. la Repubblica, 3 marzo 2017 (c.m.c.)
Fin dal mito fondativo della sua storia, l’attività matematica si è suddivisa tra la ricerca e la divulgazione. Nella “Vita di Pitagora”, infatti, Porfirio racconta che «il maestro impartiva il proprio insegnamento a due categorie di persone: matematici e acusmatici. I matematici studiavano la parte più importante e approfondita della dottrina, mentre gli acusmatici si accontentavano dei fatti senza le spiegazioni».
Il “matematico” era in greco un letterale “apprendista”, che imparava attivamente il mestiere: l’analogo dell’odierno laureando, dottorando, ricercatore o assistente. L’“acusmatico” era invece un letterale “uditore”, che ascoltava passivamente l’insegnamento: l’analogo dell’odierno fruitore delle conferenze, degli articoli e dei libri di divulgazione. Una distinzione che Aristotele espresse concisamente nella dicotomia tra chi si preoccupa di “capire perché”, e chi si accontenta di “sapere che”.
Le prime testimonianze scritte di questa doppia attività di insegnamento ce le hanno lasciate Platone e Aristotele. Il primo ha scritto solo opere divulgative per una diffidenza nei confronti della scrittura, che gli faceva relegare l’insegnamento profondo all’oralità. Il secondo ha invece scritto sia opere divulgative che testi di ricerca, ma le prime sono andate perdute e ci sono rimasti soltanto i secondi. È interessante che entrambi i filosofi abbiano ritenuto di dover adottare, nella loro attività divulgativa, la forma dialogica.
Anche se spesso il dialogo platonico è fittizio, e l’interlocutore di Socrate è più una spalla che un comprimario: come l’ignaro schiavo al quale viene impartita, nel Menone, quella che è la prima testimonianza storica di una dimostrazione matematica che ci sia pervenuta. Non sappiamo invece come fossero i perduti dialoghi aristotelici, ma possiamo immaginare cosa ci siamo persi dal fatto che fu la lettura del Protrettico a convincere Cicerone a diventare un filosofo.
Anche la scienza, fin dal suo avvento, adottò la forma dialogica per la propria divulgazione.
Il Dialogo scientifico più famoso e importante è probabilmente l’omonima opera che Galileo Galilei pubblicò nel 1632, «dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l’una, quanto per l’altra parte». Come già i dialoghi platonici, però, anche quelli galileiani non sono affatto discussioni fra interlocutori alla pari: al contrario, uno dei due contendenti (Filippo Salviati) è il ventriloquo dell’autore, mentre l’altro (Simplicio) rivela fin dal nome il suo ruolo di utile idiota. Galileo incautamente mise in bocca a Simplicio alcune idee del papa Urbano VIII, che ovviamente si infuriò e gli diede il benservito con il processo del 1633, tra le accuse del quale c’era anche quella di «haver scritto in dialogo», oltre che in volgare, affinché tutti potessero capire.
All’epoca il Dialogo fu dunque letto e percepito non soltanto come una disputa scientifica, ma anche e soprattutto come uno scontro fra la scienza e la religione. La stessa cosa successe nell’Ottocento a proposito del dibattito su evoluzionismo e creazionismo, anch’esso passato alla storia per un dialogo: questa volta reale. Lo scontro si tenne in pubblico a Oxford il 30 giugno 1860, tra il biologo Thomas Huxley e il vescovo anglicano Samuel Wilberforce.
Oggi i religiosi meno ottusi di Wilberforce preferiscono saggiamente dirottare i dibattiti fra scienza e religione su livelli più astratti, e mantenerli su toni più amichevoli. Il campione di questi dialoghi è il Dalai Lama, che incontra regolarmente scienziati delle discipline più disparate, a Dharamsala in privato e altrove in pubblico, per discutere di possibili punti di convergenza tra il buddhismo tibetano e la scienza occidentale. Alcuni sono stati trascritti in libri che spaziano dalla cosmologia alle neuroscienze, con titoli che vanno da Il sonno, il sogno e la morte (Neri Pozza, 2000) a Emozioni che distruggono (Mondadori, 2003).
A volte il dibattito fra fede e scienza può avvenire direttamente tra scienziati, credenti e non. Un esempio di questo tipo di incontro è La variabile Dio. In cosa credono gli scienziati? (Longanesi, 2008), che registra il dialogo fra l’astronomo gesuita George Coyne, per venticinque anni direttore dell’Osservatorio Vaticano di Castelgandolfo, e Arno Penzias, premio Nobel per la fisica nel 1978 per la scoperta della radiazione di fondo.
Altre volte il dibattito si sposta sul confronto fra le “due culture”: scientifica, da un lato, e umanistica, dall’altro. Uno stimolante esempio è il Dialogo tra Primo Levi e Tullio Regge, tenuto nel 1984 e ripubblicato da Einaudi nel 2005. Anche se in questo caso sarebbe difficile confinare i due interlocutori nei ruoli di letterato l’uno, e scienziato l’altro: Levi lavorò infatti per tutta la vita da chimico, come testimoniano i racconti del suo famoso Sistema periodico, e Regge si divertì per decenni a produrre opere di arte computerizzata. Semmai, il loro Dialogo serve a sfatare il luogo comune che esistano appunto “due culture”, e che la scienza sia contrapposta, invece che complementare, all’umanesimo.
Il massimo esempio contemporaneo di scienziato-umanista è forse Werner Heisenberg, premio Nobel per la fisica nel 1932, che divenne uno dei padri della meccanica quantistica solo perché dovette decidersi a scegliere fra la musica, la filosofia e la fisica, tre discipline in cui brillò per tutta la vita. Per quarant’anni egli ha avuto dialoghi con molte menti brillanti come la sua, a partire da Einstein, e ne ha raccontati alcuni in Fisica e oltre. Incontri e protagonisti (Boringhieri, 1984). Il loro interesse anche umanistico è sottolineato dall’attenzione che ha dedicato al libro un teologo come Joseph Ratzinger in Fede, verità, tolleranza (Cantagalli, 2003).
Chi non desidererebbe esser “sesto fra cotanto senno”, quando si svolgono incontri di questo genere? A volte le manifestazioni culturali regalano al pubblico qualche rara occasione. Ma la rete permette ormai di osservare da vicino addirittura i dialoghi che si tengono fra i ricercatori, nel momento stesso in cui producono i loro risultati: medaglie Fields come Terence Tao e Timothy Gowers, ad esempio, gestiscono da anni dei blog nei quali discutono in chiaro problemi aperti, che a volte vengono risolti collettivamente con la partecipazione attiva del pubblico. O, almeno, di quella parte che non si accontenta di “sapere che”, e pretende anche di “capire perché”.
Il sistema produttivo del capitalismo - come già prima il commercio degli ultimi millenni - si basa sul rapporto credito-debito. (vedi David Graeber, Debito. I primi 5000 anni, Il Saggiatore, 2012). E dall'antichità si sono succeduti periodici annullamenti del debito per non portare in rovina le popolazioni e per rinnovare le basi di un'economia produttiva.
In Europa basti ricordare la ristrutturazione o meglio l'annullamento pressoché totale dell'ingente debito estero della Germania (debito della prima guerra/Versailles e gran parte delle riparazioni della seconda guerra mondiale) nella Conferenza di Londra del 1953 ad opera degli ex-alleati occidentali, dove Herman Josef Abs, grande banchiere da Hitler all'Euro, riuscì a mettere le premesse finanziarie per il successivo miracolo economico della Repubblica Federale di Germania.
Non a caso fu nel passato il governo greco e per ultimo Alexis Tsipras a ricordare questo evento di fronte all'intransigenza tedesca verso i debiti dei paesi sudeuropei. Appare ovvio che i paesi creditori (ovvero le loro banche che detengono il debito pubblico e privato) hanno l'interesse a mantenere in vita i debitori per poterli spremere anziché aiutarli a ripagare i loro debiti.
Ma non è un mistero che nessuno degli attuali debiti pubblici potrà mai essere ripagato. Sono i paesi ricchi che detengono il debito pubblico (e privato) più alto: USA, Giappone, la stessa Cina. La Germania ha il debito pubblico più alto in Europa (ora ca. 2.284 mrd.€), non ancora superato da quello italiano (ora ca. 2.220 mrd.) Decisivo per la stabilitá delle economie non è l'ammontare del debito in sé, ma il suo rapporto col PIL, che in Germania è comunque ben più alto del 60%, la norma arbitraria fissata a Maastricht. E la Germania paga anche interessi molto minori rispetto all'Italia, dove il rapporto debito/ PIL supera il 132%. É proprio l'ammontare degli interessi che lo Stato paga ai suoi creditori, per lo più istituzionali, che autoalimenta la crescita costante del debito.
L'Italia ha un bilancio primario in positivo da ca. 20 anni, ma anno per anno deve sborsare cifre di interesse intorno ai 80-100 miliardi! Il debito italiano era cresciuto negli anni '80 da 114 mrd. € (1980) a ben 850 mrd.€ (1992), ma l' aumento era costituito da soli 140 mrd. di nuovo prestito e ben 596 mrd. di interessi. Ovvero gli interessi ammontavano ormai a oltre due volte il debito in soli dieci anni (vedi Paolo Ferrero, La truffa del debito pubblico, Derive Approdi 2014)
Solo Romano Prodi era riuscito attraverso una manovra "lacrime e sangue" a spese del welfare ad abbassare temporaneamente il rapporto debito/PIL per portare l'Italia nell' Euro. Da allora gli interessi sul debito pubblico costituiscono la terza spesa dopo pensioni e sanitá in Italia. E i tagli vengono scaricati dallo Stato centrale ai vari livelli locali: regioni e comuni arrivano sull'orlo del fallimento e la crescente debolezza delle istituzioni alimenta dappertutto la corruzione, ormai endemica.
Se in un futuro non lontano dovessero scattare anche le misure punitive del Fiscal compact, allora sarà difficile mantenere la quiete sociale. Di fronte a queste prospettive serve assolutamente una verifica sulla natura in gran parte illegittima e insostenibile del debito pubblico, ovvero un'audit, a livello nazionale e una maggiore informazione pubblica in merito. L'assemblea nazionale del Comitato per l'abolizione dei debiti illegittimi che si terrá a Roma il 4 marzo intende avviare questo percorso verso l'istituzione di una Commissione popolare indipendente in Italia.
«Intervento di Serge Latouche preparato per un incontro promosso a Dublino (il 24 e 25 febbraio 2017) dal titolo “La via della decrescita come risposta all’inganno dello sviluppo sostenibile”». comune-info, 28 febbraio 2017 (c.m.c.)
Fare della decrescita, come hanno fatto certi autori, una variante dello sviluppo sostenibile, costituisce un controsenso storico, teorico e politico sul significato e sulla portata del progetto. La necessità, provata da tutta una corrente dell’ecologia politica e dei critici dello sviluppo, di rompere con il linguaggio fasullo dello sviluppo sostenibile, ha portato a lanciare, quasi per caso, la parola d’ordine della decrescita.
All’inizio, quindi, non si trattava di un concetto, e in ogni caso di una idea simmetrica a quella della crescita, ma di uno slogan politico di provocazione, il cui contenuto era soprattutto diretto a far ritrovare il senso dei limiti; in particolare, la decrescita non è una recessione e neppure una crescita negativa. La parola quindi non deve essere presa in considerazione alla lettera: decrescere solo per decrescere sarebbe altrettanto assurdo di crescere soltanto per crescere. Tuttavia, i decrescenti volevano far crescere la qualità della vita, dell’aria, dell’acqua e di una pluralità di cose che la crescita per la crescita ha distrutto.
Per parlare in modo più rigoroso, si dovrebbe indubbiamente usare il termine a-crescita, con l’ «a» privativo greco, come si parla di ateismo. In quanto si tratta, d’altronde, esattamente di abbandonare una fede e una religione. È necessario diventare degli atei della crescita e dell’economia, degli agnostici del progresso e dello sviluppo. La rottura della decrescita incide quindi insieme sulle parole e sulle cose, implica una decolonizzazione dell’immaginario e la realizzazione di un altro mondo possibile.
La rottura con il produttivismo e la truffa dello sviluppo sostenibile
Seppure esiste un certo margine di incertezza nel concatenersi degli avvenimenti, l’emergere di un movimento radicale che propone una alternativa reale alla società dei consumi e al dogma della crescita, rispondeva sicuramente a una necessità che non è certo esagerato definire storica. Di fronte al trionfo dell’ultra liberalismo e all’arrogante affermazione della famosa Tina (acronimo di There is non alternative, non vi sono alternative) da parte della Margaret Thatcher, le piccole massonerie che si opponevano allo sviluppo e che auspicavano il rispetto dell’ecologia non potevano più accontentarsi di una critica teorica quasi confidenziale usata solo dai sostenitori del terzomondismo.
Inoltre l’altra faccia del trionfo dell’ideologia del pensiero unico non era altro che lo slogan consensuale dello «sviluppo sostenibile», un bell’ossimoro lanciato dal Pnue (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) per tentare di salvare la religione della crescita che doveva fronteggiare la crisi ecologica, e visione nella quale il movimento antiglobalizzazione sembrava essere perfettamente a suo agio. Diventava urgente contrapporre al capitalismo di mercato globalizzato un altro progetto di civilizzazione, o, più esattamente, di dare visibilità ad un disegno, da tempo in gestazione, ma che si evolveva in modo molto nascosto, quasi sotterraneo. Il movimento che prende il nome della decrescita trova il suo atto di nascita durante il colloquio «Disfare lo sviluppo, rifare il mondo», che si è tenuto all’Unesco nel marzo del 2002, una avventura culturale confermata dalla nascita, qualche mese più tardi, del giornale La décroissance che le ha procurato un eco più diffuso.
Diventato rapidamente la bandiera sotto la quale raccogliersi di tutti coloro che aspirano a costruire una reale alternativa a una società di consumo ecologicamente e socialmente insostenibile, la decrescita costituisce ormai uno spettacolo significativo per rendere evidente la necessità di una rottura rispetto alla società della crescita e per far emergere una civilizzazione basata su una abbondanza frugale. La rottura con lo sviluppismo, forma di produttivismo da offrire in uso ai Paesi cosiddetti in via di sviluppo, è stata quindi la base fondante di questo progetto alternativo. Ciò si è dapprima manifestato sotto forma di denuncia dell’etnocentrismo del concetto di sviluppo, prima ancora della rottura nei confronti del produttivismo come logica distruttiva dell’ambiente. Su questo punto, il contributo degli antropologi (Marcel Mauss, Karl Polanyi, Marshall Salhins, ad esempio), ignorato dagli economisti, è stato fondamentale.
Si tratta allora, con la decrescita di un altro paradigma economico, che contesta l’ortodossia neoclassica confrontabile con ciò che è stato il keynesismo a suo tempo? Questo è il significato che tentano di attribuirgli certe persone sulla scia del progetto di Bioeconomia di Nicholas Georgescu-Roegen. È chiaro che esistono altre politiche economiche possibili diverse dall’austerità imposta da Bruxelles all’interno di una società della crescita. Il periodo chiamato «i trenta gloriosi», (1945-1975) che ha visto il trionfo della regolamentazione keyneso-fordita ne costituisce la prova. Tuttavia, in una società della crescita senza una crescita, cioè la situazione in cui si trovano attualmente i paesi industrializzati, le politiche economiche alternative a quelle di ispirazione neo-liberista, sembrano impossibili da realizzare senza rimettere in causa il sistema economico e/o aggravare la crisi ecologica.
La denuncia della truffa dello sviluppo sostenibile è fondamentale per comprendere la necessità della rottura che la decrescita comporta e comprenderne tuta la portata. Questa, in effetti, è insieme un ossimoro e un pleonasma. Un ossimoro perché in realtà ne la crescita ne lo sviluppo sono in alcun modo sostenibili o durevoli. Questo è ciò che dimostra l’ecologia ed è il contributo di Nicholas Georgescu- Roegen: «Una crescita infinità è incompatibile con un pianeta finito». Un pleonasma, perché Walt Whitman Rostow ne Le tappe della crescita economica definisce lo sviluppo come una «crescita che si autosostiene», che sarebbe come dire che una crescita sostenibile o durevole, è una crescita durevole che dura.
Contrariamente a quanto sostengono alcuni dei suoi difensori, lo sviluppo sostenibile non si è allontanato dal suo significato e dalla sua funzione originali. Inventata, secondo la leggenda, da alcuni sinceri ecologisti, il progetto sarebbe stato deviato da alcune cattive imprese transnazionali preoccupate per il green washing, la spinta a mostrare un aspetto ecologico, e da responsabili politici senza scrupoli. Questo mito, che è duro a morire, non resiste all’analisi dei fatti. Lo sviluppo sostenibile fu lanciato esattamente come una marca di detersivo e con una accurata sceneggiatura, alla Conferenza di Rio del giugno 1992, da un buono, Maurice Strong segretario del Pnud. Poiché l’operazione seduttiva è pienamente riuscita al di la delle aspettative, le folle sono cadute nella trappola, inclusi gli intellettuali critici di Attac e gli ecologisti.
Verso la fine degli anni Settanta, lo sviluppo sostenibile si è imposto contro l’espressione più neutra di «ecosviluppo» , adottata nel 1972 alla Coferenza di Stoccolma, sotto la pressione della lobby industriale statunitense e grazie all’intervento personale di Henry kissinger. L’ecosviluppo sembrava troppo «ecologico» e poco «sviluppo» , soprattutto dopo che il paesi del Sud del Mondo se ne sono impadroniti alla conferenza di Cocoyoc del 1974, con lo scopo di rivendicare un nuovo ordine economico internazionale.
Lo sviluppo sostenibile del quale si ritrova l’invocazione in tutti i programmi politici, «ha solo la funzione – precisa Hervè Kempf – di mantenere i profitti e di evitare il cambiamento delle abitudini, modificando appena la superficie». Il fatto che il principale promotore dello sviluppo sostenibile, Stephan Schmidheiny, si sia rivelato un assassino seriale è quasi troppo bello per coloro che da anni si scagliano violentemente contro questo pseudo concetto per denunciare l’intera truffa. Questo miliardario svizzero, fondatore del World Business Council for Sustainable Development, eroe di Rio 1992, e che si presenta sul suo sito come filantropo, non è altro che l’ex-proprietario dell’impresa Eternit, chiamata in causa durante il processo per l’amianto di Casale Monferrato. L’industriale condannato dal tribunale di Milano a sedici anni di prigione e il paladino dell’ecologia industriale e della responsabilità sociale di impresa si sono scoperti essere la stessa identica persona.
Il progetto della decrescita non è ne quello di un’altra crescita, né quello di un altro sviluppo (sostenibile, sociale, solidale, ecc.). Esige di uscire dalla religione della crescita, ma questo aspetto merita di essere spiegato meglio. La crescita è un fenomeno naturale e in quanto tale è indiscutibile. Il ciclo biologico della nascita, dello sviluppo, della maturazione, del declino e della morte degli esseri viventi e la loro riproduzione sono anche la condizione della sopravvivenza della specie umana, che che deve metabolizzarsi con il suo contesto vegetale e animale. Gli uomini con molta naturalezza hanno celebrato le forze cosmiche che garantivano il loro benessere nella forma simbolica del riconoscimento di questa interdipendenza e del loro debito verso la natura per tutti questi aspetti.
Il problema nasce quando la distanza tra il simbolico e il reale scompare. Mentre tutte le società umane hanno dedicato un culto giustificato alla crescita, solo l’Occidente moderno ne ha fatto la sua religione. Il prodotto del capitale, risultato di una astuzia o di una frode commerciale, e quasi sempre di uno sfruttamento della forza dei lavoratori, è considerato simile all’accrescimento di una pianta. Con il capitalismo l’organismo economico, cioè l’organizzazione della sopravvivenza della società, non più in simbiosi con la natura, ma attraverso un suo sfruttamento senza pietà, deve crescere in modo infinito, come deve crescere il suo feticcio, il capitale. La riproduzione del capitale/economia mettono insieme, confondendoli, la fecondità e l’accrescimento, il tasso di interesse e il tasso di crescita.
Questa apoteosi dell’economia/capitale si trasforma nel fantasma dell’immortalità della società dei consumi. È in questo modo che noi viviamo nella società della crescita. La società della crescita può essere definita come una società dominata da una economia della crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per la crescita diventa così l’obiettivo primordiale se non addirittura l’unico dell’economia e della vita. Non si tratta più di crescere per soddisfare dei bisogni riconosciuti, cosa che sarebbe ancora positiva, ma di crescere per crescere.
