso come diritto e dovere in concessione padronale arbitraria e dipendente dalla volontà del buon signore di turno: concessione che, in quanto tale, può essere revocata in qualsivoglia momento.
Il capitale vince senza resistenze. Siamo nel bel mezzo di un feudalesimo capitalistico: con nuovi signori mondialisti e nuovi servi senza diritti; con nuove e radicali forme di rifeudalizzazione dei legami sociali. Il capitale vince senza incontrare resistenze. Il lavoro sta perdendo giorno dopo giorno: complice anche, ovviamente, la generosa operatività di forze che si dicono progressiste e che, di fatto, favoriscono unicamente il progresso della mondializzazione capitalistica.
Dall’esperienza dirompente di Bella ciao che sconvolse l’elegante festival di Spoleto a metà degli anni 60, la sua voce ha dato fiato, riconoscibilità, armonia e disarmonie a tutti i movimenti che dal ’68 hanno animato il nostro paese. E non solo, perché anche in Francia e in Svizzera i suoi recital sono richiesti e acclamati.
La sua vocazione musicale era nata al Conservatorio di Santa Cecilia, e si è modulata negli anni nelle molte cantate, ballate e elaborazioni di vario genere e forma, che ne fanno oggi una delle maggiori compositrici italiane. Ma ha continuato sempre a suonare, cantare e soprattutto indagare le più antiche sonorità, in ogni angolo d’Italia, dentro la tradizione religiosa come in quella della protesta e del lavoro. Vera erede dello spirito militante di Ernesto De Martino, fu incoraggiata alla ricerca nella musica popolare da Pier Paolo Pasolini.
Le sue canzoni hanno costituito il sound di mille manifestazioni e proteste, il suo orecchio ha aiutato giovani di generazioni diverse a capire di più il mondo entrandoci in sintonia. I suoi corsi alla Scuola di Testaccio come altrove continuano a essere affollati, anche perché il rigore e la preparazione musicale non le hanno mai limitato una simpatia e un calore umano impossibili da arginare. Tanti auguri dal collettivo de il manifesto.
il manifesto, 18 gennaio 2017
L’orrore che ha caratterizzato le cronache internazionali a ridosso del passaggio d’anno, l’abisso di barbarie che sembra aprirsi intorno a noi, il degrado di secoli di conquiste nel solco della civilizzazione, sembrano far vacillare il principio di azione e reazione, caposaldo della fisica newtoniana ma anche eccellente descrittore delle dinamiche sociali e politiche.
Cos’altro deve accadere nel mondo perché si levi una mobilitazione di massa che sappia affermare – con la massima chiarezza possibile – che gli atti di terrore, le stragi, la paura, non avranno la meglio su una società libera, democratica e secolarizzata? E che con la stessa fermezza dica – nel contempo e una volta per tutte – che non è con la negazione dei diritti umani, con la proliferazione degli armamenti, con la costruzione di muri, che si possono costruire le condizioni di convivenza, dignità, rispetto reciproco tra popoli e Stati?
In questo senso la sponda sud del Mediterraneo, il Medio e Vicino Oriente hanno dimostrato una notevole reattività della società civile, ben superiore al Vecchio Continente, nonostante le oggettive difficoltà, come in Turchia – dove le libertà personali e i diritti civili sono oltremodo compromessi – o in Siria – dove la principale preoccupazione delle persone sarebbe quella di sopravvivere; di contro in Germania – neanche dopo il sanguinoso attacco terroristico a Berlino – si è levata una qualsivoglia forma di protagonismo dei cittadini.
Non sono mancate diverse e contraddittorie congetture sull’assopimento della società civile in questo inizio di secolo, disponiamo di strumenti di conoscenza e di analisi sopraffini, abbiamo sviluppato una straordinaria ricchezza di iniziative sulle policy e nell’interlocuzione con le istituzioni, ma quello che sembra mancare è la capacità di coinvolgimento popolare, ampio e di massa, senza cui la stessa autorevolezza di rappresentanza della società civile organizzata è destinata a barcollare.
Le forme di conflitto, la guerra asimmetrica, l’irruzione del terrorismo a tutto campo, rendono la realtà che ci circonda – e la sua descrizione – molto più complessa che nel passato: la semplificazione schematica – che non pochi risultati ha portato all’ampliamento del fronte di mobilitazione negli scorsi decenni – in buoni e cattivi, o aggressori e aggrediti, oggi è mutevole e cambia di volta in volta, a seconda dei luoghi o delle circostanze. Possiamo però subire passivamente l’irreversibile aumento di entropia – quella che Ignacio Ramonet definì come «la geopolitica del caos» – e rassegnarci quindi all’inazione ?
C’è un lavoro immane da fare sulle fondamenta culturali di una nuova cittadinanza europea e globale: la strada percorsa durante il «secolo breve» per la definizione e codifica del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo è un patrimonio che ha formato le coscienze di intere generazioni, che hanno poi tradotto nella passione civile e nell’impegno politico quel dibattito e quella tensione a loro contemporanei. Alcune cose sono andate per il verso giusto, altre si sono arenate producendo sogni infranti e disillusioni, che rischiano oggi di essere l’elemento prevalente nella cultura condivisa delle giovani generazioni, che quella esperienza non hanno vissuto.
E’ necessario ripartire proprio da qui, da una paziente e meticolosa opera di pedagogia dei diritti, di narrazione delle conquiste raggiunte, che sappia convincere e appassionare anche coloro che – per motivi anagrafici – a questo processo non hanno avuto modo di prendere parte, che àncori e ispiri l’azione concreta a principi universali. Possiamo e dobbiamo tenere insieme vocazioni e aspirazioni differenti del nostro vasto mondo, proseguendo sulla via dell’expertise e dei think tank, luoghi più ristretti dove condividere e confrontarsi su analisi, progetti e buone pratiche, ma non perdere di vista l’obbiettivo di essere soggetti includenti, popolari e di massa, missione alla quale siamo geneticamente vocati e che costituisce l’anima più propriamente politica del nostro agire come soggetti costituiti per rappresentare sogni e bisogni della società.
la Repubblica, 18 gennaio 2017 (c.m.c.)
Quel che manca alla Sinistra è prima di tutto la credibilità. Non solo dell’elettorato da conquistare ma anche dei suoi simpatizzanti che spesso (come è successo negli Stati Uniti ma anche in alcune tornate elettorali regionali nel nostro paese) decidono di astenersi perché non si riconoscono nei candidati, nei progetti e nei discorsi rappresentati dal simbolo del partito. Il risultato del referendum del 4 dicembre scorso parla anche di questo: gli italiani hanno mostrato di dare credibilità più al patto fondativo che a coloro che lo applicano.
E hanno anche fatto capire che in un tempo di grandi incertezze, la Costituzione è probabilmente la maggiore certezza che hanno. Nel dubbio, meglio non rischiare: questa la logica in filigrana della vittoria del No. Che non è per nulla una parentesi o una tappa che interrompe un corso, quello cominciato dalla leadership renziana con la vittoria alle primarie e poi l’ascesa al governo. Non è una parentesi perché dal 2014 ad oggi è mancata una visione politica al di là dei destini della battaglia referendaria. Cominciamo da mille giorni fa.
Matteo Renzi ha esordito come presidente del Consiglio con una introduzione al volume di Norberto Bobbio, Destra e sinistra, per l’occasione ristampato da Donzelli. Erano due i paradigmi centrali che facevano da architrave del suo pensiero sulla nuova sinistra: innanzi tutto la revisione a trecentosessanta gradi della filosofia dell’eguaglianza (sulla quale Bobbio aveva costruito la dicotomia con la destra) e, in conseguenza di ciò, la ridefinizione della coppia destra/ sinistra.
Destra e sinistra, scriveva Renzi, non coincidono più con la libertà individualistica in un caso e la libertà che riposa su premesse di eguaglianza nell’altro. Questa dicotomia, aggiungeva, appartiene a un mondo in cui le menti e le idee era ordinate per classi; oggi, alle classi è subentrata la complessità e quelle due grandi idee — quelle che danno identità alla nostra come a tutte le costituzioni democratiche — non servono ad orientarci né nel giudizio politico né nelle scelte.
Finita la diade libertà/eguaglianza, quel che ci resta è un aggregato di individui distribuiti sulla scala sociale: Renzi usava paradigmi di posizione, come alto/basso: ci sono gli “ultimi” e i “primi”, diceva, e una sinistra moderna deve porsi l’obiettivo di attivare le energia individuali per portare gli ultimi a vincere lotta darwiniana e salire su. Questa era l’idea di “nuova sinistra” con la quale Renzi ha inaugurato il suo governo: una visione che ci riportava al “ self- made man” di ottocentesca memoria e che ha in effetti orientato le sue politiche redistributive, quelle sulla scuola e sul lavoro.
Nella recente intervista rilasciata a Repubblica Renzi è tornato sul luogo del delitto: ha sostenuto che di sinistra c’è bisogno, e ha provato a coniugarla con altre dicotomie: esclusi/inclusi, innovazione/identità, paura/speranza. «Gli esclusi sono la vera nuova faccia della diseguaglianza, dobbiamo farli sentire rappresentati» (solo farli sentire o farli essere?). Ma come fare questo? Una risposta (di sinistra) sarebbe quella di partire dalla Costituzione, che non è una carta di vuote promesse e che impegna i partiti e i cittadini, che con essi “concorrono” alla determinazione delle politiche, a mettere in atto scelte coerenti.
Combattere l’esclusione significa, allora, dare vigore alla capacità di governo e di rappresentanza che si sprigiona dalla cittadinanza — a questo serve una legge elettorale coerente. Ma non basta: occorre prendere sul serio gli articoli 2 e 3 che spronano a promuovere coraggiose politiche di opportunità al lavoro e all’educazione. Non si tratta di una lotta per fare “primi” gli “ultimi” ma per dare a tutti/e le condizioni essenziali affinché la realizzazione personale non sia un’illusione o una vuota speranza.
In questo contesto sta la sinistra: il contesto delle politiche del lavoro e dello sviluppo delle capacità. Il lavoro è la condizione imprescindibile dei cittadini moderni, e alcune costituzioni, come la nostra, sono molto esplicite nel riconoscerlo. Amintore Fanfani (che comunista non era) difese l’articolo 1 dicendo con limpida chiarezza (che fa difetto alla sinistra attuale) che il lavoro è sinonimo di eguaglianza democratica, contro il privilegio e il parassitismo; è un dovere responsabile verso se stessi e la società, perciò luogo di diritti, tra i quali quelli a salari che consentano «una esistenza libera e dignitosa» (a questo proposito l’articolo 35 dice che «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni»).
È da questa visione democratica e sociale che nasce infine l’idea che l’iniziativa economica sia soggetta a vincoli, nel senso che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» o in modo da «recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (articolo 41).
Bisogna volere mettere in opera la Costituzione. È questa la politica alla quale dovrebbe orientarsi con decisione una forza che si ispira a valori di solidarietà e di democrazia. Certo, non si tratta di progetti che stanno facilmente insieme a politiche liberiste, e che anzi mettono in discussione la filosofia degli 80 euro e anche buona parte della riforma cosiddetta della “buona scuola”.
Partire dalla Costituzione è una condizione essenziale e non nebuslosa per superare le divisioni e le fratture. Per recuperare la fiducia e credibilità dei cittadini, che non vogliono la luna o teorie sofisticate e astratte, ma una forza politica che si proponga di mettere in atto con intelligenza e passione le promesse della nostra democrazia.
Il Fatto quotidiano, 15 gennaio 2017 (p.s.)
I dirigenti dell’Eni hanno preso tangenti? E quel miliardo di dollari che l’azienda petrolifera controllata dallo Stato ha pagato per i diritti di sfruttamento del colossale giacimento petrolifero Opl245 è finito tutto in mazzette al presidente nigeriano e altri politici e burocrati locali? Per i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che a fine dicembre hanno chiuso le indagini sulla vicenda, la risposta è “Sì” a entrambe le domande, tanto che sono indagati per corruzione internazionale l’ex amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni e il suo successore Caludio Descalzi, all’epoca a capo della divisione petrolifera del gruppo. Vista la rilevanza dell’affare e la gravità delle accuse, note dal 2014, anche l’Eni ha avviato una sua indagine interna per capire se c’è stata corruzione.
Il collegio sindacale, l’organismo di controllo, si è rivolto allo studio legale americano Pepper Hamilton, che a sua volta ha coinvolto gli investigatori della Fg International Solutions. Il risultato è un report presentato sia all’Eni che alla Sec, l’autorità di Borsa americana, e trasmesso anche al dipartimento di Giustizia americano.
Ai soci e alle Ong che ne chiedevano conto, nell’assemblea degli azionisti 2016, i vertici dell’Eni si sono limitati a comunicare che “non sono emerse evidenze di condotte illecite in relazione alla transazione di Eni e Shell con il governo nigeriano del 2011 per l’acquisizione della licenza”. Ma Fatto ha potuto leggere il rapporto integrale di Pepper Hamilton e di zone d’ombra nel comportamento dell’Eni ne emergono parecchie.
Il 28 maggio 2014 l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia trasmette alla Procura di Milano una serie di informazioni ricevute dalle autorità inglesi e americane: ne emerge il grafico che vedete qui accanto. Il 29 aprile 2011 l’Eni bonifica 1,092 miliardi di dollari a un conto vincolato del governo nigeriano presso la banca Jp Morgan Chase a Londra (non il conto abituale dello Stato, ma uno parallelo). Quei soldi poi vengono girati a una società aperta nel 2010 alle isole Marshall, Petrol Service, ma la banca che doveva riceverli – la Bsi di Lugano – li rimanda indietro.
La somma allora inizia a disperdersi per mille rivoli: non un solo euro andrà al popolo nigeriano. Secondo quanto hanno ricostruito le autorità finanziarie di Usa, Gran Bretagna e Italia ben 523 milioni finiscono in società riconducibili a Abubakar Alyu, un presunto prestanome del presidente nigeriano Goodluck Jonathan che era la controparte istituzionale dell’Eni nell’affare. Alyu è indicato negli schemi con il soprannome di “mister Corruzione”.
Un’altra considerevole fetta della somma, 336 milioni di euro, finisce negli Stati Uniti su un conto della Rocky Top Resources, una società dietro la quale ci potrebbe essere Dan Etete, ex ministro del petrolio nigeriano che era anche dietro la Malabu, società titolare della concessione petrolifera per l’Opl245. Quei soldi servono a comprare, tra le altre cose, un jet Bombardier Vision 6000 da 56 milioni intestato a una fiduciaria dell’isola di Man (e diversi forum nigeriani danno conto di polemiche su un nuovo Bombardier del presidente Jonathan nel 2012), poi tre Cadillac Escalade 2011 da 195.000 dollari l’una.
Auto che non arriveranno mai in Nigeria, però: il dipartimento di Stato Usa impedisce l’esportazione di veicoli blindati. Su altri 200 milioni di euro si apre una lite legale a Londra, li reclama Emeka Obi, un mediatore nigeriano coinvolto in una lunga fase di trattative e poi escluso quando l’Eni decide di trattare direttamente con il governo di Jonathan (ci sono quindi 10 milioni anche per l’ex ministro della Giustizia Bayo Ojo San che aveva riassegnato la concessione alla Malabu dopo una serie di contenziosi). Parte dei soldi di Obi, quelli rimasti a Londra, vengono sequestrati proprio su richiesta dei pm di Milano.
