Articoli di Filippo Ceccarelli ,Simonetta Fiori, Rossana Rossanda, Luciana Castellina.
la Repubblica il manifesto 3 aprile 2017
la Repubblica
MORIREMO COMUNISTI
di Filippo Ceccarelli
«Addio a Valentino Parlato il sorriso di un eretico tra politica e giornalismo
I suoi titoli erano piccoli grandi capolavori di sarcasmo»
È già difficile guadagnarsi il titolo di Maestro, ma nel caso del giornalismo, entità quant’altre mai opinabile e relativa, è quasi impossibile. Sennonché, per qualche misteriosa legge dei simili si può pensare — forse! — che solo un giornalista tanto più appassionato quanto più scettico potrebbe meritarsi tale dignità.
Ebbene: a sentirselo tributare, per prima cosa si sarebbe acceso una sigaretta, in silenzio. Fumava sempre, infatti, e non solo a getto continuo, ma con mite allegria qualche anno fa aveva addirittura pubblicato per i libri del Manifesto una guida,Segnali di fumo appunto, sui locali di Roma e Milano in cui era ancora consentito spipacchiare in libertà.
Quindi, aggiustandosi gli occhiali sulla fronte, da dietro la sua monumentale Olivetti 98, Valentino Parlato, Maestro di Giornalismo con doppia maiuscola, avrebbe probabilmente accolto l’onore con un sorriso dei suoi, tipici di chi considera un dovere morale non prendersi mai troppo sul serio.
Ieri se n’è andato, a 86 anni, fra gli ultimi della vecchia guardia del manifesto, “quotidiano comunista”. Il 9 aprile scorso, nel suo estremo articolo, ancora una volta aveva scritto che bisognava sforzarsi di capire questo tempo: «Sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà». Domenica aveva votato alle primarie del Pd. Ma nel novero delle sue numerose virtù si fatica a collocare Parlato nell’ambito dell’impegno politico o dell’ideologia. O meglio. Più che come coscienza critica della sinistra o eretico del comunismo vale oggi ricordarlo per le sorprendenti argomentazioni, il dono magico della sintesi e le risorse del secco periodare, il ritmo e la chiarezza del linguaggio, la cultura mai esibita e il guizzo fantastico che spesso faceva dei titoli di prima pagina piccoli, grandi capolavori di spirito polemico, elegante sarcasmo e perfino poesia.
Si può aggiungere un’inguaribile curiosità, anche a livello umano, e quel tratto di garbato distacco dalle mode che riportano più alla persona che al mestiere. Ma in lui l’intreccio appariva in realtà indissolubile: nei commenti calibrati, nella memoria, nei ricordi dispensati dietro il tavolo di qualche convegno come nelle chiacchiere davanti al bancone del Caffè delle Antille, al di là di via Tomacelli, la prima e indimenticata sede del quotidiano.
Una «bella e lunga vita», parole sue, «una storia difficile e faticosa». Valentino era nato in Libia, da genitori siciliani, e laggiù, nell’adolescenza, aveva aperto lo sguardo, generosamente, sulla miseria e le ingiustizie del colonialismo. Fino a farsi comunista e a lottare per l’indipendenza di quella gente; fino a quando, appena ventenne, nel 1951, l’amministrazione britannica non lo aveva caricato a forza su una nave e rispedito in Italia. Qui, come pure succedeva, fu “adottato” dal Pci, debitamente istruito e indirizzato verso studi economici. Per un po’ lavorò in Puglia con Alfredo Reichlin; quindi a Botteghe Oscure, nella Sezione Economia, allora dominata dalla tonitruonante figura di “Giorgione” Amendola, forse l’unico esponente del Pci, antenato della futura destra migliorista, capace di seminare dubbi e polemiche nel campo avversario.
Per sua natura indipendente, e anzi a suo modo incline agli ossimori, in tarda età si riconobbe nella definizione (datagli da Paolo Franchi) di “amendoliano di sinistra”. Ma l’ardua collocazione non dispensò il giovane Valentino dall’aderire alla corrente o frazione di sinistra che, inizialmente con l’avallo di Ingrao, diede vita al Manifesto- rivista; né poi, nel 1969, si salvò dal conseguente repulisti che lo costrinse ad abbandonare la redazione di Rinascita — «anche se — ricordava in lieta serenità — mi diedero anche la liquidazione ».
Dopo di che, insieme con Pintor, Rossanda e Castellina, divenne uno dei motori del nuovo, austero, elegante, elitario e “solitario”, come preferiva lui, quotidiano. Inutile dire che furono anni di straordinaria intensità, non solo professionale. Idee, articoli, amori, rivalità professionali, scontri generazionali, infinite discussioni, ma pure inusitati, apparentemente, pellegrinaggi in redazione, da Jane Fonda a Ciriaco De Mita.
Molti in effetti apprezzavano la libertà di giudizio di quelle pagine quasi sempre estranee ai giochi del potere e alle scorribande della finanza, animate com’erano da una passione insieme infuocata e rarefatta. Ma c’è da dire che pochi altri giornalisti, per giunta tra quanti si ostinavano a dirsi comunisti, riuscirono come Parlato a ottenere la stima e in certi casi l’amicizia di figure assai diverse fra loro e comunque ben lontane dal mondo e dai precetti del Manifesto: Cesare Romiti, il cardinal Silvestrini, Guido Rossi, Enrico Cuccia, Cesare Geronzi, senza dimenticare il Colonnello Gheddafi che, da nativo libico, Valentino sempre volle considerare — e ha fatto in tempo ad aver ragione — una soluzione di necessaria stabilità.
Inutile anche ricordare che dalla seconda metà degli anni 80 la vita del Manifesto, modello pressoché unico di giornale senza padrone e/o padroni, cominciò a farsi difficile, ma che poi continuamente, disperatamente, tra una sottoscrizione e l’altra, entrò in gioco la sua stessa sopravvivenza.
E qui Valentino, per l’assenza di pregiudizi vissuto come una sorta di ambasciatore in partibus infidelium, dovette dare fondo ai suoi rapporti, da Grauso a Tanzi, da Craxi a Capitalia. In buona sostanza si trattava di prestiti, fideiussioni, finanziamenti e altre trovate finanziarie; quanto insomma era indispensabile per scongiurare la chiusura definitiva di un’esperienza che aveva occupato l’intera sua vita e per la quale, sempre con quella grazia intelligente e quell’onesta simpatia che tutti gli riconoscevano, non esitò a spendersi nelle forme più discrete e laboriose, senza che mai facesse capolino un qualche tornaconto, meno che meno di natura personale.
Perché tanti sono i modi di essere maestri, ma al dunque i migliori sono sempre quelli che pensano agli altri.
La camera ardente sarà allestita a Roma nella Protomoteca del Campidoglio alle ore 15. Mentre la cerimonia funebre si svolgerà alle 18
la Repubblica
ROSSANA ROSSANDA
«CI HA SALVATO DALLA CHIUSURA
SU DI LUI SI POTEVA CONTARE»
di Simonetta Fiori
«Il ricordo della compagna di lotte: "Aveva grandi competenze economiche e sapeva andare d’accordo con tutti"»
«Ci saremmo dovuti vedere da me a Parigi giovedì. È stato un attacco improvviso, fulminante». Rossana Rossanda ricorda l’amico Valentino. Procede a fatica, ha appena terminato di scrivere un articolo per il Manifesto ed è molto stanca. Però si sforza, mossa da quella forza che solo i sentimenti possono dare.
Quando vi siete sentiti l’ultima volta?
«La settima a scorsa. Abbiamo commentato i risultati dell’elezione francese. Ma con Valentino non si parlava solo dei destini del mondo».
Parlavate anche di voi.
«Sì, si preoccupava per me. Anche nell’ultima telefonata mi ha chiesto se mi occorressero dei libri o altre cose».
L’umore com’era?
«Non buono. Era malandato. Non si sentiva più di scrivere, di partecipare alla vita politica. E questo lo rendeva infelice».
Però domenica ha votato alle primarie del Pd.
«Non lo sapevo. Spero non abbia votato Renzi, che io detesto».
Da quanti anni vi conoscevate?
«Dal 1966, da più di cinquant’anni. Io ero responsabile della commissione Cultura dentro il Pci, Valentino lavorava a Rinascita e faceva parte della commissione economica».
Tre anni dopo avete dato vita al “Manifesto”. E nel novembre di quello stesso anno foste tutti espulsi dal Partito.
«Sì, ma con le buone maniere. Nessuno gridò al “traditore” o al “serpente viscido”».
Ricorda Valentino in quei frangenti?
«No, ero troppo concentrata sul mio malumore».
Quando rievocava la storia del Manifesto, Parlato si distingueva per umiltà. Diceva di essere «il più modesto», quasi «una figura di secondo piano».
«No, la verità è che era molto più generoso di noi. Io sono dura e cattiva, Valentino buono e ben disposto».
Lui diceva che intellettualmente era lei la più attrezzata.
«Non si può dire questo. Nel campo della cultura economica ne sapeva molto più di noi. Era amico di Federico Caffè. E quando usciva la relazione annuale della Banca d’Italia era lui a spiegarci le cose. Io forse ero più versata nelle scienze umanistiche mentre Luigi Pintor era un giornalista magnifico, l’eccellenza ».
Con Lucio Magri non si prendevano molto. Una volta la spiegò così: «Lucio era raziocinante e incline alla teoria, io un arrangista fatalista. Due modi diversi di stare al mondo».
«Arrangista? Forse perché cercava di andare d’accordo con personalità complesse, un compito non facile. Fatalista perché preferiva evitare gli scontri cruenti. Su Valentino si poteva sempre contare».
Si fece carico della direzione del Manifesto in vari passaggi.
«E io lo affiancai in momenti diversi. Più che un giornale eravamo un gruppo di amici legato da passioni grandi. E questo è stato anche il nostro limite».
Perché un limite?
«Perché per durare nel tempo si ha bisogno di una struttura organizzata e gerarchizzata. Mi ricordo una volta che Luigi provò a mandare una lettera con una specie di ordine di servizio: bisognava stare al giornale entro una certa ora, etc etc. La redazione organizzò una manifestazione di protesta. Era nel clima di quegli anni, al principio dei Settanta: non erano ammesse le regole. Ma un giornale così non funziona facilmente».
Qual è stato il ruolo di Parlato nella storia del Manifesto?
«Fondamentale. Si è sempre occupato della gestione economica. È stato quello che ci ha salvato quando incombeva la minaccia della chiusura. Valentino è riuscito sempre a cavarsela ».
Com’erano i suoi rapporti con Pintor dentro il giornale?
«Personalità diverse, ma in sintonia. Erano entrambi convinti che prima di scrivere un articolo occorresse avere in mente un titolo. Poi l’articolo sarebbe venuto da sé. Io non ero d’accordo. E non mi sognavo di anteporre il titolo all’articolo».
Anche Pintor non aveva un carattere facile.
«Sì, Luigi e io eravamo più spigolosi. Anche nel rapporto con i collaboratori. Quando Umberto Eco cominciò a scrivere per noi, Luigi ne era come infastidito e lo mise nelle condizioni di andarsene. Valentino non l’avrebbe mai mandato via».
Un tratto che vi accomunava – ha scritto Parlato - era l’antidogmatismo. Lo stesso che vi infondeva «non solo il coraggio ma anche il gusto di dire no».
«Venendo tutti dal Pci, non poteva essere diversamente. E comunque fare per tanti anni un giornale quotidiano, senza una lira, senza un editore e senza un partito alle spalle, è stata un’impresa pazzesca. E questo ci ha resi compagni di vita, oltre che di lavoro».
Lui si è sempre ritratto come uno scettico.
«Ma era un modo di apparire più che di essere. Sicuramente era molto ironico. Ma un gruppo di scettici non avrebbe mai vissuto la nostra esperienza».
Non si perdonava il suicidio di Magri. Aveva l’impressione di non aver fatto abbastanza per dissuaderlo.
«Io ho voluto aiutare Lucio accompagnandolo in Svizzera. Con Valentino non ne ho mai parlato. È una mia mancanza. Ma sono cose di cui è difficile parlare».
Vi sentivate spesso?
«Quasi tutti i giorni. Lui pensava che io fossi troppo rigida, nel giudizio sulle persone. Lui era molto più benevolo, generoso. Mi mancherà molto».
il manifesto
PARLATO , LA GENEROSITÀ COME MODI DI ESSERE.
di Rossana Rossanda
«Il ricordo. Un economista nutrito di Settecento
Si è spento ieri notte, colpito da un malore improvviso, Valentino Parlato, il nostro amico e compagno più vicino, uno dei fondatori del gruppo del Manifesto e di questo giornale assieme ad Aldo Natoli, Lucio Magri, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Eliseo Milani e chi scrive.
Del giornale è stato parecchi anni direttore, e soprattutto vigile amico del suo destino, salvatore nelle situazioni di emergenza, oltre che naturalmente collaboratore per lungo tempo.
Valentino era nato in Libia e la sua entrata nel giornalismo italiano è stata la stessa cosa della sua adesione al Partito comunista italiano, finché non fu vittima anche egli della cacciata di tutto il gruppo del Manifesto per non essere d’accordo con la linea imperante fra gli anni sessanta e settanta. Aveva cominciato a collaborare a Rinascita assieme a Luciano Barca ed Eugenio Peggio, in quello che fu forse il più interessante periodo della politica economica e sindacale comunista, e il culmine della polemica sulle «cattedrali nel deserto», ma negli stessi anni tenne uno stretto collegamento con Federico Caffè e Claudio Napoleoni.
Tuttavia non si può limitare la sua cultura alla scienza economica; nutrito di letture settecentesche, si considerò sempre un allievo di Giorgio Colli e di Carlo Dionisotti. Portò questa sua molteplice cultura nella fattura del manifesto e nel propiziargli i collaboratori, della cui generosità si è sempre potuto vantare.
Sempre per il manifesto seguì le grandi questioni della produzione italiana (rimase celebre la sua inchiesta sul problema della casa); ma quello che lo caratterizzò in anni nei quali alle prese fondamentali di posizione nella politica del paese si accompagnarono spesso dolorose rotture, fu la grande apertura alle idee altrui, una generosità mai spenta, un vero e proprio modo di essere e di pensare che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua attività nel giornalismo.
L’aver militato per diversi anni in Puglia con Alfredo Reichlin lo aveva legato per sempre alla questione del Mezzogiorno.
Ma Valentino è stato soprattutto una specie di nume protettore del giornale, chiamato a salvarlo in ogni situazione di emergenza, pronto a lunghe attese per essere ricevuto nelle stanze ministeriali al fine di ottenere le avare sovvenzioni sulle quali il giornale ha potuto fondarsi. Tutti gli incidenti che potevano occorrere a un’impresa avventurosa e senza precedenti come la nostra ebbero in lui un dirigente e un mediatore saggio.
La sua presenza e capacità mancheranno a chi lo ha conosciuto, qualche volta perfino impazientendosi della sua benevola tolleranza per chi non la pensava come lui e come noi.
Del gruppo iniziale siamo rimasti molto pochi nel giornale mentre più vasta è stata la seminagione nei rari settori della Sinistra sopravvissuta alla crisi di questi anni.
Anche sotto questo profilo la perdita di Valentino Parlato sarà assai dura. Per non parlare del venir meno della sua amicizia ed affetto per chi, come noi, cerca ancora di stare sulla breccia.
il manifesto
IL GIORNALE SEMPRE,
PRIMA DI TUTTO
di Luciana Castellina
«Il ricordo. A lui interessava solo il manifesto, a cui ha dato più di chiunque altro tra noi, tutto se stesso»
Sono parecchie le foto del manifesto delle origini in cui appare il gruppo fondatore del giornale. Ora che Valentino è scomparso, «vive – mi dice Rossana al telefono accorata – sono rimaste solo le donne, tu ed io. Perché le donne sono più longeve».
Anche Lidia Menapace, che sebbene proveniente da tutt’altra storia politica si unì assai presto alla nostra avventura, corre ancora per l’Italia – a 95 anni – a fare riunioni. Sarà forse un vantaggio del nostro genere, ma non ne sono sicura: per me la morte di Valentino, nonostante i nostri non infrequenti litigi, è un pezzo di morte mia di cui ora, infatti, non riesco a capacitarmi. Si capisce: abbiamo vissuto accanto, per quasi settant’anni, dentro il contesto di una straordinaria vicenda politica, quella dei comunisti italiani. Prima ortodossi, poi critici, poi eretici. È per via di questa storia che Valentino, quando gli chiedevano se si definiva ancora comunista, rispondeva di sì.
Lo conobbi che aveva poco più di 18 anni ed era appena sbarcato in Italia dalla Libia: re Idriss lo aveva espulso dal paese dove era nato e vissuto, nella grande casa del nonno siciliano che in quel paese era stato colono.
Al liceo di Tripoli, assieme ad un altro gruppetto di ragazzi, era diventato comunista. Grazie a qualche insegnante mandato lì nel dopoguerra. Invano ho cercato di convincere Valentino a scrivere un libro su quegli anni libici, quando un pezzo del terribile conflitto mondiale era passato proprio da quelle campagne. I suoi racconti erano fantastici, pieni di informazioni inedite. Non l’ha scritto mai, perché così era Valentino: a lui interessava solo questo giornale a cui ha dato più di chiunque altro fra noi, tutto se stesso. Perché in 45 anni non ha mai abbandonato un momento la sua quotidiana fatica in redazione, non si è mai distratto per un altro impegno o divagazione. Anche scrivere un libro gli sembrava una perdita di tempo. E ora che, invecchiato, non era più al timone, soffriva, si sentiva svuotato.
Un aspetto curioso della sua personalità: intelligente con acutezza, ironico e autoironico, spesso addirittura trasgressivo, il tono sempre distaccato, mai un protagonismo, mai un eccesso di schieramento, mai settario, anzi talvolta dispettosamente compiacente verso il pensiero avversario (amava definirsi «amendoliano», e poi aggiungeva «di sinistra»). E però, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettati da uno così, militante a tutto tondo, sempre «al pezzo». Perché la qualità principale di Valentino – che è poi la migliore fra le qualità – era la generosità.
Nel raccontare la sua vita amava ricordare che io gli avevo trovato il primo lavoro della sua vita, per l’appunto quando approdò dalla Libia: un posto di correttore di bozze all’Unità. Ma diventò economista e con queste competenze lavorò con Luciano Barca e Eugenio Peggio alla rivista del Pci Politica ed Economia. Erano gli anni della nascita della Comunità europea, e sarebbe bello ristampare quei suoi articoli che richiamavano l’attenzione su quanto l’unificazione del mercato europeo, senza interventi pubblici correttivi, avrebbe aggravato la questione meridionale. Aveva ragione, anche se la posizione ufficiale del Pci aveva sottovalutato gli aspetti positivi del processo. Purtroppo senza continuare a dare a quella analisi la dovuta rilevanza, quando, negli anni ’60, la linea fu capovolta e si passò ad un europeismo assurdamente acritico.
Le campagne meridionali Valentino le conosceva bene, non solo per via della sua mai spenta sicilianità, ma perché prima che iniziasse la storia de il manifesto, era stato il vice segretario regionale della Puglia, cui era allora a capo Alfredo Reichlin. Furono quei due, scomparsi a così poca distanza di tempo, ad aver conquistato allora una nuova generazione di baresi impegnati nell’università e nelle case editrici – Laterza, De Donato, Dedalo – una grande novità in un partito fino ad allora tanto bracciantile. E però ad avere, ambedue, contemporaneamente sempre ripetuto che proprio da quei braccianti avevano imparato ad essere davvero comunisti.
Mi è difficile scrivere su Valentino, non avrei voluto essere io a commemorarlo anziché lui a commemorare me, come sarebbe stato giusto perché più vecchia di lui. Perché Valentino è stato per me non solo un compagno, ma un fratello. E come sapete non si chiede a una sorella, a poche ore dalla morte, di scrivere sul fratello.
Era così perché dentro il «gruppo» noi avevamo una collocazione simile e in qualche modo diversa: non eravamo giovani come i sessantottini appena arrivati, e però nemmeno anziani come Rossana, o Natoli; non autorevoli come Rossana, Lucio e Luigi, ma tuttavia «dirigenti». Per questo quando c’era qualche missione delicata da svolgere, o qualche fatto intricato su cui scrivere, e nessuno dei «big» voleva farlo, si diceva: «che lo facciano Luciana o Valentino». Per questo ci chiamavano Gianni e Pinotto.
Ho detto fratello. Perché nonostante non fosse affatto saggio Valentino è stato per me, in momenti difficili della vita, un amico saggio, capace di consigliare le cose giuste da fare nella vita. Perché mi voleva bene e gliene volevo molto anche io.