La società dei consumi è l’approdo normale di una società della crescita. Ciò si basa su una triplice mancanza di limiti: una produzione senza limiti e quindi sono illimitati anche i prelievi delle risorse, rinnovabili e non rinnovabili; assenza di limiti nei consumi, e quindi anche nella produzione di bisogni e di prodotti superflui; mancanza di limiti nella produzione di rifiuti e quindi nelle emissioni di scarichi e di inquinanti (dell’aria, della terra e dell’acqua).
Per essere sostenibile e durevole, qualunque società deve porsi dei limiti. Ora, la nostra, si vanta di essersi liberata da qualunque vincolo e ha optato per la dismisura. Certo, nella natura umana esiste qualche elemento che spinge l’uomo a superarsi continuamente. Ciò costituisce insieme la sua grandezza e una minaccia. Così tutte le società, eccetto la nostra, hanno cercato di canalizzare questa capacità e di farla lavorare per il bene comune. In effetti, quando la si spende nello sport non commercializzato, questa aspirazione può non essere nociva. Viceversa, essa diviene distruttiva quando si lascia libero corso alla pulsione dell’avidità («ricercare sempre qualcosa in più») nell’accumulazione di merci e di denaro. Si deve quindi ritrovare il senso del limite per garantire la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta. Con la decrescita, si intende uscire da una società fagocitata dal feticismo della crescita. E per questo la decolonizzazione dell’immaginario è indispensabile.
Il progetto di una società dell’abbondanza frugale
La parola decrescita indica ormai un progetto alternativo complesso e che possiede una portata analitica e politica che non può essere contestata. Si tratta di costruire un’altra società, una società dell’abbondanza frugale, una società post-crescita (Niko Paech), cioè della prosperità senza crescita (Tim Jackson). In altre parole, non si tratta di creare all’improvviso un progetto economico, fosse pure di un’altra economia, ma un progetto societario che comporta di uscire dall’economia come realtà e come logica imperialista. Ciò che viene prima è dunque la decolonizzazione dell’immaginario.
L’idea e il progetto della decolonizzazione dell’immaginario hanno due fonti principali: la filosofia di Cornelius Castoriadis da una parte e la critica antropologica dell’imperialismo dall’altra. Queste due fonti si trovano in modo molto naturale, a fianco della critica ecologica, alle origine della decrescita. In Castoriadis l’accento è posto naturalmente sull’immaginario, mentre negli antropologi dell’imperialismo riguarda la decolonizzazione. Per cercare di pensare ad una uscita dall’immaginario dominante, si deve in primo luogo riandare al modo con il quale ci siamo entrati, vale a dire al processo di economicizzazione degli spiriti che si è verificato nello stesso momento della mercificazione del mondo. Per Castoriadis, come per noi, l’incredibile resilienza ideologica dello sviluppo si fonda su una non meno stupefacente resilienza del progresso. Come lo esprime mirabilmente:
«Nessuno più crede veramente nel progresso. Tutti vogliono avere qualcosa in più nell’anno successivo, ma nessuno crede che la felicità dell’umanità consista veramente nella crescita del 3 per cento all’anno del livello dei consumi. L’immaginario della crescita è certamente sempre lì: è sicuramente il solo che resiste nel mondo occidentale. L’uomo occidentale non crede più a nulla, se non nel fatto che potrà avere presto un televisore ad alta definizione» .
D’altra parte, nell’analisi dei rapporti Nord/Sud, la forma di sradicamento di una credenza si formula volentieri attraverso la metafora della decolonizzazione. Il termine colonizzazione, utilizzato correntemente dall’antropologia antimperialista per quanto riguarda le mentalità, si ritrova nel titolo di numerose opere. Ad esempio, Serge Gruzinski pubblica, nel 1988, La colonizzazione dell’immaginario, il cui sottotitolo evoca anche il processo di occidentalizzazione.
Con la crescita e lo sviluppo, si tratta proprio di avviare un processo di conversione delle mentalità, quindi di natura ideologica e quasi religiosa, diretto a fondare l’immaginario del progresso e dell’economia, ma la violazione dell’immaginario, per riprendere la bella espressione di Aminata Traorè, rimane simbolica. Con la colonizzazione dell’immaginario in Occidente, noi abbiamo a che fare con una invasione mentale di cui noi siamo le vittime ma anche gli agenti. Si tratta ampiamente di una autocolonizzazione, di una servitù in parte volontaria.
La decolonizzazione dell’immaginario comporta quindi all’inizio, ma non soltanto, un cambiamento della logica o del paradigma, o, ancora, una vera e propria rivoluzione culturale. Si tratta di uscire dall’economia, di cambiare i valori, e quindi, in qualche modo, di disoccidentarsi. E precisamente il programma sviluppato nel progetto sul dopo sviluppo dei «partigiani» della decrescita. Il problema dell’uscita dall’immaginario dominante o coloniale, per gli antropologi antimperialisti, come per noi, è una questione centrale, ma molto difficile, perché non si può decidere di cambiare il proprio immaginario, e ancora meno quello degli altri, soprattutto se essi sono «dipendenti» dalla droga della crescita. La cura di disintossicazione non è completamente possibile fino a quando la società della decrescita non è stata realizzata. Si dovrebbe preliminarmente essere usciti dalla società dei consumi e dal suo regime di «cretinizzazione civica», cosa che ci blocca dentro un cerchio che occorre rompere.
Denunciare l’aggressione pubblicitaria, oggi veicolo dell’ideologia, costituisce certamente il punto di partenza della controffensiva diretta a uscire da ciò che Castoriadis chiama «l’onanismo consumistico e televisivo». Il fatto che il giornale La décroissance sia edito dall’associazione Casseurs de pub , distruttori della pubblicità, non è certamente dovuto al caso poiché la pubblicità costituisce una forza essenziale nella società della crescita, e il movimento degli obiettori della crescita è largamente e naturalmente connesso con la resistenza all’aggressione pubblicitaria.
Infine, la decrescita non è l’alternativa, ma una matrice di alternative che riapre l’avventura umana a una pluralità di destini e lo spazio della creatività sollevando la cappa di piombo del totalitarismo economico. Si tratta di uscire dal paradigma dell’homo oeconomicus o dell’uomo a una dimensione di Marcuse, principale fonte dell’uniformatizzazione planetaria e del suicidio delle culture. Ne consegue che la società della a-crescita non si affermerà nello stesso modo in Europa, nell’Africa a sud del Sahara, oppure in America Latina, nel Texas e nel Chiapas, nel Senegal e nel Portogallo. Ciò che importa è favorire o ritrovare la diversità e il pluralismo. Non si può dunque proporre un modello chiavi in mano di una società della decrescita, ma solamente un abbozzo degli elementi fondamentali di qualunque società non produttivista sostenibile e degli esempi concreti di programmi di transizione.
Di sicuro, come in tutte le società umane, una società della decrescita dovrà organizzare la produzione necessaria per la sua vita e a questo scopo dovrà utilizzare in modo ragionevole le risorse offerte dal proprio ambiente e consumarle attraverso la realizzazione di beni materiali e di servizi, ma un pò come le società dell’abbondanza dell’età della pietra, descritte da Marshall Salhins, che non sono mai entrate nell’epoca dell’economia. Essa non lo farà costretta nel busto di ferro della rarità, dei bisogni, del calcolo economico e dell’homo oeconomicus. Queste basi immaginarie dell’istituzione dell’economia devono anche essere rimesse in discussione. Come aveva ben visto ai suoi tempi il sociologo Jean Baudrillard, il consumerismo genera «una pauperizzazione psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzato, che, egli dice, «definisce la società della crescita come il contrario di una società dell’abbondanza».
La frugalità ritrovata permette di ricostruire una società dell’abbondanza sulla base di quella che Ivan Illich definiva la «sussistenza moderna». Vale a dire »un modo di vivere in una economia post-industriale all’interno della quale le persone possono ridurre la loro dipendenza rispetto al mercato , e dove sono pervenuti proteggendo – con dei mezzi politici – una infrastruttura nella quale le tecniche e gli strumenti servono, in primo luogo, a creare dei valori d’uso non quantificati e non quantificabili dai fabbricanti professionisti di bisogni». Su questa base si è imposta l’idea che una società senza crescita che sia sostenibile, giusta e prospera non può essere che frugale.
L’abbondanza frugale quindi non è più un ossimoro ma una necessità logica. «La scelta (…), nota intelligentemente Jacques Ellul, è tra una austerità subita, ingiusta, imposta dalle circostanze sfavorevoli, e una frugalità comune, generale, volontaria e organizzata, che deriva da una scelta più di libertà e meno di consumo di beni materiali. Essa sarà legata ad un consumo diffuso di beni di base (…) una abbondanza frugale».
Se l’orizzonte di senso così definito e sintetizzato nella forma dei cerchi virtuosi delle 8R (Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocaliazzare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare) presuppone una rottura veramente rivoluzionaria, i programmi di transizione saranno necessariamente riformisti. Di conseguenza, molte delle proposte «alternative» che non rivendicano esplicitamente la decrescita possono trovare un loro spazio. La decrescita offre così un quadro generale che da un senso a numerose lotte settoriali o locali favorendo dei compromessi strategici e delle alleanze tattiche.
Uscire dall’immaginario economico implica tuttavia delle rotture molto concrete. Si tratterà di fissare delle regole che inquadrino e limitino lo scatenarsi delle avidità degli operatori (ricerca del profitto, del sempre di più): protezionismo ecologico e sociale, legislazione del lavoro, limitazioni delle dimensioni delle imprese,ecc. E in primo luogo, la «demercificazione» di quelle tre merci fittizie (nel senso di Polanyi) che sono il lavoro, la terra e la moneta.
Il loro ritiro dal mercato globalizzato segnerebbe il punto di inizio di una reincorporazione/reincastramento dell’economico nel sociale, nello stesso tempo di una lotta contro lo spirito del capitalismo. La ridefinizione della felicità come «abbondanza frugale in una società solidale» corrispondente alla rottura creata dal progetto della decrescita presuppone di uscire dal cerchio infernale della creazione illimitata dei bisogni e dei consumi e dalla frustrazione crescente che esso comporta. L’autolimitazione è la condizione per conseguire una prosperità senza crescita ed evitare in questo modo l’annientamento della civilizzazione umana.
Conclusione
I recenti dibattiti sulla significatività degli indicatori di ricchezza, hanno avuto il merito di ricordare l’inconsistenza del prodotto interno lordo, il Pil, come indice che possa permettere di misurare il benessere, mentre costituisce il simbolo feticcio indissolubilmente funzionale alla società della crescita. Non ci si è abbastanza accorti in quell’occasione che è la stessa inconsistenza ontologica dell’economia che è messa in evidenza nello stesso momento.
Criticando il Pil, sono le fondamenta stesse della fede nell’economia o dell’eonomia come religione che vengono ridotte in pezzi. L’economia come discorso presuppone il suo oggetto, la vita economica che non esiste come tale soltanto in grazia ad essa. In effetti, quale che sia la definizione di economia politica che si è scelta, quella dei classici (produzione, distribuzione, consumo) o quella dei neoclassici (allocazione ottimale delle risorse rare di uso alternativo), l’economia esiste solo a condizione di presupporre se stessa.
Il campo specifico della pratica e della teoria perseguite non può essere delimitato se la ricchezza come l’allocazione delle risorse concernono soltanto l’economia. Garry Becker è più coerente quando afferma che tutto ciò che costituisce l’oggetto di un desiderio umano fa di diritto parte dell’economia, salvo che se tutto è economico, niente lo è. In questo caso, la quantificazione totale del sociale e l’ossessione calcolatrice che egli descrive non sono che il risultato di un colpo di mano, quello della istituzione del capitalismo come mercificazione totale del mondo. È proprio contro questo progetto di trasformazione del mondo in merci che la globalizzazione ha largamente contribuito a realizzare che intende reagire il movimento della decrescita.
Traduzione per Comune-info di Alberto Castagnola.
il manifestoCorriere della sera, 2 marzo 2017
il manifesto
COS’È CONSIP
Consip è la centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana. La legge prevede che operi nell’esclusivo interesse dello Stato e il suo azionista unico è il ministero dell’economia e delle finanze (Mef) del quale è una società in-house.
Nata nell’agosto del 1997 come Concessionaria servizi informativi pubblici per la gestione dei servizi informatici dell’allora ministero del tesoro, con la legge finanziaria del 2000 le viene affidato il compito della razionalizzazione della spesa pubblica per i beni e servizi, in sostituzione del Provveditorato generale dello Stato. Successivamente il suo compito si amplia e ne viene potenziato il ruolo di centrale di committenza nazionale. Nel 2015 Consip partecipa al programma del governo Renzi – guidato dall’allora commissario alla spending review Yoram Gutgeld – di ridurre a 35 centrali acquisti il numero di stazioni appaltanti deputate a gestire le grandi gare.
Lo scopo principale è quello di rendere «più efficiente e trasparente» l’utilizzo delle risorse pubbliche, fornendo alle amministrazioni gli strumenti per la gestione degli acquisti di beni e servizi. Le singole amministrazioni vengono supportate in tutti gli aspetti del processo di approvigionamento attraverso convenzioni.
Per legge il prezzo di riferimento per l’acquisizione di beni e servizi non può essere superato da un’amministrazione che voglia acquistare quel determinato bene o servizio o un altro di pari caratteristiche.
il manifesto
CONSIP, ARRESTATO ROMEO.
UN MEGA-LOTTO NEL MIRINO
di Adriana Pollice
Giungla d'appalto. L’imprenditore napoletano accusato di corruzione con un funzionario della Spa del ministero del Tesoro. Perquisite le abitazioni dell’ex An Bocchino e di Carlo Russo, amico di Tiziano Renzi
Carabinieri e polizia tributaria hanno bussato ieri mattina alla porta di Alfredo Romeo: il tribunale di Roma ne ha disposto la custodia in carcere, a Regina Coeli. E’ accusato di corruzione per il mega appalto Consip, la spa del ministero dell’Economia incaricata dell’acquisto di beni e servizi delle amministrazioni pubbliche. L’arresto si è reso necessario, spiega la procura, perché non sarebbe «in grado di contenere lo stimolo criminale». Nell’inchiesta sono indagati anche molti petali del giglio magico di Matteo Renzi, a cominciare dal padre Tiziano che si professa innocente (traffico di influenze è l’ipotesi di reato), poi l’imprenditore e amico di famiglia Carlo Russo, il ministro dello Sport Luca Lotti (accusato di rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento), fino al comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette e al generale Emanuele Saltalamacchia.
Sono state perquisite abitazioni e uffici di Russo e Italo Bocchino (indagati anche loro per traffico di influenze). Russo e il padre dell’ex premier «sfruttando le relazioni esistenti tra Tiziano Renzi e l’ad di Consip, Luigi Marroni, si facevano promettere somme di denaro mensili come compenso per la loro mediazione verso Marroni» si legge nel decreto di perquisizione a carico di Russo. L’ex parlamentare di An è il braccio destro di Romeo: le intercettazioni ambientali ma, soprattutto, il virus Trojan infiltrato nei cellulari di entrambi hanno portato al disvelamento del «sistema Romeo», già ipotizzato dall’inchiesta Global service della procura di Napoli nel 2008 da cui poi l’imprenditore casertano è stato assolto in Cassazione, dopo due condanne.
Nell’indagine Consip Bocchino (retribuito con 15mila euro al mese) viene definito «consigliere strategico» di Romeo grazie alla sua «capacità di accedere a informazioni riservate grazie al suo trascorso di deputato e membro del Comitato parlamentare sui Servizi segreti». Attraverso Bocchino Romeo avrebbe scoperto di essere indagato già dal settembre 2016. E’ Bocchino che, intercettato nel gennaio 2016, spiega come funzionerebbe il rapporto politica-affari: gli appalti Consip «devono essere gestiti per favorire prevalentemente le cooperative in quanto rappresentano un bacino di voti dal quale poter attingere ed è anche e soprattutto un modo lecito per finanziare il politico di turno». E ancora: «Nelle audizioni il ministro diceva… questo è il motivo per cui non è esplosa Consip, è chiaro che la politica ha il problema del territorio… i mille pulitori sul territorio sono mille persone che danno 5mila euro ciascuno… sono mille persone che fanno un’assunzione ciascuno… sono mille persone che quando voti si chiamano i loro dipendenti… tu i tuoi dipendenti manco sai chi sono». Partecipare agli appalti, a detta degli indagati, «è una competizione criminale a chi corrompe meglio».
Il sistema Romeo si basa su due pilastri: i «prototipatori» e i «facilitatori». Alla prima categoria apparterrebbe il direttore Sourcing Servizi e Utility di Consip, Marco Gasparri: si tratta di un neologismo coniato da Romeo per individuare chi, all’interno della Pa, confeziona bandi di gara ad hoc per favorire un’impresa. Secondo il gip Gaspare Sturzo, Gasparri aveva il ruolo di «prototipatore di bandi Consip al servizio di Romeo». Bocchino invece era «il facilitatore degli interessi illeciti, il lobbista dedicato al traffico illecito di influenze». Gli appoggi politici servivano a «indurre i vertici della Consip ad assecondare le mire degli imprenditori». Se Romeo, Bocchino e Gasparri erano i vertici del sistema, nel mezzo secondo il gip ruotavano le altre pedine, «attivissime nel produrre accordi, veri o falsi, individuare referenti reali o supposti, stabilire tangenti effettive o ipotetiche. Romeo voleva sapere notizie riservate sui bandi in modo da avere un vantaggio competitivo basato sulla propalazione di notizie riservate».
A Gasparri sono stati sequestrati beni per 100mila euro, cioè quanto avrebbe ricevuto da Romeo come compenso dal 2012 al 2016: corruzione per asservimento della funzione è il reato contestato. Romeo, scrive il gip, gli avrebbe proposto «di costruire una comune ipotesi difensiva per impedire il normale corso della giustizia». Racconta Gasparri durante l’interrogatorio: «Tra il 2012 e il 2014 Romeo aveva perso tutte le gare Consip, avvertì così la necessità di avere un soggetto intraneo che con assoluta sistematicità gli fornisse informazioni sia sulle gare sia sulle dinamiche interne». E ancora: «Ho visto l’ultima volta Romeo il 29 novembre 2016. Era sudato e farfugliava, mi disse che gli avevano sequestrato dei foglietti, compreso un foglio dove c’era il mio nome con dei numeri accanto». Dallo scorso dicembre Gasparri ha deciso di collaborare: è lui a raccontare che per incontrare l’ad di Consip, Romeo aveva fatto intervenire «politici ad altissimo livello».
Corriere della sera
INCHIESTA CONSIP, ARRESTATO ROMEO
«C’ERA UNA GUERRA DI TANGENTI»
di Fulvio Fiano
Nel lessico corruttivo della pubblica amministrazione è un neologismo: prototipatore . Definizione coniata per l’alto funzionario Consip, Marco Gasparri, da parte di Alfredo Romeo, l’imprenditore finito ieri in carcere con l’accusa di avergli dato 100 mila euro in «una guerra imprenditoriale a suon di tangenti». La somma è stata sequestrata dai carabinieri del Roni e del Noe e dai finanzieri del comando provinciale di Napoli, che hanno anche perquisito le case e gli uffici dell’ex parlamentare Italo Bocchino e dell’imprenditore fiorentino Carlo Russo, accusati di traffico di influenze assieme a Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo.
Come riportato nel decreto di perquisizione, Russo e Renzi senior, in forza delle relazioni di quest’ultimo con l’ad di Consip, Luigi Marroni, «si facevano promettere da Romeo, che agiva previo concerto con Bocchino, suo consulente, somme di denaro mensili». Romeo ne avrebbe guadagnato l’aggiudicazione di tre lotti del mega bando da 2,7 miliardi, poi non completata. Renzi senior sarà interrogato domani. «Fatti insussistenti», dice il suo legale Federico Bagattini.
Da una parte, dunque, Romeo «intento a progettare una serie di infiltrazioni criminali in appalti pubblici». Dall’altra la sua rete di relazioni. «Mi occupo della documentazione di gara», spiega Gasparri al primo incontro tra i due, nel 2012. «Quindi lei fa progettazioni, prototazioni... un prototipatore», riassume Romeo. Cinquemila euro in contanti a Natale sanciscono l’accordo. Dal 2013 diverranno una «sistematica dazione di denaro».
Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi contestano la corruzione per asservimento e della funzione e quella su specifici episodi, tra cui il mega appalto Facility Management 4. Romeo deve rimettersi su piazza dopo l’arresto del 2008 ma manca dei requisiti tecnici e di competenza per partecipare. Gasparri lo segue passo passo nella presentazione dell’offerta, nella scrittura della proposta, nelle risposte alle obiezioni della commissione di gara. Lo agevola, dicono i pm, con informazioni «sensibili».
Quando poi finiscono sotto inchiesta, Romeo chiede a Gasparri di concordare una difesa comune. Ma questo va dai magistrati ed evita l’arresto (all’interno di Consip non ha più un ruolo «pericoloso»). La confessione trova riscontri nei pedinamenti, negli appuntamenti in agenda e nelle intercettazioni telefoniche e ambientali. In una di queste i due parlano a bassa voce ma si intuisce il rumore di fogli strappati, i «pizzini» poi ritrovati tra i rifiuti.
«L’importante è che tenimm’ la squadra giusta», dice l’imprenditore in un’altra circostanza. E il funzionario, parlando di soldi da avere: «Mi è rimasto di 40 (mila euro, ndr ) indietro. Ce la fa?».
«Ho sempre operato con trasparenza», dice Marroni. Coinvolto anche il suo predecessore, Domenico Casalino. M5S invita Matteo Renzi a rendere pubblici i finanziamenti avuti da Romeo, mentre il ministro Luca Lotti, che avrebbe rivelato le indagini a Romeo, si dice «tranquillissimo».
Corriere della sera
LE ACCUSE DEI PM DI ROMA:
COSÌ RUSSO E TIZIANO RENZI
SI FACEVANO PROMETTERE SOLDI
di Giovanni Bianconi
Il «gravissimo quadro di possibile infiltrazione criminale» nella gara d’appalto «con il più rilevante importo mai indetto in Europa», pari a circa 2 miliardi e 700 milioni di euro, era arrivato al «massimo livello politico». Parola di Alfredo Romeo, l’imprenditore che voleva conquistare a tutti i costi fette rilevanti di quella immensa torta, riferita dal dirigente della Consip Marco Gasparri che lo stesso Romeo aveva assunto «a libro paga». Una corruzione ammessa dal corrotto, che aggiunge: «Romeo non mi disse chi era il politico o i politici presso i quali era intervenuto, ma mi disse che si trattava del “livello politico più alto”; in proposito mi chiese se io avevo registrato, a seguito di tale suo intervento, un cambiamento di atteggiamento dell’amministratore delegato di Consip nei suoi confronti».
In sostanza, per avere un trattamento di favore dalla Centrale d’acquisto per i beni e servizi della pubblica amministrazione, Romeo s’era rivolto alle alte sfere del potere. Il giudice che ieri ne ha ordinato l’arresto precisa che ora gli inquirenti dovranno chiarire il ruolo di altri soggetti che risultano «attivissimi nel proporre accordi, veri o falsi, individuare referenti reali o supposti, stabilire tangenti effettive o ipotetiche», ma i pubblici ministeri sanno già in quale direzione indirizzare le loro verifiche.
Le somme di denaro
È scritto in un passaggio del decreto di perquisizione nei confronti di Carlo Russo, imprenditore trentatreenne di Scandicci e amico della famiglia Renzi, firmato dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Mario Palazzi: dagli atti dell’inchiesta emerge come «Alfredo Romeo, previo concerto con Italo Bocchino, si sia accordato con Carlo Russo (a fronte di ingenti somme di denaro promesse) affinché questi, utilizzando le proprie relazioni (di cui vi è prova diretta) e le relazioni di Tiziano Renzi (con il quale lo stesso Russo afferma di aver agito di concerto e al quale parimenti, da un appunto vergato dallo stesso Romeo, appare destinata parte della somma promessa), indebitamente interferisca sui pubblici ufficiali presso la Consip, al fine di agevolare la società di cui Romeo è dominus». Secondo l’ipotesi investigativa, le «somme di denaro mensili» che Russo e Renzi senior «si facevano promettere» erano il «compenso per la mediazione» realizzata «sfruttando relazioni esistenti tra Tiziano Renzi e Luigi Marroni, amministratore delegato di Consip».
L’alto livello politico
Il sospetto che «il livello politico più alto» raggiunto dall’imprenditore napoletano passasse proprio da Russo e dal suo rapporto con il padre dell’ex presidente del Consiglio è uno dei punti chiave dell’indagine. In virtù delle intercettazioni in cui Russo ne parla, dei pagamenti promessi da Romeo e della conoscenza dello stesso Russo con l’ex sottosegretario a Palazzo Chigi (oggi ministro dello Sport) Luca Lotti che, secondo le dichiarazioni di Michele Emiliano, avrebbe detto al presidente della Puglia che lo poteva incontrare perché «ha un buon giro...». Tra gli appunti stracciati recuperati dai carabinieri nella spazzatura dell’ufficio romano di Romeo ce n’è uno da cui risulta che a novembre 2015 l’imprenditore pagò un soggiorno a Russo e signora da 3.233 euro nell’albergo di Ischia di proprietà di alcuni suo parenti. Una struttura che, si legge in un rapporto degli investigatori dell’Arma, «insieme all’albergo di sua proprietà, viene utilizzata (da Romeo, ndr ) quale contropartita per ricompensare i pubblici ufficiali infedeli dell’opera svolta per suo conto».
La guerra e le tangenti
Nella ricostruzione dell’accusa la corruzione rappresenta una «vera e propria politica d’impresa delle società di Romeo», che l’imprenditore utilizza per provare a vincere «a suon di tangenti» una guerra con altri gruppi dai risvolti politici occulti. Dei quali il corruttore aveva una sorta di «ossessione». Ha raccontato il «funzionario infedele» Marco Gasparri nelle sue confessioni ai pubblici ministeri: «Romeo si riteneva vittima di un complotto all’interno di Consip e di essere discriminato, nel senso che riteneva che i vertici di Consip favorissero la società Cofely, capogruppo di un raggruppamento temporaneo di imprese di cui faceva parte anche una società riconducibile a tale Bigotti, imprenditore che, a suo dire, era legato all’onorevole Verdini. Per tale ragione Romeo diceva di aver operato ultimamente un intervento sull’amministratore delegato Marroni, per il tramite e attraverso “il più alto” livello politico».
È quella che il giudice dell’indagine preliminare Gaspare Sturzo chiama «legittima difesa criminale rispetto alle condotte di altri imprenditori e vertici politici e istituzionali volte all’esclusione dell’imprenditore campano»; in pratica, la corruzione di determinati soggetti per contrastare quella di altri. Quando seppero che a Napoli c’era in corso un’indagine a loro carico, Romeo e Bocchino — intercettati — auspicavano che il fascicolo fosse trasferito rapidamente a Roma, forse nella prospettiva di evitare guai; a poche settimane dalla trasmissione degli atti nella Capitale, si ritrovano uno in carcere e l’altro inquisito e perquisito.
La Repubblica, 28 luglio 1981. «I partiti sono diventati macchine di potere»
«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».
La passione è finita?
«Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...»
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
«È quello che io penso».
Per quale motivo?
«I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti».
Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
«E secondo lei non corrisponde alla situazione?»
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
«La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più.
Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.
Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?
«Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?»
Veniamo alla seconda diversità.
«Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata».
Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
«Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi».
Non voi soltanto.
«È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?»
Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
«Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate».
Dunque, siete un partito socialista serio...
«...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...»
Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
«No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese».
Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?
«Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta».
Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
«La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude».
Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
«Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili».
Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...
«Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati».
E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
«Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire».
il manifesto, 1° marzo 2017
«L’anima del New Deal. Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. Perché va ricordato Keynes a chi, come Renzi, vuole contrabbandare i famosi Job Corps, ripresi da Di Vittorio ed Ernesto Rossi, con il Jobs Act gonfio di bonus e sottrazione di diritti. Atkinson, per esempio, suggerisce di tornare a prendere molto sul serio l’obiettivo della «piena e buona occupazione» e un programma nazionale per il risparmio garantito
Resisterò alla tentazione di parlare di frode per la spregiudicatezza con cui Renzi tenta oggi da un lato di qualificare come “lavoro di cittadinanza” le sue proposte di rilancio dell’occupazione (sostanzialmente una riedizione del Jobs Act, una riduzione della dignità del lavoro, la contrazione dei suoi diritti, una colossale decontribuzione a danno delle finanze pubbliche e a vantaggio dei profitti e delle imprese), dall’altro di inscrivere le sue idee complessive di politica economica nell’orizzonte di un rinnovato New Deal.
In tutta Europa è in corso una discussione molto seria e molto ardua su cosa preferire tra “reddito” e “lavoro” di cittadinanza” e personalmente ho argomentato perché opto per quest’ultimo[1].
La studiosa svedese Francine Mestrum, lamentando la mancata chiarezza da parte dei proponenti sui requisiti del reddito di cittadinanza, ha dichiarato che «sedurre le persone con slogan del tipo “denaro gratuitamente per tutti”, quando quello che si intende è in realtà un reddito minimo per chi è in stato di necessità, è vicino alla frode». Non userò una simile definizione per le ultime uscite di Renzi, ma alcune precisazioni sono, tuttavia, il minimo che l’habermasiana “etica del discorso” ci impone.
L’anima del New Deal di Roosevelt – e così dovrebbe essere anche oggi – fu un grande piano di investimenti pubblici, straordinari progetti collettivi (quali l’elettrificazione di aree rurali, il risanamento di quartieri degradati, la creazione dei grandi parchi, la conservazione e la tutela delle risorse naturali) piegati al fine di creare lavoro in vastissima quantità e per tutte le qualifiche (perfino per gli artisti e gli attori di teatro) attraverso i Job Corps – le “Brigate del lavoro” ipotizzate anche da Ernesto Rossi e dalla Cgil di Di Vittorio –, identificando per questa via nuove opportunità di investimento e di dinamismo per il sistema economico.
Riprodurre oggi un’ispirazione e una progettualità di tal fatta è del tutto inconciliabile con il mantra al quale si è attenuto e si attiene Renzi, l’erogazione di bonus monetari e la riduzione delle tasse (specialmente a vantaggio delle imprese e dei ricchi, come è avvenuto con la cancellazione dell’Imu e della Tasi): perché mai se no, Roosevelt avrebbe portato le aliquote marginali sui più ricchi a livelli elevatissimi, mantenute tali anche per molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale?
Inoltre investimenti pubblici e creazione di lavoro richiedono di usare le istituzioni collettive come leve fondamentali.
Si tratta, infatti, di fare cose che fuoriescono dall’ordinario:
- Identificare fini e valori per dare vita a un nuovo modello di sviluppo (l’opposto dell’assumere gli esiti del mercato come un dogma naturale immodificabile e, conseguentemente, del limitarsi a compensare i perdenti e chi «resta fuori dal processo di innovazione», come dice Renzi).
- Dirigere l’innovazione orientandola verso bisogni e fini sociali (ricerca di base, rigenerazione delle città, riqualificazione dei territori, ambiente, salute, scuola, ecc.), l’opposto della “neutralità” e dell’ostilità per l’intervento pubblico (in nome del terrore del “dirigismo”) rivendicate dai consiglieri di Renzi.
- Lungi dal considerarlo un ferro vecchio, enfatizzare l’obiettivo della “piena e buona occupazione” rovesciando la logica: invece che affrontare ex post «i costi della perdita di impiego» (secondo il suggerimento di Renzi), fare ex-ante degli investimenti pubblici e della creazione di lavoro il motore di una crescita riqualificata.
- Considerare lo Stato come grande soggetto progettuale e come Employer of last resort, invece che il “perimetro” da assottigliare e depotenziare ipostatizzato dalle politiche di privatizzazione e di esternalizzazione care ai tardoblairiani odierni.
Qui va riscoperto Keynes e non per contrabbandare come keynesiano lo strappare “margini di flessibilità” all’”austerità” europea, senza rimettere drasticamente in discussione la logica del Fiscal Compact, per di più utilizzandoli per finanziare (in deficit) bonus e incentivi fiscali e non investimenti pubblici produttivi.
Richiamandosi a Keynes e a Minsky, nell’ultimo, bellissimo libro (Inequality) scritto prima di morire, il grande economista Tony Atkinson invoca «proposte più radicali» (more radical proposals) e denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni).
Il primo tabù che egli infrange è che la globalizzazione impedisca di mantenere strutture fiscali progressive e imponga che le aliquote marginali siano sempre inferiori al 50%. Propone, per l’appunto, che il ripristino della progressività – violata dalle politiche neoliberiste a tutto vantaggio dei ricchi – preveda per i benestanti aliquote massime del 55 e perfino del 65%.
Ed escogita tutta una serie di proposte “radicali”, tra cui di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito».
Il suggerimento di Atkinson è di fare perno sulla «piena e buona occupazione» non in termini irenici, ma nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – la sua rivoluzionarietà – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.
E proprio collegata al rilancio della piena e buona occupazione è la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione.
All’idea di rilanciare la piena e buona occupazione Atkinson collega altre proposte radicali : quella – memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale – che le imprese adottino, oltre che un codice etico, un codice retributivo con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di un programma nazionale di risparmio che offra ad ogni risparmiatore un rendimento garantito (anche tenendo conto che, tra le cause dell’incredibile aumento delle disuguaglianze, c’è la sproporzionata quota di rendimenti finanziari che va ai redditieri superricchi).
[1] Vedi su eddyburg in particolare il recente articolo di Laura Pennacchi Perché al reddito di cittadinanza preferisco il lavoro, in “Il lavoro dentro e fuori dal capitalismo”
Reset, 27 febbraio 2017
Israele è uno dei pochi Paesi ad avere ottime aspettative sulla nuova amministrazione USA. È vero che per ora il nuovo Presidente non ha ancora annunciato in che modo intenda rivedere l’accordo sul nucleare iraniano raggiunto a Vienna nel 2015, né come reimporre le sanzioni, ma certamente l’attuale amministrazione Trump si annuncia come la più vicina e più simpatetica al governo Netanyahu dal 2009.
Tuttavia, il rinnovato slancio USA all’alleanza strategica con Tel Aviv non è l’unica ragione dell’euforia israeliana: in una regione attraversata da molteplici crisi e sconvolta da insanabili guerre civili, Israele è un Paese che non solo economicamente cresce per il 13° anno consecutivo (dati OECD 2016), ma sembra riuscito nell’intento di relegare il conflitto israelo-palestinese sullo sfondo ad un ruolo di serie B nello scenario internazionale. La coscienza di quella parte dell’opinione pubblica araba ed occidentale tradizionalmente attenta alle violazioni israeliane e sensibile al progressivo deterioramento dei diritti dei Palestinesi, sembra oggi attonita e distratta da conflitti più impellenti che causano un numero maggiore di morti e, soprattutto, di rifugiati.
È indubbio che riflettori da sempre puntati sul conflitto israelo-palestinese si siano spenti e che il governo israeliano ne approfitti per varare alcune leggi che in altri tempi sarebbero diventate facilmente oggetto di critiche virulente da parte delle organizzazioni internazionali e boicottaggio da parte delle opinioni pubbliche.
La prima delle leggi controverse recentemente passate dalla Knesset quasi in sordina è stata “la legge sulla regolarizzazione degli insediamenti” del 6 febbraio scorso, in cui all’unanimità il Comitato legislativo del Parlamento ha stabilito che sia possibile per l’amministrazione civile israeliana requisire terre private palestinesi per costruire insediamenti o legalizzarne quelli già esistenti in funzione retroattiva, infrangendo così una pericolosa “linea rossa” ovvero quella della tutela almeno delle proprietà private palestinesi.
D’ora in poi nella cosiddetta area C, corrispondente a circa il 60% della Cisgiordania, il governo israeliano, tramite il suo braccio esecutivo nei Territori occupati della Cisgiordania (l’amministrazione civile) potrà espropriare qualsiasi porzione di terra al solo scopo dichiarato di facilitare e intensificare la creazione di insediamenti israeliani. Mentre prima era possibile espropriare solo a scopi pubblici (costruzione di strade e servizi collettivi, ragioni di sicurezza) adesso gli interessi privati di gruppi di coloni vengono legalmente equiparati alla ragion di Stato. Altre postille della legge prevedono che tutti gli avamposti finora costruiti illegalmente vengano “sanati” ovvero automaticamente convertiti in insediamenti legali destinatari di fondi pubblici governativi, spianando la strada alla trasformazione di tutta l’area C in una nuova regione israeliana suscettibile di annessione (che in ebraico ha già un nome,“Yeudah e Shomron”, ovvero “Giudea e Samaria”). La legge è stata votata ed approvata per ben tre volte alla Knesset da una maggioranza di partiti di governo composta da Israel Beitenu (Israele casa nostra), Ha Bayit ha Yehoudi (La Casa ebraica), Likud (“Consolidamento”) e Kulanu (“Noi tutti”), convincendo quest’ultimo, un partito di centro-destra che si era originariamente dichiarato contrario, barattando il voto favorevole del partito centrista con la promessa di una maggiore attenzione del governo alle crescenti disparità sociali.
Fatto ancora più grave, attraverso la legge, di per sé sintomatica di un solido sentire della maggioranza favorevole al superamento dello status quo vigente in materia di insediamenti (secondo l’ultimo sondaggio Peace Index del giugno del 2016 il 55% sarebbe tendenzialmente favorevole all’estendere la sovranità israeliana agli insediamenti in Cisgiordania), si delinea un difficile rapporto tra due poteri forti dello Stato: il governo e la Corte Suprema.
Il primo agisce secondo il principio della “democrazia della maggioranza”, pensando di essere l’unico legittimo rappresentante del popolo e dunque di essere investito dell’autorità suprema di governare in piena autonomia dalle norme vigenti, erigendosi a “corte d’appello” superiore alla stessa magistratura, mentre la seconda vede sistematicamente nullificate le sue sentenze -si veda il caso dello smantellamento, decretato appunto dalla Corte, dell’avamposto illegale di Amona etc.- e contestata la sua autorità da parte tanto del governo che del Parlamento, ovvero i due poteri che assieme ad essa costituiscono le più alte istituzioni dello Stato. Una situazione critica che si riflette nelle parole di una delle deputate di estrema destra che più si sono battute per la promulgazione di questa legge di “regolarizzazione degli insediamenti”, Shuli Mualem Refaeli del partito La Casa Ebraica: “La questione della Giudea e della Samaria non costituisce affatto un problema legale, ma se la Corte rigetterà la legge, al Parlamento rimarranno solo due opzioni: l’annessione diretta di tutta l’area C o una nuova legge per limitare i poteri della Corte” (Hezki Baruch, Arutz Sheva, 7 febbraio 2017).
Il ruolo della Corte Suprema è contestato da molti anni, in primis dalle forze che appartengono all’attuale coalizione di governo, ma anche da altri gruppi schierati alla loro ulteriore destra. Nonostante essa abbia storicamente evitato di esprimersi su controverse decisioni governative come l’introduzione delle leggi d’emergenza o l’esproprio di terreni da parte dell’esercito a fini di sicurezza, essa è percepita come un “bastione” delle forze liberali nel Paese soprattutto a seguito dell’attivismo che l’ha caratterizzata negli anni immediatamente precedenti e successivi ad Oslo (anni ’90) in cui la Corte ha spinto il Parlamento a promulgare due nuove leggi fondamentali sulla difesa dei diritti umani sotto il lungo mandato del Giudice supremo Aharon Barak (1995-2006). In particolare, poiché Israele manca di una costituzione, la Corte Suprema ha teso a supplire con il proprio attivismo all’assenza di una legislazione capillare in materia protezione dei diritti umani. A differenza degli anni Novanta, però, in cui la Corte godeva di un’ampia legittimità democratica e di un consenso trasversale, dal 2003 la sua buona reputazione si è attenuata per le sentenze sull’illegalità del percorso della Barriera difensiva (o Muro di separazione, che per alcune porzioni illegalmente è stato costruito su terra privata palestinese, il cui esproprio oggi è stato retroattivamente legalizzato), sull’illegalità delle demolizioni di abitazioni palestinesi e per l’accoglienza di alcune petizioni individuali avanzate da Palestinesi dei Territori.