Quanto sapeva l’Eni? La versione ufficiale dell’azienda in questi anni è che ha trattato solo e soltanto con il governo nigeriano senza avvalersi di intermediari. Incalzata dall’Ong Global Witness, Eni ha ribadito: “Riteniamo che il governo di una nazione sovrana non debba essere messo in discussione e che l’aver siglato un accordo direttamente con esso garantisca la completa trasparenza della transazione”. Una versione che, a leggere il rapporto di Pepper Hamilton, è almeno incompleta. Fin dal 2007, ricostruiscono gli avvocati americani assoldati dal collegio sindacale dell’azienda, Eni sapeva che dietro la Malabu c’era Dan Etete che, da ministro del petrolio tra il 1995 e il 1998, aveva assegnato il giacimento Opl 245 alla Malabu, la cui proprietà era schermata. Il 23 febbraio del 2007 alcuni dirigenti Eni (Claudio
, Fabrizio Bolondi e Lionello Colombi) incontrano all’hotel Four Seasons di Londra emissari della Malabu, e c’è anche Etete. Nel memo di quell’incontro, infatti, Etete viene indicato come “il titolare della Mamabu”, con un refuso.
Nel 2009 Eni inizia a trattare con un intermediario, Emeka Obi, sedicente banchiere d’affari titolare della Energy Value Partners e che parla a nome della Malabu (e di Etete). Obi esordisce facendosi pagare un “gettone di partecipazione” (Participation Fee) da 661.857 dollari soltanto per consentire all’Eni di accedere a una “data room virtuale” relativa all’Opl 245. Una specie di banca dati. Si tratta di una mazzetta di benvenuto? I sospetti di Pepper Hamilton e del collegio sindacale di Eni sono così concreti da richiedere un supplemento di indagine agli investigatori di Fg International Solutions: il responso è che la certezza non si può avere, ma i dipendenti Eni interpellati dicono che era la prima volta che assistevano a un pagamento simile per accedere ai dati, peraltro poco rilevanti. Fg non riesce a stabilire se poi dai conti di Obi quei soldi siano finiti a membri del governo nigeriano.
Il report di Pepper Hamilton chiarisce invece che nel 2011, al momento dell’accordo finale sul giacimento, “durante i negoziati e l’esecuzione dell’accordo il personale dell’Eni era consapevole del vincolo contrattuale in base a cui il 100 per cento di 1,092 miliardi da pagare al governo nigeriano doveva poi essere pagato a Malabu”. Addirittura c’erano rappresentanti di Malabu alle riunioni con Eni e il governo. E il ministro della Giustizia Adoke ha riferito in Parlamento che Eni e Shell erano consapevoli di dove finiva la somma.
Tutti i soldi sarebbero andati quindi a quella società che dal 2007 l’Eni sapeva essere riconducibile a Etete. Non solo: dal 2010 il Risk Advisory Group, cioè l’intelligence interna all’Eni, aveva ricostruito i legami fortissimi tra Etete e il presidente Jonathan, “ci sono voci secondo cui Etete avrebbe pagato per l’istruzione dei figli del presidente”.
Perché si mobilita mezzo governo nigeriano – eliminando anche il mediatore Obi che, secondo i pm, avrebbe dovuto far arrivare i soldi anche a manager e mediatori italiani come Luigi Bisignani– a fare da intermediario per un ex ministro del petrolio? La risposta sembra essere in quel flusso di denaro finito in jet, Caddilac, contanti e bonifici che secondo i magistrati di Milano legittima l’accusa di corruzione internazionale.
la Repubblica, 17 gennaio 2017
Fra meno di quattro mesi, la Francia avrà un nuovo presidente. O una presidente: dopo Trump e la Brexit non si può escludere che i sondaggi ancora una volta si sbaglino, e che la destra nazionalista di Marine Le Pen si stia avvicinando alla vittoria. E anche se si dovesse riuscire a evitare il cataclisma, esiste un rischio reale.
Il rischio Le Pen riesca a posizionarsi come la sola opposizione credibile alla destra liberale per il round successivo. Sul versante della sinistra radicale, si spera naturalmente nel successo di Jean-Luc Mélenchon, ma purtroppo non è lo scenario più probabile.
Queste due candidature hanno un punto in comune: rimettono in discussione i trattati europei e il regime attuale di concorrenza esacerbata fra Paesi e territori, e questo attira molti di coloro che la globalizzazione ha lasciato indietro. Ci sono anche delle differenze sostanziali: nonostante una retorica distruttiva e un immaginario geopolitico a tratti inquietante, Mélenchon conserva malgrado tutto una certa ispirazione internazionalista e progressista.
Il rischio di queste elezioni presidenziali è che tutte le altre forze politiche - e i grandi media - si accontentino di fustigare queste due candidature e fare di ogni erba un fascio definendole «populiste». Questo nuovo insulto supremo della politica, già utilizzato negli Stati Uniti con Sanders, con il successo che sappiamo, rischia una volta di più di occultare la questione di fondo.
Il populismo non è nient’altro che una risposta, confusa ma legittima, al sentimento di abbandono delle classi popolari dei Paesi sviluppati di fronte alla globalizzazione e all’ascesa della disuguaglianza. Bisogna fare affidamento sugli elementi populisti più internazionalisti (e dunque sulla sinistra radicale, incarnata nei diversi Paesi da Podemos, da Syriza, da Sanders o da Mélenchon, indipendentemente dai loro limiti) per costruire risposte precise a queste sfide: altrimenti il ripiegamento nazionalista e xenofobo finirà per travolgere tutto.
Sfortunatamente è la strategia della negazione quella che si apprestano a seguire i candidati della destra liberale (Fillon) e del centro (Macron), determinati tutti e due a difendere lo status quo integrale sul fiscal compact, il patto di bilancio europeo firmato nel 2012. Non che la cosa stupisca, visto che uno lo ha negoziato e l’altro lo ha applicato. Tutti i sondaggi lo confermano: questi due candidati seducono innanzitutto i vincitori della mondializzazione, con sfumature interessanti (i cattolici col primo e i borghesi radical- chic col secondo), ma in definitiva secondarie rispetto alla questione sociale. Pretendono di incarnare il perimetro della ragione: quando la Francia avrà riguadagnato la fiducia della Germania, di Bruxelles e dei mercati, liberalizzando il mercato del lavoro, riducendo la spesa pubblica e i disavanzi, eliminando la patrimoniale e aumentando l’Iva, allora sarà finalmente possibile chiedere ai nostri partner di venirci incontro sull’austerità e sul debito.
Il problema di questo discorso che appare ragionevole è che non lo è affatto. Il trattato del 2012 è un errore monumentale, che imprigiona l’Eurozona in una trappola mortifera, impedendole di investire nel futuro. L’esperienza storica mostra che è impossibile ridurre un debito pubblico di questo livello senza fare ricorso a misure eccezionali. A meno di condannarsi a registrare avanzi primari per decenni, zavorrando sul lungo periodo qualsiasi capacità di investimento.
Dal 1815 al 1914, il Regno Unito ha passato un secolo a registrare eccedenze di bilancio enormi per rimborsare i suoi rentier e ridurre il debito esorbitante prodotto dalle guerre napoleoniche. Quella scelta nefasta produsse investimenti in formazione inadeguati e un ulteriore stallo del Paese. Tra il 1945 e il 1955, al contrario, Germania e Francia sono riuscite a sbarazzarsi rapidamente di un debito di proporzioni analoghe con una combinazione di misure di cancellazione del debito, inflazione e prelievi eccezionali sul capitale privato, mettendosi nelle condizioni di investire sulla crescita. Bisognerebbe fare lo stesso oggi, imponendo alla Germania un Parlamento della zona euro per alleggerire i debiti con tutta la legittimità democratica necessaria. Se così non sarà, il ritardo negli investimenti e la stagnazione della produttività già osservati in Italia finiranno per estendersi alla Francia e a tutta l’Eurozona (ci sono già dei segnali in tal senso).
È rituffandoci nella storia che riusciremo a uscire dallo stallo attuale, come hanno appena ricordato gli autori della magnifica Histoire mondiale de la France, ottimo antidoto ai ripiegamenti identitari tricolori. In modo più prosaico, e meno divertente, bisogna accettare anche di tuffarsi nelle primarie organizzate dalla sinistra di “governo” (la chiameremo così visto che non è riuscita a organizzare primarie con la sinistra radicale, cosa questa che rischia, in primo luogo, di allontanarla stabilmente proprio dal governo).
È essenziale che queste primarie designino un candidato deciso a rimettere drasticamente in discussione le regole europee. Hamon e Montebourg sembrano più vicini a questa linea rispetto a Valls o a Peillon, ma a condizione che superino le loro posizioni sul reddito universale e il made in France e formulino finalmente delle proposte precise per sostituire il patto di bilancio del 2012 (evocato solo di sfuggita nel primo dibattito televisivo, forse perché cinque anni fa lo hanno votato tutti: ma è proprio per questo che è tanto più urgente chiarire le cose presentando un’alternativa dettagliata). Non tutto è perduto, ma bisogna agire in fretta, se si vuole evitare di mettere il Front national in una posizione di forza.
il manifesto, 17 gennaio 2017 (c.m.c.)
In occasione del congresso di Sinistra Italiana, alcuni parlamentari ex Sel hanno scritto (come informa il manifesto del 15 gennaio), ad altri che entrerebbero nella nuova formazione, di abbassare i toni dello scontro politico: «La cultura dell’intolleranza è incompatibile con il progetto politico che insieme stiamo animando».
Quale che ne sia stata la ragione, è un’espressione da non sottovalutare e bene ha fatto il manifesto a citarla in vista di uno scontro che potrebbe avvelenare l’atmosfera del congresso fondativo, tanto quanto le diversità dei contenuti e della linea politica.
Se molte persone, e tra queste, molti giovani, avvertono la politica come un luogo estraneo, questo avviene anche, o soprattutto, per il linguaggio utilizzato e per le forme dello stare insieme dei partiti tradizionali (quali che siano). C’è violenza nella politica: una violenza (verbale, di rapporti, di relazioni) che respinge chi pensa ad essa come il mettersi insieme per risolvere i problemi comuni.
Il messaggio di un mondo nuovo, o almeno diverso dall’attuale (meno ingiustizie, meno disuguaglianze, più occasioni di studio come conoscenza critica, più occasioni di lavoro vero, eccetera), esige un nuovo e adeguato linguaggio che non è solo questione di forma, ma di relazioni, di emozioni, di passioni che aspettano da anni di essere accolte e valorizzate: il vero rimosso della politica.
Un Partito deve anche assolvere una funzione pedagogica, ricreare una cultura del vivere insieme, rifondare un linguaggio per la democrazia (così come era nei propositi di Tullio De Mauro), altrimenti i giovani saranno attratti dalle semplificazioni (anche e non solo) dei Cinque Stelle, dalla loro grinta aggressiva e falsamente contestataria dei poteri dominanti. Purtroppo vale anche per i giovani la legge di Gresham, il banchiere inglese che sosteneva l’assunto che la moneta cattiva scaccia sempre quella buona. Fine e mezzi non sono separabili: se il fine è giusto allora anche i mezzi per raggiungerlo devono essere autentici, sani; non si può bleffare con chi attende o lavora da anni per un vero cambiamento.
Credo che parte del successo ottenuto da Pisapia a Sindaco di Milano sia dovuto al suo carattere mite, di gentiluomo di altri tempi. Ricorderete il dibattito finale tra lui e la candidata Letizia Moratti in televisione: quando stavano ormai per scadere i tempi, Moratti – sapendo che il suo avversario non avrebbe potuto replicare per mancanza di tempo -, tirò fuori una vecchia e archiviata questione di un procedimento penale a carico del futuro sindaco. Il sentimento di stupore si disegnò sul viso di Pisapia, prima ancora che di indignazione. Moratti dovette successivamente chiedere scusa; ma, tutto sommato, non aveva fatto altro che ricorrere alle vecchie tecniche della politica (e della boxe): colpire dove l’avversario sanguina per decretarne il ko tecnico, legittimo o meno che sia il gesto (e in questo caso addirittura falso).
Nel suo recente libro, Passione politica, Paul Ginsborg (insieme a Sergio Labate), si chiede: «Quanti tentativi di costruzione di soggetti collettivi sono stati vanificati da un vizio passionale, un eccesso di egoismo o d’arroganza. Molto più che per motivi ideali, il loro insuccesso è spesso causato da una competizione fra primedonne e da una diffidenza astuta esercitata anche nei confronti dei propri compagni, che spesso finisce per trasformare la necessaria condivisione in inimicizia. Come se pretendessimo di contestare l’ordine del neoliberismo usando le sue armi più efficaci». La lezione femminista con la sua solidarietà di genere, non è mai entrata nella pratica politica diffusa, dove il modello machista e guappista di De Luca miete successo.
Dal canto suo, il condottiero Renzi, dopo una istantanea, quanto astuta e opportunistica, pausa, torna alla carica riconoscendo «qualche errore» (la Repubblica del 15 gennaio): «Brucia, eccome se brucia. Tanto che il vero dubbio (durato l’arco di qualche giorno, nda) è stato se continuare o lasciare. Ma poi uno ritrova la voglia di ripartire». Vecchia astuzia politica anche questa che traspare (tra gli altri vizi) nella continuità di aggressione al sindacato («usano anche loro i voucher»). Nessuna autocritica, nessun pentimento, nessun lutto, se non il rimpianto di non essere stato così furbo all’altezza della situazione.
Allora nel nuovo statuto del partito nascente – Sinistra Italiana – quei nuovi contenuti che molti aspettano, dovrebbero essere espressi e spiegati con parole nuove come: mitezza, umiltà, dialogo, solidarietà, e, perfino, direi, amore e rispetto per l’altro: l’avversario, che sempre è portatore di una qualche ragione con la quale vale la pena di confrontarsi e dalla quale si può sempre imparare qualcosa.
il manifesto, 17 gennaio 2017
Ma dall’altro lato ci sono gli stra-ricchi, gli sfacciatamente ricchi, e nei prossimi 25 anni potremo sperimentare il brivido di conoscere addirittura un trillionaire («trilionario»): possiederà cioè più di 1000 miliardi di dollari (oggi i primi otto paperoni sono tutti sotto i 100 miliardi). Per avere un’idea del significato – spiega Oxfam – bisogna pensare che per consumare un trilione di dollari è necessario spendere 1 milione di dollari al giorno per 2.738 anni.
Le identità degli uomini più ricchi del mondo (tutti e otto maschi, tra l’altro) sono ovviamente già note: guida la classifica Bill Gates, fondatore di Microsoft, con 75 miliardi di dollari di patrimonio personale. Al secondo posto troviamo lo spagnolo Amancio Ortega, fondatore e proprietario della catena Zara (67 miliardi). Seguono il finanziere Usa Warren Buffett (60,8 miliardi), Carlos Slim (industriale messicano delle telecomunicazioni) con 50 miliardi, Jeff Bezos (fondatore di Amazon) con 45,2 miliardi, Mark Zuckerberg di Facebook con 44,6 miliardi. In fondo alla graduatoria (in fondo si fa per dire) troviamo Larry Ellison (Oracle) con 43,6 miliardi e Michael Bloomberg (magnate dei media) con 40 miliardi di dollari.
E in Italia? Non sfiguriamo di certo in quanto ad ampiezza della forbice tra ricchi e poveri: nel 2016 il patrimonio dei primi sette dei 151 miliardari italiani della lista Forbes equivaleva alla ricchezza netta detenuta dal 30% più povero della popolazione (ovvero 80 miliardi di euro). In sette hanno cioè una ricchezza equivalente a quella in mano ai 20 milioni di italiani più poveri.
I sette nomi di nostri concittadini che leggiamo nella lista della rivista Forbes sono: Rosa Anna Magno Garavoglia (recentemente scomparsa) del gruppo Campari; lo stilista Giorgio Armani; Gianfelice Rocca; Silvio Berlusconi; Giuseppe De Longhi; Augusto e Giorgio Perfetti.
