». il manifesto
, 8 aprile 2017 (c.m.c.)
Avvengono secondo un copione consolidato, gli attacchi ordinati da Trump nella notte scorsa sulla base aerea siriana di Khan Sheikhou. Come da modello balcanico – vedi la strage inventata di Racak per l’intervento «umanitario» Nato in Kosovo nel 1999 – e con lo «stile» del governo israeliano del quale ancora non abbiamo smesso di contare le vittime civili per i suoi attacchi aerei su Gaza nel 2009.
I 59 missili Tomawak lanciati sulla Siria rompono l’ equilibrio di una saga immaginifica. Perché è tornata l’America, anzi questa è l’America. A smentire il povero Alan Friedman che dovrà scrivere almeno un altro libro. Perché la davano per persa, l’America. Con un Trump descritto come filo-Putin, quindi addirittura anti-Nato, naturalmente tenendo fissa la barra degli interessi strategici verso Israele e l’Arabia saudita; ma deciso nella lotta contro l’Isis.
Invece con un dietrofront repentino, a pochi giorni dalla dichiarazione rilasciata all’Onu dalla rappresentante Haley che «la fuoriuscita di Assad non è più la priorità», subito dopo la strage di Khan Sheikhou ha ripreso la rotta che già fu di Bush per l’Iraq del 2003: ha autorizzato il capo del Pentagono «cane pazzo» Mattis all’azione di guerra. Senza il parere dell’Onu e del Congresso Usa, con il veto russo alla condanna unilaterale di Assad, e di fronte alla richiesta di una indagine internazionale indipendente.
Per una strage, è bene ribadirlo, che vede i ribelli armati, opposizioni democratiche, jihadisti e qaedisti, uniti ad accusare il governo di Damasco; che invece ammette la responsabilità dei bombardamenti ma a sua volta accusa che tra gli obiettivi colpiti c’era un deposito di armi chimiche in mano ai ribelli. Dentro questo conflitto senza tregua né regole, la ferocia appartiene a tutti e nessuno – tantomeno Assad – è innocente, non ci sono in Siria angeli e demoni.
Ma è assolutamente legittimo dubitare della verità unilaterale delle opposizioni subito accettata dalle cancellerie europee e dagli Stati uniti. Che è bene ricordarlo sono stati i Paesi destabilizzatori della Siria – che non esiste più, come l’Iraq e la Libia – da subito. Fin dal 2011 nel tentativo di fare a Damasco quello che era «riuscito» già a Tripoli. Così a suffragare le accuse ad Assad per l’uso del gas sarin c’è la Turchia dell’«umanitario» Erdogan, che fa le autopsie come Paese «terzo». Quando è stato invece la retrovia dei jihadisti con cui ha intessuto traffici in armi, addestramento e petrolio come testimoniato dalla stampa turca indipendente non a caso finita in galera.
Ora il «democratico» Erdogan esulta, anche la piega degli avvenimenti lo aiutano nel suo referendum iper-presidenzialista della prossima settimana; e già rilancia la richiesta di
no-fly zone sulla Siria libero di continuare a massacrare i curdi. Esulta Israele perché le modalità di Trump seguono in Medio Oriente le orme di sangue delle sue rappresaglie sui palestinesi e i tanti raid recenti contro la Siria; né deve essere bastato a Netanyahu la dichiarazione di Mosca dell’ultimo momento che, pur rispettando Risoluzioni Onu e soluzione dei Due Stati, ha riconosciuto Gerusalemme est capitale del futuro Stato di Palestina ma anche la parte Ovest capitale d’Israele.
Plaude l’«umanitario» presidente egiziano Al Sisi. E naturalmente l’Arabia saudita, il finanziatore della jihad in tutta l’area, che massacra in Yemen gli sciiti senza che nessuno protesti. Ed esultano jihadisti, da Al Sharam a an-Nusra/Al-Qaeda (che a marzo a Damasco ha rivendicato due stragi, il 12 marzo con 74 morti e il 15 marzo con 30), fino all’Isis per questo non atteso sostegno alla loro campagna per abbattere Assad.
Trump dunque va alla guerra. Rispettando la tradizione della storia americana, come risposta alla sua debolezza interna a nemmeno tre mesi dal suo ingresso alla Casa bianca e smentendo gran parte ormai delle sue promesse di un approccio diplomatico alle crisi. Soprattutto dopo avere incassato un disastro dietro l’altro, sulla nomina del suo staff di governo, sulla promessa di cancellare l’Obamacare, sulla Corte suprema, sul presunto Russiagate ora brillantemente smentito a suon di missili. E così facendo prova a rimettere in riga ogni critica interna e aggiustando con la colla i cocci occidentali. Zittisce le critiche dei Repubblicani e dei Democratici; Hollande e Merkel firmano uniti il loro apprezzamento; Gentiloni, si accoda all’alleato americano. E infine oscura la visita in Usa di Xi Jinping con un messaggio esplicito sulla crisi nordcoreana ai confini con la Cina.
Trump riporta questa Pasqua 2017 al mondo in ansia per la terza guerra mondiale dell’estate 2013. Quando, anche allora su un raid al presunto gas nervino, Obama era pronto alla guerra e venne fermato sia dalla preghiera mondiale del papa che da quel momento cominciò a denunciare la maledetta guerra e quelli che «fanno la guerra dicendo di fare la pace»; sia da Putin che si fece garante con l’Onu dello smantellamento dell’arsenale chimico di Damasco. Ecco il punto. Trump è intervenuto «per i bambini siriani».
Ma meritano davvero una tale vendicatore? L’azione di guerra di Trump avviene infatti appena dopo l’ammissione da parte degli Stati uniti, solo venti giorni fa, di avere massacrato, «per sbaglio» e «per sconfiggere l’Isis», a Mosul più di 150 tra donne e bambini come testimoniato dall’Onu e non raccontato dai media
mainstrem; che tacciono sulle migliaia di civili uccisi in Afghanistan dai raid occidentali. Esistono dunque bambini di serie A e bambini di serie B. Forse che cluster bomb, uranio impoverito e bombe al fosforo sono meno micidiali del gas sarin? Un salto cultural-motivazionale: dalla «guerra umanitaria» siamo alla «guerra per i bambini» con fissa l’immagine tv sui loro occhi innocenti.
Ma attenzione. Vista l’irresponsabilità del gesto trumpista ora provano a dire che non è successo nulla, che i danni sono limitati. È vero il contrario. La reazione dell’Iran, che sul campo si oppone militarmente allo jihadismo, è rabbiosa: si trova esposta e nel mirino. E quella della Russia di Putin non lo è da meno. La rottura del collegamento diretto con il Pentagono e del coordinamento per i voli dei caccia militari in Siria è prodromo ad un confronto, anche involontario, diretto, non più per procura. Siamo a un passo dal precipizio. Pezzo per pezzo, nella terza guerra mondiale.
. Opere filosofiche, teologiche e matematiche di Niccolò Cusano ( Bompiani, a cura di E. Peroli). la Repubblica, 8 aprile 2017 (c.m.c.)
La grandezza di Niccolò Cusano (1401-1464) continua a essere stupefacente nonostante la si debba disseppellire di sotto una immensa montagna di letteratura accademica in tutto il mondo, che ne analizza singoli aspetti: la cosmologia che anticipa la rivoluzione copernicana, la “teologia negativa”, l’epistemologia, gli scritti matematici, il suo ruolo politico, nella storia della Chiesa, degli Imperi di Occidente e d’Oriente, nel tentativo di ricomporre gli scismi hussiti e ortodosso. Su Google-scholar, il motore che tiene il conto delle citazioni in bibliografia e dove compare come Nicholas of Cues, ma anche come Nikolaus von Kues, come Cusanus e in altri modi ancora, raggiunge circa centomila ricorrenze. Segno di una attenzione che si sta risvegliando e di cui la pubblicazione delle opere complete in italiano (a cura di Enrico Peroli con testo latino a fronte), per Bompiani, è una conferma. Impresa editoriale coraggiosa e utile.
Per noi vecchi amici del Cusano la caccia ai singoli scritti in italiano era faticosa, sparsi come sono tra vari cataloghi e a volte introvabili, tanto da dover ricorrere a traduzioni in altre lingue. Lui scriveva comunque in latino. E predicava in tedesco. Certo conosceva anche l’italiano avendo studiato legge a Padova, con grandissimo profitto, perché è anche per il suo acume di doctor decretorum che percorre una impressionante carriera fino ai vertici di un Papato diviso tra conciliaristi e lealisti. Fu legato personalmente a ben quattro pontefici. Di Pio II, Enea Silvio Piccolomini, fu amico intimo e con lui (e altri dell’élite cristiana del tempo) condivise audaci teorie sulla possibile unicità della religione nella pluralità dei riti e degli accidenti umani. Gli assegnarono la prestigiosa San Pietro in Vincoli a Roma, dove c’è tuttora la tomba che ne custodisce il corpo. Non il cuore, che è rimasto a Kues (oggi Bernkastel- Kues), su una sponda della Mosella, nel complesso della fondazione dove funzionano ancora oggi, da lui istituiti, un ospizio e una libreria con molti suoi manoscritti.
Come ha potuto conquistare un posto così grande nella storia delle idee? Per rispondere adeguatamente ci vorrebbe un intero corso di filosofia come quelli di Giovanni Santinello, scomparso nel 2003 (ha dedicato a Cusano una Introduzione per Laterza). Oppure il libro di Ernst Cassirer, che lo ha consacrato come il maggiore pensatore del Quattrocento nel suo classico Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, spiegando come questo singolare filosofo e teologo anticipasse la prospettiva trascendentale di Kant. L’insieme delle opere lascia ora cogliere bene l’unità del suo pensiero: Cusano sviluppa sempre un unico tema fondamentale a partire da un’unica intuizione che gli si presentò chiara nel 1438, durante una sosta in un’isola greca nel ritorno da Costantinopoli a Venezia: noi non possiederemo mai su questa terra la verità di tutte le cose, la nostra migliore conquista è una ignoranza ben coltivata.
Stava tornando da una missione nella capitale dell’Impero d’Oriente. L’obiettivo era duplice: ricucire lo scisma e portare l’imperatore e il patriarca a sostegno del pontefice nel concilio di Basilea, per scongiurare nuove fratture a occidente. Nella capitale cristiana sul Bosforo già minacciata dalle armate musulmane turche, Niccolò aveva trascorso mesi nel ricomporre con successo la disputa teologica sul filioque, ma ora l’intuizione fondamentale diceva di più: che ogni tentativo umano di possedere la verità ultima su Dio, su suo figlio o sullo Spirito Santo, appariva destinata a fallire, dunque vana e in certo senso ridicola, perché l’intelletto umano non può accedere a una conoscenza “precisa”, vale a dire completa, né di Dio né delle cose del mondo.
Su Dio non avremo più di una “dotta ignoranza” perché « finiti ad infinitum nulla est proportio », non c’è alcuna proporzione del finito con l’infinito. Ma il nucleo della intuizione che nasce dalla riflessione su Dio e sul mistero dell’universo si estende sull’intera conoscenza umana. Quel che l’intelletto umano può è solo una approssimazione congetturale. Noi siamo esseri « in conjecturas ambulantes ». L’autore del De docta ignorantia non lo dice da spirito rinunciatario, ma con tutta la forza della sua intelligenza scientifica, geometrica e matematica. Proprio come in Kant, l’arrestarsi prima del limite di una compiuta verità (e vale per “la cosa in sé” quel che vale per Dio) è premessa al dispiegarsi di una mentalità scientifica e di una esistenza morale. Il sapere di non sapere, la perenne fallibilità umana sono la cornice di un pensiero aperto alla smentita e alla falsificazione. Un atteggiamento che entusiasmava Karl Popper che vedeva in quella “intuizione” di Cusano la porta che si apriva sul cammino della moderna tolleranza, lungo una via su cui avremmo trovato Erasmo, Montaigne, Locke e Voltaire.
Cusano è consapevole della sua “audacia”. Il rigore con cui descrive attraverso immagini geometriche – il triangolo infinito o il celebre poligono che, per quanto si aumenti il numero di lati, non si identificherà mai con una circonferenza – lo sforzo umano di avvicinamento alla visione della verità massima è al limite dell’eresia perché è carico di conseguenze. Il messaggio cruciale delle opere teologiche, La visione di Dio, La ricerca di Dio, Il Dio
nascosto, La filiazione di Dio, è sempre lo stesso: se nessuno possiede una compiuta verità, le verità a disposizione si relativizzano e le differenze tra una dottrina religiosa perdono un po’ della loro importanza. Nessuna teologia può pretendere di prevalere legittimandosi come superiore. E ancora di più: «Né parla con maggior verità chi afferma che Dio è tutte le cose rispetto a chi, al contrario, sostiene che Dio è nulla o che Dio non è affatto».
Peccato che non compaia in questo primo volume La pace della fede. Si tratta dell’opera in cui, subito dopo la caduta e il massacro di Costantinopoli ad opera dei Turchi, Cusano descrive il sogno di un congresso celeste in cui Dio stesso legittima l’idea che vi sia una unica religione « in varietate rituum », non dunque una sola “vera” (come decretato da Agostino). Si affacciava qui in Cusano l’idea che nella loro molteplicità e varietà le religioni fossero “complementari” (eccola la parola tanto esecrata ancora nel 2000 dal cardinale Ratzinger) nel disegno divino. Un tema tornato, in forme meno radicali, con il Concilio Vaticano II (“i semi di verità” nelle altre religioni) e negli sviluppi del dialogo interreligioso. Aveva certo ragione Urs von Balthasar, il teologo conciliarista, quando scrisse che la mossa di Cusano fu così «avventurosa che ci si può soltanto sorprendere che non sia stato messo all’indice».
Nessuno si chiami fuori da questo atroce delitto. Meno che meno i governanti della nazione di cui Giulio pensava di essere cittadino, i quali hanno continuato a fare affari con i mandanti dei colpevoli e gli occultatori dei fatti. Forse per obbedire alla Trilateral Cmmission?
la Repubblica, 7 aprile 2017
«Il 25 gennaio del 2016 un giovane ricercatore italiano scompare al Cairo. Il suo corpo viene ritrovato nove giorni dopo. Comincia così il dramma di una famiglia e la lotta di un intero Paese per cercare di capire chi sono gli assassini, chi li ha coperti, chi ha depistato. Ecco la ricostruzione di come si sono svolti i fatti. E, per la prima volta, i nomi degli alti ufficiali egiziani coinvolti nel delitto»
Prologo
Il Cairo, 25 gennaio 2016. Pomeriggio.
Non era un giorno qualsiasi. Né poteva esserlo. Perché quel giorno, cinque anni prima, tutto era cominciato.
Piazza Tahrir. La Rivoluzione. La caduta dell’immarcescibile Regime di Hosni Mubarak. Il sogno di una Primavera che si era trasformata nel suo contrario e aveva spalancato le porte al colpo di Stato militare del generale Abd Al Fattah Al Sisi. A un nuovo inverno di violenza, sopraffazione, sparizioni, delazioni, per piegare ogni forma di dissenso.
Ahmed Abdallah, ingegnere informatico, professore universitario, attivista per i diritti umani e direttore della ong “Egyptian Commission for Rights and Freedoms”, non poteva immaginare che il suo destino stava per cambiare. Esattamente come quello di un ragazzo italiano che avrebbe conosciuto solo da morto. «Quel 25 decisi di non farmi trovare in casa. Erano in corso retate indiscriminate. Gli arrestati venivano trascinati direttamente di fronte a un tribunale speciale, la Corte Suprema della Sicurezza dello Stato. La mattina, la caffetteria che frequentavo quotidianamente, era stata assaltata da uomini armati a bordo di un automobile senza targa. Erano arrivati prima di me, ringraziando Dio. Avevano chiesto se qualcuno mi avesse visto o sapesse dove fossi. E se ne erano andati prima che arrivassi. Durante il giorno era stato imposto una sorta di coprifuoco. Il Regime aveva paura del popolo. Il popolo aveva paura della paranoia del Regime. Quel giorno respiravamo paura».
Alle 19, sulla riva sinistra del Nilo, nell’appartamento all’ultimo dei quattro piani della palazzina di Dokki dove abitava da quattro mesi, Giulio Regeni digitò sul suo portatile una chiave di ricerca su Youtube. “Coldplay. A Rush of blood to the head”. Aveva voglia di ascoltare quel brano che, anni prima, aveva consacrato la band nata a Londra. Giulio si è laureato in Inghilterra prima a Leeds, poi a Cambridge per il Phd con la ricerca sui sindacati nell’Egitto dei Generali.
Le 19. Aveva tempo. Il suo amico Gennaro Gervasio lo aspettava per le 20.30 in una caffetteria non lontana da piazza Tahrir. Tre fermate di metropolitana. Insieme sarebbero andati a cena da un professore che entrambi conoscevano, Kashek Hassamein.
Partì il brano dei Coldplay. Giulio non poteva sapere in cosa fosse precipitato. Né immaginare la profezia che era in quelle strofe.
See me crumble and fall on my face
Mi vedo sgretolare e cadere di faccia
See it all disappear without a trace
Vedo tutto scomparire senza lasciare una traccia
Salutò il suo coinquilino, il giovane avvocato Mohamed El Sayed. E uscì di casa poco prima delle 20.
Per l’ultima volta.
Morgue
Il Cairo, 31 gennaio 2016. Pomeriggio.
Il cellulare di Claudio Regeni vibrò. Era Maurizio Massari, ambasciatore italiano in Egitto.
I genitori di Giulio erano arrivati al Cairo il 30. E vivevano nell’appartamento che Giulio divideva con El Sayed e una tedesca, Juliane Schoki.
Paola e Claudio avevano lasciato Fiumicello in fretta e furia. Senza far parola con nessuno del perché fossero partiti per l’Egitto. Gli avevano consigliato di inventare una scusa. Ci aveva pensato Paola con gli amici: « Giulio non sta tanto bene. Una colica renale o un’appendicite. Se c’è da operarlo, meglio a casa». Aveva messo in valigia quello che riteneva potesse servire. «Dissi a Claudio: “Facciamo vedere che nostro figlio ha una famiglia. Una mamma, un papà. Che non è un ragazzo allo sbando. Quindi, portati la giacca. Io porto la collana”». Aveva pensato anche al rossetto. Ma era rimasto in borsa. «Lo dimenticai, perché normalmente non lo uso. Volevamo fare bella impressione perché all’ambasciata facessero tutto quello che era nelle loro possibilità per ritrovare Giulio».
Massari andò dritto al sodo. « Signori, con il ministro egiziano è andata male. Continua a dire che non sa niente di Giulio, quindi…». « Quindi? » , chiesero. « Quindi abbiamo deciso di dare la notizia all’Ansa. Forse in questo modo la pressione della stampa internazionale potrà smuovere un po’ le cose. Ecco, avete cinque minuti per avvisare casa prima che la notizia esca».
Paola chiamò allora Irene, la figlia più piccola, cinque anni meno di Giulio. Era rimasta a Fiumicello. «Le dissi: “Corri più veloce che puoi a casa e prendi tutto quello che ti serve. Poi, scappa, perché arriveranno i giornalisti”».
Alle 18 e 14 lampeggiò l’urgente dell’Ansa: FARNESINA, SCOMPARSO UN 28ENNE ITALIANO AL CAIRO «L’ambasciata italiana al Cairo e la Farnesina stanno seguendo “con la massima attenzione e preoccupazione” la vicenda di Giulio Regeni, studente italiano di 28 anni sparito “misteriosamente” la sera del 25 gennaio nel centro della capitale egiziana. Gentiloni — si legge in una nota della Farnesina — “ha avuto poco fa un colloquio telefonico con il suo omologo egiziano Sameh Shoukry, al quale ha richiesto con decisione il massimo impegno delle autorità del Cairo, già sensibilizzate dall’Ambasciata, per rintracciare il connazionale e per fornire ogni possibile informazione sulla sue condizioni. Ambasciata e Farnesina sono anche in stretto contatto con i genitori di Giulio”».
2 febbraio 2016. Uffici del ministero dell’Interno. Il Cairo.
Il ministro dell’Interno, Magdy Abdul Ghaffar, aveva ascoltato l’ambasciatore Massari senza muovere un muscolo. A 64 anni, quanti ne aveva, quaranta dei quali trascorsi nei servizi di sicurezza, era l’altro uomo forte del Regime. In silenziosa e ostinata opposizione ad Al Sisi. Se il Presidente poteva contare sulla struttura militare — forze armate e intelligence — Ghaffar controllava la “Stasi” del Medio Oriente, l’occhiuto, onnipresente servizio segreto interno: la National Security, così ribattezzata dopo la rivoluzione di piazza Tahrir in un maquillage che non ne aveva cambiato di una virgola le pratiche. Arresti illegali, torture, sparizioni. Al Sisi non poteva liberarsi di Ghaffar. Ghaffar non poteva fare a meno di Al Sisi. Ma le strutture di spionaggio che facevano capo ai due erano in perenne e paranoica competizione.
Ghaffar conosceva bene Massari, diplomatico cresciuto professionalmente nella Mosca del crollo sovietico e tra Washington e i Balcani, e non gli era sfuggito il modo in cui quel pomeriggio aveva deciso di rompere l’etichetta, tradendo una certa insofferenza. «Per incontrare Ghaffar c’era voluto molto tempo, almeno rispetto alla prassi — ricorda Massari — Non so dire per quanto rimasi seduto di fronte al ministro. Ma non fu una cosa breve. Al Cairo stava per arrivare il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, con una delegazione di nostri imprenditori». L’Eni aveva chiuso l’accordo per lo sfruttamento del giacimento di gas naturale di Zohr, una partita da 10 miliardi di euro. Gli imprenditori — infrastrutture, edilizia, settore creditizio — che accompagnavano la Guidi guardavano al Cairo come una straordinaria opportunità. «Resi esplicito quale imbarazzo provocava al nostro paese la coincidenza tra quella visita e la circostanza che dal 25 gennaio non sapevamo più nulla del nostro Giulio Regeni. Che da otto giorni le autorità egiziane non ci avevano fornito una sola informazione. Non avevo interprete quel giorno. Parlavo in inglese. E ricordo che continuai a ripetere a Ghaffar: “ We want Giulio back, we want Giulio back”. Rivogliamo Giulio” ».
Ghaffar aveva annuito.
Giulio era già stato ucciso.
3 febbraio 2016, casa di Giulio Regeni, Dokki. Il Cairo
Fuori era buio. Il cellulare di Claudio Regeni vibrò. Era Maurizio Massari.
«Buonasera. Sono con il ministro Guidi. Stiamo venendo da voi». Strano. Avrebbero dovuto vedersi il giorno successivo. Racconta Paolo: «Io e mio marito ci guardammo: “ Perché un ministro viene fin qui se avevamo appuntamento per domani?” » . « Due sono le cose: o vogliono farci una bella sorpresa e portarci Giulio, oppure le notizie sono cattive…», rispose Claudio. «Andavo su e giù dalla finestra… Ero molto nervosa. Mi misi persino a spolverare nervosamente il soggiorno, per ingannare l’attesa… Al Cairo entra molta polvere in casa».
Di nuovo il cellulare. Di nuovo Massari. «Disse che erano in ritardo di dieci minuti. Ma, stavolta, aggiunse che non portavano buone notizie. Al che, guardai Claudio e capimmo. Dissi: è già finito tutto. La felicità della nostra famiglia è durata così poco. Pensai che non sarei mai diventata nonna dei figli di Giulio. Perché a Giulio piaceva l’idea di avere dei figli». Suonò il citofono. Massari entrò nell’appartamento insieme con il ministro Guidi. Abbracciarono Paola. Abbracciarono Claudio.
