Il FattoQuotidiano online, 23 febbraio 2017 (p.s.)
Nonostante lo spirito combattivo, alla fine i migliaia di membri della tribù di indiani Sioux di Standing Rock che si opponevano al passaggio di un oleodotto sul territorio della loro riserva, nel North Dakota, hanno perso la loro battaglia. Lo sgombero definitivo dell’accampamento allestito da quasi un anno dagli indigeni, insieme a molti ecologisti, sarà avviato e completato da parte delle autorità statunitensi. Sioux e attivisti non hanno rinunciato a lottare fino all’ultimo: dieci persone sono state fermate, perché stavano cercando di impedire l’accesso degli agenti nell’accampamento. Prima dell’arrivo delle autorità, gli attivisti hanno appiccato una ventina di fuochi come ‘cerimonia di addio’.
Finisce così una battaglia che solo a dicembre sembrava ormai vinta dagli Sioux. A fine 2016 Barack Obama aveva deciso di non concedere all’azienda costruttrice il permesso di realizzare l’opera, per la quale era stato studiato un percorso alternativo. Ma già allora Donald Trump aveva avvertito: «Deciderò io». Così ha fatto: lo scorso 7 febbraio ha annunciato di essere pronto a consentire la costruzione dell’oleodotto attraverso il fiume Missouri e il lago Oahe nel North Dakota. Il 24 gennaio il presidente ha firmato due ordini esecutivi per rilanciare il Dakota Access e l’altro oleodotto contestato, il Keystone XL, a sua volta bloccato da Obama per timori di danni ambientali.
L’oleodotto dovrebbe correre per quasi 2mila chilometri e attraversare quattro Stati per portare il greggio alle raffinerie dell’Illinois. Indiani e attivisti contestano da mesi il progetto, spiegando che la parte sottomarina del tracciato mette a rischio il bacino idrico delle comunità, senza contare la violazione di terreni e luoghi sacri Sioux. Nonostante le proteste, la tribù nulla ha potuto contro quest’ultima decisione di Trump. E ancora una volta è stata costretta ad abbandonare la propria terra.
la Repubblica, 23 febbraio 2017
Prima la Cei, poi la ministra alla Sanità. Sul concorso del San Camillo di Roma per l’assunzione di due ginecologi obiettori di coscienza piovono le critiche del Vaticano e del governo. «Si snatura l’impianto della 194 che non aveva l’obiettivo di indurre all’aborto ma prevenirlo. Predisporre medici appositamente a questo ruolo è una indicazione chiara», dice don Carmine Arice, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei. Beatrice Lorenzin, che ieri era a Bruxelles e che qualche mese fa era intervenuta alla Camera sullo stesso tema parlando di modalità di reclutamento discriminatoria, ha aggiunto: «È evidente che abbiamo una legge che non prevede questo tipo di selezione. Dà invece la possibilità, qualora una struttura abbia problemi di fabbisogno, per quanto riguarda singoli specifici servizi, di poter attingere anche in mobilità da altro personale. Tra l’altro quando si fanno assunzioni e concorsi non mi risulta che ci siano parametri che vengono richiesti».
Quello che ha fatto il Lazio viene osservato con interesse dalle altre Regioni, in particolare quelle in difficoltà ad assicurare l’interruzione volontaria di gravidanza per carenza di non obiettori. «Non sono convinto della tenuta giuridica dell’atto, che probabilmente sarà impugnato. Ma se si dimostrasse legittimo seguiremmo di sicuro la stessa strada», dice Baldo Guicciardi, assessore alla Salute della Sicilia. Apertura anche dal Molise, che ha il record di obiettori (più di 9 su 10). «Abbiamo 312mila abitanti e per ora con un medico strutturato rispondiamo alla domanda — spiega il presidente Paolo di Laura Frattura — Se però ci trovassimo in difficoltà, il concorso potrebbe essere una strada». Dalla Puglia sono più scettici. «Assunzioni con quei presupposti non si possono fare. La soluzione sta nel convenzionarsi con specialisti esterni non obiettori. Grazie a loro per ora sopperiamo alle carenze». La posizione è simile a quella delle Marche, mentre dalla Basilicata fanno sapere che in questo momento non c’è spazio per le assunzioni, vista la crisi del sistema sanitario: «E poi avremmo più bisogno di anestesisti ». L’assessora toscana Stefania Saccardi, invece, non pensa al concorso dedicato perché «i nostri dati sono buoni, abbiamo abbastanza non obiettori e gli aborti sono in netto calo». Dalla Lombardia invece arriva un forte no della Lega all’idea del Lazio. Il sindacato dei ginecologi, la Fesmed, non critica l’impostazione del concorso. «Quello si può fare in quel modo — dice il presidente Giuseppe Ettore — Ma dopo, se chi ha vinto cambia idea è impossibile allontanarlo come minaccia di fare il Lazio, perché quel professionista ha diritto di diventare obiettore quando vuole. Un giudice gli darebbe ragione».
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Il governo: “È evidente che abbiamo una norma che non prevede questo tipo di selezione”
«. Le Scienze online,
Una stella non troppo distante da noi, e intorno sette pianeti di dimensioni simili a quelle della Terra, sei dei quali si trovano in una zona “temperata”, cioè in orbite tali che le temperature superficiali rimangono tra 0 e 100 gradi Celsius.
La scoperta è di Michaël Gillon, dell'Università di Liegi, in Belgio, e colleghi di una collaborazione internazionale, che la annunciano oggi sulle pagine di “Nature”, e suggerisce che nella Via Lattea questo tipo di sistema potrebbe essere comune.
Le misurazioni indicano che i sei pianeti interni hanno masse simili a quella della Terra e probabilmente hanno una composizione rocciosa. Inoltre, quelli intermedi hanno probabilmente un'atmosfera di tipo terrestre e acqua liquida sulla loro superficie.Negli ultimi decenni, la ricerca di pianeti al di fuori del sistema solare ha avuto un successo incredibile: se ne contano ormai a migliaia. Il metodo più utilizzato per la “caccia” è la fotometria di transito, basata sul fatto che la luce emessa da una stella diminuisce quando un pianeta passa di fronte al disco della stella stessa rispetto alla direzione di vista dalla Terra. La variazione è minima, ma può essere misurata con gli strumenti attuali, che consentono anche di stimare anche la massa planetaria.
Quando la stella è di limitate dimensioni, la misurazione fotometrica è particolarmente agevole, perché la percentuale della superficie stellare che viene oscurata è notevole: ciò permette di documentare il transito di pianeti di dimensioni simili a quelle terrestri. Ora, nella Via Lattea, la maggior parte delle stelle è più piccola e meno luminosa del Sole, il che ha spinto i planetologi a monitorare in modo continuativo proprio la nostra galassia.
Nel 2010, Gillon e colleghi hanno iniziato a monitorare le stelle più piccole vicine al Sole con il telescopio robotizzato da 60 centimetri di diametro TRAPPIST (the Transiting Planets and Planetesimals Small Telescope) dell'European Southern Observatory (ESO) di La Silla in Cile.
E nel maggio dello scorso anno hanno riferito la sensazionale scoperta di tre esopianeti in orbita intorno a una stella nana ultrafredda, che hanno battezzato TRAPPIST-1 ed è situata a circa 39 anni luce dal nostro Sole.
In seguito, hanno approfondito le osservazioni sia con telescopi terrestri sia effettuando un monitoraggio continuo per 20 giorni con il telescopio spaziale Spitzer della NASA. Risultato: ben 34 transiti documentati, attribuiti a un totale di sette pianeti.Ora il quadro generale è completo. Il sistema TRAPPIST-1 è estremamente compatto, piatto e ordinato. I sei pianeti interni hanno periodi orbitali tra 1,5 e 13 giorni e sono tutti “quasi risonanti”: ciò significa che nello stesso tempo in cui il pianeta più interno compie otto rivoluzioni, il secondo, il terzo e il quarto pianeta ne compiono cinque, tre e due, rispettivamente.
Questo schema fa sì che vi siano mutue influenze gravitazionali, che si manifestano in lievi variazioni nei tempi di transito osservati, che gli autori hanno utilizzato per stimare le masse planetarie.
Da queste stime, è emerso che il sistema planetario è incredibilmente somigliante a quello costituito da Giove e dai satelliti galileiani (Io, Europa, Ganimede e Callisto), anche se ha una massa circa 80 volte superiore. Le quattro lune, infatti, orbitano intorno a Giove con periodi compresi tra 1,7 e 17 giorni, anche in questo caso in condizioni di quasi-risonanza. Questa somiglianza suggerisce che i pianeti di TRAPPIST-1 e i satelliti galileiani si siano formati ed evoluti in modo simile.
Ma i dati forse più interessanti riguardano le dimensioni dei pianeti, la loro possibile composizione e il loro clima. L'analisi dei dati mostra che cinque di essi (b, c, e, f e g, secondo la sigle attribuite dagli autori, cioè il primo, secondo, terzo, quinto e sesto) hanno dimensioni simili a quelle terrestri, mentre g e h (il quarto e il settimo) hanno dimensioni intermedie tra quelle della Terra e quelle di Marte. Per i sei pianeti più interni, le stime dimensionali fanno ipotizzare che si tratti di pianeti rocciosi.Utilizzando un semplice modello climatico e considerando le temperature tipiche della stella, si è stimato inoltre che e, f e g (cioè il quarto, il quinto e il sesto) potrebbero avere un'atmosfera di tipo terrestre e persino un oceano liquido. Per i tre pianeti più interni invece si ipotizza che l'acqua liquida sia completamente evaporata a causa di un intenso effetto serra.
Nel caso del settimo e più esterno pianeta, i ricercatori non sono riusciti a determinare il periodo orbitale e l'interazione con i pianeti più interni, che saranno oggetto dei prossimi studi.
A questo proposito c'è grande attesa per le possibilità di ricerca che potrà garantire il telescopio spaziale James Webb della NASA, il cui lancio è previsto per il prossimo anno. I suoi strumenti potranno dire qualcosa sulla composizione dell'atmosfera dei pianeti e sulla loro emissione termica, ponendo dei limiti alle condizioni climatiche presenti sulla superficie.
a Repubblica online, ed. Milano, 23 febbraio 2017
LaLega Nord è stata condannata per il reato di discriminazione, per aver usato iltermine 'clandestini' per indicare quelli che, a termini di legge, sono invece'richiedenti asilo'. Lo stabilisce una sentenza del giudice Martina Flaminidella prima sezione civile del tribunale ordinario di Milano, che ha condannatola Lega a pagare 10mila euro di danni (oltre a 4mila euro di spese processuali)"per il carattere discriminatorio e denigratorio dell'espressioneclandestini” contenuta nei manifesti affissi nell'aprile scorso a Saronno. Unasentenza che potrebbe creare un precedente, visto che a partire dal segretarioMatteo Salvini, molti esponenti del Carroccio definiscono i profughi come'clandestini'.
il manifesto, 23 febbraio 2017 (c.m.c.)
Come un gambero il mondo va all’indietro: ripiombato in un buio clima da anni Trenta, diviso con l’accetta nell’inquietante binomio “noi” e “loro”, permeato di populismo razzista che lambisce il fascismo.
Il quadro che emerge dal Rapporto 2017 di Amnesty International è allarmante perché smonta l’impalcatura di falsa democrazia che l’Occidente – esperto “esportatore” – ha sempre usato per distanziarsi dalla funzionale categoria degli Stati canaglia.
La violazione dei diritti umani si allarga a macchia d’olio, tocca la quasi totalità dei paesi del mondo (159 quelli analizzati). Le parole chiave della deriva si accavallano: rifugiati, torture, sparizioni forzate, autoritarismi, muri.
Come si accavallano i nomi di chi oggi rappresenta «un mondo martoriato da una distruzione di vita e beni senza precedenti negli ultimi 70 anni»: Trump, Duterte, Erdogan, al-Sisi, Orbán.
Qualche numero: in 23 Stati sono stati commessi crimini di guerra, in metà si pratica la tortura, in 22 sono stati uccisi difensori dei diritti umani e in 36 è stato violato il diritto internazionale in materia di richiesta d’asilo.
Sullo sfondo un clima di razzismo strisciante che divide gli esseri umani in etnie, confessioni, razze e che riguarda anche l’Italia: «Esiste una retorica di divisione alimentata dal alcuni leader politici come Matteo Salvini della Lega Nord e Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia», dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia.
Una retorica che entra nell’amministrazione italiana e europea, fisicamente visibile nei muri e i lacrimogeni che accolgono i migranti in fuga e nei pacchetti di aiuti miliardari a paesi che violano palesemente i diritti umani.
Nel mirino di Amnesty finiscono gli accordi sui migranti siglati da Roma e Bruxelles, fatti di Cie, maltrattamenti, respingimenti in violazione del diritto d’asilo, morti in mare: «L’applicazione da parte delle autorità italiane dell’approccio hotspot europeo – si legge nel rapporto – ha portato a casi di uso eccessivo della forza, detenzione arbitraria e espulsioni collettive».
Non si salva la Francia chiamata in causa per quattro estensioni dello stato di emergenza e attacchi come lo sgombero della “giungla” di Calais. Né si salva la Ue che con Ankara ha siglato un accordo che prevede la deportazione dei nuovi arrivati (senza valutarne l’eventuale diritto d’asilo) sulla base della definizione della Turchia come «paese sicuro».
Un «paese sicuro» in cui è in corso una guerra contro i kurdi, due milioni di rifugiati vivono in campi profughi o per le strade delle grandi città senza opportunità di integrazione, 10 parlamentari sono in prigione insieme a 150 giornalisti.
E tale pare essere la definizione che tocca alla Libia, destinataria di un altro accordo seppur divisa in parlamenti rivali, preda di milizie armate e nota per il trattamento riservato ai migranti nei centri di detenzione nel deserto.
Mentre si raccoglievano le spoglie delle 74 vittime dell’ultimo naufragio sulle coste della città di Zawiya, il ministro degli Interni Minniti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza presentava il memorandum libico come modello di un progetto strategico per l’Africa: «Abbiamo fatto un accordo importante con il Niger, più di recente con la Tunisia e firmato un memorandum con la Libia. L’idea è che l’Italia possa svolgere il ruolo di paese apripista».
L’«emergenza migranti», evento epocale che sveste l’Europa di decenni di presunta cultura di pace e accoglienza, si inserisce in un più vasto imbarbarimento dei discorsi promossi da movimenti xenofobi e di ultradestra che puntano a farsi (o si sono già fatti) governo.
Il linguaggio cambia e plasma la dicotomia noi/loro, rintracciabile nelle politiche dell’amministrazione Trump o del governo ungherese di Orbán.
«Il cinico uso della narrativa del noi contro loro, basata su demonizzazione, odio e paura, ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni Trenta – scrive Salil Shetty, segretario generale di Amnesty – Un numero elevato di politici risponde ai legittimi timori nel campo economico e della sicurezza con una pericolosa e divisiva manipolazione delle politiche identitarie».
Una manipolazione che investe di riflesso la rete di alleanze globali ed erge a colonne portanti della lotta al terrorismo islamista regimi di stampo autoritario.
Ce lo ricorda Giulio Regeni, vittima della pervasiva macchina della repressione egiziana che oggi ripropone ad un livello ancora peggiore le stesse politiche dell’era Mubarak: torture, sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, soffocamento della società civile sono pratiche ormai sistematiche.
L’elenco potrebbe continuare: le Filippine di Duterte e i 7mila omicidi giustificati con la lotta al traffico di droga; le bombe saudite in Yemen; la legge sulla sorveglianza di massa del Regno Unito; gli attacchi in Polonia ai diritti di donne e Lgbti; il fuoco che ha distrutto centinaia di villaggi in Darfur; la pratica israeliana dello “spara per uccidere” e la strutturale confisca di terre palestinesi da parte di Tel Aviv.
E, compiendo un giro completo, si torna all’Italia. Amnesty rilancia la lettera inviata con Antigone, A Buon Diritto e Cittadianzattiva al ministro della Giustizia Orlando: Roma introduca il reato di tortura.
i lavori in corso in questo così denso fine settimana, è questa». Huffington Post, 19 febbraio 2017
L’infinita soap-opera del Pd non ha dalla sua dei buoni sceneggiatori: né fra i protagonisti, né fra gli osservatori. A una classe politica che oscilla fra il non dare il meglio e il dare il peggio di sé fa riscontro un coro di cronisti e commentatori che oscillano a loro volta fra la foga di descriverla come un covo di vipere velenose e l’ansia di scongiurare una scissione che sarebbe al meglio incomprensibile, al peggio devastante. Il bilancio della parabola del Pd – dieci anni non ancora compiuti e vissuti molto pericolosamente – pencola infine fra quello di un partito mai nato, di una miscela mal riuscita e di un progetto mai decollato, a quello di un bene prezioso e irrinunciabile, dell’unico superstite del riformismo europeo, dell’ultima barriera della civiltà contro l’invasione dei barbari pentastellati o trumpisti.
Tutto questo non aiuta a capire se c’è, e qual è, la posta della partita che si sta giocando – malamente – nel Pd, ma anche fuori dal Pd: sono aperti altri cantieri, in primis quello del congresso di fondazione di Sinistra Italiana, e intanto non smobilitano le reti dei comitati nati a sostegno del No al referendum costituzionale. Si può continuare a guardare tutto questo come una commedia recitata da attori di second’ordine, con le batterie cariche di personalismi, ambizioni, rivincite e rancori incrociati. Oppure si può fare uno sforzo di generosità – ce ne vuole parecchia, lo so – e alzare, quantomeno, l’asticella delle aspettative e delle richieste, sperando che serva ad alzare anche quella delle risposte.