Una situazione che, come abbiamo già detto, non è stazionaria, né in miglioramento, ma che al contrario si aggrava ogni anno: sette persone su dieci, infatti, vivono in paesi dove la disuguaglianza è cresciuta negli ultimi 30 anni. Tra il 1988 e il 2011 il reddito medio del 10% più povero è aumentato di 65 dollari, meno di 3 dollari l’anno, mentre quello dell’1% più ricco di 11.800 dollari, vale a dire 182 volte tanto.
Le disuguaglianze anche in Italia sono feroci, e la sproporzione non si nota solo rispetto ai più poveri, ma anche rispetto al ceto medio. Il patrimonio dell’1% più ricco degli italiani (in possesso oggi del 25% della ricchezza nazionale netta) è oltre 30 volte quello del 30% più povero dei nostri connazionali e 415 volte quello detenuto dal 20% più povero.
Nel 2016 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 9.973 miliardi di dollari) vedeva il 20% più ricco degli italiani detenere poco più del 69% della ricchezza nazionale, il successivo 20% (quarto quintile) controllare il 17,6% della ricchezza, lasciando al 60% più povero dei nostri concittadini appena il 13,3% di ricchezza nazionale. Il top-10% della popolazione italiana possiede oggi oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.
Ma come fanno le multinazionali – e i loro proprietari e dirigenti – ad arricchirsi, allargando peraltro la forbice con i cittadini più poveri? La ricetta, spiega Oxfam, è un mix di elusione fiscale, riduzione dei salari dei lavoratori e dei prezzi pagati ai produttori: il tutto, condito con la finanziarizzazione, disinvestendo nell’industria.
L’organizzazione ha raccolto testimonianze di donne impiegate in fabbriche di abbigliamento che lavorano 12 ore al giorno per 6 giorni a settimana e lottano per vivere con una paga di 1 dollaro l’ora. Producono abiti per alcune delle più grandi marche della moda, i cui amministratori delegati sono tra i più pagati al mondo.
E non è un caso se spesso le fasce di reddito più deboli le troviamo affollate di donne: la disuguaglianza colpisce soprattutto loro, e secondo l’Oxfam di questo passo ci vorranno 170 anni perché una donna raggiunga gli stessi livelli retributivi di un uomo.
«Rabbia e scontento per una così grande disuguaglianza fanno già registrare contraccolpi – conclude l’organizzazione non governativa – Da più parti analisti e commentatori rilevano che una delle cause della vittoria di Trump negli Usa, o della Brexit, sia proprio il crescente divario tra ricchi e poveri».
il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2017 (p.d.)
Tre lezioni sull’uomo (Ponte alle Grazie). Da David Hume a Galileo, un volume che raccoglie le ultime riflessioni del linguista statunitense. La facile acquisizione dei neonati umani della "rigogliosa e ronzante confusione!" delle parole». il manifesto, 17 gennaio 2017
Esistono ragioni ancor più essenziali per cercare di determinare con chiarezza che cos’è il linguaggio, ragioni direttamente collegate alla questione di che genere di creature siamo. Charles Darwin non fu il primo a pervenire alla conclusione che «gli animali inferiori differiscono dall’uomo solo per il potere infinitamente maggiore che l’uomo ha di associare i suoni alle idee più diverse»; «infinitamente» è un’espressione tradizionale che oggi va interpretata alla lettera. Tuttavia Darwin fu il primo a esprimere questo concetto tradizionale nel quadro di un incipiente racconto dell’evoluzione umana.
Ian Tattersall, uno dei maggiori specialisti dell’evoluzione umana, ne ha fornito una versione contemporanea. In una recente rassegna delle prove scientifiche di cui disponiamo attualmente, Tattersall osserva che un tempo si credeva che l’evoluzione avesse prodotto «i primi precursori del nostro io successivo. La realtà però è un’altra: l’acquisizione della singolare sensibilità moderna è avvenuta all’improvviso e molto di recente. L’espressione di questa nuova sensibilità è stata quasi certamente favorita dalla cruciale invenzione di quella che è la caratteristica più notevole del nostro io moderno: il linguaggio».
Se le cose stanno così, allora una risposta all’interrogativo «che cos’è il linguaggio?» è importantissima per chiunque sia interessato alla comprensione del nostro io moderno.
Tattersall colloca quell’evento brusco e repentino in un ristrettissimo arco temporale probabilmente compreso tra 50.000 e 100.000 anni fa. Le date esatte non sono chiare, e non sono rilevanti per quello che ci interessa in questa sede, tuttavia lo è la repentinità della comparsa.
Se l’ipotesi di Tattersall è sostanzialmente precisa, come indicano le prove empiriche assai limitate di cui disponiamo, in quel breve arco di tempo comparve la capacità infinita di «associare i suoni alle idee più diverse», secondo le parole di Darwin.
Questa capacità infinita risiede evidentemente in un cervello finito. La nozione di sistemi finiti dotati di capacità infinita è stata intesa appieno a metà del Novecento, il che ha reso possibile formulare con chiarezza quella che secondo me dovrebbe essere riconosciuta come la proprietà più fondamentale del linguaggio, che chiamerò semplicemente «Proprietà fondamentale»: ogni lingua offre una serie illimitata di espressioni strutturate in maniera gerarchica le cui interpretazioni danno luogo a due interfacce, sensomotoria per l’espressione e concettuale-intenzionale per i processi mentali. Ciò consente una concreta formulazione dell’infinita capacità di Darwin o, risalendo molto più indietro, della classica affermazione di Aristotele secondo cui il linguaggio è suono dotato di senso, anche se le ricerche recenti mostrano che «suono» è troppo limitato.
Allorché, sessant’anni fa, si fecero i primissimi tentativi di costruzione di esplicite grammatiche generative, si scoprirono molti fenomeni sconcertanti che non erano stati osservati finché non si era formulata e affrontata in maniera chiara la «Proprietà fondamentale» e la sintassi era ancora considerata l’«uso delle parole» determinato dalla convenzione e dall’analogia. (…)
Uno degli enigmi relativi al linguaggio che venne alla luce sessant’anni fa e resta vivo ancora oggi, secondo me assai significativo nella sua portata, ha a che fare con un dato semplice ma curioso. Prendiamo la frase «istintivamente le aquile che volano nuotano». L’avverbio «istintivamente» è associato a un verbo, che è però nuotano, non volano. L’idea che le aquile che istintivamente volano nuotino non pone alcun problema, tuttavia non si può esprimere in questo modo. Analogamente la domanda «possono nuotare le aquile che volano?» riguarda la capacità di nuotare, non quella di volare.
La cosa sconcertante è che l’associazione degli elementi iniziali della proposizione, «istintivamente » o «possono», al verbo avviene a distanza ed è basata su proprietà strutturali; non avviene dunque per prossimità né è basata su proprietà lineari, operazione computazionale molto più semplice che sarebbe ottimale nell’elaborazione del linguaggio. Quest’ultimo fa uso di una proprietà di minima distanza strutturale, non adoperando mai la ben più semplice operazione della minima distanza lineare; in questo e in numerosi altri casi, nell’architettura del linguaggio si ignora la facilità di elaborazione.
In termini tecnici, le regole sono invariabilmente dipendenti dalla struttura e ignorano l’ordine lineare. L’enigma sta nel perché deve essere così, non solo in inglese ma in ogni lingua, e non soltanto per le costruzioni come quelle del nostro esempio ma anche per tutte le altre, in una vasta gamma.
Il principio della distanza minima è largamente impiegato nell’architettura del linguaggio e si può supporre che si inscriva in un principio più generale, che chiameremo «Computazione minima», il quale a sua volta è presumibilmente un esempio di una ben più generale proprietà del mondo organico, o persino del mondo nella sua totalità. Deve comunque esistere una proprietà speciale dell’architettura del linguaggio che limita la «Computazione minima» alla distanza strutturale, invece che a quella lineare, malgrado la maggiore semplicità di quest’ultima nella computazione e nell’elaborazione.
Secondo una tesi più generale, in quelle zone essenziali del linguaggio in cui si applicano la sintassi e la semantica, l’ordine lineare non è mai tenuto in conto dalla computazione. Pertanto l’ordine lineare è una dimensione periferica del linguaggio, un riflesso delle proprietà del sistema sensomotorio, che lo richiede: non siamo in grado di parlare in parallelo o di produrre strutture, ma soltanto sequenze di parole. Nei suoi aspetti fondamentali, il sistema sensomotorio non è specificamente adattato al linguaggio: sembra che le componenti essenziali per l’espressione e la percezione fossero presenti già molto prima della comparsa del linguaggio.
È provato che il sistema uditivo degli scimpanzé potrebbe essere discretamente adatto al linguaggio umano, malgrado le scimmie non possano compiere nemmeno il primo passo verso l’acquisizione del linguaggio, estraendo dati relativi al linguaggio dalla «rigogliosa e ronzante confusione» che le circonda, mentre i neonati umani lo fanno di colpo, automaticamente, impresa tutt’altro che da poco. E anche se pare che la capacità di controllare il tratto vocale per parlare sia specifica degli esseri umani, non si può dare troppo peso a questa circostanza, dal momento che la produzione del linguaggio umano è indipendente dalle modalità in cui avviene, come hanno stabilito le recenti ricerche sulla lingua dei segni, e sono pochi i motivi per dubitare che le scimmie dispongano di adeguate capacità gestuali. È dunque evidente che nell’acquisizione e nell’architettura del linguaggio entrano in gioco proprietà cognitive assai più profonde.
Benchè la questione non sia risolta non sia risolta, prove considerevoli indicano che la tesi più generale è di fatto corretta: l’architettura fondamentale del linguaggio ignora l’ordine e altre disposizioni esterne. In particolare, nei casi essenziali l’interpretazione semantica dipende dalla gerarchia, non dall’ordine che si rinviene nelle forme espresse. Se le cose stanno così, la «Proprietà fondamentale» non è esattamente come l’ho formulata prima, né come è formulata nella produzione scientifica recente, compresi i miei articoli. Piuttosto, la «Proprietà fondamentale» è la generazione di una serie illimitata di espressioni gerarchicamente strutturate che corrispondono all’interfaccia concettuale-intenzionale, che costituiscono una sorta di «linguaggio del pensiero», molto probabilmente unico nel suo genere.
ma anche proposte concrete. Per Firenze ci sono già. La Città invisibile newsletter, 15 gennaio 2017
L’assessore al welfare, Sara Funaro, invita la città ad offrire sacchi a pelo per far fronte all’ “emergenza profughi” tornata alla cronaca con la morte di Alì Moussa. Rifugiato politico, somalo, Moussa è vittima dell’incendio del capannone industriale nel quale da due anni vivevano cento “migranti”, di vecchia e nuova data. Reietti e clandestini per legge, cui il Comune di Firenze, inabile, non aveva fornito alloggio dopo l’ultimo sgombero.
La politica dell’accoglienza da parte delle istituzioni non può, non deve limitarsi alla risibile invocazione di opere di misericordia presso i singoli. Deve e può, invece, offrire casa e diritti, uguaglianza e cittadinanza, ai superstiti dell’incendio e ai molti altri – stranieri ed italiani – presenti sul territorio in analoghe, precarie condizioni abitative.
Nell’età del neolicapitalismo agguerrito, non si pretende certo che gli amministratori requisiscano gli appartamenti sfitti, come fece nel post-alluvione il (da loro) tanto invocato – perlopiù a sproposito – sindaco La Pira. Si pretende invece, che offrano ai migranti un rifugio che renda agli «umili» (P. Toschi, Il Ponte, 1945) dignità e pieni diritti di cittadinanza.
Si pretende il colpo d’ala. Che il Comune di Firenze, o la Città metropolitana, offra una casa al “popolo nuovo”, nel cuore delle città. Non ci accontenteremo delle periferie e delle «casette mobili prefabbricate» proposte dalla Regione Toscana (cfr. la Repubblica-Firenze, 14 gennaio 2017).
E case nel cuore della città non ne mancano. È sufficiente aprire il catalogo di Nardella – sindaco del capoluogo e della sua area metropolitana – e pescare, tra quelli presentati alle fiere della speculazione immobiliare, uno dei tanti edifici vuoti in attesa dell’agognata valorizzazione (economica). Centinaia di migliaia di metri cubi.
Alle istituzioni locali si richiede lungimiranza. Che comprendano cioè che il centro città ha bisogno di essere ripopolato e non messo in vendita in nome del lusso e della speculazione fondiaria. Per far ciò la città deve rispolverare le virtù civiche dell’accoglienza di indigenti e viandanti, non affidarsi solo a quella mercificata di lusso.
Firenze e le altre città toscane possono attingere a un’ammirevole tradizione ospitale, di hospitalitas rivolta ai bisognosi di ogni provenienza e fede. Molti edifici nati in funzione dell’accoglienza si trovano ora in stato di abbandono. Così le caserme, vuote o in vendita, naturalmente attrezzate (e già pronte) per l’accoglienza provvisoria, pur di altra ascendenza: caserma Baldissera; ex Ospedale militare in via San Gallo (16.200 mq); Accademia di Sanità militare in via Tripoli; Scuola di Sanità militare nell’ex convento del Maglio; Caserma Cavalli in piazza del Cestello; Dogana in via Valfonda.
Tra gli edifici centrali cui potrebbe esser fatto ricorso, spicca l’ex convento di San Paolino (poi Monte di Pietà, in via Palazzuolo), inutilizzato da anni, pronto ora per essere trasformato in hotel di lusso da parte di un colosso alberghiero. In un quartiere che avrebbe invece bisogno di luoghi di socialità, di aggregazione e di cura.
All’interno di un progetto urbano di lungo termine, che sia conforme ai tempi della pianificazione e non a quelli dell’emergenza, il complesso di Sant’Orsola (di proprietà della Città metropolitana) potrebbe risultare invece – per posizione, per volumi, per lo stato dei lavori di consolidamento già effettuati, per natura proprietaria – un’ubicazione preferenziale per l’ospitalità di rifugiati, richiedenti asilo, senza tetto e profughi, che si lasciano alle spalle guerre e paura.
In quei settori del centro cittadino nei quali risulta evidente una situazione di disagio sociale e abitativo – ciò che torbidi o inani amministratori chiamano “degrado” –, la trasformazione di un edificio monumentale e la sua restituzione alla cittadinanza rappresenterebbe un’operazione esemplare di emersione del dolore che affligge, nella città vecchia, il popolo nuovo.
columnist più gettonati, e i giornali più letti, aiutano a scendere sempre più in basso. Articoli di Ernesto Galli della Loggia, Gian Antonio Stella, Francesca Barbieri. Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2016, con postilla
Corriere della Sera
LA GRANDE CRISI DELLA SCUOLA
di Ernesto Galli della Loggia
Quali sono le ragioni profonde della crisi radicale che in Italia ha colpito l’istruzione, la sua organizzazione e si direbbe la stessa dimensione educativa? Le opinioni differiscono parecchio ma per capire davvero credo sia necessario fare ciò che solitamente non si fa: riprendere il discorso dall’inizio, riandare alla storia.
La scuola che noi conosciamo, la scuola pubblica (una qualifica, va sottolineato, che significa non solo aperta a tutti, ma anche volta a un fine collettivo, a un interesse pubblico, appunto) non nasce da una decisione di tipo culturale o educativo. Nasce da una decisione politica. Quando cioè nel corso del XIX secolo, per sottrarre la formazione dei giovani all’egemonia fin lì esercitata dalla religione e in particolare dalla Chiesa cattolica, le élite politiche protagoniste delle rivoluzioni liberali decisero che doveva essere il loro nuovo Stato in prima persona, e attraverso un proprio personale, ad occuparsi dell’istruzione.