Dal 2000, il Governo cerca dunque di mettere un freno all’attivismo della Corte -che nel frattempo si è molto smorzato- sostenendo che le sue decisioni mettano a repentaglio la sicurezza e la capacità di sopravvivenza dello Stato. Da allora, i disegni di legge avanzati dal Parlamento a questo scopo si sono succeduti: dalla proposta dei deputati di Israel beitenu (“Israele Casa nostra”) Eliezer Cohen e del Mafdal Igal Bibi di affiancare alla Corte Suprema una Corte Costituzionale maggiormente influenzata dal governo, a quella del Ministro della giustizia del Governo Olmert Daniel Friedman di limitare il diritto di petizioni individuali, per arrivare a quella del Ministro della giustizia del precedente governo Netanyahu, Ya’acov Neeman, di rivedere il processo di nomina dei giudici alla Corte Suprema in modo da procedere con assegnazioni più compiacenti al governo (Yossi Verter, Ha’aretz, 6 gennaio 2012). Quest’ultima proposta è stata coronata proprio in questi giorni (23 febbraio 2017) dal successo riportato dal terzo governo Netanyahu, ed in particolare dal suo attuale Ministro della giustizia Ayelet Shaked (la Casa ebraica), con la nomina di quattro nuovi giudici conservatori o “falchi”.
Tuttavia, la crisi -nel senso greco di trasformazione dalla quale emerge un nuovo equilibrio- è molto più estesa del “braccio-di-ferro” in corso tra le istituzioni dello Stato, ma si avvicina ad una resa dei conti totale, in cui una parte maggioritaria del Paese afferma di non voler più vivere secondo le regole che hanno plasmato la vita politica israeliana fino ad oggi.
Tale “resa dei conti” si radica in un consolidato sentimento popolare che ritiene che Israele stia entrando in una fase di maturità in cui abbia finalmente la possibilità di assecondare le sue vere aspirazioni nazionali rimaste ancora incompiute. Tale posizione, riassuntiva del sentire di una buona parte dell’opinione pubblica politicamente rappresentata dall’ampio arco di forze di destra al potere quasi ininterrottamente dal 1996, ritiene che l’attuale accomodamento -o coabitazione di comodo- con l’Autorità nazionale palestinese si avvii alla fine, per essere sostituita dall’estensione della sovranità israeliana a quei territori che le sono da sempre appartenuti, Giudea e Samaria, garantendo diritti di residenza -e non di cittadinanza- ai Palestinesi ivi residenti in attesa di futuri equilibri demografici più favorevoli agli ebrei all’interno di un Grande Israele.
Come viene ben sintetizzato dal giornalista di Israel Hayom, quotidiano vicino al premier, Dror Eydar (Allgemeine Zeitung, 23 febbraio 2017): “In futuro… vi saranno milioni di ebrei in più in Israele grazie all’immigrazione ed al saldo positivo della crescita naturale della popolazione e dunque… sarà possibile anche concedere diritti di cittadinanza a quei Palestinesi che vi aspirassero”. La speranza rimane sempre che siano in pochi a farne richiesta, così come avvenne dopo l’annessione di Gerusalemme est nel 1967, in cui centinaia di migliaia di palestinesi decisero di non optare per la cittadinanza israeliana, puntando ancora sull’eventuale costituzione di uno stato palestinese. Uno Stato che oggi -Israeliani e Palestinesi ne sono sempre più convinti, sebbene da prospettive diverse- non vedrà mai la luce.
Il motivo, secondo il Preside della Facoltà di lettere della Ben Gurion University, David Newman, è molto semplice: non può essere istituito uno Stato sovrano in presenza di 125 colonie e circa 100 avamposti illegali israeliani che spezzettano la porzione di territorio assegnata all’autonomia palestinese. Ancora, i coloni sono decisamente troppi per essere evacuati e qualunque linea di confine si intendesse tracciare, tra gli 80.000 e i 100.000 di loro si troverebbero dalla parte sbagliata del confine, e si tratterebbe dei coloni più ideologici, quelli che non accetterebbero alcuna compensazione economica in cambio di un loro eventuale trasferimento (David Newman, Bicom, 17 febbraio 2016). In più, anche qualora fosse territorialmente possibile, Israele non garantirebbe la piena sovranità ad un futuro Stato palestinese in materie sensibili come sicurezza, politica estera e difesa.
Dominique Vidal, celebre firma di Le Monde Diplomatique ed esperto del conflitto israelo-palestinese, riassume così il paradosso a cui sono giunti i Palestinesi, forse loro malgrado: nel momento in cui la Palestina sembra affermarsi senza ostacoli sul piano diplomatico e ottenere il riconoscimento di 138 Paesi e l’endorsement dell’ONU e la membership nella Corte Penale Internazionale, si rivela tanto vulnerabile da rischiare di sparire dalle carte geografiche (Radio France International, débat, 11 febbraio 2017). La sorte dei Palestinesi, più che mai, appare demandata all’arbitrio israeliano, contro il quale la comunità internazionale può poco, sul quale non esercita alcuna pressione e al quale si limita a reagire in ordine sparso e con poca convinzione.
La mobilizzazione internazionale non è mai stata così debole come in questo momento e il governo israeliano ne approfitta per rimodellare fino in fondo l’ampio territorio -ormai sempre più corrispondente al Grande Israele auspicato dai sionisti-revisionisti di Jabotinsky, seppure con qualche Palestinese di troppo- del quale ormai dispone impunemente: ventilando l’indizione di un referendum esclusivamente ebraico circa la possibilità di annessione di una buona porzione di Cisgiordania (l’area C), affermando che l’istituzione di ulteriori colonie non arreca alcun pregiudizio ai diritti dei residenti palestinesi e negando il visto a rappresentanti di ONG come Human Rights Watch per il loro ruolo nella denuncia di quel complesso rapporto che lega imprese private israeliane, americane ed europee al grande business delle colonie (HRW report, “Separate and Unequal”, 2010), che costa annualmente 3.4 miliardi di dollari alla già schiacciata economia palestinese. Il tutto in attesa che la nuova amministrazione Trump sciolga ogni riservatezza e si dichiari ufficialmente a favore dell’accantonamento della soluzione dei due Stati, alla quale solo una parte minoritaria -ideologica o conservatrice, ottusa o ostinata, del tutto indifferente o cieca di fronte alle reali condizioni prevalenti sul terreno, dell’opinione pubblica occidentale e della sua stolta diplomazia-, crede ancora come possibile esito del conflitto.
«Singoli Stati, come pure singoli individui, potranno certo andare in miseria, ma non di meno prevarrà, in grazia di un’insondabile provvidenza immanente, l’equilibrio generale del mercato». Il FattoQuotidiano, blog di Diego Fusaro, 1 marzo 2017 (c.m.c.)
Con le parole di Deleuze e Guattari, «le multinazionali fabbricano una sorta di spazio liscio deterritorializzato» (Mille piani), ciò che siamo soliti definire “mondializzazione”. Modelli insuperati dell’“azienda irresponsabile” (Luciano Gallino), le imprese multinazionali e delocalizzate sono ovunque e in nessun luogo: sono ovunque, allorché si tratta di trovare in ogni angolo del pianeta manodopera da sfruttare a basso costo e di vendere prodotti (secondo le due leve della delocalizzazione della produzione e dell’immigrazione di massa come nuova deportazione di masse di lavoratori da sfruttare ad libitum); e sono in nessun luogo, quando v’è da dichiarare i profitti delle vendite, da pagare le tasse e da rispettare la dignità del lavoro umano e le condizioni dell’ambiente.
Coessenziale al capitale fin dal suo momento genetico, la tendenza allo sradicamento e alla deterritorializzazione giunge a compimento, per un verso, con la mondializzazione come dinamica di riconfigurazione del pianeta come unico mercato omologato e senza distinzioni; e, per un altro, con l’instaurazione del dominio post-borghese della nuova aristocrazia finanziaria, avversa a ogni forma di vita etica radicata simbolicamente e materialmente. La cattiva universalità del mondialismo può dirsi realizzata, nell’inveramento della logica già delineata da Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni: «Il possessore di capitali è propriamente un cittadino del mondo e non è necessariamente legato a nessun paese particolare. Egli sarebbe pronto ad abbandonare il paese in cui è stato esposto a una indagine vessatoria per l’accertamento di un’imposta gravosa e trasferirebbe i suoi fondi in qualche altro paese dove poter svolgere la sua attività o godersi la sua ricchezza a suo agio».
Del resto, l’invisible hand teorizzata e magnificata da Smith non contempla alcuna territorialità o localizzazione, alcun radicamento o regionalità. Opera negli spazi globali, nelle distese virtualmente infinite del mercato denazionalizzato, poiché la sintesi spontanea degli egoismi – la nuova teodicea economica del moderno – fondata sulla moltiplicazione rizomatica degli interessi privatistici si produrrà su scala planetaria, nel piano liscio dello scambio senza frontiere e limitazioni.
Singoli Stati, come pure singoli individui, potranno certo andare in miseria, ma non di meno prevarrà, in grazia di un’insondabile provvidenza immanente, l’equilibrio generale del mercato. Si realizza così quello “sradicamento” che già Martin Heidegger – gigante oggi deriso e schernito da una tribù di pennivendoli e surfers del pensiero – aveva denunciato come cifra del tecnocapitalismo.
L’ultimo rapporto Unucef, basato su interviste a 82 donne e 40 bambini, dà numeri scioccanti: 23.846 bambini sono arrivati in Italia lo scorso anno, il 90% non accompagnati; tre quarti ha subito violenze mentre si trovava in Libia, la metà abusi sessuali ripetuti; un terzo denuncia abusi da parte di «uomini in uniforme»; 23mila sono attualmente nel paese nordafricano in centri di detenzione, con 28mila donne; 8mila quelli che in Italia sono rimasti intrappolati nelle maglie della criminalità; 700 morti in mare. Numeri enormi ma sicuramente sottostimati: potrebbero essere tre volte tanto.
E, una volta arrivati a destinazione, inizia un altro calvario: senza una protezione reale e continuativa, il rischio di finire nelle mani di altri trafficanti di uomini è altissimo. Prostituzione, piccola criminalità, spaccio, lavoro minorile. E l’utopia di una vita migliore che evapora.
In Europa arrivano soli per tanti motivi, spiega la direttrice regionale di Unicef, Afshan Khan: perché sono orfani di guerra o di Ebola, perché hanno visto morire i genitori nella traversata del Mediterraneo o del deserto, perché mandati ad aprire la strada all’arrivo della famiglia.
«Il mediterraneo centrale dal Nord Africa all’Europa è una delle tratte più letali e pericolose per bambini e donne – aggiunge Khan – È per lo più controllata da trafficanti, contrabbandieri». E da un giro d’affari di milioni di euro che spesso finanzia i gruppi jihadisti.
Dall'Africa centrale, la prima tappa è la Libia, un non-Stato devastato dall’intervento Nato del 2011 e che oggi perpetua il modello di “gestione” dei migranti già attivo sotto Gheddafi e l’accordo bilaterale con l’Italia di Berlusconi: i bambini finiscono in uno dei 34 centri di detenzione per migranti identificati dall’agenzia Onu, dieci in più dei 24 governativi ufficiali, quasi tutti nel nord del paese.
Ma è impossibile calcolare il vero numero di prigioni – specifica l’Unicef – gestite da milizie armate e non dal governo di unità di al-Sarraj che ha il controllo solo di una parte della Tripolitania.
Restano lì per mesi, anni, abusati e a volte costretti a prostituirsi o a lavorare, prima di riuscire a raggiungere la costa: «Sono qui da nove mesi. Ci trattano come galline. Ci picchiano, non ci danno abbastanza acqua e cibo – la testimonianze di Jon, 14 anni, fuggito da solo dalla Nigeria e da Boko Haram e ancora detenuto in Libia – Tanta gente muore lì, per le malattie o il freddo».
Nei giorni scorsi sul Guardian sono comparse le storie di ragazze nigeriane costrette a prostituirsi per pagare il resto del viaggio, i mille km che dividono il confine sud della Libia dalla costa. Molte di loro non riescono a pagare l’intero viaggio subito, ma contraggono debiti. È il sistema del pay as you go, paghi mentre vai: migliaia di dollari di debiti “coperti” con il proprio corpo, ad ogni checkpoint attraversato.
Quei centri di detenzione, dopo gli accordi siglati dal governo italiano e da quello di Tripoli e applaudito dall’Unione Europea, in molti casi non sono un incubo del passato: con la guardia costiera libica investita del ruolo di cane da guardia (pattugliare la costa, bloccare i migranti, riportarli in Libia, deportarli in Africa), la probabilità di tornarci è elevata.
Al contrario, è inesistente la possibilità per organismi internazionali di visitare i centri non ufficiali, in mano a signori della guerra, tribù armate, milizie. Off limits anche la metà dei centri del governo di Tripoli. E in quelli visionati mancano cibo, coperte, medicine, i migranti sono costretti in celle di due metri2 in cui vengono ammassate fino a 20 persone.
«I contrabbandieri stanno vincendo – spiega la vice direttrice di Unicef, Justin Forsyth – Questo accade quando non ci sono alternative legali e sicure per chiedere asilo in Europa». Non solo Italia: se è difficile fare stime realistiche, ci si può rifare ai dati Europol del 2015 che parlavano di 10mila bambini migranti scomparsi, a quelli di Roma che calcolava 6.500 minori non rintracciabili nei primi 10 mesi del 2016 e a quelli di Berlino che ha perso le tracce di 9mila bambini.
Dove finiscono? Nelle mani di altri mercanti di uomini.
il manifesto, 28 febbraio 2017
Netanyahu parla sempre più spesso di uno Stato palestinese “minus”, senza sovranità reale. Il via libera di Donald Trump a soluzioni “alternative” ai Due Stati ha galvanizzato il premier israeliano, spingendolo a fare una retromarcia parziale rispetto al riconoscimento che fece nel 2009 del diritto dei palestinesi all’indipendenza. In questo modo non deve rimangiarsi – come gli chiede la destra religiosa, “Casa ebraica” – quanto affermò otto anni fa e allo stesso tempo può teorizzare uno Stato-non Stato arabo tra Israele e la Valle del Giordano, ottenendo qualche iniziale ma importante consenso sulla scena internazionale. Netanyahu perciò torna alla sua teoria, resa esplicita in un editoriale apparso una ventina di anni fa sulla stampa americana – una sorta di orazione funebre degli Accordi di Oslo che lui stesso aveva contribuito ad affossare durante i suoi primi tre anni da premier (1996-99) -, sull’impossibilità per alcuni popoli di conquistare la piena autodeterminazione se ciò mette in pericolo la sicurezza di un altro popolo. Unico cruccio per il premier, almeno a dar credito a quanto riferiva ieri sera il giornale Haaretz, l’assenza, per il momento, di un accordo con Trump sulle colonie.
Le indiscrezioni della radio israeliana sul contenuto del colloquio tra Netanyahu e la ministra australiana Bishop sono giunte mentre a Ginevra il presidente palestinese Abu Mazen si rivolgeva ai rappresentanti dei Paesi nel Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani per denunciare quello che ha descritto come il tentativo di Israele di imporre un sistema di apartheid. Ha quindi lanciato un appello per la difesa del principio dei Due Stati e a stabilire un regime di protezione internazionale che garantisca la fine della «violazione dei diritti fondamentali» del popolo palestinese. Dopo aver denunciato il terrorismo, Abu Mazen ha ribadito la «piena disponibilità a lavorare in un spirito positivo», anche con l’AmministrazioneTrump. Disponibilità destinata a cadere nel vuoto secondo le previsioni degli analisti palestinesi e di quei settori del partito Fatah e dell’Autorità nazionale palestinese che non condividono la linea “soft” scelta da Abu Mazen nei confronti della nuova Amministrazione Usa che si mostra apertamente schierata dalla parte di Tel Aviv e disinteressata ad un accordo israelo-palestinese fondato sulle legalità internazionale.
Spirano di nuovo i venti di guerra lungo le linee tra Israele e Gaza. Ieri al lancio di un razzo da parte di un gruppo salafita verso Israele – dove è caduto senza fare danni – le forze armate dello Stato ebraico hanno reagito colpendo nell’arco di due ore cinque presunti obiettivi di Hamas e del Jihad Islami a Gaza. Almeno quattro i feriti palestinesi. In serata Hamas e Israele si sono accusati reciprocamente di essere responsabili della escalation. A Gaza c’è un nuovo leader di Hamas. Si tratta di Yahya Sinwar, un esponente dell’ala militare, Ezzedin al-Qassam. Con ogni probabilità Israele ieri ha cercato di sottoporlo a un primo banco di prova per valutarne le reazioni. La risposta del movimento islamico però non è stata diversa da quella assunta in passato in circostanze simili: condanna degli attacchi israeliana senza però rispondere militarmente. Da parte sua il ministro israeliano della difesa, Avigdor Lieberman ha spiegato che Israele non ha intenzione di avviare campagne militari a Gaza. Ma – ha aggiunto – «non saremo nemmeno disposti ad accettare lanci sporadici di razzi».
a Repubblica, 28 febbraio 2017 (c.m.c.)
Casi come quello di Fabiano Antonini, il dj Fabo, individuano il punto più intenso della libertà esistenziale, perché pongono non solo la questione di chi abbia il potere di scrivere il “palinsesto della vita”, di individuarne il perimetro, ma soprattutto fanno divenire ineludibile il problema di chi possa avere il potere di determinarne la durata, di stabilire se debba continuare o no l’essere nel mondo di una persona.
Ma l’area da governare non riguarda soltanto il fine vita, il morire, anche se qui il potere di scelta si fa più drammatico, perché estremo, irreversibile. È ben più vasta, comprende l’insieme delle decisioni riguardanti ogni momento dell’esistenza — dal suo inizio alla sua fine — e la determinazione dei casi e delle modalità che riguardano la possibilità di dare voce e potere anche a persone diverse dal diretto interessato.
La discussione di questi giorni, dominata, com’è inevitabile e pure giusto, da una forte emotività, potrebbe indurre a ritenere che si viva in una situazione caratterizzata dal disinteresse istituzionale, dall’assenza di significativi principi di riferimento. Non è così, e lo dimostra anche il linguaggio comune quando adopera espressioni come “morire con dignità”, dove il fatto naturale della morte è distinto dal processo del morire, che appartiene ancora alla vita, sì che è ben evidente la consapevolezza di persone e istituzioni della possibilità di intervenire in questo processo per associare il morire ad un principio ormai così fortemente collocato nella dimensione istituzionale, qual è appunto quello di dignità.
Fin dall’inizio, infatti, nel delineare il sistema istituzionale si è avuta piena consapevolezza dei rischi legati all’intervento nel mondo della vita, tanto che l’articolo 32 della Costituzione si chiude con queste parole: «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». È una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, una sorta di nuovo habeas corpus, con il quale il moderno sovrano, l’Assemblea costituente, promette ai cittadini che non “metterà la mano” su di loro, sulla loro vita. Al centro del contesto istituzionale si pone quindi il consento informato della persona.
Proprio questa è la linea seguita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 438 del 2008. Qui si legge che «la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».
Le istituzioni, dunque, hanno una ben chiara responsabilità. Non possono limitarsi ad un riconoscimento formale, ma rendere effettivi questi diritti proprio perchè definiti fondamentali, rimuovendo gli ostacoli che ne rendono difficile o addirittura impossibile l’attuazione. L’intervento del Parlamento non dovrebbe portare soltanto ad un pieno riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, ma evitare anche che l’autodeterminazione possa tradursi in solitudine della persona e in irresponsabilità delle istituzioni.
Calendario civile, a cura di Alessandro Portelli per Donzelli, indaga alcune date significative per la storia italiana. Dalla Strage di Capaci alla Festa del lavoro, le tappe storico-politiche di un paese». il manifesto, 28 febbraio 2017 (c.m.c.)
Che la memoria pubblica costituisca terreno per eccellenza del conflitto politico è in Italia cosa forse più nota che in altri paesi. Abbiamo potuto osservare, non moltissimi anni fa, la rinascita di vere e proprie leggende, utilizzate per dare dignità e radici storiche a un movimento politico, la Lega di Umberto Bossi, che nasceva su rivendicazioni materiali molto delimitate e concrete.
Mentre abbiamo assistito- fenomeno che andrebbe ricostruito con organicità storiografica – alla demolizione della memoria della Resistenza e dei suoi valori, fondativi della Costituzione e della Repubblica, al fine di legittimare la nascita di un fronte politico di centro-destra.
Operazione favorita, spesso con aperta strumentalità, da esponenti politici della sinistra, impegnati ad annacquare la memoria della Repubblica Sociale Italiana e a occultarne le responsabilità militari e civili. Sarebbe peraltro interessante indagare come a tale damnatio memoriae che la sinistra tradizionale ha rivolto al suo passato resistenziale, denso di conflitti, abbia corrisposto, sul piano programmatico e culturale, lo spostamento di campo nelle praterie del neoliberismo.