Lascerei perdere, intanto, gli scongiuri. Il fantasma delle scissioni perseguita la sinistra, e l’invocazione dell’unità la alimenta, da quando è nata. Già questa storica altalena dovrebbe dire qualcosa di un problema evidentemente malposto. Non sempre la convivenza forzata è sinonimo di unità, e non sempre le divisioni sono foriere di sciagura. Non sempre l’unità è garanzia di un’identità riconoscibile, e non sempre le differenze condannano alla frammentazione. Un’articolazione non settaria delle differenze è ciò che da sempre manca alla sinistra e alla forma-partito disciplinata e disciplinare da cui la sinistra, fra mille trasmutazioni che della forma-partito hanno buttato il bambino tenendosi l’acqua sporca, non è mai riuscita a emanciparsi davvero.
Ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano. Stiamo all’oggi: è possibile guardare a quello che sta capitando non come un a un destino di disgregazione, ma come a un’occasione di ricomposizione? E’ possibile pensare che sia questa, e non la solita “resa dei conti” fra narcisi (uomini) in guerra fra loro la posta in gioco della situazione? E’ possibile guardare all’eventualità che il Pd si spezzi definitivamente come a un elemento di maggior chiarezza, e non maggior cupezza, del quadro?
Tutto dipende, naturalmente, dal giudizio che dell’avventura targata Pd si dà. Lo scongiuro della scissione muove evidentemente da un giudizio positivo, o meglio dalla convinzione che, ben realizzato o no, il progetto del Pd fosse, dieci anni fa, la risposta giusta al problema.
Varrebbe la pena ricordare che dieci anni fa “il problema” era assai diverso da quello di oggi: in Italia c’era un bipolarismo che pareva definitivo; la crisi mondiale del debito si annunciava – non vista, al Lingotto - ma non aveva ancora messo in crisi il pensiero unico neoliberale; l’opera di sistematico smantellamento delle tradizioni politiche europee novecentesche, e segnatamente di archiviazione del bagaglio concettuale della sinistra, era al suo apice; l’America era ancora, per quelli che si volevano emancipare dal complesso di colpa per essere stati comunisti a loro insaputa, un mito progressista, e l’aggettivo “democratico” un passepartout per risolvere qualunque dilemma del presente e del futuro. Si innamorò di quel progetto chi voleva una sinistra light, liberata da qualunque istanza di critica anticapitalistica, completamente risolta nell’interiorizzazione del paradigma liberaldemocratico come unico orizzonte possibile.
Era un innamoramento malriposto. Ma non solo per la perenne incompiutezza che avrebbe da allora in poi caratterizzato “l’amalgama mal riuscito”, bensì per i suoi difetti genetici. Un difetto di identità, perché dalla somma di due tradizioni indebolite non nasceva una cultura politica riconoscibile. Un difetto di struttura e di radicamento, perché il partito dei gazebo e delle primarie portava in sé l’embrione del partito personale del leader. Un difetto di progetto, perché la bandiera dei diritti, separata dalla critica dei poteri, si sarebbe rivelata ben presto una strada aperta al loro smantellamento più che al loro allargamento. Un difetto perfino nel nome, perché già allora era chiaro – non c’era ancora Trump, ma Berlusconi sì – che l’aggettivo “democratico”, in un Occidente in cui la democrazia si sfigurava partorendo mostri, non era la soluzione ma il problema. Un difetto, infine, di presunzione, in quell’ostinata idea, tutt’ora perdurante, che il Pd fosse “il partito della nazione” (il termine risale ad allora) che rappresentava e incorporava i destini dell’Italia. Il difetto stava dunque nel progetto, non nella sua cattiva realizzazione. Il seguito della vicenda l’ha solo aggravato, fino all’esito, estremo ma coerente, della scalata di Matteo Renzi, con la iper-personalizzazione della leadership e la rottamazione di ogni residua cultura politica che l’hanno caratterizzata.
Ma nel frattempo, soprattutto, si è rovesciato il mondo, ed è collassato il sistema politico italiano. Le sorti della globalizzazione non sono più magnifiche e progressive. La crisi del capitalismo finanziario ha smontato da sola le ricette neoliberali, con o senza lo zuccherino delle “terze vie” blairiane. La destra ha cambiato natura e da liberista si è fatta protezionista. I nazionalismi risorgono sotto la bandiera illusoria del sovranismo. E i popoli spremuti dalla crisi e, in Europa, dall’austerity si danno voce come possono e con chi trovano, sui una sponda e sull’altra dell’Atlantico: e tanto peggio per chi ha aspettato Trump per accorgersene, liquidando quattro anni fa il M5S a fenomeno effimero e transeunte e pensando di riportare il tripolarismo in un bipolarismo forzato a colpi di leggi elettorali incostituzionali e di riforme costituzionali sonoramente bocciate.
la Repubblica, 22 febbraio 2017
Le forme di crudeltà insensata sono del tutto comuni nella vita nei territori occupati, ma da nessuna parte sono più frequenti che a Hebron. al checkpoint e ha trovato la ragazza rannicchiata e tremante. Si è inginocchiato accanto a lei e le ha parlato, dicendole che se avesse cercato di pugnalare un soldato sarebbe morta di sicuro. Lei ha risposto «non mi interessa, tanto per me non c’è speranza ». Amro le ha allora fatto presente che la sua morte non avrebbe aiutato la Palestina e che la sua comunità aveva bisogno di lei. Le ha parlato dei molti modi con i quali ci si può opporre a un’occupazione senza far ricorso alla violenza. «Non mi ha creduto » ricorda Amro, «ma ho iniziato a farle un esempio dietro l’altro ». Alla fine lei gli ha consegnato il coltello e lui l’ha affidata alla polizia palestinese. Da allora Amro ha ricevuto altre chiamate di aiuto per sventare atti violenti. Tra gli altri casi, c’è stato anche quello di una giovane donna che gli ha scritto su Facebook dicendo di volersi armare di coltello e andare incontro al martirio per il bene della causa palestinese. Anche in questo caso, Amro è riuscito a farle cambiare idea perorando la causa della non violenza: ha subito contattato gli amici della giovane, che sono riusciti a fermarla.
Questo dunque è l’uomo che ora rischia di scontare una lunga condanna in un carcere militare israeliano per reati che comprendono un battibecco da scuola infantile con parole che non ha mai pronunciato e un’aggressione della quale dice che non avrebbe potuto macchiarsi. L’accusa deve ancora rispondere alla mozione presentata dal suo avvocato di far cadere quattordici delle diciotto imputazioni a suo carico, sulla base di un “abuso di giustizia” e del fatto che esse sono state criticate da più parti.
-Murale di Banky sul Muro a Behit Sahour |
Agli occhi del mondo l’impegno di Amro per la non violenza lo ha reso un portavoce di particolare rilievo e visibilità per il suo popolo. L’anno scorso ha ricevuto le visite di alcuni membri del Congresso americano e, pur essendo imminente la data originaria fissata per il suo processo, è andato in Belgio dove ha conosciuto il presidente del Parlamento europeo e ha preso la parola davanti all’assemblea dei parlamentari.
Esistono palestinesi che uccidono, che indossano giubbotti imbottiti di esplosivo per farsi saltare in aria, usano autobombe, aggrediscono a coltellate soldati e civili israeliani.
Issa Amro non appartiene a questa categoria: al contrario, il suo impegno nei confronti del movimento che considera la resistenza non violenta l’unica strada percorribile per indurre un cambiamento duraturo, è la migliore speranza di pace per palestinesi e israeliani.Se Israele perseguita e persegue penalmente organizzatori comunitari come Amro, alla gioventù palestinese non resterà nessun modello al quale fare riferimento per capire come dissipare frustrazione e disperazione. Gli unici rimasti saranno come Mohammad Tarayreh, che il 30 giugno 2016 si è intrufolato nell’insediamento di Kiryat Arba alla periferia di Hebron, ha fatto irruzione nella camera da letto di Hallel Yaffa Ariel, una tredicenne israeliana, e l’ha pugnalata a morte. A furia di incatenare il pugno alzato della resistenza, lasceranno libera soltanto la mano che impugna il coltello.
© 2017, The New York Times Traduzione di Anna Bissanti
il manifesto, 22 febbraio 2017 (c.m.c.)
Quando, all’inizio dell’estate dello scorso anno, il giornale locale La nuova di Venezia pubblicò la notizia della condanna di Roberta Chiroli per i contenuti della sua tesi di laurea sul movimento No Tav discussa all’Università Ca’ Foscari, fu con qualche smarrimento che cominciammo a raccogliere informazioni su quanto era successo.
Nel tempo, abbiamo imparato a conoscere bene i trattamenti che il potere riserva ai dissidenti, a chi ha il coraggio di opporsi ai dogmi e non smette di «dire la verità», a chi non si accontenta di come va il mondo: perseguitati, oltraggiati, messi al margine in ragione di idee e di un agire troppo distante da ciò che viene ufficialmente disposto.
Scomodi, da far sparire oppure da punire per fornire insegnamenti a tutti. Ma, nonostante questa consapevolezza, i due mesi di reclusione comminanti dal tribunale di Torino per una ricerca in antropologia, a partire da una richiesta di sei mesi avanzata dal Pubblico ministero, appaiono un’enormità. Il lavoro universitario di Chiroli viene utilizzato dai Pm come prova autoaccusatoria per «aver fornito un apprezzabile contenuto quanto meno morale» ad alcune pratiche di lotta in Val Susa (presidi e occupazioni dei terreni espropriati e dei cantieri per il passaggio dell’alta velocità).
È la prima volta, dal Dopoguerra, che una tesi di laurea diventa oggetto di una condanna e molta inquietudine provoca l’idea di magistrati impegnati a esaminare i lavori di ricerca dei laureati del Paese per setacciare la presenza di elementi illeciti, presunti collegamenti delittuosi, la descrizione di comportamenti «fuori norma», da censurare e incarcerare.
Così, la rete e il sito di discussione politica Effimera (Effimera.org) decidono di diffondere un appello («Mai scrivere ‘noi’. Appello per la libertà di ricerca e di pensiero») che in pochi giorni raccoglie migliaia di firme, viene ripreso da molti mezzi di informazione, riceve centinaia di commenti.
Roberta Chiroli pubblica la sua ricerca, Ora e sempre No Tav. Pratiche del movimento valsusino contro l’Alta Velocità (prefazione di Erri De Luca), da domani in libreria per Mimesis, con l’aggiunta di una introduzione nella quale ricostruisce il caso di cui è stata protagonista. Racconta: «Il mio essere là in mezzo agli attivisti No Tav per documentare le pratiche di lotta del movimento ha costituito, per la Procura torinese, un motivo sufficiente per condannarmi in quanto – dalla sentenza – “il fatto stesso che sia rimasta sul posto unitamente ad altri partecipanti ha integrato un contributo apprezzabile perché l’efficacia di azioni di questo tipo è strettamente dipendente dall’effettiva presenza fisica di un numero elevato di persone, numero che la Chiroli ha contribuito a formare”».
Nel consegnarci il suo lavoro, Roberta ricompone i frame work teorici della ricerca antropologica che raccomandano partecipazione e posizionamento, ma, al di là delle categorie pensate dalla cosiddetta produzione scientifica, non c’è bisogno di convincerci che una pratica cosciente e consapevole delle «storie personali» possa illuminare scelte teoriche o che dalle relazioni umane si produca conoscenza, o che il corpo sia un «agente» dotato di consapevolezza sociale e culturale.
Chiroli sottolinea la «grande reazione del mondo accademico» sulla vicenda di fronte alla pubblica opinione. E in effetti vale la pena di rimarcare come le gerarchie universitarie si siano trovate di fronte all’obbligo di dover prendere parola: la pesante ingerenza da parte dei magistrati ha reso indispensabile perimetrare e difendere il proprio campo di azione e il proprio operato. Da un lato, tale reazione è segno di come il mondo della formazione si senta maltrattato e umiliato da un sistema che, nel corso di questi anni, non ha fatto che tagliare risorse e impoverire: lo scopo è applicare alla scuola la ratio dell’inclusione differenziale che risponde alle politiche del mercato del lavoro perorate dall’Europa e con ciò favorire l’introduzione progressiva di sistemi valutativi per misurare le prestazioni di studenti e docenti e differenze salariali tra questi ultimi. Un accumulo di frustrazione e infelicità, tra aggravi di lavoro, perdite oggettive di autonomia, pochi denari.
A ciò si aggiunge il dilagare di una precarietà strutturale che non consente orizzonti né diritti ma impone comunque crescenti carichi di responsabilità e dispositivi di controllo che rafforzano l’organizzazione feudale tipica del mondo accademico.
Dall’altro, siamo consapevoli che il sapere trasmesso dalle istituzioni educative, non è mai un sapere neutrale, oggettivo. Esso è sempre attraversato da flussi di potere, piegato a interessi di parte. Così, il corpo accademico resta comunque un’istituzione, con le sue regole e le sue prescrizioni, i suoi filtri falsamente «meritocratici», i suoi criteri normanti, le sue modalità di «riconoscimento» o di espulsione che si danno all’interno di una griglia interpretativa che agisce tramite gli attori stessi che ne fanno parte. Firmare un appello non è significativo di un movimento, intendendo con questo termine un processo di differenziazione al fine di coordinare il giusto grado di tensione di interventi, segmentari o parziali, per rigettare l’intero impianto. Il caso di Roberta Chiroli, e i tanti altri simili che si sono aggiunti, meriterebbe questo tipo di riflessione e di tensione.
Al contrario, l’aziendalizzazione dell’università, così come della scuola, introduce oggi tra le sue mura elementi basilari del marketing che mettono in moto ulteriori comportamenti di tipo aziendalistico con l’obiettivo di generare la concorrenza tra istituti ed atenei e la divisione del corpo docente. Gli studenti e le loro famiglie, che pagano rette sempre più onerose, si sono trasformati in consumatori di beni e servizi, acquirenti di un prodotto (la formazione).
La recente vicenda dei tornelli della facoltà di Lettere a Bologna, in via Zamboni, ha mostrato bene quali capacità penetrative abbia tale logica, visto che una parte degli studenti ha difeso la regolamentazione degli ingressi e l’intervento violento delle forze dell’ordine, adducendo la necessità di garantirsi migliori condizioni di studio. In realtà, non si combatte per migliorare la propria situazione ma si accettano l’impianto selettivo e la passivizzazione nei confronti del potere «che deve provvedere a farci stare meglio», basata su valori poco definiti che ruotano e insistono intorno ai concetti dell’«efficienza» e dell’«efficacia», contro il «degrado» e contro la «desolazione».
Ecco allora che fa capolino l’altra traccia che la storia di Roberta Chiroli ci ha regalato e che si connette strettamente alla prima. Parlo di come la norma contemporanea, apparentemente libera e senza limite, sia viceversa fondata su di una pervasiva repressione. Seguendo Loic Wacquant, tale transizione è parte integrante della ristrutturazione dello stato, finalizzata a sostenerne la deregolamentazione economica e a sopperire le conseguenze dell’insicurezza sociale. L’effetto complessivo è quello di una straordinaria ambivalenza del dispositivo che produce soggettivazioni autonome e, contemporaneamente, assoggettate. Siamo paradossali co-produttori di forme di vite intrise di passioni concorrenziali. E il paradosso consiste nel fatto che tanto più libero è «il soggetto d’interesse» tanto più governabile risulta.
Tutto ciò ha prodotto, negli anni, un’autocensura del conflitto, già da tempo invisibilizzato, soffocato, marginalizzato, criminalizzato. Tuttavia, da qualche parte sembra esistere la consapevolezza che tale rinuncia alla conflittualità è una malattia. C’è un vuoto di cui sentiamo, con malinconia, la preoccupante ampiezza.
Un'assenza, che non produce altro se non le patologie del pensiero unico che genera l’individuo isolato contro il quale la magistratura pensa di scatenarsi agevolmente, con processi esemplari.
In questi anni, la procura di Torino ha setacciato la Valsusa, resistente agli ordini del potere, con retate casa per casa, paese per paese, tra le bancarelle dei mercati, tra i minorenni e gli anziani. Roberta Chiroli ha dedicato il libro «Alle persone grandi di un luogo speciale che mi hanno insegnato che si parte e si torna insieme». La comunità valsusina, ci affaccia tra le pagine dove prendono vita i volti e i nomi di chi è finito nella macchina della giustizia, mostrando sempre una dinamica coesiva di risposta: «si parte e si torna insieme».
Certamente, tra gli abitanti della valle ha fatto da collante la sensazione di essere tutti oggetto di un unico disegno repressivo che agisce su più fronti contemporaneamente, diventando incarnazione fisica di uno scontro comune contro le logiche del capitale finanziario. Al di là dello specifico dilemma locale, questo scontro continua a parlarci di molteplici aspetti delle nostre vite precarie, obbligate a piegarsi a una povertà materiale e soprattutto di senso
la Repubblica, 22 febbraio 2017
A MENO di tre mesi dall’elezione presidenziale, il centrosinistra francese non è meno diviso di quello italiano. Tuttavia il dibattito offre elementi concreti quasi del tutto assenti nelle cronache delle eterne convulsioni che dilaniano il Pd. Le Monde ha appena pubblicato il programma di Jean-Luc Mélenchon, rivale del candidato ufficiale del Partito Socialista, Benoit Hamon. Entrambi parlano il linguaggio di una sinistra piuttosto tradizionale e le loro ricette suscitano le riserve degli economisti. Tant’è che il pragmatico centrista Emanuel Macron, europeista convinto, li ha superati di slancio nei sondaggi. Quel che conta, però, è lo stile di un dibattito pubblico fondato su proposte chiare, benché spesso discutibili.
Al netto della propaganda e delle semplificazioni, il conflitto fra le due sinistre in Francia ha un senso e una logica. Ci sarà poi tempo al secondo turno (niente da spartire con il ballottaggio del nostro ex Italicum) per far convergere i voti sulla figura che si ritiene meno distante dai propri convincimenti. Vale per eleggere il capo dello Stato non meno che i membri dell’Assemblea nazionale. Questa tensione è quasi del tutto assente a Roma, dove si consuma la crisi del Pd. Un rito partitico e trasformista che sembra aver allargato il fossato con l’opinione pubblica. Per cui resta sul tavolo la domanda su cui insiste Emanuele Macaluso, forte della sua conoscenza di vizi e limiti della sinistra: «Qual è l’asse politico- culturale del Pd?». Nessuno lo sa con precisione.