Allo scopo precipuo non già di assicurare la trasmissione e la diffusione del sapere (c’era anche questo ovviamente, ma non era l’essenziale), bensì di formare i cittadini dei tempi nuovi. Di formare le loro coscienze e con esse quindi lo spirito pubblico del Paese: promuovendo un minimo di autonomia individuale per tutti con l’insegnare a leggere, scrivere e far di conto; e per i giovani della futura classe dirigente avvalendosi dello strumento reputato il più adatto a inculcare i valori della «civiltà moderna» che quelle élite intendevano rappresentare.
Vale a dire un’educazione di tipo laico-umanistico con fortissime radici nella classicità, sia pure allargata a un consistente nucleo di sapere scientifico. Da questa decisione tutta politica è nata la nostra scuola: non a caso, sono i Paesi di tradizione cattolica quelli dove ancora oggi si registra la statalizzazione più piena e ideologicamente convinta di tutti i gradi dell’istruzione.
È superfluo chiedersi se tutto ciò sia stato un bene o un male. Le cose non potevano che andare così. È assai più importante, credo, essere consapevoli che nella specifica realtà storica dell’Italia otto-novecentesca quella scelta si è mostrata quanto mai pagante. Sul medio-lungo periodo, infatti, essa è servita a formare una coscienza dell’identità nazionale sufficientemente ampia, a dare vita a una classe dirigente più o meno culturalmente omogenea, nonché a costituire un ethos dell’appartenenza statale e dei suoi obblighi capace di mettere qualche radice. Ma non solo, se si pensa che un Paese inizialmente sommerso dall’analfabetismo e dalla povertà delle attrezzature, quale era il nostro, riuscì in un secolo a raggiungere traguardi non proprio spregevoli anche da un punto di vista strettamente culturale e nell’ambito della ricerca scientifica.
Tutto ciò, ripeto - dalla nascita dello Stato italiano fino a un dipresso al 1960 - è accaduto per l’impulso e sotto la direzione della politica. Rappresentata istituzionalmente da un ministro con il pieno potere di decidere l’articolazione dei vari ordini di studio e, salvo che per l’università, di stabilirne i programmi; di fissare i requisiti necessari per potervi insegnare nonché di organizzare le modalità per accertare i medesimi requisiti; dotato infine del potere disciplinare e di controllo su tutto l’insieme attraverso la rete dei provveditorati a lui facenti capo. Se qualcuno pensa che tale ministro fosse una specie di khan tartaro, sbaglia. Nell’età liberale e poi nella democrazia repubblicana è stato semplicemente un ministro che come tutti i ministri traeva il proprio potere da una maggioranza elettorale e rispondeva politicamente al Parlamento di ciò che faceva.
È questo edificio che ha iniziato a sbriciolarsi negli anni Sessanta-Settanta per poi scomparire del tutto nel nuovo millennio. In ragione di una causa semplice e insieme complessissima: l’irruzione nel nostro Paese della democrazia di massa. Destinata in questo caso a prendere due forme. Da un lato l’esplosione di un fortissimo investimento collettivo, tanto ideologico che simbolico, sull’ambito dell’istruzione: con l’erompere di un esteso e profondo desiderio di ascesa sociale (vedi l’impennata delle iscrizioni scolastiche o «le 150 ore»), con il sogno egualitario che sempre è alimentato dalla democrazia (vedi parole d’ordine come il «6 politico», il no alla «selezione» o alla «scuola di classe» ecc.), infine con le aule divenute culla di una fraternità giovanile potenzialmente ostile a ogni autorità, vogliosa di essere «libera» e di «contare».
Dall’altro lato, l’irrompente democrazia di massa prese la forma di un’inedita mobilitazione politica di larghi settori di ceto medio, nel nostro caso i docenti della scuola pubblica. Dei quali la parte migliore (e minore) si mosse alla ricerca di un riconoscimento di ruolo e di gratificazioni professionali nuove in armonia con i dettami culturali dei tempi; la parte maggiore, invece, conscia dei possibili vantaggi offerti dalla situazione creatasi, si limitò a essere supinamente consenziente. Tutti furono in realtà lo strumento del solo potere che da lì in poi avrebbe dominato la scuola italiana: il sindacato.
A partire comunque dalla metà dei Sessanta, in ognuno di questi modi la scuola e l’istruzione divennero per anni e anni il luogo del più aspro e violento conflitto sociale, perfino la palestra per ambigui esercizi di sapore eversivo. Per la politica dunque un terreno minato: di cui essa cominciò ad avere paura, sempre più paura. L’incubo di ogni governo, e in specie di ogni ministro con sede a viale Trastevere, divenne quello di avere scuole e università occupate e studenti e professori in piazza: con esiti sempre incerti e spesso drammatici. Unico risultato per lui certo l’impopolarità.
Fu così che alla lunga cominciò a profilarsi la svolta. La politica decise che era meglio sgomberare il campo. Nella grande crisi della politica che a partire dagli anni Ottanta ha annunciato e poi accompagnato massicciamente la globalizzazione - con la conseguente ritirata della politica stessa e dello Stato dalla società - l’istruzione è stata la prima trincea ad essere abbandonata. La prima non a caso. L’abbandono segnalava che stavano ormai venendo meno partiti e culture politiche nutrite di idee e di valori forti. In grado di esprimere in qualche modo un progetto complessivo di società, di credere realmente in un tale progetto, e su tale base addirittura di assumersi il compito di trasfonderne il senso nella formazione delle nuove generazioni, dirigendo contenuti e modi di questa attraverso la scuola. Tutto ciò doveva ormai essere considerato impossibile.
Specialmente in Italia, dove in quel fine secolo gli attori politici e la sfera stessa della politica erano sottoposti a un massiccio processo di delegittimazione che si sarebbe sempre più accentuato. E dove gli effetti dell’avanzata della modernità - quella modernità capace per sua natura di «sciogliere tutto ciò che è solido», secondo la profezia di Marx - erano resi ancor più dirompenti dal non trovare alcun ostacolo in una società dall’antico carattere «gelatinoso», priva di una radicata tradizione cultural-nazionale sul modello francese della quale le istituzioni si considerassero tutrici.
Priva di qualunque fiducia non solo nelle proprie capacità direttive, ma anche nel senso storico che poteva ancora avere una tale direzione, la politica italiana da allora in poi ha abbandonato dunque la scuola. Lo ha fatto consegnandone velocemente e progressivamente tutti gli spazi a due «dispositivi», che poi non erano che altrettanti feticci della modernità: la «tecnica» e l’«autonomia».
La tecnica nelle sue più varie forme e accezioni: dal vastissimo campionario delle prescrizioni circa le modalità presunte «scientifiche» d’insegnamento e di accertamento dei risultati degli studenti, alle procedure di reclutamento e di selezione del personale sempre più dominate dall’impersonalità efficientistica del questionario, del test, ovvero da sistemi preformati di autovalutazione, per finire con la panoplia di strumentazione telematica (lavagne elettroniche, computer, e quant’altro) somministrata in dosi tanto massicce quanto dagli esiti didatticamente e culturalmente quasi sempre nulli.
Dall’altro canto l’autonomia: da quella degli insegnanti a quella degli istituti. La quale autonomia, al di là delle virtuose chiacchiere democratiche, in realtà ha corrisposto a null’altro che al desiderio da parte del centro politico-ministeriale di spogliarsi - complice il più sciagurato dei regionalismi - di ogni responsabilità, in certa misura perfino finanziaria, riguardo l’intero insieme dell’istruzione. Che così ne è uscito inevitabilmente frantumato, segmentato per linee di divisione geografica e sociale nonché di capacità economiche, drammaticamente diviso tra Nord e Sud, in balia delle più casuali e incontrollate capacità (o incapacità) di questo o di quello. Privata della bussola di una direzione politica unitaria la nostra scuola si presenta oggi, così, come una mirabile accozzaglia di progetti, iniziative, corsi, attività, offerte formative che con i più vari obiettivi spaziano sui più vari ambiti.
A logico completamento del tutto, la sostanziale abdicazione della politica pure in merito alla stesura dei programmi, lasciati da tempo alla pressoché unica responsabilità «tecnica» di un manipolo di «esperti», assertori ovviamente del carattere esclusivamente «scientifico» delle proprie scelte. Le quali, inutile dirlo, neutrali però non lo sono per niente. In realtà, infatti, il nucleo delle materie non scientifiche che oggi si insegnano nelle nostre scuole è stato radicalmente depurato di qualsivoglia narrazione connessa non dico a una «tradizione», ma assai spesso neppure a un canone o a un percorso di tipo «nazionale» e caso mai «occidentale».
Così come è stata cancellata da quei programmi ogni potenziale valenza eticamente o spiritualmente formativa che non sia ispirata al politicamente corretto dominante e al più vacuo cosmopolitismo. Dovunque, poi, una ingenua tendenza a formalizzare secondo stereotipi dal sapore strutturalista, e l’allusione velleitariamente colta. Questo è l’orientamento prevalente della scuola italiana attuale, ormai interamente nelle mani degli «esperti». I tentativi in direzione timidamente contraria osati da qualche ministro della Destra ha costituito una minuscola eccezione: che ha confermato la regola ma non ha cambiato realmente nulla.
Alla fine, la cancellazione dell’aggettivo «pubblica» apposto al sostantivo «istruzione» - che fino a qualche tempo fa, ma ora non più, caratterizzava la denominazione ufficiale del dicastero preposto per l’appunto a quell’ambito - si rivela l’adeguata esplicitazione lessicale del congedo della politica dall’istruzione stessa.
È in tale congedo che sta il cuore autentico della crisi della scuola italiana (simile ma non eguale a quella di molti altri sistemi scolastici dell’area euro-occidentale). Esso ha voluto dire la perdita di qualsiasi orizzonte generale, la rinuncia a rendere l’istruzione il momento centrale della riproduzione sociale in senso alto, al tentativo - si può immaginare quanto temerario: ma forse proprio per questo degno di essere perseguito - di fare di essa la matrice del carattere e della personalità.
La scuola attuale, invece, è sempre più giudicata insignificante a cominciare dai suoi stessi alunni e dai loro genitori, perché essa per prima, illudendosi di guadagnarne chissà quale libertà, ha rinunciato al suo massimo significato, ha accettato il proprio declassamento a una dimensione puramente tecnico-operativa, quando va bene a dispensatrice di saperi anziché di cultura. Ha acconsentito, sta acconsentendo, alla tendenziale sostituzione di un docente con un computer.
Mentre ormai, quasi come in un fatale gioco di specchi, la politica partecipa pur essa a questo inabissamento nel negativo: con il vicepresidente del Senato e presidente del Consiglio in pectore in caso di vittoria grillina, l’onorevole Di Maio, il quale, riferiscono le cronache, tra uno «spiano» e uno «spiassero» si affanna a indovinare come diavolo faccia la terza persona plurale del congiuntivo presente del verbo «spiare», ma non ci riesce nemmeno al terzo tentativo
Corriere della Sera
UN ALUNNO SU DUE CAMBIA PROF DI SOSTEGNO
di Gian Antonio Stella
Vengono prima i diritti degli alunni disabili o gli interessi dei docenti fuori piazza? Domanda ustionante. Ma va fatta: è accettabile che il 43% degli scolari più fragili sia scosso dal trasloco dell’insegnante di «sostegno»? Che i quindici bimbi autistici o down d’una scuola d’infanzia laziale vedano ruotare in tre mesi 27 supplenti? O che 18 su 18 dei maestri e professori «specializzati» nominati in un altro istituto «diano buca» obbligando il dirigente a prendere supplenti magari volenterosi ma ignari della materia?
Il nuovo dossier di Tuttoscuola.com da oggi online è ancora più duro di quello sulla folle giostra di docenti anticipato dal Corriere la settimana scorsa. Perché quel tourbillon destabilizzante di oltre 250 mila insegnanti (il triplo del solito) per due milioni e mezzo di bimbi, adolescenti e ragazzi colpiti da qualche sostituzione, era perfino meno grave, pare impossibile, di quanto è denunciato nell’ultimo rapporto. Che parla di «tsunami».
Dicono i numeri, elaborati dalla rivista di Giovanni Vinciguerra, che nelle scuole italiane di ogni ordine e grado ci sono oggi 233 mila alunni disabili che sulla carta possono contare, tra stabili (96.480) e in deroga (41.021: una enormità che andrebbe sanata), su 137.501 docenti di sostegno che costano oltre 5 miliardi l’anno di soli stipendi.
Un investimento vitale. Per capirci: sono più numerosi dei carabinieri e il doppio dei medici. Bene: 60 mila di quei docenti negli ultimi tre mesi hanno cambiato posto e in automatico oltre 100 mila di quei 233 mila alunni, con effetti spesso traumatici, hanno perso il loro punto di riferimento.
Potrebbero essere, quei docenti, il fiore all’occhiello della nostra scuola, che spesso arranca in ritardo sugli altri ma in questo caso fu tra le prime al mondo a capire, nel ‘77 quando le «differenziali» furono abolite, l’importanza dell’integrazione. Potrebbero, se troppo spesso il «sostegno» non fosse visto come uno dei comparti del «postificio» scolastico. Delegato a erogare buste-paga (sia pur modeste e precarie) più che a crescere i cittadini di domani.
Lo conferma una tabella del dossier Tuttoscuola. Dove si spiega che gli alunni con disabilità al Mezzogiorno sono 89.412 contro i 96.163 del Nord ma possono contare su oltre 11 mila docenti di sostegno in più. Ed è già una ripartizione più equilibrata di un tempo, quando nel Mezzogiorno era concentrata, come nel 2007, quasi la metà (il 47%) di tutto il personale di sostegno. Contro una quota di disabili otto punti più bassa. Per carità, quello squilibrio va anche a supplire altre carenze. Però...
Certo è che l’equivoco sul senso del «sostegno», ha pesato in modo esorbitante anche questa volta. Ricorda infatti il dossier che, come sanno tutti i genitori toccati dall’handicap, «i danni della discontinuità didattica sono elevati all’ennesima potenza per gli alunni con disabilità: se l’interruzione della relazione con il docente è in generale negativa, per un alunno disabile, che ha un grado di dipendenza dal docente molto maggiore (specie nel caso di disabilità intellettiva), può essere devastante. Anche perché, nel suo caso, è molto più complesso e lungo stabilire la relazione educativa con l’insegnante a lui dedicato, che richiede una reciproca conoscenza e competenze specifiche del docente, e quindi più deleterio interromperla». Quando arriverà un nuovo docente, «spesso dopo un periodo in cui l’alunno con disabilità è rimasto senza una figura di riferimento, tutto dovrà necessariamente ripartire dall’inizio. Incontro, attese, emozioni, aspettative, paura, rischio di abbandono...».
Può essere un calvario, sferza il dossier, «trovare il supplente annuale da nominare, in una sequenza di supplenti temporanei che si avvicendano, a volte per mesi, in attesa dell’arrivo dell’“avente diritto”, come lo definisce l’ineffabile terminologia burocratica (che non si sofferma sul vero “avente diritto”, la persona disabile che ha il diritto di studiare nelle migliori condizioni possibili». Qui è la differenza, sottolineava l’altra sera a «Zapping» Sergio Govi, già dirigente scolastico ed esperto di problematiche educative: «Mentre maestri e professori hanno (legittimi) “interessi” da difendere, gli studenti hanno “diritto” a una scuola migliore». E il conflitto tra questi «legittimi interessi» di chi insegna e i diritti di chi studia pesa. Come un macigno.
Tanto più se la giostra di docenti riguarda, accusa il rapporto, i disabili: «Per capire gli effetti di questa girandola diabolica, occorre tenere presente che i docenti di sostegno che aspirano a una supplenza sono iscritti sia in una graduatoria provinciale (per le supplenze annuali) sia in diverse graduatorie di istituto (per le supplenze brevi). Un docente nominato su supplenza d’istituto può essere chiamato altrove per supplenza annuale; il supplente che lo sostituisce può essere chiamato a sua volta per supplenza annuale in un altro istituto, e così via, in un gioco dei quattro cantoni che a volte dura due o tre mesi prima di stabilizzarsi. Ma al peggio non c’è mai fine: la ricerca del docente di sostegno supplente che avrà il posto fino alla fine dell’anno scolastico, che può durare mesi, ha sempre esito positivo? Purtroppo no: e allora, sembra un paradosso, l’alunno disabile viene affidato a un docente non specializzato». Cosa piuttosto frequente.