«Avete cinque minuti di tempo per avvisare casa».
3 febbraio 2016, uffici della direzione del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, Cinecittà. Roma.
Il primo dirigente Vincenzo Nicolì sollevò il telefono al secondo squillo. Aveva fatto notte a discutere di droga. Sul display riconobbe il prefisso del Cairo. Doveva essere quel collega che in ambasciata seguiva le rotte e il traffico di migranti. «Ciao, dimmi». I migranti non c’entravano. « Fu una di quelle telefonate che un poliziotto non dimentica mai. L’ispettore mi informò che era stato trovato il corpo di quel ragazzo scomparso otto giorni prima». La chiamata si sovrappose al cicalio della linea interna con l’ufficio del direttore del servizio, il Questore Renato Cortese. «Vincenzo, vedi che domani mattina devi andare in Procura. Ti aspetta il pm Sergio Colaiocco, il fascicolo sul ragazzo del Cairo è suo. Vuole fare un gruppo di lavoro misto, con i Carabinieri. C’è da capire rapidamente cosa è successo » . Avrebbero lavorato con la sezione antieversione del Ros dei Carabinieri. La comandava un colonnello di cui, a ragion veduta, si diceva un gran bene, Massimiliano Macilenti.
Notte 3- 4 febbraio 2016, Garden City, Cairo.
Ora o mai più. Se c’era una finestra utile per capire cosa fosse accaduto a Giulio, era quella notte. Maurizio Massari era rientrato in ambasciata da casa Regeni intorno alla mezzanotte, soltanto per riuscirne poco dopo. Un’affidabile fonte egiziana — la stessa che lo aveva avvertito qualche ora prima del ritrovamento del corpo di Giulio e che, peraltro, lo aveva conosciuto bene da vivo — gli aveva anche fornito indicazioni sulla morgue in cui era stato trasferito. Voleva vederlo, prima che quel corpo potesse essere manomesso.
Troppe cose non tornavano. E poi, come facevano gli egiziani a essere certi che quel ragazzo occidentale ritrovato per caso da un tassista con l’auto in panne, semi nascosto da un muro di sabbia, lungo la superstrada Il Cairo- Alessandria fosse proprio Giulio Regeni? Attraversò la città deserta. E all’ingresso dell’obitorio convinse i piantoni a consentirgli l’accesso alle celle frigorifere. Ne aprirono una prima. Sbagliata. Quindi, una seconda. « Non avevo mai visto nulla di simile. I segni di tortura erano evidenti. Sul volto, le braccia, le spalle, le gambe e, soprattutto, sul dorso. Non poteva essere opera di altri che non professionisti della tortura». E chi in quel Paese era professionista della tortura?
Paola non poteva prendere sonno. «Con il telefonino andai sul sito di Repubblica. E lessi che Giulio, secondo le prime indiscrezioni raccolte in Egitto, era stato torturato. Sollevai lo sguardo dal telefono e avrei voluto scaraventarlo contro il cassettone che avevo di fronte. Avrei voluto urlare. E in effetti ho urlato. Piano». Ricevette un primo messaggio di condoglianze da un’amica. Usava belle parole. Le rispose di getto: «Grazie, ma Giulio non è soltanto morto. È stato torturato». Poi, scorse la rubrica, e trovò il numero di Maha Abdelrahman. Era la tutor egiziana di Giulio a Cambridge. La docente che aveva concepito la sua ricerca e deciso il suo semestre al Cairo. «Nel mio inglese pasticciato le scrissi: “Ma non lo sapevi che era pericoloso mandarlo in Egitto?”».
*** 4 febbraio 2016, Sala mortuaria dell’ospedale italiano. Il Cairo.
Riconoscimento. La legge lo chiama così. Non si può riconsegnare un corpo ai suoi cari se non ne confermano l’identità. Ma l’ambasciatore non voleva. Non lì almeno, aveva insistito: « Paola, Claudio, ho provveduto io. È meglio se ricordate vostro figlio com’era». Claudio fece per annuire. Paola si impuntò. A metà mattina erano nella sala mortuaria dell’ospedale italiano del Cairo dove il corpo di Giulio era stato trasferito. «Ci trovammo di fronte un sacco. Un sacco bianco. Come quello dei vestiti dell’Ikea. Era chiuso. Chiesi di vedere almeno i piedi, perché quelli di Giulio erano come i miei, quelli di mio padre e del nonno. Abbiamo tutti le stesse dita » . Massari scosse la testa: «Paola, meglio di no. Davvero». Fuori dalla sala c’erano anche due suore. Una delle due le si avvicinò: «Signora, lo sa che ha un figlio martire?». La gomitata dell’altra la interruppe. «Forse pensava non sapessi». Ora toccava ai medici egiziani. Avrebbero effettuato l’autopsia del corpo di Giulio. Poi sarebbero potuti tornare a casa.
6 febbraio 2016, volo Egyptair Il Cairo-Roma.
Quando si viaggia a 13mila piedi di altezza non si pensa mai a quello che si è caricato in stiva. Il bagaglio si affida al check-in e lo si recupera al nastro. Giulio era in stiva. Una bara di legno chiaro, con i sigilli in cera lacca rossi. «Ci avevano assegnato due poltrone in economy. Finché non si avvicinò un’hostess, facendoci segno di spostarci in testa all’aereo, in business. Ci avevano riconosciuto. Tutto l’equipaggio egiziano venne a salutarci » . Claudio ne rimase impressionato: «Piangevano tutti. Si scusarono. Fu un momento, come dire… forte. E loro furono… splendidi » . E poi erano con Giulio. Paola lo sentiva: «Avevamo la percezione fisica che sotto di noi c’era la bara di nostro figlio». «Atterrati a Roma, attendemmo sotto l’aereo che... insomma... scaricassero Giulio. Sì, scaricassero. La parola giusta è questa».
Una prima verità
6 febbraio 2016, pomeriggio, Policlinico universitario Umberto I, Padiglione di radiologia. Roma.
Il pubblico ministero Sergio Colaiocco aveva incaricato della consulenza medico legale sul corpo di Giulio Regeni, il professor Vittorio Fineschi, direttore dell’istituto di medicina legale di Roma. Aveva accolto lui la bara arrivata da Fiumicino. «Con il pm pensammo di far riconoscere il corpo in una sala diversa da quelle usate normalmente. Lontana dall’obitorio. Scegliemmo un padiglione di radiologia. Un luogo più raccolto».
«I medici mi chiesero: “ Signora, avete già visto Giulio?”. Io gli risposi: “ Devo dirvi la verità, no. E vi avrei chiesto di farlo perché altrimenti mi sentirei una vigliacca per il resto della mia vita”». Il corpo, avvolto in un lenzuolo, con il capo fasciato di garze che lasciavano intravedere soltanto l’ovale del viso, era adagiato su una lettiga al centro del padiglione. «Entrati nella stanza riconobbi il naso di Giulio. Fino a quel momento avevo sperato non fosse lui. Che si fossero sbagliati. E invece era lui. Lo riconobbi dalla punta del naso e non avrei mai pensato di riconoscere una persona cara da quel particolare. Mi tornò in mente una domanda che da allora non mi ha mai abbandonato: come avevano fatto le autorità egiziane a essere certe al momento del ritrovamento che fosse mio figlio? Non aveva indosso i documenti. Era semi nudo, trasfigurato, non somigliava neppure lontanamente al ragazzo della fotografia che avevamo consegnato per le ricerche. A una mamma, a un papà bastano pochi particolari. Ma come avevano fatto degli estranei a riconoscerlo?».
6 febbraio 2016, notte. Sala settoria, Policlinico universitario Umberto I. Roma.
Il professor Fineschi, la sua équipe, i medici incaricati dalla famiglia, lavorarono sul corpo di Giulio per oltre otto ore. Apparve una lavagna dell’orrore. Gli avevano spezzato un polso, le scapole, l’omero destro, le dita di entrambe le mani e piedi, i peroni erano come esplosi, la bocca era offesa dalle lesioni provocate dalla rottura di numerosi denti. La cute era segnata da tagli e bruciature. E chi si era accanito su quel ragazzo lo aveva segnato come si fa con le bestie, come nell’orrore nazista, incidendo lettere dell’alfabeto sul dorso, all’altezza dell’occhio destro, a lato del sopracciglio. Sulla mano sinistra e sulla fronte.
Giulio era stato finito da un’ultima violenza. Una torsione improvvisa e letale delle vertebre cervicali. Il che suggeriva più che un’ultima tortura, un’esecuzione. Era un ulteriore dato che scioglieva ogni dubbio. E che avrebbe potuto far concludere al professor Fineschi: «Le lesioni sul corpo di Giulio erano state inflitte in tempi significativamente diversi, nell’arco di giorni » . Giulio, dunque, era stato torturato con metodo. Alternando violenza a sospensione. « Era ipotizzabile che lo avessero colpito con calci, pugni, bastoni, mazze. Scaraventandolo ripetutamente contro muri o pavimenti. Il corpo di quel ragazzo ci aveva raccontato tutto quello che poteva testimoniare».
La ricerca della verità cominciava da qui. È vero, quell’autopsia non indicava il nome degli assassini, ma ne definiva il profilo (professionisti della tortura). Lo sapevano il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il sostituto Sergio Colaiocco. Ne erano consapevoli il colonnello Massimiliano Macilenti e il primo dirigente Vincenzo Nicolì. «Le lesioni sul corpo di Giulio escludevano una serie di ipotesi investigative. La morte di quel ragazzo non era riconducibile a una vicenda di carattere personale. Non era opera di una persona sola. E che Giulio fosse stato poi torturato in tempi diversi offriva un’ulteriore, cruciale, indicazione. Chi lo aveva sequestrato aveva avuto a sua disposizione un luogo in cui agire indisturbato per giorni, con la tranquillità di non essere trovato. Insomma, avevamo la certezza di trovarci di fronte a una struttura organizzata. Sicuramente di tipo statale o parastatale. L’indagine si complicava».
La Macchinazione
Notte tra il 5 e il 6 febbraio 2016, Aeroporto Mar al-Qhirah al-Duwaliyy. Cairo.
Il piccolo corteo di auto che aveva lasciato l’aeroporto procedeva a fatica verso la palazzina liberty di Garden City, sede dell’ambasciata italiana. L’ispettore dello Sco Alessandro Gallo, uno dei sette, tra poliziotti e carabinieri, della squadra investigativa arrivata da Roma, osservava il traffico impazzito della città. Era la prima volta che metteva piede in Egitto. «Non esistevano accordi di cooperazione, e gli apparati egiziani avrebbero dovuto aiutarci a scoprire gli autori di un omicidio per il quale i principali indiziati erano proprio appartenenti a quegli apparati». La strada era tutta in salita. E i sette ne ebbero la conferma entrando in ambasciata.
Erano stati istruiti a non usare telefoni cellulari nelle comunicazioni con Roma. A non agganciarsi ad alcuna sorgente wi-fi pubblica o in luoghi aperti al pubblico. Ma ora scoprivano che avrebbero dovuto, anche, imparare a riconoscere i luoghi e gli spazi in cui parlare tra di loro. Anche l’ambasciata, infatti, non era terreno franco. Il lato est del villino confinava con condomini ad alveare, dagli appartamenti per lo più abitati. Con un’eccezione. Due case dalle finestre cielo-terra, le cui luci non si accendevano mai. E curiosamente coincidenti, in altezza, con gli uffici dell’ambasciata. In linea d’area, poco meno di un centinaio di metri. Una distanza irrisoria per dei microfoni direzionali. Persino Massari evitava di avere incontri nei saloni che davano su quel lato dell’ambasciata. E aveva l’abitudine di liberarsi del cellulare una volta rientrato nei suoi uffici.
8 febbraio 2016, Ministero della Sicurezza Nazionale. Il Cairo
Il ministro dell’Interno, Maghdi Abdel Ghaffar, sedeva da solo al centro di un grande tavolo alla cui estremità si era sistemato un interprete. Di fronte a lui una folla di giornalisti, per lo più italiani, si chiedeva se il Regime avrebbe messo un punto fermo in quella storia. E quale. Non era un dettaglio. Quando si decide di parlare, inevitabilmente, ci si impegna a una versione dei fatti. E le autorità egiziane lo avevano, sin lì, evitato. Fatto salvo ciò che aveva raccontato, nell’immediatezza del ritrovamento del corpo di Giulio, Khaled Shalaby, capo della Polizia criminale e del Dipartimento investigativo di Giza. Un tipo con precedenti per tortura e un forte peso specifico negli apparati. «Un incidente stradale», aveva detto, liquidando le prime domande sulle circostanze della morte.
Ebbene, quella mattina, il ministro Ghaffar decise di usare un format che avrebbe riproposto per mesi. Evitare di spiegare ciò che era successo, preferendo sostenere ciò che non lo era. «Non conoscevamo Giulio Regeni. Non esistevano indagini a suo carico. Non era mai stato arrestato dalla Polizia né fermato. Non riteniamo si trattasse di un agente segreto, e respingiamo ogni “rumor” o accusa che indichino che sia stato torturato da appartenenti agli apparati della sicurezza del nostro paese. Fino a quando non saranno completati gli accertamenti medico-legali e non avremo sentito tutte le persone che questo ragazzo frequentava al Cairo, quel che viene detto è solo speculazione. La verità è che in Egitto non si tortura e che della morte di Regeni sono incerte sia le circostanze sia il movente. Posso rassicurare che la delegazione italiana che si trova al Cairo per partecipare all’inchiesta viene informata minuto per minuto su tutti i dettagli delle indagini».
I rumors. La stampa filo regime egiziana ne traboccava. Perché strumentali ad accreditare una contro narrazione che consegnasse Giulio a una storia che non era la sua. Un drogato, un omosessuale, uno spacciatore, una spia per conto della Gran Bretagna, quanto meno uno sprovveduto che si era messo nei guai da solo. Peraltro, quella vicenda delle indagini congiunte aveva subito assunto un tratto farsesco. I sette della squadra arrivata da Roma lo capirono alla prima stretta di mano con quelli che sarebbero stati i loro interlocutori per i successivi tre mesi. L’ufficiale della National Security, il servizio segreto interno competente per i reati politici e il terrorismo, che li aveva accolti si era presentato come «colonnello Osan Helmy». Quel poco che aveva aggiunto chiudeva l’indagine prima ancora che si aprisse. «Per noi Giulio Regeni è uno sconosciuto. Nessuno dei nostri uffici si è mai occupato di lui. Bisogna cercare altrove», aveva detto.
24 marzo, Aeroporto Mar al-Qhirah al- Duwaliyy. Cairo.
Alessandro Gallo consegnò la sua carta di imbarco al gate e mostrò il passaporto, mentre gli altri sei colleghi che erano con lui avevano già preso posto nel pullman che li portava all’aereo.
Tornavano a casa. Almeno per Pasqua. Un permesso di qualche giorno. Tanto, non c’era fretta. Se n’erano andati poco meno di due mesi e le tessere del complicato mosaico che erano riusciti a mettere insieme erano costate uno sforzo estenuante. Gli egiziani continuavano a non fornire dati investigativi cruciali. Tabulati telefonici, immagini delle telecamere di sorveglianza delle stazioni della metropolitana dove Giulio era scomparso, testimonianze che non rispondessero a un liso copione di «non so», «non ricordo», «non notai nulla di anormale».
A voler essere brutali avevano solo “prove negative”. Sapevano cioè soltanto ciò che Giulio non era. E ciò che a Giulio non era successo. Sapevano che Giulio Regeni non era stato sequestrato né in casa né nel tragitto che, tra le 19.30 e le 20, del 25 gennaio, aveva percorso a piedi per raggiungere la stazione della metropolitana di El Behoos. Sapevano che alle 19.38 aveva parlato al telefono con il professor Gennaro Gervasio, confermandogli il loro appuntamento, di lì a poco, in una caffetteria non lontana da piazza Tahrir per raggiungere insieme la cena di compleanno del professor Kashek Hassamein.
Sapevano che alle 19.41 aveva avvertito la fidanzata ucraina che quella sera, non avrebbero potuto fare la consueta video chiamata su Skype.
Sapevano che alle 19.58 il suo telefono aveva squillato a vuoto, che alle 20.02 aveva agganciato la rete dati della metropolitana, prima di spegnersi per sempre.
Sapevano che non era morto in un incidente stradale, né per vendetta personale.
Sapevano che non aveva nulla a che fare con gli stupefacenti, di cui peraltro non faceva alcun consumo come avevano documentato gli esami tossicologici svolti durante la sua autopsia.
Sapevano che non era una spia, e che non aveva mai avuto contatti con agenzie di intelligence di qualsiasi Paese, alleato o terzo.
Sapevano che sulle uniche due figure di interesse investigativo di quei primi 60 giorni di inchiesta gli egiziani avevano giocato opaco. Per dirne una: chi diavolo era davvero Mohammed Abdallah, il leader del sindacato degli ambulanti con cui Giulio, almeno a partire dall’ottobre 2015, aveva avuto rapporti di una certa assiduità e che era tra le ultime persone contattate a ridosso della scomparsa? La testimonianza che il tipo aveva reso alla polizia egiziana era stata fin troppo sbrigativa e generica. Come avesse fretta di farsi dimenticare.
E ancora: che parte aveva avuto Mohamed El Sayed, il coinquilino della casa di Dokki? Lavorando sotto traccia, avevano accertato che durante le vacanze di Natale 2015, durante l’assenza dal Cairo di Giulio, rientrato in Italia, El Sayed aveva ricevuto nell’appartamento la visita di un ufficiale della National Security, intenzionato a ficcare il naso nella stanza e nelle cose di Giulio. Curioso, per apparati che continuavano a smentire di essere mai inciampati nel nome del ricercatore italiano prima della sua scomparsa. E che peraltro continuavano a rimbalzare la richiesta dei tabulati telefonici di quei due tipi, l’avvocato e l’ambulante. Perché non consegnarli se erano “innocui”?
Del resto, l’indagine italiana al Cairo aveva autonomamente acquisito una testimonianza che confermava come la traccia dell’ambulante promettesse bene. Quella di Hoda Kamel, direttrice del “Egyptian Center for Economic and social rights”. Giulio le era stato raccomandato per la ricerca che stava facendo da Fatma Ramadan, docente dell’università americana al Cairo, alla quale era arrivato su segnalazione di Maah Abdelrahman, la sua tutor a Cambridge. Era stata Hoda poi a metterlo in contatto con Mohammed Abdallah. All’inizio il rapporto con l’ambulante aveva funzionato. Poi, si era complicato. Colpa di un finanziamento da 10 mila sterline, messo a disposizione dalla fondazione Antipode e destinato ai paesi in via di sviluppo, per un progetto di ricerca della cui esistenza Giulio aveva parlato ad Abdallah. Cosa che lo aveva prima ingolosito e poi gonfiato di risentimento. Quando era apparso chiaro che quel denaro non sarebbe mai potuto arrivare né a lui né al sindacato. «Penso che quella vicenda possa in qualche modo aver giocato nel definire i presupposti di quello che è accaduto — aveva raccontato la Kamel — Quelle incomprensioni potrebbero essere state alla base sia di una vendetta di Abdallah nei confronti di Giulio, ovvero l’occasione che le autorità hanno avuto per arrestarlo » . Non fosse altro perché anche la Kamel sapeva quello che al Cairo era il segreto di Pulcinella. Gli ambulanti lavorano regolarmente come informatori della Polizia e dei Servizi. Sono l’occhio e l’orecchio del Regime.
L’ispettore Alessandro Gallo aveva ormai raggiunto la scaletta dell’aereo per l’Italia e il cellulare si era messo a vibrare. Era Nicolì. «Ale, stammi a sentire, lo so che tu e i ragazzi state salendo su quel benedetto aereo, ma ora mi fate la cortesia di tornare indietro ». «Cosa?». «Gli egiziani sostengono di aver trovato gli assassini di Regeni». «Vivi o morti?».«Parlano di un conflitto a fuoco». «Immaginavo».
Una cruenta messa in scena
24 marzo, Roma, uffici dello Sco. Notte
Il primo dirigente Vincenzo Nicolì guardò negli occhi Renato Cortese, il capo dello Sco. Era arrivato dal Cairo il dettaglio di quella che gli egiziani consideravano la conclusione del caso. Cinque predoni a bordo di un pulmino bianco affiancati a un semaforo durante un controllo di routine. Un accenno di reazione. Un conflitto a fuoco. La morte di tutti i sospetti. Quindi, la perquisizione nella casa di quello che si voleva fosse il capo della banda, Tarek Saad Abde El Fattah Ismail. E qui, la sorpresa: da una borsa rossa da calcio, con lo scudetto tricolore della nazionale italiana, erano saltati fuori il passaporto di Giulio Regeni, il suo badge dell’università dell’American University of Cairo, il suo bancomat, il portafoglio, degli occhiali da sole e una pallina di una sostanza marroncina. Hashish, presumibilmente.
Cortese non diede il tempo a Nicolì di parlare. «So quello che mi vuoi dire. Lo penso anche io. Nessun bandito al mondo si sognerebbe di tenere nella sua abitazione la pistola fumante, il collegamento tra lui e un caso di omicidio di cui si sta occupando tutto il mondo. Hai ragione, Vincenzo. Questa storia sta in piedi come un sacco vuoto ».
8 aprile, Procura della Repubblica di Roma, palazzina B, ufficio del sostituto procuratore Sergio Colaiocco
Nella stanza del dottor Colaiocco erano arrivati il colonnello Macilenti del Ros e Nicolì per lo Sco. Le cose si mettevano male. I due giorni di vertice con i magistrati della Procura generale del Cairo, che aveva avocato le indagini, e gli investigatori egiziani si erano risolti in un catastrofico fallimento. Il Governo aveva richiamato per consultazioni l’ambasciatore, Maurizio Massari, congelando di fatto i rapporti diplomatici tra Roma e il Cairo. Davanti a loro c’era il nulla.
«Dipende», disse Colaiocco. «Dipende da dove la vogliamo guardare». Se la si guardava partendo da ciò che mancava e che gli egiziani avevano deciso di non consegnare — tabulati telefonici, sviluppo delle celle interessate la sera del 25 dal tragitto che ragionevolmente Giulio aveva percorso prima di scomparire, i filmati dei circuiti di sorveglianza della metropolitana — non si andava da nes-suna parte. Se invece la si guardava partendo dall’unica cosa che gli egiziani avevano messo al centro del tavolo — la banda dei cinque — era possibile far rientrare dalla finestra ciò che gli apparati del Regime avevano fatto uscire dalla porta. E questo perché se — come tutto lasciava supporre — la storia della banda era una messa in scena, scoprire chi l’aveva architettata significava avvicinarsi agli assassini di Regeni, che da quel depistaggio dovevano essere coperti.
24 aprile, Il Cairo, casa di Ahmed Abdallah
Erano le tre di notte e lo svegliarono prima il rumore del calcio dei mitra battuti sulla porta di ingresso e quindi le urla di una decina di poliziotti in passamontagna che lo buttarono giù dal letto. Il professor Ahmed Abdallah di alcuni riconobbe le uniformi delle forze speciali. Di altri, in borghese, i modi tipici degli agenti della National security, il servizio segreto interno. Da due mesi la sua Ong aveva accettato la consulenza legale per la famiglia Regeni. Ora, lui, ne pagava il conto.
«Chiesi se avessero un mandato di perquisizione. Non mi risposero neppure. Mi sequestrarono il cellulare, perquisirono tutta la casa, infilarono in una borsa alcuni cd che documentavano la mia attività di ambientalista. Quindi mi trascinarono in una stazione di polizia. Qui mi mostrarono alcuni documenti, chiaramente contraffatti, che incitavano a manifestazioni di piazza contro la vendita ai sauditi delle isole di Tiran e Sanafir. Dissi: “Se volete arrestarmi per un reato specifico, contestatemelo. Ma non parlatemi di questi documenti perché non mi appartengono”» .