Dopo le giravolte e i proclami di Michele Emiliano («sarò come il Che»), nel mezzo di una stentata scissione che non entusiasma nemmeno i suoi interpreti, all’indomani del generico impegno per una “rivoluzione socialista” sottoscritto da Enrico Rossi, ecco il segretario del Pd che parte all’improvviso per la California — dove visiterà certi impianti fotovoltaici — affermando: «Siamo dispiaciuti ma andiamo avanti». Con ciò confermando di considerare la spaccatura del suo partito più un bene che una disgrazia. Certo non il “suicidio” di cui parlano Prodi ed Enrico Letta. Eppure i primi sondaggi (“Porta a Porta”) indicano che gli elettori del Pd sono parecchio delusi, se è vero che il consenso alla lista risulta in caduta al 22-23 per cento. Plausibile che non tutti i voti in fuga stiano confluendo sull’arcipelago di sigle a sinistra del partito renziano: molti elettori intendono manifestare semplicemente il loro disagio, il loro disincanto. Il che rende lo scenario ancora più oscuro.
È evidente che le macerie del Pd hanno prodotto due correnti di pensiero. Da un lato, chi ritiene irreversibile il danno e fa capire di voler cercare le vie di un “nuovo Ulivo” (ovviamente il federatore non potrà essere Renzi), pur essendo modi e tempi dell’operazione avvolti nella nebbia. Dall’altro, chi intuisce l’inizio di una nuova storia. Il segretario è il capofila di questa tendenza: vede se stesso come il Blair o il Macron italiano. Ma dovrebbe rendersi conto che la proposta del Pd è al momento poco convincente per un numero crescente di italiani. Non esiste una legge elettorale, il rapporto con l’Europa è contrastato e nella prossima legge finanziaria occorrerà raccogliere svariati miliardi di euro per tamponare le falle del bilancio. Tutto ciò mentre la capitale d’Italia è nella paralisi per la serrata corporativa dei taxi appoggiata dai Cinque Stelle.
il manifesto, 22 febbraio 2017
«Le radici del fallimento del Pd risiedono nelle scelte originarie del Lingotto, a favore di un partito incolore e senza classe. Con la benedizione di Marchionne»
Ed è scissione. Con ritardo, si registra un esperimento fallito. E si dice addio a un capo che altri danni presto procurerà alla democrazia in crisi. Nei media c’è chi lascia cadere sulla testa dei ribelli l’accusa di nichilismo. Per screditare i fuggiaschi, alcuni parlano di una scissione senza principi. Eppure al Testaccio gli insorti avevano riscoperto, come in Inghilterra, bandiera rossa.
Non c’entrano però i demoni del ‘900: la foto simbolo, di un evento che pure prospettava una rivoluzione socialista, era quella che riprendeva il Veltroni del Circo Massimo. Confusi pensieri. Nulla del Pd delle origini può aiutare chi vaga alla ricerca di una identità perduta. È il Lingotto l’origine del male, non la soluzione. Allora Veltroni stigmatizzò il conflitto come una brutta malattia, relegandolo nella cassapanca dell’800. Poiché lo scopo del capitale è solo il capitale stesso, senza il conflitto nessuno può sollevare questioni di giustizia per momenti di eguaglianza. Rinunciare al conflitto significa uccidere la politica e regalare il potere alle agenzie del capitale. Ovvero ai demoni del postmoderno.
Le radici del fallimento risiedono nelle scelte originarie del Lingotto in favore di un partito incolore e senza classe. La sua identità era fissata nel maggioritario e nelle primarie. Un collante fittizio che non poteva durare. Ci sono componenti del vecchio Pci che nell’amalgama si sentono a loro perfetto agio. Sono i notabili del partito degli eletti. Fassino, Chiamparino e Renzi, che si contendono la benedizione di Marchionne, costituiscono un amalgama riuscito. I vecchi miglioristi si trovano bene con il rottamatore visto come un modernizzatore. E Poletti è l’espressione di un tradimento delle ragioni sociali dello stesso riformismo emiliano che cede di schianto al fascino padronale del renzismo.
Per chi non si rassegnava a questa resa ingloriosa la rottura era inevitabile. La differenza tra Veltroni e Renzi non è nei principi, cioè nella visione aconflittuale del mondo, nella esaltazione dell’impresa, che è comune. Nemmeno nella cultura istituzionale e politica c’è una frizione: entrambi sognano il presidenzialismo e inseguono le primarie come unzione mistica in un partito liquido. Non a caso i media e i poteri economici che sostengono Renzi sono gli stessi che hanno accompagnato l’ascesa di Veltroni.
Quale è allora la differenza? Con l’alleanza capitolina tra il mattone e l’immaginario, tra le notti bianche e il cemento nero della città infinita del degrado speculativo, Veltroni aveva costruito le basi per la leadership nazionale. Il suo però non era ancora un partito personale, cioè si basava sul soccorso dei poteri forti, ma il leader non aveva costruito un potere economico autonomo. Con la sconfitta politica abbandonò per questo lo scettro.
Le fondazioni, le donazioni dei poteri finanziari, l’influenza del comitato d’affari della piccola borghesia toscana, specializzata nel cucire rapporti con banche e imprese all’ombra delle istituzioni conquistate, assicurano invece al leader un capitale a sua disposizione per edificare un partito personale che non obbedisce a canoni solo politici. Per questo tratto proprietario-personalistico del Pd non è stata ordinata la sola operazione politica decente dopo il clamoroso plebiscito: licenziare il capo di un non-partito, odiato dal popolo.
Il Pd salta, oltre che per il rifiuto delle degenerazioni di un partito personale, per altre due ragioni. La prima è la grande crisi economica alla quale il Pd risponde con il Jobs Act. Cioè con la potenza illimitata del capitale, padrone assoluto della vita del lavoratore, costretto a vagare in solitudine, e privo di diritti, tra i fantasmi della concorrenza. Già con Veltroni (emblematica fu l’operazione Calearo) il Pd aveva rinunciato ad ogni radicamento nel mondo del lavoro. Con Renzi la rottura è però definitiva e totale perché simbolico-culturale-giuridica. Dopo il Jobs Act si rompe la coalizione sociale del Pd, partito dei Parioli. E la prima area a saltare fu l’Emilia Romagna, con la diserzione di massa delle consultazioni regionali.
La seconda causa della catastrofe del Pd risiede nell’attacco alla costituzione. Il plebiscito di dicembre, convocato per consolidare il potere personale sulle tracce di uno scivolamento populistico e autoritario, ha segnato una cesura storica irreparabile. Ad essa il Pd reagisce con la provocazione della accelerazione verso i riti della nuova incoronazione mistica del capo caduto nel baratro.
Non serve a nulla evocare i demoni del ‘900 di fronte a ribelli che impugnano le armi per garantire la continuità del governo. Proprio questa aporia, di una rivolta per la stabilità, consiglia di gestire con accortezza tattica i tempi delle sinistre, variamente collocate nella gestione dei passaggi parlamentari, senza le accelerazioni perniciose. Organizzare il proprio campo, e al tempo stesso aprire con duttilità alla gestione delle sfide elettorali con una strategia aperta e condivisa: questo è il ruolo di una sinistra plurale che, pur nella differenza dei percorsi, non rinuncia a una vocazione egemonica.
La domanda di Gramsci deve sempre risuonare nei soggetti della sinistra, in tempi di crisi: come non diventare momenti che contribuiscono, loro malgrado, alla decomposizione generale. Una sinistra plurale nei profili organizzativi deve essere capace però di esprimere una convergenza, soprattutto se la legge elettorale la rende di fatto necessaria, come al senato. Una grande coalizione costituzionale, capace di lanciare una credibile alternativa, smentirebbe i censori che, dopo l’implosione del Pd, pronosticano un inevitabile trionfo del M5S.
Il terreno per le destre e il M5S sarebbe in discesa proprio se il Pd rimanesse ostaggio della follia renziana. Una sinistra plurale, non deviata dalla ossessione di trovare immediate soluzioni organizzative, può contendere il consenso ai tre populismi in scena e fare di lavoro e costituzione le bandiere di una ricostruzione democratica.
L’ORIZZONTE NON SI VEDE ANCORA
di Aldo Carra
«Dopo il 4 dicembre. Una crisi specifica quella italiana, ma nel mezzo di una Europa con spinte a destra che si allargano e fermenti a sinistra che stentano a fare massa critica»
Esattamente un anno fa con Cosmopolitica decollava il tentativo ambizioso di superare Sel per costruire una sinistra nuova e più larga. Adesso è nata Sinistra Italiana, alcuni promotori hanno deciso di fare altro, il Pd sta deflagrando e nel cielo europeo e mondiale si addensano nubi preoccupanti. Sembra passato un secolo. La storia corre e la sinistra annaspa. Come ha scritto Revelli siamo dentro un processo entropico: ogni giorno il quadro cambia e ogni pezzo non sta più né dove stava ieri, né dove pensavamo dovesse stare oggi. Alzare la testa per vedere meglio quel che accade fuori e lontano da noi: questo è il suggerimento che se ne ricava.
Giusto, ma non basta.
Perché il terreno sottostante, frana e se non si sta con i piedi per terra e in movimento, si rischia di restare intrappolati nelle sabbie mobili. Mai come oggi, quindi, dobbiamo muoverci nell’oggi scrutando l’orizzonte lontano e seguendo la direzione giusta.
All’orizzonte c’è la fase terminale dello sviluppo capitalistico, la sua mutazione genetica dalla produzione materiale di beni e servizi per soddisfare bisogni delle persone alla produzione virtuale di finanza per soddisfare le leggi di sopravvivenza della finanza stessa.
Ma ci sono all’orizzonte anche mutazioni straordinarie indotte dall’evoluzione tecnologica. Le macchine sostituiscono l’uomo e ne mutano il destino: o liberazione dal lavoro o dominio finanziario e tecnologico e nuova schiavitù dell’uomo, ridotto a scarto. Il progresso creato dall’uomo gli si rivolge contro. Problemi spaventosi stanno davanti a noi. Altro che sinistra moderata o radicale, campi larghi o orticelli, il destino di Renzi e quello della Raggi… Epperò.
Epperò dobbiamo agire nel presente per costruire il futuro. Il 4 dicembre rappresenta il punto di svolta di una tendenza pluriennale della politica italiana: l’idea che la governabilità è più importante della rappresentanza, la vocazione maggioritaria come diritto di una minoranza che non riesce a conquistare la maggioranza dei consensi popolari a diventare maggioranza per legge, un Partito incolore che, assemblando componenti storiche diverse, pretende di diventare il centro unico del sistema politico e poi, come evoluzione naturale, il passaggio dal partitone solo al comando all’uomo solo comando.
La riforma costituzionale e la legge elettorale non erano che il punto di arrivo di questa pericolosa perversione democratica. La risposta negativa degli italiani è stata la pietra tombale su quel progetto.
Quindi una crisi specifica quella italiana, ma nel mezzo di una Europa con spinte a destra che si allargano e fermenti a sinistra che stentano a fare massa critica.
Al congresso di Rimini abbiamo visto tanti giovani, una bella discussione, tanto entusiasmo. Quelli che chiamammo cosmopolitani tentano di dare l’assalto al cielo. Ma l’orizzonte non si vede ancora.
A diradare la nebbia di cui ha parlato Cofferati, penserà il tempo. Serve, però, che le tante energie che si sono mobilitate nel referendum provino a soffiare insieme. Per aiutare il vento della storia.
QUALCOSA SI MUOVE
MA ABBIAMO UN PROBLEMA,
IL LEADER CHE NON C’È
di Tonino Perna
«Sinistra. Ci servirebbe un Alexis Tsipras capace di cucire le diverse anime in un paese con una tradizione di scontro nella sinistra storica e nuova»
«C’è vita a sinistra» scrive Norma Rangeri nel suo editoriale sul nuovo scenario politico italiano. Dovremmo dire «Grazie Renzi» perché se non avesse sofferto di onnipotenza, attaccato la Costituzione per un plebiscito personale e giocato il tutto per tutto, non avremmo visto questo risveglio. Ma abbiamo di fronte una grande questione anche se facciamo finta che non esista.
In una recente intervista su questo quotidiano Rossana Rossanda ad un certo punto faceva un’osservazione che, a mio avviso, è centrale in questa fase storica: «Penso che oggi ci sia un bisogno spontaneo della gente di avere più una persona a cui collegarsi che un’idea.
Ripenso a quando, all’inizio della storia del manifesto, noi 3 o 4 più in vista, sicuramente avevamo molto difetti, ma non la superbia del personalismo». In queste poche battute è racchiuso un passaggio epocale.
Ricordo che una decina di anni fa, a cena conversando con la giornalista e scrittrice Adele Cambria, una persona che ha dato tanto al femminismo quanto alla mia terra, le esposi le ragioni e gli obiettivi della nascente Sinistra Euro Mediterranea, e lei mi chiese, gelandomi: ma il leader chi è?
Nella rivoluzione culturale del ’68, come nelle lotte sociali degli anni ’60 e ’70, c’erano tanti leader di movimento, di gruppi e gruppuscoli della sinistra extraparlamentare, ma l’adesione ad un movimento o a un partito avveniva sul piano ideologico prima di essere il frutto di una identificazione personale.
Anche nel grande Pci sicuramente Togliatti aveva un carisma ed una naturale leadership che non aveva Longo, ma non per questo il partito si dissolse alla scomparsa del «Migliore».
Oggi, anche se non ci piace, la gran parte delle nuove forze politiche si costruisce sulla figura del leader che a sua volta è in buona parte modellato dai mass media.
Per l’appunto è quello che Mauro Calise ha chiamato Il partito personale così come ha recentemente intitolato il suo ultimo saggio La democrazia del leader, una forma di democrazia che non ci piace affatto ma con cui dobbiamo fare i conti.
Dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso c’è stato un mutamento culturale radicale già intuito e denunciato con grande acume da Christopher Lasch nel testo che lo ha reso famoso, La cultura del narcisismo, accompagnato da un sottotitolo profetico: «L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive».
È in questa dimensione esistenziale che la ricerca del leader come punto di riferimento manifesta, allo stesso tempo, il bisogno di una guida che dia un orizzonte ed una speranza in un’epoca di «disillusioni collettive» ed il bisogno di fuggire dalla propria responsabilità/ impegno per cambiare la società.
La creazione di un partito o forza politica della Sinistra non potrà non porsi questo problema, che può anche essere affrontato nella sua migliore accezione. Vale a dire: la ricerca di un leader capace di cucire le diverse anime, culturali prima che politiche, del nostro paese. Con alcuni valori forti quali l’uguaglianza, la solidarietà, la pace ed il rispetto della natura.
È quello che hanno fatto Syriza ed il suo leader Alexis Tsipras in un paese con una tradizione di scontro tra le diverse anime della sinistra storica e nuova.
Ed è quello che ci auguriamo nasca anche nel nostro paese, ma che non può essere il frutto di meri accordi di vertice. D’altra parte, sappiamo bene che una forza autenticamente di sinistra nasce all’interno della sfera sociale, nelle forme dell’altreconomia e, soprattutto, nei momenti storici di mobilitazione e conflitto.
Il periodo migliore di Rifondazione comunista seguì ai fatti di Genova del luglio 2001.
In quel violento scontro, carico di torture, pestaggi e violazioni dei diritti umani fondamentali, nacque una generazione politica nuova che riempì le file di quel partito che Fausto Bertinotti, ultimo leader della sinistra radicale, aveva aperto al movimento Noglobal, che marciava contro i Grandi del G7.
Per questo la ricerca di un leader-regista, capace di unire e portare a sintesi le diverse spinte non può prescindere dalla costruzione di movimenti dal basso che lottano e si impegnano, sul piano locale-globale, nella costruzione di una cultura ed una pratica quotidiana alternativa a questa società capitalistica sempre più distruttiva dei legami sociali e degli ecosistemi.
doppiozero, 18 febbraio 2017 (c.m.c.)
Gli orientamenti politici e gli esiti delle decisioni collettive sfidano oggi le tradizionali categorie della psicologia del potere. L’opinione pubblica alla base delle scelte si forma per vie che sfuggono alle forme conosciute e le campagne elettorali sono costruite al di fuori del mondo dei fatti. Non solo, ma chi sceglie in un certo modo, concorrendo a esiti determinanti anche per il proprio presente e il proprio futuro, sembra cambiare idea un momento dopo, a fatti compiuti e, almeno per un certo tempo, irreversibili.
Viene sempre più spesso in mente Winston Churchill e la sua affermazione sulla difesa della democrazia «purché non voti mia suocera». Una provocazione alla sua maniera che comunque induce a interrogarsi sul presente della democrazia e delle forme di esercizio del potere. A fare affermazioni senza prove e senza logica; smentendole immediatamente dopo o cambiando versione continuamente, si ottiene seguito e consenso e viene da chiedersi come sia possibile.
Se consideriamo l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America, la domanda da porsi è come abbia fatto una minoranza di americani a portarlo al potere. L’interrogazione è, perciò, su un deficit di democrazia e sulla perdita di democrazia partecipativa, come sostiene Judith Butler.
«Ci avviciniamo all’ipotesi che ci pare di poter sostenere: non siamo di fronte a un’epoca di post-verità, bensì all’affermazione di forme di potere sovralegale», come le aveva definite Carl Schmitt.