Tanto di più quando penso a questi ultimi tempi inquieti, dominati da tanto pessimismo che tracimava in passività. Lui, pur sempre un po’ scettico, non intendeva rinunciare e continuava a dirmi: dobbiamo fare qualche cosa. E come atto di fiducia, si era persino iscritto a Sinistra Italiana. «Sono tornato ad avere un partito», mi aveva detto.
eddyburg un suo saggio, che consideriamo di decisiva importanza, ancora oggi, per chiunque voglia comprendere le ragioni sociale della drammatica condizione dell'abitare in Italia, l'utilità del metodo marxiano nell'analisi sociale, e quindi nella comprensione del mondo in cui viviamo. In calce il testo del suo saggio scaricabile in .pdf
Valentino Parlato
IL BLOCCO EDILIZIO
(Il Manifesto, 1970)
Questo saggio, dimenticato e, fino al gennaio 2006, assente dalla rete, è apparso originariamente sulla rivista Il Manifesto, l n. 3-4 del 1970; è stato ripubblicato nel volume collettaneo Lo spreco edilizio, a cura di F. Indovina, Marsilio, Venezia 1972.
E’ di grande interesse per almeno due ragioni.
1. Perché è un esempio, mai più raggiunto, di compiuta analisi economico-sociale di una realtà sociale (il “blocco edilizio”) che ha ostacolato, e continua a ostacolare, i tentativi di governare efficacemente l’ambiente della vita dell’uomo e della società. Purtroppo il metodo dell’analisi marxista non è stato negli anni successivi né superato, né applicato al campo indagato dall’Autore.
2.Perché le realtà economica e sociale che il saggio descrive sopravvive in larga misura alle trasformazioni intervenute negli ultimi decenni nell’economia, nella società, nella politica e nella cultura. Per incidens mi limito a ricordare la finanziarizzazione dell’economia e il rafforzato intreccio tra rendite finanziarie e rendite immobiliare a scapito del salario e del profitti; la crescente prevalenza dei “valori” individuali, la frammentazione dei corpi sociali, la graduale emarginazione dei beni comuni; la scomparsa di un’egemonia di sinistra nello schieramento di opposizione, l’accodamento al potere delle posizioni culturali una volta d’avanguardia, limpidamente testimoniato dalle posizioni assunte dell’Istituto nazionale di urbanistica. (A quest’ultimo proposito rinvio al mio Commiato dall’INU, i cui argomenti gettano forse qualche luce sull’atteggiamento attuale del gruppo dirigente dell’INU) (eddyburg, 1° gennaio 2006).
Il Blocco edilizio
di Valentino Parlato
Può anche apparire singolare, ma in Italia – dove la parte di ispirazione marxista ha tanto discusso e discute di processi di formazione di un nuovo blocco storico – manca, quasi del tutto, un’analisi del blocco storico esistente, quello dominante, che sarebbe necessario conoscere e disaggregare. Questa considerazione, non priva di significato culturale e politico, vale anche per la complessiva questione delle abitazioni, rispetto alla quale solo di recente, e di passaggio, a un convegno del PCI è stato detto che intorno ad essa “si cementa un blocco sociale, che è una delle cerniere essenziali del blocco di potere dominante”. Questa analisi però continua a mancare, nonostante che già un secolo fa Engels – schematicamente quanto si vuole – avesse individuato proprio questa capacità aggregante della questione, quando – in polemica con la rivendicazione proudhoniana di trasformare il canone di fitto in canone di riscatto – sosteneva che “gli esponenti più accorti delle classi dominanti hanno sempre indirizzato i loro sforzi ad accrescere il numero dei piccoli proprietari, allo scopo di allevarsi un esercito contro il proletariato”. Al riguardo si può aggiungere che nello stesso arco della nostra esperienza (pensiamo alla secca liquidazione della legge Sullo) non ci sono mancate prove della potenza d’urto di questo esercito.
Fatte queste constatazioni di assenza, resta tuttavia da aggiungere qui – per difficoltà oggettive e soggettive – non si intende offrire al lettore una compiuta analisi di quel che si potrebbe definire “il complesso edilizio”, ma solo un avvio di questa analisi, nella forma di una serie di schematiche osservazioni relative alle stratificazioni che fanno parte, o sono in qualche modo subordinate, a questo “complesso” e ai legami, anche sovrastrutturali, che sono condizione della sua conservazione. Ma prima di addentrarci in queste osservazioni appaiono utili alcune sommarie informazioni sulla entità e le caratterizzazioni dell’“affare casa”.
Nel 1968 il prodotto lordo al costo dei fattori del settore costruzioni (fondamentalmente a uso residenziale) è stato pari a 3.341 miliardi di correnti, cioè di non molto inferiore al prodotto dell’agricoltura (4.096 lordi) e sensibilmente superiore a quello dell’industria meccanica (2.790 miliardi ). Se poi al prodotto lordo dell’industria delle costruzioni aggiungiamo quello del settore fabbricati residenziali (cioè l’ammontare dei fitti pagati per l’uso del patrimonio edilizio esistente), che ammonta a ben 2.310 miliardi di lire, arriviamo a una somma complessiva di 5.651 miliardi, largamente superiore a quella del prodotto dell’agricoltura e pari a un po’ più del 15% del prodotto nazionale lordo complessivo. Tale rilevanza economica del settore viene confermata e sottolineata dalla sua incidenza (30% circa nella media degli ultimi dieci anni) sul totale degli investimenti fissi lordi e sul totale delle spese per consumi finali (quasi il 10% nel 1968). Si può ancora aggiungere che dall’edilizia dipendono totalmente produzioni non trascurabili come quelle del cemento, dei laterizi, del legno e dei mobili, e dipendono in larga misura molte produzioni del settore meccanico. Per ultimo si può considerare economicamente significativo anche l’elevatissimo indice di gradimento che, a livello locale e nazionale, hanno assessorati e ministero ai lavori pubblici. La consistenza economica e le ramificazioni del complesso fondiario industriale-finanziario dell’edilizia appaiono evidenti.
Nonostante le profonde interrelazioni tra pubblico e privato, il segno di questo settore è tuttavia nettamente privatistico. Il settore dell’edilizia, proprio dal punto di vista della produzione e della proprietà, è tra i più privatizzati della nostra economia. Il patrimonio edilizio esistente è quasi integralmente privato e, quanto alla produzione, si ricordi che mentre nell’industria gli investimenti fissi lordi si ripartivano tra imprese private e pubbliche rispettivamente nella misura del 64,6% e del 35,4%, nel settore delle costruzioni, invece, l’incidenza degli investimenti pubblici, in tutto il periodo che va dal 1962 al 1968, si è aggirata tra un minimo del 4,1% a un massimo del 7,4%. Tale carattere privato del settore risulta ancora più evidente dal confronto con gli altri paesi nei quali la incidenza dell’intervento pubblico è di gran lunga superiore. Questa assoluta prevalenza privata non deve però indurre nell’errore di credere che l’intreccio tra pubblico e privato sia di scarsa rilevanza: esso si realizza, ed è fonte di grandi affari e di spostamenti di convenienze, attraverso l’intervento normativo, i piani regolatori e particolareggiati, la predisposizione dei servizi pubblici, le grandi opere pubbliche, la politica fiscale e creditizia ecc. Dopo avere sommariamente indicato dimensioni economiche, ramificazioni e carattere privatistico del complesso edilizio, si tratta di individuare le aggregazioni sociali e le articolazioni economiche e culturali che compongono il blocco. Secondo rapporti di maggiore o minore o subordinazione, in questo blocco si raccoglie un coacervo di forze che fa pensare ad alcune pagine del “18 brumaio di Luigi Bonaparte”.
Ci sono tutti: residui di nobiltà fondiaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, oppure che ritengono di risparmiare in avvenire sul fitto pagando intanto elevati tassi di interesse, grandi imprese e capimastri, cottimisti ecc. Un mondo nel quale, all’infuori di poche sicure coordinate (quelle di sempre, della potenza economica e del potere politico) vasta è l’area magmatica delle improvvise fortune e della prigione, del triste esproprio (pensiamo solo alla sorte di molti piccoli proprietari di case a fitto bloccato). Un mondo, però, che si tiene saldamente insieme strumentalizzando – per rafforzare i più solidi legami di interesse economico – il fanatismo dell’ideologia della casa, la drammatica necessità di ottenere una casa anche a costo di sacrifici, la necessità di avere un lavoro: il contadino fattosi edile, di fronte alla minaccia di non lavorare, è naturalmente portato a considerare inutili e dannose sottigliezze tutti i perfezionamenti democratici dei regolamenti edilizi. Il fatto che questo sistema non sia in grado di dare la casa a tutti finisce con l’essere la condizione di forza del “complesso edilizio”.
1. Fino a oggi i contingenti decisivi dell’esercito conservatore, che i capitalisti si allevano contro il proletariato sono stati sostituiti dalla vasta massa dei proprietari di abitazioni. Nel più recente rapporto del CENSIS sulla situazione sociale del paese si legge:
«solo una parte dell’offerta di abitazioni è collocata, in proprietà o in affitto, presso gli utilizzatori finali del bene abitazione: una quota rilevante, pari, secondo stime relative agli ultimi anni, a circa un terzo viene invece acquistata da piccoli e grandi risparmiatori a scopo di investimento».
Si può quindi calcolare che quasi centomila abitazioni all’anno siano andate ad accrescere il patrimonio di questi “risparmiatori”, che sono le truppe scelte dell’esercito conservatore e il cui numero, per proporzionalità alle centinaia di migliaia di case che compongono questo monte, va certamente oltre l’ordine delle decine di migliaia. Vi è poi la sterminata fanteria di coloro i quali sono proprietari degli appartamenti nei quali abitano (tra questi rientrano anche coloro che posseggono qualche o molti altri appartamenti oltre quello in cui abitano). Si tratta di una massa in continua e rapida crescita: 4.301.000 nel 1951 5.972.000 nel 1961, 7.562.000 il 20 gennaio del 1966; dall’andamento degli impieghi bancari e degli istituti speciali risulta che la crescita si è ancora accelerata nel 1967 e nel 1968.
La concentrazione delle case in proprietà è, comprensibilmente, maggiore nei comuni non capoluoghi che in quelli capoluoghi, nel Mezzogiorno più che nel triangolo industriale. Questo dato richiama inevitabilmente la questione del rapporto città-campagna (che è chiave rispetto al problema abitazioni) sulla quale occorrerà ritornare.
Le statistiche non dicono nulla sulla figura sociale degli oltre 7,5 milioni di proprietari di case; si limitano a darci le percentuali della distribuzione degli oltre 6 milioni di case in fitto a seconda della condizione professionale o non professionale del capofamiglia. Relativamente al 1966 dati, nell’ordine, sono i seguenti: imprenditore 0,5%; liberi professionisti 0,9%; dirigenti 1,3%; lavoratori in proprio 13,9%; impiegati 12,0%; lavoratori dipendenti 46,1%; coadiuvanti 0,5%; pensionati 20, 2,%; benestanti 0,3%; altri 4,3%.
Questi soli dati sono insufficienti a conclusioni socialmente qualificate, tuttavia se ne possono trarre almeno due indicazioni: la prima è la conferma che il problema dell’affitto interessa fondamentalmente (quasi nella misura dell’80%) i percettori di reddito fisso, lavoratori dipendenti, impiegati e pensionati; la seconda – alla quale si giunge anche attraverso un confronto tra la distribuzione percento e delle case in affitto e la distribuzione percentuale della popolazione totale secondo la condizione professionale e non professionale – conferma anch’essa ciò che si può facilmente intuire, e cioè che la massa prevalente dei proprietari è costituita da imprenditori, liberi professionisti, dirigenti, lavoratori in proprio e impiegati. Questa conclusione – che conferma quella derivante dalla scarsa incidenza dell’edilizia pubblica – contribuisce a dare una qualificazione sociale a quella che è stata qui definita come la fanteria del “complesso edilizio”: la massa rilevante dei proprietari di appartamenti (in generale di un solo appartamento o al massimo di due), più intensa nel centro-sud e nei comuni minori, è costituita fondamentalmente da ceti medi – e medio-alti – professionali, commerciali, imprenditoriali e impiegatizi, venuti in possesso di uno o più appartamenti o per precedente accumulazione familiare, o per aver varcato una soglia di reddito (o di sicurezza di reddito) che ha consentito l’acquisto in contanti o il versamento di una prima quota (aggirantesi grosso modo intorno al milione di lire) e quindi l’impegno di continuare a pagare per quindici o venticinque anni.
Va poi osservato che, in generale, la possibilità di acquisto di un appartamento si accompagna a uno status che consenta accesso o agevolazioni al credito. In sostanza la possibilità di acquisto presuppone condizioni di privilegio anche minimo, ma precluse alle masse lavoratrici: la proprietà della casa diventa, cioè, nell’attuale contesto, per un verso un elemento di distinzione sociale e per l’altro un aggregante, in senso conservatore, di quel complesso di stratificazioni, che – in modo piuttosto indeterminato – va sotto la definizione di ceto medio, al punto che si potrebbe concludere che è impossibile fare una politica di segno progressivo nei confronti del ceto medio senza sciogliere il nodo della casa, e che è impossibile affrontare il problema della casa senza – quanto meno – neutralizzare il ceto medio.
2. Al di sopra di questo schieramento di massa, vi è il gruppo dominante in verità eterogeneo e non fortemente coeso, almeno nelle sue pur consistenti frange marginali.
Ci sono i proprietari di grossi patrimoni immobiliari e gli speculatori, i padroni di piccoli orti suburbani, gli imprenditori che non sono sempre imprenditori soltanto, i gruppi finanziari privati e pubblici. La categoria dei puri proprietari di aree, non numerosa ma decisiva, grosso modo dalle prime fasi del boom edilizio fino al 1964, viene ora perdendo di peso in rapporto all’ingresso nel campo edilizio dei maggiori gruppi industriali del paese.
Il nucleo determinante di questo raggruppamento è sempre più nettamente costituito dalle società immobiliari, e più di recente, da società specificamente commerciali. Nelle società immobiliari la accumulazione di veri e propri demani di aree si unisce all’attività di costruzione e a quella finanziaria, sia per la raccolta di fondi di investimento, sia per il credito (a carissimo prezzo) praticato agli acquirenti a riscatto. Attorno a questo nucleo centrale si può calcolare vi siano un po’ meno di 50.000 imprese di costruzione e di installazione che assolvono, per una loro larga parte, il ruolo di imprese marginali e costituiscono una vera e propria fascia di copertura, destinata a essere sacrificata nei periodi di cattiva congiuntura. Vi è poi una massa consistente di piccoli speculatori, di intermediari, di procacciatori di favori ecc. Un mondo che non ha riscontri nell’industria vera e propria e che è specifico della persistente condizione di arretratezza e parassitismo del settore. (Il meccanismo di realizzazione della rendita continua a trascinarsi appresso forme di impronta feudale, ma si tratta pur sempre di un mondo esistente, niente affatto disposto a perire silenziosamente, da solo).
Descrivere e quantizzare il gruppo dominante richiederebbe, quanto meno, alcune ricerche dirette che mancano, ma in via di approssimazione possono avanzarsi due osservazioni.
A. Nel nucleo dominante del “complesso edilizio” si realizza uno dei collegamenti centrali tra le varie componenti dell’attuale potere borghese. Le dimensioni dell’“affare casa” sono tali da far superare ogni pregiudizio di modernità, e nel campo edilizio giocano tutti: per le grandi società assicurative l’investimento immobiliare risponde addirittura a un canone di buona amministrazione, ma intervengono anche i maggiori gruppi industriali e ci sono arrivate ormai, e con grande ampiezza di vedute (dalla tangenziale, al prefabbricato, alla società immobiliare), anche le imprese a partecipazione statale.
La saldatura-collusione con i pubblici poteri si realizza attraverso i piani di opere pubbliche, che sono uno degli esempi più realistici della concentrazione programmata: dato socialmente oggettivo rispetto al quale la proposta di un “buon governo” è solo illusione di resuscitare miti. Basterebbe soffermarsi su due o tre delle maggiori società immobiliari per mettere in evidenza questi collegamenti e offrire al lettore anche qualche dato interessante, ma si tratta in generale di fenomeni noti.
Quel che qui si vuole sottolineare è che ci troviamo oramai di fronte a un intreccio di interessi e di forze, consolidato sulla realizzazione di un dato surplus, nel quale si intrecciano, e si confondono in verità, forme diverse di rendita con interesse e profitti industriali e commerciali. Questo surplus viene realizzato in una generalizzata situazione di monopolio rispetto a un bene, la casa, il cui mercato, per le specifiche caratteristiche del bene (dove c’è una casa non può essercene un’altra, non trasportabilità ecc.), è tipicamente monopolistico e si svolge secondo le più dispendiose forme di concorrenza monopolistica (differenziazione del prodotto nelle sue infinite possibilità: dal tipo di casa, alla sua localizzazione in quartieri socialmente differenziati ecc.). In questa situazione di mercato monopolistico, e nella quale la rendita (nelle sue varie forme) non è più appropriazione esclusiva del proprietario fondiario, il solo esproprio generalizzato può non essere sufficiente (anzi è assai improbabile che lo sia) a ridurre radicalmente (o nella misura oggi attribuita all’incidenza della rendita) il prezzo di uso della casa. Se non si spezza l’aggregato di potere che si esprime nel “complesso edilizio” anche l’esproprio generalizzato rischia di pervenire allo stesso risultato cui è pervenuta l’accresciuta offerta di aree fabbricabili da parte dei comuni emiliani. Come ha scritto Giuseppe Campos Venuti:
«Lungi dall’abbassare il costo dei suoli edificabili, l’abbondanza di aree sul mercato vuol dire soltanto portarle tutte al massimo costo sopportabile dagli utenti, costretti a cedere al ricatto della insopprimibile fame di case che si crea in una società caratterizzata dal fenomeno dell’urbanesimo accelerato».
Del resto, nella nota situazione di penuria di case esistente a Roma non vi sono forse 30.000 abitazioni non utilizzate?
B. Questo blocco, specie con l’ingresso recente nel settore dei maggiori gruppi industriali, si prepara ad attraversare una fase di tensioni sia all’interno di quello che si definisce il nucleo dominante sia nei rapporti tra questo e la sua base di massa. Le categorie come rendita o profitto non sono quantità rispetto alle quali si possono fare sottrazioni o addizioni, ma concreti rapporti sociali che vanno sciolti con uno scontro; per questo occorre guardare ai nuovi elementi di tensione che possono favorire una disgregazione del blocco centrale, se non si vuole correre il rischio di finire con l’attaccare quel guerriero, di cui dice il poeta, che continuava a combattere ed era già morto. Questo è infatti il rischio che si corre quando si pensa di concentrare i propri colpi sulla rendita, e su coloro che si appropriano della sola rendita, nell’illusione di potere restaurare un mercato libero-concorrenziale delle abitazioni, è il rischio che si corre quando si sottovalutano le caratteristiche monopolistiche del mercato delle case e l’incidenza diretta che su questo carattere monopolistico ha, e avrà ancora in futuro, la determinazione storica del bene casa e del suo uso.
3. Rispetto al complessivo “blocco edilizio”, una posizione a sé stante, fondamentalmente antagonistica, ma col pericolo di essere a volte subordinata, ha la massa degli edili, tra le più sfruttate, ma anche tra le più coinvolte. Nel settore delle costruzioni lavorano circa due milioni di persone, nella grande maggioranza edili; questi lavoratori, in buona parte di recente provenienza meridionale o agricola, sono distribuiti in una miriade di aziende di varia dimensione e tra loro diversamente collegate (subappalto dell’impresa maggiore alla minore o, addirittura, semplice fornitura di forza-lavoro da parte di quest’ultima). All’interno della stessa organizza-zione del lavoro esiste una forte gerarchizzazione di fatto (la catena del cottimo), che è causa di divisione interna della categoria; la sicurezza della continuità del lavoro è fortemente soggetta ai cicli stagionali e congiunturali e ai casi della legislazione (legge-ponte per esempio).
Tutte queste cause di debolezza oggettiva e soggettiva comportano che le condizioni di lavoro siano subcontrattuali per moltissimi lavoratori (nella provincia di Milano, che non è certo tra le più arretrate, si calcola che il 30-40% degli edili subisca, in forme diverse, “gravi evasioni” alle norme regolanti il rapporto di lavoro). Una seconda conseguenza delle indicate ragioni di debolezza è costituita dalla permanente minaccia di subordinazione e strumentalizzazione: i casi di utilizzazione della massa degli edili come strumento di copertura o di pressione per deroghe ai regolamenti edilizi o ai piani regolatori, o contro leggi che possono ledere gli interessi del “complesso edilizio” fanno parte delle cronache del nostro paese.
Si aggiunga che proprio: a. la bassa composizione organica del capitale, b. la relativa brevità del ciclo produttivo; c. la coincidenza delle funzioni di speculatore, costruttore e commerciante nella stessa persona o gruppo, consentono ai boss dell’edilizia una elasticità di manovra nei confronti dei lavoratori assai maggiore di quella degli industriali veri e propri. Nel tenace e soffocante sistema di ricatto che tiene unito il vasto ed eterogeneo aggregato del “complesso edilizio” si realizza una pressione continua alla corporativizzazione coatta della categoria degli edili. Anche in questo caso però deve osservarsi che le trasformazioni produttive, che ormai si annunciano nel settore, insieme a prospettive di difficoltà e di tensione, prospettano anche la possibilità di accentuare e rendere più netto il contrasto di classe tra proletario e capitalista, che è specifico al rapporto di lavoro dell’edile.