Gli comunicarono che era accusato di terrorismo, insurrezione e attentato alla sicurezza dello Stato. Rischiava la pena di morte. «Mi misero prima in una piccola cella con altri 12 detenuti, dove ero obbligato a stare in piedi 12 ore al giorno, con la possibilità di dormire al massimo 4 ore. Continuavo a svenire e non riuscivo a tenermi in equilibrio. Poi fui trasferito in una cella di isolamento, buia e con un buco in terra che serviva da gabinetto». L’ufficiale che quella notte aveva firmato le accuse che giustificavano il suo arresto aveva un nome che in quel momento non gli diceva nulla. Ma che molto avrebbe detto in seguito. Il colonnello Sharif Magdi Ibrqaim Abdalaal.
La mano del colonnello Mahmud
8 giugno, uffici dello Sco
Allo Sco e al Ros ne erano venuti a capo. Aveva ragione il dottor Colaiocco. La storia della banda era una messa in scena che portava dove gli egiziani mai avrebbero voluto. Gli esami balistici sul pulmino e quelli autoptici sui cadaveri dei suoi cinque passeggeri disposti dalla magistratura egiziana documentavano tre circostanze incontrovertibili. La prima: le cinque vittime erano state uccise con colpi esplosi a bruciapelo dietro la nuca. Incompatibili, dunque, con una qualunque dinamica di conflitto a fuoco. La seconda: tutti i colpi esplosi dalla Polizia avevano raggiunto il pulmino frontalmente. Il che era incompatibile con la dinamica che vedeva una pattuglia aver fatto fuoco durante un affiancamento. La terza: nell’abitacolo del pulmino non c’erano tracce di sangue. Dunque, i cadaveri vi erano stati trascinati.
Di più: Tarek Saad Abde El Fattah Ismail, il capo della banda, il 25 gennaio non era nella zona del Cairo in cui Giulio era scomparso. Il suo telefono cellulare aveva agganciato — alle 16.00, alle 17.33 e alle 20.32 — una cella dell’area di Awlad Saqr, regione a nord della capitale egiziana.
Restava una domanda: come ci erano finiti i documenti di Giulio nella casa del bandito? Chi ce li aveva portati? Rispondere avrebbe fatto fare alla ricerca degli autori dell’omicidio di Giulio un significativo passo avanti.
Era arrivato in soccorso un testimone che aveva riferito una circostanza che neppure lui poteva immaginare così cruciale. Il giorno della perquisizione dell’abitazione di Tarek Saad Abdel Fattah Ismail, un parente del bandito aveva distintamente visto un ufficiale del Dipartimento investigazioni criminali estrarre dalla propria tasca i documenti del ragazzo italiano che sarebbero poi stati ritrovati nella borsa da calcio rossa. Quell’ufficiale aveva un nome. Il colonnello Mahmud Hendy.
Lo svelamento
9 settembre, Istituto superiore di pubblica sicurezza, via Guido Reni, Roma
Erano tornati in visita a Roma, i magistrati egiziani. Gli apparati della sicurezza del Regime erano in un angolo. Lo svelamento della macchinazione della banda dei cinque li costringeva a muovere. La Procura di Roma sapeva che la National security era dietro la messa in scena del 24 marzo. E, avendo sviluppato autonomamente i pochi tabulati ricevuti dal Cairo, era anche in grado di dimostrare che il coinquilino di Giulio, l’avvocato Mohamed El Sayed, era stato in contatto con almeno due funzionari della stessa National Security, nelle settimane che avevano preceduto la sua scomparsa.
Ce n’era abbastanza per costringerli a non arrivare a mani vuote. E infatti la procura generale del Cairo lasciò cadere sul tavolo dei colleghi italiani un lungo verbale di interrogatorio datato 10 maggio. La chiave per venire a capo del rebus. Documentava il pieno coinvolgimento degli apparati di sicurezza egiziani e la menzogna del ministro dell’Interno, Abdel Ghaffar, che li aveva coperti. Dimostrava l’ultimo disperato tentativo del Cairo di sequestrare la verità. Da maggio a settembre quel verbale era rimasto in un cassetto della procura generale egiziana. Ora ne saltava fuori. Probabilmente perché il Regime non aveva più scelta. Qualche pedina andava sacrificata.
Nel verbale era raccolta la confessione di Mohammed Abdallah, l’ambulante di cui Giulio si era fidato e che lui aveva tradito. Un ex giornalista di gossip. Soprattutto, un informatore della Polizia. « Mi chiamo Mohammed Abdullah Saeed, ho 44 anni. Sono un rappresentante dei venditori ambulanti. Nel dicembre del 2015 mi ha chiamato la dottoressa Hoda Kamel per dirmi che c’era un ricercatore che doveva eseguire un dottorato sui venditori ambulanti e mi ha chiesto di incontrarci per vedere in che modo potevamo aiutarci a vicenda: era Giulio Regeni… » . Abdallah riferiva di aver incontrato Giulio almeno sette volte, tra il tardo autunno 2015 e il gennaio 2016. Per portarlo ai mercati Ramses. Per fargli toccare con mano l’oggetto della sua ricerca. Per tirarlo in trappola.
Non aveva importanza se fosse vero o meno che la decisione di tradirlo fosse stata una vendetta per il denaro della ricerca che Giulio gli aveva paventato e che aveva capito non avrebbe mai ottenuto. O, più semplicemente, perché consegnare un’asserita spia alla vigilia del 25 gennaio gli avrebbe fatto guadagnare qualche tipo di ricompensa dal Regime. Ciò che aveva importanza è quanto Abdallah raccontava fosse accaduto tra dicembre 2015 e il 6 gennaio 2016. Aveva prima denunciato Giulio come spia alla Polizia municipale, che aveva quindi trasmesso la pratica alla National security. « Il 4 gennaio venni chiamato dal mio contatto negli uffici della sede centrale del Servizio. Mi chiese di avvertirlo quando avessi rincontrato il ragazzo italiano. Lo feci il 5 gennaio. Mi diedero una telecamera e un microfono con cui registrare clandestinamente il nostro incontro » . Abdallah, del suo contatto al Servizio, ricordava il nome. Il colonnello Sharif Magdi Ibrqaim Abdlaal.
“Il ragazzo è partito”
6 gennaio, Il Cairo, mercati Ramses
Il 6 gennaio, ai mercati Ramses, Giulio Regeni si offrì inconsapevole all’occhio elettronico e al microfono nascosti che lo condannavano di fronte alla paranoia della National Security. Intorno alle 22.30 di quella notte, dopo averlo salutato, Mohammed Abdallah chiamò il colonnello Sharif, il suo referente al Servizio: «Pronto Signore… Con il suo permesso vorrei essere contattato urgentemente da qualcuno per questa cosa che ho… Ho paura di spegnerla, di cancellare qualcosa… Vorrei sapere come spegnerla. Vorrei che qualcuno mi chiamasse per questa cosa qui. La spengo o la lascio accesa? Il ragazzo è appena partito».
Il 6 gennaio 2016 Giulio Regeni aveva cominciato a morire. E il Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il sostituto Sergio Colaiocco avevano ora in mano il bandolo della matassa.
Epilogo
13 marzo 2017, Roma, Piazzale Clodio, Uffici della Procura della Repubblica
Sergio Colaiocco rilesse un’ultima volta il testo della rogatoria che si preparava a notificare alla procura generale del Cairo. Gli uomini del team investigativo si erano avvicendati. E allo Sco era arrivato dalla mobile di Bari un altro sbirro di lungo corso, Luigi Rinella. Il risultato del lavoro non cambiava. Anzi, rafforzava il quadro di sistematico depistaggio della ricerca della verità da parte di appartenenti degli apparati di sicurezza del Regime. Gli ultimi accertamenti tecnici dell’inchiesta italiana documentavano, infatti, attraverso lo sviluppo dei tabulati di almeno una decina tra ufficiali e sottoufficiali del Servizio segreto, che la mano della National security era intervenuta in tutti i capitoli di quella storia.
La National Security aveva arruolato Mohammed Abdallah per incastrare Giulio Regeni. E cinque erano stati i referenti dell’ambulante nel quartier generale del Servizio, a Nasr City. Per giunta, uno di loro era il colonnello Osam Helmy, lo stesso ufficiale che un anno prima aveva accolto la squadra investigativa italiana arrivata al Cairo negando che l’intelligence egiziana avesse mai avuto a che fare con il ricercatore italiano.
La National Security era entrata nella casa di Giulio agganciando il coinquilino di cui lui si fidava. E non era avventuroso immaginare che se qualcuno la sera del 25 aveva avvisato il Servizio del momento in cui era uscito di casa, quello non potesse che essere il giovane avvocato Mohammed El Sayed. La National Security aveva partecipato alla messa in scena del 24 marzo. I due gruppi di ufficiali del Servizio, responsabili del depistaggio e dei rapporti con l’ambulante Abdallah, erano stati costantemente in contatto tra loro, come ora documentavano i tabulati telefonici consegnati dalla procura generale del Cairo e sviluppati dall’inchiesta italiana.
Le indagini difensive dell’avvocato Alessandra Ballerini avevano svelato tre ulteriori dettagli. A loro modo cruciali. Il primo: il colonnello della National Security Sharif Magdi Ibrqaim Abdlaal, che aveva coordinato l’operazione di spionaggio su Giulio, era lo stesso che aveva falsamente accusato e arrestato Ahmed Abdallah, il consulente della famiglia Regeni. Il secondo: lo stesso Sharif aveva agganciato nelle settimane precedenti la scomparsa amici egiziani di Giulio di cui Giulio si era fidato.
Il terzo: era stato il colonnello Mahmud Hendy l’ufficiale che aveva collocato i documenti di Giulio nella casa del capo della banda dei cinque eliminati il 24 marzo.
Si poteva dunque tirare finalmente una riga.
« Questo ufficio, alla luce delle risultanze sin qui acquisite, ritiene che Giulio Regeni, denunciato da Mohammed Abdallah prima del dicembre 2015, sia stato oggetto di accertamenti, per un non breve periodo, ad opera di ufficiali degli apparati di sicurezza egiziani. Questi ultimi, nel ricostruire le indagini effettuate, hanno riferito, tra molte reticenze, fatti non conformi al vero. Orbene, il perimetro investigativo che conduce ad apparati pubblici, rafforzato dagli accertati rapporti tra coloro che hanno rinvenuto i documenti di Regeni e coloro che lo avevano attenzionato nel gennaio precedente, appare non in contrasto con la circostanza che i soggetti responsabili dei fatti dovevano disporre di un luogo di detenzione dove Giulio Regeni è rimasto sequestrato almeno una settimana e che detto luogo doveva avere una doppia caratteristica: essere idoneo alle torture che sono state riscontrate e che tali torture fossero inflitte senza che terzi estranei ne venissero a conoscenza» .
C’erano voluti 14 mesi per poter mettere nero su bianco in un documento ufficiale le prove che inchiodavano alle loro responsabilità gli apparati del Regime. E che interpellavano i suoi due uomini forti: il ministero dell’Interno, Ghaffar, il Presidente Al Sisi.
Il muro di sabbia cominciava a sbriciolarsi.
*** In Egitto continuano a scomparire non meno di due innocenti al giorno.
A Venezia solo i cattolici hanno il diritto di pregare nei loro luoghi di culto. Gli altri no. E c'e chi sostiene che Venezia è la città dell'incontro e dell'accoglienza...
La Nuova Venezia, 7 aprile 2017 con postilla propositiva
«La Polizia municipale ha consegnata alla comunità bengalese la diffida a chiudere entro tre giorni. Il presidente della comunità: "Il Comune ci dia subito una soluzione alternativa". Un fedele: "Paghiamo le tasse, pregheremo per strada"»
MESTRE. Venerdì 7 aprile è l'ultimo giorno in cui i musulmani che frequentano il centro culturale bengalese di via Fogazzaro potranno pregare. Dalla prossima settimana, invece, saranno senza una sala di preghiera perché il luogo finora utilizzato verrà chiuso all’attività di culto.
Mohamed Alì, il presidente della comunità, ha ricevuto dalle mani degli agenti di Polizia municipale la diffica a chiudere il centro entro tre giorni: giovedì era stato convocato nella sede della polizia municipale, a Venezia, dove ha incontrato assieme al portavoce Kamrul Syed, il comandante generale Marco Agostini, il quale gli ha spiegato il provvedimento di diffida.
Il presidente Alì incontrerà la sua comunità, ma chiede al Comune di fare presto: "Ci dia subito un'alternativa o sarà sciopero. La gente non capisce perché ora che abbiamo pagato tutto per questa sede, ci mandino via.
«Oggi notificheremo l’ordinanza», chiarisce Agostini, «nel frattempo stiamo pensando assieme all’ufficio di gabinetto del sindaco a una soluzione temporanea, in attesa che trovino quella definitiva».
La reazione dei fedeli non si è fatta attendere: "Siamo cittadini come gli altri, paghiamo le tasse o ci danno una nuova sede o pregheremo per strada".
Il venerdì. Il bisogno più impellente della comunità è quello di onorare il venerdì, specialmente in vista del Ramadan di fine maggio. «Oggi riusciremo a pregare tranquilli», continua Alì, «la stessa cosa ci consentiranno di fare per tre giorni, fino a domenica, poi potremo utilizzare lo spazio solo come centro culturale, per fare scuola ai bambini, per attività amministrative e di ufficio, ma non in quanto luogo di preghiera».
Alternative. Il vero problema, si presenterà nei giorni successivi. «Mercoledì», prosegue il presidente, «devono trovarci uno spazio sostitutivo finché non ne acquistiamo uno di nuovo, uno spazio di transizione dove pregare. Come faccio altrimenti con le persone che vengono qui? Io sono il più “anziano”, perché abito in Italia da molti anni, la comunità mi ascolta, ma devo offrire loro una soluzione, devono potersi fidare quando gli dirò che questo è l’ultimo venerdì di preghiera in via Fogazzaro, nello spazio che si sono acquistati con i loro risparmi. Se non do loro una risposta, si arrabbieranno e mi destituiranno. Sono un po’ deluso e preoccupato, spero che vada tutto bene, che non succeda nulla. Noi vogliamo la pace, siamo una comunità pacifica, di lavoratori, rispettiamo le regole, paghiamo le tasse. Non abbiamo nulla a che fare con droga e illegalità». Aggiunge: «E abbiamo il diritto di pregare».
L’appello. «Questo spazio ce lo siamo sudati finché non è diventato nostro a tutti gli effetti e nessuno ci ha mai contestato nulla sino ad oggi. Dopo otto anni ci dicono che non va bene, non appena avevamo terminato di pagare il mutuo». Poi rivolto al Comune: «Ci devono mettere a disposizione un sito alternativo, e speriamo che siano veloci, perché la comunità non può rimanere senza un luogo di preghiera venerdì prossimo, altrimenti io alzo le mani e poi il Comune si arrangerà».
Futuro. La comunità sta cercando un capannone o un’ex concessionaria chiusa da acquistare in zona via Torino-via Ca’ Marcello, ma ci sono difficoltà con le destinazioni d’uso. «Servono i permessi», conclude Mohamed Alì, «altrimenti cosa facciamo?». Due gli ordini di problemi da risolvere. Per il centro transitorio, il Comune si sta attrezzando; per quello definitivo la comunità ha presentato ieri al comandante Agostini quattro possibili ipotesi tutte da vagliare.
postilla
Qualche giorno fa il patriarca di Venezia, capo locale della chiesa cattolica apostolica romana, ha dichiarato che molte chiese di quella religione sarebbero state chiuse al rito e messe a disposizione della comunità. Non era chiaro se si riferisse alla comunità del suo rito o a quella, ben più larga, cui si riferisce papa Francesco. Sarebbe bello se, raccogliendo l'implicito messaggio del suo principale, mettesse qualche chiesa superflua al servizio delle altre religioni, magari con un modico canone di locazione.
Un altro primato di cui vergognarci. La spesa per la guerra sollecita molte domande. La prima: perché si continua a tagliare sul lavoro, la salute, la scuola, la cultura, l'assistenza agli indigeni e ai foresti, invece di ridurre la spesa per la guerra?
Sbilanciamoci.info, newsletter 7 aprile 2017, con postilla
Il nostro paese spende ogni anno per le sue forze armate oltre 23 miliardi di euro (64 milioni di euro al giorno). E oltre a spendere molto, l’Italia spende male, in modo irrazionale e inefficiente
Secondo i dati contenuti nel primo rapporto annuale sulle spese militari italiane presentato dall’Osservatorio MIL€X, presentato alla Camera dei Deputati lo scorso 15 febbraio, l’Italia spende ogni anno per le sue forze armate oltre 23 miliardi di euro (64 milioni di euro al giorno), di cui oltre 5 miliardi e mezzo (15 milioni al giorno) in armamenti.
Una spesa militare in costante aumento (+21% nelle ultime tre legislature), che rappresenta l’1,4% del PIL nazionale: esattamente la media NATO (USA esclusi), ma ancora troppo poco per l’Alleanza Atlantica, che chiede di arrivare al 2% in base a una decisione (mai sottoposta al vaglio del Parlamento) che incoraggia a spendere di più, invece che a spendere meglio, secondo una logica distorta che arriva al paradosso quando la NATO si congratula con la Grecia per la sua spesa militare al 2,6% del PIL, ignorando la bancarotta dello Stato ellenico.
Oltre alla “virtuosa” Grecia, in buona compagnia del Portogallo (1,9% del PIL), gli Stati europei che spendono in difesa più dell’Italia sono le potenze nucleari francese e inglese (intorno al 2% del PIL) e le nazioni dell’ex Patto di Varsavia con la paranoia della minaccia russa come Polonia (2,2%) ed Estonia 2%. Altre grandi nazioni europee come Germania, Olanda e Spagna spendono molto meno di noi (intorno all’1,2% del PIL).
Oltre a spendere molto in difesa, l’Italia spende male, in modo irrazionale e inefficiente.
Il 60% delle spese è assorbito da una struttura del personale elefantiaca e squilibrata fino al paradosso di avere più comandanti che comandati, più anziani ufficiali e sottufficiali da scrivania, che graduati e truppa giovane operativa.
Quasi il 30% del totale viene invece speso per l’acquisto di armamenti tradizionali: missili, bombe, cacciabombardieri, navi da guerra e mezzi corazzati. Una spesa in forte crescita (+85% dal 2006) finanziata in gran parte dal Ministero dello Sviluppo Economico, che dovrebbe essere ribattezzato “Ministero dello Sviluppo Militare” poiché destina regolarmente al comparto difesa (Leonardo/Finmeccanica, Fincantieri, Fiat-Iveco, ecc.) la quasi totalità del budget a sostegno dell’imprenditoria (l’86% quest’anno, pari a 3,4 miliardi)
penalizzando le piccole e medie imprese e lo sviluppo industriale civile del Paese.
Un meccanismo di aiuti di Stato all’industria bellica nazionale, portato avanti da una potente lobby che condiziona il Parlamento, forzandolo ad autorizzare l’acquisto di armamenti costosissimi e logisticamente insostenibili (perché poi mancano i soldi per la manutenzione e perfino per il carburante), armamenti di tipo e quantità dettate da esigenze industriali e commerciali delle aziende, invece che da concrete necessità di sicurezza nazionale. Qualche esempio.
I quasi mille nuovi corazzati da combattimento Freccia e Centauro2 che sta comprando l’Esercito — spendendo molto più di quanto avrebbe speso scegliendo quelli prodotti da consorzi europei (i Freccia sono stati preferiti agli equivalenti ma molto più economici Boxer tedesco-olandesi). Una quantità di mezzi sproporzionata rispetto alle necessità operative (in Afghanistan, ad esempio, di questi mezzi ne sono stati usati solo 17) e spropositata per le capacità di manutenzione (per cui la maggior parte di questi mezzi finisce ad arrugginire nei depositi o cannibalizzata per i pezzi di ricambio).
Oppure le nuove navi da guerra ordinate dalla Marina — spacciate al Parlamento per navi “dual-use” per il soccorso umanitario: una seconda portaerei (ricordiamo che la prima, la Cavour, non viene quasi mai usata perché non ci son soldi per il gasolio) e altre 7 fregate lanciamissili che porteranno la flotta italiana a supere la potenza navale francese e ad eguagliare quella inglese (entrambe, lo ricordiamo, potenze nucleari).
Per non parlare degli ormai famosi F-35, che l’Italia — contrariamente ad altri Paesi NATO europei come la Germania — continua a comprare nonostante le critiche degli esperti, che li giudicano aerei inutili per le esigenze di difesa nazionali e dannosi per l’industria italiana.
A fronte di tutte queste spese da potenza militare d’altri tempi, l’Italia è completamente impreparata a difendersi dalle minacce concrete del presente e del futuro: terrorismo e cyberwar. Per prevenire attacchi terroristici serve intelligence sul territorio e on-line, non carri armati, cacciabombardieri e portaerei. Per difendersi da attacchi informatici — che oggi mettono in imbarazzo un ministero, ma domani potrebbero mettere in ginocchio il Paese — servono investimenti massicci nella cyber-difesa che invece non ci sono (150 milioni nel 2016, nulla nel 2017) e strutture militari dedicate (il cyber-comando italiano è ancora sulla carta).
E’ a dir poco paradossale continuare a spendere miliardi in armamenti tradizionali e poco e niente per prevenire e fronteggiare attacchi informatici che potrebbero mettere fuori uso tutte queste armi con un semplice virus.
postilla
Altre domande: Perché quel che resta dalla sinistra e della democrazia non renziana ha abbandonato le campagne di massa per la pace, e l'unico che ne proclama l'esigenza è papa Francesco? Perché si svendono i patrimoni pubblici e si lasciano degradare quelli culturali? Perché si negano risorse all'accoglienza dei dannati dallo sviluppo che riescono ad approdare sui nostri lidi? Perché si negano risorse per rendere le città più vivibili e amichevoli per tutti e i territori più garantiti nella loro integrità fisica e identità culturale?
Che non vogliano ridurre le spese per gli armamenti i mercanti di morte e i prezzolati governanti lo si comprende, ma gli abitanti del Belpaese sono diventati tutti "popolo bue"?
«». Lo ammette uno che è stato corresponsabile delle scelte che hanno portato a questo risultato. il manifesto
.
Ivan Cavicchi lancia l’allarme a proposito della possibilità che si verifichino ulteriori arretramenti del carattere universalistico del Servizio Sanitario Nazionale. Non ho dubbi a rispondere che è in effetti ciò che il Pd renziano propone in modo quasi ostentato. Si tratta di una presa in carico dei cittadini affidata ad un generico welfare che si dimentica di individuare nello Stato il garante della responsabilità e della risposta ai bisogni.
Il disegno, per la verità, inizia a formarsi già nei decenni scorsi quando si arena la battaglia della sinistra per definire, dopo la conquista della sanità pubblica, il carattere universalistico dell’intervento dello Stato. Gli anni delle politiche di austerità, cominciate con il governo Berlusconi-Tremonti e con i superticket, seguite poi dai pesanti tagli di Monti alla spesa sanitaria e dal sostanziale azzeramento di quella sociale, hanno finito per dare un colpo al diritto alla salute e all’assistenza nel nostro Paese.
Anche le più recenti politiche di rifinanziamento del welfare sono state caratterizzate da una scarsità di risorse e dall’idea che laddove la tutela dello Stato non può arrivare, sia allora dato spazio all’iniziativa privata, al terzo settore, al volontariato, all’impresa che con i contratti vuole “erogare” servizi ai propri dipendenti.