È dunque comprensibile quanto sia preziosa oggi una operazione come quella coordinata da Alessandro Portelli (Calendario civile. Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani, Donzelli, pp. 311, euro 20) che ha impegnato un folta pattuglia di storici autorevoli, giornalisti e altre figure intellettuali per stendere questo nuovo almanacco della vita pubblica italiana. Esso mette insieme le date canoniche della nostra storia contemporanea, non solo l’8 settembre o il 2 giugno , ma anche momenti dell’Italia preunitaria (La proclamazione della Repubblica romana il 9 febbraio 1849) e dell’Italia liberale (XX settembre 1870). Ma soprattutto inserisce, oltre le celebrazioni ufficiali, gli eventi tragici più recenti e discussi.
Nel Calendario fanno data anche il 9 maggio, Giorno della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi di matrice fascista a cura di Benedetta Tobagi, il 23 maggio, Strage di Capaci scritta da Salvatore Lupo; il 21 luglio, Fatti del G8 di Genova – affidata a Luigi Manconi e Federica Graziani. E ancora Vanessa Roghi sul 2 agosto, Strage di Bologna; e Alessandro Triulzi il 3 ottobre, Giornata in memoria delle vittime dell’immigrazione.
«Questo libro – dichiara Portelli – venuto a compimento in un momento di aspra divisione della nostra vita democratica, è un luogo di unità nell’adesione convinta alle regole che ci permettono di vivere insieme, ma è anche un luogo di interrogazioni e differenze».
Dunque un libro plurale, ma certamente non relativistico. Lo sforzo di verità che viene compiuto nei singoli saggi non indebolisce, ma rafforza la memoria democratica e antifascista, del nostro passato. Ogni evento è rivisitato, spesso con rinnovato sforzo documentario da parte di un singolo studioso, accompagnato sempre da una testimonianza coeva e un commento poetico o una canzone. E ce ne sono di molto belle, come la struggente Per Sergio, di Lucilla Galeazzi, dedicato a una vittima della strage di Bologna.
I Testi di questo Calendario sono per lo più degli aggiornatissimi saggi storici, che forniscono momenti di approfondimenti utili anche per lo storico di mestiere. Pensiamo al lavoro di Cesare Birmani sulle origini americane della festa del Primo maggio, ma anche a vicende di casa nostra, per le quali serbiamo una memoria troppo incerta e superficiale rispetto alla drammatica rilevanza dei fatti . È questo il caso del bombardamento di Roma, illustrato da Umberto Gentiloni.
Una città che si credeva «sacra», al riparo dalle bombe, al punto da attrarre, caso unico in Europa fra le grandi città, popolazione dall’Italia centrale e che il 19 luglio del ‘43 subisce «diecimila tonnellate» di bombe, lasciando a terra 1496 vittime, quasi tutte civili. E ci sono saggi che svolgono una dirompente critica storiografica e civile, come quello di Gabriella Gribaudi sul 29 settembre, Quattro giornate di Napoli. Perché su di esse si erano incrostate vulgate che hanno di fatto reso insignificante quell’episodio straordinario di lotta popolare.
L’autrice mostra come soprattutto la retorica di destra abbia finito con il consegnare il merito della rivolta all’opera degli scugnizzi, svuotando così l’episodio di sostanza politica per ricacciare Napoli alla sua dimensione oleografica e plebea. E invece, con ricca documentazione, tratta anche da fonti militari tedesche, Gribuadi mostra come la rivolta sia nata nei quartieri popolari, guidata da operai e da militari, per opporsi ai rastrellamenti selvaggi e alle requisizioni dell’invasore. A questo frammento di Resistenza nel Sud viene dunque restituita la stessa dignità che essa ha nel resto d’Italia.
: Miseria dello sviluppo di Piero Bevilacqua. Officinadeisaperi, 27 febbraio 2017 (c.m.c.)
Con inappuntabile coerenza i partiti che ormai possiamo chiamare indistintamente liberali, cercano da tempo di adattare le istituzioni formative ai bisogni delle imprese. Più precisamente cercano di piegare la formazione delle nuove generazioni a questa stagione ideologica del capitalismo contemporaneo e ai suoi progetti di dominio. E lo fanno con i più vari strumenti.
Nell’agosto del 2004, l’allora primo ministro britannico Tony Blair, sedicente laburista, conquistò le prime pagine dei giornali con una clamorosa trovata. Fece stanziare dal suo governo mezzo miliardo di sterline per incentivare la competitività nelle scuole inglesi. La logica del disfrenamento competitivo che attraversa l’economia internazionale portata dentro le scuole. Come se già la società non fosse impregnata di violenza agonistica, di individualismo, di lotta. Anche le istituzioni formative devono incorporare principi artificiali, di gara, supremazia, vittoria, sconfitta. Una mimesi della guerra che deve rifondare i valori, rimodellare la formazione culturale, plasmare il comportamento delle nuove generazioni.
Eppure, per secoli il merito culturale, anche dentro scuole e Università, non ha avuto certo bisogno di incentivi alla competizione per emergere. E a cosa porta un arricchimento culturale incentivato dal fine di prevalere sul prossimo?
Perché il medesimo agonismo debba essere replicato più tardi all’interno dell’azienda, dove operai, tecnici, dirigenti, dovrebbero guerreggiare reciprocamente per il bene dell’impresa?
Anche sotto il profilo di questo fine ultimo, noi crediamo che si tratti di un delirio. È sulla cooperazione dei suoi membri che si regge qualunque impresa. Senza dire che oggi nel campo del sapere è la cooperazione e il dialogo fra discipline diverse a far premio alla conoscenza. Così è nel campo della medicina, negli studi ambientali o nelle scienze della terra, per non dire delle migliaia di scienziati dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC) che oggi concertano le loro disparate competenze per studiare il clima che cambia.
Ma oggetto dell’aggressione da parte dei partiti – in questo caso soprattutto della destra – è stata negli ultimi decenni la scuola pubblica. In Europa colpi d’ariete le sono stati lanciati contro, con varia fortuna. In Italia, soprattutto nei primi anni del governo di centro-destra, sono state intraprese vere campagne di diffamazione. Non solo i fogli della destra, ma anche Il «Sole 24 Ore», il giornale della Confindustria, ha ospitato articoli in cui la scuola italiana, accusata di statalismo, veniva trattata alla stregua del Monopolio dei Tabacchi.
Eppure, quella scuola, laica, pluralista e universale nei suoi programmi – i cui insegnanti vengono scelti non per appetenze confessionali o ideologiche, ma in base al merito e con pubblici concorsi – costituisce una delle grandi conquiste della democrazia repubblicana. Quel tanto di mobilità sociale che ha attraversato l’Italia nella seconda metà del Novecento – che ha permesso a figli di contadini e operai di diventare professionisti – lo si deve alla scuola pubblica. Difficilmente un Paese uscito da una guerra rovinosa, povera di materie prime e di fonti energetiche, con danni ingenti all’apparato produttivo, sarebbe diventato un grande Stato industriale senza un scuola capace di produrre tecnici, quadri dirigenti, professionisti dai molteplici saperi.
Ma certo la pressione maggiore è stata esercitata sugli indirizzi della formazione. E qui l’unanimità di posizioni del ceto politico è venuta crescendo di anno in anno. L’imperativo, ormai da tutti invocato, è uno solo: modellare la scuola «secondo le esigenze della società». Una perorazione eterna, com’è noto, che perde il suo antico significato positivo se nel frattempo la società si identifica con l’impresa con il cosiddetto libero mercato. In realtà l’esigenza continua di rimodellare le strutture formative non è che il frustrante tentativo di piegare scuola e Università a un mercato del lavoro sempre più mutevole. L’immaginifica parola d’ordine lanciata dalla destra italiana negli ultimi anni è stata la scuola «delle tre I»: Impresa, Inglese, Internet. Vale a dire la proposta di costruire precocemente soldatini manageriali, cui spalmare addosso qualche approssimativa verniciatura formativa.
Ma non è solo miopia italiana.
A molti, in Europa e nel mondo, questa appare la linea più avanzata dell’innovazione e dunque della modernità. Eppure pochi sanno, o ricordano, che il problema del nesso tra scuola e industria, tra formazione culturale e innovazione tecnologica, è stato affrontato e risolto quasi cinquant’anni fa. È stato Friederich Pollack – uno degli ultimi esponenti della Scuola di Francoforte – nel libro l’Automazione a ricordare i dibattiti dei primi anni ’60 del Novecento. Nel 1962, egli ricorda, a Cachan, in Francia, si svolse un congresso internazionale al quale parteciparono 500 esperti di consulenza professionale di tutti i continenti, con al centro il tema: L’inserimento del giovane in un mondo che sul piano tecnico ed economico si sviluppa ad un ritmo accelerato.
Di fronte alla obsolescenza rapida e continua dei mestieri e delle competenze tecniche, ricorda Pollack, la conclusione del congresso fu che gli esperti di consulenza professionale dovevano consigliare ai giovani «di non specializzarsi». Solo una formazione ricca e universale è il percorso che può salvare un giovane da uno specialismo precoce, che precocemente verrà travolto dall’innovazione tecnologica. Un’acquisizione, dunque, di mezzo secolo fa, completamente rimossa per la rozza furia di «stare dietro allo sviluppo». Una strategia formativa – c’è bisogno di dirlo? – che ha maggior valore strategico oggi, quando un ingegnere meccanico, in una qualunque fabbrica automobilistica, è condannato all’obsolescenza delle sue competenze nel giro di 5-6 anni. Dunque, gli attuali novatori, i riformatori progressisti di tutte le fedi, non fanno in realtà che inseguire un treno partito da un pezzo. Solo che essi continuano a inseguirlo correndo nella direzione opposta.
Tuttavia, non ci sono stati solo questi tentativi e campagne sparse. In realtà una più vasta regìa era già all’opera. Come ormai comincia ad emergere con sempre maggiore consapevolezza e visibilità generale, le riforme (o i loro tentativi) dell’ultimo decennio rientrano nel più ampio disegno di costruzione di nuove e più omogenee istituzioni formative all’interno dell’Unione Europea.
È almeno dalla Dichiarazione di Bologna, sottoscritta il 19 giugno 1999 dai ministri dell’Istruzione dei vari Paesi dell’Unione – seguita dalle Dichiarazioni di Lisbona e Parigi e da varie altre iniziative recenti –, che è emersa in maniera lineare l’intelaiatura progettuale di trasformazione e rimodellamento dell’istruzione superiore proposta per il Vecchio Continente. Secondo tali nuove linee – ricorda C. Lorenz in un saggio apparso su “Passato e presente” nel 2006 – tanto la Scuola che l’Università devono ricadere nella logica del New Public Management (NPM), esse cioè devono abbracciare le finalità di servizi organizzati secondo regole di mercato, obbligati ad accettare e conformarsi alle sfide della competizione, secondo gli imperativi di una visione neoliberista dello sviluppo. Dopo la dichiarazione di Bologna – che pur perseguiva giuste finalità di omologazione europea degli studi e dei criteri valutativi – è apparso sempre più evidente che agli iniziali obiettivi formativi sono subentrati criteri di addestramento culturale all’agone competitivo.
Sempre più – ha ricordato Christophe Charle, docente della Sorbona – «le università sono assimilate a imprese o marche che si dividono un mercato di diplomi, il cui valore sociale è misurato in funzione degli sbocchi lavorativi e degli stipendi ottenuti dai laureati di questo “investimento educativo”». È il mercato che preme sempre più direttamente sugli stessi contenuti formativi delle Università. Tutto questo mentre aumentano ovunque le rette per l’iscrizione, che tengono sempre più ai margini i ragazzi socialmente non abbienti e creano un nuovo «darwinismo educativo». Le conquiste egalitarie realizzate su tale terreno, sia in USA che in Europa, a partire dal dopoguerra, si stanno rapidamente perdendo. L’uguaglianza dei punti di partenza, con scuole e Università alla portata di tutti, oggi si va trasformando in una chimera, che rende completo e definitivo il circolo dell’iniquità in cui le società liberali stanno rinchiudendo il mondo.
Ho avuto la ventura di seguire direttamente, in qualità di docente alla Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza di Roma, l’applicazione della riforma universitaria introdotta dall’ex comunista Luigi Berlinguer, nel 1998 e proseguita, senza apprezzabili modifiche, nel 2005 da Letizia Moratti, ministro del governo di centro-destra. Mi è stata dunque concessa la possibilità di osservare molto da vicino la grande trasformazione che si è venuta verificando in poco tempo all’interno di una grande e antica Facoltà umanistica europea. Occorre dire che i mutamenti sono stati rapidi: nel linguaggio di docenti e studenti, nel loro comportamento, nell’organizzazione dello studio e degli esami, nel rapporto con i libri di testo, nei criteri di valutazione culturale. Questi ultimi hanno costituito il vero cuneo con cui la logica accumulativa del profitto, l’utilitarismo carrieristico si è fatta strada nel mondo degli studi.
Com’è noto, per poter plasmare la mente dei giovani allievi secondo procedure di economia aziendale è stata introdotta la misurazione del profitto universitario con il sistema dei crediti. Gli studenti possono accumulare crediti, anche fuori dalle Università, da poter spendere nel futuro come moneta sonante. Il linguaggio bancario non è solo una goffa simulazione e una umiliazione storica per le Università d’Europa, nate nel Medioevo, che hanno fatto grande per secoli questo Continente non solo di economie, ma anche e soprattutto di conoscenze e saperi. Quasi che i nostri Atenei venissero ora rivalutati, sottratti alla loro cadente vetustà, grazie all’efficiente linguaggio delle imprese. Non è solo questo.
Sotto tale aspetto la rimodulazione del linguaggio universitario in ossequio ai dettami dell’economicismo corrente non sembra voler arrestarsi di fronte a nulla. Rivelo qui un particolare poco noto. Affinché la svalutazione di tutto ciò che è pubblico, anche nelle Università, potesse spingersi sino al grottesco, al fine di non lasciare inesplorato nessun angolo del regno del ridicolo, nella nuova normativa è previsto che l’iscrizione dei ragazzi al biennio specialistico si configuri sotto forma di un contratto, siglato tra lo studente e un rappresentante della Facoltà, di norma un docente. Basterebbe questo straordinario segnale per avere un’idea della meschinità senza fondo che deve oscurare la mente del riformatore a cui dobbiamo tali trovate.
Anche l’iscrizione universitaria – che di fatto avviene attraverso un regolare pagamento delle tasse allo Stato – deve fingersi come un atto privatistico, deve schiacciarsi su un modello di subordinazione personale, per apparire economicamente efficiente. Quasi che lo studente fosse un prestatore d’opera – un bracciante agricolo o un fornitore di merci – il quale sottoscrive un impegno di lavoro con una controparte privata da onorare secondo uno standard di efficienza.
Naturalmente non sottovalutiamo il potere del linguaggio. Il riformatore delle università lo sa bene, perciò non si cura del ridicolo. Esso deve addestrare a una nuova visione economica della vita universitaria e degli studi le nuove generazioni. Il linguaggio diventa poi obbligante, perché incarna regolamenti. Così i crediti hanno trasformato i ragazzi in procacciatori di punteggi, come i clienti dei supermercati, che li collezionano per poter riscuotere i premi finali.
Eppure non è questo il cuore del problema.
Non è qui che la riforma neoliberista ha ficcato il suo cuneo devastatore. Non è qui che anche il sapere in generale subisce un colpo micidiale e forse irreparabile. La vera e radicale trasformazione, la rottura programmata di un paradigma culturale secolare – talmente grave e profonda da non essere stata neppure avvertita, probabilmente, dagli stessi programmatori – è che nelle Università, soprattutto nel Facoltà umanistiche, è cambiato il modello storico dello studio, il processo di apprendimento e di formazione, il meccanismo della trasmissione del sapere. Con la moltiplicazione degli esami, ridotti ad esamini, non solo si immeschinisce il quadro della formazione complessiva dello studente, costretto ad imparare poco di tutto, ma si realizza qualcosa di assolutamente nuovo.
La preparazione dell’esame cessa di essere ciò che è stato per tanti secoli fino ai nostri giorni: l’occasione per studiare e approfondire un determinato campo del sapere.
Un campo che diventa nostro e che interiormente ci arricchisce e ci plasma. Con la riforma essa è diventata qualcos’altro. Ciò che prima era studio, lettura di tanti libri su una singola disciplina, riflessione, approfondimento, meditazione, rielaborazione critica, ora, con la moltiplicazione degli esami, si trasforma in una prestazione continua e frammentata, nella rendicontazione di alcune rapide letture a quella specie di verificatore fiscale che è diventato il docente. Gli esami e la loro preparazione così come i crediti vengono misurati secondo un impiego di quantità temporali, contate in ore necessarie richieste, così che il percorso dello studente sia soggetto a un determinata velocità di prestazione come in una qualunque fabbrica tayloristica. La formazione delle nuove generazioni si trasforma così in un percorso a cottimo, piegata a una logica di rendimento temporal-quantitativo, che mette in secondo piano la qualità culturale e spirituale della formazione. Soprattutto abolisce la dimensione stessa della formazione così come l’abbiamo finora conosciuta: intreccio inscindibile di valori spirituali e saperi.
Gli studenti apprendono a concepire lo studio come un lavoro scandito da tempi determinati, soggetto a standard oggettivi di misurazione e si abituano ad essere continuamente monitorati da un’autorità organizzativa posta al di sopra di loro. È la plasmazione aziendale dell’uomo nuovo, così come lo vuole questa recente incarnazione dello sviluppo, un progetto camuffato da via libertaria che rivela un tendenziale volto totalitario, portatore della «tetra visione di una esistenza controllata e aritmetizzata in ogni suo gesto», come dice Claudio Magris.
Il tentativo, dunque, è di creare velocemente nuovi quadri disciplinati da inserire nei vari settori del mercato del lavoro, una sorta di uomo nuovo seriale, con caratteristiche omogenee, flessibile e veloce, adattabile a varie circostanze, interamente modellato dal suo finale scopo produttivo. A essere direttamente minacciata è dunque la figura umana che ci è più familiare, che ha attraversato sinora indenne tutte le civiltà, che è fondamento di ogni civiltà: l’uomo che pensa. Avanziamo, così, a piccoli passi verso quell’avvenire, come dice Emil Cioran, «in cui il rimpicciolimento dell’uomo raggiungerà la perfezione di un’utopia capovolta». Dovrebbe essere evidente, ma non lo è: nella nostra epoca non è il sonno della ragione, ma la ragione, questa ragione calcolante, che genera mostri.
Ancora più stupefacente è oggi il fatto che – a dispetto dello sforzo di piegare il mondo degli studi superiori alle necessità dell’economia al suo vortice distruttivo – esso non sortisce alcun esito concreto sul piano della creazione di nuovo lavoro. Oggi in Europa, e soprattutto in Italia, la disoccupazione intellettuale ha assunto dimensioni forse mai prima conosciute. Un’intera generazione rischia di essere privata del lavoro per il quale si è formata. Non sempre il fenomeno è visibile in tutta la sua ampiezza, statisticamente rilevabile. Spesso è occultato dal fatto che tanti laureati si rassegnano a lavori precari e dequalificati. Ma migliaia di giovani che si sono laureati spesso con il massimo dei voti, che hanno conseguito il Dottorato, che sempre più di frequente hanno nel loro curriculum Master e PhD acquisiti in Italia e all’estero, frequentato stages e simili sono senza lavoro.
In genere si tratta dei ragazzi che hanno utilizzato le borse Erasmus e Socrates nelle Università europee, che conoscono più lingue, che a 25 anni hanno girato buona parte del mondo. Ci chiediamo come sia possibile, in questa fase incerta di costruzione dell’Europa, dare nuovo impulso all’Unione lasciando nell’insicurezza e nella precarietà il fiore della nostra gioventù studiosa. È uno spreco intollerabile – sia per quello che esso è costato alle famiglie e alle finanze pubbliche – sia per il suo potenziale inutilizzato. Da dove può trovare consenso il progetto europeo se lascia nella precarietà la futura élite intellettuale che esso stesso ha allevato?