L’obiettivo politico, proprio in rapporto al problema della casa non ci pare sia tanto quello di impegnare gli edili in lotte per la riforma, quanto piuttosto di rafforzarne il potere contrattuale e quello relativo ai modi di organizzazione del lavoro, in modo da impedirne l’uso strumentale da parte del padronato.
Queste componenti sociali del cosiddetto blocco edilizio, oltre che da ragioni immediatamente economiche, sono tenute insieme anche da legami che possono considerarsi sovrastrutturali: la famiglia, i modelli culturali e il consumo.
L’attuale modo di abitare sarebbe certo del tutto diverso ove l’attuale famiglia fosse stata superata e, per converso, si può anche sostenere che una soluzione sociale del problema delle abitazioni non è possibile fino a quando la famiglia imporrà un certo uso della casa. La famiglia è ancora un centro di rapporti di riproduzione, storicamente determinati, e di produzione di servizi; è un centro di consumi individuali; un rifugio di fronte alle difficoltà e alle durezze della vita nella società. Queste funzioni famigliari si rispecchiano nettamente nelle forme assunte dal bisogno (in origine naturale) di abitare; è un punto questo sul quale ha esattamente ragione Adorno quando dice: «A che punto siamo con la vita privata si vede dalla sede in cui dovrebbe svolgersi».
Ma non si non si tratta solo di questo. Come la famiglia non si è ancora liberata del tutto da funzioni di produzione e di accumulazione, così la casa non è ancora soltanto un bene di consumo, resta ancora un bene capitale, occasione di investimento privato (anche forzato o poco conveniente come per gli acquisti a riscatto) che continua a mantenere sostenuto il mercato, salda la difesa della rendita, tenace la resistenza alla socializzazione della casa.
Le funzioni di rifugio privato e di centro di consumi privati hanno nell’attuale abitazione privata la loro massima esaltazione e, nella misura in cui, trasformandosi in bene di consumo, la stessa abitazione diventa un esaltazione di consumo socialmente improduttivo. L’abitazione si imbottisce di beni di consumo sempre più costosi e sempre più scarsamente utilizzati; diventa – alle varie scale – momento di raffinamento continuo dei bisogni privati da un lato e quindi, dall’altro (in un sistema capitalistico) momento coattivo di imbarbarimento e di astratta semplificazione dei bisogni. Il risvolto di questa abitazione, bene e centro di consumo, momento di progressivo raffinamento del bisogno privato è quello, sia pur con iperbole giovanile, lucidamente indicato da Marx:
«Lo stesso bisogno dell’aria aperta cessa di essere un bisogno nell’operaio; l’uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria è però viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando essa per lui un’estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno può essere cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare. La casa luminosa, che, in Eschilo Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per l’operaio [... ] e parimenti il povero apprende che la sua dimora è qualitativamente opposta alla dimora umana che ha sede nell’al di là, nel cielo della ricchezza».
La citazione di Marx è solo una indicazione e l’Italia, per varie ragioni, è ancora diversa dagli USA, ma pure nel nostro paese le indagini sulle condizioni abitative non solo dei marginali ma anche di larga parte dei ceti operai non offrono quadri luminosi, e gli esempi di differenziazione di prodotto in rapporto al bene e ai beni di consumo domestico diventano sempre più frequenti.
Del tutto al di fuori del blocco del cosiddetto “complesso edilizio” sono gli inquilini e i cittadini senza casa, i baraccati, gli abitanti alloggi impropri. I primi – come tutti sanno – numerosissimi, da un punto di vista sociale non sono niente: sono soltanto un disaggregato sociale. Non solo va respinta la facile assimilazione del rapporto tra inquilino e padrone di casa a quello tra proletario e capitalista, ma ancora va chiarito – nonostante l’elevato livello del fitto solleciti iniziative più generali – che l’unificazione di base tra inquilini (per contrattare il fitto o altre condizioni di locazione) può realizzarsi soltanto tra persone che abbiano l’elemento aggregante non solo nel contratto di fitto, ma anche nel rapporto di lavoro e nella condizione sociale, cioè in una specificità effettiva, tale che la lotta per la riduzione del fitto non muova da un rapporto mercantile fondamentalmente astratto (padrone di casa-inquilino), ma dal rapporto di lavoro concreto che qualifica socialmente la lotta. Va però sottolineato che il livello raggiunto dai fitti consente, nell’immediato, una serie di iniziative da parte di inquilini abitanti in quartieri anche socialmente eterogenei.
I cittadini senza casa che sono tanti e concentrati soprattutto nelle grandi città, sono quello che negli Stati Uniti si definisce il “proletariato urbano” (o i negri), sono un analogo dei contadini senza terra nelle campagne e, proprio in quanto testimonianza vivente della incapacità di tutti i capitalismi di risolvere il problema, sono il ferro di lancia nella lotta anticapitalistica per la casa. Sono le forze che lottando per conquistarsi la casa, oggettivamente (e con un livello di coscienza certamente più elevato di chi può acquistarsi l’uso della casa sul mercato capitalistico) negano l’assetto capitalistico della società e pertanto portano in germe (nonostante la degradazione culturale e le alterazioni di valori intrinseche alla miseria in una società di ricchi) forme e modi di uso della casa di segno non capitalistico, che comunque vanno oltre l’orizzonte borghese dell’uso individualistico e privatistico della casa. Del resto nelle baracche e nelle coabitazioni il capitale fa ogni giorno giustizia sommaria degli ideali di “focolare”, e di “nido”, e anche di “famiglia”. Ma le forze dei “baraccati”, dei soli cittadini senza casa non bastano a vincere in questa lotta anticapitalistica.
Come la lotta dei contadini senza terra raramente ha superato la soglia della jacquerie, così le impetuose occupazioni di questi mesi rischiano di diventare una guerra contadina, di esaurirsi in una serie di scontri, o nella precaria conquista di alcuni edifici. L’articolazione e la forza del “complesso edilizio”, il peso delle sue componenti, la tenacia e profondità dei suoi leganti, economici e non economici, e soprattutto l’indissolubile dipendenza della penuria di case dall’esistenza del sistema capitalistico comportano che l’offensiva dei cittadini senza casa, per essere efficace, debba iscriversi in una più vasta articolazione di lotte, che investano tutti i gangli dell’attuale equilibrio capitalistico e abbiano obiettivi al livello delle trasformazioni e delle contraddizioni in atto.
Ora, l’attuale situazione si caratterizza da una parte per la persistente esasperazione e offensiva di una importante avanguardia, costituita dai cittadini senza casa, e dall’altra dalla prospettiva di tensioni all’interno del nucleo dominante il “complesso edilizio”, quanto meno per l’ingresso in campo di nuove forze imprenditoriali, private e del capitalismo di stato. Questo ingresso provocherà tensioni all’interno delle forze attualmente dominanti il mercato edilizio e investirà necessariamente la massa degli edili, che dovrà ridiscutere i suoi rapporti col padronato e quindi sarà impegnata in lotte di grande peso. Contemporaneamente è registrabile in alcune sfere di comando della nostra economia (discorsi di Petrilli, di Carli, di Agnelli) la coscienza che l’elevato costo delle case (che aumenta necessariamente il prezzo della forza lavoro), dato l’attuale livello del potere rivendicativo della classe operaia, incide negativamente sulla redditività e competitività della industria. Nell’ipotesi quindi che la classe operaia non subisca, nel breve periodo, gravi sconfitte, è assai probabile che l’intervento pubblico e privato nel settore edile provochi un arresto o anche una lieve flessione nella dinamica ascendente dei fitti e della valorizzazione delle abitazioni di livello medio-basso. In questa ipotesi (che non sarebbe diversa dalle cicliche espropriazioni dei risparmiatori che hanno investito in case), la potente fanteria dei piccolo-medi proprietari di casa avrebbe fatalmente degli ondeggiamenti (basterebbe uno spostamento del risparmio verso gli investimenti in obbligazioni, in molti casi già oggi più convenienti) e il gruppo di potere sarebbe indebolito proprio nella sua decisiva base di massa.
Queste affrettate ipotesi non vogliono delineare una illusoria prospettiva di automatico crollo del “complesso edilizio”, ma la prospettiva di un allentamento della sua coesione e la possibilità di riaggregare in un blocco alternativo parte delle forze che oggi lo compongono, e che le politiche per la casa fin qui fatte (emerge così anche l’inefficacia della politica nei confronti dei ceti medi e delle città meridionali) hanno invece consolidato, o ingrossato.
La possibilità di disaggregazioni e riaggregazioni sottolinea la necessità e l’urgenza di elaborare e costruire una linea efficace, e quindi alternativa a quella riformista, fallita. Una linea alternativa non si inventa: viene prendendo forma, nel corso del tempo, attraverso le esperienze del movimento, la riflessione, il confronto polemico, anche. Nel numero 3-4 del “ Manifesto”, dalle schede, dagli articoli, dall’esame della forma della rendita, emerge già un primo abbozzo di linea alternativa, del quale cerchiamo qui di isolare i tratti essenziali. E va ricordato che a rendere alternativa una linea non basta, né è necessario, l’attribuzione di un obiettivo “più avanzato”. Non occorre essere strutturalisti per capire che il segno di una linea dipende dalla organizzazione dei suoi obiettivi e dai rapporti intercorrenti tra obiettivi e forze sociali. Così una linea che non si fondi su una analisi (e su una organizzazione) delle forze sociali e non consideri l’obiettivo come momento di aggregazione e potenziamento di uno schieramento socialmente qualificato, ma punti invece, sostanzialmente, a sommare rivendicazioni (quando non addirittura proposte) con un riferimento socialmente indeterminato (programmi d’opinione pubblica o programmi genericamente antimonopolisticì) potrà forse essere utile in una fase di difesa, ma sarà sempre una linea verticistica (con netta separazione tra momento sociale e momento politico) e riformista.
Schematizzando al massimo, questa linea si caratterizza per cinque qualificazioni: A. essere anticapitalistica; B. avere come sua avanguardia i lavoratori privi di abitazione e gli inquilini poveri aggregati in base alla loro qualificazione sociale; C. fondarsi su un movimento di vertenze sociali autogestite; D. avere l’obiettivo della casa come servizio sociale, rompendo quindi l’attuale tipizzazione privatistica del prodotto casa e del suo uso; E. avere l’obiettivo della nazionalizzazione del settore edile, oltre all’esproprio generalizzato delle aree.
Di questi punti, esaminati anche negli altri articoli, qui si considerano rapidamente solo il primo e gli ultimi due:
A. Caratterizzare come anticapitalistica la lotta per la casa consegue alla constatazione che il capitalismo in nessun paese è stato finora in grado di assicurare una abitazione abitabile a tutti, e quindi che il problema non si risolve attraverso riforme, ma solo attraverso il rovesciamento del sistema. Le prevedibili obiezioni di nullismo appaiono concretisticamente miopi e avvocatesche. La risposta più facile sarebbe nel dire che il più grosso concentrato di nullismo politico si trova nelle opere di Marx, o che ripubblicare la Questione delle abitazioni di Engels senza una prefazione che spieghi come con la GESCAL o con l’attesa legge urbanistica sia cominciata o comincerà una nuova fase del capitalismo, sarebbe prova di massimalismo intellettualista. E a voler rimanere sempre ai primi elementi di marxismo si potrebbe ancora ricordare che in Salario, prezzo e profitto, Marx – che pure aveva particolarmente insistito sul fatto che il proletariato si sarebbe liberato solo attraverso la distruzione del capitalismo – non ritenesse tutto ciò incompatibile con la lotta operaia per migliorare i salari reali. Dire che questa lotta deve essere anticapitalistica se vuole avere un senso, significa avere chiarezza del problema e quindi della necessità di condurla in connessione con le altre lotte (che debbono essere anch’esse di segno anticapitalistico), quelle operaie e quelle per la conquista di alcuni strati di ceto medio (gli statali per esempio), quelle contadine e quelle meridionali. Significa che questa lotta deve avere, per essere efficace, un respiro ideale e culturale comunista, che deve alimentare – traendone forza essa stessa – un contropotere di classe. Proprio nel caso delle abitazioni vale ripetere che «l’opposizione tra la mancanza di proprietà e la proprietà, sino a che non è intesa come l’opposizione tra il lavoro e il capitale, resta ancora una opposizione indifferente».
D. Fare della casa un servizio sociale comporta assicurare a tutti l’abitazione in base ai bisogni di ciascuno: è un obiettivo comunista, ma raggiungibile, e già oggi può consentire di migliorare le condizioni di abitazione degli strati inferiori della società. Le esperienze del boom e le decine di migliaia di case vuote dimostrano che non ci troviamo di fronte ad impossibilità per carenza di capacità produttive in astratto, ma ad impossibilità derivanti dai modi di operare di queste capacità, dai profitti o sovraprofitti e sprechi da eliminare. L’ingresso nel settore edilizio di grandi gruppi imprenditoriali annuncia una industrializzazione e una più spinta tipizzazione della produzione; la rivendicazione della casa come servizio sociale può consentire di intervenire su questa tipizzazione e sulla sua graduazione contrastando, sulla base di una impostazione egualitaria, una differenziazione del prodotto in base ai livelli di reddito e cercando di ottenere che la stessa necessaria tipizzazione corrisponda a scelte autonomamente elaborate dagli utenti delle case e dagli architetti. Non si tratta qui di definire modelli di case per il futuro, ma di tornare a ribadire che, in quanto consumo sociale, l’abitare si deprivatizzerà e casa e città dovranno assicurare ricchezza di libertà individuale e intensità di rapporti sociali nel senso di Marx, quando scrive del “comunismo come soppressione positiva della proprietà privata” e dei modi privatistici di vita a quella conseguenti. L’abitare inteso come consumo sociale comporta che la tipologia delle nuove abitazioni, e quindi delle città, si liberi dalla rigidità che ha dominato per secoli e che ancora oggi crea frizioni costose tra modi di costruzione e modi di abitare, di studiare, di curarsi, ecc. Al di fuori della futurologia si vuole solo affermare che casa e città dovranno essere tra l’altro adattabili al variare delle esigenze sociali.
E. Per nazionalizzazione del settore edile deve intendersi che le abitazioni avranno un regime analogo a quello delle scuole, che sono un bene pubblico. Non si tratta, neppure in questo caso, di definire i particolari del futuro, ma di limitarsi ad alcune indicazioni, per esempio che non appare utile estendere la nazionalizzazione al patrimonio edilizio esistente (che col passare del tempo dovrebbe esaurirsi) limitandola invece alle nuove costruzioni. La nazionalizzazione delle cose di nuova fabbricazione è, da una parte una logica conseguenza della rivendicazione, ormai diffusa, che si esprime nella formula “casa come servizio sociale”, e, dall’altra, è una condizione necessaria perché l’agganciamento del canone di fitto alle possibilità di pagamento dell’utente (e anche questa è una rivendicazione diffusa) non dia luogo alla creazione di una serie di ghetti rigidamente distinti a seconda dei livelli di reddito. Vi sono evidentemente una serie di problemi, da quello dell’assegnazione (che potrebbe avvenire anche attraverso simulazioni di mercato) a quello del finanziamento (che potrebbe ricadere sugli utenti o sulla società nel suo complesso), ma si tratta di questioni che troveranno soluzione soltanto nel corso della lotta per la casa e delle altre lotte, nella misura in cui quella e queste andranno avanti. Ma se si vuole che chi non ha abitazione possa conquistarsela e chi la ha possa riappropriarsi di un uso “umano, cioè sociale” della abitazione, crediamo proprio che la via da seguire sia quella, nella quale il cambiamento del modo di produzione si accompagni al cambiamento della natura del prodotto.
Cliccate qui sotto per scaricare il testo integrale:
Valentino Parlato, Il Blocco edilizio, 1970
ilmanifesto, 3 maggio 2017 (c.m.c.)
La crisi delle istituzioni, la loro sempre più debole capacità di «rappresentare» gli interessi e le spinte al cambiamento di una maggioranza di cittadini, pur nella diversità delle loro condizioni sociali e ideali politici, sembra essere l’elemento inquietante di convergenza tra populismi di destra e di sinistra. C’è chi agita il mito del popolo sovrano per scardinare la democrazia e chi, al contrario, spera di allargarne le maglie, facendo crescere le opportunità di partecipazione.
La presa di distanza dalle istituzioni non è da oggi. Che cominciassero a venire meno le ragioni storiche che le avevano fatte sembrare necessarie, e che stesse rapidamente cambiando la realtà sociale con il modificarsi dei confini tra privato e pubblico, la comparsa di forme autonome dell’agire politico, create dai movimenti fuori dalle organizzazioni partitiche e sindacali, si era già visto alla fine degli anni Sessanta.
A proposito del depotenziamento della polarità sinistra-destra, scriveva Elvio Fachinelli: «Propongo di esaminare la necessità tragica, in cui si è trovata finora gran parte della specie, di ricorrere a una serie di polarità in forte tensione, di dicotomie simboliche che, variando di sostanza e di figura, hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella storia. Basterà pensare alla dicotomia fedele/infedele, credente/non credente, razza eletta/razza reietta» (Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, 1974).
Sono passati da allora alcuni decenni, ma le coppie oppositive, su cui si sono rette le civiltà finora conosciute non accennano a darsi per vinte, a partire da quella originaria che ha considerato il sesso femminile il complemento organico dell’unico umano perfetto: l’uomo.
Nell’analisi che Alfio Mastropaolo ha fatto alcuni giorni fa su il manifesto (27/04/2017) dell’esito delle elezioni in Francia, si legge: «Tutti i populismi sovranisti sono antipolitici. Spregiano la politica democratica e il suo apparato di regole e di diritti. Ma non tutti gli antipolitici sono populisti. Molti sono anti-establishment, sono contro partiti convenzionali. Magari contro le istituzioni europee. Oltre la destra e la sinistra, ma non disdegnano le istituzioni democratiche (…) gli antipolitici di sinistra vorrebbero accrescere le opportunità di partecipazione popolare». Dopo essersi rallegrato della «strepitosa vittoria» di questi ultimi e della Waterloo di quelle «piccole cittadelle del privilegio» che sono i partiti tradizionali, arriva, sconfortante, la conclusione: «La più democratica delle antipolitiche è invertebrata».
Così come era accaduto ad Obama, anche Macron, «senza una solida struttura che connetta Stato e società, è probabile che finisca tra le grinfie del business, donde proviene».
A breve distanza di tempo, mi è capitato di leggere due altri articoli che, sempre con l’attenzione a quanto succede in Francia, disegnano un quadro all’apparenza estraneo a quello che è al centro dei media, e portano dentro le polarità che conosciamo, oppositive e simili al medesimo tempo – sovranisti populisti e antipolitici democratici -, una realtà sociale e politica destinata a far scomparire ogni surrettizia e mitologica idea di popolo. Non si può dire che i movimenti «no global» – dal popolo di Seattle, al Genoa Social Forum, a Occupy Wall Street, Indignados, fino a Nuit Debout – siano «soggetti imprevisti» come furono i giovani e le donne degli anni Sessanta e Settanta. Caso mai si possono considerare la «ripresa», ora manifesta ora carsica, di una straordinaria partecipazione popolare, allargamento dell’impegno politico, creazione di forme inedite di democrazia diretta, come lo furono in passato il movimento non autoritario nella scuola e il femminismo.
Il legame tra società e Stato ha fatto da tempo il suo ingresso nella sfera pubblica e se ancora si vede solo il deserto su cui crescono fatalmente nuovi totalitarismi e inconsistenti governi democratici, è perché nessuno, tra i politici, gli intellettuali, gli opinionisti, sembra vederlo e volerne parlare.
Riferendosi a Nuit Debout e ai movimenti che si sono via via succeduti nel tempo, Lorène Lavocat su Reporterre-net il 6 aprile scrive: «Il movimento non è fallito, ho visto fiorire collettivi e inziative, alcune commissioni nate in quella piazza (come quella di Educazione popolare) continuano a incontrarsi».
Si tratta di un movimento che si pone come «convergenza» di pratiche diverse «senza che si verifichi una fusione o unità».
Quel deficit di democrazia su cui aleggia oggi minaccioso il fantasma dei fascismi e nazionalismi che l’Europa ha tragicamente già conosciuto, trova qui la sua risposta più radicale e realistica al medesimo tempo: «dare ai cittadini la capacità di influire in modo continuativo sulle decisioni, ridurre al minimo l’estrema presidenzializzazione del sistema, accrescere il controllo dei cittadini sui loro rappresentanti, garantire il pluralismo dell’informazione».