In questo quadro generale si è poi praticata una politica di detrazione dal costo del lavoro degli oneri per le mutue integrative, incrementando così l’idea che ognuno faccia e si salvi come può. Conta poco riaffermare – come fa Renzi – il carattere di cittadinanza del welfare sganciato dalle categorie e dal lavoro, ciò che conta è che i cittadini hanno capito che per tutelare la propria salute e ottenere un livello adeguato di protezione sociale, svolgono un ruolo sempre più importante le aziende di cui sono dipendenti, il territorio in cui vivono, le assicurazioni private che si pagano.
A completare l’opera – oltre ai ticket, ormai indispensabili per avere accesso alle prestazioni specialistiche in tempi utili – si è aggiunto il grande attacco culturale contro il SSN, che ha portato ingiustamente a identificare le grandi infrastrutture civili quali fonti di ogni male, di sprechi e di corruzione. In questo modo si è convinto molti, anche a sinistra, che solo la strada della privatizzazione fosse quella praticabile.
Colpisce ad esempio che lo Stato italiano non sia ancora in grado di garantire l’erogazione di un farmaco salva-vita come quello contro l’epatite C, capace di eradicare la malattia e quindi fondamentale per la salute pubblica.
È giusto avere consentito di poter acquistare individualmente il farmaco all’estero ma siamo di fonte a un’ulteriore conferma di una sanità fai-da-te: chi non può aspetta e resta ammalato.
Sono decenni che si è lavorato per costruire questa ideologia e trasformarla in senso comune. Renzi finisce per accettare definitivamente questa realtà e nella sua mozione pare volerla incrementare al punto di vedere la salute pubblica e il welfare solo come un bene individuale, come un sostegno alla persona per incentivare “il rischio, la sua voglia di mettersi in gioco”, dimenticando che la salute è un diritto fondamentale e anche interesse della collettività.
In effetti, come denuncia Cavicchi, la defiscalizzazione degli oneri per l’assistenza integrativa può davvero diventare la porta con cui, facendo mancare le risorse al SSN, si costruisce una “gamba” privata per l’assistenza sanitaria che finirà per scaricare le prestazioni più costose sul pubblico, relegandolo a strumento per il soddisfacimento dei livelli minimi di servizio per i più poveri.
Ancora una volta è il paradigma culturale e politico che la sinistra ha il dovere di rovesciare per fermare questa deriva anti-universalistica del welfare. Il pensiero conservatore e di coloro che vogliono trarre profitti dalla salute dei cittadini sono lì a ripetere ancora una volta il vecchio, stucchevole e stupido adagio che con i cambiamenti tecnologici, dei farmaci e delle cure e con l’invecchiamento della popolazione non riusciremo a sostenere finanziariamente il SSN.
Ma ormai, come sanno bene i cittadini che per curarsi devono mettere mano al portafogli per ben 30 miliardi all’anno, il libero mercato della salute conta di più della salute pubblica. Lo hanno imparato anche negli Stati Uniti dove un «giovane» – Bernie Sanders – ha avuto il coraggio di parlare di socialismo e di sanità pubblica. Le due cose evidentemente stanno insieme perché la sanità pubblica è l’unico elemento di socialismo che sia stato finora introdotto. A noi spetta di non farlo cancellare.
Una prima ammissione delle colpe degli aguzzini in divisa a Bolzaneto, ma torturare in Italia non è ancora un reato. Articoli di Alberto D'Argenio e Carlo Bonini.
La Repubblica, 7 aprile 2017
L’ITALIA CEDE ALLA CORTE UE
AMMETTE COLPE SU BOLZANETO
E RISARCISCE SEI DELLE VITTIME
di Alberto D’Argenio
«l patteggiamento a Strasburgo: a ciascuna 45mila euro per danni morali l’impegno del governo: subito regole adeguate per colpire gli abusi»
Con 16 anni di ritardo, l’Italia riconosce i propri torti e patteggia a Strasburgo per tentare di scongiurare una condanna per le torture inflitte ai manifestanti del Social Forum nella caserma di Bolzaneto il 21 e 22 luglio del 2001, i giorni terribili del G8 di Genova. Proprio quest’anno l’Italia tornerà ad ospitare un incontro dei leader delle maggiori economie planetarie, il 26 e 27 maggio a Taormina. La notizia del patteggiamento è arrivata ieri, con il governo che ha infine deciso di risarcire alcune delle vittime nel corso di un procedimento di fronte alla Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo: riceveranno 45mila euro ciascuno per indennizzare danni morali, materiali e spese processuali.
I giudici europei così prendono atto della «risoluzione amichevole tra le parti» e chiudono i procedimenti pendenti.
I casi in cui è stato possibile raggiungere il patteggiamento sono sei sui 65 aperti da cittadini italiani e stranieri che avevano fatto ricorso di fronte alla Corte, alla quale aderiscono tutti i 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa, istituzione esterna all’Unione europea che vigila sul rispetto dei diritti fondamentali in tutto il continente. Si tratta di Mauro Alfarano, Alessandra Battista, Marco Bistacchia, Anna De Florio, Gabriella Cinzia Grippaudo e Manuela Tangari. L’avvocato di due dei ricorrenti, Laura Tartarini, però sottolinea che «quella che lo Stato offre è un piccola cifra, ha accettato chi ha necessità economiche e personali, per gli altri il ricorso continua per ottenre la condanna dell’Italia».
Le denunce a Strasburgo sostenevano che lo Stato italiano avesse violato il diritto a non essere sottoposti a maltrattamenti e tortura e denunciavano l’inefficacia dell’inchiesta penale domestica sui fatti di Bolzaneto. Con l’accordo, si legge nelle due distinte decisioni della Corte, il governo afferma di aver «riconosciuto i casi di maltrattamento simili a quelli subiti dagli interessati a Bolzaneto come anche l’assenza di leggi adeguate ». Questo il dato politico, l’aver ammesso abusi e torture nei giorni del G8.
Così l’esecutivo italiano ora si impegna ad adottare le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre indagini efficaci e l’introduzione di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura. Nell’accordo il governo si impegna anche a «predisporre corsi di formazione specifici sul rispetto dei diritti umani per le forze dell’ordine».In cambio del risarcimento di 45mila euro dal canto loro i ricorrenti rinunciano a ogni altra rivendicazione nei confronti dell’Italia per i fatti all’origine del loro ricorso.
Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nelle carceri, sottolinea l’importanza che finalmente dopo 16 anni il governo riconosca che «a Bolzaneto si è trattato di tortura: a 30 anni dalla convenzione Onu il governo si è impegnato ad introdurre il reato di tortura, impegno che – auspica - va rispettato subito».
IPOCRISIE, VETI ERICATTI QUELLA LEGGE IMPOSSIBILE SUL REATO DI TORTURA di Carlo Bonini
«Da 28 anni il nostro Paese attende la norma che l’Europa ci impone di introdurre Ecco perché finora è rimasta lettera morta»
Di fronte alla Corte Europea dei diritti umani, l’Italia riconosce che, nel luglio del 2001, nei giorni del G8 di Genova, le violenze inflitte ad innocenti trattenuti nella caserma della polizia stradale di Bolzaneto furono tortura. Che quegli abusi fisici e psicologici meritino per questo un risarcimento delle vittime che chiami le cose con il loro nome. Tortura, appunto. È un’ammissione dovuta, e tuttavia tardiva e penosa per la vergogna che ne è il presupposto. L’ingiustificabile assenza nel nostro ordinamento di una norma che preveda e punisca il reato di tortura. E per la cui introduzione nel nostro sistema penale, l’Italia, ventotto anni fa, si era solennemente impegnata, sottoscrivendo prima e recependo poi la “Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”. Salvo farne, da allora, lettera morta.
Ancora nel maggio del 2014, in un magnifico libro (Gridavano e piangevano, Einaudi), Roberto Settembre, magistrato mite e giudice a latere della Corte di appello di Genova che giudicò i fatti e le responsabilità della Bolzaneto, ricordando il suo tormento di quei giorni, scriveva: «Ero di fronte a un evento non solo di dimensioni macroscopiche, ma di una particolare qualità: centinaia di cittadini non solo erano stati privati della libertà, non solo erano stati lesi nella loro incolumità fisica e psicologica. Erano stati vittime di comportamenti tesi a far sorgere sentimenti di paura, di angoscia, di inferiorità in grado di umiliarli così profondamente da ledere la dignità umana». Violenze per le quali lui, il giudice, non aveva uno strumento di legge proprio. Il reato di tortura.
Per non dire del Comitato dei ministri del Consiglio di Europa, che, nel marzo scorso, dopo una sentenza di due anni prima della Corte europea, intimava al nostro Paese di «introdurre, senza più attendere, i reati di tortura e trattamenti degradanti, assicurando che siano sanzionati adeguatamente e gli autori non restino più impuniti». Parole che non hanno increspato le acque limacciose di un Parlamento dove, nell’autunno scorso, in Senato, è silenziosamente affondato anche l’ultimo disgraziato disegno di legge che avrebbe dovuto allinearci agli standard normativi di rispetto dei diritti umani in vigore nelle altre democrazie occidentali.
In questa vergogna tutta italiana, come documentano gli atti parlamentari del dibattito che ha accompagnato l’ultimo tentativo abortito di introduzione del reato di tortura, c’è tutta la debolezza e ipocrisia di una classe politica, di maggioranza e di opposizione,incapace di sottrarsi all’intollerabile ricatto di settori, per altro minoritari, delle forze dell’ordine che nel reato di tortura sostengono si nasconda un formidabile strumento di vendetta nelle mani di chi delinque. È infatti accaduto che, nell’ultimo percorso parlamentare, che ha interessato prima il Senato, quindi la Camera, e nuovamente il Senato, una norma di agevole scrittura, necessaria a definire un comportamento proprio di un pubblico ufficiale (dal momento che è proprio questa qualità di chi esercita violenza che pone la vittima in una condizione di oggettiva sudditanza, fisica e psicologica rendendo l’abuso nei suoi confronti di particolare gravità) sia diventata prima “reato generico” e quindi oggetto di un singolare quanto capzioso dibattito. Che ha prima stabilito che per configurare una tortura si debba essere in presenza non di una semplice «violenza» (singolare), ma di «violenze» (plurale). E, quindi, che queste debbano essere «reiterate». Come se una violenza in un’unica soluzione sia troppo poco. Per giunta, che, in caso di abusi psicologici, la sopraffazione emotiva, per essere riconosciuta come tortura, debba avere caratteristiche particolari e «clinicamente accertabili».
Per altro, nel frenetico lavoro di depotenziamento del reato di tortura e del disegno di legge che lo istituiva, il Senato era riuscito anche a immaginare che, a dispetto del suo carattere di crimine contro l’umanità — e dunque in quanto tale non soggetto ad estinzione — nella sua declinazione italiana, la tortura fosse “prescrivibile”. Come una rissa al semaforo. Troppo. Persino per gli alfieri di un compromesso quale che fosse. Abbastanza, come detto, per avviare su un binario morto anche questo ennesimo tentativo in ventotto anni.
Nel patteggiamento di fronte alla Corte Europea, l’Italia torna ora con il governo Gentiloni a promettere ciò che non è stata capace di mantenere in ventotto anni e fino all’autunno scorso, assicurando, per altro, che lo sforzo sarà anche quello di una «formazione » permanente e «specifica» delle nostre forze dell’ordine «al rispetto dei diritti umani». Si vedrà.
Ma per capire l’aria che tira, e la qualità del dibattito parlamentare, è sufficiente registrare l’immediata risposta di Elvira Savino, capogruppo di Forza Italia in Commissione Politiche della Ue alla Camera e una carriera politica nata dall’amicizia con Giampaolo Tarantini e Sabina Began, i buttadentro delle cene eleganti dell’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi. «I corsi di formazione delle forze dell’ordine sono una vergogna».
«La discrasia in cui vivono le seconde generazioni tra volersi sentire uguali agli altri e avere invece minori opportunità, viene aggravata dalla mancata riforma della cittadinanza, che tratta ancora come stranieri i ragazzi che vivono nel nostro Paese».
la Repubblica, 6 aprile 2017
«Siamo una generazione al bivio. Non totalmente italiani, né pienamente marocchini o egiziani o bengalesi. Siamo alla ricerca di una nuova identità, che concili le tradizioni delle nostre famiglie con i valori del Paese in cui siamo nati e viviamo ». Nadia Bouzekri, studentessa 24enne di Reggio Emilia, prima donna presidente dei Giovani musulmani d’Italia, fotografa così la «difficoltà, o meglio la sfida » che vivono oggi i figli e ancor più le figlie di immigrati.
«Sulle seconde generazioni si gioca il futuro del nostro Paese — conferma Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli — anche per questo è grave che la riforma della cittadinanza sia finita nel dimenticatoio parlamentare ». Oggi in Italia i ragazzi figli di immigrati sono più di un milione, e tre su quattro sono nati qui. A scuola, gli alunni stranieri sono oltre 814mila, per la metà ragazze. Ed è proprio tra i banchi che si gioca gran parte della partita per l’integrazione. Stando all’ultima indagine Istat, il 38% si sente italiano, il 33% straniero e poco più del 29% non è in grado di rispondere. Gli alunni originari dell’Asia e dell’America Latina sono quelli che più frequentemente si dicono stranieri (il 42,1% dei cinesi). All’opposto, i romeni che si sentono italiani sono il 45,8%.
«Gli studi — scrivono i ricercatori Istat — attribuiscono ai ragazzi con background migratorio una condizione di sospensione tra la cultura di origine e quella del Paese di accoglienza». Più “integrati” gli studenti stranieri, ma nati in Italia: 47,5% si sente italiano e 23,7% si considera straniero.Le performance scolastiche spesso ne risentono: il 23% degli studenti stranieri è stato bocciato (contro il 14,3% degli italiani). «Le maggiori difficoltà scolastiche sono infatti vissute dai ragazzi di prima generazione, che sono 12 volte più a rischio bocciatura dei coetanei italiani — spiega Gavosto — la loro è principalmente una difficoltà linguistica, non tanto per l’italiano parlato, che imparano mediamente in sei mesi, quanto per la scrittura e ancor più la lettura dei libri di testo.
Tra le seconde generazioni, nate in Italia, il problema non è invece la lingua, quanto la difficoltà di avere le stesse aspirazioni degli amici italiani, ma avendo alle spalle famiglie con minori strumenti culturali e mezzi materiali per garantirgli pari condizioni». E qui entrano in gioco i conflitti con le famiglie. «La fedeltà alle tradizioni familiari può entrare in contrasto con il volersi sentir parte del gruppo dei compagni di scuola — racconta Nadia Bouzekri — ma l’equilibrio sta nel capire che integrarsi non vuol dire assimilarsi o annullare i propri valori e che si può essere facilmente buoni italiani e bravi musulmani».
Le più esposte rimangono comunque le ragazze, soprattutto nelle famiglie musulmane. «In effetti, se parli con genitori marocchini o egiziani — conferma Stefano Molina, dirigente di ricerca della Fondazione Agnelli — sono loro stessi a identificare il problema delle seconde generazioni con quello delle loro figlie, alle prese coi pericoli della modernità. Ma il bivio tra famiglia e compagni di scuola non è per forza lacerante, spesso è una ricchezza perché sempre più le ragazze sanno gestire la contraddizione di un doppio registro comportamentale ».
«Il problema è che alcune famiglie, come quelle pachistane o bengalesi, cristallizzano modelli e valori del loro Paese d’origine — sostiene Mara Tognetti, docente di Politiche migratorie alla Bicocca di Milano — con casi estremi di ragazze che vengono costrette a lasciare scuola, attività sportive o ludiche, molto prima dei loro fratelli maschi. In generale, però, nei conflitti con le famiglie intervengono più fattori, come la criticità tipica dell’età adolescenziale e la presenza di genitori isolati, non preparati al ruolo, senza reti di sostegno ».
Il “passaporto italiano” è una delle sfide: «Le vecchie norme sulla cittadinanza — prosegue Tognetti — accentuano il senso di insicurezza di questi ragazzi, non dandogli orizzonti certi». Sulla stessa linea, Gavosto: «La discrasia in cui vivono le seconde generazioni tra volersi sentire uguali agli altri e avere invece minori opportunità, viene aggravata dalla mancata riforma della cittadinanza, che tratta ancora come stranieri i ragazzi che vivono nel nostro Paese».
«». il manifesto,
Gli attentati alla metropolitana di San Pietroburgo deflagrano in Russia. Mentre riscopriamo che in Siria c’è la guerra sporca, che cancella la vita delle vittime civili e insieme la verità.
Già la solidarietà di Trump per le bombe nella metropolitana russa sposta l’attenzione sull’atteggiamento del fronte occidentale verso Mosca. Volta a volta considerata nemica, come per la crisi Ucraina. Che, è bene ricordarlo, ha visto la reazione dell’annessione della Crimea a fronte del ruolo non proprio innocente dell’Unione europea e della Nato impegnata ormai nella pericolosa strategia di allargamento a Est. Ma subito riammessa nel club, tardivo, della «lotta al terrorismo» dopo che per almeno quattro anni lo schieramento occidentale, con la Turchia e le petromonarchie del Golfo h attivato le guerre in Libia e subito dopo in Siria.
Putin è entrato nella crisi siriana non già come riempitivo dello spazio lasciato vuoto dall’Occidente come ripete il mantra giornalistico. Ma per il pieno della sconfitta, prima in Libia con la riattivazione dell’islamismo jihadista e poi in Siria con il sostegno malcelato dell’alleata atlantica Turchia. Alla quale è stato delegato per anni il ruolo di santuario della destabilizzazione siriana.
L’esplosione di fatto della Turchia di Erdogan ha reso evidente la disfatta, con la ritirata di Obama, già - incerto sull’intervento della Nato contro Tripoli nel 2011.
Il leader russo a fine 2015, nel vertice del caminetto alla Casa bianca con Obama è stato di fatto «autorizzato» ad intervenire. Né va dimenticato che tra le ragioni rivendicate da Putin per il ruolo in Siria c’è stata quella di fermare sul campo le migliaia – dai tremila ai 5mila secondo anche le intelligence occidentali – di foreign fighters caucasici, soprattutto ceceni, partiti dalla Federazione russa della quale la Cecenia «pacificata» fa parte, per impedire il loro rientro in patria.
Senza dimenticare che sul campo della guerra in Ucraina, nel Donbass le milizie cecene sono state ampiamente usate, da Mosca con reparti autorizzati dal premier Khadirov, ma anche nel campo avverso con centinaia di miliziani islamisti arruolati nelle formazioni dell’estrema destra ucraina.
Nella Siria ferita a morte si vuole tornare a quattro anni fa. Si distrugge ogni possibilità per i negoziati di Ginevra e di Astana, i qaedisti e i jihadisti dell’Isis sono vendicativi perché sotto assedio a Idlib e a Raqqa; e in rotta a Mosul in Iraq, dove le stragi di civili vengono zittite. Lo sponsor dell’orrore siriano, l’ Arabia saudita, sembra taciturno ma lavora sulla propaganda. Intanto si alternano raid aerei sui civili, dell’una e dell’altra parte. E le stragi cancellano le vittime e la verità. Perché si riparla di «sospetto uso del Sarin», e non può non venire alla memoria l’estate del 2013. Quando non fu provato l’uso dei gas e solo il papa fermò con la preghiera l’intervento dell’America di Obama quasi pronto ad un’altra maledetta guerra.
Detto tutto questo sul fronte internazionale, resta ormai però la rilevanza in Russia dell’iniziativa terroristica. Nel giorno in cui il presidente russo era in visita a San Pietroburgo . Putin ha fatto della pacificazione della Federazione russa, prima di lui alle prese con un Caucaso incendiato ovunque, in Cecenia, in Daghestan, ma anche sul fronte georgiano in Abkhazia e Ossetia, lì dove nel 2008 la Georgia di Shakahasvili (finito nella leadership di Kiev ma poi cacciato anche da là) e su irresponsabile suggerimento della Nato, mosse alla conquista di territori insorti, subendol’immediata reazione militare russa e una pesante sconfitta. Il fatto è che sulla pacificazione cecena Putin ha giocato buona parte della sua legittimazione al potere, così come ora per la sua strategia d’intervento nella Siria già in guerra.
Pagando a quanto pare ormai un costo elevatissimo per la litania di attentati subiti che alla fine mostrano la vulnerabilità della Russia. Accettando, mentre abbraccia rinnovati interessi di potenza, l’asimmetrica normalità tra guerra e terrorismo. Proprio mentre si riaccende una protesta della scarsa e poco alternativa opposizione russa.
E se sarà confermata la pista dell’attentatore kirghiso, torna centrale anche il fronte asiatico delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, di fatto ancora legate politicamente ed economicamente alla Russia. Sullo sfondo il gioco rimasto aperto dell’Afghanistan in guerra da decenni.
Sembra riaprirsi per la Russia, di fronte alle chiusure in Europa, il dilemma storico, culturale e strategico, che fu prima della Russia zarista ma che si ripropose negli sviluppi della rivoluzione bolscevica e sui destini della ex Urss. E che torna nel disequilibrio nazionalista di Putin. Quello tra linea occidentalista oppure panslavista.
La prima vede i destini russi rivolti verso l’Ovest del mondo, l’altra insiste sull’asse degli interessi orientali. Un grande innovatore in tal senso è stato lo sconfitto Michail Gorbaciov. Parlava per la Russia ancora sovietica e già post-sovietica di «Casa comune europea». Ma tutti sappiamo com’ è andata a finire.
«Quando l’instabilità della vita è strutturale, la fermezza dello spirito raggiunge vette impensate». Postfazione di
Utopie della vita quotidiana di Luigi Zoja Conversazione con Lucilio Santoni. comune-info, 3 aprile 2017 (c.m.c.)
Cosa vuol dire possedere una vita improntata alle utopie quotidiane, quelle che ogni giorno impediscono la catastrofe e, goccia dopo goccia, scavano la pietra dell’indifferenza e della meschinità? Quelle utopie permettono, altresì, di vergognarsi piuttosto che di indignarsi. Spingono ad ammirare più che a voler essere ammirati.Credo che alla base di tutto ci sia una passione per la fragilità, cioè per la poesia delle cose. Un’aderenza alle esperienze più autentiche, come l’avventura, il corpo, l’amore, lo sguardo.
Una ricerca spinta nei luoghi più nascosti e assorti, dove c’è senso di provvisorietà, di passaggio, pieni di gente che cammina e arriva ben oltre la meta che si era prefissata. Con la pace nel cuore e l’inquietudine nella mente. La gioia di avere un porto verso cui navigare e la tristezza di non raggiungerlo mai. Fare piazza pulita delle certezze da quattro soldi, dell’arroganza e dell’altruismo a buon mercato. E arrivare, invece, a quel pozzo profondissimo dove il denaro, il potere, la forza, la moda, la retorica, si liquefanno per lasciare spazio a un fiume di domande che, solo, può rendere la terra un luogo ospitale e il vicino un essere attraente del quale si desidera l’amicizia. Abbandonare la frenesia del fare per concedere terreno alla cortesia, alla gentilezza, alle parole dolci e agli sguardi scrupolosi.
Non c’è bisogno di capipopolo, di opinionisti, di dirigenti, di burocrati, di presidenti. C’è bisogno di chi ama la vita, di chi si fa cambiare la pur amata vita da un libro, di chi guarda i gatti negli occhi e vi si riconosce, di chi contempla il creato e nulla gli chiede. C’è bisogno di riconoscere che quel che conta davvero è avere un domani ricco di una teoria lunghissima e dolcissima di strette di mano. Il vero peccato mortale non è quello di commettere il male: è quello di non riconoscere il bene, cioè non riconoscere il valore delle donne e degli uomini che valgono, che sono più avanti di noi sulla strada della vita buona.