Basti ricordare, appunto, i due casi citati. Il primo lo racconta Manuela Scandurra, dirigente scolastica della scuola «Karol Wojtyla» di Palestrina, e riguarda alunni fra i tre e i sei anni: nell’infernale girotondo «i miei 15 bambini con disabilità (parliamo di disabilità motorie, intellettive, sindrome di Down, sindromi autistiche di diverso grado) tornati in classe dopo le vacanze estive, hanno visto in pochi mesi 27 volti nuovi, senza contare i nove docenti di sostegno dell’anno scorso, per i bambini che erano già nella nostra scuola». Totale: trentasei docenti in pochi mesi.
Antonella Arnaboldi, dirigente dell’Istituto «San Nilo» di Zagarolo, conferma: «Quest’anno abbiamo nominato 18 docenti di sostegno attraverso la “chiamata diretta” ma nessuno di loro ha lavorato con continuità perché hanno ottenuto tutti e 18 l’assegnazione provvisoria nella loro provincia». Tutti. «Siamo dovuti ricorrere a supplenti senza specializzazione nel sostegno». Evviva la «continuità didattica»… Ma l’anno prossimo, almeno, andrà meglio? No, risponde lo studio. Salvo miracoli no.
Il Sole 24 Ore
SCUOLA-LAVORO, AUMENTA LA DISTANZA
Francesca Barbieri
Oltre 400mila giovani «overeducated»: sono il 18% dei diplomati e il 26% dei laureati
Due record negativi che fanno un paradosso. Da un lato, siamo fanalino di coda in Europa per numero di laureati: solo il 25,3% degli italiani fra i 30 e i 34 anni, secondo Eurostat, ha un titolo accademico in tasca, rispetto alla media del 38 per cento. Dall’altro, i pochi che riescono a raggiungere il traguardo faticano a trovare un lavoro o lo ottengono non in linea con il proprio curriculum: appena il 53,9% è occupato a tre anni dal titolo (rispetto all’82% della Ue) e i laureati rappresentano la fetta maggiore dei giovani “overeducated”, quelli cioè troppo istruiti rispetto alle competenze necessarie per svolgere le mansioni assegnate.
Dal report realizzato dal centro studi Datagiovani per Il Sole 24 Ore risulta che i “sovraistruiti”, almeno nei primi anni successivi al conseguimento del titolo, sono più di 400mila su una platea di 1,8 milioni di lavoratori, considerando 1,1 milioni di laureati tra i 25 e i 34 anni e 700mila diplomati tra i 20 e i 24. Tra i primi si riscontra la maggior diffusione della “overeducation”, con un lavoratore su quattro in questa condizione (per un totale di quasi 300mila giovani), mentre si scende abbondantemente al di sotto del 20% per i diplomati (117mila).
Dai numeri emerge che il legame con la crisi economica è stretto: il tasso di disoccupazione è salito per i diplomati dal 17,9% del 2008 al 29,8% del 2016 e per i laureati dal 9,4% al 14,1 per cento.
Per gli occupati l’iperqualificazione è passata dal 13,9% al 17,6% per i diplomati e dal 23,7 al 25,6% per i laureati: un fenomeno più frequente al Nord, dove si concentrano le maggiori chance di lavoro e dove dunque si hanno più possibilità di “adattarsi”, per scelta o necessità, a lavori non allineati al proprio bagaglio di conoscenza.
E a livello di genere si registra una maggior quota di “overeducated” maschi tra i diplomati; situazione opposta tra i laureati, dove sono le donne che faticano di più a mettere a frutto i propri studi.
Non tutti gli indirizzi poi “soffrono” con la stessa intensità del fenomeno: la maggiore eterogeneità si riscontra nelle lauree, dove tra il massimo del 42% di “overeducated” tra i laureati in discipline umanistiche e il minimo del 9% di ingegneri e architetti si passa per il 12% dei medici e il 32% di coloro che hanno conseguito un titolo terziario nel campo delle scienze sociali.
Una quota leggermente più bassa degli “overeducated” laureati (22%, pari a 220mila lavoratori) risente inoltre di un disallineamento tra la posizione occupata e il percorso di studi (per esempio, l’archeologo che si occupa di vendite): anche in questo caso il gap maggiore si riscontra tra i laureati in materie umanistiche (46%), mentre per farmacisti, medici e infermieri l’abbinamento studi–lavoro è quasi perfetto (appena l’8% di mismatch).
Il gap tra tipologia di laurea e professione svolta è poi certificato dal consorzio interuniversitario AlmaLaurea: secondo l’ultimo rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati, solo per il 38% la laurea è richiesta per il lavoro svolto, la metà dei giovani occupati a cinque anni dal conseguimento del titolo utilizza in misura ridotta o per nulla le conoscenze acquisite nel percorso di studi (con punte di oltre il 60% tra i laureati in materie umanistiche).
«Paese paradossale il nostro - commenta Ivano Dionigi, presidente di AlmaLaurea -, che soffre di una duplice e opposta patologia: di “undereducation” e al contempo di “overeducation”. Anche nei settori strategici di innovazione, internazionalizzazione e managerialità la percentuale di laureati è di poco superiore al 17%, rispetto alla media europea del 24,2%». Secondo Dionigi, sono tre gli attori in causa: «Le università, chiamate a formulare corsi parametrati sulla domanda e non sull’offerta e a innovare i corsi contaminando humanities e tecnologie secondo le specificità della cultura del Paese; le imprese, chiamate ad assumere e valorizzare i laureati; la politica, chiamata a favorire l’occupazione e a riconoscere il merito».
postilla
Non è male che la stampa si occupi della scuola. Difendere il ruolo formativo dell'istituzione scolastica è essenziale in una società in cui la formazione dei cervelli è svolta da quella vasta macchina demolitrice delle intelligenze che va dai "persuasori occulti" dalla Renault o del Mulino bianco agli imbonitori tipo Vanna Marchi o Matteo Renzi.
Il disastro (e il tradimento) si manifestano quando di scopre che gli intellettuali ospitati dalla grande stampa non si pongono il quesito fondamentale: l'istituzione scolastica ha il compito di formare le menti necessarie per lubrificare le rotelle arrugginite di questo sistema economico sociale che ci sta portando alla rovina, oppure quello di formare menti capaci di uscire dalla palude ed orientare le loro accresciute capacità a cambiare questo sistema? Siamo orgogliosi di aver pubblicato (insieme al manifesto) l'unico rilevante articolo che affronti il problema dall'angolatura che a noi sembra giusta, e utile: Piero Bevilacqua, Contro l'alternanza scuola-lavoro
Corriere della Sera il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2017, con postilla
Il Fatto Quotidiano
QUELLI CHE…
I CIE ERANO CAMPI DI CONCENTRAMENTO
di Silvia d'Onghia
I centri di identificazione degli immigrati assomigliano «a dei campi di concentramento, tanto è vero che il Parlamento ha negato che la permanenza possa essere aumentata a sei mesi». Peccato che il governo, ponendo la fiducia, abbia prolungato la permanenza nei Cie fino a sei mesi”. Parola di Marco Minniti, quando ancora non era ministro dell’Interno. Era il Marco Minniti responsabile sicurezza del Pd, il 19 maggio 2009: al governo c’era Silvio Berlusconi. Forse è la stessa persona? Chissà. Certo di acqua ne è passata sotto i ponti in quasi otto anni: si è andati a votare nell’ormai lontano 2013, i governi sono cambiati, l’immigrazione è tornata a essere un’emergenza dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum e, soprattutto, dopo le stragi terroristiche che hanno colpito l’Europa.
E allora si vede che il remoto ricordo dei Cie come “campi di concentramento”, in cui i migranti si cucivano le bocche o davano fuoco alle strutture per protesta, è svanito nel nulla (il nostro è un Paese dalla memoria corta) o è stato ammorbidito dalle rassicuranti parole del nuovo Minniti: “Non avranno nulla a che fare con quelli del passato. Punto. Non c’entrano nulla perché hanno un’altra finalità, non c’entrano con l’accoglienza ma con coloro che devono essere espulsi”, ha detto il neo ministro dell’Interno lo scorso 5 gennaio, poco dopo aver tirato fuori il coniglio dal cilindro.
Memoria corta, dicevamo. Del resto non tutti ricordano che i Centri di identificazione ed espulsione furono istituiti dalla legge 40 del 6 marzo 1998, passata alla storia come Turco-Napolitano. L’allora ministra per la Solidarietà sociale e l’allora collega agli Interni previdero per la prima volta di trattenere i destinatari di provvedimenti di espulsione in appositi Centri definiti “di permanenza temporanea e assistenza”, poi trasformati nel 2011 in Centri di identificazione ed espulsione. Il Testo Unico sull’immigrazione ha subìto negli anni alcune modifiche: prima con la Bossi-Fini (2002) e poi con il cosiddetto “pacchetto sicurezza” del governo Berlusconi, che nel 2008 ha introdotto il reato di immigrazione clandestina. Nel 2014 il Parlamento ha delegato al governo la riforma del sistema sanzionatorio dei reati (l’irregolarità del soggiorno non dovrebbe avere più rilievo penale), ma ad oggi, nonostante vi siano almeno sei proposte di legge ferme, nonostante la Corte Europea abbia stabilito che gli ingressi irregolari di migranti non possano essere sanzionati con il carcere e nonostante il richiamo – lo scorso anno – del presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio (“un reato inutile e dannoso”), nessuno ha fatto nulla.
L’articolo 14 del Testo Unico del ’98 prevede che “quando non sia possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera” (e su questo giornale abbiamo visto le difficoltà della polizia a farlo), il questore “disponga che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario” presso un Cie. Il “tempo necessario”, inizialmente di 30 giorni (Turco-Napolitano), è diventato di 60 con la Bossi-Fini, di 180 con il “pacchetto sicurezza” del 2008 e addirittura di 18 mesi nel 2011; è tornato di 90 giorni nel 2014, ma un decreto legislativo del 2015, in attuazione di una direttiva europea, ha previsto in alcune circostanze il trattenimento fino a un anno per il richiedente asilo che “costituisce un pericolo per l’ordine e la sicurezza” e per il quale sussiste “rischio di fuga”. Attualmente sono sei i Cie funzionanti (Bari, Brindisi, Caltanissetta, Crotone, Roma e Torino), anche se il sito del Viminale, fermo a luglio 2015, ne elenca soltanto cinque. Diventeranno molti di più, piccoli e in ogni Regione, se il nuovo Minniti andrà avanti per la sua strada. Giovedì prossimo il ministro incontrerà i governatori per illustrare le proprie intenzioni: “Proporrò strutture piccole, che non c’entrano nulla con quelle del passato, con governance trasparente e un potere esterno rispetto alle condizioni di vita all’interno”.
E dire che, all’epoca, Minniti non era il solo del suo schieramento a pensare che i Centri dovessero essere chiusi. Nel giugno 2011, mentre Roberto Maroni faceva approvare – tre giorni dopo Pontida – il decreto legge che innalzava a 18 mesi la permanenza nei Cie, l’attuale sottosegretario piddino Sandro Gozi solennemente commentava: “Il ministro Maroni ha voluto solo mostrare il pugno duro, ma è propaganda con le gambe corte, buona solo per Pontida e conferma che il governo affronta il fenomeno dell’immigrazione solo con politiche repressive”. Si vede che adesso che è al governo anche lui, le politiche repressive hanno le gambe più lunghe. Nel 2012, il Forum Immigrazione del Partito Democratico affrontava le “linee programmatiche a breve e media scadenza: dalla abrogazione del reato di clandestinità al superamento dei Cie. Occorre superare il diritto speciale dello straniero e tornare a un sistema di espulsione che sia coerente con la nostra Costituzione”.
E solo tre anni e pochi giorni fa, il 18 dicembre 2013, il vice ministro dell’Interno, Filippo Bubbico (incarico del premier Letta, poi confermato da Renzi e Gentiloni), a proposito del Centro di Lampedusa tuonava: “Bisogna riformare il prima possibile quelle norme, bisogna chiudere il Cie”. La notte dei governi, evidentemente, porta consiglio.
«CHI CHIEDE ASILO DOVRÀ LAVORARE»
di Fiorenza Sarzanini
«Nuove regole per gli immigrati: chi arriva in Italia e chiede asilo dovrà svolgere lavori socialmente utili in attesa di ottenere risposta all’istanza. È una delle norme che sarà illustrata mercoledì al Parlamento dal ministro dell’Interno, Marco Minniti. Per quanto riguarda i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) saranno strutture da massimo cento posti. Record di sbarchi dall’inizio dell’anno»
ROMA Chi arriva in Italia e chiede asilo dovrà svolgere lavori socialmente utili in attesa di ottenere risposta all’istanza. È una delle novità più importanti del pacchetto di nuove misure in materia di immigrazione che sarà illustrato mercoledì al Parlamento dal ministro dell’Interno Marco Minniti, al ritorno dalla sua missione in Germania proprio per discutere di una linea comune in sede europea.
Si tratta di un insieme di regole che hanno l’obiettivo di marcare il «doppio binario» tra profughi e irregolari e si affiancheranno a due proposte legislative sulle quali spetterà alle Camere pronunciarsi. In attesa di chiudere nuovi accordi bilaterali con gli Stati africani che in cambio di aiuti sono disposti ad accettare i rimpatri, ritenuti una delle priorità dal governo.
60 sbarchi al giorno
L’appuntamento è fissato davanti alla commissione Affari costituzionali nell’ambito di un progetto che coinvolge anche le Regioni e i Comuni. Un percorso condiviso che — come ha sottolineato il titolare del Viminale — «servirà a garantire accoglienza a chi ha titolo, essendo inflessibili con chi non ha i requisiti per rimanere nel nostro Paese».
Anche tenendo conto dei numeri: nei primi dodici giorni del 2017 sono sbarcate 729 persone, il triplo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, con una media di 60 al giorno. A ciò si aggiunge l’emergenza per i minori non accompagnati. Secondo Telefono azzurro lo scorso anno sono scomparsi in Italia oltre 5.000 ragazzi e bambini.
I venti Cie
I nuovi Cie saranno strutture da massimo cento posti, stabili demaniali lontani dai centri delle città, preferibilmente vicini agli aeroporti.
All’interno lavoreranno i poliziotti per effettuare la procedura di identificazione ed espulsione in modo da poter poi pianificare i rimpatri. La vigilanza esterna potrebbe essere affidata ai soldati che finora hanno svolto compiti di sorveglianza per il dispositivo antiterrorismo.
All’interno sarà sempre presente un «garante» che possa verificare il rispetto dei diritti degli stranieri. A Roma, Torino, Crotone e Caltanissetta si è deciso di utilizzare i centri già operativi, altrove si stanno individuando gli edifici adeguati. Dovrebbero rimanere escluse la Valle d’Aosta e il Molise, anche tenendo conto delle difficoltà per effettuare i trasferimenti.
Il lavoro
Due mesi dopo la presentazione della richiesta di asilo, ai migranti viene rilasciato un documento in cui vengono indicati come «sedicenti» rispetto alle generalità che hanno fornito al momento dell’arrivo.
Basterà quel foglio per inserirli nel circuito dei lavori socialmente utili che diventerà uno dei requisiti di privilegio per ottenere lo status di rifugiato. Proprio come già accade per il corso di italiano obbligatorio per chi vuole ottenere la cittadinanza.