Mariana Otero, che sta per far uscire un documentario sulle assemblee parigine – L’Assemblea – definisce Nuit Debout un «appello alla democrazia», ma anche un luogo in cui la si vuole già praticare come «riappropriazione del potere politico da parte dei cittadini attraverso la riconquista della parola».
Le fa eco David Graeber in un articolo di pochi giorni dopo («Effimera» 20 aprile): «spazi prefigurativi, zone di sperimentazione democratica (…) parte di una civilizzazione insorgente, planetaria per portata e ambizione, nata da una lunga convergenza di esperimenti simili realizzati in ogni parte del pianeta (…) con contributi essenziali del femminismo, dell’anarchismo, disobbedienza civile non violenta».
I movimenti che raccolgono le esigenze radicali di ogni passaggio storico e tentano di darvi una risposta con azioni creative dal basso, sono la testimonianza viva, appassionata che «un altro mondo è possibile». Ma sono anche la realtà sociale e politica che le istituzioni, dalla scuola ai partiti, sindacati, parlamenti, volutamente ignorano o reprimono con la violenza.
«». huffingtonpost 1°Maggio 2017 (c.m.c.)
Quanti, tra i “lavoratori” della cultura, possono fare loro le parole che Giorgio Gaber cantava nel 1965? Oggi il più difficile da far proprio è il primo verso: perché tra chi manda avanti il patrimonio culturale non manca chi spera, né chi lotta, ma tende a mancare chi vive del lavoro. Perché dietro i lustrini dei grandi musei ipercommerciali di Franceschini, dietro i siti archeologici di grido, dietro l’agonia della biblioteche e degli archivi c’è uno schiavismo senza diritti e senza redditi mascherato da volontariato.
Ebbene, una delle cose più insopportabili di questa insopportabile situazione è che gli schiavi trenta-quarantenni del patrimonio non hanno neanche il modo di parlare con la loro voce. E allora almeno oggi – in questo primo maggio 2017 – vorrei provare ad ascoltarla, questa voce. È per questo che pubblico una delle lettere che ogni tanto mi giungono dagli inferi del patrimonio culturale italiano:
«Egregio prof. Montanari,
siamo un gruppo di lavoratori della Biblioteca nazionale di Roma, formalmente inquadrati come volontari.
In quanto lavoratori sfruttati, ci sentiamo vicini a tutti i precari che, come dice Guido Cioni, oggi non trovano la giusta collocazione nella pubblica amministrazione, vittime di un mondo del lavoro ormai frammentato e non più in grado di offrire il giusto riconoscimento e collocamento a chi ha investito anni e soldi nello studio per vedere realizzate le proprie speranze e aspirazioni.
Il Mibact, attraverso lo strumento del project financing, ha dato avvio a interventi di ristrutturazione e restyling della Biblioteca senza porre al centro dei suoi obiettivi il lavoro e ignorando le funzioni essenziali di un simile istituto. Le biblioteche, soprattutto in un paese ricco di storia come l’Italia, sono luoghi in cui dovrebbe essere celebrata la cultura, nel rispetto della dignità del lavoro.
Crediamo infatti che solo riconoscendo le professionalità di chi vi opera sia possibile valorizzare il nostro patrimonio e garantire una buona qualità dei servizi erogati all’utenza, un’utenza peraltro sempre più insoddisfatta.
Non si comprende dunque come si possa porre rimedio alle carenze di personale con il volontariato retribuito e non retribuito, con l’utilizzo del servizio civile (altra forma di volontariato) o con l’assunzione di un numero irrisorio di addetti.
A nulla sono serviti i nostri tentativi di dialogo con il direttore della Biblioteca e con il Ministero.
Siamo convinti che ogni battaglia per il riconoscimento dei diritti connessi al lavoro si possa vincere solo se si marcia uniti, facendo rete, costruendo una comunicazione continua tra le realtà presenti sul territorio, tra studenti (i lavoratori del futuro), volontari (che con fatica provano ad arricchire di competenze il proprio curriculum in vista di un contratto) e lavoratori sfruttati e non inquadrati sulla base delle abilità acquisite.
Facciamo parte di una generazione molto bistrattata e dunque scoraggiata. Stiamo invecchiando con prospettive lavorative che rischiano di trasformarsi in illusioni, la realizzazione professionale è ormai un miraggio, considerando che la realtà in cui viviamo ci costringe irrimediabilmente ad abbassare le nostre giuste aspettative, e le politiche neoliberiste degli ultimi vent’anni hanno progressivamente sgretolato quei diritti che ci avrebbero garantito certezze per l’avvenire.
Le chiediamo di incontrarci, di raccontarci, di confrontarci per comprendere meglio quali siano gli obiettivi che possano unirci, nel breve e lungo termine, e spingerci a una mobilitazione comune. Le battaglie si vincono e si perdono. Ciò che può fare sempre la differenza è la coscienza di aver agito per costruire un futuro migliore per noi e i nostri figli, restituendo parola a chi si sente “invisibile” come noi, come molti in Italia».
Ecco l’unico modo possibile per “festeggiare” il primo maggio: prendersi il tempo per ascoltare e meditare la voce di chi non ha voce. La voce di chi lotta: di chi spera di poter vivere, un giorno, del lavoro che già sta facendo.
Per noi, che abbiamo letto e meditato su testi di autori lontani nel tempo (ma vicini alla verità) il lavoro è un valore, una dimensione essenziale dell'uomo, maschio o femmina che sia. È lo strumento che consente all'uomo, collaborante con i sui simili vicini o lontani nel tempo e nello spazio, di conoscere l'universo (quello della materialità come quello dello spirito e dei sentimenti) e a governarlo.
Nell'età lunga (troppo lunga) del capitalismo il sistema dominante ha condotto gli uomini a lavorare insieme, e a riconoscersi come una forza potenzialmente antagonista dello stesso sistema di cui facevano parte come sfruttati. I secoli che abbiamo alle nostre spalle sono interamente intessuti dalle vicende di quell’antagonismo, e dei successi e insuccessi delle parti in conflitto.
Oggi questa data ci fa riflettere sul che cosa abbiamo ottenuto e che cosa abbiamo perso. Dobbiamo però precisare quale attore vogliamo essere in questa riflessione: se vogliamo essere il cittadino dei paesi del benessere, e se in questo ambito vogliamo indossare l’abito e il punto di vista del ricco, oppure del benestante, o del povero. Una scelta simile dovremmo fare anche se volessimo collocarci al di fuori dei paesi del benessere: anche lì ci sono le differenze, le “classi”.
Cercheremo oggi di metterci nella collocazione di quelli che sono di più, della moltitudine, così le nostre considerazioni avranno un maggiore valore statistico. Come nell’Inferno dantesco, troveremo nostri simili in vari gironi: nell’infimo i profughi, quelli che oltre al lavoro hanno perso la casa, la terra, il cibo, la libertà; un po’ più su, gli schiavi: quelli che sono obbligati a svolgere lavori, ma privati di ogni scelta circa le sue condizioni, retribuzioni, tempi; e a rischio di perdere – se lo rifiutano – anche il luogo ove vivere.
Descritto l’inferno, ci manca di raccontare chi è il demonio. Non vi è dubbio che si tratti di quel neoliberismo che già nelle sue riflessioni iniziali poneva al primo piano la riduzione del peso sociale del lavoro. E ricordiamo allora, visto che la data corrisponde, che proprio oggi, 1° maggio 2017 circa 2 milioni di italiani festeggiano l’ulteriore vittoria di uno dei più titolati traduttori del pensiero neoliberista in FARE, Matteo Renzi.
il Fatto quotidiano, 30 aprile 2017
Il 19 aprile, a Catania, ho incontrato il procuratore Carmelo Zuccaro, che rispondendo a una mia specifica domanda ha ripetuto le preoccupazioni già espresse il 22 marzo in un’audizione alla Camera, sull’attività di alcune Ong che fanno Ricerca e Salvataggio spingendosi se necessario nelle acque territoriali libiche. Preoccupazioni più prudenti erano apparse in dicembre in un rapporto dell’agenzia Frontex. Le Ong che il procuratore sospetta di collusione con i trafficanti sono sei: cinque di origine tedesca (Sos Méditerranée, Sea Watch Foundation, Sea-Eye, Lifeboat, Jugend Rettet), una spagnola (Proactiva Open Arms). Nell’audizione il procuratore ha escluso dai sospetti Medici senza frontiere e Save the Children.
Alcune premesse sono indispensabili.
– La prima riguarda il linguaggio. Quando affermo che le Ong intervengono “se necessario”, e che le operazioni includono la ricerca oltreché il salvataggio, è perché questo prescrive la legge. Soccorrere una barca a rischio naufragio è una necessità. E chi svolge tale compito deve non solo assistere la barca casualmente incrociata, ma anche mettersi in ascolto (cioè cercare) chiunque lanci Sos di soccorso, anche da lontano. I due termini sono accostati nella Convenzione Onu di Amburgo sulla Ricerca e il Soccorso in mare adottata nel 1979.
– Seconda premessa: quando incombe il naufragio non è possibile distinguere tra le motivazioni dei fuggitivi. A chi affonda non puoi chiedere se stia cercando un lavoro o se scappi da guerre o oppressioni. Non puoi salvare il richiedente asilo e lasciare affogare chi subodori non lo sia, e non solo perché non hai gli “strumenti” che facilitino la distinzione. Puoi lasciare affogare o no. La prima opzione viola la legge del mare.
– La terza premessa riguarda la Libia. C’è stata una guerra, cui l’Italia ha partecipato, che con la scusa di eliminare una dittatura ha creato violenze incontrollabili da qualsivoglia autorità interna. Risultato: esistono sufficienti prove che la Libia non è più solo un Paese di transito, ma un Paese da cui si evade in massa (penso agli ex immigrati del Bangladesh nel Paese di Gheddafi). Nei centri dove vengono rinchiusi e a volte uccisi, i fuggitivi vivono “in condizioni peggiori che nei campi di concentramento”, ha confermato a gennaio una lettera dell’ambasciatore tedesco in Niger al proprio ministero degli Esteri. Esiste poi una vasta rete di commercio di persone sequestrate, torturate, vendute come schiave, come denunciato il 9-10 aprile dall’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (Oim), legata all’Onu.
Non le Ong ma ancora una volta l’Onu, attraverso un rapporto del 13 dicembre 2016 dall’Alto commissariato per i diritti umani, ha dichiarato che la Libia non è un Paese sicuro. Conseguenza: le persone soccorse lungo le sue coste “non devono essere sbarcate” nella terra più vicina, in Libia.
A queste premesse ne aggiungo altre due, che valgono per qualsiasi Paese abusivamente chiamato sicuro (Eritrea, Sudan, Turchia);
– Chiunque fugga da uno Stato che non garantisce gli elementari diritti della persona ha diritto a ottenere protezione internazionale sulla base di un esame personale delle proprie richieste (Convenzione di Ginevra del 1951).
– La legge internazionale contempla sia il diritto per l’imbarcazione in difficoltà a lanciare un Sos di salvataggio, sia il dovere, per le navi che ricevono il messaggio, di attivarsi soccorrendo. Oggi la chiamata avviene con i telefoni satellitari, il che estende il perimetro della ricerca e del salvataggio. La Ricerca implica per forza l’uso di telefoni sempre accesi, perché l’Sos possa essere inteso in tempo utile.
Queste realtà sono così evidenti che Frontex stesso ha precisato di non aver parlato di “collusione” fra Ong e trafficanti. Ancora più chiara la messa a punto del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans. Ai parlamentari europei, il 26 aprile a Bruxelles, ha detto: “Non c’è alcun tipo di prova che esista una collusione fra le Ong e le reti criminali di smuggler per aiutare i migranti a entrare in Europa”. Dubito che il procuratore Zuccaro abbia prove che l’Unione e Frontex non possiedono. Nell’incontro che ho avuto a Catania, lui stesso ha ammesso di non averle: “È il motivo per cui non abbiamo aperto un fascicolo”. È molto singolare che appena una settimana dopo, il 27 aprile su Rai3, torni sulla vicenda accusando alcune Ong non solo di intrattenere rapporti con i trafficanti ma anche di destabilizzare l’economia italiana. Sono d’accordo con quanto detto da Erri De Luca il 27 aprile: simili accuse non sono che “insinuazioni”, incompatibili con il mestiere di procuratore.
Fatte queste premesse, la conclusione mi pare chiara. Se è vero che la Libia non è un Paese sicuro (così come non lo sono Eritrea o Sudan, con cui Roma ha negoziato un accordo di rimpatrio di migranti lo scorso agosto), se è vero che i migranti rischiano torture, schiavizzazione e morte nei campi libici, lo smuggler non può essere l’esclusivo avversario da contrastare, tanto più che gli scafisti sono spesso scelti tra i migranti, minorenni compresi. A partire dal momento in cui esistono fughe da condizioni esistenziali invivibili, e mancano vie legali di fuga, gli smuggler sono inevitabili. Non a caso il loro nome muta nella storia. Gli smuggler che aiutarono a fuggire antifascisti, antinazisti ed ebrei erano evidentemente pagati. Non si chiamavano trafficanti ma passeur in francese, schlepper o Helfer (aiutanti) in tedesco. Lo stesso dicasi dei boat people in fuga dal Vietnam, nel 1978-79. Nessuno in Occidente se la prese con i trafficanti: si era in Guerra fredda e ai boat people venne offerto un santuario incondizionatamente.
Nessun profugo fugge senza soffrirne, e i più muoiono nei deserti prima di arrivare in Europa. Il loro è un esilio forzato. Come tutti noi, sono marionette di “grandi giochi” geopolitici ed economici che hanno militarmente devastato o desertificato le loro terre. Da questa realtà occorre partire. Ricordo anche che il soccorso in mare è sempre più equiparato a un atto sospettabile, nelle decisioni dell’Unione: per questo fu abolito Mare Nostrum, nel 2014. Nello stesso momento in cui la Ricerca e il Salvataggio sono definiti un pull factor (un fattore di attrazione), viene volutamente oscurato l’essenziale che è il fattore che spinge alla fuga (il push factor).
Su due punti il procuratore ha ragione. Le Ong riempiono – al pari dei trafficanti – un vuoto: intervengono perché non esistono vie legali di fuga e scelte europee su Search and Rescue. E non le preture ma i politici sono i responsabili di tali storture. A una risposta, tuttavia, il procuratore non risponde: che fare, se la politica non si muove? Cosa si ripromette, screditando non solo alcune piccole Ong che vivono di donazioni private ma anche la Guardia costiera italiana che agisce coordinandosi con loro?
Invito il M5S a usare un altro vocabolario (la parola “taxi” dei migranti è fuori luogo e sbadata). Invito il procuratore a leggere Lord Jim di Joseph Conrad. Consegnare le persone al naufragio è una scelta che macchia. Il capitano Jim sa di aver perso la sua grande occasione, abbandonando la nave disastrata. Nel resto della vita dovrà trovare la sua seconda occasione, per riparare al peccato di omissione.
la Repubblica, 30 aprile 2017
«Sono preoccupato per il caso Regeni, la Santa Sede si è mossa ». Così Francesco durante il volo di ritorno dal Cairo, diciottesimo viaggio fuori dai confini italiani. Il Papa parla del caso Regeni, dei populismi in Europa, della necessità che in Corea del Nord «si proceda con la strada della diplomazia».
il manifesto, 29 aprile 2017
«L’Italia partecipa a testa alta all’Alleanza Atlantica, nella quale è il quinto maggiore contributore, e conferma l’obiettivo di raggiungere il 2 per cento del Pil nelle spese militari»: lo ha dichiarato il presidente del consiglio Gentiloni.
Proprio ricevendo il 27 aprile a Roma il segretario generale della Nato Stoltenberg. Ha così ripetuto quanto già detto al presidente statunitense Donald Trump, ossia di essere «fiero del contributo finanziario dell’Italia alla sicurezza dell’Alleanza», garantendo che, «nonostante certi limiti di bilancio, l’Italia rispetterà l’impegno assunto».
I dati sulla spesa militare mondiale, appena pubblicati dal Sipri, confermano che Gentiloni ha ragione ad andare fiero e a testa alta: la spesa militare dell’Italia, all’11° posto mondiale, è salita a 27,9 miliardi di dollari nel 2016. Calcolata in euro, corrisponde a una spesa media giornaliera di circa 70 milioni (cui si aggiungono altre voci, tra cui le missioni militari all’estero, extra budget della Difesa). Sotto pressione Usa, la Nato vuole però che l’Italia arrivi a spendere per il militare il 2% del Pil, ossia circa 100 miloni di euro al giorno.
Su questo, Trump è stato duramente esplicito: ricevendo Gentiloni alla Casa Bianca, riferisce lui stesso in una intervista alla Associated Press, gli ha detto: «Andiamo, devi pagare, devi pagare…».
E, nell’intervista, Trump si dice sicuro: «Pagherà». Non è però Gentiloni a pagare, ma la stragrande maggioranza degli italiani, direttamente e indirettamente attraverso il taglio delle spese sociali.
C’è però, evidentemente, chi ci guadagna. Nel 2016, l’export italiano di armamenti è aumentato di oltre l’85% rispesso al 2015, salendo a 14,6 miliardi di euro. Un vero e proprio boom, dovuto in particolare alla vendita di 28 cacciabombardieri Eurofighter al Kuwait, che diviene primo importatore di armi italiane. Un maxi-contrattto da 8 miliardi di euro, merito della ministra Roberta Pinotti, efficiente piazzista di armi (v. il manifesto del 23 febbraio 2016). Si tratta della più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica, nelle cui casse entra la metà degli 8 miliardi. Garantita con un finanziamento di 4 miliardi da un pool di banche, tra cui UniCredit e Intesa Sanpaolo, e dalla Sace del gruppo Cassa depositi e prestiti.
Si accelera così la riconversione armata di Finmeccanica, con risultati esaltanti per i grossi azionisti: nella classifica delle 100 maggiori industrie belliche mondiali, redatta dal Sipri, Finmeccanica si colloca nel 2015 al 9° posto mondiale con una vendita di armi del valore di 9,3 miliardi di dollari, equivalente ai due terzi del suo fatturato complessivo.
L’azienda accresce fatturato e profitti puntando su industrie come la Oto Melara, produttrice di sistemi d’arma terrestri e navali (tra cui il veicolo blindato Centauro, con potenza di fuoco di un carrarmato, e cannoni con munizioni guidate Vulcano venduti a più di 55 marine nel mondo); la Wass, leader mondiale nella produzione di siluri (tra cui il Black Shark a lunga gittata); la Mbda, leader mondiale nella produzione di missili (tra cui quello anti-nave Marte e quello aria-aria Meteor); l’Alenia Aermacchi che, oltre a produrre aerei da guerra (come il caccia da addestramento avanzato M-346 fornito a Israele), gestisce l’impianto Faco di Cameri scelto dal Pentagono quale polo dei caccia F-35 schierati in Europa.
Poco importa che Finmeccanica – in barba al «Trattato sul commercio di armamenti» che proibisce di fornire armi utilizzabili contro civili – fornisca armi a paesi come il Kuwait e l’Arabia Saudita, che stanno facendo strage di civili nello Yemen. Come stabilisce il «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti, convertito in disegno di legge, è essenziale che l’industria militare sia «pilastro del Sistema Paese», poiché «contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione», creando «posti di lavoro qualificati».
Poco importa naturalmente che si spendano per il militare, con denaro pubblico, oltre 70 milioni di euro al giorno, ormai in continuo aumento. Essenziale, stabilisce il «Libro Bianco», è che l’Italia sia militarmente in grado di tutelare, ovunque sia necessario, «gli interessi vitali del Paese». Più precisamente, gli interessi vitali di chi si arricchisce con la guerra.
Il rapporto annuale dello Stockholm International Peace Research Institute. A livello globale il livello sale dello 0,4%. Boom di Russia e Cina, in crescita anche Stati Uniti
Paesi in forte espansione economica e paesi in grave crisi, democrazie e regimi autoritari, superpotenze industriali-postindustriali, paesi emergenti, paesi poveri. Il mondo è composto da tante realtà diverse, ma quasi tutte con un dato in comune: la tendenza prevalente all´aumento delle spese militari, che negli ultimi cinque anni per la prima volta sono giunte al massimo livello dalla fine della guerra fredda. In particolare, le spese militari nel mondo in totale sono aumentate dello 0,4 per cento in termini reali a 1686 miliardi di dollari.
Ma ben piú importante, in alcuni casi vertiginoso, è l´aumento dei bilanci per le forze armate negli Stati Uniti, in Cina, in Russia in India. Crescono le spese militari anche in Europa, Italia compresa anzi prima in percentuale tra i membri europei dell´Alleanza atlantica nonostante la spending review e l´alto debito sovrano, mentre tendono a calare in quasi tutti i Petrostati a causa dei bassi prezzi del greggio. Ecco la precisa diagnosi dell´ultimo rapporto annuale del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), forse la fonte piú attendibile in materia a livello mondiale.