L’uso del sistema democratico per prendere il potere e appropriarsene da parte di chi democratico non è, né nello stile né nella sostanza, mentre è comunque in grado di ottenere il consenso soprattutto di chi è in tutt’altra condizione, consente un accentramento del potere che non sarebbe concepibile in situazioni di una almeno relativa democrazia partecipativa. È necessario considerare la dematerializzazione e la virtualizzazione dell’esperienza per cercare di comprendere alcune delle vie di creazione del consenso e di affermazione del potere oggi. Si tratta, ad esempio, di riprendere quello che Jean Baudrillard scriveva parecchi anni fa:
«L’astrazione oggi non è più quella della mappa, del doppio, dello specchio o del concetto. La simulazione non è più quella di un territorio, di un essere referenziale o una sostanza. È piuttosto la generazione di modelli di un reale senza origine o realtà: un iperreale. Il territorio non precede più la mappa, né vi sopravvive. […] È la mappa che precede il territorio – precessione dei simulacri – è la mappa che genera il territorio […]. L’età della simulazione comincia con l’eliminazione di tutti i referenti – peggio: con la loro resurrezione artificiale in un sistema di segni, che sono una materia più duttile dei significati perché si prestano a qualsiasi sistema di equivalenza, a ogni opposizione binaria, e a qualsiasi algebra combinatoria. Non è più una questione di imitazione, né di duplicazione o di parodia. È piuttosto una questione di sostituzione del reale con segni del reale; cioè un’operazione di cancellazione di ogni processo reale attraverso il suo doppio operazionale. […] sarà un iperreale, al riparo da ogni distinzione tra reale e immaginario, che lascia spazio solo per la ricorrenza di modelli e per la generazione simulata di differenze.» (Simulacres et simulation)
I fatti non contano e la loro rappresentazione narrata predomina e vince. Come sostiene Judith Butler in un’intervista a Christian Salmon, apparsa il 24 dicembre 2016 su Robinson, parlando delle elezioni di Donald Trump e dei contenuti delle sue affermazioni: «Al momento i fatti sembrano indicare che non è così. Ma lui non vive in un mondo di fatti. (…..) Ha poca importanza se si contraddice o se si capisce che rigetta esclusivamente le conclusioni che intaccano il suo potere o la sua popolarità. Questo narcisismo sfrontato e ferito e questo rifiuto di sottomettersi ai fatti e alla logica lo rendono ancora più popolare. Lui vive al di sopra della legge, ed è così che molti dei suoi sostenitori vorrebbero vivere».
Da tempo ci siamo resi conto di vivere in un’epoca in cui non disponiamo più di verità indiscutibili e la nostra condizione, come ampiamente segnalato da un profondo filosofo come Aldo Giorgio Gargani, è quella di chi è passato dalla verità al senso della verità. Secondo Giorgio Agamben: «La civiltà che noi conosciamo si fonda innanzitutto su una interpretazione dell’atto di parola, sullo ‘sviluppo’ di possibilità conoscitive che si considerano contenute e ‘implicate’ nella lingua» (Che cos’è la filosofia?, Quodlibet 2016). L’uso della lingua e soprattutto i suoi effetti non sono determinabili a priori. Vi è una dimensione performativa che piega i significati a seconda delle contingenze.
Accade per esempio oggi che la parola sicurezza sia usata efficacemente per ridurre e decimare i diritti democratici di libertà e, per molti aspetti, la democrazia stessa. E non accade senza consenso. Chi predica la sicurezza dà voce ad aspettative che sono poi alla base di ampi consensi. Sulla consapevolezza delle conseguenze di quel consenso si potrà discutere, ma intanto si produce una legittimazione di un sistema di potere. Sarà pure una minoranza della popolazione americana ad aver portato Trump al potere; rimane il fatto che c’è riuscita affermando le proprie aspettative profondamente antidemocratiche di vivere e agire al di sopra della legge.
Appare evidente che entrano in campo emozioni arcaiche e primordiali sollecitate e amplificate da mezzi virtuali contemporanei che non governiamo, ma ci dominano. Nel momento in cui, in modo confuso e contraddittorio, un leader libera l’odio, invita a usare la cosiddetta pancia per scegliere, legittima la possibilità di esprimere la collera senza limitazioni, rende dichiarabile e proponibile il razzismo, ognuno può sentirsi libero di tirar fuori le viscere. L’arcaismo emozionale e la pratica del voto con lo stile immediato e pratico del “mi piace”/ “non mi piace” di Facebook, producono una miscela sostenuta dalle vie mediatiche, in grado di mettere in discussione le forme della democrazia così come la conosciamo.
I processi di identificazione immediati generano dinamiche di “altercasting” e nel momento in cui le persone si riconoscono in un modo di essere e di fare volendo essere come il leader, non ci sono più disposizioni a verificare la verità delle affermazioni o la fattibilità delle proposte, ma solo adesione massiva e conformista, come abbiamo mostrato nella voce Conformismo.
Ma perché le persone aderiscono? Probabilmente ciò accade per emulazione e per paura. Un leader può guadagnarsi l’ammirazione per aver trovato il modo di non pagare le tasse o per il fatto di riuscire ad avere tante donne a disposizione, molestie sessuali incluse. Il leader va dove vuole, fa quello che vuole e prende quello che vuole. Chi vota vorrebbe essere come lui. Ciò però non basta. L’emulazione riguarda anche la corporeità, la gestualità, la teatralità delle espressioni e la corrispondenza a un modello mediatico stereotipato. Come ha mostrato Marco Belpoliti ne Il corpo del capo, il corpo si afferma come metafora e come forma di esercizio del potere, in particolare nelle modalità totalitarie. La forza attrattiva dei gesti e la loro capacità di coinvolgimento, soprattutto nelle performance comunicative, mostra di essere una componente non secondaria del potere sovralegale.
Accanto a questi fattori e impastandoli di un clima particolare, agisce la paura. Sia la paura suscitata ad hoc enfatizzando fenomeni del tempo come l’immigrazione, il pericolo derivante dagli emarginati o da forme di rivolta, le donne, i disoccupati, i diversi di ogni tipo; sia la paura indotta dai rischi del presente e dalla cosiddetta società del rischio.
Il rapporto tra il potere che non si basa sulla legittimazione, sulla dimostrazione dialogica dei fatti e sulla critica reciproca, ma si situa al di sopra della legge; il rapporto tra quel potere e la paura è stato molto ben descritto da Herta Müller, premio Nobel per la letteratura, a proposito delle continue visite che riceveva a casa dai servizi segreti: «Mia madre chiese: che cosa vogliono da te? Risposi: paura. Era vero. Questa breve parola si spiegava da sé. Perché l’intero Stato era un apparato della paura. C’erano i sovrani della paura e il popolo della paura. Ogni dittatura è formata da chi incute paura e dagli altri, che hanno paura. Da chi vuole farti paura e chi morde per paura. Ho sempre pensato che la paura sia lo strumento quotidiano di chi vuole metterti paura e il pane quotidiano di chi, per paura, morde».
La paura da centralizzata si è fatta diffusa e dà vita a forme di potere non semplicemente riconducibili né ai fascismi storici e neppure alla post-verità.
Abbiamo due volte paura di questi tempi: paura per sé e per gli altri e paura dell’altro. E la maggior parte delle persone contribuisce ad alimentare la paura portandosela con sé, oltre a cercare di ottenere dalla paura propria e altrui il massimo vantaggio. Gestire la paura non è altro che il preludio all’ubbidienza.
C’è un’epidemiologia del potere che si basa su un particolare tipo di collusione tra chi domina e chi è dominato; su un forte accentramento e su un monopolio della comunicazione: tutto è reso possibile dal fatto che la maggioranza delle persone usa subendoli i social network, il sistema mediatico e i molteplici canali di informazione e comunicazione. Più che una post-verità sembra affermarsi una surverità, un potere sovralegale che non è raggiungibile con gli strumenti della critica e del conflitto politico come finora li abbiamo conosciuti.
Da dove partire? “Anche dalla cura delle parole, dal restituire alle parole il loro significato, iniziando dalla parola ‘sinistra’. Per farlo, oggi, ci vuole coraggio”. Da Nichi Vendola, nel suo splendido intervento in chiusura di congresso, arriva anche questo prezioso consiglio ai naviganti di Sinistra italiana, entrati nel mare della politica (non solo) italiana con l’entusiasmo di chi parte per un viaggio liberatorio, anche se faticoso e pieno di rischi.
Sanno di avere di fronte una società disillusa, in gran parte convinta che la politica non possa migliorare (anzi…) la vita quotidiana. E non basta una parola, per giunta abusata ogni giorno a destra e a manca. “Dobbiamo fare il nostro mestiere – avverte quindi Nicola Fratoianni – perché di fronte alla situazione in cui versa questo paese, o si cambia in modo radicale o non c’è partita”. E radicale, spiega Piero Bevilacqua annunciando l’adesione al nuovo partito, significa “profondo”: “E’ un termine che non viene da Marco Pannella. Viene da Carlo Marx”.
Il documento finale del congresso sottolinea: “Quello che oggi scegliamo, a Rimini, non è ricostruire la sinistra che non c’è più, ma costruire una sinistra che non c’è mai stata”. Per specificare il concetto, l’intervento di Vendola aiuta: “Il centrosinistra, l’Ulivo, sono state esperienze collegate a una globalizzazione che sembrava potesse offrire delle opportunità. Si sono schiantate, perché è schiantata la base sociale che li sosteneva. Mi dispiace per i compagni e le compagne che se ne vanno. Ma per me oggi la cosa fondamentale è la bussola, e la rotta da seguire”. Scegliendo un’autonomia culturale e politica legata a quello che vuol dire essere di sinistra: “Non dobbiamo mai separarci dalla dimensione della lotta per la trasformazione della società”.
Nell’elezione di Fratoianni e del gruppo dirigente di Sinistra italiana – 503 sì, 32 contrari, 28 astenuti, un centinaio di assenti dall’inizio o al momento del voto – c’è la fotografia di una platea di delegati e delegate che ha portato in trionfo la giovane ex sindaca di Molfetta, Paola Natalicchio: “Chiedo a Fratoianni di lavorare all’unità della sinistra italiana e non solo di sinistra italiana. Di mettere insieme i pezzi per una alternativa di paese. E di capovolgere la piramide: perché la sensazione di un partito calato dall’alto in questi mesi è stata forte, e come dirigenti dobbiamo farci carico e promuovere un rovesciamento del processo. Giriamo il paese, solo un bagno di realtà ci può distrarre da questa storia di D’Alema e di Emiliano”.
Unità e umiltà, come scandito nell’assemblea di Podemos, con le immagini proiettate nell’auditorium e con Pablo Iglesias che ripete più volte: “Abbiamo un piede in Parlamento, ne dobbiamo avere un migliaio nella società”. Di qui le prime mosse del partito: con l’adesione alla Sinistra europea; con “i 500 comitati unitari da costruire subito” per i referendum della Cgil contro i voucher e la giungla di appalti e subappalti senza diritti. Comitati come quelli per i referendum costituzionali, ricordati da Martina Carpani (Rete della conoscenza) come un essenziale momento formativo per i giovani che si affacciano alla politica. E poi il sostegno, concreto, a migranti, rifugiati e richiedenti asilo nella giornata delle manifestazioni in tutto il continente. E ancora l’8 marzo per ‘Non una di meno’.
Quanto ai movimenti del quadro politico, pronti a discutere con tutti. Ma non con il cappello in mano. Anzi: “Se la scissione nel Pd dovesse portare a nuovi gruppi parlamentari – ammonisce Fratoianni – vorrei vedere cosa faranno se si dovesse votare la fiducia al governo Gentiloni”. A rispondergli, poche ore dopo, sarà il dem uscente Enrico Rossi a RaiNews: “Ci sarà, a quanto mi risulta, un gruppo formato da chi esce dal Pd e chi esce da Sinistra italiana, ma sosterrà il governo Gentiloni”. Già lo immaginava Stefano Fassina: “Non siamo l’organizzazione giovanile di D’Alema e Bersani. Abbiamo già dato, diciamo”. Così come, guardando a Pisapia, Pippo Civati ha replicato: “Vedo che chi ha votato Sì al referendum costituzionale si propone di organizzare chi ha votato No”.
L’ultimo intervento del congresso è stato quello di Luciana Castellina. Che, rispondendo a Eugenio Scalfari, ha chiosato: “Da una parte i ‘civilizzati’, tutti insieme, a difendere una democrazia svuotata. Dall’altra i ‘barbari’ che bussano alle porte. Noi dovremmo stare con i barbari. Perché lì c’è un pezzo del nostro popolo”.
La città e l'accoglienza e raccoglie testi di Ilaria Agostini, Giovanni Attili, Lidia Decandia, Enzo Scandurra. Gli autori ci hanno concesso di pubblicare in anteprima la loro introduzione. Li ringraziamo
Un Popolo Nuovo arriva alla frontiera della civilissima Europa. Un Popolo composto dai “dannati della Terra”; da coloro che non hanno più nulla da perdere perché hanno perso tutto. Parte da lontano: dalla sponda sud del Mediterraneo e, prima ancora, dai paesi dell’Africa. Attraversa deserti, fiumi e mari; abbandona alle proprie spalle luoghi di morte: rovine in fiamme, terre desertificate dal furore predatorio del modello occidentale. All’Europa presenta il conto da pagare per gli anni di benessere da essa goduto estraendo ricchezze dai loro territori.
Nelle città europee, un tempo luoghi di accoglienza e di ibridazioni etniche, sociali, religiose, si alzano muri per fermarne il cammino, per arrestarne la marcia silenziosa. Così la Fortezza-Europa pensa di difendere se stessa dall’“invasione”. Fuori da quei muri ci sono loro, i nuovi barbari, che fuggono da terre devastate; dentro quei muri i cittadini che hanno goduto dei dividendi provenienti dalle loro terre. Solo governi miopi e terrorizzati di perdere i loro antichi (e attuali) privilegi possono pensare di fermarli. L’Europa rischia la barbarie poiché si mostra incapace di affrontare la crisi da essa stessa provocata, il nuovo disordine mondiale prodotto dalla sua politica coloniale. I governi degli stati nazionali sono divisi e imbelli, tenacemente decisi a difendere una identità nazionale figlia di “mille letti” e spazzata via dalla Globalizzazione.
L’Europa disporrebbe di strumenti assai più efficaci per disinnescare il conflitto che non l’erezione di muri. Si chiamano: accoglienza, diritti, libertà, riconoscimento dell’alterità. E invece l’Europa non ha saputo fare altro che riscoprire il valore del “confine” compiendo un pericoloso passo indietro rispetto alle questioni di inclusione e di libera circolazione.
Dagli anni Novanta si è assistito in tutte le città del mondo, con intensità variabile, a un processo di deregolamentazione che ha fiancheggiato la privatizzazione di intere parti di città. La città è diventata il luogo dove si manifestano e si concretizzano logiche finanziarie il cui obiettivo non è migliorare le sue condizioni di vivibilità, ma aumentare i profitti d’impresa.
Questo libro, scritto da urbanisti, nasce per sostenere una tesi opposta alla tendenza in atto che vede la città farsi fortezza contro il “diverso”. La nascita e lo sviluppo delle città europee ci parla di un’altra storia dove il meticciato di lingue ed etnie, insieme al dovere dell’accoglienza, caratterizzavano lo splendore delle città e la loro solidità civile. Ricordare questa lunga storia non è oziosa operazione accademica: essa sola può aiutarci a costruire un futuro di pace considerando i nuovi transiti e le nuove migrazioni anziché fenomeni da demonizzare e da cui difenderci, occasioni di un nuovo vivere insieme e di ripensare l’idea stessa di città moderna.Perché la storia ci insegna che le nostre città sono l’esito di complessi e straordinari processi d’interazione e di scambio tra componenti culturali eterogenee. È grazie a questi processi, prodotti dall’incontro-scontro di differenze, che esse hanno acquisito la forma attuale sussumendo i diversi modi dell’essere insieme e di costruire beni comuni.
È noto come la storia d’Italia negli ultimi secoli del Medioevo coincida con quella delle sue città, le quali furono, fra l’xi e il xii secolo, caratterizzate da un grande dinamismo demografico ed economico. Nell’ambito di questo sviluppo, le comunità urbane erano costituite da persone tra loro molto diverse: mercanti, immigrati dal contado, operai, artigiani, religiosi, studenti universitari, forestieri, mendicanti e proprietari di grandi fortune. Facevano parte di questa comunità anche gli appartenenti a etnie e a confessioni religiose minoritarie, come gli ebrei, i musulmani, i greci, tutelati da uno stato giuridico particolare.
Il carattere accogliente e ospitale che risale alle origini della città e ne costituisce l’essenza profonda, attraversa la lunga storia urbana e ricorre negli statuti delle città europee.
Lo possiamo osservare, oltre che nei processi che hanno contribuito a generare le città, nelle stesse architetture dedicate all’accoglienza, a lungo considerata atto dovuto e, soprattutto, gratuito: dall’ospitalità caritatevole di matrice ecclesiastica, nell’alto medioevo, all’accoglienza laica inquadrabile nel fenomeno della «religione civica» delle città comunali.
Già dal v secolo le città si dotano di architetture deputate all’accoglienza: xenodochia, hospitia, foresterie. Ricoveri sorgeranno presso le sedi vescovili nel cuore della città, nei monasteri esterni alle mura, lungo le vie di pellegrinaggio e sui valichi montani.
Secoli dopo, le libere città comunali rappresentano una concreta possibilità di miglioramento delle condizioni di vita dei “servi villatici”, in fuga dal contado: dietro le mura di cinta la vendetta dei loro signori non avrebbe potuto raggiungerli («l’aria della città rende liberi»). In quest’epoca, presso il ceto che oggi definiremmo “dirigente”, si diffonde l’aspirazione alla fondazione di monasteri, cappelle e, non ultimi, di ospedali. Le città europee conoscono così un’ondata di fondazioni di case di mendicità nelle quali trovano rifugio: pauperes, peregrini, transeuntes, mulieres in partu agentes, parvuli a patribus et matribus derelicti, debiles et claudi, generaliter omnes.