Si faranno convenzioni anche con le aziende per stage che potranno essere frequentati da chi ha diplomi o specializzazioni, proprio come avviene in Germania, nell’ottica di inserire gli stranieri nel sistema di accoglienza avendo la loro disponibilità a volersi davvero integrare.
Le nuove norme
Sono due le norme per le quali si chiederà al Parlamento di valutare modifiche sostanziali. La prima riguarda la possibilità di presentare appello contro il provvedimento che nega l’asilo, sia pur prevedendo alcune eccezioni. Si tratta di una misura che mira a snellire le procedure, evitando inutili lungaggini che impediscono di far tornare nel proprio Paese chi non ha titolo per rimanere.
Una linea che riguarda anche il reato di immigrazione clandestina, di cui da tempo i magistrati chiedono l’abolizione proprio perché impedisce di rendere effettive la maggior parte delle espulsioni. Chi viene denunciato e poi processato per questo illecito può infatti chiedere e ottenere di rimanere in Italia fino alla sentenza definitiva. Con il risultato di non poter effettuare il rimpatrio, anche se lo Stato di nascita concede il nulla osta.
la Repubblica online, 16 gennaio 2017
Ieri a "Mandillo dei semi" erano oltre duemila persone. A Ronco Scrivia, un paese sulle alture di Genova. Mandillo, in dialetto, sta per fazzoletto: e dunque, scambiarsi i semi prodotti dalla propria terra - piccola o grande che sia - , riporli in un mandillo per regalarli al prossimo. Uno sconosciuto, un nuovo amico. Un mercato di idee, di ribellione, di speranze: un nuovo modo di vivere. "Libera festa del libero scambio di semi autoprodotti e lieviti di casa, esposizione di frumenti e frutta antica", recitava la locandina. In Italia ci sono almeno 80 appuntamenti così, durante l'anno. Un altro mondo possibile: di piccoli contadini indipendenti, di appassionati che tornano alla terra per tanti motivi diversi. E non importa se è un campo, un orto urbano o sociale, un giardino o un grande vaso su di un balcone nel cuore della metropoli: "L'importante è vedere che la pianta cresce. E con lei, anche noi".
Giovanni Zivelonghi era operaio in una nota una industria chimica di Verona, la Glaxo. Da quando è in pensione, è una seconda vita sulle montagne della Lessinia. "Zappo, semino, bagno, raccolgo. Vivo bene". Vuole condividere, e allora con alcuni amici è venuto fin giù vicino al mare di Genova e in alcune bustine regalava semi di tutto: zucca forte, gialla, costoluta, insalata del Tita (il "Tita" era un vecchio contadino delle sue parti, che ha lasciato una "straordinaria eredità ", racconta), fagiolini nani, tegolini del Monte Pastello. Arriva un signore di Pieve Ligure, lascia un paio di limoni e si prende una bustina. Un altro allunga dei semi di tabacco: "Fa fiori bellissimi, se avete pazienza ci potete riempire la pipa". Giovanni ringrazia. Spiega che il mese scorso ha ritrovato una signora che a Milano fa l'architetto: "Le avevo dato del radicchio rosso veronese. Piccolino, non come quello di Chioggia: mi ha detto che lo ha tenuto in casa e al caldo ha sviluppato un cuoricino stupendo. Era felice". "Giangi" Benetti, un amico, sorride: pure lui faceva l'operaio, poi si è messo a coltivare i campi.
"Qui la gente scambia esperienze che a volte non ci credi: io piantavo da anni una zucca spinosa e non succedeva niente, poi è arrivato uno - di mestiere fa il bancario, pensa un po' - e mi ha spiegato come facevano dalle sue parti, in Piemonte. Ha funzionato". Una fetta di torta di mele: basta e avanza per portarsi via una pianta di fico nero e qualche talea di pruno. Altri arrivano a mani vuote, se ne vanno con le tasche piene. Di semi, di consigli, di storie. Massimiliano Nunziata è un cuoco torinese. Cinque anni fa è tornato per caso a Salerno nel casale del nonno, ha trovato dei vecchi fagioli in una cassetta di alluminio. "Li ho coltivati per sfida. Buonissimi. Magari non redditizi, lo so. Ma veri". La sua è diventata una missione: si è messo in contatto via Facebook con alcuni gruppi e ad oggi ha raccolto un migliaio di differenti varietà. Che regala, in cambio di altre sementi.
L'"altra" agricoltura. Quella che non punta al profitto ma alla qualità anche morale, alla piccola soddisfazione personale. Pure in un metro quadro, in un balcone o in un orto urbano o sociale, come quello chiesto e ottenuto da Luca Fiorelli, studente universitario di Cesate, provincia di Milano: "Un anno fa eravamo in 4: adesso siamo in 30, a coltivare".
Gli italiani riscoprono la terra, in campagna e in città. Vogliono sapere, informarsi. Il mensile Terra Nuova ha 130 mila lettori e come casa editrice ogni anno pubblica circa duecento titoli, altre case editrici - come Pentàgora - vivono di questo. Il gruppo Facebook di Terre Rurali, associazione protagonista del recupero delle varietà di frumento conta su oltre 12 mila iscritti. Sì, vent'anni fa erano dei fuorilegge. "Prima del 2000, scambiarsi semi prodotti dalla propria terra era un delitto punito dal codice con un'ammenda salata. Le uniche varietà di semi ammessi erano quelle stabili, nazionali", racconta Massimo Angelini. Che cominciò una sorta di disobbedienza civile: il primo "scambio delle sementi". Dieci anni fa il governo riconobbe la biodiversità italiana. "Da allora siamo passati da 5 o 6 varietà di frumento conosciute a 110. Tanti panifici, in Puglia e Toscana, Sicilia, li stanno adottando. È solo l'inizio".
L'Avvenire, 15 dicembre 2017
Eppure gli abitanti di Ponte Sasso non ci stanno a passare per razzisti ed hanno appeso davanti alla colonia un maxi striscione con la scritta «Salviamo la nostra infanzia». Quella struttura infatti – a detta dei manifestanti – fa parte della storia della piccola comunità locale che teme che ai 32 minori si possano aggiungere altri migranti. In merito alla vicenda è intervenuto anche l’arcivescovo di Urbino-Urbania-S. Angelo in Vado che, sulla stampa locale, ha invitato a riflettere sul dovere di accoglienza verso ragazzini che non hanno più accanto i genitori. E sulla stessa linea è anche il settimanale Il Nuovo Amico delle diocesi di Pesaro, Fano e Urbino. «Domenica 15 gennaio – scrive la testata cattolica – cade la 103esima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che quest’anno è dedicata proprio ai migranti minori. Il Papa nel suo messaggio sollecita tutti a prendersi cura dei fanciulli che sono tre volte indifesi perché minori, perché stranieri e perché inermi, quando, per varie ragioni, sono forzati a vivere lontani dalla loro terra d’origine e separati dagli affetti familiari. Davvero – conclude l’editoriale – sono un pericolo 32 bambini e adolescenti rimasti soli al mondo?».
Da tempo ormai, in gran parte dei politici di sinistra, è venuta consolidandosi una paradossale forma di automatismo nei modi di pensare la complessità della dimensione politica. Quanto meno essi si misurano con l’analisi delle condizioni materiali tanto più esercitano la fantasia nelle formule verbali.
E maggiormente nelle formule verbali adatte a mantenere la necessaria agilità di esercizio nel contesto del gioco politico. Costoro si sono specializzati nell’uso di parole e/o locuzioni «suggestive», cioè, come recita il Grande Dizionario della Lingua Italiana (Utet), tali da suscitare «uno stato di coinvolgimento emotivo, sentimentale, fantastico (…) che rappresenta evocativamente, pateticamente» piuttosto che analiticamente. Si è cominciato con la destrutturazione del termine «riformismo», ridotto alla piattezza unilineare di un valore positivo in sé indipendentemente dai contenuti, e poi via via all’uso sempre più frequente di parole tese alla costruzione di una retorica che falsifica i dati di realtà. Un uso che tende a consolidare un contesto politico-culturale che si potrebbe definire miserabile. Non in un’accezione ingiuriosa e/o d’invettiva, bensì nell’accezione in cui utilizza il termine Galileo: rinsecchimento della prospettiva intellettuale, o Leopardi: difficoltà a reagire a stimoli intellettuali.
Nell’attuale dibattito politico «di sinistra» è entrata una nuova/vecchia locuzione, una sorta di collettore, come vedremo, delle parole suggestive: «campo progressista».
Renzi ha detto: «Il renzismo non è un incidente di percorso, una parentesi della storia. Questo Pd rappresenta ancora la sinistra riformista italiana» (la Repubblica, 10 gennaio). Un’affermazione sulla dimensione complementare dell’«area progressista» al riformismo di Renzi. Renzismo come «sinistra riformista» ed «area progressista», infatti, appartengono alla stessa sfera della falsificazione tramite evanescenza concettuale, anzi tramite rifiuto esplicito di ogni concettualizzazione. «Riformismo», «progressismo» non si manifestano come concetti, cioè strumenti di analisi, ma come feticci del bene politico.
L’aggettivo «progressivo» usato per definire un «campo» politico già di per sé si riferisce ad un concetto, progresso, la cui ambiguità è da tempo al centro di una vasta letteratura critica. La «ambiguità», comunque, comporta la necessità di pensare problematicamente l’oggetto. Invece, nel modo in cui il «campo progressista» è entrato come proposta politica nel dibattito di «sinistra», non solo non si trova alcuna traccia di pensiero critico, ma neppure nessun elemento di connotazione.
Il «campo progressista», secondo le parole di Pisapia, dovrà essere capace di unire «il civismo, la sinistra, e il centrosinistra» e questo non solo è necessario, ma possibile visto che «sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono» (Corriere della Sera, 10 gennaio). È giusto prendere in parola Pisapia sulle cose che dice di avere in comune con la forza largamente maggioritaria del «campo», il Pd; il problema è il carattere «progressista» delle «cose» vista la connessione essenziale che queste non possono non aver con la «cosa» Pd. Si invoca la «discontinuità», ma ci si guarda bene dal cercare le ragioni di una «continuità» che nel suo fondo resta immodificabile.
Un personalità del Pd, Goffredo Bettini, argomenta in questi termini la necessità dell’autocritica relativa ad uno dei punti chiave della invocata discontinuità: occorre che il Pd ponga rimedio alla «scarsa empatia» dimostrata «verso la sofferenza dei disagiati» (Blog Bettini, 7 dicembre). Parole analoghe a quelle che avrebbe usato un filantropo dell’Ottocento. D’altra parte quali sono gli strumenti tramite i quali è possibile aumentare il livello di empatia nei confronti dei «disagiati»? Gli scritti dell’ala sinistra del «campo progressista», e della parte del Pd che ha riscoperto la sua «anima» di sinistra, abbondano di esortazioni ad affinare la capacità di «ascoltare» i lamenti dei «più deboli» (Chiamparino), le esortazioni a rappresentare, nell’ambito dei progressisti, il gruppo con la maggiore «sensibilità» sociale.
«Empatia», «ascolto», «sensibilità», con qualche variazione di sinonimi, rappresentano il vocabolario che esprime l’orizzonte delle cose che «uniscono» il «civismo, la sinistra, il centrosinistra». L’oggetto di queste manifestazioni «empatiche» sono i «disagiati», i «diseredati», i «deboli». Per ora ci vengono risparmiati gli «umili».
In verità ogni tanto appare anche il termine «esclusi». Con un po’ di sforzo si potrebbe anche arrivare a vedere i «superflui». Ecco, magari riflettere sui meccanismi che creano continuamente una umanità superflua, sarebbe forse meno emotivamente accattivante, ma analiticamente più produttivo per dare senso ai variabili percorsi del «progresso». Si tratterebbe infatti di ragionare sui modi di accumulazione del capitale nelle diverse fasi. Si tratterebbe di «vedere se gli “animosi intelletti” che ancora si arrovellano nel pensare la politica, e magari provano anche a farla» abbiano la voglia di usare la strumentazione analitica del profondo, «e, eventualmente, il coraggio di tentare un radicale ripensamento della prospettiva della sinistra» (C. Galli, Ragioni Politiche, 6 Gennaio)
Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2017
Il rimpatrio dei sequestrati è sempre un momento magico. Anche se nessuno di noi può immaginare l’agonia da loro sofferta, vederli scendere dalla scaletta dell’aereo e riabbracciare i propri cari ci fa partecipare alla loro gioia. E’ come guardare un film a lieto fine: sorridiamo e siamo contenti perché il bene ha trionfato sul male. Ma questo momento di gioia nazionale ha un prezzo molto alto.
L’Italia è il Paese che paga i riscatti più ricchi ed allo stesso tempo quello che ha sofferto il numero maggiore di sequestri. Una verità che le imprese di sicurezza e quelle di assicurazioni conoscono bene, ma di cui anche gli italiani sono a conoscenza. Naturalmente, come tutti i governi europei, il nostro nega qualsiasi coinvolgimento finanziario con i sequestratori. Ma le prove che ciò avviene le abbiamo viste tutti, ad esempio nel documentario sul business dei riscatti di al Jazeera (dal titolo ‘The hostage business’) dove la telecamera ha ripreso una piramide di contante destinata ai sequestratori di Domenico Quirico e del suo compagno di prigionia, il belga Piccinin da Prata. Tuttavia, la maggior parte dei riscatti non pagati per liberare giornalisti conosciuti ma operai e tecnici che lavorano in zone ad alto rischio. E le cifre sono da capogiro. Secondo l’Europol il business dei riscatti nel 2015 ha superato i due miliardi di dollari e una delle zone più battute dai sequestratori è stata ed è tutt’ora la Libia dove l’Italia ha grossi interessi economici.
Gli ultimi ostaggi italiani sequestrati in Libia erano due operai piemontesi e un italo-canadese che lavoravano alle riparazioni dell’aeroporto di Ghat per conto di una società di Mondovì, in provincia di Cuneo, la Con.I.Cos. Sono stati liberati nel novembre del 2016. Ghat si trova nel Sud-Ovest della Libia, proprio sul confine con l’Algeria, un crocevia importantissimo del Sahel. Qui si intersecano le piste del contrabbando che partono dal Sud dell’Algeria e dal Niger, tratturi di sabbia lungo i quali viaggiano i migranti dell’Africa occidentale e orientale, tutti diretti in Europa.
Ghat è territorio tuareg, l’etnia berbera che neppure Gheddafi è mai riuscito a piegare. Da più di un decennio i tuareg cooperano con al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), il gruppo jihadista che nel 2003 si autofinanziò con i primi rapimenti di stranieri nel Sahel e che per primo ha investito parte dei proventi dei riscatti nel contrabbando dei clandestini africani. E già da sequestratori i jihadisti di Aqimi sono diventati contrabbandieri di clandestini e come loro altri lo hanno fatto perché questo è un business ancora più remunerativo dei sequestri. Secondo l’Europol, tale traffico nel 2015 ha fruttato tra i tre e i sei miliardi di dollari e l’80 per cento dei clandestini era diretto in Europa e transitava per il nord Africa o il Medio Oriente.
Il sud della Libia è un crocevia importantissimo. Dopo la caduta di Gheddafi, i tuareg hanno collaborato con altri gruppi armati libici, alcuni vicini ai Fratelli Musulmani, che hanno partecipato alle trattative per il rilascio degli ostaggi italiani. I jihadisti siano di casa a Ghat, diventata una sorta di Tortuga del deserto, rifugio sicuro per i mercanti di uomini – bande criminali e jihadiste – che si arricchiscono trafficando in vite umane.