Vediamo la situazione, caso per caso. In Europa occidentale l´aumento complessivo è stato del 2,6 per cento, a conferma della tendenza iniziata l´anno precedente. Significativo il fatto che secondo il SIPRI è l´Italia il paese in cui è stato registrato l´aumento più notevole con un piú 11 per cento tra il 2015 e il 2016. I dati sul nostro paese sono sostanzialmente confermati dalla Nato. Secondo cui la spesa militare italiana è aumentata l´anno scorso del 10,63 per cento.
Nell´Europa centrale le spese per la difesa sono cresciute complessivamente del 2,4 per cento. Piú marcatamente in paesi Nato come Polonia o Baltici, dove, rileva il SIPRI, è aumentata la percezione-allarme per la minaccia posta dalla politica aggressiva della Russia di Putin. Trend nuovo e forte anche nel pacifico Grande Nord: la Svezia ha appena deciso di ristabilire la leva obbligatoria per donne e uomini e di aumentare il bilancio della Difesa del 15 per cento, viste le continue, pericolose provocazioni aeree, navali, sottomarine, di cyberwar e fake news da parte del Cremlino.
Passiamo alle superpotenze. Gli Stati Uniti, dopo diversi anni di riduzione o contenimento, hanno aumentato le loro spese (611 miliardi di dollari) dell´1,7 per cento rispetto all´anno precedente. Ben superiore in percentuale è la crescita delle spese militari della Russia di Putin (69,2 miliardi di dollari, ma occorre tenere conto che il costo del lavoro anche nell´industria militare in Russia è infinitamente inferiore a quello negli Usa o in Europa) che registra una crescita del 5,9 per cento, e della Cina (analogo discorso come per la Russia sul basso costo del lavoro su cui “fare la tara”) con 215 miliardi e un aumento del 5,4 per cento. Putin ha rapidamente trasformato le sue forze armate dotandole di armamenti ultratecnologici dell´ultima generazione e di capacità operative dimostrate in modo devastante ad esempio con l´intervento in Siria. La Cina, che ha appena mostrato al mondo la sua prima portaerei fatta in casa, e dispone di migliaia di moderni jet da combattimento compresi tre modelli di cacciabombardieri stealth cioè invisibili ai radar nonché di una marina militare a crescenti capacità oceaniche di proiezione lontana della forza, ha a lungo termine capacità industriali e tecnologiche superiori a quelle russe, e si pone nel futuro come principale rivale degli Usa. Vola anche la spesa militare indiana, che aumenta dell´8,5 per cento, quinto paese nel mondo per investimenti nel settore militare) sia per l´arsenale nucleare coi primi missili intercontinentali, sia per modernissime armi convenzionali. Come il prossimo acquisto di circa 120 caccia invisibili Sukhoi PAK T-50, di produzione russa ma il cui sviluppo è reso possibile dalla collaborazione di team di ingegneri aeronautici indiani.
In Medio Oriente si registra una crescita solo in alcuni paesi come Iran e Kuwait, mentre in Arabia Saudita e Iraq la diminuzione è netta: in Arabia saudita il calo è addirittura del 30 per cento. Anche altri paesi petroliferi non mediorientali, ad esempio il Venezuela (meno 56 per cento) che recentemente si era lanciato in una pazzesca corsa al riarmo acquistando cacciabombardieri bisonici e tank russi, hanno dovuto contrarre le spese, per il calo del prezzo del greggio e per fattori di grave crisi economica interna. Quello che in decenni passati i migliori economisti critici americani battezzarono “il complesso militare-industriale”
il manifesto, 29 aprile 2017
Barbara Spinelli è eurodeputata indipendente del gruppo Gue-Ngl e membro della commissione Libe (Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni) del Parlamento europeo dove si occupa in maniera particolare di tutta la partita dei rifugiati, degli accordi con i paesi terzi e delle politiche sulle migrazioni.
I politici italiani e il giudice di Catania continuano a dire che le accuse alle ong vengono dall’agenzia Frontex ma nel rapporto Risk Analysis 2017 non se ne trova traccia.
«Infatti. In quel rapporto non c’è soprattutto l’accusa più infamante, quella di collusione con i trafficanti. Ce n’è una meno grave anche se grave lo stesso: quella che descrive le ong come pull factor cioè come fattore di attrazione per i migranti. Un’accusa che fu rivolta anche alla missione italiana Mare Nostrum, che perciò fu chiusa. La Ue e Frontex continuano a pensare che le attività di search and rescue alimentino le fughe dei migranti verso l’Europa ma voglio ricordare che nell’ultima plenaria del Parlamento europeo lo stesso vice presidente della Commissione Frans Timmermams ha detto chiaro che non c’è nessuna prova di collusione tra i trafficanti e le ong.
Perché allora si contina a cavalcare questa fake news?
«È il clima generale che porta a colpevolizzare le organizzazioni umanitarie che si occupano di salvataggi. E questo clima nasce dalle politiche europee di esternalizzazione dell’asilo e di accordi di riammissione con paesi dittatoriali o pericolosi. Poi c’è il gioco politico di chi su questo punta ad accentuare la xenofobia e la chiusura delle frontiere»
Salvini, Le Pen, ma anche Di Maio e M5S, non c’è una grande differenziazione, mi pare.
«Sì, mi è molto dispiaciuto quel post di denuncia delle ong scritto a nome di tutto il Movimento, poi Di Maio ha parlato anche di taxi e questo è stato non meno deludente, anche perché al Parlamento europeo i deputati M5S invece hanno posizioni più elaborate e serie sui diritti, sulle migrazioni. È una brutta svolta, spero che si ricredano».
Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa, ha detto ieri a Di Maio: “Se pensate che l’arrivo dei migranti sia aumentato per la presenza delle ong, non siete in grado di governare il paese”. Lei è d’accordo?
«Sono d’accordo su un punto: le dichiarazioni del M5S sono fondate su una profondissima ignoranza, oltretutto volontaria perché non è possibile che non si conosca cosa rischiano le persone che salgono sui barconi e sui gommoni per raggiungere l’Italia e l’Europa. Una ignoranza militante che rende i Cinque Stelle vicini di fatto alle destre e non del tutto credibili come forza di governo, anche se non è che i due ultimi governi italiani, Renzi e Gentiloni, abbiano avuto un comportamento esemplare e positivo su queste tematiche. Proprio questi governi hanno stipulato accordi di rimpatrio prima segretamente con il Sudan e poi, da ultimo, con la Libia. E questo è ancora più grave perché siamo di fronte non a qualche post su un blog o a qualche dichiarazione ma ad atti che violano la Convenzione di Ginevra e la legge internazionale dividendo e applicando il diritto all’asilo su basi etniche mentre ogni migrante ha diritto ad un esame individuale della sua richiesta di asilo. No, certamente non mi sento più sicura con questi governi».
Quali rischi in più vede con questa campagna?
«A livello europeo Frontex si tiene distante dai luoghi più esposti a possibili naufragi e non ha un vero mandato di ricerca e salvataggio. Continua a prendere sempre più finanziamenti europei al solo scopo di sigillare le frontiere e vede con fastidio le attività di search and rescue in acque internazionali o nei pressi della Libia. Bisogna ricordare che search vuol dire ricerca, cioè ascolto degli Sms che invocano aiuto. E rescue vuol dire soccorso, obbligatorio per le leggi internazionali. Le due cose vanno insieme. E poi temo che questo fango sulle ong possa indebolirle finanziariamente, soprattutto le più piccole. Qualcuno potrebbe decidere di non dare più contributi per timore di finanziare mafie e trafficanti».
Riferimenti
Sul'argomento vedi, su eddyburg, gli articoli Inedita alleanza tra gli accusatori delle Ong.... , È giusto sparare contro le Ong..., e l'eddytoriale n. 173
laRepubblica, 28 aprile 2017
ZUCCARO: “DENUNCIO, NON HO PROVE
STA AI POLITICI FERMARE IL FENOMENO”
di Alessandra Ziniti
«L’intervista. Il magistrato che conduce l’inchiesta siciliana: “Ho informazioni che non possono essere usate in un processo”»
Alle sette di sera, solo nel suo ufficio al primo piano di giustizia, per nulla travolto dal coro di critiche che rischiano di far passare lui, magistrato da sempre sotto traccia, prudente e riservato, in una toga d’assalto sensibile alle lusinghe della notorietà, il procuratore Carmelo Zuccaro accetta di fare il punto con Repubblica sulla scivolosissima indagine sull’operato delle Ong.
Anche il ministro Orlando si è stupito delle sue accuse e l’ha invitata a parlare con gli atti giudiziari. Che risponde?
«È giusto che un magistrato parli con gli atti giudiziari e naturalmente lo farò quando e se sarò in grado di formulare imputazioni nei confronti di singoli. Ma adesso, da magistrato, ho il preciso do vere di denunciare un gravissimo fenomeno, criminale, per arginare il quale la politica deve intervenire tempestivamente. Se si dovessero aspettare i tempi lunghi di un’indagine che sarà complessa e per la quale ho bisogno di uomini e mezzi di cui al momento non dispongo, sarebbe troppo tardi. E a ragione, tra qualche tempo, mi si potrebbe rimproverare: ma dov’eri tu mentre succedeva tutto questo? Accadde così anche vent’anni fa quando i colleghi che si occupavano di mafia denunciarono il fenomeno delle collusioni ben prima di avere le prove su singoli soggetti ».
Ma lei le ha le prove dei comportamenti poco trasparenti di cui accusa le Ong?
«Spero di chiarire una volta per tutte. Quando io parlo di prove intendo prove giudiziarie, da poter portare in un dibattimento. Queste prove non le ho ma la certezza, che mi viene da fonti di conoscenza reale ma non utilizzabile processualmente, che alcune delle navi operano all’interno delle acque territoriali, che vi siano state delle conversazioni dirette, in lingua araba, tra soggetti che stanno sulla terraferma in Libia ed esponenti delle Ong che dichiarano di essere lì pronti a recuperare i migranti, che le navi spengono i trasponder perché non venga individuata la loro posizione, che prendano a bordo migliaia di persone ben prima che si verifichi una situazione di pericolo. E dunque fuori dalle norme di legge».
Andiamo ai soldi. Lei ha detto una cosa gravissima. Che alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti e che addirittura avrebbero come fine di destabilizzare l’economia italiana. Anche di questo ha le prove?
«È un’ipotesi di lavoro. Dimmi chi ti finanzia e ti dirò chi sei. Dai bilanci delle Ong che abbiamo acquisito è evidente che abbiano una disponibilità finanziaria enorme. Ora, se è giustificato che organizzazioni di comprovata solidità come Msf o Save the children possano contare su questa disponibilità, lo è molto di meno per altre. Stiamo lavorando per sapere chi sono questi finanziatori, se oltre quelli dichiarati ce ne sono altri e da dove provengono questi soldi. Che un’organizzazione come Moas possa spendere 400mila euro al mese è un dato che merita un approfondimento ».
“ONG PAGATE DA SCAFISTI”,
BUFERA SUL PM
di m.v. e a.z
«Sugli sbarchi i sospetti del procuratore di Catania: “Forse l’obiettivo è destabilizzare l’economia del nostro Paese” Interviene il governo. Orlando: parli con gli atti e le indagini. Minniti: basta generalizzazioni e i giudizi affrettati»
Parole che hanno indotto il ministro di Grazia e giustizia Andrea Orlando ad ammonire il magistrato: «La Procura di Catania parli attraverso le indagini e gli atti. Ricostruire la storia delle Ong come la storia di collusi con i trafficanti è una menzogna ». L’invito a «evitare generalizzazioni » arriva anche dal ministro dell’Interno Marco Minniti. E Zuccaro replica: «Nessuna generalizzazione. I soldi spesi per Ong solide come Msf o Save the children sono spesi bene. Sulle altre stiamo svolgendo accertamenti ». Che non sono in capo alla sola Procura di Catania.
Già da mesi lo Sco della Polizia di Stato è al lavoro sulle modalità delle operazioni di alcune Ong i cui bilanci presenterebbero costi eccessivamente gonfiati rispetto a spese di gestione o ad attrezzature come i droni che, ad esempio, alla Marina italiana costano la metà. Con attenzione si guarda anche alle rotte seguite da alcune di queste navi che, pur raccogliendo migliaia di migranti a poche miglia da Malta, li avrebbero sempre portati in Italia in qualche caso trasbordandoli anche su strane navi, come il mercantile turco “Tuna 1”, nel 2015 bombardato dalle milizie libiche perché sospettato di trasportare armi per altre fazioni, al quale qualche settimana fa la nave Phoenix di Moas ha affidato quasi 500 migranti da portare al porto di Palermo.
«Che qualcuno non si stia comportando bene direi che è possibile. Arrivo a dire: è probabile – dice Matteo Renzi - Ma la visione degli operatori delle Ong che sono tutti al servizio degli scafisti, come detto da qualche aspirante statista, non va bene. Se qualche Ong va a qualche miglio dalla costa credo si debba intervenire. Dopodiché vanno combattuti gli scafisti, non i volontari che salvano in acqua le mamme che rischiano di morire...».
Le nuove accuse di Zuccaro riaccendono la polemica del M5S. «Non so se è chiaro: Ong forse finanziate dagli scafisti! Gli ipocriti continuino pure ad attaccarmi, io vado fino in fondo », dice il vice presidente della Camera Luigi Di Maio. Dalle Ong si leva un coro di proteste. Regina Catambrone, fondatrice di Moas, accusa: «Questi politici stanno facendo campagna elettorale sulla morte delle persone ».
. il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2017 (c.m.c.)
I musei pubblici mostrano la propria indipendenza intellettuale attaccando duramente le politiche del governo. Non è dell’Italia che sto parlando, ma dell’America di Trump. Basta andare nelle affollatissime sale del MoMA (Museum of Modern Art) di New York, per vedere a ogni angolo una protesta contro le discriminazioni alla frontiera lanciate dal neo-presidente repubblicano. In ogni sala, accanto alle opere degli artisti più famosi, che attirano visitatori da tutto il mondo, la direzione del museo ha esposto un’opera di un artista che proviene dai Paesi ai cui cittadini Trump vuol negare l’ingresso negli Stati Uniti.
Chi va al MoMA in questi giorni vedrà accanto a Picasso un quadro del sudanese Ibrahim El-Salahi, accanto a Munch un dipinto dell’irachena Zaha Hadid (sì, proprio l’architetto del MAXXI, prematuramente scomparsa). La preziosa stanza con alcune opere di Umberto Boccioni ospita anche una scultura di Parviz Tanavoli, scultore iraniano che ha studiato a Brera; fra gli altri artisti iraniani, Shirana Shahbazi figura accanto a Marcel Duchamp, Charles Hossein Zenderondi vicino a Matisse, Tala Madani condivide una stanza con Mirò, Faranaz Pilaram fa compagnia a Jackson Pollock. Sotto ognuna di queste opere, sempre la stessa scritta: «Questa è l’opera di un artista che viene da una nazione ai cui cittadini, secondo un recente ordine esecutivo del Presidente, si vorrebbe negare l’accesso agli Stati Uniti. Come questa, numerose altre opere d’arte sono state installate in tutte le sale per affermare che gli ideali di accoglienza e libertà sono considerati vitali da questo Museo, e devono esserlo anche per gli Stati Uniti».
In un simile spirito, la Biennale di arte americana del Whitney Museum, che quest’anno si tiene per la prima volta nella sua nuova sede del quartiere di Chelsea, ospita un gran numero di opere di dura critica al governo americano, e in particolare all’attuale Presidente.
Per citarne solo una, Frances Stark occupa una vasta sala del museo con otto enormi tele che riproducono altrettante pagine di un libro di Ian Svenonius (cantante underground e leader di un comitato contro ogni autoritarismo). Il titolo del libro (e delle tele) è Censorship Now!, e invoca sarcasticamente l’immediata “censura” dei media che invocando la libertà di stampa si vendono al potere e all’ideologia neoliberista. «Siamo inondati, immersi, immolati notte e giorno dai detriti che il loro monopolio della libertà di parola ci rovescia addosso. È un monopolio del potere di cui godono i più egoisti, i più ricchi, e dunque i più grotteschi e i meno generosi. Non hanno freni, sono impazziti. Censuriamoli! (…)
Censuriamo i politici! Anche se eletti, sono totalmente corrotti e si svendono ai più schifosi interessi di parte. Dobbiamo mettergli la museruola! (…) Come mai si consente all’industria di inquinare il mondo con tutto quello che gli viene in mente di offrirci a modello dato che controllano il mercato? Perché non poniamo un limite alle tecnologie che trasformano e degradano la Terra e la nostra esperienza?». E così via. Il pamphlet di Svenonius è del 2015, ma Frances Stark lo riattualizza ingrandendone a dismisura le pagine, e arricchendole di sottolineature che è impossibile non leggere come altrettanti riferimenti all’amministrazione Trump.
Il museo, dunque, come luogo del dissenso e della protesta politica. Succede anche in Italia? C’è da dubitarne, visto che periodiche circolari e codici di comportamento invitano i funzionari dei musei pubblici a starsene zitti e buoni, parlando semmai solo per via gerarchica.
Storici dell’arte, archeologi, architetti che lavorano nei musei statali non possono nemmeno manifestare la propria opinione sulle riforme “a rate” del ministero in cui lavorano, a meno che «i contenuti siano preventivamente e obbligatoriamente vagliati dai Direttori generali competenti», mentre «ogni iniziativa autonomamente presa in maniera difforme sarà ritenuta non consona e darà luogo ad azione disciplinare». Negli scorsi anni si è fatto un gran parlare di autonomia dei musei (o almeno di quelli cosiddetti “principali”). Ma solo quando vedessimo nei nostri musei spuntare qualche spazio per la libera espressione del dissenso cominceremo a credere che per “autonomia” può intendersi, anche in Italia, prima di tutto la possibilità di pensare in proprio, e di dire quel che si pensa senza essere repressi dal Superiore Ministero.
il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2017 (p.d.)
il manifesto 28 aprile 2017 (c.m.c.)
Le nubi nere che sovrastavano il Tribunale d’Imperia promettevano pioggia, ma le lacrime di gioia dell’anziana nonna e da quelli della mamma di Felix riportano il sole in una giornata storica. Felix Croft è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il collegio, presieduto da Donatella Aschero, ha ritenuto applicabile la «clausola umanitaria». La famiglia aiutata da Felix si trovava in uno stato di bisogno tale da rendere l’aiuto lecito.
È la prima sentenza in Italia di questo tenore. Rifacendosi all’articolo 12, comma 2, del Testo Unico sull’immigrazione, i giudici hanno pronunciato la sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato.
Libero quindi il 27enne francese che i carabinieri avevano arrestato il 22 luglio 2016 quando a bordo della sua Citroen imboccava l’autostrada che da Ventimiglia porta alla Francia. Insieme a lui una famiglia sudanese. Padre, madre incinta di sei mesi, il fratello della madre e i due figli, il maschio di 5 anni e la figlia di 2. Dormivano nella chiesa di Sant’Antonio a Ventimiglia, in condizioni disperate. Presto, per la rotazione imposta dai numeri dei migranti affollati nella città ligure, sarebbero finiti per strada.
Erano fuggiti dal Darfur, portandosi dietro nient’altro che le ferite di un genocidio che va avanti da 14 anni. Il bambino ha cicatrici sul fianco riportate nell’incendio che le truppe governative avevano appiccato alla loro casa. Lo stato di estrema frustrazione della famiglia aveva spinto Felix a fare qualcosa che non aveva mai fatto, decidere di attraversare il confine e portarli a casa sua per farli riposare e mangiare adeguatamente. In quel periodo era difficile aiutare i migranti in loco, il sindaco di Ventimiglia aveva emesso un’ordinanza che proibiva, per ragioni sanitarie, di dare cibo ai profughi.
Felix ha da subito rivendicato il suo gesto umanitario, anche di fronte alla pesante accusa. Per il Pubblico Ministero Grazia Pradella, che aveva chiesto 3 anni e 4 mesi e 50mila euro di multa, quell’atto metteva in pericolo la sicurezza dello Stato. Alla domanda, «Sapeva che portandoli in Francia commetteva un reato?», Felix aveva risposto semplicemente «Sì». Ma oggi il Tribunale gli ha dato ragione.
Il grido Hurriya, libertà in arabo, urlato anche in francese e italiano, è il coro che si sprigiona dalle bocche, fino a quel momento cucite dalla tensione, del centinaio di solidali che hanno accompagnato Croft durante il processo.
«Questa è una pietra miliare per chi si sente impotente e stritolato dalle leggi in questo periodo di immense sofferenze» – dice all’uscita dal Tribunale. «Questa sentenza dice alle persone di non avere paura della loro solidarietà. Se lo Stato è assente le persone devono agire perché la loro umanità è la base sulla quale si fondano le società». E a Ventimiglia, nell’estate 2016, né Italia né Unione europea avevano saputo trovare una soluzione per quelle migliaia di persone che premevano sul confine alla ricerca di un po’ di dignità, oltre che di un tetto e un pasto caldo.