L’evanescenza della quotidianità ansiogena può essere riscattata, l’angustia del miserabile muoversi solo per interesse privato può essere dimenticata, osando confrontarsi con i grandi temi della vita, affondando la ricerca nell’intensità spirituale, lasciando che il cuore s’immerga nel mare dell’infinito. Allora le giornate potranno riempirsi di quelle utopie che Luigi Zoja chiamerebbe minimaliste. I piccoli gesti quotidiani non saranno più destituiti di senso, anzi, si configureranno come aperture verso frontiere di libertà. Le parole, poche e misurate, ci condurranno all’ultimo respiro, col senso della pace, della terra e dell’armonia. Ci chiuderemo in casa e scoperchieremo il tetto per guardare il cielo.
Sottrarsi all’opinione comune, tacere quando gli altri parlano e gridare quando gli altri tacciono; incamminarsi su sentieri impervi e solitari, schivando l’abusivismo della modernità, arrivando all’unica patria possibile: quella di chi sa di essere gettato sulla terra, con radici deboli e spesso marce, eppure desideroso di dare frutti commestibili per tutti. Tali frutti nascono solo su piante consapevoli di avere come padri una stirpe di nomadi, stranieri, spaesati, esiliati, maestri dell’interrogazione, dello stupore dell’ospitalità, del distacco dalla normalità.
Ed essi crescono tra gli anfratti, le crepe, i terreni sconnessi, tra lingue minoritarie, dai suoni rudi, tra dialetti incomprensibili, parlati da viandanti, da furibondi e da contemplativi, che abitano case dalle finestre rotte e con porte fuori dai gangheri. Quando l’instabilità della vita è strutturale, la fermezza dello spirito raggiunge vette impensate. E allora non importa se intorno ci sarà poca gente, ci saranno erbacce e tuguri, animali randagi e negozi chiusi, scuole cadenti e spiagge deserte. In quei luoghi potremo comunque frugare per cercare la vita: nella disperazione la speranza, nella solitudine una promessa.
Luigi Zoja ama l’America Latina. Un suo grande figlio, Leonardo Boff, ama parlare di “intelligenza spirituale”, unica facoltà che possa sposare il Cielo con la Terra. Vale a dire: agire nel quotidiano come se ci si stesse misurando con l’assoluto. Camminare nelle strade di tutti i giorni cercando di riconoscere le farfalle che mettono le ali ai piedi. Scrutare bagliori di umanità mescolati a scintille di desiderio; sporcarsi con il fango mentre si è intenti a lanciare pensieri nello stagno del futuro. In definitiva: amare incessantemente, perché la vita è l’incessante.
Dal bar degli utopisti ognuno può guardare il cielo, la patria fatta di nuvole, che si disperdono e ricompongono, cancellano le forme eppure rimandano all’azzurro. Chi in quel bar decide di passare un minuto o una vita per costruire un bel sogno, decide di impegnarsi nelle cose di ogni giorno, fra gli amici e gli stranieri, per andare verso il futuro, quel futuro per il quale prova nostalgia.
In questi ultimi tempi i virus dell’intolleranza e del razzismo penetrano in ogni ambiente, basandosi su percezioni, pregiudizi, voci prive di verifica e ignorando i dati reali. Un appello.
La città invisibile online, 2 aprile 2017 (c.m.c)
Si respira una brutta aria in Europa, in Italia, nella nostra città (ed arrivano pessimi segnali anche da altre parti del mondo, vedi gli Stati Uniti di Trump). In diversi stati europei si erigono muri e fili spinati, reali e burocratici, per respingere chi fugge da guerre, violenze, disastri ambientali. L’Unione Europea finanzia regimi oppressivi perché non facciano arrivare i rifugiati sul suolo europeo.
In Italia, il Governo decreta d’urgenza (i decreti Minniti-Orlando su immigrazione e sicurezza) per limitare i diritti dei richiedenti asilo e per combattere i poveri e gli emarginati in nome del cosiddetto decoro urbano, mentre il Parlamento non riesce ad approvare, a distanza di mesi dalla sua presentazione, una legge – pur imperfetta – sulla cittadinanza collegata allo “jus soli”.
Dovunque sono all’opera gli “imprenditori del razzismo” per alimentare – in un contesto di grave crisi causata dalle politiche di privatizzazioni, di tagli alle spese sociali, di precarizzazione diffusa del lavoro – intolleranza, razzismo, xenofobia, facendo di rifugiati e migranti i capri espiatori della situazione esistente, e vedendo in chiunque viva in condizioni di grave disagio sociale un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza.
Gli organi d’informazione, in generale, contribuiscono alla crescita di questo clima, con notizie allarmistiche e campagne securitarie. I virus dell’intolleranza e del razzismo penetrano in ogni ambiente, basandosi su percezioni, pregiudizi, voci prive di verifica e ignorando i dati reali.
Anche in città stiamo assistendo al progressivo diffondersi di un clima del genere. Eppure, di fronte ai comitati e alle persone che identificano il degrado con la presenza di nuovi abitanti di origine straniera e di persone in condizioni di visibile disagio, ad un’Amministrazione comunale che non contrasta i processi di esclusione sociale, ad un Sindaco che approva senza riserve il pessimo decreto sulla sicurezza, esiste un’altra Firenze che si oppone alle cause prime che hanno determinato la fuga di milioni di persone da guerre e devastazioni, e costruisce esperienze di conoscenza reciproca, accoglienza, inclusione, convivenza e che non è sotto la luce dei riflettori. Pensiamo che questa parte della città, solidale e impegnata nella tutela dei diritti, per tutti a partire dai più deboli, debba rendersi visibile
-per contrastare la pericolosa deriva in atto,
-per far conoscere maggiormente le iniziative positive presenti,
-per costruire una piattaforma rivendicativa riguardante le strutture di accoglienza, i processi di interazione, inserimento e inclusione, la casa, i necessari spazi di aggregazione, la formazione al lavoro etc.,
-per opporsi decisamente alla conversione in legge dei decreti Minniti-Orlando ed alla realizzazione in Toscana del CPR (Centro per il Rimpatrio) previsto dal decreto, nonché per esigere una sollecita approvazione della legge sulla cittadinanza basata sullo “jus soli”, l’apertura a livello istituzionale dei corridoi umanitari già sperimentati – per piccoli numeri – dalle organizzazioni senza scopo di lucro, l’abrogazione delle norme della Bossi-Fini che impediscono l’ingresso e la permanenza regolari in Italia dei migranti,
-per promuovere azioni volte allo sviluppo delle competenze interculturali.
Razzismo ed esclusione si contrastano con l’impegno a lottare concretamente contro le logiche di sfruttamento di tutte le persone in tutti i paesi, ponendosi sempre al fianco di chi questo sfruttamento lo subisce di più. Noi scegliamo di impegnarci per contrastare nazionalismi, fondamentalismi e fascismi di ogni segno e colore.
Perciò chi sottoscrive questo appello si impegna a promuovere nel mese di aprile, in maniera coordinata ed unitaria, iniziative volte all’informazione, alla sensibilizzazione, al confronto sui punti indicati in precedenza, ritenendo che il NO al razzismo ed il SI’ all’accoglienza ed alla solidarietà siano elementi essenziali per la convivenza civile e per lo svolgersi della vita democratica, secondo i principi definiti dalla Costituzione italiana.
Per una primavera di mobilitazione che, nel ricordo della vittoria della Resistenza sui nazi-fascisti il 25 aprile, dia il segno tangibile della presenza di una Firenze antirazzista e solidale!
Primi firmatari
Rete Antirazzista Fiorentina
PalazzuoloStradaAperta
Laboratorio perUnaltracittà
CO.R.P.I. – Compagnia Resistente
Coordinamento Basta Morti nel Mediterraneo
Fuori Binario
Comitato Stop Razzismo Prato
azzerocappaemme
Straniamenti
Biblioteca Riccardo Torregiani
Comitato 1°Marzo
per adesioni:
sandra.carpilapi@gmail.com
massimodamato@virgilio.it
la Repubblica, 3 aprile 2017 (c.m.c.)
Non è tutto immobile sotto il cielo riformista. Anzi. Il Pd sarà pure indietro nei sondaggi, porta al voto metà degli iscritti. Ma bisogna riconoscere che il dibattito fra i candidati copre un ventaglio di visioni ideali, e opzioni strategiche, che di per sé rappresenta una bella novità per la sinistra italiana: Renzi liberal-democratico che guarda a Macron, Orlando social-democratico rivolto a Martin Schulz, Emiliano che sembra prendere a riferimento i movimenti del Sud Europa, da Podemos a Syriza. Peccato per gli scissionisti, verrebbe da dire, si sono persi il meglio.
E tuttavia, rispetto a quei modelli, i nostri leader sembrano figli di un dio minore. Tutti e tre azzoppati in qualche modo. Per la Francia Macron incarna il nuovo (anche se è stato ministro dell’Economia), un’opzione liberale che la sinistra d’Oltralpe non ha mai conosciuto. Renzi l’Italia l’ha governata per tre anni: ha dispiegato un’azione riformatrice ampia e ambiziosa, ma non priva di tratti demagogici, e non è riuscito a tirar fuori il Paese dal declino; per giunta le riforme su cui maggiormente puntava sono state bocciate dagli elettori.
Anche se ha stravinto nei circoli, rispetto a Macron incarna qualcosa di già visto e già sentito. E uno sguardo alla sua mozione conferma quest’impressione: non ci sono novità dirompenti, se non un tentativo di inseguire i Cinque Stelle sui temi dell’identità nazionale o sul reddito di cittadinanza. Persino nella narrazione personale si avverte un po’ di stanchezza (il frequente richiamo alle cicatrici). E in quanto alle linee di continuità con il passato, dalla politica fiscale alla riforma amministrativa fino agli interventi per la scuola, dovrebbe spiegare l’ex premier perché dovrebbe riuscirgli di correggere domani — in uno scenario che si può immaginare assai più complicato — quel che non è riuscito a fare bene ieri.
Rispetto ai grandi movimenti popolari di Grecia e Spagna, che pure hanno contribuito a rinnovare la sinistra e a frenare — per davvero — il populismo di destra, a Emiliano manca la spinta della base. La sua è la mossa di un politico navigato, presidente di Regione, che dall’alto fiuta uno spazio di consenso: ma non incontra i movimenti, che da tempo guardano altrove. E non li incontra anche perché difetta pure, ammettiamolo, di credibilità personale: non intende rinunciare al posto sicuro di magistrato, come dovrebbe (il Csm ha aperto un fascicolo); dà l’impressione di lanciarsi con la rete di salvataggio e forzando pure un po’ le regole. Non proprio un buon viatico, per chi si erge a difensore della moralità pubblica.
Ma neppure Orlando ha la forza di Martin Schulz. Non tanto per demeriti, quanto per ragioni oggettive. Schulz si candida a correggere la politica di austerità della Merkel: quando propone un grande piano di ammodernamento infrastrutturale della Germania, si può ragionevolmente pensare che, se vincerà, manterrà la promessa. Orlando presenta una piattaforma socialdemocratica molto simile, probabilmente utile all’Italia: portare l’alta velocità al Sud, ad esempio; o interventi contro la povertà più incisivi di quelli pensati da Renzi (e comunque meglio calibrati delle proposte pentastellate). E tuttavia, non sappiamo se vi saranno soldi in cassa. Forse no, se da qui a un anno Draghi deciderà di rialzare i tassi. O magari sì, se in Germania dovesse vincere Schulz. Ma nessuno dei due scenari dipende da noi. Nell’attuale incertezza, i programmi di spesa — di tutti e tre i candidati — sono scritti sull’acqua. Meglio concentrarsi su altri interventi, ugualmente importanti per dare un senso della direzione di marcia, ma a costo zero. Sui temi europei Renzi e Orlando paiono in realtà equivalenti, al di là di qualche accento, come pure sulla formazione della classe dirigente (e questo è un miglioramento per Renzi).
Spetta però a Orlando la proposta più interessante per contrastare il declino: una «Iri della conoscenza», cioè un’agenzia sul modello tedesco che, mettendo a sistema le esperienze a oggi disperse, favorisca il trasferimento di ricerca e innovazione al mondo delle imprese, e promuova lo sviluppo di una cultura tecnologica in Italia. Può essere una buona idea, per un Paese che ha disperato bisogno di specializzarsi in settori più innovativi, se vuole mantenere i livelli di prosperità raggiunti.
Contrasta con una diffusa retorica, di matrice grillina o leghista ma che qua e là affiora anche nella mozione di Renzi, a favore di settori tradizionali e a più basso reddito, o di una vaga quanto mitologica genialità italica. La proposta è stata accolta da unanime disinteresse: forse il deficit, culturale e di classe dirigente, del nostro Paese va ben oltre il dibattito interno al Pd.
».
il manifesto, 2 aprile 2017 (c.m.c.)
La sicurezza non è di sinistra caro ministro Minniti. La sicurezza non è neanche di destra. Comunque non è questo il terreno su cui ragionare. Le Corti Supreme, italiana, tedesca, statunitense, ma anche la Corte europea dei diritti umani, hanno affermato come sia improprio un bilanciamento tra sicurezza e libertà.
La dignità umana, quale fondamento di tutti i diritti umani, è la chiave di soluzione di questa opposizione tra istanze di sicurezza e di libertà. Libertà, fraternità, uguaglianza, dignità umana, al limite felicità: sono queste le premesse fondative del vivere sociale. La sicurezza è l’esito naturale del pieno soddisfacimento dei diritti individuali, sia quelli sociali ed economici che quelli civili e politici. Il grande studioso Alessandro Baratta, i cui scritti sono certo che il Ministro Minniti ben conosce, affermava che al diritto alla sicurezza vada contrapposta la sicurezza dei diritti. L’indivisibilità e l’interdipendenza dei diritti umani non è soltanto un quadro teorico di riferimento ma è un programma di governo, anche in questi tempi difficili.
Ma sono veramente difficili questi tempi dal punto di vista della sicurezza? La sicurezza, vorrei ricordare al ministro degli Interni e a chiunque legifera senza tenere conto di dati veri e di statistiche vere, è comunque qualcosa di ben diverso dalla percezione di insicurezza.
Prima vicenda. Ristoratore spara al ladro che entra nel suo esercizio commerciale e lo uccide. Parte un dibattito folle intorno alla legittima difesa, causa scriminante prevista nel codice penale. Non ci interessano le strumentalizzazioni e le magliette di Salvini, scontate nella loro cattiveria. Ci interessa il dibattito più ampio, quello avvenuto sui media e nelle aule parlamentari. Va ricordato che la legittima difesa era sufficientemente ben definita nel codice Rocco di era fascista. La legittima difesa ha quale presupposto il principio sacrosanto di proporzionalità tra azione e reazione. La destra al governo, Lega compresa, modificò l’articolo 52 del codice penale nel 2006 poco prima delle elezioni che perderà. Venne così allargata la possibilità di reazione legittima ai casi di pericolo di aggressione. Oggi non si vede che altro possa fare il legislatore se non liberalizzare l’omicidio.
Avremmo auspicato che per la nostra sicurezza il Ministro avesse con nettezza interrotto questo dibattito affermando in modo categorico quanto segue: a) vanno cestinate tutte le proposte di modifica ulteriore della legittima difesa compresa quella in discussione del suo collega di partito Ermini che vuole allargare l’area della non responsabilità a ogni caso in cui si spara e ammazza «per errore di percezione a causa di turbamento psichico»; b) nel nome della sicurezza meno armi girano meglio è per tutti, ristoratori compresi. È compito del decisore politico con chiarezza e onestà intellettuale decostruire le paure e non assecondarle o alimentarle in modo strumentale e pericoloso; c) spetta allo Stato il monopolio della forza.
Nell’ultimo Rapporto sulla criminalità del Ministero degli Interni si legge che in Italia vi è stato un calo incredibile degli omicidi. Nel 1991 erano stati ben 1901. Tre omicidi ogni 100 mila abitanti. Nel 2015 sono stati 469, ovvero 0,8 ogni 100 mila abitanti. Lo stesso ministero degli Interni in modo onesto rileva che il top degli omicidi in Italia è stato nel 2013 a causa dei 366 immigrati morti in mare nel naufragio di quel tragico 3 ottobre. Dunque la vera emergenza sicurezza è quella legata alla vita dei migranti in mare, affrontata invece con norme di tutt’altro respiro dal ministro Minniti ovvero con la detenzione per stranieri irregolari e colpendo quelli che chiedono elemosina. In conclusione nessun attore istituzionale ricorda all’opinione pubblica che gli omicidi sono in calo e che negli Usa, dove si può comprare un’arma al supermercato e si può sparare facilmente, il tasso di omicidi è ben sei volte superiore a quello italiano.
Seconda vicenda. Un gruppo di ragazzi ammazza brutalmente un coetaneo ad Alatri. Si minacciano vendette, si intimidiscono gli avvocati difensori tanto da indurli a lasciare l’incarico. Si da la colpa al Gip che aveva scarcerato uno dei presunti responsabili per altri fatti legati alla violazione delle norme sulle sostanze stupefacenti. Quel giudice in realtà aveva semplicemente e giustamente rispettato la legge. In questa vicenda tragica avremmo voluto che il ministro degli Interni avesse detto che: a) la legge sulle droghe è già fin troppo severa visto che un terzo dei detenuti in Italia è composto da persone che l’hanno violata; b) la custodia cautelare deve essere eccezionale; c) farsi vendetta da soli è brutale; d) chi minaccia un avvocato deve essere severamente perseguito; e) la difesa è un diritto sacrosanto; f) ad Alatri è scoppiata una grande questione sociale, esito di disastri prodotti anche da una progressiva dismissione pedagogica da parte delle nostre agenzie educative, compresi i partiti.
In questi giorni i talk show della Rai, di Mediaset e La7 si sono scatenati nel dare parola a finti esperti, urlatori professionisti, giornalisti che non conoscono la legge e le statistiche, demagoghi che ci fanno credere che viviamo in un paese invaso da criminali, spesso stranieri. Così abbiamo sentito dire da Gianluigi Nuzzi a Piazzapulita, a proposito dell’omicidio di Alatri, che a Tirana a 18 anni ti regalano una pistola. Bah!!!! Che c’entra Tirana con i ragazzi italiani accusati dell’assassinio? Sarà vero che a Tirana regalano la pistola? O è più vero che la pistola ti viene regalata nella provincia americana. Il conduttore di Piazzapulita (un titolo che non aiuta a rasserenare gli animi e a infondere dolcezza nella società) non fa fact checking ma lascia parlare Nuzzi come se fosse un esperto di politiche criminali.
Infine quando un magistrato come Angelo Mascolo di Treviso afferma (sempre che sia vero che lo abbia detto) che lo Stato non c’è più, e che lui darebbe la pistola pure a sua figlia, perché di fronte a una così grave delegittimazione delle forze di Polizia e della sicurezza il ministro Minniti non ha chiesto al suo collega Orlando di mandare gli ispettori in quel Tribunale affinché quel giudice sia sanzionato disciplinarmente?
Del resto, se hanno venduto lo Stato al Mercato, il pubblico al privato, la politica agli affari, di che si lamentano adesso? Cederanno, vedrai senatrice De Petris, cederanno, i "governanti" alle facce di bronzo. Articoli di Norma Rangeri e Andrea Colombo.
il manifesto 1° aprile 2017
GLI EROI DEL MERCATONE TELEVISIVO
di Norma Rangeri
Quando si tocca il portafoglio anche le vecchie volpi gettano la maschera. Così il gran cerimoniere del senso comune televisivo, Fabio Fazio, esce allo scoperto e si fa intervistare per protestare contro le indebite ingerenze della politica negli affari della Rai. Affari nel senso proprio dei milioni di euro con cui l’azienda remunera i conduttori dei programmi. Il popolare conduttore parla di un «vulnus insuperabile, la rottura del patto di fiducia tra viale Mazzini e chi ci lavora».
Il lacerante grido di dolore denuncia poi l’inaudito, perché fissare un tetto agli stipendi pubblici «significa affermare che il settore pubblico deve rinunciare alle eccellenze professionali che il mercato può offrire».
Il tetto maledetto di cui si discute corrisponde alla miseria di 240mila euro lordi l’anno, più o meno 10mila euro netti al mese per i dirigenti Rai come per tutti i dirigenti pubblici.
Va da sé che il teleutente, obbligato a pagare il canone per assicurare un piatto di minestra a questi poveri lavoratori, sarà certamente preso da un sentimento di solidarietà verso questi dipendenti così ingiustamente colpiti da mamma Rai. E d’ora in poi guarderà ai fazio della tv come a dei poveri perseguitati.
Il coraggioso conduttore mostra finalmente il petto, e con sprezzo del ridicolo afferma di aver fatto una scoperta ancora più sconcertante dell’assalto al portafoglio, di aver cioè constatato «un’intrusione della politica nella gestione della Rai senza precedenti, chiedono di mandare via l’amministratore delegato, danno i voti ai servizi dei telegiornali…». Cose dell’altro mondo accadono alle nostre latitudini televisive e se non fosse per questa voce critica del piccolo schermo, saremmo rimasti a cuocere nella nostra italica ignoranza e non avremmo mai saputo che la politica dirige le danze del cavallo e del biscione.
Una cosa giusta, tuttavia, Fazio la dice: «Siamo pagati dalla pubblicità, non dal canone». Ecco sarebbe ora che chi è pagato dalla pubblicità andasse dove lo porta il conto in banca e che chi, invece, lavora in Rai lo facesse perché vuole offrire a chi paga il canone un servizio, informativo, culturale, di intrattenimento diverso dalla melassa che ci tocca vedere ogni giorno. A cominciare dalla domenica sera.
E non basta dire che c’è il telecomando per cambiare canale perché l’incestuoso rapporto tra partiti e televisione è semplicemente iscritto nel dna del sistema mediatico nazionale. Da Bernabei a Berlusconi la Rai è sempre stata il braccio ideologico del partito di maggioranza relativa, capace di permettersi anche qualche opposizione a sua maestà. Poi dagli anni ’80 del secolo scorso, polo pubblico e polo privato sono stati vasi comunicanti di un mercato inesistente, in un sostanziale duopolio-monopolio imperante. Alla Rai un canone e un tetto per la pubblicità, a Mediaset pubblicità senza confini, in un mercato fittizio presidiato dai partiti. Vasi comunicanti e indistinguibili nella comune rincorsa dell’audience.
In pratica Fazio sostiene che i programmi di cucina della Rai sono di ineguagliabile qualità rispetto a quelli della concorrenza e per questo è giusto che chi li conduce sia pagato anche fino a 3 milioni di euro. E che anche il suo programma, che cucina altri tipi di ingredienti, dall’ultimo presidente del consiglio all’ultimo disco, meriti di essere considerato un valore aggiunto dell’azienda pubblica. Un valore aggiunto senz’altro. Per lui e i suoi cari.
LE «STAR» DELLA RAI
SUL TETTO CHE SCOTTA
FAZIO GUIDA LA RIVOLTA
di Andrea Colombo
«Tv. Dopo il no dell’avvocatura a limiti dei compensi, la parola passa ora al governo. Il conduttore di «Che tempo che fa» contro il tetto dei compensi fissato a 240 mila euro l’anno. Giletti lo segue a ruota»
Fino a che non si arriva ai quattrini lo sfogo di Fabio Fazio su Repubblica è ineccepibile. Come si fa a negare che negli ultimi anni, non mesi come dice la star di Che tempo fa, si sia assistito a «un’intrusione della politica nella gestione della Rai che non ha precedenti»? Solo che Mr. Valium, come ebbe a definirlo Bono degli U2, non allude alla tasformazione del servizio pubblico, con il suo programma in primissima fila, in grancassa personale di Matteo Renzi. Quella non sembra creargli anzi alcun problema. La nota dolente è che «la politica si è intromessa nella gestione ordinaria di un’azienda, addirittura nei contratti tra viale Mazzini e gli artisti». Tradotto in italiano significa che la politica minaccia la sua cospicua prebenda, con l’obiettivo di tagliarla fino a 240mila euro. Una miseria.