A Ghat i sequestratori si scambiano merce preziosa: gli ostaggi. Da Ghat si negoziano i riscatti. A Ghat i contrabbandieri di migranti imprigionano coloro che a parere loro val la pena sequestrare lungo il cammino verso l’Italia, e aspettano che le famiglie paghino i riscatti per portarli sulle coste libiche e da lì in Italia. A Ghat è difficile distinguere i contrabbandieri dai trafficanti, i sequestratori dai membri dei gruppi armati. Sono vestiti uguali, portano le stesse armi, guidano gli stessi Suv e si finanziano nello stesso modo. Le fonti principali di reddito sono i riscatti e i guadagni generati dal contrabbando di prodotti e di migranti. Un’industria altamente integrata, questa, dove il denaro, indipendentemente da come viene guadagnato, circola di continuo.
Tutto questo avviene in un paese poco distante da casa nostra, un’ex colonia, una nazione semi-fallita con la quale non abbiamo mai smesso di fare affari.
MicroMega online, 13 gennaio 2017 (c.m.c.)
Professor Gustavo Zagrebelsky, è trascorso più di un mese dal referendum costituzionale e lei non ha ancora detto una parola dopo la vittoria del No. Perché?
La campagna elettorale è stata lunga e faticosa. Ora è il tempo della riflessione e di qualche bilancio. Sarebbe insensato accantonare il 4 dicembre come se quel voto non avesse rivelato una realtà più dura di tutti gli slogan.
Che Italia ha incontrato, nei suoi incontri per il No?
Una realtà che non appare nei grandi media: a proposito di post-verità… I tanti che si sono impegnati hanno ricevuto centinaia di inviti da scuole, università, associazioni, circoli d’ogni genere. Soprattutto da giovani, da molti di quelli che alle elezioni politiche si astengono, ma al referendum costituzionale hanno partecipato. Si può pensare che un 20 per cento della grande affluenza sia venuta da lì. E con ciò non voglio certo dire che il No ha vinto per merito dei giuristi e dei professori.
Perché ha vinto il No?
Credo che ci siano molte ragioni e che l’errore del fronte del Sì sia stato di far leva su una sola parola, semplice ma vuota: riforme. Si sono illusi che la figura del presidente del Consiglio e del suo governo fosse attrattiva. Si era pensato a un plebiscito in cui ci si giocava tutto e così, per reazione, si è coalizzato un fronte di partiti, pezzi di partiti e movimenti tenuti insieme dal timore della vittoria totale dell’altro. Ma lo slogan inventato dai ‘comunicatori’ – “è oggi il futuro” – non era un presagio funesto, quasi un insulto, per i tanti che vivono un tragico presente? Non sottovalutiamo poi la pessima qualità della riforma. Spesso è stato sufficiente leggerne qualche brano.
Quella l’abbiamo notata in pochi…
Col senno di poi, trovo stupefacente che molti miei colleghi, politici esperti, uomini di cultura vi abbiano trovato motivi di compiacimento. Ma, forse, non avevano letto il testo. Poi quel 20 per cento di elettori di cui parlavo, e che ottusamente ci s’incaponisce a definire “antipolitici”, hanno colto l’occasione altamente “politica” per alzare la testa in nome della Costituzione. In generale, e più in profondo, credo che molti abbiano colto i veleni contenuti in tutta questa triste vicenda che ci ha tenuti inchiodati per così tanto tempo.
Quali veleni?
Quello oligarchico e quello mercantile, che hanno insospettito molti elettori. Sono stati molti cittadini a domandarsi: ma se, come martella la propaganda del Sì, la “riforma” è solo un aggiustamento tecnico – velocità e semplificazione, peraltro contraddette da norme tanto farraginose – perché mai le grandi oligarchie italiane ed estere si spendono in modo così spasmodico perché sia approvata? Ci dev’essere sotto qualcosa di ben più grosso e, se non ce lo dicono, dobbiamo preoccuparci.
Che c’era sotto?
Il disegno di restringere gli spazi di partecipazione, cioè di democrazia, per dare campo ancor più libero alle oligarchie economico-finanziarie. I cittadini hanno presenti i propri bisogni reali: giustizia sociale e dunque fiscale, uguaglianza di diritti e doveri, attenzione a emarginati e lavoro. E si sono sentiti rispondere: più velocità, più concentrazione del potere, mani più libere per pochi decisori.
Cosa hanno voluto dire i 20 milioni di elettori del No?
Voltiamo pagina dalle politiche neoliberiste e dalla svendita del patrimonio pubblico che monopolizzano il dibattito culturale, accademico, giornalistico e politico da 30 anni e hanno prodotto tanti disastri sociali. Operazione completata con la riforma costituzionale dell’articolo 81, cioè dell’equilibrio di bilancio sotto l’egida della Commissione europea, approvata in fretta e furia sotto il governo Monti da centrodestra e centrosinistra nel silenzio generale. Ecco: proponeteci un’altra politica.
Che c’è di male nell’imporre bilanci in ordine?
L’equilibrio di bilancio comporta di fatto la rinuncia alla politica keynesiana di investimenti pubblici per creare sviluppo e lavoro, cioè la pura e semplice rinuncia alla politica. In nome del primato assoluto dell’economia finanziarizzata. Come in Grecia, dove la democrazia è stata azzerata. Nei miei incontri per il No, ho colto una gran fame di politica, cioè di una sana competizione fra politica ed economia, senza il predominio della seconda sulla prima.
Si spieghi meglio.
Fare politica significa scegliere liberamente tra opzioni: se tutto è obbligato da istituzioni esterne, grandi banche e fondi d’investimento, la politica sparisce. È la dittatura del presente, un presente repulsivo per molte persone. Nella dittatura del presente la politica sparisce e la democrazia diventa una farsa. Le elezioni diventano un intralcio, a meno che le oligarchie non siano sicure del risultato. Il sale della democrazia è l’incertezza del responso popolare. Invece si preferisce uno sciapo regime del consenso.
E, dopo il referendum, ecco il governo-fotocopia.
Distinguiamo tra Gentiloni e il suo governo. Il nuovo premier, rispetto al precedente, è una novità: è educato, parla sottovoce, dice cose di buonsenso e appare poco in tv, non spacca l’Italia tra pessimisti (anzi “gufi” e “rosiconi”) e ottimisti, fra conservatori e innovatori a parole. Quando il penultimo premier lo faceva, a reti unificate, il minimo che potevi fare era cambiare canale o spegnere la tv. Ora quella finta contrapposizione è finita. Gentiloni pare dire le cose come stanno o, almeno, non dire le cose come non stanno. E il presidente Mattarella, a Capodanno, ha richiamato l’attenzione su tante cose che non vanno. Uno statista deve dire che il futuro non è oggi, ma va costruito da oggi con enormi sacrifici, e che i sacrifici devono distribuirsi tra coloro che possono sopportarli e, spesso, hanno vissuto finora da parassiti alle spalle degli altri.
Vedo che Renzi lei non lo nomina proprio… E del governo Gentiloni che dice?
È il rifiuto di guardare la realtà, una riprova dell’autoreferenzialità del politicantismo. Quasi uno sberleffo dopo il 4 dicembre. Era troppo sperare che si prendesse atto dell’enorme significato politico del referendum, del colossale voto di sfiducia che l’elettorato ha espresso nei confronti degli autori della tentata “riforma”? Non è una questione personale: saranno tutte ottime persone. Ma è una questione politica. Invece, Maria Elena Boschi, la madrina della “riforma”, è stata promossa in un ruolo-chiave nel governo e la coautrice e relatrice, Anna Finocchiaro, è diventata ministro. Mah! L’unica novità è la ministra dell’Istruzione, subito caduta sul suo titolo di studio. Per il resto, uno scambio di posti. Ma per i nostri politici, forse perché sospettano di contare poco o nulla, chiunque può fare qualunque cosa.
Non hanno capito o fingono di non capire tutti quei No?
Con i sondaggi che danno la fiducia nei partiti avviata verso il sottozero, verrebbe da credere che Dio acceca chi vuol perdere.
Che si voti ora o nel 2018, siamo comunque a fine legislatura.
Lei ne è così sicuro? Io un po’ meno. Si dice che occorre armonizzare le leggi elettorali di Camera e Senato. È giusto. Ma, se non le armonizzano entro il 2018, cioè alla naturale scadenza della legislatura, che succede? Si dirà che, per forza maggiore, per il momento, non si può ancora andare al voto?
Pensa seriamente che potrebbero farlo?
Non mi stupisco più di nulla. La continuità, ribattezzata stabilità, sembra essere diventata la super-norma costituzionale. Il governo Gentiloni non ne è una dimostrazione, in attesa che si ritorni al prima del referendum?
Dicono: non si può votare subito perché il No ha mantenuto il Senato elettivo con una legge elettorale diversa da quella della Camera.
La colpa sarebbe dunque degli elettori? E non di coloro che hanno scritto leggi con la sicumera di chi ha creduto che l’esito scontato del referendum sarebbe stato un bel Sì? Così, la riforma delle Province della legge del 2014 è stata scritta “in attesa della riforma del Titolo V della Costituzione” e l’Italicum è nato sul presupposto dell’abolizione del Senato elettivo. Si può legiferare, tanto più in materia costituzionale, “nell’attesa di…”? Che presunzione! E la colpa sarebbe dei soliti cattivi che deludono le rosee attese… Suvvia…
Napolitano e Mattarella dovevano respingere le due leggi?
Io credo che ci fosse un abbaglio generalizzato: tutti pensavano che le cose sarebbero andate inevitabilmente come poi, invece, non sono andate. Era l’ideologia delle riforme, della volta buona, dell’Italia che riparte, degli italiani in spasmodica attesa da trent’anni… Che cos’è l’ideologia, se non la presunzione di spiegare il mondo a venire tramite le proprie granitiche convinzioni e di tacitare i dissenzienti come eretici? Quelli del No tante volte, in questi due anni perduti, si sono sentiti bollare d’eresia. La verità erano le riforme e i garanti delle istituzioni, se non sono stati essi stessi tra i promotori di quella verità, come il presidente Napolitano, l’hanno probabilmente subita, come il presidente Mattarella, insieme allo stuolo di commentatori e costituzionalisti che non hanno guardato le cose con il distacco che avrebbe fatto vedere loro entrambi i lati delle possibilità. Se lei mi chiede se i garanti avrebbero dovuto aprire gli occhi e moderare l’arroganza e la vanità dei “riformatori”, la risposta è sì. Ora il peccato originale di questa legislatura presenta il conto.
Peccato originale?
Nel 2014, dopo la sentenza della Consulta sul Porcellum che delegittimava il Parlamento, pur lasciandolo provvisoriamente in vita, si sarebbe dovuto, appena possibile, tornare alle urne. Una legge uniforme per le due Camere, allora, c’era: quella uscita dalla sentenza, il cosiddetto “Consultellum”. Ma anche su questo s’è fatto finta di niente, contando sul fatto che i buoni risultati – su tutti la magica riforma costituzionale – avrebbero fatto aggio sul difetto di legittimità originaria, di cui nessuno avrebbe più parlato. Buoni risultati? Il giudizio l’ha appena dato il corpo elettorale.
Cosa si aspetta ora dalla Consulta, che il 24 si pronuncerà sull’Italicum?
Se valgono le ragioni scritte nei precedenti costituzionali, e non ragioni d’altro tipo, pare di capire che è incostituzionale anche l’Italicum: per i capilista bloccati cioè nominati, per il premio abnorme di maggioranza e per la difformità fra il sistema ipermaggioritario della Camera e il Consultellum proporzionale del Senato.
E sulla bocciatura del referendum della Cgil sull’abolizione dell’articolo 18?
Da ex giudice costituzionale, ho un obbligo di discrezione. Una sola osservazione: sono sconcertato dal fatto che escano notizie, fondate o infondate che siano, sugli schieramenti con nomi e cognomi formatisi nella camera di consiglio, dove dovrebbe regnare il riserbo assoluto.
Cosa si augura di qui alle elezioni?
Che si ricominci a fare politica, non con manovre di palazzo ma con progetti per l’avvenire che ci facciano uscire da questo tempo esecutivo che ha bandito la politica, se non come mera lotta per l’occupazione dei posti di potere. Tolto di mezzo il referendum, che è stato un fattore di congelamento anche delle idee, mi auguro un periodo di disgelo. Spero che si ricominci a progettare politicamente e, attorno ai progetti, si raccolgano le forze sociali disposte a partecipare. Il Pd, così come è stato negli ultimi tempi, è uno dei problemi. Il congelamento della politica è dipeso anche da quel partito che è apparso finora come incantato o inceppato dal suo presunto salvatore. Mi augurerei una terapia di disincantamento. Si sente l’esigenza di qualcuno che alzi gli occhi e guardi oltre il giorno per giorno.
A modo suo, sta cercando di ristrutturarsi il M5S: codice etico, scouting per la classe dirigente, programma, alleanze in Europa.
Stanno scoprendo la politica, evviva! Spero che si pongano il problema politico delle alleanze. In democrazia, le alleanze e anche i compromessi non sono affatto il demonio. La questione è con chi, a che prezzo e per che cosa. Chi stipula buoni accordi dà il segno della propria forza, più di chi si isola nella propria diversità. Così come è segno di forza dire, nel “codice etico”: non mi affido alla regoletta automatica secondo cui un avviso di garanzia comporta l’allontanamento dal movimento; ma mi assumo la responsabilità di leggere quel che c’è scritto e poi di dire: “Questa condotta è difendibile, faccio quadrato attorno a te; questa invece è indifendibile e ti mando via”. Sui fatti, non sull’avviso in sé. Altrimenti ci si mette alla mercé della denuncia d’un calunniatore o di un avversario, o del ghiribizzo d’un pm.
E la figuraccia in Europa, tra Farage e i Liberali?
Le darei meno peso politico: cattiva gestione d’un problema di tattica parlamentare, che accomuna sempre tutti coloro che stanno in un Parlamento. Sono altri i punti che i 5Stelle devono chiarire.
Per esempio?
Democrazia interna, selezione della classe dirigente, programma, politica estera, immigrazione. Sui migranti, a proposito di rimpatri, Grillo in fondo dice la stessa cosa del governo che veglia sulla nostra sicurezza, secondo la legge. Ma, non esistendo una posizione chiara o chiaramente percepita del M5S, qualunque cosa dica può essere accusato ora di deriva lepenista, ora di lassismo buonista.
I 5Stelle insistono per il referendum sull’euro.
La Costituzione non lo prevede. Ma un referendum informale per dare un’idea di massima degli orientamenti tra i cittadini, non vedo perché non sia possibile. Piuttosto, anche qui, occorre la chiarezza delle posizioni. Uscire dall’euro, come, quando e con quali conseguenze? Contestare l’Europa per distruggerla e tornare alle piccole patrie, o per rifondarla, e come? Tra tutti gli Stati attuali, o solo con il nucleo più omogeneo? E così via.
Se i 5Stelle vincono le elezioni, che succede?
Si farà di tutto per impedirglielo. Anzitutto con una legge elettorale ad hoc: quella proporzionale. Quando il Pd vinse le Europee col 41%, l’Italicum col premio di maggioranza a chi arrivava al 40% era la legge più bella del mondo. Ora che i sondaggi ipotizzano un ballottaggio vinto dal M5S, non va più bene e si vuol buttare via una legge mai usata: roba da perdere la faccia. Non per nulla la Commissione di Venezia e la Corte di Strasburgo nel 2012 (Ekoglasnost contro Bulgaria) hanno detto che non si cambia legge elettorale nell’imminenza delle elezioni. Ma anche qui arriva il conto di troppe miopie.
Quali miopie?
Dal 2013 una classe politica lungimirante avrebbe tentato di parlamentarizzare i 5Stelle. Invece li hanno demonizzati e ostracizzati. E ora non sanno più come neutralizzarli se non col proporzionale, che ci riporterà alle larghe intese Pd-Forza Italia. Nulla di scandaloso di per sé (vedi la grande coalizione tedesca). Ma in Italia il rischio è che sia l’ennesimo traffico di interessi, con fine ultimo di restare comunque a galla.