«Sin dall’inizio non ho voluto ricorrere a scappatoie per difendermi – dice Felix – sapevo che non avevo fatto niente di male e che non dovevo avere paura della mia scelta. Mi hanno accusato di aver messo in pericolo lo Stato, credo che questo derivi dal fatto che c’è la tendenza, purtroppo molto diffusa, a fare l’equazione nero, musulmano, terrorista. Questo pensiero va combattuto col cuore e se c’è una giustizia quella prevarrà sul razzismo e sui pregiudizi».
Laura Martinelli, giovane avvocato del foro di Torino, che ha difeso Felix insieme a Ersilia Ferrante del foro d’Imperia, non nasconde la felicità: «È una grande vittoria, il collegio ha riconosciuto che la condotta di Felix non è reato. È un segnale positivo in un momento in cui molte persone e Ong impegnate nell’aiutare i migranti vengono criminalizzate, accusate di essere complici dei trafficanti di uomini. È un precedente importante».
«Ora continuerò ad aiutare chi ha bisogno, le migliaia di profughi che anche in Europa non trovano scampo dalle ingiustizie», dice il giovane francese: «Tutto quello che faccio è provvedere a piccole cose che però sono di enorme aiuto a chi si trova privato di tutto, compresa la speranza. Certo dovrò farlo in Francia, visto che ho un foglio di via dall’Italia per una manifestazione a Mentone».
Quando giochiamo “con” le parole, le parole “ci” giocano. Ecco fatto, basta saltabeccare fra transitivo e intransitivo e siamo già piombati a piè pari nel mondo parallelo di Stefano Bartezzaghi, linguista sorridente: un mondo alla Lewis Carroll dove, dietro lo specchio, le cose (le parole) sembrano ancora ma non sono più proprio così. Dove le parole, che crediamo di pescare inerti e servizievoli dal sacco del nostro lessico, ne fuggono via per vivere avventure fantastiche, a noi del tutto ignote e spesso inaccessibili: «Difficile capire quando le parole giocano e quando fanno sul serio...».
Bartezzaghi somiglia a un giocoliere che, dopo aver finito di far volteggiare in aria clavette e cerchi, li pesa, li misura e li dispone in ordine per scoprirne segrete virtù e poteri. Si potrebbe dire che questo suo Parole in gioco (Bompiani, pagg. 257, euro 17) sia un Trattato di Ludosemiologia Generale, ma sarebbe una parzialità, perché quando parli di parole lo fai con le parole e questo vortice ti travolge, le parole non stanno immobili in grassetto nelle pagine dei dizionari, le parole sono dispettose, appunto, ci giocano, ci mettono in gioco. Giocano a nostro dispetto, giocano senza di noi, «le parole hanno i loro giochi», che a volte possiamo solo osservare dall’esterno.
Quando Bartezzaghi ci informa che “attore” è l’anagramma di “teatro”, quell’affinità folgorante e misteriosa non l’ha inventata lui, l’ha solo scoperta, era già lì, predisposta da chissà quale intelligenza extraumana del linguaggio. Perfino un po’ inquietante, diciamolo. Che cosa fanno le parole quando noi non le parliamo?
C’è un’altra vita del linguaggio, ignota a noi pervicacemente convinti della trasparenza utilitaria del lessico, persuasi che le parole servano solo per dire quella cosa lì. Che è vero, e lo fanno benissimo, solo che, una volta messe al mondo, le parole si ritagliano un’altra esistenza, opaca al senso transitivo e referenziale a cui vorremmo inchiodarle, e intrecciano tra loro relazioni irragionevoli e meravigliose, per chi riesca ad abbandonarsi al loro gioco.
Come i bambini, grandi inventori di lingue esoteriche, iniziatiche, comprensibili solo al gruppo e addirittura solo all’amico del cuore: alcune son diventate celebri, il farfallino che mette una zeppa dopo ogni sillaba ( parola diventa pafarofolafa), il francese verlan che ribalta le parole come calzini ( l’envers), il javanais, il largonji, il loucherbem (e perché no lo schtroumpf, la lingua dei puffi che incuriosì Umberto Eco). Lingue irriverenti, insolenti e beffarde, tutto il contrario del pur benintenzionato esperanto che invece voleva infilare le parole nell’uniforme militare della regolarità assoluta.
Come i bambini fanno i poeti: che delle parole curano la manutenzione, ripassandole a volte nell’officina del nonsenso («Ma se son prive di qualunque nesso / perché le scrive / quel fesso?», Aldo Palazzeschi), come meccanici che fanno girare i motori a vuoto sul ponte mobile per capire come funzionano, e perché li trovano belli così.
I giochi di parole, come le barzellette, sembrano non essere stati inventati da nessuno, come se appartenessero a un fondo antropologico, addirittura preesistente alla comunicazione: il neonato gioca felice con la lallazione,
ma- ma, ba- ba, sono quei poveri illusi dei genitori che pensano stia chiamando loro (per non deluderli, il bimbo li accontenterà). Nella civiltà del logos invece i giochi verbali sopravvivono acquattati nella fessura saussuriana tra langue e parole, tra comunicazione sociale ed espressione personale. Semiologo per formazione, enigmista per tradizione familiare, Bartezzaghi li va a cercare lì dentro, come uno speleologo, e con molto rispetto li analizza e mette in ordine. Si ha gioco, spiega, «quando l’artificio tende a saturare il testo», quando il discorso de re diventa meno interessante del de dicto, il cosa dico meno appassionantedel come lo dico; allora è il trionfo dell’ambarabacicicocò.
Dopo averlo ben servito, il gioco quindi fa un passo oltre il linguaggio poetico, che pure delle parole eleva il significante allo stesso livello del significato, verso il detournamento assoluto, il divertimento selvaggio delle assonanze, delle combinazioni, dell’artificio. Questo accade, a un primo livello, nel play libero e senza scopo: ma gli uomini ci hanno preso gusto, a giocare o a farsi giocare dalle parole, e ne hanno estratto spesso un game, un gioco competitivo, una sfida formalizzata in regole e con una posta in gioco, non foss’altro che la soddisfazione di controllare la soluzione nell’ultima pagina della Setti-mana enigmistica e scoprire che ci hai preso, che “sale d’aspetto” è il crittogramma di zucchero, e “mezzo minuto di raccoglimento” quello di cucchiaino.
Il gioco di parole è dunque il meritato sonno del significato? La rivincita dell’ottuso sull’ovvio, per dirla come Barthes? «Il gioco di parole non ha nulla da affermare», sostiene Bartezzaghi e poi un po’ si ricrede. Perché, come accade ai lapsus freudiani, nelle acrobazie del lessico si nasconde a volte un cortocircuito di senso: quando Marcello Marchesi scrive est modulus in rebus ci regala la migliore sintesi del concetto di burocrazia. Ma qui rischiamo di cadere di nuovo nella ricerca dell’utilità delle parole: mentre dovremmo ammettere che la pura e semplice arguzia delle assonanze e dei r ha una funzione etica, e che in fondo, nel vocabolario, ogni rivelazione è già la rilevazione di una rivoluzione.
Ma oggi se si volesse essere fedeli (tempi a parte) a quella scelta, cosa bisognerebbe fare? È l’interrogativo posto dall’articolo (il manifesto, 25 aprile) di Angelo Ferracuti: «La lotta avviene anche e soprattutto nel lessico, nel rimettere in circolo certi vocaboli civili, e anche nel fare con passione un racconto diverso, onesto della realtà». Le parole possono essere ancora rivoluzionarie, così come i racconti che ci facciamo. Possiamo, dunque, “cambiare” il mondo raccontandoci storie diverse da quelle che ci vengono raccontate e farlo con parole nuove?
Credo che questo dovrebbe essere il compito di ogni nuova formazione politica di sinistra. Non tanto rintuzzare o polemizzare il racconto che ci viene fatto, quanto svelarne l’opportunismo, il calcolo che esso sottende, la disuguaglianza che esso produce, stando sempre dalla parte del più debole, del più esposto.
Credo che la crisi della politica, la sua ormai sempre più manifesta incapacità a rappresentare le persone, sia soprattutto una crisi di linguaggio, di narrazione. Così come i padri non sanno più raccontare fiabe ai loro piccoli figli, i politici non sanno più rappresentare il mondo che viene e, di conseguenza, meno che mai raccontarlo ai loro rappresentati. Ci raccontano storie banali usando parole consumate di cui loro stessi, spesso, non ne capiscono nemmeno il senso: le hanno sentite pronunciare da altri e le ripetono come a voler/si convincere che sono vere: debito sovrano, austerity, sicurezza, spending review, realismo, terrorismo e via dicendo.
In fondo queste narrazioni, pur appartenendo a schieramenti diversi, si somigliano tutte: non si esce dal labirinto dove siamo stati cacciati e dove fingiamo che esso sia l’unico mondo possibile.
Eppure basta che una persona scarti un poco da quel linguaggio che subito ottiene consenso. Macron non è di sinistra né di destra (così si definisce e così lo hanno definito), e già basta a sparigliare i giochi, a far salire sul suo carro quelli (di sinistra e di destra) che di parole non ne hanno più e non sanno più raccontare niente di nuovo. Gramsci scriveva anche fiabe (L’albero del riccio, ad esempio), raccontava storie ai suoi due figli che non poteva vedere, guardava alla politica come una pedagogia per adulti e, al tempo stesso, ci raccontava del mondo contadino e delle sue possibilità di riscatto. Anche allora, bisogna dirlo, prevalse il realismo di coloro che miravano a risultati più “urgenti”.
C’è nella politica di sinistra una sorta di coazione a ripetere che, forse, in tempi brevi può rassicurare i suoi elettori, ma alla lunga diventa disfatta. Tale è l’aspettativa delle persone nei confronti di una nuova narrazione che non c’è, che spesso finiscono col seguire il primo pifferaio magico che compare sulla scena (Grillo o Salvini, o lo stesso Renzi), mentre la sinistra continua nella sua stanca narrazione, incapace di rinnovarsi, di intercettare i cambiamenti e le aspettative, a replicare se stessa.
Alexander Höbel, Tommaso Nencioni, Donatella Coccoli, Antonio Gramsci.
articolo21, il manifesto, Left , doppiozero. 27 aprile 2017 (c.m.c.)
articolo21
ANTONIO GRAMSCI VIVO, 80 ANNI DOPO
di Alexander Höbel
Come mai, a 80 anni esatti dalla sua scomparsa, la figura di Antonio Gramsci viene celebrata, ricordata e studiata in tutto il mondo? E perché si continua a ritenere la sua opera come un contributo fondante per la cultura politica della contemporaneità? Gramsci viene oggi celebrato e studiato non solo come antagonista irriducibile del fascismo, che lo volle in carcere e lì lo uccise; non solo come fondatore del Partito comunista d’Italia assieme a Bordiga, Terracini, Togliatti, Grieco, Camilla Ravera, e i giovani Longo, Secchia, Teresa Noce; ma anche come colui il quale – dagli scritti giovanili alle Tesi di Lione, dal saggio sulla questione meridionale ai Quaderni del carcere – ha dato un contributo enorme al marxismo novecentesco, e più in generale al pensiero critico contemporaneo.
Le categorie concettuali da lui elaborate costituiscono tuttora una bussola essenziale per orientarsi nel mondo: egemonia, come processo di apprendimento delle classi lavoratrici nel loro porsi e proporsi come nuove classi dirigenti della società e dello Stato; rivoluzione passiva, ossia il modello delle ristrutturazioni operate dalle classi dominanti con la costruzione del consenso dei dominati; intellettuale collettivo e moderno Principe, ossia lo strumento politico e organizzativo – il Partito in primo luogo – che i subalterni si danno per la trasformazione radicale degli assetti sociali.
«Questo miracolo dell’operaio che quotidianamente conquista la propria autonomia spirituale» – scriveva Gramsci nel 1920 –«lottando contro la stanchezza, contro la noia, contro la monotonia del gesto che tende a meccanizzare e quindi a uccidere la vita interiore, questo miracolo si organizza nel Partito comunista». È qui che l’operaio «collabora ‘volontariamente’ alla attività del mondo […] pensa, prevede, ha una responsabilità […] è organizzatore oltre che organizzato», e «sente di costruire un’avanguardia» che trascina con sé «tutta la massa popolare»[1]. Sono parole che ancora oggi emozionano e incoraggiano.
Fondamentale fu poi il lavoro, avviato da Gramsci nel 1924, teso a individuare le “forze motrici” della rivoluzione italiana: operai industriali e salariati agricoli del Centro-Nord e braccianti del Mezzogiorno. Oggi i settori sociali potenziali protagonisti del cambiamento non sono gli stessi, e tuttavia la lezione di metodo fornita da Gramsci rimane attuale, e implica un nuovo sforzo di analisi e di organizzazione.
Anche altre categorie centrali nel suo pensiero sono di estrema attualità: la dimensione molecolare dei processi di trasformazione, l’alternarsi di guerra di movimento e guerra di posizione, la complessità della lotta politica nei paesi a capitalismo avanzato, il ruolo decisivo della battaglia delle idee, la necessità di costruire una nuova intellettualità di massa e quella unità tra struttura e sovrastruttura, forze sociali e idee guida che rappresenta per Gramsci il blocco storico, nel quale – per dirla con Marx – «le idee diventano una forza materiale».
Oggi naturalmente, rispetto ai tempi di Gramsci, molte cose sono cambiate e i legami tra politica e cultura si sono molto allentati. Tuttavia la riflessione del rivoluzionario sardo rimane di estrema attualità. «Non può esserci elaborazione di dirigenti – si legge nei Quaderni – dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti […]. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti», «il giorno per giorno […] invece della politica seria»; ma anche «miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura», sempre più staccata dalla realtà storica. In questo contesto, scrive Gramsci pensando alla Germania del primo dopoguerra, la burocrazia «sostituiva la gerarchia intellettuale e politica»[2]. Oggi basterebbe sostituire la parola “burocrazia” con “tecnocrazia” o “tecnostruttura” per avere un quadro abbastanza simile a quello descritto.
In un altro passo dei Quaderni Gramsci fa un altro ragionamento interessante: «A un certo punto della vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali», che «non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe». A quel punto la situazione «diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto […] all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici», mentre si rafforza il «potere della burocrazia […] dell’alta finanza». In questa che si configura come una vera e propria «crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso», la classe dominante «muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo»; dunque «mantiene il potere, lo rafforza […] e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione», i quadri politici. Ne deriva «il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico [ma possono essere anche due o tre, aggiungerei] che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe» dominante. Insomma,«non sempre [i partiti] sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche», ma le conseguenze del loro disgregarsi sono molto pesanti[3].
Sono parole di grande attualità, che ci rimandano a quella idea di «crisi organica«, nella quale «il vecchio muore e il nuovo non può ancora nascere», che per Gramsci però è anche tipica delle «fasi storiche di transizione»[4]. Ecco perché il pensiero del fondatore del comunismo italiano non solo è ancora fecondo, ma è anche uno strumento prezioso per chi vuole abolire lo stato di cose presente e contrastare la barbarie che avanza.
[1] [A. Gramsci], Il Partito comunista, “L’Ordine Nuovo”, 4 settembre e 9 ottobre 1920, in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti 1978, vol. II, pp. 151-152.
[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi 1975, pp. 387-388.
[3] Ivi, pp. 1603-1604.
[4] Ivi, p. 311.
il manifesto
LE ISTITUZIONI NEI PASSAGGI D'EPOCA .
LE LEZIONI DI ANTONIO GRAMSCI.
di Tommaso Nencioni
«80 anni dalla scomparsa. L’anniversario dalla morte coincide con il centenario dell’Ottobre. Un alimento per discutere le istituzioni (europee) nei passaggi d’epoca»
Le celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della scomparsa di Antonio Gramsci si saldano quest’anno con il centenario della rivoluzione russa. Una notevole messe di studi ha teso a “depurare” il pensiero del Gramsci maturo – quello dei Quaderni del Carcere – dall’eredità del leninismo.
Tuttavia, senza voler addentrarsi nella querelle che ha appassionato storici e filologi di diverse scuole, l’impatto dell’Ottobre sul politico comunista sardo non può essere rinnegato, e neppure sbiadito, in base a letture contingenti dettate dall’esigenza generale di rimozione dell’evento rivoluzionario dalla storia del XX secolo.
Ciò che particolarmente persiste, della lettura che dell’Ottobre dette Gramsci – del suo tentativo di tradurre in italiano i fatti di Russia, verrebbe da dire con terminologia gramsciana – pare anzitutto una lezione di metodo, che si riflette in due intuizioni preponderanti.
La prima è l’assoluto rifiuto di una visione lineare della storia, come se questa fosse agita da un demone di carattere progressivo. Ogni rivoluzione si presenta come Rivoluzione contro il capitale, come frutto della volontà umana di piegare la modernità ad un esito del conflitto favorevole alle classi subalterne, di per sé non scritto in nessuna legge aurea. La seconda è la ravvisata necessità per i subalterni di creare, nel cuore stesso del conflitto, le istituzioni avvenire, senza attardarsi nella difesa di quelle caratteristiche dell’epoca precedente – fossero anche istituzioni che ne avevano garantito un relativo benessere, quali ne furono effettivamente edificate nell’Italia giolittiana. Se ci si attende l’emancipazione da eventi “esterni”, come se ci si ripara all’ombra di istituti che una nuova condizione storica fa apparire come obsoleti, l’ondata storica è destinata a travolgere le vecchie conquiste e a renderne impossibili di nuove. Di qui lo “spirito di scissione” evocato da Gramsci contro le tradizioni tanto riformiste che massimaliste del socialismo dell’Italia liberale.
Con l’Ottobre historia facit saltus, e una netta discontinuità si instaura nel pensiero gramsciano. Dal punto di vista della storia delle idee, la rivoluzione bolscevica mette concretamente il pensatore sardo di fronte al tema del marxismo, nella misura in cui, con la loro azione vivificatrice, con la loro Rivoluzione contro il capitale, i bolscevichi avevano ‘salvato’ Marx dai suoi esegeti ammalati di positivismo e determinismo.
Ma il saltus dell’Ottobre segna sì una discontinuità nella maniera gramsciana di pensare la lotta politica – mette l’ipotesi rivoluzionaria all’ordine del giorno, pone di fronte alla necessità di pensare la presa del potere da parte del proletariato colui che fino a quel momento aveva teorizzato la funzione di stimolo al progresso borghese proprio della classe operaia – ma in esso allo stesso tempo si intravede una continuità di metodo: col volontarismo di cui è permeato, Gramsci non giudica, alla maniera dei riformisti italiani o degli stessi menscevichi russi, la rivoluzione in base a presunte leggi di sviluppo presenti a priori nella Storia; ma, operando un vero e proprio distacco logico rispetto a tali convinzioni, individua nell’atto rivoluzionario una fonte di norme dell’agire storico. Gramsci non giudica l’Ottobre con le lenti della storia, ma ne fa una lente per giudicare la storia.
C’era prima della rivoluzione un Gramsci anti-giacobino, per il quale il giacobinismo in quanto ideologia democratica trascendente, fuori dalla storia, si risolveva forzatamente in un atto di negazione della libertà; questo Gramsci non a caso celebra la rivoluzione russa come rivoluzione anti-giacobina; e c’è un Gramsci, dopo lo scioglimento dell’Assemblea costituente da parte dei bolscevichi, che accetta le logiche della dittatura (giacobina) nel momento del passaggio dal vecchio al nuovo Stato.
Da queste considerazioni emerge il teorico dello Stato – dell’Ordine – nuovo. Uno Stato/Ordine nuovo che però si forma, in Gramsci, già nella prassi rivoluzionaria, nella dialettica tra conflitto e istituzioni; questa funzione di collegamento sarà individuata nel Soviet, istituzione autonoma della classe operaia già forgiata nel corso della lotta per il potere e successivamente destinata a funzionare da perno dell’Ordine Nuovo. Nel momento in cui il Soviet da contro-potere si fa potere, Gramsci si trasforma insomma da teorico dell’antistato e teorico dello Stato (nuovo). Un omaggio operante alla lezione del Machiavelli dei Discorsi, per il quale «coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma…».
Anche nella fase attuale, a fronte di un rinnovato protagonismo dei popoli nello scenario politico che si articola in forme nuove e sconosciute, la sinistra storica si fa portavoce del dogma della modernizzazione – dell’espulsione, cioè, del conflitto dalla modernità – e si impantana nella difesa di istituzioni che sono state negli ultimi anni i perni della grande restaurazione neoliberale. In un simile contesto, una riflessione sul legame tra il pensiero di Gramsci e l’irruzione della rivoluzione nella storia umana costituisce un punto necessario da cui ripartire.