Fazio non è solo. Sulla principale testata concorrente, il
Corriere della Sera, Massimo Giletti batte sullo stesso tasto, con una punta ricattatoria in più: «Se il tetto venisse applicato qualcuno potrebbe pensare che non è conveniente rimanere nella tv pubblica». Del resto anche Fazio, pur con l’abituale stile soave, aveva messo sul piatto della bilancia la medesima minaccia. Permanenza garantita fino a maggio. Poi si vede, anzi si conta, e dar vita a una produzione indipendente potrebbe rivelarsi un’ottima idea.
I conduttori a rischio di drastico impoverimento premono su una breccia già aperta dal parere dell’Avvocatura dello Stato, richiesto dal governo. Verdetto drastico: benissimo il tetto in questione per manager e dipendenti Rai, ma non per le star dal momento che, in forza di una norma varata con la Finanziaria del 2007, «la prestazione artistica o professionale che consenta di competere sul mercato» non deve essere soggetta a vincoli di sorta. Poco male se il risultato è un paradosso per cui i superpagati dall’azienda pubblica sono apprezzati grazie alle imperiose leggi del mercato, ma allo stesso tempo sono anche messi al riparo dalle intemperie proprie del mercato stesso.
La politica replica al j’accuse di Fazio almeno in apparenza a muso duro. Anzaldi, il renzianissimo segretario della Commissione di vigilanza, giura che «il Pd non ha smarrito la strada: non abbiamo riformato il canone per permettere a una piccola casta di sopravvivere». Brunetta compensa il noto malanimo di Forza Italia per il presentatore più apertamente Pd che ci sia chiamando in causa anche il ben più amato da Arcore Bruno Vespa: “Vogliamo chiarezza sui maxstipendi della Rai, per i dj come Fazio e per i giornalisti come Vespa. Se vogliono il mercato che vadano sul mercato». I toni più duri arrivano dall’M5S, che ironizza sul «coraggio da leone» che il solitamente mansueto Fabio scopre «solo quando gli toccano i soldi: non risulta che per lui la lottizzazione fosse un problema», e soprattutto da Sinistra italiana.
Per la capogruppo al Senato Loredana De Petris, “la rivolta delle star è scandalosa. Sarebbe però ancora più grave e invierebbe un messaggio devastante se il governo cedesse a pressioni e ricatti». Il governo farà sapere se intende cedere oppure no solo il 15 aprile. Per ora mantiene il silenzio ed evita di replicare all’intemerata di Fazio. Nel cda, dal quale proviene la delibera della discordia, ci sono posizioni diverse. Franco Siddi ammette sì che «tetto o no i compensi milionari dovranno essere valutati con grande attenzione», però boccia la strada sin qui indicata perché “ha introdotto una camicia di forza», rischia «di privare la Rai dei migliori talenti sul mercato» e «di essere un favore alle componenti commerciali del sistema».
Arturo Diaconale, anche lui consigliere Rai, è di parere opposto: «Le dichiarazioni di Fazio e Giletti sono la conferma che dobbiamo mantenere la posizione. Se vogliono stare sul mercato, allora ci stiano. Se ci sarà un intervento del governo ci atterremo, ma da solo il parere dell’Avvocatura per noi non basta. Per l’applicazione della delibera la deadline è aprile. Il governo ha un mese».
Entro il mese, quasi certamente, l’intervento del governo ci sarà. In fondo, ben prima delle star, era stato il Mef a suonare l’allarme. Urge smerciare all’estero, e di fronte a questo imperativo non c’è tetto che tenga.
«». MicroMega, 28 marzo 2017 (c.m.c.)
Prefazione di Luciano Gallino all'ebook "Per una moneta fiscale gratuita" a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini, edito da MicroMega nel 2015.
Questo libro a più voci osa proporre, nientemeno, che allo scopo di combattere la disoccupazione e la stagnazione produttiva in corso lo stato, massima istituzione politica, si decida a fare in piccolo qualcosa che le banche private fanno da generazioni in misura immensamente più grande: creare denaro dal nulla – adottando però modi, le banche, che non aiutano a combattere né l’una né l’altra.
Scegliendo di entrare nella zona euro, lo stato italiano sì è privato di uno dei fondamentali poteri dello stato, quello di creare denaro (che nella nostra lingua chiamiamo moneta quando ci riferiamo a denaro che ha una sua specifica connotazione nazionale, tipo la sterlina, la corona o il franco svizzero).
Per gli stati dell’eurozona, in forza del Trattato di Maastricht soltanto la BCE può creare denaro in veste di euro, sia esso formato da banconote, depositi, regolamenti interbancari o altro; a fronte, però, del divieto assoluto, contenuto nell’art. 123 (mi riferisco alla versione consolidata del Trattato) di prestare un solo euro a qualsiasi amministrazione pubblica – a cominciare dagli stati membri. Per quanto attiene alle banche centrali nazionali della zona euro, esse non possono più emettere denaro; nondimeno sono libere di ricevere miliardi in prestito dalla BCE a interessi risibili. Al tempo stesso accade che le banche private abbiano conservato intatto il potere di creare denaro dal nulla erogando crediti o emettendo titoli finanziari negoziabili.
Tutto ciò ha messo gli stati dell’eurozona in una posizione che si sta ormai rivelando insostenibile. Debbono perseguire politiche economiche fondate su una moneta straniera, appunto l’euro, ma se hanno bisogno di denaro debbono chiederlo in prestito alle banche private, pagando loro un interesse assai più elevato di quello che esse pagano alla BCE. Vari stati della UE – nove per l’esattezza, tra cui Regno Unito, Danimarca e Svezia - hanno invece scelto di restare fuori dall’euro e non a caso hanno affrontato con maggior successo la lotta alla crisi.
Le banche private creano denaro in due modi.[1] Il modo più noto e discusso, in specie a causa del ruolo che esso ha avuto nello scatenare la crisi del 2007, consiste nel concedere un credito, senza togliere un solo euro ad altri correntisti o al proprio patrimonio. L’operazione consiste semplicemente nell’inscrivere sul conto corrente di qualcuno, con pochi tocchi al computer, una certa somma a titolo di prestito. La stessa somma figurerà nel bilancio della banca da un lato come passivo (la somma che la banca si è impegnata a mettere a disposizione del cliente), dall’altro come un attivo (la somma che il cliente ha promesso di restituire). Si stima che il denaro così creato rappresenti nella UE (in questo caso l’eurozona più i paesi non euro) circa il 95 per cento di tutto il denaro in circolazione. Al confronto, le banconote stampate dalla BCE, di cui la TV ci ripropone l’immagine dieci volte al giorno, sono bruscolini.
Un altro modo di creare denaro da parte delle banche private, assai meno compreso e discusso del precedente, anche tra gli economisti, consiste nell’emettere prodotti finanziari che possono venire convertiti facilmente in denaro liquido. Si tratti di obbligazioni aventi per collaterale un debito ipotecario (CDO), di titoli garantiti da un attivo (ABS), di certificati di assicurazione del credito (CDS) o di un qualsiasi altro titolo “derivato” (nel senso che il suo valore deriva dall’andamento sul mercato di un’entità sottostante) inventato dagli alchimisti finanziari, esso può venire venduto in qualsiasi momento al suo valore di mercato. Di solito, o meglio in media, quest’ultimo è di molto inferiore al valore nominale (o nozionale, come dicono gli addetti ai lavori) del titolo, ma nell’insieme si tratta pur sempre di cifre colossali.
A fine 2008, ad esempio, l’ammontare nominale dei derivati “scambiati al banco”, cioè al di fuori delle principali borse, si aggirava sui 680 trilioni di dollari, mentre il loro valore di mercato superava i 32 trilioni – corrispondenti, all’epoca, a oltre la metà del Pil del mondo. La facilità con cui è possibile a chiunque trasformare i derivati in liquidità ha indotto un economista austriaco, Stephan Schulmeister, a definirli una forma di “denaro potenziale”. Ciò rende la distinzione cara a molti economisti tra “denaro” (che è liquido) e “patrimonio finanziario” (che invece non lo sarebbe) del tutto priva di senso.[2]
Personalmente credo che la definizione meno problematica dei Certificati di Credito Fiscale che gli autori propongono lo stato italiano emetta, nella misura di un centinaio di miliardi il primo anno, e 200 miliardi l’anno in seguito, sia appunto quella che vede in essi una forma di “denaro potenziale”. I CCF sono distribuiti gratuitamente a vari gruppi di popolazione, a cominciare dai disoccupati o dai giovani in cerca di prima occupazione, e ad imprese che si impegnino ad assumere nuovo personale per realizzare (piccole ma numerose) opere pubbliche.
Trascorsi due anni dall’emissione, i CCF possono venire utilizzati per pagare qualsiasi tipo di imposte o tasse dovute allo stato, a regioni o comuni. Ma sin dal momento della loro emissione essi possono venire venduti a terzi, utilizzati come mezzo di pagamento, versati a un creditore a titolo di collaterali e altro. La loro convertibilità in denaro contante o moneta elettronica è istantanea. Il risultato dell’operazione è che nell’economia verrebbero immessi a regime 200 miliardi di denaro potenziale che può diventare in breve denaro fresco, destinato non alla speculazione o ad accrescere l’accumulazione di patrimoni privati, bensì a sostenere in modo mirato e selettivo il soddisfacimento di quelli che Keynes chiamava “bisogni assoluti” da parte di strati di popolazione in difficoltà, e di piccole imprese.
Oltre ad essere erogato gratuitamente dallo stato, il denaro potenziale costituito dai CCF presenta diversi vantaggi rispetto a quello emesso a fiumi dalle banche private in forma di derivati o altro. Proverò a indicarne alcuni:
1) Il loro valore non è soggetto ad alcun rischio di svalutazione sul mercato dei titoli, sia quello borsistico che quello OTC (dove si scambiano i titoli “al banco”). Un CCF da 100 euro alla fine varrà sempre 100 euro, qualsiasi cosa accada sui mercati. Dove invece può accadere che una CDO o un CDS che al momento dell’emissione valevano 100, tempo dopo, quando si vuole rivenderli, valgano la metà o meno.
2) Il denaro potenziale rappresentato dai CCF è denaro legalmente “pieno” (nel senso che si applica all’espressione “legal tender”) poiché essi vengono per definizione accettati per pagare le tasse allo stato. Che è il maggior riconoscimento a cui qualsiasi forma di denaro possa pretendere, quale che sia la sua apparenza o denominazione come moneta circolante in una nazione.
3) I CCF appresentano una prima riconquista da parte dello stato (modesta, ma l’importante è cominciare) del potere di creare denaro a fronte del potere assoluto che finora hanno detenuto le banche private. Questo non sarebbe soltanto un fatto tecnico: sarebbe un evento politico di prima grandezza.
4) I CCF costituirebbero un primo passo indolore, o se si vuole sperimentale, in direzione di una riforma incisiva del sistema finanziario in essere, resa indispensabile dai suoi gravi difetti strutturali (su questo punto essenziale ritorno poco oltre per concludere).
5) Diversamente dai comuni crediti bancari, per i quali la destinazione del credito erogato da parte del debitore è quasi sempre indifferente, fatta salva (e non sempre) la solvibilità di quest’ultimo, i CCF verrebbero emessi per finanziare specifici progetti di utilità collettiva.
La proposta dei CCF non nasce dal nulla. Tiene conto degli studi in materia del Levy Institute, uno dei più noti dipartimenti di economia degli Stati Uniti, e del gruppo di New Economic Perspectives, in specie i lavori di Warren Mosler e L. Randall Wray, che ha studiato l’introduzione in Argentina, ai tempi della crisi, di titoli per certi aspetti simili ai CCF. Tra i precursori dei CCF sono stati ampiamente esaminati i TAN (Tax Anticipation Notes ossia Titoli di Anticipo Tasse), usati per decenni negli Stati Uniti. Quando uno stato o anche un comune di laggiù vuol realizzare un determinato progetto – per dire, ristrutturare un ospedale o ampliare un parco pubblico – ma ha problemi di bilancio, emette una certa quantità di TAN con i quali paga in tutto o in parte le imprese che ci lavorano.
A suo tempo, quando lo riterranno conveniente, queste ultime li useranno per saldare debiti fiscali. Una importante differenza dei TAN a confronto dei CCF è che i primi sono emessi in generale da un singolo ente per un valore limitato – in media alcune centinaia di milioni di dollari – mentre nel caso dei CCF si parla di centinaia di miliardi. Inoltre hanno come scopo un singolo progetto ben delimitato, laddove i CCF non hanno, per così dire, confini prestabiliti. Ciò nonostante, nel febbraio 2015 studiosi del Levy Institute hanno suggerito al ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, di emettere una buona dose di TAN per fronteggiare la carenza di liquidità che affligge il paese. Una firma di punta del “Financial Times”, Wofgang Munchau, ha approvato l’idea.
Anche in Europa vari autori si sono soffermati sul concetto di “moneta fiscale”. Tra loro Bruno Théret del CNRS è lo studioso i cui argomenti hanno forse i maggiori contatti con quelli che sorreggono la proposta dei CFF. Vale la pena di citare un suo passo: «Il federalismo fiscale come noi lo proponiamo, in sintonia con diverse esperienze storiche, propone una rottura del monopolio bancario privato dell’emissione di moneta. Esso suppone che gli stati membri dispongano della capacità di emettere una loro propria moneta detta ‘fiscale’ perché garantita dalle loro entrate fiscali. L’idea soggiacente è che le entrate fiscali di domani (entrate anticipate) possono servire di garanzia per una iniezione monetaria fatta oggi. Le monete così create, appunto perché la loro circolazione è ristretta al territorio nazionale (o regionale), contribuirebbero a a rilanciare l’attività in una economia che soffre per la recessione e la sotto-occupazione.»[3] Va inoltre ricordato che due degli autori qui presenti hanno pubblicato nel 2014 un corposo libro sul tema dei CCF.[4] La proposta dei CCF, in sostanza, ha spalle solide.
Nei mesi scorsi diversi commentatori della proposta in questione, partendo dall’appello diffuso dai promotori che viene riprodotto all’inizio del volume, si sono soffermati soprattutto sul fatto se i CCF siano o meno una moneta parallela all’euro, se siano in contrasto con le norme UE, se rappresentino o meno un fattore di inflazione e altro. Si tratta, oso dire, di questioni secondarie. La questione centrale è che questa proposta rappresenta nella UE il primo tentativo concreto di togliere alle banche il potere esclusivo di creare denaro in varie forme, per restituirlo almeno in parte allo stato.
E’ una delle maggiori questioni politiche della nostra epoca. Di essa si discute sin dall’esplosione della Grande Crisi Globale (GCG) del 2007, e il nucleo della discussione è la necessità di procedere a drastiche riforme del sistema finanziario, inclusa la sua parte in ombra (equivalente come totale di attivi più o meno a quella operante alla luce del sole),[5] prima che esso provochi una nuova crisi. Le lobbies bancarie internazionali, più l’incompetenza o la complicità dei governi, hanno finora bloccato qualsiasi serio intervento in tale direzione. La riforma di Wall Street, basata sulla legge Dodd-Frank del 2010, non ha minimamente impedito al sistema bancario di diventare a tutt’oggi ancora più grosso, complesso e opaco di quanto non fosse prima del 2007 – appunto le tre caratteristiche che hanno fornito il materiale esplosivo per la GCG.
Le riforme in discussione nei parlamenti di Francia, Germania e Regno Unito; l’Unione Bancaria europea da poco varata; le norme di Basilea 3 (più di 500 pagine al posto delle 30 di Basilea 1), equivalgono al tentativo di sollevarsi dalla palude tirandosi per il proprio codino – tentativo riuscito finora, dicono, soltanto al barone di Münchhausen. Al confronto, la proposta dei CCF è un campione di concretezza e aderenza ai problemi reali soggiacenti alla crisi della Ue. Meriterebbe quanto meno di venire seriamente dibattuta.
Anche perché nei riguardi delle riforme del sistema finanziario il vento, da vari segni, sta forse cambiando. Il 15 aprile 2015 la senatrice democratica Elizabeth Warren ha tenuto al Levy Institute una conferenza di eccezionale vigore sul tema “Il lavoro non finito della riforma finanziaria.” Mai un membro influente del Congresso si era spinto così avanti nel chiedere interventi risolutivi in ordine ad alcuni dei principali vizi strutturali del sistema finanziario. In sintesi la senatrice Warren ha chiesto di porre finalmente termine al principio del «troppo grandi [le banche] per lasciarle fallire»; di dividere chiaramente le istituzioni depositarie dalle banche di investimento – che è il dispositivo introdotto dalla legge Glass-Steagall del 1933, abolita da Clinton nel 1999 dopo che Reagan e i suoi avevano già provveduto a svuotarla di ogni efficacia; di impedire alle istituzioni finanziarie di ingannare le persone; di denunciare il lassismo dei regolatori i quali «allorchè le piccole banche infrangono la legge… non esitano a chiudere le banche e gettare i dirigenti in prigione… ma non lo fanno per le maggiori istituzioni finanziarie». A queste si limtano a dare “uno schiaffetto sul polso” e dire “per favore non fatelo di nuovo”.[6]
Un altro segno di possibili mutamenti sul fronte delle riforme finanziarie proviene dall’Islanda. Su richiesta del Primo ministro, è stato redatto e pubblicato a metà marzo 2015 un lungo rapporto intitolato La riforma monetaria – Un miglior sistema monetario per l’Islanda. Il rapporto avanza l’idea che il miglior modo per riformare la finanza consista nell’eliminare del tutto il potere delle banche private di creare denaro, accogliendo la proposta delle associazioni del circuito “Positive Money”, molto attivo nel Regno Unito ma presente in forze in altri 17 paesi, dalla Germania alla Svizzera.[7]
La proposta consiste nel restituire per intero allo stato, ad una data prefissata, la sovranità esclusiva quanto a creazione di denaro. Le banche continuerebbero a fare il loro mestiere di accogliere depositi, custodirli, assicurare i flussi di pagamento, ma non potrebbero prestare ovvero dare a credito nemmeno un soldo che non esista già. Il credito potrebbe derivare soltanto o dal loro patrimonio, oppure da risparmiatori che consentono a che il loro denaro sia prestato a terzi, con un minimo di rischio compensato da un tasso adeguato di interesse. La cosa interessante è che il rapporto è caldamente appoggiato da Adair Turner, il quale non è l’ultimo venuto, essendo stato dal 2008 al 2013 presidente dell’Autorità per i Servizi Finanziari del Regno Unito. D’accordo, l’Islanda è un paese piccolo, e la crisi del 2007 l’ha colpita con eccezionale durezza. Ma il problema di cui si occupa il rapporto è assolutamente generale.
Bisogna lasciare la situazione qual è, o convenire con Adair Turner che «la creazione di denaro è troppo importante per venire lasciata ai soli banchieri»?[8] Un interrogativo al quale la proposta qui contenuta dei CCF non si limita a rispondere positivamente, ma indica pure una strada praticabile per attuare un principio basilare in essa insito: cominciare su scala limitata a restituire allo stato il potere sovrano di emettere denaro, allo scopo di ovviare rapidamente ai disastri che le politiche di austerità hanno prodotto.
NOTE
[1] Sui diversi generi di denaro creato dalle banche v. L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011, spec. cap VII, e Il colpo di stato di finanze e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013, p. 105 sgg.
[2] S. Schulmeister, Geld als Mittel zum (Selbst)Zweck, in K. P. Liessmann (a cura di), Geld. Was die Welt im Innersten zusammehalt, Zolnay, Vienna 2009, p. 168 e passim.
[3] B. Théret, con la collaborazione di W. Kalinowski, De la monnaie unique à la monnaie commune. Pour un fédéralisme monetaire européen, Institut Veblen pour les reformes économiques, Parigi 2012, pp. 4-5. Corsivo mio.
[4] M.Cattaneo, G. Zibordi, La soluzione per l’euro. 200 miliardi per rimettere in moto l’economia italiana, Hoepli, Milano 2014.
[5] Cfr, Gallino, Il colpo di stato…, op. cit. , cap. 4.
[6] E. Warren, The Unfinished Business of Financial Reform, relazione tenuta il 15/4/2015 alla 24a Conferenza annuale in onore di Hyman P. Minsky, passim. Il testo è disponibile nel sito del Levy Institute.
[7] Un buon punto di partenza per esplorare questo circuito internazionale è il sito inglese http://www.positivemoney.org/.. L’opera più approfondita e attuale in tema di ritorno alla sovranità monetaria dello stato è J. Huber, Monetäre Moderniesierung. Zur Zukunft der Geldordnung: Vollgeld und Monetative, 3a ed., Metropolis, Marburg 2013.
[8] A. Turner, Foreword a F. Sigurjónsson, Monetary Reform – A better monetary reform for Iceland, Reykjavik 2015, p. 8.
(28 marzo 2017)
«il manifesto
Cosa c’è di così drammaticamente ripugnante nell’assassinio del ragazzo ventenne di Alatri davanti una discoteca? Questa volta non si tratta dell’ennesimo caso di femminicidio cui la cronaca nera ci ha (ahimé!) «abituati».
La vittima è un uomo, anzi un poco più di adolescente che ha avuto il torto (se così si può chiamare) di reagire a qualche strattone, a qualche sopruso davanti (la motivazione originaria non è ancora chiara) il bancone del bar della discoteca, mentre era in compagnia della sua ragazza.
La disputa o l’offesa che sia, sarebbe dovuta concludersi al più con qualche spintonata e invece c’è stato il morto, per di più massacrato da un branco (così si chiama oggi a dimostrazione del deficit di umanità) di altri giovani ragazzi. L’indignazione è scontata, come l’annunciata fiaccolata; lo è meno l’omertà dei cittadini (almeno sul primo momento), o il desiderio di vendetta. È facile indignarsi, chiedere che vengano inflitte pene esemplari ai mascalzoni di turno, ancorché noti teppisti in libera circolazione considerata la precedente condanna di uno di loro.
Più difficile è capire da quale immensa frustrazione è scaturita quella rabbia cieca e assassina. Deve essere stata, per quei ragazzi del branco, una giornata «eroica», l’eroismo dell’indecenza: «gliel’ha abbiamo fatta pagare a quello; adesso il paese sa chi siamo!»
Il branco ha avuto il suo giorno di gloria che ha riscattato serate e serate di «sbatti il muretto», di canne, di alcol, di noia, come capita di vedere, di venerdì e sabato notte, passando veloci in auto per le grandi città: capannelli di ragazzi davanti ai bar, centinaia quasi, col bicchiere in mano a parlare, di che? Ecco il punto! Non ne sappiamo niente (ma non per questo vogliamo assolvere i violenti addossando le colpe alla società). Ma questa violenza diffusa, fattasi molecolare, ci interroga al di là del drammatico episodio di cronaca nera.
Non sappiamo come ragiona una persona giovane che non trova lavoro; non sappiamo cosa passa per la testa di un ragazzo cui è stato rubato il futuro e per quanto si darà da fare, non troverà mai un lavoro decente, avrà difficoltà a formare una famiglia e gli sarà negato anche il desiderare di fare figli.