I 5Stelle non sono pronti per governare. Non le fanno paura?
Chi governa lo decidono gli elettori. Sotto certi aspetti, chiunque disponga del potere dovrebbe fare paura. A parte ciò, come già sta avvenendo dove governano i 5Stelle, le nuove responsabilità impongono loro di cambiare pelle, natura e, spero, anche toni: più oggettività e meno proclami. Se si pensa che il problema sia afferrare il potere, perché poi tutto scorra facilmente, ci si sbaglia di grosso.
Il M5S ha difeso la Costituzione dalla “riforma” , ma vuole il vincolo di mandato contro i voltagabbana, che ora vengono multati.
C’è una soluzione più semplice e costituzionale: il parlamentare è libero di cambiare partito e anche di votare come vuole, in dissenso dal suo gruppo. Ma, se lascia la maggioranza con cui è stato eletto per passare all’opposizione, o viceversa (caso molto più frequente), subito dopo deve decadere da parlamentare: perché ha tradito i propri elettori e ha stravolto il senso politico della sua elezione.
Lei vive a Torino: che gliene pare di Chiara Appendino?
Non l’ho votata, perciò posso dire in totale libertà che è una felice sorpresa. Ha detto che non tutto quel che s’è fatto prima è da buttare: ecco la forza della continuità. È più fortunata di Virginia Raggi, che a Roma ha trovato una situazione infinitamente più compromessa: lì è difficile salvare qualcosa del passato. Ma vedo che, ai 5Stelle in generale e alla Raggi in particolare, non si perdonano molte cose che si perdonano agli altri. Due pesi e due misure.
Anche a giornali e tv si perdonano bugie e falsità, mentre per il Web s’è perfino coniato il neologismo della “post-verità”.
Come se, prima del Web, l’informazione fosse il regno della verità! Da sempre la menzogna è un’arma del potere, lo teorizzava già Machiavelli. Il che non significa che la si debba accettare. Anzi, occorre combatterla, perché la verità è, invece, l’arma dei senza potere contro i prepotenti. La Verità non esiste, ma la verità sì. Almeno sui dati e sui fatti oggettivi. Poi le interpretazioni sono libere.
Si dice che il successo di Trump, della Brexit e dei 5Stelle contro gli establishment è colpa delle fake news sul Web.
Troppo facile. Le bufale del Web sono così dozzinali che chi ha un minimo di conoscenza può facilmente respingerle, perché quella è una comunicazione orizzontale: verità e bugie, spesso anonime o firmate da ignoti, non hanno autorevolezza e si elidono reciprocamente. Invece la somma delle bugie o delle reticenze diffuse dalla stampa e dalle tv sono firmate, dunque più autorevoli, ergo meno smentibili, perché quella è una comunicazione verticale. Occorrerebbe bloccare gli interventi anonimi sul Web, così sarebbe più facile distinguere chi è credibile e chi no. Se poi qualcuno diffama, si creino procedure giudiziarie rapide. La difesa della reputazione delle vittime è inconciliabile con i tempi lunghi. Ma le fake news diffuse per turbare l’ordine pubblico sono già ora materia penale. Per il resto, questa storia della post-verità mi pare un discorso falso: come se, prima, non esistesse e vivessimo nel paradiso della verità.
Che intende dire?
Da quando gli elettori disobbediscono regolarmente agli establishment, questi cercano scuse per giustificare le proprie sconfitte e per mettere le mani sull’unico medium che ancora non controllano: la Rete. Si sentono voci autorevoli domandare: ma non vorremo mica far votare gli ignoranti, anzi i “populisti”? Se lo chiedeva già Gramsci: è giusto che il voto di Benedetto Croce valga quanto quello di un pastore transumante del Gennargentu? La risposta, di Gramsci ieri e di ogni democratico oggi, è semplice: se il pastore vota senza consapevolezze, è colpa di chi l’ha lasciato nell’ignoranza; e se tanta gente vota a casaccio, è perché la politica non gli ha fornito motivazioni adeguate. Questi signori pensino a come hanno ridotto la scuola, la cultura e l’informazione: altro che il Web!
Grazie, professore.
Sbilanciamoci info, 13 gennaio 2017 (c.m.c.)
L’anno da poco finito lascia, per unanime considerazione, diverse pesanti eredità a quello nuovo. Tra di esse, vogliamo ricordare i problemi economici, sociali, politici, del nostro continente, che, tra l’altro, sembrano per alcuni aspetti aggravarsi con il tempo. Va in particolare sottolineato che chi, nel corso degli ultimi anni, ha almeno un po’ sperato che la Germania, i suoi politici, la sua opinione pubblica, alla fine arrivassero non solo a capire sino in fondo il quadro della situazione, ma anche a cercare di contribuire ad alleviare i rilevanti punti di crisi che la loro rigida politica di austerità ha portato all’Europa, ormai dovrebbe essersi ampiamente ricreduto; questo, a meno di rifiutarsi ancora, cosa che di frequente capita e a molte persone, di guardare in faccia la realtà e di arrendersi all’evidenza dei fatti, che, come è noto, sono testardi.
In effetti, l’analisi degli avvenimenti degli ultimi mesi sembra suggerire chiaramente che la costruzione europea si sta a poco a poco ormai letteralmente disfacendo. Non si tratta soltanto del fatto che l’economia di molti paesi non riesce più a riprendere veramente slancio, ma anche dello sviluppo di forti sintomi di rigetto della costruzione europea da parte di strati crescenti della popolazione del continente, dell’affermarsi sempre più importante di sentimenti nazionalisti e xenofobi, della mancanza di qualsiasi seria reazione al riguardo nell’UE e nell’eurozona. Tutte cose, peraltro, ampiamente note.
Certo, non sono soltanto i tedeschi ad avere delle colpe evidenti in quello che sta succedendo; così accuse molto rilevanti si possono giustificatamente addossare alla Francia e, per altro verso, i guai dell’Italia sono per una parte consistente colpa nostra.
Per quanto riguarda il paese transalpino, poi, si può aggiungere en passant che il candidato che più probabilmente dovrebbe conquistare la presidenza della repubblica alle prossime elezioni, Francois Fillon, promette, tanto per cambiare, di applicare un programma di austerità interna piuttosto duro. Egli minaccia, tra l’altro, di mandare a casa 500.000 funzionari pubblici e di intervenire pesantemente sulla sanità, oltre, ovviamente, a prendersela in ogni modo con gli immigrati.
Ma comunque i tedeschi, dall’alto della loro forza economica e politica e per il fatto che sono loro a guidare sostanzialmente e per una parte molto rilevante il gioco a Bruxelles, rappresentano la forza con le responsabilità maggiori della presente situazione del continente e in ogni caso gli ideologi dell’austerità a tutti i costi.
I tedeschi all’offensiva
Che la Merkel, Schauble e compagnia non abbiano alcuna voglia di cambiare idea, almeno sul terreno economico e finanziario, è dimostrato negli ultimi tempi da una serie di fatti sempre più numerosi che si vanno allineando implacabilmente uno dopo l’altro.
Va considerato che l’avvicinarsi delle elezioni, visto anche l’irrigidimento almeno di una parte consistente dell’opinione pubblica, non permetterebbe loro probabilmente, in ogni caso, di mostrare una qualche nuova visione delle cose, ammesso che ne avessero voglia, ciò di cui si può comunque ampiamente dubitare, di fronte ad esempio alle ormai quasi quotidiane dichiarazioni oltranziste di Schauble e di chi lo circonda.
Cerchiamo a questo punto di allineare alcune delle vicende che documentano lo stato delle cose nel paese teutonico.
Valutando che la sola politica realista per l’Europa sia oggi quella dell’applicazione stretta del trattato di Maastricht, il governo tedesco e i dirigenti della Bundesbank non cessano di scagliare i loro strali contro chiunque tenti anche alla lontana di deviare dall’obiettivo indicato.
Così è toccato soprattutto al presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, di prendersela a più riprese con Mario Draghi, accusato, con la sua politica di quantitative easing e di bassi tassi di interesse, di aver permesso ai cattivi allievi del Sud Europa di non portare avanti le riforme necessarie (Leparmentier, 2016).
Sotto la mannaia tedesca sono anche finiti e a più riprese anche il presidente della Commissione, Claude Junker e il commissario Pierre Moscovici, rei, secondo loro, di portare avanti una gestione “politica” e non tecnica dell’euro, rifiutato le giuste sanzioni contro Madrid e Lisbona per le loro derive budgetarie, mostrandosi anche troppo tolleranti con l’Italia e di aver persino chiesto –cosa inaudita- un piano di rilancio budgetario europeo (Leparmentier, 2016).
Non sono mancati poi gli attacchi diretti ai paesi del Sud.
Così, poche settimane fa, la Germania è quasi riuscita a bloccare gli ulteriori flussi di denaro promessi alla Grecia solo perché il governo ellenico aveva distribuito modeste somme ai pensionati più poveri. In questo caso è stata, tra l’altro e per fortuna, l’opposizione decisa della Francia, nella persona in particolare di Pierre Moscovici, che ha forse fermato la mano del boia.
Infine, per quanto riguarda il nostro paese, la cartina di tornasole dell’atteggiamento tedesco è stata la decisione ormai obbligata del nostro governo di intervenire direttamente per salvare il sistema bancario, in particolare con l’operazione sul Monte dei Paschi. In Germania, approfittando anche naturalmente del modo maldestro con cui è stata messa a punto l’operazione, c’è stata quasi una unanime sollevazione contro tale decisione, da parte di CDU e socialdemocratici, della solita Bundesbank, dal consiglio dei cinque saggi, degli istituti di ricerca, di molti giornali.
Da qualche tempo aleggia poi su Bruxelles una proposta di Schauble che vorrebbe legare le risorse che oggi l’Europa spende per la politica di coesione e per quella agricola a finanziare le cosiddette “riforme strutturali” dei paesi membri. Bisognerebbe in ogni caso, per il ministro, collegare le risorse di bilancio dell’Unione alle raccomandazioni di politica economica proposte ogni anno da Bruxelles. E’ facile dedurre che la principale destinataria della proposta è proprio l’Italia (Chiellino, 2016).
Sullo sfondo stanno le riflessioni crescenti di una parte almeno dei circoli dirigenti del paese sempre più orientati a vedere l’Italia come un peso per l’Europa e a preferirla fuori dall’euro (Business insider, 2016).
Conclusioni
La Germania, con il passare del tempo, continua a non mostrare grandi segni di consapevolezza della potenzialità della crisi che l’Europa attraversa ed anzi sembra irrigidirsi nelle sue idee. Del resto le attuali politiche europee e il livello di cambio dell’euro vanno molto bene al paese teutonico, anche se certamente non a molti altri. Né le prossime elezioni francesi possono apparentemente portare a delle novità positive.
Una flebile speranza di cambiamento viene ora comunque da Sigmar Gabriel, il candidato socialdemocratico alle prossime elezioni parlamentari del nostro ingombrante vicino. Di recente egli sembra aver cambiato tono rispetto agli orientamenti precedenti del partito e predica ormai la necessità di una revisione della politica di austerità, che riconosce essere dannosa per l’Europa. Ma il possibile peso di tali dichiarazioni sul futuro delle politiche tedesche appare quanto mai aleatorio.
Testi citati nell’articolo
-Chiellino G., Il “ricatto” tedesco sui fondi, Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2016
-Lepartmentier A., Maastricht ou Thatcher?, Le Monde, 1 dicembre 2016
-Business Insider Italia, La Germania spinge l’Italia fuori dall’euro, Draghi fa muro, www.repubblica.it, 26 dicembre 2016
Don Virginio Colmegna riflette sull' "emergenza freddo" di queste settimane. Ne approfittiamo per chiedere ai lettori di eddyburg di area milanese di mobilitarsi: per favore, portate alla Casa della Carità coperte, giacconi, indumenti invernali maschili e scarpe. Il servizio docce è in grande difficoltà!
la Repubblica Milano, 13 gennaio 2017 (m.c.g.)
Perché non vanno nei dormitori? Perché rifiutano l’accoglienza? Perché preferiscono la strada anche con queste temperature? In questi giorni di gelo, sono domande che mi capita spesso di sentire quando si parla di senza dimora. Ne ho conosciuti parecchi e altrettanti ne incontro ogni giorno. Eppure una risposta non ce l’ho. O meglio, non ne ho una sola, univoca, ma tante e diverse. Come tante e diverse sono le persone che in questo inverno continuano a dormire all’addiaccio.
Luigi lo fa perché in dormitorio ha avuto brutte esperienze, Maria perché ha problemi di salute mentale, Abdel perché è senza documenti, Aleksander perché, da poco in Italia, ancora non sa dove chiedere aiuto ed Emanuele perché non vuole separarsi dal cane. Sono motivazioni che possono essere considerate sensate o folli, ma che ci ricordano quanto gli homeless non siano una massa indistinta e omogenea. Sono persone senza dimora, certo, ma pur sempre persone che, in quanto tali, hanno un’individualità, una storia, relazioni, necessità e idee, giuste o sbagliate che siano. Il dovere di aiutarle però rimane. E non solo quando le temperature scendono sotto zero.
Le assi lungo cui muoversi sono due. La prima è strutturale e di lungo periodo, ed è la lotta alla povertà, intesa in una doppia accezione: prevenzione, da un lato, e percorsi di uscita, dall’altro. Mi sono già augurato che Milano diventi in questo ambito un esempio nazionale e, quindi, spero proprio che nel 2017 si affronti seriamente il tema del reddito di base. Nel frattempo però - e questa è la seconda direzione - serve aiuto per chi in strada già c’è. In Italia i senza dimora sono 50.724. Come ha dichiarato la presidente fio.PSD Cristina Avonto, «se si lavorasse in una logica di programmazione, durante tutto l’anno, quando arriva l’inverno non saremmo in questa situazione». Ha ragione: per proteggere davvero i senza dimora dal freddo, servono percorsi continuativi di conoscenza e fiducia.
Anche Milano deve operare in quest’ottica, pur tenendo conto delle sue peculiarità. La nostra è la città che in tutto il Paese ospita il maggior numero di homeless: 12.004. Ed è anche uno dei centri che oggi mette a disposizione più posti durante la cosiddetta “emergenza freddo”: 2.780, il doppio rispetto al 2010. Eppure, in questi giorni, alcuni di questi letti, tra i 200 e i 300, sono rimasti vuoti. Sembra un paradosso. Io credo debba debba diventare uno stimolo.
Dopo l’aspetto quantitativo, bisogna migliorare anche l’aspetto qualitativo dell’accoglienza. Più che dormitori, servono alberghi e non sto parlando di stanze singole, bagni lussuosi e stelle di qualità. Gli alberghi vanno incontro alle esigenze dei loro clienti. Così dovrebbero fare anche i servizi per la grave emarginazione, offrendo risposte non massificate, il più diversificate possibili, adatte alle diverse esigenze, segnate da una continuità della relazione e da una pluralità di servizi.
Non solo. Esiste una porzione di popolazione senza dimora che faticherebbe comunque a entrare nel circuito dell’ospitalità. È il caso di quel cittadino polacco mancato per il freddo in via Antegnati alcuni giorni fa. Milano deve occuparsi anche delle persone come lui, mettendosi proattivamente alla loro ricerca, andando loro incontro non solo durante l’inverno.
Credo sia necessario allora creare un osservatorio che monitori tutte quelle aree dove il disagio è forte e nascosto. Penso a una struttura snella che raccolga informazioni, segnali criticità e interagisca coi servizi. Ma soprattutto immagino uno strumento utile alle istituzioni, per far sì che il freddo, anche il più improvviso e rigido, non sia più un’emergenza per Milano e i suoi cittadini senza dimora.