Left
GRAMSCI ,
UN PATRIMONIO CHE LA SINISTRA
NON RIESCE A FAR SUO
di Donatella Coccoli
Era il 25 aprile 1937 e il giudice del tribunale di sorveglianza di Roma aveva comunicato a Antonio Gramsci, ricoverato nella clinica Quisisana, che era finalmente un uomo libero. Ma la sera stessa, dopo aver cenato, Gramsci venne colto da una emorragia cerebrale e all’alba del 27 aprile cessò di respirare. Aveva 46 anni e nonostante il carcere e la malattia, aveva realizzato una riflessione politica straordinaria.
Ottant’anni dopo, l’anniversario gramsciano dovrebbe essere l’occasione per riflettere sul pensiero, sulla filosofia della praxis, sul concetto di egemonia culturale dell’autore dei Quaderni. La sinistra dovrebbe attingere a piene mani a un patrimonio inestimabile, come ha accennato anche lo storico Angelo d’Orsi sulle pagine di Left adesso in edicola. D’Orsi, autore per Feltrinelli di una nuova biografia – cinquant’anni dopo quella di Giuseppe Fiori – afferma che è drammaticamente necessaria oggi una figura come quella di Gramsci che per tutta la sua vita ha avuto come stella polare «l’esigenza della liberazione dei ceti subalterni».
Ma oggi non esistono intellettuali come lui, capaci di analisi profonde e originali che nemmeno lo stesso partito comunista di allora riuscì a cogliere. E al tempo stesso, Gramsci, si presenta come un personaggio ingombrante, con cui è difficile identificarsi. Non è un “brand” qualsiasi. Ci ha provato Matteo Renzi con il suo consigliere Tommaso Nannicini a tirare in ballo il concetto di egemonia culturale al Lingotto di Torino. Ma la cosa è davvero poco credibile.
Un presidente del Consiglio che ha voluto una riforma come la Buona scuola cosa ha in comune con chi teorizzava il fatto che tutti gli uomini sono intellettuali e che la scuola è un cardine della lotta per lo sviluppo umano? Cosa c’entra davvero il Pd di oggi con il partito Principe di cui parlava Gramsci? I fatti, cioè le riforme renziane “centraliste”, vanno in direzione contraria rispetto ai concetti espressi nei Quaderni in cui le masse erano comunque sempre protagoniste nella lotta di emancipazione. E non si venga a dire che oggi non c’è bisogno di emancipazione, con i 4 milioni e mezzo di italiani in povertà assoluta, il quasi 40 per cento di disoccupazione giovanile e il record di abbandoni scolastici rispetto all’Europa.
Anche a sinistra del Pd, tuttavia, non si può dire che ci sia una corsa frenetica per prendere o comunque studiare l’opera di Gramsci.
Vedremo cosa uscirà oggi dal convegno Gramsci ottanta anni dopo a Roma (ore 9, Sala Gonzaga, Via della Consolazione 4), promosso da Sinistra italiana e organizzato dal professor Michele Prospero. Tra i partecipanti, Stefano Fassina, Luciana Castellina, Nicola Fratoianni, Claudio De Fiores, Piero Bevilacqua.
Oggi Gramsci verrà commemorato anche alla Camera dei deputati dove, ricordiamo, venne eletto il 6 aprile 1924. Una carica che mantenne fino all’8 novembre 1926 quando venne arrestato. Per lui si sarebbe spalancato il portone di varie carceri italiane dove però con una forza incredibile, pur in condizioni di salute sempre più precarie fino a farsi gravi dal 1935, riuscì a scrivere la grande opera che Mario Lavia su L’unità definisce «una mole inevitabilmente di teoria “disorganica”». In realtà rappresenta una ricerca politica e culturale che non ha precedenti in Italia né prima e né dopo Gramsci. «Non c’è un argomento dello scibile umano di cui lui non si sia occupato», conferma Angelo d’Orsi.
Linguaggio, arte e letteratura, scuola, giornalismo, organizzazione politica, sono solo alcuni temi che si ritrovano nei Quaderni. I libriccini che cominciò a scrivere nel 1929 nel carcere di Turi saranno in mostra nella Sala della Lupa alla Camera fino al 7 giugno a cura della Fondazione Gramsci. Per la prima volta vengono esposti gli originali dei 33 quaderni e di cento volumi, tra libri e riviste, in possesso di Gramsci durante la detenzione. I manoscritti sono esposti accanto alla loro versione digitale e possono essere sfogliati integralmente.
Sempre oggi dalle 18 nella sede della Enciclopedia italiana il doppio evento Passato e presente, con One day exhibition, una installazione di Elisabetta Benassi e l’esecuzione dell’opera di Luigi Nono La fabbrica illuminata.
Quasi a sottolineare il legame con la cultura e l’arte che Gramsci aveva sempre avuto anche come giornalista e di cui si parla ampiamente anche nel numero in edicola di Left. Un’altra prova della grandezza della sua figura, in cui la politica va di pari passo con la cultura. Qualsiasi paragone con l’oggi è assolutamente improponibile.
doppiozero
ANTONIO GRAMSCI : I VERI INTELLETTUALI
di Antonio Gramsci
Quando si distingue tra intellettuali e non intellettuali in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene conto della direzione in cui grava il peso maggiore dell’attività specifica professionale, se nell’elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale cerebrale e sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale.
Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione de mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.
Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un’attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo.
Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i “veri” intellettuali. Nel mondo moderno l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale.
Su questa base ha lavorato l’”Ordine Nuovo” settimanale per sviluppare certe forme di nuovo intellettualismo e per determinarne i nuovi concetti, e questa non è stata una delle minori ragioni del suo successo, perché una tale impostazione corrispondeva ad aspirazioni latenti e era conforme allo sviluppo delle forme reali di vita. Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanentemente” perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico).
Tratto da : A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III.
«». il Fatto Quotidiano online blog Diego Fusaro,
Il caso Alitalia, se non altro, ci dà conferma di quanto già sapevamo e che, non di meno, stenta a farsi comprendere nell’epoca delle magnificate privatizzazioni e del competitivismo sans frontières: il privato è in grado di fare peggio del pubblico. Perfino peggio del pubblico in fase di assedio, di tagli e di continue offensive ad opera della ragione liberista oggi dominante e autoproclamatasi la sola legittima. Le infinite geremiadi contro il pubblico spendaccione e incapace, inefficiente e fallimentare cantate a reti unificate dai troppi soloni del privatismo a tutte le condizioni rivelano qui tutta la loro inconsistenza: ripeto, Alitalia ci mostra che il privato è capace di fare anche peggio. E che, di conseguenza, la privatizzazione senza residui non può essere la soluzione, con buona pace delle omelie dei bocconiani e del vangelo dei sacerdoti del mondialismo come nuova teologia della disuguaglianza sociale planetaria. Non è tutto.
La tragica vicenda legata ad Alitalia ci impartisce anche un’altra lezione, non meno importante della precedente. Siamo entrati, e non da ieri, in una inedita fase di capitalismo comunistico: un capitalismo che selvaggiamente privatizza gli utili e generosamente socializza le perdite. Con l’ovvia conseguenza che a subirne tutte le conseguenze sono, guarda caso, sempre i soliti noti, i subalterni e gli sconfitti della globalizzazione. In primis i lavoratori.
La Fiat è da diversi anni l’emblema di questo capitalismo comunista tutto a beneficio dei signori del competitivismo privatistico. La vecchia domanda leniniana – che fare? – torna più urgente che mai. La soluzione, la sola soluzione praticabile, che ovviamente sarà demonizzata dagli oligarchi del privatismo e dalla casta dei loro prezzolati oratores accademici, giornalistici e televisivi, è la seguente: nazionalizzazione della ditta. Riappropriazione sociale di ciò che apparteneva alla nazione italiana e che, affidato alle magnifiche cure del privato, è precipitato al suolo. Tutto il resto è chiacchiera politicamente corretta.
il manifesto, 26 aprile2017
Non sono solo i nostalgici o i cultori dei fascismi a cercare di corrompere il senso autentico dell’antifascismo, negli ultimi lustri ci si sono messi revisionismi a vario titolo che senza avere il coraggio di negare i fondamenti della Resistenza hanno fatto di tutto per infangarne memoria e magistero
Anno dopo anno lo slogan più ripetuto per la manifestazione del 25 Aprile, festa della Liberazione, è stato «ora e sempre Resistenza». Non è solo e tanto un afflato enfatico per sentirsi parte di un evento a cui la grande maggioranza di chi sfila oggi non partecipò.
Quelle parole hanno un valore ed un peso precisi: impegnano le generazioni a venire a battersi contro ogni oppressione, contro ogni tirannia sotto qualunque cielo essa si manifesti e operi mettendo genti e uomini gli uni contro gli altri. La lotta antifascista fu fenomeno italiano, europeo, ma anche extraeuropeo. La cultura germinata dell’impegno militante ed ideale delle Resistenze ha generato una Weltanschauung da cui è uscita una nuova umanità che ha voluto riconoscersi come integra, titolare di diritti universali per ogni essere umano. La vittoria contro la barbarie nazifascista ha fatto fiorire alcune scritture sacrali pur nella loro originaria laicità. Fra queste ci sono la Costituzione della Repubblica Italiana e la Carta dei diritti universali dell’Uomo.
Ma a dispetto di questo immenso patrimonio che delinea un mondo di pace e di uguaglianza, vi sono importanti movimenti che profondono intense energie per restituire legittimità alle ideologie dell’odio, del razzismo, della xenofobia, magari con il pretesto di tributare onore a combattenti caduti in guerra, spesso sotto la compiaciuta indifferenza di istituzioni ed autorità di paesi che si vogliono orgogliosamente democratici. La giustificazione a tale invereconda ipocrisia sarebbe che i morti sono uguali. I morti caduti per servizio nel portare guerre, stermìni, deportazioni, schiavismo, secondo questi becchini sarebbero uguali ai caduti per la libertà.
Affermando che quella bandiera richiama il Gran Muftì di Gerusalemme che fu in carica per un breve periodo nel tempo della II guerra mondiale e che era filonazista (Una provocazione. Magari tacendo il legame profondo e ben più recente tra Stato d’Israele e il regime razzista dell’apartheid in Sudafrica). I dirigenti del Pd romano quest’anno, sospettiamo per ritorsione al no dell’Anpi in occasione del Referendum costituzionale, hanno scelto di aderire alla protesta dei leader comunitari degli ebrei romani. Con tale decisione il Pd romano ratifica il giudizio che i rappresentanti del popolo palestinese siano solo gli «eredi» del Gran Muftì filonazista di Gerusalemme di 80 anni fa e non i figli di un popolo oppresso che vive sotto occupazione militare da 50 anni.
Io che credo profondamente alle parole «ora e sempre Resistenza», nell’intento di fare rinsavire Matteo Orfini e i suoi mi servirò delle parole pronunciate all’assemblea delle Nazioni Unite il 16 ottobre 2016 da Hagai El-Ad, direttore esecutivo del gruppo israeliano per i diritti umani Bet’Tselem:
«Ho parlato alle Nazioni Unite contro l’occupazione perché sono israeliano. Non ho un altro Paese. Non ho un’altra cittadinanza né un altro futuro. Sono nato e cresciuto qui e qui sarò sepolto: mi sta a cuore il destino di questo luogo, il destino del suo popolo e il suo destino politico, che è anche il mio. E alla luce di tutti questi legami, l’occupazione è un disastro. (…)Ho parlato alle Nazioni Unite contro l’occupazione perché i miei colleghi di B’Tselem ed io, dopo così tanti anni di lavoro, siamo arrivati ad una serie di conclusioni. Eccone una: la situazione non cambierà se il mondo non interviene. Sospetto che anche il nostro arrogante governo lo sappia, per cui è impegnato a seminare la paura contro un simile intervento. (…) Non ci sono possibilità che la società israeliana, di sua spontanea volontà e senza alcun aiuto, metta fine all’incubo. Troppi meccanismi nascondono la violenza che mettiamo in atto per controllare i palestinesi. (…) Non capisco cosa il governo voglia che facciano i palestinesi. Abbiamo dominato la loro vita per circa 50 anni, abbiamo fatto a pezzi la loro terra. Noi esercitiamo il potere militare e burocratico con grande successo e stiamo bene con noi stessi e con il mondo. Cosa dovrebbero fare i palestinesi? Se osano fare manifestazioni, è terrorismo di massa. Se chiedono sanzioni, è terrorismo economico. Se usano mezzi legali, è terrorismo giudiziario. Se si rivolgono alle Nazioni Unite, è terrorismo diplomatico. Risulta che qualunque cosa faccia un palestinese, a parte alzarsi la mattina e dire “Grazie, Raiss” – “Grazie, padrone” – è terrorismo. Cosa vuole il governo, una lettera di resa o che i palestinesi spariscano? Non possono sparire».
È vero, i palestinesi non possono sparire e hanno la piena titolarità per rivendicare i loro diritti, ovunque. E la loro liberazione ci riguarda.
il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2017 (p.d.)
Riferimenti
Sull'argomento vedi anche, in eddyburg, gli articoli raccolti sotto il titolo È giusto sparare contro le ONG che salvano i profughi? e la relativa postilla
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«il manifesto, 26 aprile 2017
Mélenchon rivela, dimostra, impone alla sinistra italiana, se c’è e vuol esserlo davvero, cose chiare e nette. Rivela che meritare di essere definita «estrema» non impedisce di ottenere tanti voti quanto quelli che la distanziano di poco dalle due maggiori formazioni politiche.
Il risultato del primo turno dell’elezione in Francia dimostra, anzi, che la somma dei voti della sinistra estrema e del partito socialista, che è quello di Hamon e non quello di Hollande e degli altri converti al liberismo, supera quelli di Macron (23,8 %), il primo dei duellanti al secondo turno, dato che 19,6%, più 6,3 % è eguale a 25,9%. Essere di sinistra, anche estrema, non condanna perciò alla irrilevanza politica. Perché la sinistra non è morta col crollo del muro di Berlino.
Dimostra Mélanchon che si può rappresentare, quindi raccogliere, esprimere, assumere come propri e manifestare i bisogni, gli interessi, le domande, i progetti che emergono della classe sociale dei lavoratori.
Evitando, fortunatamente, di denominarli come partecipanti ad una gara podistica, primi, secondi, ultimi, penultimi … e nascondendo così che la loro è la condizione di vita determinata dal rapporto capitalistico di produzione. Rapporto che non è stato trasformato né dalla rivoluzione informatica né dalla globalizzazione che altri profili, anche importanti, hanno modificato, ma non certo la sua struttura quella salariale, che accomuna operai e impiegati, che, come tali, vengono sfruttati.
È quello stesso rapporto che investe i precari in quanto aspiranti allo sfruttamento, così come i disoccupati permanenti, depauperati anche della condizione di sfruttati. È, infine, quello degli emarginati dalle crisi di sovrapproduzione o da quella che da dieci anni attanaglia l’Europa, e che, con la finanziarizzazione dell’economia, prova a frenare o a mitigare le conseguenze della caduta tendenziale del tasso di profitto.
Mélanchon indica senza infingimenti che questa Europa è la maggiore e più evidente responsabile della sua regressione incessante sul piano della sostenibilità sociale. Non solo su questo giornale e già sulla rivista di questo giornale abbiamo denunziato cento volte l’accumulo di assurdità istituzionali e di totalitarismo normativo contenuto nei Trattati e riassunto in quello di Lisbona.
Oggi una forza politica europea non sospetta di popolarismo come la «sinistra radicale francese» pone come suo obiettivo programmatico la democratizzazione dell’Unione europea. Democratizzazione, quindi, non uscita avventuristica dall’Ue, consapevolezza quindi della impossibilità di lottare efficacemente contro il capitalismo da una dimensione territoriale minore da quella continentale. Democratizzazione che, per essere tale, deve radiare l’immunità politica dei consigli europei che, sotto lo scudo della collegialità, offre agli esecutivi degli stati dell’Ue, cioè ai produttori dei regolamenti europei, l’irresponsabilità politica delle norme che produce su proposta della Commissione, l’esecutivo per eccellenza dei Trattati, che a loro volta furono deliberati dagli esecutivi degli stati. Quei Trattati che pongono come fine esclusivo dell’Ue e come mezzo per raggiungerlo l’economia di mercato aperto e in libera concorrenza.
Dalla vicenda della sinistra radicale europea, dal suo irrompere imponente ed improvviso sulla scena francese la sinistra italiana deve trarre tutte le conseguenze. Innanzitutto quella di sapere che può esistere, e lo può, senza accoppiamenti snaturanti, senza attenuazioni o falsificazioni abiuranti, senza revisioni stravolgenti. Lo può se decide di essere sinistra.
La Repubblicail manifesto, 25 aprile 2017
«Il Fn vince lontano dai centri urbani e tra le fasce più povere. Laureati e dirigenti scelgono il leader di” En Marche”. Città contro campagna nel Paese del “voto di classe” Le Pen conquista i delusi»
Se Marine Le Pen si fosse presentata solo nella capitale non avrebbe superato neppure la soglia di sbarramento per ottenere i rimborsi elettorali fissata al 5%. In alcuni quartieri, come il Marais e Pigalle, la leader del Front National supera appena il 3%, mentre Macron ha conquistato un parigino su tre (34,8%). Se invece la Francia fosse in miniatura quella di Brachay, comune di una sessantina di abitanti nella Marna, lontano da tutto, Le Pen sarebbe già all’Eliseo: ha ottenuto più dell’83%.
La mappa del primo turno delle presidenziali conferma un paesaggio politico destrutturato, con una netta divisione tra le grandi città e quella che il geografo Christophe Guilluy ha chiamato in un saggio la “Francia periferica”. Il divario tra voto nei centri urbani e nelle zone rurali non è mai stato così chiaro. Se a Lione il Fn prende solo l’8,86%, nella regione intera del Rhone sale fino al 16,26%. Lo stesso scarto si verifica tra Bordeaux (7,39%) e la Gironda (18,2%), Lille (13,8%) e la sua provincia (28,2%). «Il voto per il Front National si rafforza via via che aumenta la distanza da un centro urbano», spiega Guilluy. Le 588 città con più di 15mila abitanti, un terzo dell’elettorato, hanno una percentuale Fn inferiore al dato nazionale. Domenica sera lo spoglio in diretta del ministero dell’Interno metteva Le Pen in testa rispetto a Macron finché non sono arrivate le schede delle metropoli che hanno ribaltato il rapporto di forza. L’altra spaccatura che emerge dalla cartografia del voto è quella che taglia in due la Francia da nord a sud, ovvero tra la metà orientale, quasi tutta per il Front National, e quella occidentale, dominata dal voto per Emmanuel Macron. «È una divisione antica tra Francia atlantica, aperta, benestante, moderata, e un’altra continentale, più chiusa, in crisi, reazionaria», spiega il geografo Jacques Levy. Il nord-est si conferma un monocolore Le Pen. Nelle zona tra Piccardia e Nord-Pas-de-Calais, al confine con il Belgio, il Fn supera anche il 30% dei voti. La supremazia dell’estrema destra nelle zone più colpite dalla deindustrializzazione è ormai assodata, ad eccezione della regione parigina.
La fascia orientale, verso la frontiera con la Germania, registra sempre una prevalenza del Fn, con il 27,78% dei voti. Si conferma anche la forza del partito di Le Pen verso il sud-est e il Mediterraneo, fino al confine con l’Italia: nella regione Paca (Provence- Alpes-Cotes d’Azur) dove ottiene il 28,17%. La leader Fn segna anche un risultato storico in Corsica, arrivando al primo posto con il 27,88%, superando per la prima volta la destra.
La Francia del centro e quella affacciata sulla costa Atlantica ha scelto invece Macron. Il leader di En Marche ha ottenuto il 25,1% in Aquitania, il 26% nella regione della Loira e fino al 29% nella Bretagna. Macron è arrivato al primo posto in 7.175 comuni, di cui più della metà avevano votato il socialista François Hollande nel 2012. Ma il candidato centrista è riuscito anche a conquistare 2.353 città che nella precedente presidenziale avevano dato la preferenza all’ex leader della destra Nicolas Sarkozy. Macron registra il suo miglior risultato a Bigorno, comune di 85 elettori in Corsica, dove ottiene il 77,1%. Tra i francesi residenti all’estero ha ottenuto quasi metà dei voti (40,4%) rispetto al 6,4% di Le Pen.