Noi non lo sappiamo, perché le nostre raffinate analisi politiche non raggiungono questo mondo di disperazione, di totale deprivazione di tutto, perfino dei desideri. E così è caccia all’albanese di turno, o, come in questo caso, allo sventurato bravo ragazzo che ha protestato al bar per quello che riteneva uno sgarbo, e che ancora pensava di far valere le sue ragioni e non mostrarsi codardo davanti alla sua giovane compagna (e almeno questa volta non sarebbe questione di possesso, semmai di antica galanteria maschile).
C’è qualcosa di più profondo che non una semplice manifestazione della «peggio gioventù», che chiama in causa noi adulti. Che cosa passa per la testa di ragazzi che hanno rinunciato a studiare e a trovare lavoro? Il Sig. Poletti ha fatto la sua analisi politica da gran sindacalista che è stato: andassero a giocare a calcetto o a cercare lavoro all’estero. O si massacrassero tra loro questi inutili giovani cui nessuno desta attenzione: vite da scarto come chiamava Bauman queste figure invisibili prodotte dalla barbarie neoliberista e dalla sua ideologia della totale libertà senza limiti. Come quella di massacrare per gioco, o per vincere la noia, o per esibire un trofeo, una giovane vita appena ventenne.
Noi non abbiamo la più pallida idea di come si possa pensare e agire in una simile disperazione fatta ancora più cieca da una mancanza di cultura che possa fornire almeno qualche protezione dallo scatto di ferocia. Perché queste vite precarie sono anche afone, incapaci di esprimere il loro dolore, le loro sofferenze, i loro sentimenti. Ci stiamo abituando a tutto in questa epoca di grande realismo: è reale vedere mogli, amanti e compagne sgozzate da compagni gelosi e invidiosi, è reale contare, ogni giorno – spietata statistica -, le vittime di quei disperati che attraversano il Mediterraneo. E reale vuol dire normale: tutto ciò che accade è reale e tutto ciò che è reale è anche normale.
Sembra che il sindaco di Alatri abbia dichiarato alla televisione di non sapere dell’esistenza di quel locale nel suo paese; un paese di 29.000 abitanti, mica una metropoli. Anche questo è normale: che un sindaco di un piccolo comune ignori l’esistenza di una discoteca nella sua comunità.
Ma è poi una comunità questa? Perché se la tragedia arriva anche in questi piccoli paesi dove pensavamo che lo spirito di vicinato, quello di comunità, li mettesse al riparo dalla violenza della grande città, luoghi dove queste cose non sarebbero potute mai accadere, allora c’è qualcosa che non va nel clima del Paese fattosi incattivito, imbarbarito. E una fiaccolata non basta a dare risposta, tantomeno un desiderio collettivo di vendetta.
«Che cosa accade quando l’identità non è solo memoria del passato e specchio del presente, ma anticipazione di un futuro attraverso processi che prescindono dall’autonomia e dall’intenzionalità della persona interessata?».
la Repubblica, 31 marzo 2017, con postilla
Quando arrivano notizie che possono riguardare direttamente o indirettamente le nostre informazioni personali, dovremmo ormai sapere che non si tratta mai di vicende di poco conto, e che non basta considerarle solo dal punto di vista, pur rilevante, della privacy.
Così è per il recentissimo voto con il quale il Congresso americano ha ridotto in maniera radicale la tutela delle persone in relazione al trattamento dei loro dati, che ora possono essere raccolti, elaborati e fatti circolare senza che sia necessario ottenere preventivamente il consenso dell’interessato. Una decisione che ha provocato molte reazioni, che tuttavia non sono sufficienti per fugare le preoccupazioni per il futuro e che, comunque, non può essere sottovalutata limitandosi a sottolineare che la situazione italiana si colloca in un contesto, quello europeo, che si distingue da quello americano proprio per quanto riguarda gli strumenti di tutela di cui gli interessati possono servirsi.
È vero che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea considera la tutela dei dati personali come un diritto fondamentale, collocandolo nella parte da essa dedicata alla libertà. E che si insiste nell’affermare che «noi siamo le nostre informazioni». Ma questi riconoscimenti, in sé assai importanti, non sono sufficienti. Bisogna prendere le mosse dai mutamenti determinati dal fatto che la persona e il suo corpo sono ormai entrati a far parte della dimensione digitale, sì che proprio il corpo si presenta come un oggetto perennemente connesso per le informazioni che continuamente produce e trasmette.
Così non si determina soltanto una diversa percezione della stessa fisicità, ma diventano possibili anche violazioni gravi della libertà e della dignità della persona, se l’utilizzazione di informazioni altrui avviene senza specifiche e adeguate regole e tutele di cui gli interessati possono direttamente servirsi.
Chi può possedere e utilizzare legittimamente le informazioni? Il solo interessato o chiunque sia in condizione di servirsene? Un interrogativo, questo, che finisce con il riguardare la stessa libera costruzione della personalità, alla quale si riferiscono esplicitamente il paragrafo 2 della Costituzione tedesca e l’articolo 2 della Costituzione italiana e che per la sua ineliminabile attitudine dinamica certamente non può essere amputata del futuro, sottratta al potere individuale, mettendo così in discussione gli stessi principi fondativi dell’ordine costituzionale, in primo luogo quelli di dignità e autodeterminazione.
Arriviamo così ad alcune domande più puntuali, che rendono immediatamente percepibili le diverse questioni da affrontare. Che cosa accade quando un ininterrotto fluire di informazioni fa sì che l’identità sia sempre più spesso costruita e “posseduta” da altri? Che cosa è divenuta l’identità dopo il passaggio dal Web 1.0 al Web 2.0, dove la persona è immersa nelle reti sociali? Che cosa sta diventando l’identità nell’età del Web 3.0, di quell’”Internet delle cose” che si accinge non solo a moltiplicare la produzione e l’utilizzazione delle informazioni, ma sprigiona una capacità trasformativa del modo in cui essa è costruita? E che cosa accade quando l’identità non è solo memoria del passato e specchio del presente, ma anticipazione di un futuro attraverso processi che prescindono dall’autonomia e dall’intenzionalità della persona interessata?
Vi è un punto comune a tutte queste domande, che può essere sintetizzato ricorrendo ad un altro interrogativo: chi possiede o può possedere i nostri dati? Interrogativo che investe l’intera discussione sull’identità nei tempi moderni, e richiama l’attenzione sulle diverse modalità attraverso le quali si manifesta il tema della sua costruzione e gestione. Il punto estremo di questo processo può essere così rappresentato: l’identità si separa dalla consapevolezza e dall’intenzionalità della persona alla quale è riferita. L’identità si fa “oggettiva”, in qualche modo si spersonalizza?
Emerge una tensione tra costruzione/appropriazione dell’identità da parte di soggetti diversi dalla persona interessata e crescenti opportunità/bisogno di “mettere in scena” se stessi. Le implicazioni istituzionali di questa tensione sono evidenti. Dove si colloca il baricentro della garanzia giuridica, quale è il criterio di bilanciamento tra interessi/ diritti in conflitto? L’identificazione concreta di questi interessi e diritti si è venuta progressivamente complicando.
Il saldo punto d’avvio è stato rappresentato dal riconoscimento alla persona del diritto fondamentale «di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica» (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, articolo 8.2).
Si può dire che il passaggio dei dati personali nel potere/disponibilità di altri, in forme legittime, non ha come conseguenza l’esclusione della persona interessata. E non siamo di fronte soltanto ad un diritto di conoscenza, ma pure di controllo, nell’ambito di una situazione complessa che può essere definita anche come “cultura del disvelamento”.
Si realizza così una distribuzione di poteri, alcuni dei quali consentono alla persona interessata di intervenire attivamente nella gestione del bene costituito dai suoi dati in particolare grazie allo strumento della “rettifica”, la cui concreta operatività è stata ampliata non solo da interventi legislativi, ma soprattutto da prassi interpretative che l’hanno collocata in una dimensione che non riguarda la sola eliminazione di errori.
Muovendo da queste prime acquisizioni, si può ben dire che il tema della libera costruzione della personalità eccede la sola questione della identità. Se si riprende l’espressione “messa in scena”, non si può considerarla soltanto dal punto di vista della corretta rappresentazione pubblica della persona interessata, sia da parte degli altri soggetti che fanno circolare le sue informazioni, sia dal punto di vista del difficile e controverso diritto alla piena autorappresentazione. Con un ulteriore interrogativo sullo sfondo: quale rapporto tra sfera pubblica e sfera privata si determina per effetto di questi mutamenti?
postilla
Vance Packard, autore de I persuasori occulti (1957) è il sociologo americano che più chiaramente illustrò il nuovo potere della produzione di merci (delle grandi aziende capitalistiche) di manipolare i cervelli attraverso la pubblicità (e non solo) in modo di far nascere delle persone, ridotte a "consumatori", il desiderio di determinate merci. Il controllo dei dati personale è un ottimo strumento per potenziare la possibilità delle grandi imprese di inculcare nuovi desideri, bisogni, pulsioni nelle "teste impagliate" Vedi il poema di Thomas S. Eliot, Siamo gli uomini vuoti.
».
il manifesto, 30 marzo 2017 (c.m.c.)
Una giustizia minore e un diritto diseguale. L’approvazione, ieri, del decreto Orlando-Minniti sancisce l’introduzione nel nostro ordinamento di una sorta di diritto «etnico» per cui ai cittadini stranieri extracomunitari è riservata una corsia giudiziaria «propria» con deroghe significative alle garanzie processuali comuni. Deroghe non giustificabili in alcun modo con le esigenze di semplificazione delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale.
È questa la ragione principale che ha indotto me e Walter Tocci a non partecipare al voto di fiducia richiesto dal governo sulle misure di «Accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, e per il contrasto dell’immigrazione illegale». Con questo gesto abbiamo inteso esprimere il nostro giudizio fortemente negativo su un provvedimento di legge che introduce una profonda lesione nel nostro sistema di garanzie. Una normativa che, appunto, non prevede appello per il richiedente asilo che ha ricevuto un diniego alla domanda di protezione.
La possibilità di impugnare i provvedimenti adottati dalle Commissioni territoriali è limitata al primo grado e fortemente affievolita poiché, salvo casi eccezionali, non è previsto il contraddittorio: ovvero che il richiedente asilo compaia davanti al giudice e possa esercitare pienamente il suo diritto alla difesa.
Così una procedura che regola tutte le iniziative giudiziarie, comprese le liti condominiali, il furto di un chinotto in un supermercato e l’opposizione a una sanzione amministrativa, non viene applicata nel caso di un diritto fondamentale della persona, come la protezione internazionale, riconosciuta dalla nostra Costituzione.
L’alterazione di questa procedura e la sua riduzione a due gradi di giudizio ha conseguenze ha conseguenze pesanti sulla vita dei richiedenti asilo e sui diritti di cui sono titolari. Ne discende che un principio determinante per il nostro sistema di garanzie, vigente nell’intero ordinamento, viene negato proprio ai soggetti più vulnerabili. E volendo entrare ancor più nel merito della questione, quanto emerge nel corso del colloquio del richiedente asilo davanti alla Commissione territoriale, in alcuni casi e per una serie di ragioni, potrebbe non bastare per disegnare il quadro completo della vita di quella persona e far emergere gli aspetti più delicati da un punto di vista umanitario.
A questo serve l’udienza col giudice, e la presenza di un certo numero di esiti favorevoli al richiedente asilo in quella sede con il conseguente riconoscimento di una forma di protezione, nonostante la decisione della commissione territoriale, non può che confermare quanto sia indispensabile garantire quell’impianto complesso – con il contraddittorio e con i suoi tre gradi di giudizio – previsto dal nostro ordinamento.
Le esigenze di riduzione dei tempi di queste procedure, dato il contesto difficile e faticoso in cui il nostro Paese si sta muovendo e si muoverà nei prossimi anni, non vanno certo trascurate. Superare tutti i limiti evidenti emersi nella gestione del fenomeno migratorio deve essere un obiettivo per tutti perché migliorerebbe le condizioni di vita non solo dei migranti, ma anche dei territori coinvolti nell’accoglienza. Ma il risparmio del tempo nelle procedure non può corrispondere a un risparmio di garanzie e diritti.
il manifesto, 29 marzo 2017
Speriamo che i milanesi abbiano preso nota. La voce più autorevole ma inascoltata del mondo, dopo aver maltrattato i leader della Ue che festeggiano al capezzale di se stessi, ieri ha cercato la complicità di un milione di persone lungo un percorso studiato con molta cura. Non è un caso se non era previsto alcun incontro ufficiale con le autorità durante la storica visita a Milano di papa Bergoglio. Ha pontificato restando ai margini.
Quello che aveva da dire l’aveva già detto prima ancora di profferire verbo, la traccia del suo itinerario vale più di mille discorsi. E le sue prime parole, pronunciate la mattina in una cosiddetta “periferia difficile”, in via Salomone, sono significative quanto quelle recitate per la messa pomeridiana al parco di Monza davanti a centinaia di migliaia di persone. “Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Vi ringrazio per la vostra accoglienza, tanto calorosa. Grazie, grazie tante! Siete voi che mi accogliete all’ingresso in Milano, e questo è un grande dono per me”.
Quel “voi” sono due anziani, una famiglia musulmana con tre bambini e un’altra con un disabile molto grave, e poi un pezzo di popolo delle periferie che ai tempi del governo Renzi-Gentiloni-Minniti è più facile che venga premiato con un Daspo piuttosto che con una carezza papale. Francesco sta con gli ultimi, non dà peso al decoro, “il sacerdote cristiano è scelto dal popolo e al servizio del popolo”.
Il passaggio dall’estrema periferia est alla cattedrale di Milano è salutato da migliaia di persone sorridenti in sciarpetta bianco-gialla (marketing divino). Sono milioni di foto rubate. Mille scritte di benvenuto. La pipì del papa in un bagno chimico. Bambini scaraventati tra le sue braccia. Un piatto di risotto. I carabinieri che lo circondano per un’istantanea che finirà appesa in chissà quale caserma. Regali e il servizio d’ordine col mal di testa.
In Duomo, seguito come un’ombra dal cardinale Scola, il pontefice ha incontrato quattromila religiosi della Diocesi ambrosiana, la più grande d’Europa. Ai preti, scalmanati con i cellulari sulla testa, ha fatto coraggio invitandoli a non temere le sfide, “si devono prendere come il bue per le corna, sono segno di una fede viva, le sfide ci aiutano a far sì che la nostra fede non diventi ideologica”. Fuori dal Duomo ha scherzato con le ottantamila persone rilassate sotto il sole, “la nebbia se ne è andata…le cattive lingue dicono che verrà la pioggia, ma non so…io non la vedo ancora”.
Dopo la recita dell’Angelus, nonostante il ritardo sulla tabella di marcia, il papa si è concesso un giro di piazza sulla Papamobile scoperta per dare soddisfazione ai fans adoranti e ai turisti felici di portarsi a casa il ricordo di una brigata di suore svolazzanti disposte a mettersi in posa.
La terza tappa, prima della messa oceanica, al carcere di San Vittore. Era luogo privilegiato del cardinale Carlo Maria Martini. Lì il papa ha voluto incontrare tutti i detenuti (novecento, molti più di quelli che può “ospitare” il penitenziario) e ha mangiato con loro. Una tensione emotiva difficile da raccontare. Risotto allo zafferano, cotoletta e patatine, “vi ringrazio mi sento a casa con voi”. Dopo pranzo, l’ufficio del cappellano, don Recalcati, è stato trasformato in una camera da letto per un po’ di meritato riposo.
Nel parco di Monza, a metà del suo tour de force, il papa è affaticato ma dà soddisfazione a una folla immensa. L’invito è a sovvertire il presente, a credere all’incredibile, come incredibile era stato l’annuncio a Maria di una gravidanza molto speciale. “Guardiamo al presente con audacia”. Il mondo così non va, il mondo “specula” dice Francesco. “Specula sul lavoro, sulla famiglia, sui poveri, sui migranti, sui giovani”. Ma non bisogna rassegnarsi a vivere da spettatori, aspettando che “smetta di piovere”. Non c’è nulla di naturale in quello che sta accadendo al mondo.
Il suo è un appello a ritrovare la memoria, “a guardare il nostro passato per non dimenticare da dove veniamo, questa terra e la sua gente hanno conosciuto il dolore di due guerre mondiali” e quindi non bisogna rimanere “prigionieri dei discorsi che seminano fratture e divisioni come unico modo di risolvere i conflitti”. Invita ad abbracciare i confini e ad accogliere. “Il popolo di Dio” è un popolo “multiculturale e multietnico”, è un popolo “chiamato ad ospitare le differenze, ad integrarle con rispetto e creatività, a celebrare la novità che proviene dagli altri”. Non ha “paura di abbracciare i confini, le frontiere, è un popolo che non ha paura di dare accoglienza a chi ne ha bisogno”.
La fine della giornata è nell’intimità dello stadio Meazza, con 80 mila cresimandi. Ha parlato con i bambini e li ha invitati a giocare senza fare i bulli. Oggi, domenica, come pretende il suo datore di lavoro, per papa Francesco sarà giorno di riposo. Assoluto.
«il manifesto
Ci sono fatti illuminanti su quello che sarà il nostro futuro se non si contrastano prassi e culture che si stanno diffondendo in modo preoccupante. Il primo fatto è accaduto a Ventimiglia, confine ligure con la Francia e, per questo, luogo di «stazionamento» di molti migranti in attesa di varcare il confine.
Ventimiglia e la zona dei «Balzi rossi» sono stati nell’estate scorsa sotto i riflettori per le proteste contro il blocco della frontiera francese poste in essere da migranti, dapprima accampati sulla spiaggia e successivamente ripiegati in città dove, peraltro, le strutture di accoglienza erano e sono insufficienti. Così molti dormono in strada e vengono sfamati dalla Caritas o da una mensa parrocchiale. Ma anche queste non bastano. Perciò ogni sera volontari francesi provenienti dalla Val Roja distribuiscono a chi ne ha bisogno panini, acqua e the.
Ma a Ventimiglia vige una ordinanza, emessa dal sindaco l’11 agosto 2016, che vieta la distribuzione di cibo ai migranti e così – incredibile ma vero – nei giorni scorsi tre volontari sono stati denunciati per il reato di «inosservanza dei provvedimenti dell’autorità» previsto all’art. 650 del codice penale.
All’altro capo dell’Italia, nel mare che divide la Sicilia dalle coste africane e in acque internazionali, si muovono da qualche tempo alcune navi di organizzazioni non governative che vigilano su eventuali naufragi e, nel caso, soccorrono i naufraghi o recuperano i corpi di chi non ce l’ha fatta.
Anche qui è accaduto che la Procura della Repubblica di Catania abbia aperto una «indagine conoscitiva» sulle organizzazioni interessate sospettate di favorire l’immigrazione clandestina se non addirittura – come sostengono alcuni commentatori – di agevolare gli scafisti.
Questa criminalizzazione della solidarietà che, paradossalmente (o forse no), colpisce chi cerca di sopperire alle lacune delle istituzioni ha dei riferimenti precisi. Essa, infatti, è ormai regola negli Stati Uniti, dove il diritto penale sempre più persegue non solo i poveri ma anche chi vuole esercitare il diritto (o il dovere morale) di aiutarli.
Il fenomeno è descritto in termini analitici, e con ampia esemplificazione, in un recente e lucido libro di Elisabetta Grande (Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Edizioni Gruppo Abele, 2017) da cui si apprende, tra l’altro, che in molti Stati il divieto di camping penalmente sanzionato colpisce non solo l’homeless che vi fa ricorso, ma addirittura il proprietario che consenta al senza tetto di dormire in tenda sul proprio terreno per più di cinque giorni consecutivi, o che analogo divieto si estende all’autorizzazione a parcheggiare nel proprio spazio privato l’auto utilizzata da un homeless come abitazione.
Quanto alla somministrazione di cibo ai poveri, poi, si è assistito finanche all’arresto di un novantenne, fondatore di un’organizzazione benefica, colpevole di servire pasti caldi agli homeless su una spiaggia e, come lui, di altri attivisti dalla Florida al Texas o alla richiesta di cifre altissime, come tassa per l’occupazione di suolo pubblico richiesta, in California e in South Carolina, alle organizzazioni che distribuiscono cibo nei parchi.
Il meccanismo della criminalizzazione è lo stesso adottato dal sindaco di Ventimiglia: l’adozione di ordinanze contenenti proibizioni dettate da motivazioni per lo più speciose, come quella di garantire la sicurezza dei consociati, messa in pericolo dall’assembramento dei bisognosi che si recano a mangiare, o addirittura quella di proteggere la sicurezza alimentare o la dignità degli homeless, che meriterebbero un cibo controllato e un luogo coperto in cui consumare il pasto (tacendo che cibi e luoghi siffatti in realtà non esistono).
La cosa più inquietante è che quelle ordinanze, comparse la prima volta alla fine degli anni Novanta, hanno visto di recente una notevole intensificazione, con un aumento del 47% nel solo periodo tra il 2010 e il 2014, parallelamente al crescere della povertà e del numero di soggetti esclusi anche dai buoni alimentari assistenziali.
Ci fu, nella storia, un tempo (nell’Alto Medioevo) in cui la povertà divenne fonte di diritti, tanto da far assurgere il patrimonio della Chiesa a «proprietà dei poveri», destinata a chi non era in grado di mantenersi con il proprio lavoro e non alienabile neppure dai vescovi. Ma fu eccezione: quando il diritto si è occupato dei poveri lo ha fatto, per lo più, in chiave di punizione e di difesa della società.
Ciò è stato messo in discussione, nel nostro Paese, dalla Costituzione repubblicana, che pone a tutti un dovere di solidarietà e indica l’uguaglianza sociale come obiettivo delle istituzioni.Sarebbe bene non dimenticarlo, anche da parte dei sindaci e dei procuratori della Repubblica.
« la Repubblica
Vi è una parola — “schiavitù” — che troppe volte viene pronunciata di questi tempi con imperdonabile leggerezza. Ma questo non avviene solo perché ad essa si ricorre anche in maniera impropria o enfatica. Accade piuttosto perché all’uso di quella parola, che solitamente accompagna la descrizione di casi davvero drammatici, raramente poi seguono tutte quelle indicazioni e quei comportamenti che sarebbe ragionevole attendersi come una dovuta reazione individuale, e soprattutto sociale, a situazioni giustamente presentate come intollerabili, in contrasto evidente con principi e diritti fondativi dei nostri sistemi sociali e istituzionali.
E, così facendo, si corre il rischio di far apparire il parlar di schiavitù piuttosto come un modo troppo facile per attirare l’attenzione, per fare scandalo a buon mercato, gettando sulla realtà uno sguardo che rischia di mettere insieme situazioni assai diverse e così banalizza quelle più gravi, facendole anche percepire come se si trattasse di fenomeni che, nel loro complesso, accompagnano fatalmente la vita sociale e che, per questa ragione, dovrebbero essere ordinariamente accettati.
A questa semplificazione pericolosa bisogna sfuggire. E questa è la ragione per cui, scrivendo nel 2000 la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si volle che quell’antica parola comparisse nel suo articolo 5, mostrando così una consapevolezza culturale e una capacità di guardare lontano che impongono ancor oggi di fare riferimento ad un principio esplicito che impedisca di considerare il ricorso alla schiavitù come se si trattasse di una scelta da valutare solo dal punto di vista dell’opportunità politica, mentre invece si tratta della violazione radicale di un principio dal quale nessun sistema democratico può impunemente separarsi.