Oggi siamo di fronte a un processo di occupazione e privatizzazione delle città ad opera di gruppi economici e finanziari che promuovono politiche urbane che massimizzano profitti e producono nuove povertà, a tal punto che è lecito chiedersi: di chi è la città?
E tuttavia, alle porte delle nostre città chiamate postmoderne, si affaccia un mondo composto di persone in movimento, di soggettività fluide, di alterità, dei diversi e non assimilabili. La moltiplicazione e l’intensificazione dei flussi migratori agisce da contrappeso alla privatizzazione e, anzi, la contrasta. Le città ridiventano incroci di progetti di vita che producono nuovi spazi pubblici conseguenti alle pratiche di scambio messe in azione dai migranti e quelle di supporto ai diversi progetti migratori: le pratiche di mutuo-aiuto dei migranti e quelle delle società ospitanti. Locale e globale s’intrecciano e interagiscono in forme sconosciute nelle epoche precedenti producendo, nelle città, nuove centralità, nuovi e inediti luoghi di incontro, luoghi-sosta di radicamenti dinamici e di mobilità multiformi, luoghi-intersezione di nomadismi che cortocircuitano la dimensione locale e quella globale.
Il tradizionale rapporto comunità/territorio tende a modificarsi. La rottura dei legami e dei vincoli tradizionali delinea ora un’idea diversa di comunità: permeabile, mutevole, instabile, che oggi si riconosce in una polifonia di forme e sfumature differenti. La figura del migrante non annuncia la morte della comunità. Se i movimenti migratori producono, da una parte, de-territorializzazione in quanto scompaginano assetti geopolitici, configurazioni di potere e strutturazioni sociali consolidate, allo stesso tempo sono anche agenti di ri-territorializzazione poiché riconfigurano inedite forme comunitarie, costruiscono nuove grammatiche spaziali e inediti radicamenti territoriali.
L’annullamento della logica identitaria può diventare, dunque, il presupposto operativo per un rinnovato umanesimo antropologico che ritrova proprio nella città il suo terreno originario.
il manifesto, "Le Monde diplomatique" 16 febbraio 2017 (c.m.c.)
Con un colpo di genio, il capitalismo del dopoguerra è riuscito a riorientare la volontà di cambiamento verso l’insaziabile desiderio di consumare. Questo modello si scontra ormai con un limite invalicabile: l’esaurimento delle risorse naturali. Per immaginare un modo di vivere al tempo stesso soddisfacente e sostenibile, non basta rifiutare l’impero delle merci. Occorre prima di tutto riflettere su ciò di cui abbiamo bisogno.
La transizione ecologica chiede di fare scelte nel campo dei consumi. Ma su quale base? Come distinguere i bisogni legittimi, che potranno essere soddisfatti nella società futura, dai bisogni egoisti e irragionevoli, che dovremo rinunciare a soddisfare? È la domanda che affronta il Manifeste négaWatt (Manifesto negaWatt), uno dei saggi di ecologia politica più stimolanti fra quelli di recente pubblicazione, scritto da specialisti dell’energia (1).
Un negaWatt è un’unità di energia risparmiata – «nega» sta per negativo. Grazie alle energie rinnovabili, all’isolamento termico degli edifici e all’accorciamento dei circuiti economici, è possibile secondo gli autori mettere in piedi un sistema economico ecologicamente sostenibile a scala nazionale e anche oltre. Anche allo stato attuale della tecnologia, la nostra società già dispone di importanti «giacimenti di negaWatt».
Il consumismo non è sostenibile, perché aumenta continuamente i flussi di materie prime e il consumo di energia. I suoi effetti alienanti sulle persone, inoltre, non hanno più bisogno di essere dimostrati. Una società «nega- Watt» è una società della sobrietà in cui alcune possibilità di consumo sono deliberatamente scartate perché considerate nefaste. Ma sulla base di quali criteri?
Per rispondere a questa domanda, gli autori del Manifeste distinguono fra i bisogni umani autentici, legittimi, che occorrerà dunque continuare a soddisfare, e i bisogni artificiali, illegittimi, dei quali occorrerà sbarazzarsi. Il primo gruppo comprende quelli definiti «vitali», «essenziali», «indispensabili», «utili» e «convenienti». I secondi quelli ritenuti «accessori», futili», «stravaganti», «inaccettabili», «egoisti».
A questo punto si pongono due problemi. In primo luogo, come definire un bisogno «essenziale»? Che cosa lo distingue da un bisogno «accessorio» o «inaccettabile»? E poi, chi decide?
Quali meccanismi o istituzioni conferiranno una legittimità alla scelta di soddisfare un determinato bisogno anziché un altro? Il Manifeste négaWatt non dice niente in merito.
Per rispondere a queste domande, è opportuno fare riferimento a due pensatori critici e pionieri dell’ecologia politica: André Gorz e Ágnes Heller, autori negli anni 1960 e 1970 di una teoria dei bisogni sofisticata e di grande attualità (2). Entrambi hanno affrontato questi temi a partire da una riflessione sull’alienazione, che può essere misurata sulla base dei bisogni autentici. In effetti, si è alienati rispetto a uno stato ideale al quale si cerca di tornare, o che si cerca di raggiungere.
Il concetto indica il processo mediante il quale il capitalismo suscita bisogni artificiali che ci allontanano da questo stato. Oltre a essere alienanti, la maggior parte di questi bisogni sono ecologicamente irrealistici
Un compito urgentissimo del nostro tempo
Che cos’è un bisogno «autentico»? Si pensa naturalmente alle esigenze dalle quali dipendono la sopravvivenza e il benessere dell’organismo: mangiare, bere, proteggersi dal freddo, ad esempio. Nei paesi del Sud del mondo, e anche del Nord, alcuni di questi bisogni elementari non sono soddisfatti. Altri, che lo erano prima, lo sono sempre meno. Fino a tempi recenti era normale respirare un’aria non inquinata; ma nelle megalopoli contemporanee è diventato difficile. Vale anche per il sonno.
Oggi, a causa dell’inquinamento luminoso, molte persone stentano ad addormentarsi, perché l’onnipresenza della luce nelle città ritarda la sintesi della melatonina (chiamata «ormone del sonno»). In alcuni paesi, la lotta contro l’inquinamento luminoso ha portato alla nascita di movimenti sociali che rivendicano il «diritto al buio» e chiedono la creazione di «parchi stellati» non inquinati dalla luce artificiale (3 ).
Anche l’esempio dell’inquinamento sonoro è molto significativo per tanti cittadini. Somme di denaro sempre maggiori sono destinate all’insonorizzazione delle abitazioni, per soddisfare un bisogno – il silenzio – prima gratuito. Queste nuove spese sono suscettibili di ridurre il tasso di profitto, ma al tempo stesso offrono fonti di guadagno, per esempio per le imprese specializzate.
Non tutti i bisogni «autentici» sono di ordine biologico. Amare ed essere amati, acquisire conoscenze, dare prova di autonomia e creatività manuale e intellettuale, prendere parte alla vita pubblica, contemplare la natura... Sul piano fisiologico, se ne può certo fare a meno. Ma questi bisogni sono contestuali a una vita umana degna di essere vissuta. André Gorz li chiama «bisogni qualitativi»; Ágnes Heller, «bisogni radicali».
I bisogni qualitativi o radicali si fondano su un paradosso. Il capitalismo, benché sfrutti e alieni, produce alla lunga un certo benessere materiale per importanti settori della popolazione. In tal modo libera gli individui dall’obbligo di lottare quotidianamente per assicurarsi la sopravvivenza.
Nuove aspirazioni, qualitative, acquistano dunque importanza. Ma, man mano che diventa più potente, il capitalismo ne impedisce la piena realizzazione. La divisione del lavoro chiude la persona in funzioni e competenze anguste per tutta la vita, impedendo il libero sviluppo della gamma delle facoltà umane. Al tempo stesso, il consumismo seppellisce i bisogni autentici sotto bisogni fittizi. Raramente l’acquisto di una merce soddisfa una vera mancanza. Procura una soddisfazione momentanea; poi il desiderio che la merce aveva creato si rivolge a un’altra vetrina.
I bisogni autentici, costitutivi del nostro essere, non possono trovare soddisfazione all’interno dell’attuale sistema economico. Ecco perché sono il fermento di movimenti di emancipazione. «Il bisogno è rivoluzionario in nuce», diceva André Gorz (4). La ricerca del suo soddisfacimento porta presto o tardi gli individui a sottoporre a critica il sistema.
I bisogni qualitativi evolvono storicamente. Viaggiare, per esempio, permette all’individuo di arricchire le proprie conoscenze e aprirsi all’alterità. Fino alla metà del XX secolo, viaggiavano solo le élite. Adesso è una pratica resa democratica. Si potrebbe definire il progresso sociale con la comparsa di bisogni sempre più arricchenti e sofisticati, e accessibili ai più.
Ma ecco gli aspetti nefasti. Il trasporto aereo proposto da compagnie low cost contribuisce certo a rendere il viaggio accessibile alle classi popolari, ma emette anche enormi quantità-di gas serra, e distrugge le zone dove i turisti corrono in massa... a guardare altri turisti che stanno guardando quel che c’è da guardare. Viaggiare è diventato un bisogno autentico; ma occorrerà inventare nuovi modi di spostarsi, adatti al mondo di domani.
Se il progresso sociale provoca talvolta effetti perversi, certi bisogni nefasti all’origine possono, al contrario, diventare sostenibili con il tempo. Oggi il possesso di uno smartphone è un bisogno egoista. Questi telefoni contengono «minerali di sangue» – tungsteno, tantalio, stagno e oro –, la cui estrazione provoca conflitti armati e gravi danni ambientali. Ma il problema non è l’apparecchio in sé. Se nascerà uno smartphone «equo» – il Fairphone sembra prefigurarlo (5) –, non c’è ragione perché questo oggetto sia bandito nelle società future. Tanto più che ha portato a forme di socialità nuove, con il continuo accesso alle reti sociali, e grazie al suo utilizzo fotografico. Che incoraggi il narcisismo o produca nevrosi negli utenti non è certo inevitabile. In questo senso, non si può escludere che lo smartphone, attraverso alcuni suoi utilizzi, si trasformi progressivamente in bisogno qualitativo, come è già avvenuto per il viaggio.
Secondo André Gorz, il motto della società capitalista è: « Quello che è buono per tutti non vale nulla. Sei rispettabile solo se hai “meglio” degli altri» (6). Gli si può contrapporre un motto ecologista: « È degno di te solo quello che è buono per tutti. Merita di essere prodotto solo ciò che non privilegia né avvilisce nessuno». Agli occhi di Gorz, la particolarità di un bisogno qualitativo è quella di non lasciare spazio alla «distinzione». Nel regime capitalista, il consumo ha in effetti una dimensione di ostentazione.
Acquistare l’ultimo modello di automobile equivale a esibire uno status sociale (reale o presunto). Un bel giorno, tuttavia, il modello passa di moda e il suo potere distintivo viene meno, provocando il bisogno di un altro acquisto. Questa fuga in avanti insita nell’economia di mercato costringe le imprese che si fanno concorrenza a produrre merci sempre nuove.
Come farla finita con questa logica di distinzione produttivistica? Per esempio, allungando la durata di vita degli oggetti. Una petizione lanciata da Amis de la Terre (Amici della Terra) chiede che si porti da due a dieci anni la garanzia per le merci un obbligo sancito da leggi europee (7).
Oltre l’80% degli oggetti in garanzia viene riparato; la percentuale scende a meno del 40% una volta scaduta la garanzia. Morale: più la garanzia è lunga, più gli oggetti durano, e la quantità di merci vendute e dunque prodotte diminuisce, limitando in tal modo le logiche di distinzione che spesso si basano sull’effetto novità. La garanzia è la lotta di classe applicata alla durata di vita degli oggetti.
Chi determina il carattere legittimo o no di un bisogno? Qui c’è un pericolo, che Ágnes Heller chiama la «dittatura dei bisogni» (8), analoga a quella che vigeva nell’Urss. Se è una burocrazia di esperti autoproclamati a decidere quali sono i bisogni «autentici», e di conseguenza le scelte di produzione e di consumo, queste hanno poche possibilità di essere giudiziose e legittime.
Affinché la popolazione accetti la transizione ecologica, le decisioni che la sottendono devono ottenere l’adesione generale. Stabilire una lista di bisogni autentici non ha nulla di facile e presuppone una continua deliberazione collettiva. Si tratta dunque di mettere in essere un meccanismo che parta dal basso, in grado di identificare democraticamente i bisogni ragionevoli.
È difficile immaginare questo meccanismo. Tracciarne i contorni è un compito urgente del nostro tempo; da questo dipende la costruzione di una società giusta e sostenibile. Il potere pubblico ha certamente un ruolo da giocare, per esempio tassando i bisogni futili per democratizzare i bisogni autentici, regolando le scelte dei consumatori. Ma si tratta di convincere della futilità di diversi bisogni; e per questo, occorre un meccanismo posto il più vicino possibile alle persone. Occorre sottrarre il consumatore al suo testa a testa con la merce e riorientare la libido consumandi verso altri desideri.
La transizione ecologica ci invita a fondare una democrazia diretta, più deliberativa che rappresentativa. L’adattamento delle società alla crisi ambientale presuppone una riorganizzazione da cima a fondo della vita quotidiana delle popolazioni. Ma questo non può avvenire senza mobilitarle, senza far leva sulle loro conoscenze e sul loro saper fare, e senza trasformare in un simile movimento le soggettività consumatrici. Dobbiamo dunque arrivare a una nuova «critica della vita quotidiana»; una critica elaborata in maniera collettiva.
(1) Association négaWatt, Manifeste négaWatt. en route pour la transition énergétique! ,Actes Sud, coll. «Babel Essai», Arles, 2015 (1 ed.: 2012).
(2) André Gorz, Stratégie ouvrière et néocapitalisme, Seuil, Parigi, 1964, e Á gnes Heller, La teoria dei bisogni in Marx , Feltrinelli, Milano, 1980.
(3 ) C fr. Marc Lettau, Face à la pollution lumineuse en Suisse, les adeptes de l’obscurité réagissent, Revue suisse, Berne, ottobre 2016.
(4) André Gorz, La Morale della storia, Il Saggiatore, Milano 1963 .
(5) Si legga Emmanuel Raoul, È possibile fabbricare un telefono equo?, Le Monde diplomatique/ il manifesto, marzo 2016.
(6) Si leggano André Gorz, La loro ecologia la nostra, Le Monde diplomatique/ il manifesto,aprile 2010, e Antony Burlaud,André Gorz, verso l' emancipazione, Le Monde diplomatique/ il manifesto, dicembre 2016.
(7) «Signez la pétition Garantie 10 ans maintenant», 24 ottobre 2016, www.amisdelaterre.org
(8) C fr. Ferenc Fehér, Ágnes Heller e György Má rkus, Dictatorship Over Needs, St. Martin’s Press, New Y ork, 1983 .
(Traduzione di Marianna De Dominicis)
le Monde diplomatique
il manifesto
n. 2, anno XXIV, febbraio 2017 s
Huffington Post, 20 febbraio 2017
Scrive Stiglitz:
«Se c’è un risvolto positivo nella nube Trump, è un nuovo senso di solidarietà su valori fondamentali come tolleranza ed eguaglianza, sostenuto dalla consapevolezza dell’intolleranza e della misoginia, sia nascoste che evidenti, incarnate da Trump e dal suo team. E questo senso di unità è diventato globale, con Trump e i suoi alleati che stanno riscontrando rifiuto e proteste in tutto il mondo diplomatico».
Il premio Nobel , che oggi insegna alla Columbia University, porta l’esempio dell’American Civil Liberties Union (Unione Americana per le Libertà Civili) che – “avendo anticipato che Trump avrebbe presto calpestato i diritti individuali – si è mostrata più preparata che mai a difendere principi chiave della Costituzione come il giusto processo, l’equale protezione e la neutralità ufficiale riguardo alla religione. Nei mesi scorsi – sottolinea Stiglitz – gli americani hanno supportato l’organizzazione con milioni di dollari di donazioni”.
«Allo stesso modo – continua l’autore de Il prezzo della diseguaglianza -, in giro per il Paese, dipendenti e consumatori hanno espresso la loro preoccupazione per amministratori delegati e consigli d’amministrazione che sostengono Trump”. Di fronte all’atteggiamento spesso opportunista e spregiudicato di investitori e vertici aziendali, spetta ai singoli il compito di “rimanere vigili e resistere, ove necessario».
Scrive ancora Stiglitz:
«Media di primo piano come The New York Times e The Washington Post hanno finora rifiutato di normalizzare la negazione di Trump dei valori americani. Non è normale per gli Stati Uniti avere un presidente che rigetta l’indipendenza dei giudici; rimpiazza i funzionari più esperti dell’esercito e dell’intelligence al cuore della legislazione sulla sicurezza nazionale con un fanatico dei media dell’estrema destra; e, di fronte all’ultimo test missilistico della Corea del Nord, promuove le iniziative imprenditoriali di sua figlia».
Tutto questo – conclude Stiglitz – non è normale né accettabile, ed è importante ricordarselo sempre per evitare di diventare “insensibili” a questi e altri abusi di potere.
«Una delle sfide più grandi di questa nuova era sarà restare vigili e resistere – ogni volta e in ogni luogo in cui sarà necessario».
il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2017 (p.d.)
Un commento di Roberto Camagni e un intervento di Edoardo Salzano a proposito di un manifesto del "Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi". Il dibattito è aperto su una questione sulla quale esistono posizioni diverse, tra le quali il confronto è necessario.
VERITÀ E GIUSTIZIA
SUL DEBITO PUBBLICO ITALIANO
di CADTM.
(manifesto di invito all'Assemblea nazionale del CADTM - Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi, Italia)
Il mondo in cui viviamo è sempre più ingiusto.