«L’analisi sociologica conferma un voto di classe», spiega Frédéric Dabi, direttore dell’istituto Ifop. Le Pen è la candidata degli operai, degli impiegati, ma anche dei disoccupati (oltre un terzo ha votato per lei), mentre Macron ha i suoi punti di forza nei quadri dirigenti e nei professionisti (uno su tre hanno votato per lui). I due candidati al ballottaggio ottengono la stessa percentuale (32%) nelle due fasce estreme di reddito: Le Pen tra chi guadagna meno di 1.250 euro mensili, Macron tra chi ne guadagna più di 3mila. «Macron è il candidato dei laureati mentre Le Pen quella dei diplomati», conclude Dabi. Gli istituti di sondaggi avevano in parte già analizzato queste distinzioni e hanno preso domenica sera una piccola rivincita: contrariamente a quanto accaduto con Brexit ed elezioni americane, le loro previsioni sul voto si sono rivelate giuste.
il manifesto LE NUOVE GEOMETRIE
DELL’ESAGONO FRONTISTA
di Guido Caldiron
«Per Marine Le Pen un risultato comunque storico. Oltre sette milioni e mezzo le preferenze totalizzate al primo turno. Gli studiosi francesi dell'estrema destra analizzano il voto al Front national»
Un paese spaccato, diviso pressoché a metà lungo linee che disegnano per molti versi una nuova geografia politica e sociale. Per quanto inferiore alle attese, nel corso degli ultimi mesi i sondaggi l’avevano data in testa e con percentuali che sfioravano il 30% dei consensi, l’affermazione della leader del Front National, Marine Le Pen, sembra trarre prima di tutto alimento dalle nuove linee di demarcazione che stanno emergendo in seno alla società francese.
Gli oltre 7 milioni e mezzo di consensi raccolti dalla candidata dell’estrema destra, in ogni caso un record mai raggiunto prima nella storia più che trentennale del Fn, appaiono come il frutto più velenoso e inquietante della fratture che percorrono l’Esagono. E che anche nel caso della probabile vittoria di Emmanuel Macron al secondo turno delle presidenziali, continueranno a rappresentare una sfida di non poco conto in particolare per la sinistra politica e sociale.
Tra le analisi proposte nel dopo voto dagli studiosi dell’estrema destra, spicca perciò quella avanzata dal demografo Hervé Le Bras, decano della storia sociale transalpina che da tempo, il suo Le pari du Fn (Autrement) è uscito già nel 2015, invita a considerare gli exploit elettorali del Front National nell’ambito della geografia sociale del paese che ha visto emergere nuove forme di povertà e di emarginazione, non solo di natura economica. Se il primo turno della corsa all’Eliseo fotografa come circa il 30% dei disoccupati e degli operai abbia scelto Le Pen, contro una percentuale simile di appartenenti al ceto medio e alle professioni liberali che si sono invece orientati verso Macron, Le Bras sovrappone una serie di “carte” relative alla composizione sociale delle differenti regioni, all’analisi del voto. Facendo così emergere l’aspetto meno evidente, ma non per questo meno preoccupate, dei risultati.
Così, la lnea orizzontale che divide in due la Francia politica, separando nettamente le regioni dell’Ovest, che hanno votato in maggioranza per Macron, da quelle dell’Est, andate a Le Pen, corrisponde secondo lo studioso a quella che separa le zone di più forte insediamento delle classi media e alta, rispetto a aree popolari che sono poi quelle più colpite dalla deindustrializzazione e dalla paura del declassamento.
Allo stesso modo, anche il voto delle grandi città in favore dell’ex ministro dell’Economia di Hollande, con la sola significativa eccezione di Marsiglia e dei centri del Sud-Est, si spiega con il fatto che è qui che risiede prevalentemente il ceto medio e intellettuale. All’inverso, l’analisi proposta da Le Bras indica come i consensi al Fn vengano soprattutto «dai piccoli centri dove molto spesso si sono trasferite nel corso del tempo le famiglie operaie cacciate dalle metropoli dall’aumento degli affitti e del costo della vita o da quelle aree rurali i cui abitanti si sentono esclusi e dimenticati dalle scelte della politica».
Malgrado questa strategia di conquista nei territori perduti della gauche inaugurata da Marine Le Pen da alcuni anni non abbia portato ancora tutti i frutti sperati, la presidente del Fn, come nota lo storico dell’università di Monpellier, Nicolas Lebourg, che ha firnato Les extrêmes droites en Europe (Seuil, 2015), «non poteva sperare in un avversario migliore di Macron». Questo perché malgrado l’ex esponente del Ps sia quello che secondo tutti i sondaggi aveva fin dall’inizio più possibilità di battere Le Pen, è altrettanto chiaramente «colui che incarna al meglio la figura del nemico nell’ambito del progetto frontista di riconfigurazione della democrazia francese, non più secondo la dicotomia destra-sinistra, ma tra coloro che difendono l’identità nazionale (i sovranisti) e coloro che cercherebbero di distruggerla (i mondialisti)». Per questo Le Pen «martella sul fatto che Macron è un simbolo della “globalizzazione selvaggia” contro cui il Fn si presenta come l’unica difesa dei francesi e la sola alternativa politica».
Quanto alle prospettive che si aprono per il secondo turno, gran parte degli specialisti dell’estrema destra concordano sul fatto che difficilmente Marine Le Pen sarà in grado di raccogliere un numero sufficiente di consensi da poter raggiungere il 51%.
Ciononostante, il politologo Joël Gombin, autore di Le Front National (Eyrolles, 2016) e membro dell’Observatoire des radicalités politiques della Fondazione Jean-Jaurès, ricorda come «in occasione delle ultime elezioni regionali, quelle del 2015, un terzo degli elettori del centrodestra si è alla fine portato sul Fn» e che «domenica Macron e Le Pen messi insieme non hanno raggiunto neanche la metà dei consensi espressi, lasciando così aperto, malgrado le dichiarazioni in favore del candidato di En marche! pronunciate dai maggiori leader politici, almeno in linea di principio, lo scenario per il secondo turno. Una situazione decisamente inedita».
la Repubblica, l’Avvenire, 25 aprile 2017, con postilla
la Repubblica
«Dalle leggi travisate alla parola taxi citata a sproposito: l’emergenza sfruttata a fini elettorali Eppure Msf e gli altri riempiono un vuoto umanitario lasciato dalle istituzioni europee»
PER capire bisogna prendersi del tempo. Per capire bisogna leggere le fonti e verificarle. La tristissima vicenda che riguarda la polemica del Movimento 5Stelle sulle Ong che nel Mediterraneo si occupano di soccorrere i migranti mostra come, a partire da Beppe Grillo per finire con il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, i 5Stelle parlino su questo argomento per sentito dire, riportando affermazioni senza verificarle, dandole per vere e proponendo interrogazioni parlamentari che hanno il sapore di strumento di propaganda fine a se stessa.
Di Maio dichiara: «Definire taxi le imbarcazioni delle Ong non è un mio copyright. Prima di me, e a ragione, lo ha detto l’agenzia dell’Ue Frontex nel suo rapporto “Riskanalysis 2017”».
Basterebbe leggerlo davvero il rapporto per verificare che non paragona mai, in nessun punto, le imbarcazioni delle Ong che si occupano di search and rescue nel Mediterraneo a dei taxi. Non lo fa perché sarebbe scorretto, e non lo fa perché “taxi” significa lusso, significa comodità. E comodità e lusso sono parole che con le storie di chi attraversa il Mediterraneo per raggiungere l’Europa non c’entrano nulla.
E allora, se la parola taxi non si trova nel rapporto Frontex — anche se Di Maio dice di aver letto il rapporto ed è convinto che vi sia la parola “taxi” — chi l’ha pronunciata per primo? Nemmeno il procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, che Di Maio indica come altra sua fonte. Ma vale la pena analizzarle le parole di Zuccaro, perché sono comunque la fonte primaria della comunicazione che sull’argomento hanno fatto il Movimento 5 Stelle e Luigi Di Maio. La procura di Catania viene infatti citata in un articolo pubblicato sul blog di Grillo e trattato come fosse un documento dirimente sull’argomento, quasi pietra miliare.
Dice testualmente Carmelo Zuccaro in un’intervista: «Tra il settembre e l’ottobre 2015 nascono numerose Ong. Cinque tedesche, una spagnola e una maltese, che quindi nascono dal nulla e che dimostrano di avere subito disponibilità di denari per il noleggio delle navi, per l’acquisto di droni ad alta tecnologia e per la gestione delle missioni, che sembra molto strano che possano aver acquisito senza avere un ritorno economico ». Quindi la domanda che la procura di Catania si pone è: chi paga le missioni? Il procuratore apre un fascicolo conoscitivo, senza indagati né capi di accusa, su sette Ong che, con tredici navi, salvano migranti nel Mediterraneo. Le Ong rivendicano la trasparenza dei loro bilanci che si basano su finanziamenti privati e infatti Zuccaro non ha alcuna certezza che le missioni umanitarie nel Mediterraneo siano in realtà dei “taxi per migranti” e parla di “sospetto” e ribadisce di “un mero sospetto”, se non fosse ancora abbastanza chiaro. Un mero sospetto che nelle dichiarazioni del Movimento 5 Stelle e di Di Maio diventa una quasi certezza, lanciata come sempre in pasto ai social, dove si sa, l’approfondimento non è di casa. Dove ci si affida al pensiero di terzi perché il proprio vi si adegui.
Ma quello che mi ha colpito delle dichiarazioni di Zuccaro è la riflessione sul pericolo che corre l’Italia ad accogliere migranti in maniera incontrollata. Ed è proprio qui che si collega l’articolo pubblicato sul blog di Beppe Grillo dal titolo: “Più di 8mila sbarchi in 3 giorni: l’oscuro ruolo delle Ong private”. Dove si fermano le ipotesi della procura di Catania, arrivano le certezze dei 5 Stelle, dove la procura di Catania non si inoltra per mancanza di prove, lo fanno Grillo e Di Maio: le Ong, prima di qualsiasi indagine o processo, sarebbero “colpevoli” di portare migranti in Italia.
Ma perché in Italia? Perché non nei porti fisicamente più vicini? Semplice: perché l’Italia è il porto più sicuro, perché chi fugge dalla Libia o dalla Tunisia non può tornare in Libia o in Tunisia. Intanto perché la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e poi perché «nei soccorsi in mare», come riporta Annalisa Camilli in un fondamentale articolo sul tema, «viene applicata la convenzione di Amburgo del 1979». “Porto sicuro” non è infatti semplicemente un luogo che sia terraferma, ma sicuro anche e soprattutto per la garanzia dei diritti delle persone che si trovano in mare. Perché se è illegale favorire l’immigrazione clandestina è altrettanto illegale non prestare soccorso in mare.
Spesso poi si fa riferimento alla distanza tra le imbarcazioni delle Ong che effettuano salvataggi in mare e la costa, come a insinuare questo dubbio: «Perché quelle navi si trovavano così vicino alle coste? Perché a 12 miglia?». Si omette però di dire che è lecito avvicinarsi fino a 12 miglia nautiche se serve per salvare vite umane. Medici Senza Frontiere, per esempio, nel 2016 in cinque occasioni ha prestato soccorso a circa 11,5 miglia dalla costa dopo aver avuto l’ok delle autorità libiche. Le Ong agiscono dove altri non arrivano e mai senza il via libera delle autorità competenti.
Ma veniamo all’articolo che è stato la base teorica per i post di Di Maio. Se è vero, come è vero, che le prime righe di un testo contengono il messaggio che si vuole veicolare, ecco il messaggio che il blog di Beppe Grillo vuol farci arrivare: «Negli ultimi giorni l’Italia ha registrato un record di sbarchi senza precedenti. In poco più di 72 ore circa 8mila migranti sono approdati in Sicilia dopo una lunga traversata in mare». Ergo: il problema sono gli arrivi. E poi, dato che come è noto, nessuno di noi ha tempo da perdere per leggere ed approfondire, l’articolo ci rende la vita facile e mette alcune frasi chiave in evidenza cosicché quello che ci troviamo davanti è un articoletto di poche righe, che facilmente ci resteranno impresse. Eccole: «Con l’aumento degli sbarchi aumenta ovviamente anche la spesa interna dell’Italia». «È la solita solfa, con un’Europa che ci è totalmente estranea e indifferente ». «Ma c’è un nuovo capitolo che sta emergendo in queste ore e che merita attenzione ».
Qui vale la pena riportare l’intero paragrafo perché aggiunge liberamente informazioni alle dichiarazioni ipotetiche della Procura di Catania: «Parliamo di circa una dozzina di Ong tedesche, francesi, spagnole, olandesi, e molte di queste battono bandiere panamensi o altre bandiere ombra». Zuccaro parlava di sette Ong e tredici imbarcazioni attenzionate dalla Procura di Catania, ma nell’articolo sul blog di Grillo il loro numero lievita.
In un’altra intervista sullo stesso argomento, Zuccaro precisa che non tutte le Ong che recuperano migranti sono uguali: «Ci sono quelle buone e quelle cattive». Nel dubbio, però, Grillo e Di Maio hanno pensato di gettare fango su tutte: prima che ci sia un processo e che si possa accertare cosa accade, meglio disincentivare le donazioni alle Ong che salvano vite e che portano migranti in Italia.
Ora, terminato il fact checking alle dichiarazioni di Grillo e Di Maio, ci tengo a fornire una serie di strumenti utili a capire qual è la situazione. Se le navi delle Ong Proactiva open arms, Medici senza frontiere, Sos Méditerranée, Moas, Save the Children, Jugend Rettet, Sea watch, Sea eye e Life boat si trovano anche vicino alle coste libiche è perché è lì che serve la loro presenza allo scopo di salvare vite. Le Ong non si sono messe a fare un “servizio taxi” per i migranti di punto in bianco, ma riempiono un vuoto umanitario lasciato dalle istituzioni europee.
Ma Di Maio afferma ancora: «La verità è che in Italia in questi ultimi 20 anni ci sono stati due generi di sfruttamento dell’immigrazione. Il primo è quello della Lega, che ha lucrato elettoralmente sul problema, senza mai risolverlo. L’altro invece è quello del centrosinistra, che ha anche preso soldi dalle cooperative che sfruttavano il business dei migranti. Non a caso Salvatore Buzzi finanziò una cena elettorale di Matteo Renzi. Destra e sinistra hanno già fallito».
Bene, se è così, allora il M5S ha capito che vale sicuramente la pena, in questo momento, aderire alla prima strada, ovvero a quelli che la questione migranti la sfruttano per motivi elettorali. E sono i numeri a parlare: nel 2016 su 178.415 migranti salvati nel Mediterraneo, le Ong ne hanno salvati 46.796, a fronte dei 35.875 salvati dalla Guardia Costiera, dei 36.084 salvati dalla Marina Italiana, dei 13.616 salvati da Frontex (dati della Guardia Costiera Italiana). Se le Ong fossero spazzate via da diffidenza e sospetti, se si interrompesse il sostegno economico privato, calcolate quanti migranti in meno arriverebbero in Italia, e non perché ne partirebbero di meno, ma perché morirebbero in mare, seppelliti dalle acque, e noi saremmo circondati da un cimitero più cimitero di quanto non lo sia già.
E in tutto questo, come ha reagito il Partito democratico alla polemica sulle Ong? Parole vuote e di circostanza. Dichiarazioni smentite dai fatti, con il decreto Minniti che sta progressivamente criminalizzando la solidarietà. Invece di eliminare, come sarebbe ovvio, giusto e conveniente, il reato di immigrazione clandestina si sta subdolamente introducendo il reato di solidarietà.
l’Avvenire
Quella «supplenza diciviltà» in mare.
Basta fuoco sulle Ong
di Marco Tarquinio
Ci risiamo. Dopo le cooperative sociali, le organizzazioni non governative umanitarie. Mentre ancora romba sordamente la campagna anti-cooperative fondata ingenerosamente sull’infedeltà e sul malaffare di alcune (solo alcune) di esse, ha preso a stringersi, a strappi violenti e continui, la tenaglia della polemica politica – dalla Lega ai 5 Stelle, passando per pezzi dell’area di governo – e della narrazione mediatica ambigua e ostile sulle attività delle organizzazioni umanitarie. Ancora una volta il settore d’impegno e d’azione messo nel mirino è quello del soccorso e dell’accoglienza a profughi e migranti. Stavolta in mare aperto, nelle attività di ricerca e soccorso dei bambini, delle donne e degli uomini in fuga dalla guerra, dalla violenza, dalla fame e dalla schiavitù che rischiano di morire nelle traversate del braccio di mare tra il Nord Africa e l’Italia. Traversate da incubo a cui sono costretti dalla mancanza di navi e vie e voli regolari e regolati e da un sistema di norme che li “clandestinizza” (e meno male che l’Italia ha saputo capovolgere questa impostazione almeno riguardo ai bambini e ai ragazzi che arrivano da soli nel nostro Paese). Traversate che continuano vista la piccolezza dei «corridoi umanitari» – aperti, in accordo coi rispettivi Governi, solo grazie alle iniziative ecumeniche di Sant’Egidio, dei protestanti italiani e francesi e delle Conferenze episcopali d’Italia e Francia – che possono diventare la giusta e finalmente proporzionata risposta alle sofferenze e agli appelli delle vittime dei conflitti e delle persecuzioni.
Le Ong impegnate nel Canale di Sicilia sono gli occhi che rischiamo di non avere più, sono le mani che non possiamo lasciare inerti, alimentano consapevolezze e sani e tenaci rovelli nelle coscienze d’Italia e d’Europa. Per questo non si può restare neutrali e indifferenti al tentativo di lordarne l’immagine e di “espellerle” dal Mediterraneo. È un fatto: denunce, segnalazioni, dossier, pamphlet, video anti-immigrati e anti-Ong si moltiplicano. Strumentalizzano accertamenti giudiziari. Trovano spazio, eco e legittimazione sulle pagine di giornali, anche autorevoli, dove nel giro di una manciata di settimane titoli pesanti e un aspro rumore di fondo informativo hanno preso a costruire, poco a poco ma con impressionante determinazione, l’abbinamento senza senso e senza verità tra gli «affari» dei trafficanti di essere umani e le Ong umanitarie.
Eppure corre quest’ennesimo falso ritornello – falso, sì, anzi falsissimo, fino a prova contraria – e continuiamo a registrare che inquirenti di prim’ordine, come quelli della Guardia di Finanza, stanno facendo cadere le più malevoli illazioni. Eppure dà ritmo, il ritornello, alla colonna sonora e iconografica di un brutto film, tutto giocato sull’incattivimento degli sguardi e delle parole a proposito dello straniero «che sta alla porta», e importuna, come tutti i poveracci, e sporca, e costa, e ruba ai vecchi di casa nostra, ed è nullafacente… Una “colonna infame” fatta di barzellette ciniche e di immagini odiosamente congegnate, che infestano il web e i cellulari degli italiani e ostentano uno stile che ricorda e aggiorna quello mortalmente usato contro gli ebrei nel cuore più malato del XX secolo a preparare l’inimmaginabile e la criminalizzazione permanente e senza scampo degli «zingari».
Certo, è vero: ogni malefatta compiuta all’ombra di simboli umanitari – se davvero se ne compissero – peserebbe il doppio. E correttezza operativa, onestà di intenti e di mezzi, trasparenza economica e gestionale sono beni necessari, attitudini qualificanti e decisive. Ma è ancora più vero che la specifica azione nel Mediterraneo delle Ong umanitarie, svolta sempre in stretto coordinamento con la Guardia costiera e la Marina militare italiana, vale oggi almeno il quadruplo del normale. È una supplenza di civiltà. È dedizione esemplare, nella più pura applicazione della “legge del mare” e dei grandi princìpi enunciati nei Trattati Onu e nella Costituzione italiana, o semplicemente, per chi crede, è adesione al Vangelo. Un servizio di umanità che risalta ancor più di fronte all’enormità della degenerazione meramente «securitaria» del doppio dispositivo europeo Frontex ed Eunavfor Med che ha sostituito in modo insufficiente e, diciamolo pure, umanitariamente sparagnino e reticente l’operazione italiana Mare Nostrum, voluta con scelta lucida e generosa dall’allora presidente del Consiglio Enrico Letta all’indomani della sconvolgente strage di migranti causata dal naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013.
Quando finirà, insomma, questo gioco al massacro della verità? Ong – come coop – non è una parolaccia, non è una sigla malavitosa. Qualche Ong fasulla c’è stata, qualcun altra ci sarà, ma quello delle Ong è un mondo esigente e buono. La stragrande maggioranza di esse – che operi in Italia, su barche in mezzo al nostro mare o in parti del mondo che forse conosceremo solo grazie a qualche coraggioso reportage o docufilm – è un prezioso e resistente pezzo dell’umanità che non si rassegna alla disumanizzazione, a quella «cultura dello scarto» che papa Francesco non si stanca di additare alla reazione della nostra intelligenza e del nostro cuore.
postilla
Ciò che stupisce e indigna, nelle posizioni dei grillini alla De Maio, dei renziani allaMinniti e degli altri numerosi che ragionano come loro, non è solo la sostanziale inumanità che esprimono ma anche e soprattutto la più cieca ignoranza di due fatti incontestabili:
(1) l'esodo proseguirà inevitabilmente finché proseguirà lo "sviluppo" come è concepito e praticato dal Primo mondo e dalle sue espansioni asiatiche;
(2) i mercanti di profughi (chiamateli scafisti o come altro volete) rimarranno attivi finché i paesi del benessere non si saranno decisi sia a organizzare dei "canali protetti" che aiutino gli "sfrattati dallo sviluppo"a raggiungere i nostri paesi sia a realizzare nelle nostre terre le condizioni per un'accoglienza temporanea o definitiva.