Ma è realistico discutere oggi di schiavitù come questione sociale e istituzionale? La risposta può darla qualsiasi spettatore abituale della televisione, al quale quasi ogni giorno vengono presentati programmi che mostrano proprio situazioni in cui vi è un uso oppressivo del potere che nega alle persone non solo diritti, ma la loro stessa umanità. Migranti e appartenenti a minoranze discriminate testimoniano più di altri questa situazione. Non sono più cittadini, non sono neppure sudditi, ad essi viene negata l’appartenenza stessa all’umanità. E l’Unione europea manca alla promessa solennemente fatta nel Preambolo della sua Carta dei diritti fondamentali, dove si afferma che appunto l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”.
Non sono questioni lontane da noi. In Puglia, nella regione dalla quale giunse l’alfiere del moderno sindacalismo, Giuseppe Di Vittorio, è morta di fatica una bracciante, Paola Clemente, così come è accaduto ad altri che lavoravano senza regole e senza garanzie. Questi casi concreti non solo consentono alla discussione di sfuggire ad ogni rischio di astrattezza, ma la fanno divenire una riflessione obbligata sulla condizione umana, come ha voluto la Costituzione con molti e precisi riferimenti.
Non ricorderemo mai abbastanza quel che è scritto nel suo articolo 36. «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Ho sottolineato tre parole di questo articolo, perché mostrano con straordinaria evidenza il senso attribuito al lavoro nel sistema costituzionale, come misura d’ogni azione privata o pubblica, come riferimento necessario per la libera costruzione della personalità, per quel “pieno sviluppo della persona umana” di cui si parla esplicitamente nell’articolo 3. Altrimenti, dall’esistenza libera e dignitosa si rischia di passare ad una sorta di “grado zero” dell’esistenza, alla retribuzione come mera soglia di sopravvivenza, come garanzia solo del “salario minimo biologico”, del “minimo vitale”.
Ha colto bene questo punto Susanna Camusso con la decisa opposizione della Cgil ai voucher, alla spersonalizzazione del lavoro, allo scarto così determinato tra retribuzione e persona/lavoro. Ed aveva altrettanto opportunamente proposto un referendum perché, trattandosi di una questione che tocca tutti i cittadini, era giusto che proprio tutti potessero responsabilmente dire la loro. Ma il governo è intervenuto con un decreto che, cancellando i voucher, evita il voto referendario, una via istituzionale che ormai troppi temono, parlando di una rischiosa contrapposizione tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, oggi enfatizzata anche per sottrarsi ad un tema istituzionale ormai ineludibile, quello della presenza di un popolo “legislatore”, che ha segnato in modo decisivo le dinamiche politico- istituzionali dell’ultimo periodo.
Tutto questo è avvenuto grazie anche al diffondersi di forme organizzative che, come ha dimostrato l’influenza dei “comitati per il No” nell’opposizione alle modifiche della Costituzione, sottolineano come anche nel nostro sistema possano assumere rilevanza decisiva gruppi o movimenti finalizzati al raggiungimento di un singolo, specifico obiettivo. Aprendo, però, un ulteriore problema: quello del futuro di questi movimenti una volta realizzato l’obiettivo per il quale erano stati costituiti. Problema che in questo momento stanno affrontando proprio i nostri “comitati per il No”.
Considerando come essi abbiano assunto come saldo punto di riferimento il rispetto della Costituzione e dei suoi principi, si può ritenere che una loro coerente proiezione verso il futuro debba tener ferma questa ragione d’origine. Non poche, infatti, sono in questo momento le questioni difficili e controverse proprio nella dimensione costituzionale.
Tra queste si possono qui ricordare almeno quelle derivanti dalla frettolosa modifica dell’articolo 81, con i conseguenti vincoli per l’azione pubblica in materia economica. Poiché non è formalmente possibile agire per una modifica referendaria, trattandosi di una norma costituzionale, la riflessione culturale e la progettazione politico- istituzionale dovrebbero mantenere vivo il tema e le questioni di principio che esso solleva, considerando piuttosto il contesto nel quale l’articolo 81 è collocato e agendo sulle norme ordinarie ad esso strettamente collegate in modo da ridurre almeno gli effetti negativi del mutamento.
L’azione dei comitati, in definitiva, può concretarsi in una sorta di “accerchiamento” di quell’articolo, confermando anche in questo modo l’efficacia concreta della loro presenza.
«I greci avevano “paidéia”, i romani “pietas”, gli illuministi “diritti”: è sempre il linguaggio la culla del cambiamento. Nel linguaggio resiste la culla del cambiamento e l’antidoto a Babele. Da “armonia” a “silenzio” così guariremo da Babele».
la Repubblica, 29 marzo 2017 (c.m.c.)
Le parole possono essere tante cose: parole di verità o di menzogna; parole che accendono o che spengono; di assoluzione e di condanna; parole che vivificano o che uccidono; che aprono o che chiudono; lievi come carezze o pesanti come pietre. Mai come in questo tempo l’umanità ha parlato: chiacchiere, giornali, radio e televisione, cellulari, web. La parola è il mezzo non unico ma certamente principale della comunicazione. Che cosa dobbiamo intendere per comunicazione? Non voglio fare dell’etimologia, se non per sottolineare che essa ha significato il passaggio da uno a un altro non di parole, ma di cose, per farle diventare “comuni”. Comunicazione significa fare comunanza di oggetti, proprietà, pensieri, informazioni, esperienze, sentimenti, conoscenze del più vario genere.
Con le parole non solo si comunica, ma anche ci si scomunica; non solo si passano verità, ma anche inganni; non solo ci si gratifica l’uno con l’altro, ma ci si denigra anche. Munifico è colui che è prodigo di doni, doni che possono essere buoni e cattivi, come i doni avvelenati. Ma il munus che sta nella comunicazione è anche compito, responsabilità. La società è un insieme di munera reciproci. A tutto questo servono le parole, quando non sono vuote parole. Teniamo dunque ben fermo questo concetto: le parole della comunicazione sono parole di reciprocità, reciprocità di doni e di responsabilità.
Ogni società in ogni sua epoca ha le sue parole-chiave. Nella Grecia classica era paidéia, l’educazione dell’uomo bello e buono a cui si collegavano il coraggio, l’abilità ginnica, la formazione filosofica e musicale, ecc. Nella Roma repubblicana la parola era, per l’appunto, res publica, cosa di tutti sostenuta dal consenso di tutti e finalizzata al bene di tutti. Nella Roma imperiale, era invece la secondo l’ideale che Virgilio associò alla virtù del “pio Enea” per alludere, adulandolo, a Ottaviano Augusto.
Nel Medio Evo, la vita si svolgeva intorno alla salus animarum, alla caccia agli eretici e alla crociata contro gli infedeli. Nella società feudale, le parole erano fedeltà e onore: fedeltà nei confronti del principe cui si doveva riconoscenza per i benefici ricevuti e onore nei confronti del ceto cui si apparteneva. Il Rinascimento scoprì la humanitas.
Gli uomini delle rivoluzioni promosse dai lumi della ragione, alla fine del ’700, scaldavano i propri cuori quando nominavano la umanità, con i suoi diritti imprescrittibili. L’epoca dei “risorgimenti” dell’Ottocento (tra cui il nostro Risorgimento) si è nutrita a sazietà della parola Nazione e della sua potenza. Poi, a missione compiuta, furono il progresso e la modernità, le parole mitiche su cui tutte le altre si orientavano, come aghi magnetici attratti da quest’unico polo.
Veniamo alle parole che usiamo oggi. Si può dire che siano “comunicative”? Se teniamo presente quanto detto sopra circa la doppia valenza della comunicazione: il dono scambievole e la responsabilità reciproca, altrettanto certamente dobbiamo riconoscere che le nostre parole non sono “comunicative”. Al contrario: sono dissociative.
Sono parole circondate da un ideologico alone positivo. Chi direbbe male di innovazione, riforme, sviluppo, crescita, competitività, eccellenza, meritocrazia, successo, e, sopra ogni cosa, business? Ma, ognuna di queste parole ha il suo contrario che condanna all’emarginazione, all’irrilevanza, al rifiuto, all’umiliazione, all’oblio. Per non soccombere tu, deve soccombere qualcun altro. È la legge della concorrenza elevata alla massima potenza. Si vince o si perde la partita della vita rispetto a che cosa? Nelle società competitive si vince o si perde per desiderio di ricchezza, di potere e di fama: tre beni distinti ma collegati che, anzi, si alimentano l’uno con l’altro come una trinità.
La ricchezza, il potere e la fama non sono affatto mali in sé. Ma essi si danno spinte reciproche e contribuiscono, ciascuno per la sua parte, alla smodatezza, all’eccesso, alla sregolatezza. Sulla ricchezza e sul potere così tante teorie, dottrine, ideologie politiche sono state prodotte che non se ne può nemmeno fare cenno. La fama, invece, è rimasta piuttosto in ombra... La si relega tra le innocenti, magari ridicole, aspirazioni degli animi vanesi.
Eppure, anch’essa è oggetto d’impetuosi desideri e pulsioni e, come la proprietà e il potere, modella potentemente le relazioni sociali. Essa, infatti, distribuisce biasimo e lode, alza e abbassa nella considerazione sociale. Vale per la fama la stessa cosa che vale per la ricchezza e per il potere: appropriazione dalla parte degli uni comporta privazioni dalla parte degli altri.
Il veleno non sono in sé i beni materiali, il potere e la fama. Il veleno è l’ingordigia. L’ingordigia è mossa dalla legge dell’auto-accrescimento progressivo. Non può arrestarsi da sé perché contraddirebbe la sua natura. Più si ha, più si arraffa. Denaro, potere e fama sono forze travolgenti che crescono crescendo e, alla fine, non lasciano scampo. All’inizio, si opera per possederli. Alla fine, se ne è posseduti.
Eppure, di una parola da fuori, di una parola eccentrica, c’è bisogno; c’è straordinariamente bisogno nel tempo in cui il darsi da fare stando dentro accresce il disagio. Quella che non c’è non è la parola che mette ogni cosa a posto, rincuorante e incoraggiante; la parola pacificatrice e illuminante; la parola sulla quale si possano raccogliere le forze con unità d’intenti; la parola che sia segno d’orientamento per uscire dal labirinto in cui ci troviamo che, eufemisticamente, possiamo chiamare il malessere della nostra civiltà. Il silenzio.
Nel tempo del frastuono, le energie interiori necessarie contro imbonitori e inquisitori le troviamo facendo silenzio. Solo in silenzio possiamo pensare noi stessi per noi stessi, condizione per poterci poi pensare consapevolmente in relazione agli altri. Il conosci te stesso che campeggiava sul frontone del tempio di Apollo è la formula pregnante della scomposizione-ricomposizione del sé. È il leopardiano «infinito silenzio», dove dolce è «il naufragar». Tutto questo, al di là delle fumisterie filosofiche e degli incantamenti mistici, può esistere. Basta saperlo cogliere.
La solitudine. Solitudine e silenzio si richiamano reciprocamente. L’isolarsi, anche stando in mezzo alla compagnia di altri, è un’esperienza che tutti abbiamo fatto, quando siamo presi da un pensiero. Sembra talora indifferenza o aristocratica sufficienza, onde il richiamo “democratico”: ritorna tra noi. La solitudine è una ricerca d’equilibrio tra questi due opposti richiami, ugualmente vitali: essere tra sé e sé ed “essere tra noi”. Essere solo tra noi, significa perdere se stessi; essere solo se stessi è paranoia, presunzione e narcisismo, i disturbi della psiche che Dostoevskij, più di centocinquanta anni fa, ha descritto ne Il sosia: un racconto che, se letto, con gli occhi dei frequentatori odierni dei social network, ha il carattere della profezia.
Anche per la solitudine, si deve ripetere ciò che s’è detto per il silenzio. Non è l’obiettivo finale. Se tale fosse, sarebbe desolazione mortifera. È il punto iniziale da cui può scaturire una vita sociale feconda.
Il buio. Se è condizione d’arrivo, il buio evoca l’idea del vuoto, della sventura, delle tenebre. Ma, la luce riluce soltanto a partire dal buio. Lux lucet in tenebris. Se dunque la luce è bene, lo è anche allo stesso modo il buio che rende possibile la luce. Che si possa vedere solo nel rapporto tra luce e non luce, tra luce e ombre, lo dice splendidamente il mito platonico della caverna.
Che sia qui la parola che non c’è ma che cerchiamo, nel silenzio, nella solitudine e nell’ombra delle promesse di libertà? Che si nasconda qui la parola con la quale possiamo vedere i guasti del mondo, resistere alle parole di Babele, aprirci alle incognite della libertà, cercare uscite d’emergenza?
Che la parola che racchiude un tale programma di affrancamento possa essere “armonia”? L’armonia è la giusta collocazione reciproca tra parti diverse. In che cosa consista questa giustezza non sapremmo dire facilmente in positivo. Certamente, però, sappiamo che non ha nulla a che fare con la babele che dovremmo avere davanti agli occhi.
*Il testo di Gustavo Zagrebelsky che qui pubblichiamo è una sintesi della sua lectio alla Biennale Democrazia, la manifestazione culturale da lui presieduta e intitolata in questa edizione “Uscite di emergenza”, in programma da oggi a domenica 2 aprile.
«Ci sono molti esempi, anche di successo, di cui i media parlano poco, lasciando l’impressione, che la maggioranza della popolazione veda nei profughi la principale fonte del proprio disagio, che ha invece ben altre origini ». il manifesto, 28 marzo 2017 (c.m.c.)
Ci sono molti modi di gestire l’accoglienza dei profughi. I media si occupano quasi solo dei casi peggiori che comportano ruberie, isolamento e maltrattamenti delle persone ospitate, creazione che suscitano o alimentano reazioni di rigetto. Ma ci sono molti esempi, anche di successo, di cui i media parlano poco, lasciando l’impressione, che poi si alimenta con un effetto a valanga, che la maggioranza della popolazione veda nei profughi la principale fonte del proprio disagio; che ha invece ben altre origini. E’ ora di raccogliere e rendere pubbliche queste esperienze positive.
Una è quella dell’associazione Padova Accoglie, reduce da una grande manifestazione pro accoglienza – Side by Side – a Venezia il 19 marzo scorso con oltre 4000 persone, promossa con Melting Pot e Overthe fortress. Tra i fondatori e coordinatori di Padova Accoglie c’è Stefano Ferro, la cui attività operativa si svolge principalmente attraverso la cooperativa Percorsovita Onlus, nota per l’attività di strada contro la tratta svolta da don Luca Favarin.
Percorso Vita ha aperto 12 centri di accoglienza a Padova e provincia con più di 100 richiedenti protezione internazionale. Da giugno dell’anno scorso ha aperto il secondo ristorante che, insieme a quello aperto due anni fa dà lavoro complessivamente a 12-15 richiedenti asilo di cui 3 assunti con contratto a tempo indeterminato, tre in formazione professionale e gli altri con contratto a tempo determinato o pagati, finora, con
voucher.
L’ultimo nato, Strada Facendo Ristorante etico, si trova in una ex casa del popolo, poi trasformata in un ristorante che non ha avuto successo e ha ceduto i locali alla cooperativa. L’altro ristorante, The last one, somministra pasti preparati nella cucina di Strada Facendo, dove è stata centralizzata la produzione. La cucina è di alto livello (Trip Advisor: 25 eccellente e 6 buono su 35 valutazioni), ma con un rapporto qualità/prezzo imbattibile. Biggy, vicecuoco della Guinea Biss, ha svolto il suo apprendistato con chef di livello come Dimitri e Ale Meo, che prestano la loro collaborazione rifiutando offerte di prestigio più vantaggiose. Il ristorante non propone una cucina etnica, ma multiregionale italiana, con prodotti di alta qualità che per questo non sono a chilometri zero né esclusivamente biologici. Chef a parte, nessuno aveva esperienza nel settore della ristorazione, partire dalla responsabile Carolina che nei giorni di chiusura del locale è a capo, con don Luca, di una unità di strada anti tratta che solo un mese fa ha portato in salvo due ragazze nigeriane di 16 anni e che ha trasformato il locale come fosse casa sua. Il successo di entrambe le iniziative è stato travolgente: i locali sono sempre affollati e Strada Facendo prevede di raggiungere del punto di pareggio quest’anno.
Accanto a queste attività, Percorso Vita ha attivato un campo di due ettari e mezzo con annesso casale in località Saccolongo, precedentemente utilizzato per coltivazioni di biomassa, bonificandolo e destinandolo, sotto la guida di Guglielmo Donadello, responsabile nazionale tecniche di agricoltura di Legambiente, ad alberi da frutta e legumi di specie che non richiedono trattamenti. E’ un esempio contagioso perché molti agricoltori vicini, di fronte a questa vistosa trasformazione della produzione, si sono dichiarati disposti a cedere alla cooperativa parti dei loro terreni, perché le coltivazioni a cui sono attualmente destinati non danno rendimenti soddisfacenti. Così Percorso Vita è in procinto di acquisire nuovi e consistenti appezzamenti che potrebbero garantire alcune decine di ulteriori posti di lavoro.
Tra gli altri progetti, un gas e un master in mediazione culturale con il dipartimento di agraria dell’Università di Padova. Il corso è partito lo scorso gennaio con 17 allievi che fanno il tirocinio al ristorante e uno dei quali è già stato assunto dalla cooperativa.
Anche l’accettazione è un esempio di successo, non solo sul posto di lavoro. Biggy, il vicecuoco, ha una casa in affitto in località Brusogone, dove a vive con due colleghi. E’ una zona abitata da anziani, non sempre in buoni rapporti nemmeno tra di loro, che quando sono arrivati quei “neri" hanno avuto una reazione di rigetto. Ma poi, vedendoli gentili, collaborativi e anche impegnati a rimettere a posto situazioni in abbandono – aiuole, ringhiere, dei locali comuni, ecc. – hanno cambiato atteggiamento e ora non solo li trattano da pari a pari (hanno anche migliorato i rapporti tra loro), ma una vicina prepara anche per loro la cena tutte le sere per pura amicizia.
Tutto bene? Neanche per sogno! A Padova la commissione territoriale per le richieste di asilo dispone il 78 per cento di dinieghi e quando sono presenti esponenti della Lega, il 90 per cento. Tutti i membri della cooperativa hanno già ricevuto il diniego sia della commissione che del giudice e sono in attesa di appello, che per molti dovrebbe svolgersi prima che entri in vigore la sua abrogazione con il decreto Minniti.
Se il giudizio di primo grado sarà confermato o quando non sarà più possibile adire l’appello, tutti i lavoratori della cooperativa dovranno venir licenziati ed entrare in clandestinità. Un modo perfetto per distruggere la vita di tante persone che dopo mille vicissitudini dolorose avevano trovato il modo per ricostruirsela; ma anche per mandare in malora un’attività economica florida e un esperimento di accoglienza da moltiplicare. Ma è’ una situazione che rischia di travolgere non solo questa impresa, ma tutto quanto di positivo è stato creato nell’ambito dell’accoglienza in tutto il paese. In balia di una legislazione feroce e incoerente la cosiddetta accoglienza dello Stato italiano si trasforma così nel suo esatto contrario. Una vicenda che richiede un’immediata mobilitazione perché non finisca così.
Quando Enrico Rossi ha annunciato la sua discesa in campo per contendere a Renzi il ruolo di segretario del Pd siamo stati in molti a chiederci in nome di quali valori e di quali programmi il Presidente della Regione Toscana entrasse nella competizione. Ma anche dopo la sua uscita dal Partito democratico insieme a Bersani e D’Alema, non abbiamo avuto risposte, salvo le dichiarazioni di volersi collocare più “a sinistra” di quanto finora praticato dal Pd.
Una sinistra che tuttavia non emerge nel dibattito e nelle esternazioni degli scissionisti e dei compagni critici ma rimasti nel partito; si parla infatti di possibili alleanze, di schieramenti, di opzioni sulla legislatura e sulla legge elettorale, di prese di distanza dai vari giudicati e pregiudicati. Con la conseguenza di fare sorgere il dubbio che più che una critica da sinistra della politica del Pd renziano, pesino i posizionamenti, i rapporti di potere e le carriere politiche dei vari protagonisti.
Tutt’al più, a essere benevoli, sembra che Rossi, quando parla di “sinistra” guardi all’Italia del passato, alle lotte operaie degli anni ’60 e 70 e non compia – lui come gli altri – il tentativo di comprendere come siano cambiate le condizioni del pianeta, l’economia mondiale e la società italiana; e quali siano le sfide che la sinistra deve affrontare nel mondo dei Trump e della destra di ritorno, con i suoi carichi di xenofobia e isolazionismo; in un mondo in cui la disoccupazione è diventata un fatto strutturale, ancor più nell’Italia che arranca dietro agli altri paesi europei.
Basterebbe, invece di avere gli occhi puntati sul palazzo, prestare attenzione ai movimenti, ai comitati, alle associazioni, ai cittadini che hanno detto no nel referendum, per comprendere cosa significhi una politica di sinistra e all’altezza delle sfide.
Due discriminanti: da un punto di vista generale, una sinistra moderna non può che essere ambientalista; anzi “neoambientalista” – come ha più volte sostenuto Alberto Asor Rosa - intendendo con il prefisso “neo” che occorre superare le politiche che mirano alla mera sostenibilità delle risorse. Nell’opzione neoambientalista l’ambiente è non è un qualcosa cui contemperare le politiche di sviluppo, ma è esso stesso al centro di uno sviluppo qualitativamente diverso. In quest’ottica, paesaggio e ambiente non sono soggetti passivi, vincoli da rispettare, ma soggetti attivi di un’economia basata sull’intelligenza, la conoscenza, la ricerca, l’innovazione tecnologica.
Questa opzione comporta (è il secondo punto) che la scelta di sinistra implichi la rottura con il “cartello” delle grandi opere inutili. E’ ormai chiaro come, cambiando i governi - da Berlusconi a Renzi e Gentiloni con vari passaggi di mano - rimanga tuttavia saldo il partito delle grandi opere, l’unico che non teme la fuga degli iscritti; il partito che condizionando le politiche economiche, la distribuzione delle risorse finanziarie, il bilancio dello Stato, costituisce un potente freno allo sviluppo economico, oltre che causa delle crescenti diseguaglianze reddituali.
Si tratta di un blocco che vede solidali politici, mediatori, lobbisti, grandi imprese di costruzioni e banche erogatrici di crediti garantiti dallo Stato; un cartello che alimenta la corruzione pervasiva del sistema politico e della casta, mentre allo stesso tempo è un macigno che ostacola la crescita, perché destina gran parte degli investimenti pubblici a settori ultra maturi e con una bassissima componente occupazionale, sottraendoli alle componenti innovative dell’economia, quelle che creano ricchezza immateriale e danno possibilità di lavoro qualificato ai giovani ora costretti a cercarlo all’estero - il flusso migratorio che più di ogni altro dovrebbe preoccupare i nostri ministri.
E’ questa inversione di rotta ciò che chiedono, dal basso, i comitati, le associazioni, i cittadini. Invece, finora Rossi si è mosso esattamente nella stessa direzione del partito che ha abbandonato, sostenendo in Toscana le imprese più inutili, dannose e dispendiose, tra cui spicca il sottoattraversamento di Firenze da parte dell’alta velocità, il nuovo aeroporto, l’autostrada tirrenica, addirittura paragonata alla “strada dell’uomo” e opposta alla “strada dell’asino”, infelice citazione di Le Corbusier. Si obietta che Rossi finora non poteva fare altrimenti, perché condizionato dal partito di Renzi.
Ma oraè libero, anzi, si èliberato. Ci attendiamo comportamenti conseguenti se vuole inaugurare una nuovapolitica di sinistra. A meno che, come non ci auguriamo, non sia tutto unaquestione di posizionamenti, carriere e rapporti di potere.