In realtà, il modello verso cui tendono tanto l’Europa che gli USA – questi ultimi, per lo meno, con incomparabile generosità di mezzi – è di creare nuove figure di ricercatori che rispecchino, coerentemente, tanto il modello formativo avanzante che le tendenze del mercato del lavoro Ricercatori a tempo determinato, sulla base di contratti a scadenza escogitati al fine di incalzarli a prestazioni sempre più efficienti: è questa la nuova frontiera per le nuove generazioni studiose. In Italia il governo di centro-destra, raccogliendo anche idee che sono di tutto il ceto politico, ci ha provato con un disegno di legge delega sul “Riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari”. Ma è stato sconfitto. La tendenza generale, comunque, è evidente. Si vogliono, per il futuro, ricercatori e docenti che stanno sempre sulla corda, non sicuri del domani, e perciò pronti a piegare la schiena a compiti sempre più severi. Naturalmente, nella dominante logica del “breve termine” tale modello dovrebbe essere altamente produttivo, privo di sprechi e di parassitismi.
Eppure in pochi riescono a immaginare gli effetti di lungo periodo che una simile condizione degli studiosi verrebbe a produrre. Nei giovani sarebbe mortificato lo spirito critico e di innovazione, vista la subalternità ai molteplici poteri, accademici, politici, aziendali cui sarebbe sottoposta la riconferma del loro lavoro. Ma ciò che appare clamorosamente dimenticato è il valore della ricerca non finalizzata a scopi immediati, che lascia libero lo studioso di perseguire le proprie strategie di indagine, senza vincolarlo a scadenze strette di produttività. Tutto ciò che di grande e straordinario hanno prodotto sinora la cultura e la scienza in tutta la storia passata si deve alla possibilità dell’investimento intellettuale di lungo periodo.
Nessuno si è accorto che la stessa nostra civiltà si fonda su tale modello?
Gli storici della mia generazione, in Italia, agli inizi dei loro studi, hanno sempre guardato con invidia ai loro colleghi e coetanei francesi. Questi ultimi agli inizi della loro carriera, godevano della possibilità di lavorare, anche per 5-6 anni e oltre, e con buon sostegno finanziario, all’elaborazione della Tesi di Dottorato. Dopo la laurea, i giovani più dotati potevano impegnare le proprie energie, senza altre cure, in ricerche di vasto respiro e impegno. Da quelle Tesi nascevano i loro primi grandi studi. Ma proprio quella generosa istituzione ha consentito alla Francia di generare la più affascinante e prestigiosa storiografia del Novecento. Una avventura intellettuale come quella delle “Annales”, non ha confronti con gli altri Paesi e ha dato vita alla fioritura di una galleria interminabile di grandi storici, da Marc Bloch a Lucien Fevbre, da Ferndand Braudel a Jacques Le Goff, solo per citare i nomi più noti. E considerazioni analoghe potremmo svolgere per campi del sapere lontani dai nostri.
Quali scopi produttivi perseguiva Einstein nell’indagare i problemi della relatività? Quale contratto a scadenza doveva onorare?
E non è forse noto che uno dei gioielli della tecnologia contemporanea, il computer, è in fondo il frutto ultimo di lunghi studi astratti e disinteressati di matematica?
Le grandi imprese del pensiero non si realizzano con la frusta di qualche aguzzino. Ma fioriscono nelle società nelle quali la ricerca libera e disinteressata è un valore, fa parte di un progetto che non scade l’anno successivo. L’ossessione della resa economica di tutto il nostro agire è il tarlo che oggi immeschinisce ogni impresa.
Caro Salzano
trovo molto bella la tua riflessione sul tema del debito pubblico e la tua “diversa visione” – rispetto a quella da me espressa - sulla quale ampiamente concordo. Il fatto è che il mio contributo era mirato a un tema specifico, come quello di che fare col nostro enorme e crescente debito pubblico, che solo in minima parte dipende dalle nuove tendenze di globalizzazione della finanza, mentre la tua riflessione affronta con coerenza il tema politico della trasformazione recente del capitalismo finanziario.
E’ molto vero che da sempre con il cosiddetto Washington consensus il paese leader del capitalismo mondiale ha imposto ai paesi in via di sviluppo, ma anche ai paesi sviluppati, ricette di politica economica che andavano contro gli interessi di questi paesi (privatizzazioni, apertura alle multinazionali e al commercio internazionale di materie prime, politiche fiscali inesistenti per compiacere le élite “compradore” e corrotte, politiche monetarie restrittive) e nel chiaro interesse del/i paesi leader. Ed è anche molto vero che, a partire dagli anni ’90, il sistema capitalistico ha sposato decisamente la dimensione finanziaria cambiando di colpo l’arena del confronto con i singoli paesi e le loro istituzioni (che aveva portato a quel compromesso fra capitalismo e democrazia che hai richiamato): la nuova arena è diventata il mondo globale in cui non esistono istituzioni legittimate dai popoli, quelle poche che esistono sono deboli e ampiamente controllate, le regolamentazioni finanziarie praticamente inesistenti. Solo dopo la catastrofe della crisi del 2008, determinata totalmente dalle pratiche truffaldine e opache della finanza ed enfatizzata dalla somiglianza dei criteri di azione dei software con cui i titoli vengono scambiati internazionalmente, gli Stati Uniti hanno varato strette regole (interne) di comportamento per le banche e le istituzioni finanziarie, che tuttavia Trump sta iniziando ad azzerare.
Mentre occorrerebbe una forte solidarietà politica internazionale per redigere le nuove regole valide per tutti (come Joseph Stiglitz non smette di raccomandare), nuovi governi di destra minacciano di costruire nuovi paradisi fiscali per la finanza (il Regno Unito della May). E i nuovi irresponsabili populisti europei (Marine Le Pen) e nostrani (Salvini e Grillo), minacciando o invocando l’uscita dall’euro vanno approntando tappeti rossi alla speculazione finanziaria internazionale che, attraverso le inevitabili drastiche svalutazioni delle monete nazionali che seguirebbero, si impossesserebbe con un pugno di dollari delle ricchezze, finanziarie e immobiliari, degli italiani.
Ma vengo al punto su cui le nostre visioni divergono. Tutto quello che ho detto, e che tu hai detto meglio, non c’entra niente col nostro debito pubblico e con le nostre banche. Queste ultime hanno fatto certo “operazioni speculative sbagliate o addirittura criminose”, le più grandi lanciandosi nella finanza immobiliare e nella finanza (politicizzata) degli anni del boom dell’inizio del secolo senza la necessaria competenza e correttezza (e per questo hanno pagato con la perdita di due terzi, in media, del loro capitale e con le attuali ricapitalizzazioni forzate), e le piccole e medie banche con truffe non diverse da quelle dei “furbetti” romani, pagando nello stesso modo fino al quasi azzeramento del loro capitale. Lo stato sta salvando queste ultime dal fallimento, ma il supporto non è destinato ai precedenti padroni o ai manager corrotti che sono indagati dalla magistratura, ma al mantenimento delle aziende e dell’occupazione; come nel caso americano, in cui le grandi banche hanno finito in questi mesi di restituire allo stato gli aiuti elargiti da Obama, così pure questi supporti dovranno essere ripagati dalle nuove gestioni (e su questo in genere nel dibattito non si fa chiarezza). Ma tutto ciò, come dicevo, non c’entra niente col debito pubblico italiano, cresciuto a dismisura per la facile disponibilità dei governi a far pagare alle generazioni future (che sono quelle di oggi) i compromessi e le elargizioni del passato. Non siamo tenuti a rimborsare i soldi che il nostro sistema bancario ha perso “per colpa sua”, ma i nostri debiti: per questo ho detto che “prendersela col debito è scorretto” (e anche rischioso, se qualche politico di livello nazionale dovesse accodarsi pubblicamente a questa “sparata”, come dici tu).
Come ho detto nel mio articolo, la soluzione al problema del debito sta, almeno in parte, in una forte tassazione una tantum dei grandi patrimoni: una misura di equità fiscale, che non genera caduta dei consumi e della domanda e che sarebbe internazionalmente apprezzata. Ma Renzi non ha mai voluto sentir parlare di tasse!
Riferimenti
L'articolo di Camagni fa seguito a un documento del CADTM, alla replica critica di Roberto Camagni e al successivo intervento di Edoardo Salzano,
Grande è la confusione sotto il cielo, e la situazione è pessima, se si rimane nell'orizzonte dei partiti e partitini, disgregati, fatti, disfatti, disseminati, raggruppati. Ma un filo di speranza c'è, nell'eredità morale e materiale del referendum del 4 dicembre.
il manifesto, 26 febbraio 2017
Qualcuno sembra trarre un respiro di sollievo alla notizia che i sondaggi danno sempre come primo il Partito Democratico, attestato, secondo Swg, sul 28% in declino nel giro di una settimana di tre punti. Anche il M5Stelle perde, ma meno, dal 26,2 al 25,3% Questo dato in particolare consolerebbe i renziani. Difficile condividere un simile irresponsabile ottimismo. Non solo perché si devono ancora diradare le nebbie e depositare le polveri perché il normale cittadino possa orientarsi nel nuovo confuso quadro dell’offerta politica. Per questo è certamente prematuro inseguire i sondaggi, che registrano peraltro un alta percentuale di non risposte. Ma soprattutto perché non è questo il metro di misura per giudicare quello che succede. In realtà siamo di fronte alla crisi definitiva di un progetto politico. Quello iniziato con Veltroni che voleva fare del Pd un partito a vocazione maggioritaria autosufficiente, ponendo così nel discorso del Lingotto del 2007 le basi per la caduta del secondo governo Prodi.
Ora il Partito di Renzi è andato a sbattere contro il voto popolare del 4 dicembre. Un voto denso di motivazioni democratiche e sociali. Non a caso i giovani e il Mezzogiorno sono stati i due artefici della sconfitta della controriforma costituzionale. Gli stessi contro cui si abbatte il conclamato fallimento del Jobs act, certificato dai dati Inps che ci raccontano che nel 2016 il numero dei nuovi contratti «stabili» è crollato del 91% rispetto all’anno prima. Diminuiti gli incentivi sono spariti i posti di lavoro. Il rapporto di lavoro precario torna a farla da padrone. Con i suoi tassi di sfruttamento bestiale, come è stato evidenziato nel caso tragico di Paola Clemente morta di fatica nelle campagne pugliesi. Reclutata da un’agenzia interinale, forma moderna dell’antico sempre persistente caporalato. Si comprende bene perché il governo tema il referendum sui voucher e sui subappalti e nicchi rispetto all’obbligo che la legge gli impone di fissare la data per l’effettuazione.
Di fronte a questo dramma le tempeste in atto nel quadro politico restano confinate in un bicchiere d’acqua. Che si determini una vera e propria scissione, o che nel Pd sia in atto un’implosione a scoppio ritardato o una lunga diaspora, ha importanza relativa – se non per i singoli protagonisti. Così come dove effettivamente si accasino quelli se ne sono andati via da Sinistra Italiana a congresso aperto, dal momento che non lo sanno neppure loro. Il nuovo condottiero, Giuliano Pisapia, può forse drenare voti in uscita dal Pd e da Sel, ma non resuscitare il cadavere del centrosinistra. Del resto anche chi decide di abbandonare Renzi – non sto parlando delle continue giravolte di Emiliano – lo fa senza esprimere una leggibile passione ideale e politica, così da rimanere senza popolo. È incredibile che qualcuno pensi che ci si possa appassionare, appena varcata la soglia dei locali riservati agli addetti ai lavori, alla data del congresso o alle modalità delle primarie, quando le questioni della vita quotidiana ruotano attorno ai grandi temi del lavoro, in particolare per i giovani (già ci siamo dimenticati della sconvolgente lettera di Michele, morto suicida a trent’anni), della mancanza di reddito, della povertà, del disastro della scuola, come della sanità, dell’assoluta incertezza nel futuro.
Un tempo ci si aggrappava alla celebre citazione di Mao «Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente». Non era sempre così neppure allora, ma oggi di vero è rimasta solo la prima parte. Confusione tanta, ma situazione pessima.
Eppure una via d’uscita c’è sempre. Anche in questo difficile caso. La vittoria del No è stato il frutto di una insorgenza democratica, ove le idee di società legate al dettato costituzionale hanno fatto momentanea egemonia anche sulle destre che brandivano il referendum per scopi puramente politicisti. In quello scontro è tornato a manifestarsi, legando assieme i temi costituzionali con quelli sociali, un popolo di sinistra, con una forte incidenza giovanile. Si sono creati centinaia di comitati popolari sul territorio che non hanno alcuna intenzione di sciogliersi e reclamano una legge elettorale proporzionale per dare vita a un parlamento legittimo costituzionalmente. L’operazione da fare è quindi capovolgere il punto di partenza. Neppure una lista elettorale, per quanto necessaria, ci salverà.
Bisogna partire dalla capacità di relazione con un rinnovato popolo di sinistra – nel quale è così qualitativamente rilevante il protagonismo femminile – prima che dalla costruzione di un nuovo soggetto della sinistra di cui pure abbiamo estremo bisogno. Perché quest’ultimo senza il primo è privo di fondamenta, esposto ai venti più flebili.
la Repubblica, 26 febbraio 2016Questa legislatura ha tolto l’Imu, forse aggiungerà le Dat. Un altro acronimo, figlio di una politica che ormai s’esprime soltanto a monosillabi. Significa “Disposizioni anticipate di trattamento”; significa perciò testamento biologico, per usare l’espressione che ci era divenuta familiare. Troppo semplice, meglio complicarne il suono. Ma in ultimo ci ronza in capo un dubbio: queste Dat saranno un diritto o un desiderio?
Dipende dalle attese, dalle pretese. Sta di fatto che il testamento biologico fu la promessa mancata della XVI legislatura; e meno male, perché il ddl Calabrò (approvato dal Senato il 26 marzo 2009) in realtà recava un elenco di divieti. Con le elezioni del 2013, ricomincia il tira e molla. Finché, nei giorni scorsi, la commissione Affari sociali della Camera molla: dopo 16 progetti di legge l’un contro l’altro armati, dopo 3200 emendamenti, approva un testo unificato. Con una maggioranza trasversale, che viaggia dal Pd ai Cinque Stelle.
Con l’ira funesta dei cattolici, che denunciano un voto frettoloso (in effetti, il Parlamento ne discute soltanto da 8 anni); ma infine con 5 articoli e con 28 commi che ci accordano il diritto di respingere le cure, incluse la nutrizione e l’idratazione artificiali, oggetto del contendere nel caso di Eluana Englaro. E quindi, se adesso l’aula della Camera non ne stravolgerà il dettato, anche l’Italia potrà dotarsi d’uno strumento che in alcuni Stati americani funziona dagli anni Novanta, in Olanda dal 2001, in Spagna dal 2002, in Francia dal 2005, nel Regno Unito dal 2007, in Germania dal 2009.
Meglio tardi che mai, disse quello studente novantenne mettendosi una laurea in tasca. Sennonché in questa circostanza l’università parlamentare ha inventato una nuova fonte del diritto, superiore alla legge, alla Costituzione, alla Dichiarazione dei diritti siglata dall’Onu: il codice deontologico. Portentosa innovazione, scaturita da un emendamento congiunto di un forzista (Palmieri) e una piddina (Carnevali), per comprimere l’efficacia vincolante delle Dat; hai visto mai, qualcuno potrebbe disporne in modo indisponente. Di conseguenza il medico (articolo 1, comma 8) rispetterà «ove possibile» le direttive del paziente; potrà disattenderle (articolo 3, comma 4) quando sopraggiungano «terapie non prevedibili» nel momento in cui quest’ultimo le aveva sottoscritte (un nuovo tipo di aspirina?); ne verrà infine affrancato (articolo 1, comma 7) se le disposizioni anticipate di trattamento contrastino con la «deontologia professionale».
Durante l’Ottocento veniva celebrata l’onnipotenza delle assemblee legislative. Ora ci tocca invece registrarne l’impotenza, anche davanti a regole private, quelle stabilite dall’Ordine dei medici. Che in primo luogo dettano norme volubili come ballerine: difatti il loro codice deontologico fu varato nel 1954, poi riscritto interamente nel 1978, nel 1989, nel 1995, nel 1998, nel 2006, nel 2014, fino alle due modifiche parziali approvate a maggio e a novembre del 2016. E in secondo luogo quelle norme suonano spesso ermetiche come una Sibilla. Così, l’articolo 17 vieta al medico, «anche su richiesta del paziente», d’effettuare atti intesi a «provocarne la morte». L’articolo 38, proprio in relazione alle dichiarazioni anticipate di trattamento, precisa che il medico dovrà verificarne la «congruenza logica», come un professore che ha il potere di promuoverti o bocciarti. Un altro paio d’articoli (16 e 39, oltre allo stesso articolo 38) dichiarano che il medico «tiene conto» delle volontà del paziente (cioè le conta, dopo di che fa un po’ come gli pare). Infine l’articolo 22 sancisce espressamente il diritto dei medici all’obiezione di coscienza, ultimo baluardo contro la coscienza dei loro pazienti.
Ecco, è esattamente questo il tarlo che divora le buone intenzioni, lasciandole in balia dei malintenzionati. Perché il rinvio al codice deontologico trasformerà ogni nostra decisione in una supplica al sovrano, dove il sovrano è l’Ordine dei medici. E perché l’obiezione di coscienza permetterà la fuga dai diritti sanciti dalla legge, ammesso che questa legge veda mai la luce. Non a caso la Costituzione italiana non le dedica un rigo, a differenza della Carta tedesca o spagnola. Si riferisce invece, in molti luoghi, al primato della legge. Ma ormai la legge non è più una cosa seria. È solo una finta, un’ammuina.
il manifesto, 25 febbraio 2017
«Come fate a vivere senza documenti? Se vi chiappano i carabinieri, vi rimbarcano in Africa». Con ingenuo stupore Benito, uno dei reporter, uno degli ospiti della "comunità XXIV luglio handicappati e non» che si sono improvvisati giornalisti e hanno girato con un pulmino nelle comunità d’accoglienza dei migranti, fa domande, chiede agli anziani dei paesi, riflette coi compagni e si confronta con questi ragazzi stranieri venuti dal mare.
«Siete del Bangladesh? E addò sta il Bangladesh?», «Fate il Ratatan? No, si chiama Ramadan, un mese di digiuno per osservanza religiosa». La faccia del paese migliore, quello dove due fragilità – i disabili e gli immigrati- si incontrano e s’interrogano, abbattendo i pregiudizi. L’Italia di questi piccoli paesi, dove l’accoglienza ha radici antiche ed è un gesto di arricchimento culturale.
La XXIV luglio è una onlus dell’Aquila, attiva da oltre quarant’anni, che utilizza il teatro, la fotografia e altre forme di comunicazione nel percorso di riabilitazione. Nata come attività di reportage audiovisivo (con l’assistenza di volontari videomaker professionisti), un viaggio durato una settimana tra i paesi dell’Appennino (Marche, Molise e Abruzzo,) incontrando maghrebini e africani, asiatici e profughi.
Ora è un doc I migrati, diretto da Francesco Paolucci, che andrà in onda stasera alle 23.50 su Tg2Dossier e domani alle 19.20 su Tv2000. Uno sguardo ravvicinato e curioso verso questi nuovi cittadini che provano a inserirsi nella società, a dimenticare un passato fatto di guerre, privazioni e violenze. «Sono stati quattro giorni in mare, l’esperienza più terribile che mi è capitata, prima il viaggio passando per Sudan, Egitto e Libia, qui voglio rifarmi una vita» racconta una ragazza somala, accolta in una di queste cooperative solidali che si avvalgono dell’aiuto di mediatori culturali.
I quattro cronisti di giornata – Benito, Barbara, Gianluca e Giovanni – chiedono agli abitanti se gli stranieri si sono integrati nella vita del paese. «Ma questi ragazzi, la sera, se ne vanno fuori a bere un aperitivo, una birra?». E restano sorpresi del divieto di consumare alcol, per motivi religiosi. Le situazioni sono molto più semplici e gestibili, dando un carattere leggero e piacevole a tutta la vicenda dove si lavora per l’apprendimento dell’italiano, tra giochi linguistici e indovinelli metafisici.
la Repubblica, 25 febbraio 2017
CARO direttore, commentando le vicende del Pd, Michele Serra ha rilevato come la fine dell’ideologia rischi di tradursi in quel partito nella fine della stessa politica.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, in effetti si brindò non solo alla fine dell’ideologia comunista ma di tutte le ideologie, considerandole camicie di forza del pensiero, strumenti di autoritarismo culturale e politico. Molti liberali non consideravano la loro come una ideologia: la intendevano piuttosto come l’unica concezione del mondo possibile per chi avesse a cuore la libertà.
In quegli stessi anni, però, nell’establishment occidentale si andava affermando una variante radicale del liberalismo. Lo racconta bene Tony Judt in un piccolo libro intitolato Guasto è il mondo. Negli anni Settanta le idee liberiste propugnate da Hayek nel dopoguerra si erano diffuse fino al punto di diventare senso comune: lasciate che gli interessi privati si dispieghino liberamente senza le interferenze della politica economica — dicevano i liberali — e otterrete più crescita e più benessere per tutti...