La forbice tra i pochi che possiedono tutto e la gran parte delle popolazioni che non hanno nulla, in questi ultimi trenta anni si è allargata a dismisura.
Nel capitalismo basato sulla finanza, l’economia contemporanea si è trasformata da attività di produzione di beni e servizi in economia fondata sul debito.
La liberalizzazione dei movimenti di capitale, la privatizzazione dei sistemi bancari e finanziari, i vincoli monetaristi che permeano l’azione dell’Unione Europea hanno progressivamente reso autonome le attività e gi interessi finanziari, che ora investono non più solo l’economia, ma l’intera società, la natura e la vita stessa delle persone.
Le scelte adottate dalle élite politico-economiche dell’Unione Europea e dei governi nazionali per rispondere alla crisi scoppiata dal 2008 in avanti, hanno trasformato una crisi - che a tutti gli effetti è sistemica - in crisi del debito pubblico.
Da allora, il debito pubblico è agitato su scala internazionale, nazionale e locale, come emergenza allo scopo di far accettare come inevitabili le politiche liberiste di alienazione del patrimonio pubblico, mercificazione dei beni comuni, privatizzazione dei servizi pubblici, sottrazione di diritti e di democrazia.
Oggi la trappola del debito pubblico mina direttamente la sovranità dei popoli, la giustizia sociale e l’eguaglianza fra le persone, così come perpetua lo sfruttamento della natura, con conseguente inarrestabile cambiamento climatico.
Già i paesi del Sud del mondo, a partire dagli anni '70, erano stati testimoni di questo circolo vizioso dell'indebitamento e delle politiche di aggiustamento strutturale imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali con conseguenze devastanti in termini economici e sociali. Ci sembra dunque fondamentale, nel momento in cui la spirale è approdata al continente europeo, imparare dagli errori del passato.
Anche nel nostro Paese, il debito pubblico è da tempo utilizzato per ridurre i diritti sociali e del lavoro e per consegnare alle oligarchie finanziarie i beni comuni e la ricchezza sociale prodotta.
Un solo esempio basti a dimostrarlo: mentre per il sostegno alle popolazioni dell’Italia centrale duramente colpite in pochi mesi da due terremoti si stanziano 600 milioni dei 4,5 miliardi necessari, per risollevare 6 banche in fallimento si mettono immediatamente a disposizioni 20 miliardi di garanzie statali, da caricare sul debito pubblico del Paese. Mentre, per ogni evenienza, viene utilizzato lo spauracchio dell'aumento dello “spread” per rilanciare politiche di austerità e privatizzazioni.
Occorre invertire la rotta. Occorre comprendere, elaborare e spiegare il fenomeno debito per creare azioni che rivoluzionino l’attuale sistema delle diseguaglianze.
Occorre un’operazione di verità sul debito pubblico italiano, per conoscere come e per quali interessi è stato prodotto, quanta parte ne è illegittima, odiosa, illegale o insostenibile.
Occorre un’operazione di giustizia sul debito pubblico italiano: in un Paese in cui quasi la metà della popolazione fatica ad arrivare alla fine del mese e una famiglia su quattro non riesce ad affrontare le spese mediche, non si può più accettare che le banche e i profitti valgano più delle nostre vite e dei nostri diritti.
A questo scopo, Cadtm Italia (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi), affiliato al network internazionale dei Cadtm (Tunisi, Aprile 2016), rete inclusiva di persone, comitati, associazioni ed organizzazioni sociali, prosecuzione strutturata e mirata dell’esperienza del Forum Nuova Finanza Pubblica e Sociale e sintesi operativa dei bisogni emersi dall’Assemblea-Convegno sugli audit locali (Livorno, Gennaio 2016) e dal Convegno “Dal G8 di Genova alla Laudato si’: il Giubileo del debito?” del 19 luglio scorso
PRENDERSELA COL DEBITO?
ERRATO E POLITICAMENTE SCORRETTO
di Roberto Camagni
Prendersela col debito pubblico, come si fa nell’iniziativa “Verità e giustizia sul debito pubblico italiano”, suggerendo che sia possibile “uscire dalla trappola” che esso rappresenta per il paese e che occorra impegnarsi per “il ripudio del debito illegittimo”, mi pare operazione errata economicamente e politicamente scorretta.
Il mostruoso debito pubblico attuale - accumulato attraverso i deficit del bilancio dello stato presentati annualmente da quasi cinquant’anni e il relativo costo per interessi da pagare – rappresenta oggi una massa indistinta di titoli detenuta da chi ha prestato soldi al nostro paese, e cioè famiglie, banche e oggi anche la Banca Centrale Europea. Sottolineo l’aggettivo "indistinta", perché il debito è costituito da un impegno a restituire i fondi indipendentemente dalle ragioni che hanno spinto il paese a sforare ogni anno il suo bilancio pubblico. E non potrebbe che essere così: è impossibile determinare se il deficit di un anno è dovuto ai salari pubblici (magari in parte pagati per assunzioni di amici), welfare (magari generoso e di manica larga sulle pensioni come si faceva una volta, baby-pensionati ad esempio), opere pubbliche (magari inutili) o corruzione.
Dunque si deve ipotizzare che prima o poi il debito deva essere pagato; altrimenti, come è accaduto per la Grecia, i creditori chiederebbero tassi di interesse crescenti per detenere i nostri bot e il meccanismo diverrebbe catastrofico (e pagare i dipendenti pubblici diverrebbe impossibile). Vogliamo seguire la vecchia strada dell’Argentina in questo senso?
E’ bensì vero che in alcuni casi, per piccoli paesi poveri, il debito, detenuto da paesi avanzati o da grandi imprese, è stato condonato. Ma comunque ciò ha avuto un costo per i creditori, e si è trattato, ripeto, di paesi poveri. E non si tratta di 2.200 miliardi di debiti di un paese ‘ricco’ come l’Italia.
Le motivazioni politiche addotte per sostenere la tesi del ripudio mi sembrano confuse. Si imputa la insostenibilità al capitalismo finanziario odierno, quando il grosso del nostro debito originario è stato creato prima degli anni ’90, e negli ultimi 15 anni abbiamo solo verificato, con l’aumento degli spread, quanto fosse pericolosa la trappola che ci siamo costruiti noi.
Il costo per finanziare questo debito pubblico (spesa per interessi) non è mai stato così basso come oggi. Nel novembre scorso il tasso mediamente pagato è sceso allo 0,5%, e l’OCSE stima un risparmio complessivo per interessi nel triennio 2015-17 pari al 2,2% del PIL. Ciò è dovuto all’euro, alla discesa dell’inflazione e alle politiche di Draghi: quando ha stroncato la speculazione finanziaria nel settembre 2012 con un semplice annuncio (“pronti a fare tutto il necessario”); quando ha avviato una politica monetaria espansiva (il quantitative easing) ed è riuscito a far acquistare dalla BCE quote importanti del nostro debito, contro la posizione della Germania e dei paesi nordici. L’azione della BCE ha, almeno fin qui, evitato proprio quello che si afferma nel motivare l’iniziativa, cioè “di trasformare una crisi sistemica in una crisi del debito pubblico”.
Se gli obiettivi che si intravedono dietro questa iniziativa sono condivisibili – le politiche di austerità imposte dall’Unione Europea a trazione tedesca, le scelte di politica economica del paese – il bersaglio è sbagliato. E trasmettere il messaggio che il problema sia quello della trappola del debito, che “mina direttamente la sovranità dei popoli, la giustizia sociale e l’uguaglianza delle persone” (oltre che “lo sfruttamento della natura e il cambiamento climatico”) mi pare metodo politicamente scorretto, pericolosamente simile a quello dei populismi di destra e pentastellati, che aggiungono, implicita nella sovranità dei popoli, la sovranità monetaria. Prima di accorgersi dell’errore politico, qualche frangia della politica e della cultura di sinistra si è trastullata nel recente passato con l’idea dell’uscita dall’euro (per la Grecia, per vedere l’effetto che fa, ed eventualmente per l’Italia), come ho stigmatizzato nel mio articolo su eddyburg.it del 19 luglio 2015 “La grandezza di Tsipras e i vaniloqui di certa sinistra”. Non commettiamo lo stesso errore col debito pubblico.
Piuttosto riflettiamo su tre grandi temi sui quali oggi aprire un’azione politica vera ed efficace:
1) quali strategie di politica economica possiamo cercare di imporre all’EU, con i paesi del sud Europa, per allentare la morsa di una socialmente costosa ed economicamente inutile austerità;
2) come realizzare un programma di politica economica basato sul rilancio degli investimenti, pubblici e privati, che costituiscono l’unico modo per uscire nel medio termine dalla “trappola” del debito, anche appoggiando l’idea degli European Safe Bonds, oggi timidamente studiata dalla UE;
3) come rispondere attraverso decise politiche redistributive ai costi sociali della crisi, anche predisponendo uno strumento forte di tassazione patrimoniale una tantum, come proposto da tempo da alcuni economisti: l’unico strumento utilizzabile e concreto per ridurre a breve termine il peso del debito pubblico.
La lettura del commento di Roberto Camagni al manifesto del "Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi" mi fa comprendere, e di questo lo ringrazio, quanto siano fuorvianti la sparate demagogiche del tipo: “il debito pubblico è ingiusto, cancelliamolo”, ma non mi aiuta a vedere il nocciolo di verità che c’è in esso. In particolare, essa contrasta con tutto ciò che avevo appreso nel decennio trascorso a proposito della crisi del 2007, delle sue cause e dei suoi autori. nonché della svolta avvenuta dopo il lungo lavorio svolto dalla Trilateral Commission (1943) e dalla Mont Pèlerin Society (1947).
Del resto, l’abdicazione della politica dei governi a quella voluta dai grandi gruppi finanziari si era rivelata in Italia in modo emblematico con la vicenda della tentata sostituzione della Costituzione del 1948. Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, non ha mai smentito di aver sollecitato il governo Renzi a quella iniziativa (bocciata dagli elettori il 4 dicembre 2016) proprio per adempiere al diktat della JP Morgan Chase (meno diritti per il lavoro, meno spazio per la democrazia) [2]
Tornando alla questione del debito pubblico, esso diventa un problema politico e sociale a causa di una decisione del parlamento italiano; questo ha approvato, nel luglio 2016, il patto fiscale (Fiscal Compact) che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Questa decisione comporterà per l’Italia, ha scritto Luciano Gallino, «una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032.Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà»[3].
Dagli scritti di Luciano Gallino avevo appreso anche che, proprio a causa di quel capovolgimento del sistema dei poteri da lui denominato Finanzcapitalismo, il sistema bancario era divenuto qualcosa di molto diverso da quello che era ai tempi di Raffaele Mattioli e di Enrico Cuccia. Secondo l’analisi di Gallino in molti casi non si tratta di banche ma di «conglomerati finanziari formati da centinaia di società, gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l’esatto ammontare né il rischio di insolvenza». Ciò avviene, prosegue Gallino perché «esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore. Questo nuovo soggetto sociale e politico (oltre che economico) è formato da varie entità che operano come banche senza esserlo: fondi monetari, speculativi, di investimento, immobiliari».
Quando parliamo di sistema bancario parliamo insomma di una realtà molto diversa da quella dallo sportello a cui l’operaio o il pensionato o la casalinga affidano i loro risparmi. Parliamo di un soggetto che è fallito, o corre il rischio di fallire, perché ha fatto operazioni speculative sbagliate, o addirittura criminose. È questo il soggetto cui dovremmo rimborsare i soldi che per sua colpa ha perso.
È riformabile una realtà siffatta? Io credo di no. Il vero problema di fronte al quale ci troviamo quando parliamo del debito pubblico non è allora quello di domandarsi come rimborsarlo o come alleggerirlo, ma è quello – certamente più complesso e difficile – di come rovesciare il sistema di potere che lo ha prodotto. Uscire, insomma, non solo da questa nuova incarnazione del capitalismo ma dallo stesso sistema di idee, di valori, di principi, di pratiche, di modi di vita che va sotto il nome di capitalismo.
È probabile che io sia particolarmente ricettivo nei confronti delle analisi più radicali dell’evoluzione del capitalismo emerse in questo secolo perché avevo avuto la fortuna, grazie ai miei maestri Franco Rodano e Claudio Napoleoni, di intravedere ciò che stava avvenendo. Si trattava degli anni in cui la nuova forma del proteiforme capitalismo aveva cominciato a manifestarsi in quella che Gailbraith battezzò The Affluent Society (1958). Lo testimonia il mio libro Urbanistica e società opulenta (1969). Devo dire che, a partire da quegli anni, sono convinto - a differenza di molti miei amici - che il sistema capitalistico non sia emendabile, né nella sua versione privatistica, che ha dominato nel mondo Nordatlantico, né in quella statalistica, sperimentata in quello sovietico.
la Repubblica , 17 febbraio 2017, con postilla
Molti in Europa criticano il popolare premier ungherese Viktor Orbàn, pochi sanno con quali sfide dell'ultradestra egli fa i conti a casa. Un esempio, come narrato dalla britannica e ripreso ieri dall'agenzia italiana Dire, è ad Asotthalom, la graziosa cittadina a un passo dalla frontiera ungherese-serba e dalla barriera che la chiude per arginare la grande migrazione.
Il sindaco locale, Laszlo Toroczkai, membro di Jobbik (il partito di destra radicale che contesta nello Orszaghàz, il Parlamento nazionale, la maggioranza nazionalconservatrice della Fidesz di Orbàn, membro dei Popolari europei) ha varato dure leggi contro la residenza in loco dei musulmani, e anche severe restrizioni contro l'amore e le coppie omosessuali. Provvedimenti che appaiono contrari alle leggi ungheresi e alle stesse direttive del governo di maggioranza nazionalconservatore liberamente eletto (2010) e rieletto (2014).
Per ordinanza del giovane sindaco, è vietato ad Asotthalom indossare abiti strettamente musulmani, è vietato a qualsiasi muezzin lanciare appelli alla preghiera, è vietato anche costruire moschee. Sebbene i musulmani residenti siano appena due, e descritti come integrati e pacifici dagli abitanti intervistati dalla .
«Siamo tutti bianchi, europei, cristiani, vogliamo mantenere questa tradizione», ha detto il sindaco all'emittente britannica, aggiungendo di ritenere che è in corso una "guerra contro la cultura musulmana». E ancora: «Vogliamo dire benvenuto prima di tutto a gente dall'Europa occidentale che non vuole vivere in una società multiculturale, non vorremmo attirare musulmani nella nostra città, per la quale è molto importante preservare le proprie tradizioni; se un gran numero di musulmani arrivasse qui sarebbe incapace di integrarsi nella comunità cristiana».
Sempre secondo il resoconto della Bbc, il sindaco ha spiegato: «Vediamo che esistono in Europa occidentale vaste comunità di musulmani che si sono mostrate incapaci di integrarsi, e non vogliamo vivere la stessa esperienza qui... Vorrei che l'Europa appartenga agli europei, l'Asia agli asiatici e l'Africa agli africani».
Asotthalom, una deliziosa tipica cittadina agricola ungherese, con le strade ad angolo retto come a Torino, ampi giardini, case decorose in vecchio stile magiaro-asburgico, fu investita dalla grande ondata migratoria nel 2015, quando il premier Orbàn decise di reagire blindando il confine. La maggioranza dei migranti, profughi, immigrati illegali che vi passarono tentarono poi di proseguire verso altrove (Austria, Germania, Svezia) o furono poi radunati in centri di raccolta ungheresi, oppure espulsi perché ritenuti non in regola.
La nuova legislazione cittadina vieta di indossare lo hijab e altri indumenti musulmani o islamisti, vieta la preghiera e l'appello alla preghiera del muezzin, e anche la manifestazione pubblica di amore tra coppie omosessuali. Quest'ultima disposizione in particolare è in contrasto con la prassi della vita quotidiana nella vivace, giovanile capitale di tendenza Budapest, e di altre città del paese. E il governo di Orbàn non ha mai adottato simili misure. Il sindaco si è anche premurato di prevenire la costruzione di moschee. Chi le costruirebbe, quando ad Asotthalom vivono appena due musulmani, non è chiaro.
D'altra parte, dal 2015 gli abitanti di Asotthalom (cittadina con pochissima polizia) si sono sentiti spaventati e insicuri davanti alla massa di migranti in arrivo prima della costruzione della barriera di filo spinato lungo il confine a pochi chilometri a sud.
«Avevamo paura delle masse di migranti che camminavano attraverso la nostra cittadina, ho passato lungo tempo chiusa a casa da sola con i miei figli, avevo paura», ha detto alla la signora Eniko Undreiner. I gay fanno meno paura, sempre secondo le interviste volanti dei residenti raccolte dall'emittente britannica. Una citazione: «Alcuni gay vivono da noi, ci capita di parlare, sono molto gentili, poi ciò che fanno a casa loro non ci riguarda, siamo tutti esseri umani». Budapest metropoli globale è comunque lontana, negli animi ogni paese ha una sua capitale diversa dalla provincia profonda.
postilla
Il livello di barbarie raggiunto in Europa è tale da dover suscitare una riflessione profondamente autocritica per chiunque abbia partecipato con qualche responsabilità alla vita pubblica negli ultimi decenni. Come è mai stato possibile che la formazione del pensiero che si manifesta oggi nelle teste degli europei sia stata così straordinariamente povera da non aver fatto comprendere che il contributo dato dalle civiltà del mondo musulmano è stato così grande e fondativo quanto è stato? Se lo sapessero, gli europei non potrebbero essere così autolesionisti da voler tagliare una importante radice della loro stessa civiltà. Qualche colpa in questa tragedia va certamente attribuita all'orgoglioso eurocentrismo che ha dominato nel mondo "occidentale."
il manifesto, 17 febbraio 2017 (c.m.c.)