Il discorso liberista trae forza anche dal cattivo uso delle politiche pubbliche e dalla crescita del ruolo politico del ceto medio — in Italia lo descrive molto bene Sylos Labini. È questa l’ideologia che prepara la svolta politica di Reagan e della Thatcher, una visione del mondo elaborata da agguerriti think tank, diffusa da autorevoli media e sostenuta da aziende multinazionali interessate ad avere mano libera planetaria.
La forza di questa ideologia, paradossalmente, sta anche nel negare di esserlo. Lo scrive molto efficacemente Umberto Eco nel 1983 in Sette anni di desiderio: “Si parla di crisi delle ideologie. Errore. Casomai bisognerebbe parlare di modificazione delle ideologie. È caratteristico delle nuove ideologie non essere riconoscibili come tali, così che possano essere vissute come verità” … Una “verità” che sembra sostenere in maniera indiscutibile la marcia gloriosa della globalizzazione. Ma nel 2007 arriva la crisi finanziaria ed economica, che rivela la crescita di diseguaglianze e di insicurezza sociale che le politiche legate a questo modello ideologico hanno prodotto nel mondo. Il credo dell’ideologia neoliberista è rimesso in questione da autorevoli economisti e da grandi istituzioni economiche internazionali, e perfino da giornali mainstream come il Financial Times. Eppure, in questi dieci anni nel campo progressista non riesce ad affermarsi un paradigma alternativo. Non è un problema della sola politica ma di tutta la sinistra, anche quella che si occupa di diffondere le idee: i giornali, le riviste, le case editrici. E non è solo un problema italiano: la sinistra è divisa e in difficoltà in buona parte dell’Occidente.
E questo non perché manchi un pensiero nuovo, ad esempio sui temi dell’equità. Pensatori come Tony Atkinson e Amartya Sen (solo per citarne due molto noti anche in Italia) hanno scritto libri fondamentali su come nel XXI secolo si può ripensare una società insieme più giusta e più libera. E anche in Italia ci sono studiosi che da anni lavorano su un nuovo modello di welfare, che coniughi lotta alla povertà e alle disuguaglianze — anche di genere — con la sostenibilità economica ed ambientale.
Ciò che manca è il passaggio dalle idee alle opinioni: quelle che Leopardi (nel Discorso sui costumi degli italiani) ritiene decisive nel determinare i comportamenti. Un ambito in cui svolgono un ruolo essenziale i media, purché siano disposti ad assumere fino in fondo la loro responsabilità di orientamento intellettuale e formazione dell’opinione pubblica. Un esempio?
Nel suo ultimo libro La grande fuga il premio Nobel Angus Deaton scrive che la crescita non garantisce la creazione di più opportunità per tutti: anzi, è compatibile con maggiore diseguaglianza e povertà. Dunque, se la crescita è uno strumento e l’equità è il fine, almeno per chi è progressista non ha senso auspicare la crescita senza darle precise qualificazioni. Una idea che ancora non è diventata senso comune.
Di tutto ciò, i litigi tra Renzi, Bersani e D’Alema non sono che una modesta conseguenza. Date per morte tutte le ideologie, la maggioranza dei professionisti della politica ha smesso da tempo di citare i libri che ha letto mentre si dedica con passione ad inseguire i ritmi e le logiche della comunicazione televisiva. Siamo alla politica del giorno per giorno, la cui agenda è dettata dai sondaggi e in cui la personalità dei capi fa premio sulla qualità dei programmi. Eppure, mai come in questa fase di grande confusione, c’è spazio per idee nuove. E le idee nuove ci sono (e non solo nei libri). E c’è anche una nuova generazione che può dare “gambe” a queste idee, che forse più che nei partiti lavora nelle ong in giro per il mondo. Certo, bisogna fare una rivoluzione culturale. Compito molto difficile ma (la storia ci dice) non impossibile. E oggi quanto mai necessario.
L
il manifesto, 25 febbraio
Il Pd è un partito «sbagliato», nato male, cresciuto peggio, destinato a concludere la sua parabola. In che modo lo vedremo presto. Lo si può ben cogliere nelle vicende di questi giorni.
Molti sembrano scandalizzati o infieriscono con toni moralisti: ma come, una scissione per una questione di calendario? In realtà, dietro tale questione, emerge il problema di fondo di questo partito, l’idea e il modello di partito che ne ha segnato le origini, e che ne sta segnando la fine.
Si parla di «congresso»: ma in realtà lo statuto del partito non usa nemmeno questa espressione, e non prevede quel processo democratico di confronto, dibattito interno e poi decisioni, cui si pensa normalmente quando si parla di un congresso.
Del resto, la cosa fu apertamente teorizzata a suo tempo: «Ma nel nostro Statuto il congresso non c’è», si leggeva in un’intervista a Salvatore Vassallo (Corriere della Sera, 28 gennaio 2009). Quello che c’è, come recita il titolo di un articolo dello Statuto stesso, è un’altra cosa: una «scelta dell’indirizzo politico mediante elezione diretta del Segretario e dell’Assemblea nazionale». E’ qui la tara originaria, l’imprinting presidenzialistico e leaderistico che ha segnato la vita del Pd (su cui, ad onor del vero, nella prima fase della sua segreteria, Bersani tentò di intervenire, senza riuscirci).
Per comprendere la posta in gioco, nello scontro in corso, occorre dunque ricordare cosa prevede questo micidiale e distruttivo congegno: tutto si gioca sulle candidature, formalmente legate ad una piattaforma.
In una prima fase, agli iscritti spetta un solo, miserrimo compito: scremare le candidature, fino a ridurle (a certe condizioni) ad un massimo di tre. Poi si va alle primarie «aperte», ed entrano in gioco gli elettori. Nelle altre occasioni, un percorso durato circa sei mesi.
Ebbene, se queste sono le regole, la questione del calendario è una questione molto seria, su cui è sbagliato ironizzare.
Il problema è molto semplice: non c’è più propriamente un «corpo» del partito, alla fine vince chi riesce ad attivare la migliore circolazione «extra-corporea», ossia mobilitare risorse esterne al partito.
E qui entra in gioco l’analisi di quanto accaduto in questi anni: hanno perfettamente ragione quanti dicono che «la scissione c’è già stata».
Non si hanno dati precisi, ma decine, forse centinaia di migliaia, di iscritti se ne sono andati (del resto, cosa serve avere una tessera, se poi conta soprattutto la «gazebata» finale?).
Anche molti elettori se ne sono andati.
Le attuali minoranze del Pd sono prive, al momento, di una reale forza da spendere in questo scontro: l’unica possibilità che hanno è quello di provare a ri-mobilitare quella schiera di iscritti e di elettori che hanno abbandonato il partito in questi anni.
È un’impresa per certi versi disperata, ma che avrebbe comunque bisogno di alcuni mesi di tempo, per risultare credibile, suscitare una qualche speranza, e tentare di convincere quel popolo della sinistra che ricorda oggi un «volgo disperso», per dirla con Manzoni.
È vero che, grazie soprattutto al referendum, Renzi potrebbe aver perso una parte delle sue capacità espansive, e che, per altro verso, l’esito del referendum ha segnato una significativa ripresa di attività e di coraggio di una parte di quel popolo. Ma è un’impresa comunque ardua, perché il Pd renziano, in tutti questi anni, ha prodotto una rottura profonda: una radicale disconnessione sentimentale.
È davvero arduo pensare che tanta gente possa tornare ad appassionarsi alle sorti del Pd e dare una mano ai candidati delle minoranze.
Per questo, la partita che si sta giocando in queste ore è un gioco a somma zero, e siamo ad una stretta in cui comunque si impongono decisioni irreversibili.
Se le minoranze accettano di entrare in un percorso congressuale, tanto più se accelerato, rischiano di trovarsi dentro una trappola mortale.
Ma, per motivare adeguatamente una scissione, occorre fare emergere i veri nodi che si celano dietro la questione dei tempi.
Renzi vuole portare alle estreme conseguenze la logica che ne ha sempre guidato l’azione: una logica di clan, di tribù, intrinsecamente divisiva e proprietaria, incapace di concepire l’idea stessa di un partito come corpo collettivo, fondato sulla partecipazione democratica degli iscritti ed anche sulla mediazione all’interno dei gruppi dirigenti (una dimensione essenziale nella vita di un partito, che Renzi evoca in modo sprezzante e populista con l’immagine dei «caminetti»).
Ma occorre soprattutto fare emergere anche il tema di fondo: l’Italia non può non avere una sinistra, non può dilapidare l’eredità della storia del movimento operaio, socialista e comunista.
Ad una domanda, su cosa di «nuovo» potesse portare la sua candidatura alla guida della Spd, qualche giorno fa Martin Schulz ha risposto: «Nulla, la Spd da 150 anni dice le stesse cose».
Forse ha esagerato, ma recuperare l’orgoglio e la dignità di una storia, ecco, questa è forse la vera posta in gioco, e il primo passo da fare.
Nel video che circola in rete ormai da ieri, tre dipendenti di un supermercato di Follonica, di cui uno dall’altra parte dello smartphone che riprende, dileggiano due donne rom, rinchiuse nel gabbiotto in cui viene riposta la «merce difettosa», i rifiuti del negozio. E proprio come prodotti andati a male, vengono trattate le due donne, mentre urlano stipate e incredule tentando di aprire la porta che però rimane sbarrata. Oltre alla solita colata maleodorante di commenti sui social, e all’immancabile saltarci sopra del segretario leghista Matteo Salvini che propone assistenza legale agli autori del video casomai ne avessero bisogno, ciò che va in scena è una nuova grammatica del sadismo, sdoganata da un clima di violenza politica qui come oltreoceano.
«». Il PaesedelleDonne online, 24 febbraio 2017,
Trani – Fu un infarto a ucciderla, ma la morte di Paola Clemente, la bracciante agricola 49enne di San Giorgio Jonico scomparsa mentre lavorava all’acinellatura dell’uva sotto un tendone nelle campagne di Andria il 13 luglio del 2015, non è stata vana. L’inchiesta, aperta all’indomani della denuncia da parte del marito e della Cgil, è arrivata a una svolta. Sei persone sono state arrestate nel corso di un operazione della guardia di finanza e della polizia coordinate dal magistrato tranese Alessandro Pesce. Truffa ai danni dello Stato, illecita intermediazione, sfruttamento del lavoro: la nuova legge contro il caporalato non ha fatto sconti. Se fosse entrata in vigore prima, probabilmente il numero delle persone in manette sarebbe stato più alto.
In carcere sono finiti Ciro Grassi, il titolare dell’azienda di trasporti tarantina che trasportava in pullman le braccianti fino ad Andria; il direttore dell’agenzia Inforgroup di Noicattaro, Pietro Bello, per la quale la signora lavorava; il ragioniere Giampietro Marinaro e il collega Oronzo Catacchio. Stessa sorte anche per Maria Lucia Marinaro e la sorella Giovanna (quest’ultima ai domiciliari). La prima è la moglie di Ciro Grassi, indagata per aver fatto risultare giornate fasulle di lavoro nei campi con lo scopo di intascare poi le indennità previdenziali, e la seconda avrebbe lavorato nei campi come capo-squadra.
Nel corso delle indagini furono acquisiti nelle abitazioni delle lavoratrici in provincia di Taranto carte e documenti in cui sarebbero emerse differenze tra le indicazioni delle buste paga dell’agenzia interinale che forniva manodopera e le giornate di lavoro effettivamente effettuate dalle braccianti. Dai documenti era emersa una differenza del 30 per cento tra la cifra dichiarata in busta paga e quella realmente percepita da alcune lavoratrici. Le braccianti sfruttate nei campi – secondo la Procura di Trani – percepivano ogni giorno 30 euro per essere al servizio dei caporali per 12 ore: dalle 3,30 del mattino, quando si ritrovavano per essere portate nei campi a bordo dei pullman, alle 15.30, quando ritornavano a casa dopo essere state al lavoro tra Taranto, Brindisi e Andria.
L’inchiesta non riguarda la morte della donna, sulla quale è in corso una consulenza di un docente di medicina del lavoro che dovrà accertare se vi sia stato nesso di causalità tra decesso e superlavoro, ma lo sfruttamento di Paola e di oltre 600 braccianti. Le vittime dello sfruttamento – secondo l’accusa – sono donne poverissime con figli da sfamare e mariti spesso senza lavoro, in molti casi ex lavoratori dell’Ilva di Taranto. Quello che più colpisce delle 302 pagine del provvedimento restrittivo è la straziante confessione di alcune braccianti, sfruttate e sottopagate dall’agenzia interinale.
Una donna racconta agli inquirenti che un giorno, sul pullman, nel momento in cui venivano distribuite le buste paga, «alcune donne si sono lamentate dei giorni mancanti e G. ha detto che noi lo sapevamo, quindi non dovevamo lamentarci. Nessuna ha più parlato, anche perché si ha paura di perdere il lavoro. Anch’io adesso ho paura di perdere il lavoro e di essere chiamata infame. Ho un mutuo da pagare, mio marito lavora da poco, mentre prima stava in cassa integrazione. Dovete capire che il lavoro qui non c’è e che perderlo è una tragedia. Quindi, se molte di noi hanno paura di parlare è comprensibile».
Un’altra fa mettere a verbale al pm Alessandro Pesce che «se fai la guerra perdi, perché il giorno dopo non vai più a lavorare». E una sua collega aggiunge: «Per noi 32 euro al giorno sono necessari per sopravvivere». Testimonianze coraggiose che commuovono il procuratore tranese Francesco Giannella: «Nell’indagine è emerso – spiega – che il caporalato moderno si è concretizzato esclusivamente attraverso l’intermediazione di un’agenzia interinale. E’ una forma più moderna e più tecnologica rispetto a quella del passato». Ma il motore che lo alimenta è sempre lo stesso:«L’assoluta povertà delle braccianti che vedono nei caporali i loro benefattori, anche se questi le sorvegliano pure quando vanno in bagno e bacchettano se non lavorano bene».
Paola Clemente, è emerso, era stata assunta da un’agenzia interinale ma non era stata sottoposta, o quanto meno non risulta, a una visita medica. Poi, la svolta. Dopo un’inchiesta di Repubblica e l’intervista al marito di Paola, la Procura di Trani decise di riesumare il cadavere. L’autopsia accertò che si era trattato di una “sindrome coronarica acuta”. La donna, stabilirono gli esami eseguiti dal medico legale Alessandro Dell’Erba con il tossicologo Roberto Gagliano Candela, era affetta da ipertensione (che stava curando) e da cardiopatia.
Durante l’ultima assemblea della Cgil a Taranto alla leader della Cgil, Susanna Camusso, fu consegnata una copia rilegata della legge in materia di contrasto al fenomeno di caporalato che il segretario generale della Cgil Bat, Giuseppe Deleonardis, volle dedicare proprio a Paola Clemente. La sua fu, ha ricordato, fu una battaglia a favore dei diritti dei lavoratori costretti a vivere nei ghetti e quelli vittime del caporalato, che ha portato a un’accelerata verso la stesura e l’approvazione della legge contro i caporali perché, disse, «se c’è un lavoro sfruttato e schiavizzato, c’è un impresa che sfrutta e schiavizza».
Immancabili le reazioni politiche. A cominciare da quella della presidente della Camera, Laura Boldrini, che spera che la nuova legge sul caporalato «si dimostri una risposta efficace per debellare una forma di schiavismo intollerabile». «La tragedia di Paola Clemente – dice il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina – è ancora viva in tutti noi e la nuova legge contro il caporalato ha segnato un punto di svolta».
la Repubblica, 24 febbraio 2017 (c.m.c.)
Cambiano vestito ma sotto c’è sempre lo stesso cuore nero. La raccolta del carico umano non la fanno più nella piazza ma in un ufficio con vetrine luccicanti e signorine sorridenti, mail garbate, furgoncini che profumano di nuovo. Sono schiavisti e si presentano come tour operator.
È il nuovo “caporale” dell’Italia nascosta, quello che si adegua ai tempi e sa che non può più andare all’alba giù in paese e mettersi davanti a tutti quelli che aspettano tremanti e dire «tu sì» e «tu no», tu lavori per me e tu fai la fame, «tu domani» e «tu mai». Come alla fiera del bestiame, solo che adesso il mercato degli animali è più pettinato, a prima vista regolare e legale, politicamente super-corretto. Senza quella manifesta violenza fisica e psicologica che li faceva sembrare tanto cattivi, tanto mafiosi. Ma sempre sfruttatori di sangue sono, vampiri che fatturano secondo stime per difetto 9 miliardi di euro l’anno, tre solo con il pomodoro. Sono sempre loro, come quando li ammassavano sul cassone di un camion per scaricarli poi in una vigna o in un orto, in un uliveto o in una serra.
Questa storia di Trani ci fa scoprire un Meridione che cambia e non cambia mai nei suoi abissi, dai campieri a cavallo ai campieri costretti dalla modernità a ripulirsi per continuare a trafficare con lavoratori in servitù totale. Solo i nomi sono diversi. Oggi è toccata a Paola, Paola Clemente, stroncata dalla fatica sotto un tendone nelle campagne di Andria. Ma quante sono le Paole di cui non sappiamo nulla e non sapremo mai nulla, le Paole che muoiono di fatica giù in Puglia o in Calabria, in Sicilia o in Campania? Solo quelle pugliesi - le braccianti donne - vittime dei caporali italiani sarebbero 40 mila. È come la mafia che non spara più e che si presenta conciliante e “affettuosa” per fare affari o dare lavoro. Mica lo fa con la lupara a tracolla o con il revolver infilato nella cinghia dei pantaloni. Fa la sua offerta, prendere o lasciare. Fuori è tutto in ordine, dentro tutto sudicio. Tour operator.
E cosa faceva prima Ciro Grassi, il titolare dell’azienda di trasporti tarantina che spostava quelle come Paola fino ad Andria o giù nel tarantino o verso Brindisi perché dividessero gli acini maturi da quelli ancora acerbi e non sviluppati? Faceva il “caporale” alla vecchia maniera, all’antica come era abituato a fare da una vita. Non ha mai trovato un altro mestiere. Si è solo emancipato nella sua specialità. Dalla conta mattutina nell’arena al patto con il direttore dell’agenzia interinale che ha il suo sito con “offerte di lavoro” e addirittura con “opportunità di carriera”, il ragioniere compiacente che sapeva tutto e giostrava con i contributi da far sparire, c’era pure una parente loro che poi nei campi faceva anche la caposquadra. La Kapò del vigneto.
Quelle come Paola stavano piegate fra pesticidi o l’inferno dei tendoni dodici ore per 30 euro, due euro e mezzo ogni sessanta minuti. Dalle tre di notte alle tre del pomeriggio. Ma ufficialmente le braccianti guadagnavano di più, il resto però - il trenta per cento circa - se lo prendevano i padroncini. Se lo dividevano.
Che differenza c’è mai fra questa schiavitù avvolta in carta patinata e quella rozza di più di mezzo secolo fa tra Eboli e Battipaglia, fra l’agro napoletano e i feudi sterminati dei conti e dei marchesi giù in Sicilia? Sempre mercato di braccia e di corpi, di soprusi e di “soprastanti” anche se nessuno li chiama più così ma così sono ancora. Il cuore nero.
Negli ultimi anni abbiamo raccontato le vicende degli schiavi che si muovevano di regione in regione inseguendo i raccolti di frutta e verdure dalla Sicilia alla Puglia, dal casertano ai giardini di arance della Piana di Gioia Tauro. Abbiamo raccontato la “caccia al nero” del 2010 sulle strade fra Rosarno e Gioia Tauro, quando la popolazione locale ha imbracciato le armi contro i senegalesi e gli ivoriani e i ghanesi che non ne potevano più di morire di freddo e di fame. E poi le tragedie dei bulgari, dei romeni, dei lituani, degli slovacchi che sopravvivevano nelle baraccopoli della Capitanata e ogni tanto morivano e ogni tanto si ribellavano. Come quei tre ragazzi polacchi di vent’anni - Arkadiusz e Wojcech e Bartosz - che un giorno d’estate del 2006 hanno fatto scoprire il racket del Tavoliere.