Comincio da me, così si è più chiari. Proprio perché – come ha scritto Marco Revelli – bisogna «prendere le distanze dalle configurazioni del giorno» – una vera girandola – credo sia necessario non prendere le distanze dai processi più consistenti per avviare i quali molti compagni si sono impegnati.
Molti compagni e non questo o quel leader che si sente improvvisamente chiamato dal popolo a creare qualche “campo”. Per questo oggi andrò a Rimini per partecipare al Congresso costitutivo di Sinistra Italiana.
Ci vado innanzitutto perché sento che ho più che mai bisogno di stare assieme a compagni con i quali in questi anni abbiamo combattuto le stesse battaglie (non solo reduci, per fortuna anche tanti nati nei ’90) – per ultima quella del referendum – per ragionare con loro e tentare di indicare una prospettiva che mi/ci sottragga da questo “squilibrio di sistema”.
Perché più che mai sento che rischiamo di essere travolti se non costruiamo un luogo, un aggregato, che dia forza all’intenzione di rispondere a una domanda di senso e non solo di consenso immediato; se, soprattutto, non riusciamo a mettere in piedi una pratica politica che dia rappresentanza reale ai bisogni degli sfruttati e non sia, come sempre più è, solo comunicazione.
Per questo sento l’urgenza di relazionarmi con gli altri, di superare il maledetto isolamento individualista che ci ha tutti ammalato, di ritrovare il collettivo, senza il quale non mi resterebbe che il malinconico brontolio solitario. Un partito è questo, innanzitutto.
Provarci vuol dire “chiudersi”, “isolarsi”, mentre invece bisognerebbe aprirsi? Certo che bisogna aprirsi, ma per aprire una porta devo avere una casa, cioè un punto di vista organizzato, se no la porta sbatte e basta. E poi, per guardare a quello che c’è all’aperto, bisogna avere il cannocchiale, non la lente di ingrandimento che ti consente l’illusione ottica di vedere grandissimo quello che invece è piccolo.
Io credo, per esempio, che piccolo sia il dibattito che si sta svolgendo all’interno del Pd.
Non dico che non sia rilevante, anzi, dico solo che riguarda un pezzetto di mondo, mentre c’è un mondo più grande, fatto di movimenti, gruppi che operano sul territorio, reti, insomma una società italiana più ricca di fermenti di quanto generalmente si creda. Frantumata, certo, ma anche per questo penso sia giusto ricominciare a pensare ad un’organizzazione politica che sappia impegnarsi ad esserne parte, non solo vago referente esterno.
Del Pd mi interessa – e molto – il grande corpaccio della tradizione, che però non recupererò alla soggettività politica appiattendomi su uno dei leader della sua minoranza interna. Con i quali potrò, se ce ne saranno le condizioni, allearmi per combattere delle battaglie, forse, persino elettorali.
Ma tanto più efficacemente potremo farlo tanto più saremo capaci di imporre un confronto di merito, e non solo di posizionamento.E’un azzardo puntare su Sinistra Italiana, un cavallo così fragile , pieno di difetti, che subisce prima ancora di nascere -. un vero record – una scissione corposa ( e certamente dolorosa)? Sì, lo è.
Potrebbe non funzionare. E però penso che se perdiamo questa occasione il rischio di trovarci assai male sarebbe ben maggiore. Ci sono momenti in cui occorre rischiare, cioè scegliere (e francamente questo non è poi un rischio così grosso).
Ho scelto Sinistra Italiana perché chi la sta costruendo ha avuto il coraggio – per l’appunto – di aprirsi, e cioè di rinunciare alle certezze dei propri rifugi. Che è quanto di più efficace si possa fare se si vogliono davvero “aprire campi” più inclusivi, che non siano la somma di identità irrigidite.
Sel, decidendo di sciogliersi, proprio questo ha fatto: mettere in discussione se stessa, a partire dalla riflessione critica sull’esperienza del centrosinistra di cui era stata protagonista.Saremo elettoralmente irrilevanti? Dipende da molte cose, ma – ed è questo che mi importa ribadire in questo momento – non tutto si gioca su quel terreno.
C’è un enorme lavoro da fare nella società per tradurre la disperazione in un protagonismo politico capace di dare al conflitto una prospettiva. Per rivitalizzare le istituzioni democratiche che Renzi ha cercato di sterilizzare bisogna cominciare di qui, altrimenti qualsiasi governo, anche un centrosinistra un po’ più di sinistra, sarà inutile.
Ci sono tempi in cui i risultati di quanto si fa si possono misurare solo nel lungo periodo.Quanto sta bollendo in pentola non è affatto un nuovo bel centro-sinistra di sinistra.
Mi sembra di capire che, anzi, il nuovo scenario politico sia un nuovo bipolarismo: non il vecchio sinistra/destra, ma: da un lato i “barbari” ( 5Stelle, Salvini e c. più la plebe che protesta contro licenziamenti e povertà, gli immigrati); dall’altro i “civilizzati”, quelli che hanno capito che in momenti come questi si devono erigere trincee. (E cioè il Pd, i mozziconi di destra già da tempo imbarcati da Renzi, ma oramai anche Berlusconi, riammesso nel salotto buono da quando si è visto che, diciamocelo, non è brutto come Trump).
Eugenio Scalfari ad Ottoemezzo, giorni fa, l’ha detto con maggiore chiarezza di altri ricorrendo a toni persino apocalittici: chi è civilizzato deve capire che il castello della democrazia è assediato e senza fare tante storie ubbidire e combattere con chiunque si ingaggi.
A questo punto che lo schieramento invocato si chiami centro-sinistra, o larghe intese, non ha importanza, è questione solo nominale. Non è più tempo, insomma – ecco il messaggio – per occuparsi di dettagli cincischiando su quanto di sinistra potrebbe essere il centrosinistra.Non siamo più, mi pare, al renzismo, siamo oltre, quello è stato – o meglio ancora è – l’apprendista stregone.
L’appello dei civilizzati avrà sicuramente chi lo ascolta, può apparire persino di buon senso. Anche perché i civilizzati hanno meno problemi: non il lavoro, non la povertà, non le miserie dei servizi pubblici che si restringono come pelle di zigrino.
Solo che le cose non stanno così: se le scelte dovessero ridursi a questa alternativa saremmo davvero fritti: il disagio sociale e il populismo che cresce in assenza di una forza che se ne faccia carico, potrebbe davvero dare fuoco alle polveri.
Il realismo dovrebbe indurre a privilegiare l’obiettivo di colmare questo vuoto.
La Nuova Venezia, 17 febbraio 2017 (p.s.)
Marghera. Un gruppo di trentacinque persone e un obiettivo: comprare un appartamento per accogliere e ospitare, almeno in questa prima fase, i richiedenti asilo, i «fratelli profughi». E’ il loro modo di trasformare «lo sgomento in decisione e la compassione in azione diretta», spiegano i membri dell’associazione, ispirati dalle parole di Papa Francesco: «Quanta indifferenza e ostilità nei confronti dei fratelli profughi!». E da quelle del presidente Sergio Mattarella: «Io, con la mia famiglia e la mia comunità, cosa posso fare?».
L’appartamento dei migranti è il modo dei membri dell’associazione di praticare l’accoglienza diffusa, impegnandosi in prima persona. «Ognuno di noi», spiega Antonino Stinà, il presidente dell’associazione DiCasa, «ha messo una quota compresa tra 500 e 3000 euro come forma di prestito infruttifero all’associazione».
L’impegno di chi aderisce, partecipando all’associazione, è di vincolare il prestito per almeno tre anni trascorsi i quali l’associazione, in caso di richiesta, si impegna a restituire la somma nell’arco di un anno. In pochi mesi l’associazione è riuscita a raccogliere 80 mila euro, individuando un appartamento, a Marghera.
Nei prossimi giorni l’appuntamento dal notaio per il rogito e l’acquisto dell’abitazione mentre in primavera è previsto l’arrivo dei primi ospiti. L’appartamento verrà dato in comodato d’uso gratuito a una cooperativa vicina alla Caritas, tra quelle accreditate e autorizzate dalla prefettura di Venezia, e sarà la cooperativa ad occuparsi dell’accoglienza dei migranti, tra i quattro e i sei.
I soci dell’associazione DiCasa sono famiglie che abitano in città e che hanno deciso che era il momento di fare qualcosa, rimboccarsi le maniche. Tra i soci anche don Nandino Capovilla, parroco alla Cita di Marghera, molto impegnato sul fronte delle persone più bisognose: «Questo progetto è il sogno di un gruppo di persone, cattoliche e non, che si sono chieste: che cosa possiamo fare per questi fratelli?».
La nascita dell’associazione per l’acquisto della casa è stata la risposta. «Perché non ci si può lamentare e allo stesso tempo stare con le mani in mano», nota don Nandino.
L’esperienza di Marghera è anche la risposta a Cona, il maxi centro dove sono ospitati oltre mille migranti, anche per le ostilità di molti altri comuni del Veneziano che si oppongono ai trasferimenti, mettendosi di traverso alle indicazioni della prefettura.
«Dicono che le cooperative fanno soldi con i migranti? Non tutte le cooperative sono uguali, ci sono realtà e persone seriamente impegnate in progetti con piccoli numeri, che rendono più facile l’integrazione», aggiunge Stinà.
I volontari dell’associazione daranno ai profughi (e in particolare alle profughe e ai loro figli che, secondo la Prefettura di Venezia, sono l'attuale emergenza in quanto soggetti più deboli ancora) un tetto sotto il quale stare, ma cercheranno anche di stare loro vicino nella gestione della casa, oltre il lavoro degli operatori della cooperativa. «Li aiuteremo con la lingua, nei rapporto con il quartiere».
Che poi vuol dire imparare a fare la spesa, capire come funziona la raccolta differenziata, trovare la fermata giusta per andare a prendere l’autobus, conoscere il fornaio sotto casa. «Un investimento? Sì, nella giustizia, nell’accoglienza e nella solidarietà».
Lettera 43 online,15 febbraio 2017 (c.m.c.)
La Babele che si erge contro la stretta di Donald Trump sugli immigrati - oltre al muro annunciato e lo stop agli ingressi da sette Stati musulmani, un decreto che dal 26 gennaio 2017 ne autorizza gli arresti sommari - è composta da centinaia tra grandi città e centri minori americani sparsi in quasi tutti gli States della federazione: una realtà che, per agire in modo democratico, il nuovo presidente degli Usa dovrebbe considerare, anche solo per rispettare la maggioranza della popolazione (quasi 3 milioni di elettori in più per Hillary Clinton, se Oltreoceano si votasse secondo la regola “una testa un voto”) che non lo vuole alla Casa Bianca.
Donald le smantella? New York, San Francisco, Chicago, Seattle, ma anche Detroit, Dallas e Tampa negli Stati roccaforte dei repubblicani, la capitale dell'Alabama Birmingham e una miriade di altri Comuni locali. Sono circa 200 le «città-santuario» degli Usa, una trentina quelle più grandi, che, dal loro gran rifiuto nel 1996 alla Legge sull'immigrazione dell'Amministrazione democratica di Bill Clinton sull'aumento delle espulsioni, tengono orgogliosamente aperte le porte agli stranieri irregolari sul territorio. Barack Obama, e prima di lui anche Bush figlio, le avevano nel complesso tollerate. Trump le vuole smantellare, tagliando loro miliardi di fondi a meno che non si adeguino al nuovo corso.
Qualcuna delle città-santuario, come la Miami anti castrista e altri bacini elettorali nell'Alaska di Sarah Palin, si sono subito dichiarate pronte a cooperare con il Dipartimento per la Sicurezza nazionale che applica il decreto Trump e saranno presto depennate dall'elenco delle città-santuario. Ma sono mosche bianche: la maggioranza di questi porti sicuri per gli oltre 11 milioni di senza diritti, che lavorano nella clandestinità mandando a scuola i loro figli negli Usa, promette di non cedere al diktat del governo e si attrezza a un duro e lungo scontro con Trump. Una guerra di trincea.
De Blasio in prima fila. Il sindaco di New York Bill de Blasio, italo-americano figlio di immigrati, ha iniziato a «mettere da parte 250 milioni di dollari all'anno, in riserve, per quattro anni», visti i «tempi incerti che si prospettano». La Grande Mela è la metropoli capofila, e la più famosa, dell'opposizione all'Amministrazione Trump. De Blasio ha annunciato, immediatamente dopo la vittoria del tycoon alle elezioni dell'8 novembre 2016, che avrebbe trasgredito le direttive di Washington: «Non daremo al Dipartimento del governo le liste degli irregolari di New York. Non deporteremo coloro che rispettano la legge», ha aggiunto, «non separeremo le famiglie».
Un'altra metropoli che fa molto rumore per le barricate contro Trump è la liberal San Francisco, capitale dei diritti agli omosex oltre che della Silicon Valley delle multinazionali informatiche in guerra con la nuova Amministrazione protezionista. Ma tutta la California degli artisti di Hollywood, che confina col Messico, da Los Angeles a San Diego, da Sacramento a Santa Barbara per citare le località più conosciute, è disseminata di città-santuario che non procedono agli arresti tout court degli immigrati disposti da Washington. E pure la capitale, sede del Congresso e della Casa Bianca, è a sua volta città-santuario dal 2010, da quando il Consiglio comunale votò lo stop al proprio dipartimento di polizia a eseguire un programma di sicurezza.
La minaccia dei fondi taglaiti. Come Boston, Denver e Los Angeles, Washington è una delle città Usa che non si sono mai esplicitamente proclamate città-santuario ma che, disponendo forme di protezione per gli irregolari e bloccando alcune disposizioni centrali dei governi contro di loro, negli anni si sono di fatte aggiunte all'elenco. Anche il sindaco di Boston Marty Walsh si è dichiarato «profondamente disturbato» dai provvedimenti di Trump, anticipando di mettere in campo «tutti i mezzi legali» a disposizione «per proteggere tutti i residenti» della capitale del Massachusetts. A rischio, solo per il 2016, per Boston ci sono circa 65 milioni e mezzo di dollari di entrate fiscali dal governo federale.
In totale l'Amministrazione Trump (ora scossa dal caso Flynn) è pronta a sospendere più di 2 miliardi di fondi verso le 10 maggiori città statunitensi (quasi tutte città-santuario), per boicottare gli ammutinamenti. Per New York si tratta di più di 250 milioni di dollari di finanziamenti in meno, per Los Angeles più del doppio. Per Seattle di 72 milioni, per Denver di 39 milioni. La chiusura dei rubinetti di Washington toglierà risorse ai programmi educativi e sociali, anche per il sostegno all'assistenza sanitaria, in un anno nel quale potrebbe saltare anche la riforma del welfare di Obama che Trump intende abolire il prima possibile. A Seattle, teatro anche di calde manifestazioni anti-Trump, l'Amministrazione locale stima che i mancati introiti fiscali «avranno un grosso impatto anche sull'economia e sul commercio».
Appello al quarto emendamento. Ma l'ostruzionismo va avanti anche in decine di altre città minori: da Phoenix e Tucson in Arizona, a New Orleans in Louisiana, a Portland nel Maine, a Baltimora in Maryland, a Minneapolis in Minnesota, a Cleveland e Dayton nell'Ohio, da Est a Ovest la mappa degli Usa è tempestata di paletti a Trump. Oltre a ribadire che non si piegherà alla Casa Bianca, a dicembre il primo cittadino di Chicago Rahm Emanuel ha stanziato nel bilancio comunale del 2017 un milione di dollari per l'assistenza degli immigrati. Il sindaco di Seattle Ed Murray ha affermato categorico: «Non permetteremo alla polizia, come avvenne nella Seconda guerra mondiale, di dipendere dal governo federale per prelevare gli immigrati. Il quarto emendamento è chiaro a proposito».
L'articolo citato della Costituzione americana tutela chi si trova sul suolo degli Stati Uniti da «ricerche e misure irragionevoli sulle persone e sulle loro cose». Negli Usa le città-santuario hanno iniziato a costituirsi spontaneamente dagli Anni 80 per accogliere gli stranieri in fuga dai conflitti nell'America latina, e si sono man mano ingrossate con l'inasprimento delle leggi sull'immigrazione degli ultimi 30 anni: la costruzione della barriera con il Messico di Bush padre prima, il via libera alle «deportazioni di clandestini» di Clinton poi, infine l'aumento dei controlli e delle espulsioni alle frontiere dello stesso Obama, che a fronte di una grande sanatoria per circa 5 milioni di irregolari interni, nei suoi due mandati ha anche rafforzato le misure di deterrenza agli ingressi.
Cinque stati contro. Smantellare questa rete di porti sicuri non potrà essere immediato per Trump, neanche se ha già firmato l'ordine esecutivo che blocca i finanziamenti statali alle città-santuario. Se centinaia di arresti di irregolari sono scattati e procedono in diversi Stati degli Usa, in almeno altri cinque (California, Oregon, Vermont, Connecticut e Rhode Island) e in 39 città, nonché in oltre 600 contee, le leggi fissano limiti legali alla cooperazione delle polizie locali con le agenzie federali nazionali sull'immigrazione. E sono diversi gli appigli legali per i sindaci delle città-santuario.
la Repubblica, 14 febbraio 2017 (c.m.c.)
Come difendersi dai populismi in tempi di crisi: la lezione postuma dello storico George L. Mosse.
Trump cavalca il risentimento di una middle class convinta di poter tornare a passati splendori a suon di protezionismo e discriminazione. Marine Le Pen incendia le folle ben oltre i confini francesi rilanciando parole d’ordine come «padroni a casa nostra» e un mitico «risveglio dei popoli». In Italia la destra cerca di ricompattarsi sotto l’ombrello “sovranista” (il neologismo per chi vuole smontare l’euro e l’Ue in nome del feticcio della sovranità nazionale). Lo scorso sabato, i fantasmi del luglio ’60 hanno scosso Genova in occasione del convegno “Per l’Europa delle patrie”, organizzato da Forza Nuova, ospiti d’onore alcuni leader dell’estrema destra europea neonazista e negazionista.
In L’umanità in tempi bui Hannah Arendt raccomandava di farsi «pescatori di perle», le perle di pensiero di chi ha penetrato con sguardo acuto i tempi oscuri. Di fronte ai rigurgiti del peggior Novecento, mentre gli intellettuali statunitensi si rimettono umilmente a studiare i prodromi del fascismo italiano, a noi può tornare utile rileggere uno dei più grandi e influenti storici del Novecento, George L. Mosse.
Nato nel 1918 e morto nel ’99, ebreo tedesco (rampollo di un’illustre famiglia di editori, sfuggì al nazismo riparando negli Usa) e omosessuale (fece coming out negli anni Ottanta) fu un outisder da ogni punto di vista: caratteristica che contribuì non poco a formare il suo sguardo libero, originale e provocatorio. Con La nazionalizzazione delle masse (1975) impresse alla storiografia la “svolta culturale” che rivoluzionò gli studi sui fascismi e le masse in politica nel XX secolo. Il suo vasto programma di ricerca, pervaso da un forte afflato etico, ruotò in gran parte attorno a un problema ancora attualissimo: la debolezza delle democrazie parlamentari nei momenti di crisi.
Il tema percorre sia La nazionalizzazione che un’altra grande opera, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste (1980), in particolare la sezione in cui tenta di tracciare una teoria generale del fascismo. Una sintesi del suo pensiero emerge nella lunga Intervista su Aldo Moro, una disamina della crisi della democrazia italiana nel quadro internazionale (riproposta da Rubbettino nel 2015). Correva l’anno 1979, ma le riflessioni di Mosse intorno allo statista Dc assassinato, rilette oggi, offrono una griglia d’analisi pertinente ai problemi che ci assediano. A tratti, sono quasi profetiche.
Premessa: la libertà, politica ed economica, non può sopravvivere senza le strutture del sistema parlamentare, ma la storia ha mostrato che il “meno peggio” tra i sistemi politici è molto fragile, quando si trova sotto pressione. Non serve una guerra mondiale: basta una crisi economica seria e prolungata. Anche se il fascismo non si ripresenterà mai nelle stesse forme degli anni Trenta, i germi di crisi e dissoluzione del sistema permangono.
Il deficit originario che affligge la democrazia parlamentare, spiega Mosse, è l’inefficacia dei suoi meccanismi di partecipazione, limitati essenzialmente al momento del voto, come già avvertiva Rousseau. Questi si sono ancor più ristretti con la crisi dei grandi partiti, tradizionali strumenti di integrazione delle masse. Finché la maggior parte delle persone riesce a vivere dignitosamente, il sistema va avanti per inerzia; quando la scarsità incombe, le tensioni riemergono.
La democrazia parlamentare vive di mediazioni basate sulle facoltà critiche e razionali, ma la cittadinanza, continua Mosse, smette con facilità di avvertirne i benefici quando la qualità della vita peggiora, la classe di governo colleziona fallimenti ed episodi di corruzione, la burocrazia è opprimente, manca una prospettiva per il futuro. In questi frangenti, il “leader forte” che risolve, in cui identificarsi, appare rassicurante, anziché una minaccia: non a caso, secondo recenti sondaggi, in Italia lo auspicano 8 cittadini su 10.
Mosse evidenzia un paradosso ancora attualissimo: per essere statisti di successo nei sistemi parlamentari contemporanei bisogna diventare in certa misura “leader carismatici”, capaci di muovere le passioni più che appellarsi alla ragione — anche se è quest’ultima a essere essenziale in una democrazia sana. L’irrazionale ha una presa molto maggiore su una popolazione alienata, quando il mondo appare pericoloso e incomprensibile.
Per questo oggi il mito della nazione, cioè la più potente idea-guida del XIX e XX secolo, capace di creare coesione, mobilitare passioni e superare le divisioni di classe, profondamente radicata nella cultura occidentale, s’è ridestata con vigore. Ripiegare nella comunità nazionale offre l’allucinazione consolatoria del ritorno a un passato mitizzato, a misura d’uomo, contro un mondo dominato dal potere misterioso del denaro.
La frustrazione, infatti, è incanalata contro “le banche” e “l’Europa”, incarnazioni delle grandi forze spersonalizzanti del capitalismo finanziario, arcinemico individuato già più di un secolo fa (e sopravvissuto allo spettro gemello del marxismo). Il bisogno di rassicurazione è tutt’uno con quello di avere la sensazione di partecipare, di contare qualcosa, anziché essere condannati all’impotenza e all’irrilevanza.
È una delle chiavi del boom del Movimento 5 stelle, unico soggetto parzialmente alternativo alle destre: al rassicurante carisma del capo e a originali riedizioni dei grandi raduni ritualizzati unisce la retorica dell’“uno vale uno” e un ventaglio di strumenti, dai meet up alle consultazioni online, che soddisfano il bisogno di partecipazione, sebbene in modo più apparente che sostanziale. Anche perché molte persone non hanno gli strumenti intellettuali per comprendere la differenza, e questo ci porta all’ultima considerazione. Anche se non mancano della capacità di leggere una realtà sempre più complicata, le persone hanno comunque bisogno di «cogliere la vita nel suo complesso e a capire da sé», scrive Mosse (ne L’uomo e le masse). Per questo, le teorie del complotto e i “falsi” costruiti per compiacere credenze diffuse hanno tanta presa.
Ossessionato dall’interrogativo di Machiavelli, «come può l’uomo virtuoso sopravvivere in un mondo malvagio?», Mosse incitava a non rassegnarsi a un presunto declino della democrazia. Accanto a misure politiche adeguate, le forze progressiste devono elaborare strumenti per soddisfare il bisogno di partecipazione. Un buon suggerimento viene da Barack Obama: nel discorso d’addio ha rievocato il “community organizing” con cui si fece le ossa a Chicago, una tecnica di empowerment della cittadinanza assai efficace, poco nota in Italia (per saperne di più communityorganizing. it).
L’importante è non restare inerti. Mosse e tante altre guide possono aiutarci a ragionare sul passato, che è uno strumento vivo a nostra disposizione, non un presagio di condanna.
Apple, Google, Simens, Roll Royce sono solo alcune delle imprese che hanno la Rete come infrastruttura. Finanza, lavoro precario, bassi salari, evasione fiscale, uso dell'intelligenza artificiale e tendenza al monopolio sono le loro caratteristiche». il manifesto, 14 febbraio 2017 (c.m.c.)
Nick Srnicek Platform capitalism (Polity, pp. 171, euro 11,66)
In tempi dove la fila per dare l’estremo saluto alla globalizzazione si allunga sempre più, vedendo marciare gomito a gomito teorici in odore di marxismo e esponenti della destra populista e nazionalistica, un saggio come quello di Nick Srnicek Platform capitalism (Polity, pp. 171, euro 11,66) è decisamente controcorrente, visto che è scandito dalla convinzione che il capitale abbia una innata vocazione mondiale, globalista».
Tanto esponenti radical che xenofobi sostengono che è tempo di un ritorno alla sovranità nazionale, individuando in essa sia l’unico spazio della trasformazione sociale che il fortino dove salvaguardare identità locali. La crisi economica attesta che l’ideologia neoliberale sul mondo piatto era una perniciosa illusione che ha favorito il capitale finanziario e accentuato all’inverosimile le disuguaglianze sociali. Di fronte a tale critica c’è da sottolinearne la concezione storicista dello sviluppo capitalistico, quasi che la storia sia una linea retta che tende inesorabilmente alla sua fine.
D’altronde che la globalizzazione non fosse un pranzo di gala era evidente sin dalla crisi della cosiddetta new economy. Anche allora ci fu chi scrisse che serviva solo chi desse l’estrema unzione alla globalizzazione dopo il tonfo della Borsa a Wall Street che decretò la chiusura di decine di imprese high-tech. Una crisi, quella di allora, che vide scorrere velocemente sugli schermi di tutto il pianeta le manifestazioni altermondialiste fino alle giornate di Genova», l’assalto alle Torri gemelle, l’intervento militare in Afghanistan prima e Iraq dopo.
Nel mondo piatto amato dai neoliberisti la guerra – sebbene sia comunque un conflitto non convenzionale, cioè combattuto da eserciti nazionali – è sempre lo strumento di gestione politica della crisi capitalistica che, in questo caso, ha accelerato i processi di globalizzazione, all’interno di uno schema dove la somma tra discontinuità e continuità non si avvicina certo allo zero. Semmai dà forma a fenomeni di interdipendenza e diffusione planetaria del modo di produzione capitalistico, in un caleidoscopio di finanza internazionale, imprese globali e bacini di eterogeneo lavoro vivo.
Anche quello che sta accadendo in queste settimane negli Stati Uniti dopo l’insediamento di Donald Trump non suona a morte per nessuno, ma segnala semmai la ferocia e la violenza che contraddistinguono i tentativi di fuoriuscire da una crisi a geografia variabile che dura ormai dal 2007 e della quale ancora non si vede l’uscita. Più che ratificare la fine della globalizzazione Trump sta semmai sottoscrivendo l’atto di dolore della fine dell’egemonia statunitense nell’economia mondiale.
Per comprendere la difficoltà di chiudere una fase dello sviluppo capitalistico con un decreto presidenziale il denso saggio di Nick Srnicek è quindi una ventata di aria fresca. L’autore, nell’analisi del ruolo nel capitalismo mondiale di imprese come Google, Amazon, General Electric, Siemens, Ibm, Apple, Roll Royce, Uber, invita a pensare alla globalizzazione non come una parentesi, bensì come un elemento irreversibile, specificando tuttavia che non esiste un modello statico della globalizzazione stessa, bensì come un processo dove svolgono un ruolo fondamentale le strategie imprenditoriali tese a ingaggiare e prevenire il conflitto sociale, e di classe, nonché trovare una risposta, flessibile e in divenire, a una crisi del capitalismo che ha preso l’avvio nei, ormai lontani, anni Settanta del Novecento.
Ricercatore presso la Univerity of London e autore di un libro dove prefigura una società postlavorista (Inventing the Future: Postcapitalism and a World Without Work, scritto con Alex William) e di alcuni saggi sull’accelerazionismo» – in Italia ne è stato pubblicato uno nel volume Gli algoritmi del capitale (ombre corte) -, Srnicek si propone in questo saggio di illustrare le caratteristiche di un capitalismo globale e dove lo stato-nazione serve tutt’al più a garantire la deregolamentazione del mercato del lavoro, la libertà di movimento dei capitali e a definire le norme affinché la vita sociale sia compatibile con il regime di accumulazione capitalistico.
Il saggio fornisce elementi analitici, approfondimenti sulle diverse tipologie di piattaforma» e business model che scandiscono il platform capitalism. La scelta di una consolidata datazione storica dello sviluppo capitalismo – la crisi degli anni Settanta dovuta a un surplus di capacità produttiva e la conseguente sovrapproduzione, la liberalizzazione della circolazione dei capitali, la leva usata sui tassi d’interesse, la deregolamentazione del mercato del lavoro e un epocale processo di decentramento produttivo, lo tsunami di investimenti per la ricerca e sviluppo propedeutico alla rivoluzione del silicio» – serve per leggere lo sviluppo capitalistico in base a una logica sistemica» esterna alle relazioni sociali e i conflitti di classe, geopolitici che hanno caratterizzato gli anni del neoliberismo. Ed è questa logica sistemica che dà forma alla globalizzazione e alla sua infrastruttura tecnologica, la Rete.
La narrazione di Srnicek abbandona a questo punto i sentieri già aperti e battuti dalla tradizione keynesiana-marxista per affrontare elementi ritenuti inediti dell’attività economica: forme di impresa a rete dalle medie dimensioni che generano però alti profitti e che occupano il centro della scena globale produttiva.
Già perché il modello di imprese emergente è quello definito, secondo l’autore, dalla Nike: accentramento della gestione di ideazione, progettazione e decentramento radicale di tutte le attività a basso contenuto di conoscenza (in questo caso torna utile la distinzione tra dati e conoscenza, spesso ignorata dagli agit-prop del capitalismo delle piattaforme).
Ma quello che fa davvero la differenza è che i dati sono ormai diventati le materie prime privilegiate nello sviluppo capitalistico. E che la cosiddetta digital economy è trasversale, cioè coinvolge tutte le attività produttive. Considerando la tassonomia delle espressioni usate per indicarla – sharing economy, app economy, gig economy – una convenzione che qualifica questo o quell’aspetto dell’economia digitale, la tesi di Srnicek è che il platform capitalism è il modello emergente e vincente di questo giro di boa del capitalismo. Ogni impresa investe infatti in tecnologia e software, così come è connessa alla rete per rendere efficiente il coordinamento delle diverse fasi produttive, disperse geograficamente su regioni non sempre vicine, producendo così dati, cioè materia prima per se stesse e per altre imprese.
La scala globale delle piattaforme è dovuta all’obiettivo di accrescere, in maniera esponenziale, la massa di dati da elaborare, impacchettare, vendere ad altre aziende per i loro affari, sia che siano vendita di spazi pubblicitari o servizi.
Interessante è la distinzione introdotta per evidenziare diverse tipologie di piattaforma. C’è l’advertising platform (vendita di spazi pubblicitari: qui i padroni sono Google e Facebook), la cloud platform, cioè i proprietari di hardware e software usati da altre imprese, l’industrial platforms (che fornisce la tecnologie e il software affinché altre aziende possano ottimizzare i propri processi organizzativi e produttivi), le product platforms (i loro profitti derivano dall’uso di altre piattaforme, che trasformano i loro prodotti in servizi usati da imprese), le lean platforms (quei servizi come Airb&b e Uber).
Tutte queste tipologie più dati accumulano più potere esercitano sul mercato di loro competenza, garantendo così i propri margini di competività verso altre imprese. Ma la vocazione globalista» è data da altri motivi triviali: l’evasione delle tasse, facendo leva sulle differenti legislazioni e sulla moltiplicazione di regioni tax free per attrarre investimenti. La creazione di monopoli è quindi la logica conseguenza di questo tipo di capitalismo, nonostante le retoriche dominanti sul libero mercato e la concorrenza come sale di una buona economia.
In un milieu di capitale di ventura, sviluppo di software che attingono a ricerche sull’Intelligenza artificiale, lavoro precario e deregolamentato, le piattaforme sono inoltre imprese con pochi dipendenti, ma che attivano ampi indotti di piccole imprese che sviluppano app. Il nodo della crescita senza lavoro trova soluzione in questa dimensione sistemica» del capitalismo delle piattaforme.
L’altro elemento colto da Srnicek è il legame tra tecnologie della sorveglianza e accumulo dei dati. Più sorveglianza c’è, più dati possono essere tratti dai comportamenti dei singoli, attivando procedure automatizzate di profilazione» che può essere successivamente venduta o per sviluppare strategie di pubblicità mirate. In questo caso, sarebbe però opportuna la formazione di un complesso militare-digitale, visto che tanto i militari che le imprese private raccolgono, estraggono» dati.
Pochi, invece, i riferimenti a su come sia cambiato il lavoro. Srnicek insiste sul fatto che il capitalismo delle piattaforme prevede una crescita senza lavoro, ma il discorso andrebbe meglio articolato. Da una parte ogni impresa di questo tipo dà forma a veri e propri bacini di forza lavoro che contemplano diverse forme contrattuali, specializzazione, appartenenza etnica e di genere e dove le imprese attingono ogni volta che ne hanno bisogno. Da questo punto di vista sarebbe corretto parlare che il lavoro vivo viene gestito tutto come un esercito industriale di riserva, eccetto per alcune mansioni ritenute strategiche, determinando la convergenza di interessi tra il core labour e le imprese (da questo punto di vista Silicon Valley è paradigmatica della difficoltà, se non impossibilità di pensare i knowledge worker come soggetto centrale di un rinnovato conflitto di classe).
Il caso noto dei Mechanical Turk di Amazon è qui significativo dell’uso di lavoro intermittente e con salari spesso sotto al di sotto della soglia di povertà.
Ma questo non è l’oggetto del libro. Un limite certo, ma anche un punto di forza nel descrivere e mettere a tema teorico e politico il platform capitalism come forma emergente di quella globalizzazione che tutti considerano morta ma che fa della crisi, e della sua flessibile gestione, un elemento dinamico. Per le imprese, certo non per il lavoro vivo, che vede moltiplicarsi dispositivi, norme, regole di comportamento e una riduzione progressiva del suo salario.
«Ho inviato oggi a tutti i 1.524 sindaci della Lombardia la circolare interpretativa della legge sui luoghi di culto. Il documento contiene le indicazioni utili e necessarie per regolamentare la presenza di quei centri culturali islamici che, come emerso chiaramente in questi mesi, agiscono al di fuori delle regole svolgendo regolare attività di culto senza averne titolo. Si tratta a tutti gli effetti di moschee irregolari».
«La circolare - prosegue Viviana Beccalossi - dice chiaramente che i centri culturali nati dopo l'approvazione della legge, se prevedono nel loro statuto finalità religiose o, di fatto, svolgono regolarmente funzioni di luogo di preghiera, sono da equipararsi a tutti gli effetti a luoghi di culto e devono quindi sottostare alle norme previste. Quelli già esistenti prima del 2015, potranno svolgere attività legate al culto se previsto nella destinazione d'uso dell'edificio che ne ospita la sede che può essere concessa solo dopo una modifica del Pgt per inserire l'area nel piano delle attrezzature religiose».
«Se non si rispettano i requisiti previsti dalla Legge - conclude l'assessore Beccalossi - i sindaci possono intervenire per interromperne l'attività perché non è ammissibile continuare a chiudere gli occhi di fronte a magazzini, negozi, capannoni o appartamenti privati usati come moschee. Strutture prive di alcun tipo di controllo e spesso in disprezzo a ogni normativa vigente».