Ma ci mancava in questa miserabile lista il mediatore losco provvisto di licenza di “noleggio e trasporto persone con conducente” che viene contattato da una grande società del Nord, con sede al centro di Milano e che ha i suoi referenti in ogni piccola e grande città del Sud. Questa società come altre agenzie di collocamento sono tutte senza un pelo fuori dalla legge, buste paghe apparentemente regolari, firme e controfirme, le carte sempre a posto. Poi qualcuno non ce la fa più. Capita. Poi qualcuno muore. Capita.
politiquepoliticienne oggi - dalla sinistra radicale fino ai liberali -avessero letto e meditato con più attenzione i suoi scritti forse ci sarebbero meno rottami e più speranze. Ytali, 21 febbraio 2017 (c.m.c.)
"Io non parlo mai dell’aspetto negativo della mia vita, prima di tutto perché non voglio essere compianto: ero un combattente che non ha avuto fortuna nella lotta immediata, e i combattenti non possono e non devono essere compianti, quando essi hanno lottato non perché costretti, ma perché così hanno essi stessi voluto consapevolmente". Lettera alla madre, 24 agosto 1931
L’“Anno Gramsciano” è appena iniziato. In tutta Italia sono già in tanti ad aver colto questa preziosa occasione per organizzare iniziative ed eventi dedicati al pensatore italiano più studiato e tradotto al mondo.
Uno dei primi importanti eventi dell’“Anno” è la mostra “Antonio Gramsci e la Grande Guerra”, ideata e realizzata dalla Fondazione Gramsci. Dal 15 febbraio al 10 marzo sono esposti all’Archivio Centrale dello Stato anche i trentatré “Quaderni del carcere” compilati da Gramsci dal 1929 al 1935.
Intellettuale e dirigente politico, la sua tormentata e dolorosa esperienza di prigioniero di Mussolini ebbe inizio l’8 novembre 1926, alla vigilia dell’approvazione delle “Leggi eccezionali fasciste”. La sua vicenda carceraria e la prematura scomparsa lo hanno reso un martire e un eroe. Egli stesso, tuttavia, aveva rifiutato queste etichette: lo dimostra la lettera del 12 settembre 1927 rivolta al fratello Carlo in cui affermava di non voler fare «né il martire né l’eroe». «Credo», proseguiva nella sua missiva, «di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo».
Gramsci morì il 27 aprile 1937 presso la Clinica Quisisana di Roma a causa di un’emorragia cerebrale che l’aveva colpito due giorni prima: «il giorno stesso in cui il giudice di sorveglianza del Tribunale di Roma», ricorda il professor Giuseppe Vacca, «gli aveva comunicato che, terminato il periodo della libertà condizionata, veniva sospesa ogni misura di sicurezza nei suoi riguardi.»
Togliatti gestì direttamente l’eredità culturale e politica di Gramsci all’indomani della sua scomparsa. Secondo Giuseppe Cospito, docente di Storia della filosofia moderna presso l’Università degli Studi di Pavia (“Introduzione a Gramsci”, Il melangolo, 2015), Togliatti è «l’artefice fondamentale, nel bene e nel male, delle letture del suo pensiero nei primi decenni successivi alla morte» non solo per il ruolo di “editore degli scritti”, ma anche per aver voluto «rivendicarne per sé e il proprio Partito l’eredità politica e culturale.» Un “difensore”, sempre secondo Cospito, dell’«originalità della posizione del capo della classe operaia» in grado di “trascendere la vicenda storica” del Partito, senza mettere in discussione l’ortodossia marxista e leninista, da interpretare, di volta in volta, in modo diverso, anche a costo di “inevitabili forzature”, per “adattare” il suo pensiero all’epoca contemporanea.
La Fondazione Gramsci, dal 1950, per volontà di Togliatti, custodisce il lascito di “Nino”, come Gramsci veniva chiamato in famiglia, ed è attivamente impegnata nella valorizzazione della sua figura in Italia e all’estero.
Ma, concretamente, com’è stato preservato questo patrimonio composto non solo dai “Quaderni del carcere” (29 di note e quattro di traduzioni) e dalle lettere, ma anche da libri, documenti d’archivio, giornali, riviste e altri manoscritti di Gramsci?
Lo abbiamo chiesto a Francesco Giasi, Direttore della Fondazione Gramsci, che ci ha accolto nella stanza in cui è conservata la maggior parte dei libri che Gramsci leggeva mentre si trovava in carcere.
Direttore, in questi 67 anni la Fondazione ha portato avanti il compito che Togliatti le aveva affidato. Come ha gestito questa importante “missione”?
L’idea di una Fondazione dedicata a Gramsci nacque in occasione del decennale della sua morte, nel 1947. Venne poi istituita nel 1950 quando tornarono in Italia i libri appartenuti a Gramsci, che, assieme ai “Quaderni” e alle “Lettere”, erano stati portati a Mosca dalla cognata Tania Schucht.
Le “Lettere dal carcere” avevano già avuto uno straordinario successo editoriale e si stava concludendo la prima edizione dei “Quaderni”. Togliatti non aveva mai pensato di ridurre Gramsci ad un santino. Il suo ingresso nel pantheon nazionale era avvenuto già all’indomani della Liberazione quando la sua figura politica era stata solennemente accostata in Parlamento a quella dei padri della patria. Accadde nel giugno del 1945, quando furono commemorati anche Giacomo Matteotti e Giovanni Amendola, gli altri due deputati vittime del fascismo. Prima della caduta di Mussolini, il volto e il nome di Gramsci avevano accompagnato le lotte antifasciste, assieme a quelli dei fratelli Rosselli, di Gobetti e di altre vittime e perseguitati politici. Gramsci, quindi, era già un’icona.
A Togliatti si deve la volontà di farlo conoscere attraverso i suoi scritti. C’è da dire che nei primi anni l’attività della Fondazione fu molto limitata. I manoscritti di Gramsci erano custoditi a Botteghe Oscure, presso la Direzione nazionale del PCI, dove aveva sede anche l’ufficio di Felice Platone che curò la prima edizione delle “Lettere” e dei “Quaderni”. Anche la pubblicazione degli scritti giornalistici fu avviata sotto la supervisione di Togliatti e il ruolo della Fondazione in questa impresa fu, inizialmente, marginale. Si trattava di un’impresa molto complessa che fu, peraltro, portata a termine solo molti anni dopo la morte di Togliatti.
Perché complessa?
Complesso è l’intero lavoro di edizione degli scritti. Gramsci è un autore che non ci ha lasciato “opere”, cioè libri, ma una grande mole di appunti (i 33 “Quaderni del carcere”), lettere non destinate alla pubblicazione e molte centinaia di articoli giornalistici. Questi ultimi non recano quasi mai la sua firma e sono dispersi in un gran numero di giornali e di riviste. C’è da individuarli e da riconoscerne la paternità. Ciò non è sempre agevole. In molti casi non è possibile stabilire con certezza che Gramsci ne sia l’autore, anche se il corpus dei suoi scritti principali non è mai stato in discussione. Gli articoli più brevi, quelli nati dalla collaborazione con altri redattori o che paiono più da lui ispirati che usciti dalla sua penna restano attribuibili con margini di incertezza. Un lavoro delicato iniziato da curatori che erano anche stati stretti collaboratori di Gramsci all’Avanti! di Torino, al Grido del popolo, all’Ordine Nuovo e all’Unità.
E quando la Fondazione iniziò ad occuparsi direttamente del lascito di Gramsci?
A partire dal 1957. In occasione del ventennale della morte, l’Istituto Gramsci, come venne ridenominata la Fondazione, organizzò il primo importante convegno internazionale di studi. L’iniziativa poté tenersi solo nel gennaio del 1958, a causa degli impegni politici di Togliatti. L’Istituto Gramsci era presieduto da Ranuccio Bianchi Bandinelli e diretto da Franco Ferri. Al convegno parteciparono figure di spicco della cultura nazionale e internazionale e una larga schiera di giovani filosofi e storici. Da allora l’Istituto prese in mano anche l’edizione degli scritti e divenne un vero centro di studi su Gramsci. Gli originali delle “Lettere” e dei “Quaderni” furono acquisiti nel 1963 e, poco dopo, l’archivio cominciò ad arricchirsi di altre carte, tra cui le lettere della cognata Tania. Togliatti affidò all’Istituto Gramsci la seconda edizione delle “Lettere dal carcere” che poté uscire solo nel 1965. Dopo la sua morte i convegni organizzati a cadenza decennale segnarono le tappe degli studi su Gramsci. Nel 1967 si tenne a Cagliari un convegno che impegnò una parte significativa del mondo accademico italiano. Nel 1977, a Firenze, vi fu una prima riflessione sulle novità portate dall’edizione critica dei “Quaderni del carcere” promossa già a metà degli anni Sessanta e pubblicata due anni prima. Ma ormai da vent’anni l’Istituto Gramsci non limitava la propria attività alla promozione degli studi gramsciani.
Gramsci ignorato in Italia e studiato all’estero. Un’idea che negli ultimi anni si è profondamente radicata nel nostro Paese. È davvero così?
Sfatiamo un mito. Gramsci è letto e studiato in Italia indipendentemente dalle ricorrenze. Basterebbe dare uno sguardo alle pubblicazioni degli ultimi vent’anni e a ciò che è stato prodotto tra gli ultimi due convegni gramsciani tenutisi a Cagliari nel 1997 e a Bari nel 2007. Decine di opere monografiche, innumerevoli contributi sulla sua vita e sul suo pensiero. Ricerche innovative in larga parte sollecitate dall’Edizione Nazionale degli scritti istituita dal Ministero dei Beni Culturali nel 1996. Un’enorme produzione di articoli, di saggi che alimentano una discussione vivace che appassiona gli studiosi delle più diverse discipline: storici, filosofi, linguisti, critici letterari, pedagogisti e antropologi. Questo avviene in Italia e non solo all’estero. In più, solo in Italia viene adeguatamente studiata la sua biografia politica e intellettuale.
Quando il pensiero gramsciano attraversò una fase di declino?
Vi fu solo un momento in cui la figura di Gramsci subì in Italia un temporaneo declino: all’inizio degli anni Ottanta. Già Hobsbawm, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte, aveva sottolineato che la crescente attenzione internazionale per Gramsci contrastava con la profonda “emarginazione” del suo pensiero in Italia. Proprio avvertendo questa discrasia tra fortuna all’estero e declino in Italia, Giuseppe Vacca, divenuto direttore della Fondazione, decise di organizzare un convegno che desse conto degli studi internazionali. L’iniziativa si tenne a Formia nel mese di ottobre del 1989, pochi giorni prima della caduta del Muro di Berlino.
Questo Convegno fu molto importante perché vide la partecipazione di studiosi europei, americani, asiatici e africani che illustrarono il percorso degli studi gramsciani nei Paesi di provenienza. La Fondazione da allora ha continuato a rappresentare un collegamento tra gli studiosi di tutto il mondo. A Formia, tra l’altro, si costituì l’International Gramsci Society e sono innumerevoli gli accordi con università e centri di ricerca per pubblicazioni e progetti congiunti. Da oltre un decennio curiamo la pubblicazione di volumi dedicati agli studi gramsciani nel mondo, l’ultimo dei quali si intitola “Gramsci in Gran Bretagna”. I prossimi saranno dedicati a “Gramsci in Francia” e a “Gramsci nel mondo arabo”.
In questo contesto rientra anche la decisione del Parlamento italiano di dichiarare la Casa Museo di Antonio Gramsci di Ghilarza “monumento nazionale”?
Certamente la decisione è un ennesimo riconoscimento dell’importanza di Gramsci per la storia e la cultura nazionale. Peraltro, la Fondazione Gramsci, l’International Gramsci Society e la Casa Museo di Ghilarza organizzano già dal 2013 una Summer School, una vera e propria scuola internazionale di studi gramsciani. Vi partecipa, di volta in volta, una quindicina di giovani studiosi provenienti da ogni parte del mondo, selezionati per concorso. Anche la Casa Museo si è data una nuova struttura e ha in calendario importanti iniziative.
Quali progetti e iniziative sta mettendo in campo la Fondazione per l’Ottantesimo?
Nel corso del 2017 lo celebreremo nel modo dovuto. La prima grande occasione – se ne è parlato prima – è la mostra “Antonio Gramsci e la Grande Guerra” allestita all’Archivio Centrale dello Stato. Il 27 aprile vi sarà una commemorazione organizzata con la Presidenza della Camera dei Deputati a Palazzo Montecitorio, nella sala della Lupa. Nei giorni seguenti, fino al 7 giugno, saranno esposti a Montecitorio i “Quaderni” e i libri del carcere. Durante i giorni della mostra si terrà – nella Sala Aldo Moro – un ciclo di lezioni destinato al largo pubblico. Dal 18 al 20 maggio si terrà poi il convegno intitolato “Egemonia e modernità. Il pensiero di Gramsci in Italia e nella cultura internazionale”, organizzato assieme all’International Gramsci Society e all’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, che è anche l’editore dell’Edizione Nazionale.
Il convegno conferma l’importanza del pensiero gramsciano all’estero. Gramsci è uno dei cinque italiani presenti nell’elenco dei duecentocinquanta autori della letteratura più citati al mondo e sono circa ventunomila i titoli delle opere di letteratura critica pubblicate in quasi tutte le lingue moderne.
E tanti artisti e intellettuali hanno visto nel pensiero di Nino un possibile riscatto per la rinascita del proprio Paese, grazie all’adozione di modelli sociopolitici gramsciani, sicuramente da attualizzare.
Nel Bronx, ad esempio, nel 2013 l’artista svizzero Thomas Hirschhorn ha creato l’installazione “The Gramsci Monument”, un luogo di aggregazione che ha ospitato – in un’area della città particolarmente problematica – reading, lezioni, corsi per bambini, concerti e seminari.
Quali sono i Paesi in cui il suo pensiero ha avuto particolare risonanza e, soprattutto, ritiene sia difficile per un intellettuale straniero studiare e interpretare i suoi testi?
I “ventunomila titoli” che lei ha citato sono quelli che registra la Bibliografia gramsciana fondata da John M. Cammett, il decano degli studi gramsciani negli Stati Uniti. Oggi la Fondazione Gramsci la aggiorna costantemente grazie ad una rete di corrispondenti presenti nei cinque continenti. Le lingue sono ormai 41. La banca dati è consultabile online dal sito della Fondazione.
Negli Stati Uniti vi è una grande attenzione per Gramsci, soprattutto nelle accademie. In Giappone la penetrazione del pensiero gramsciano è stata significativa, soprattutto negli anni passati.
Crescente è, invece, l’interesse verso Gramsci nei Paesi latinoamericani, in particolare in Brasile. Ma in Messico, Cile e Argentina vi è una solida tradizione di studi su Gramsci che risale agli anni Settanta. In Europa spicca da qualche anno il caso della Francia, dove si sono messi all’opera studiosi giovani e qualificati. È importante ricordare che Gramsci è un autore molto difficile da studiare e interpretare all’estero. Per comprendere a fondo i suoi scritti è necessaria una conoscenza approfondita della cultura del suo tempo.
E in Russia, che rappresenta quasi la seconda patria di Nino, il pensiero gramsciano è diffuso?
In Russia Gramsci non ha mai avuto una grande fortuna. Sono state pubblicate alcune antologie dei suoi scritti, ma non vi è un’edizione integrale dei “Quaderni del carcere”. Dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Ottanta il suo pensiero non si poteva valorizzare accanto agli autori che costituivano la costellazione dei filosofi marxisti-leninisti. Dai cataloghi delle edizioni statali si ricava una significativa marginalità di Gramsci e si può affermare che la sua biografia e i suoi scritti siano stati oggetto di interesse da parte di pochi studiosi, anziché di enti o istituzioni pubbliche. Dopo la fine dell’Unione Sovietica non vi è stato nessun interesse significativo, nonostante la presenza di giovani che avvertono la rilevanza del pensiero di Gramsci nella cultura internazionale. Un caso a sé rappresenta il Centro russo che gestisce gli archivi dell’Internazionale comunista con il quale la Fondazione ha mantenuto importanti rapporti istituzionali e che, in alcuni casi, ha favorito il collegamento con università e altri centri culturali russi.
Torniamo in Italia. Dal 1950 ad oggi ritiene si sia creato un network culturale gramsciano trasversale diffuso sul territorio?
In questi decenni la Fondazione ha mantenuto il collegamento con gli istituti gramsciani, autonomi e attivi in molte regioni italiane. Sono nati nel frattempo Laboratori interdipartimentali in alcune prestigiose università che promuovono ricerche in vari ambiti disciplinari. Non sarei in grado di enumerare le iniziative organizzate a livello locale dai soggetti più disparati: scuole, associazioni culturali, biblioteche e centri di studio sparsi in tutta Italia.
La Fondazione non può certo raccordare tutte queste attività. Per noi la valorizzazione del lascito di Gramsci è attività quotidiana. Garantiamo agli utenti del nostro archivio e della nostra biblioteca l’accesso alle carte di Gramsci e la possibilità di consultare la letteratura scientifica proveniente da tutte le parti del mondo. E la nostra attività non si limita a Gramsci. La Fondazione conserva importanti archivi per lo studio della storia politica, sociale e culturale dell’Italia nel Novecento. Archivi di partiti, a cominciare dalla documentazione prodotta dal Partito Comunista Italiano dal 1921 al 1991, e di persone: dirigenti politici, intellettuali e artisti italiani. Vi è poi la nostra attività di ricerca che si articola attorno a temi e problemi della storia contemporanea.
Parliamo degli scritti. Nel 1975 fu pubblicata da Einaudi la prima edizione critica dei “Quaderni”, curata da Valentino Gerratana, che comprendeva 29 “Quaderni” (senza i quattro di traduzioni), disposti in base alla data di stesura e non per raggruppamenti tematici. Negli anni Novanta una nuova pubblicazione, a cura di Gianni Francioni, avvenne, nell’ambito dell’Edizione Nazionale degli Scritti, partendo dall’edizione di Gerratana e dal lavoro filologico di Francioni stesso. A partire dal 2009 è possibile avere accesso ai manoscritti riprodotti integralmente in un’edizione anastatica in cui ogni “Quaderno” è preceduto da una premessa ai fini della contestualizzazione del contenuto.
Quali sono i nuovi progetti della Fondazione?
Stiamo lavorando a un’edizione integrale e critica di tutti gli scritti. Una sezione è dedicata agli scritti giornalistici e politici e, qualche mese fa, ha visto la luce il volume che raccoglie gli articoli pubblicati nel 1917, anno cruciale della biografia di Gramsci.
I “Quaderni” saranno pubblicati distinguendo quelli di traduzioni – già pubblicati, come lei ha ricordato – quelli miscellanei e, infine, gli “speciali”, così denominati da Gramsci perché concepiti per includere note dello stesso argomento. L’epistolario include anche le lettere indirizzate a Gramsci. Ne sono usciti due volumi. Il primo contiene la corrispondenza dal 1906 al 1922, mentre il secondo è relativo esclusivamente al soggiorno moscovita di Gramsci nel 1923. Accanto a queste tre sezioni vi è quella dei documenti inaugurata con la pubblicazione della dispensa universitaria del corso di glottologia di Matteo Bartoli curata da Gramsci nel 1912. L’Edizione è frutto di un lavoro collettivo.
Un’ultima domanda. È nota la profonda vocazione pedagogica di Gramsci che ha trovato piena espressione nelle lettere ai due figli, Delio e Giuliano, in cui racconta storie di briganti e di animali, della sua infanzia e della Sardegna, raccolte poi nel testo “L’Albero del riccio”. La sua opera ha avuto un impatto sulla letteratura per l’infanzia?
Direi che Gramsci ha avuto fortuna anche tra i giovanissimi lettori. L’“Albero del riccio” ha avuto innumerevoli edizioni con tirature molto elevate. Era un libro illustrato concepito per i ragazzi. Molte sue lettere ai figli Delio e Giuliano sono poi finite nelle antologie scolastiche. L’ultima edizione della sua traduzione delle fiabe dei Fratelli Grimm è stata realizzata sulla base dell’Edizione Nazionale che potrà offrire i testi anche per future antologie tematiche. D’altronde, l’edizione critica è destinata principalmente agli studiosi, ma, come dimostra il caso delle fiabe dei Fratelli Grimm, potrà essere la base di svariate iniziative di raccolta dei suoi scritti.
Lasciamo la Fondazione con l’auspicio che il pensiero di Antonio Gramsci, figura di primo piano della cultura italiana, possa contribuire con la sua “ricchezza e vitalità” a contrastare l’avanzata delle destre e dei movimenti nazionalisti che stanno caratterizzando questa difficile fase sociopolitica.
Finito di redigere in data 19 febbraio, alle ore 14.