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la Repubblica online, ed. Milano) e un commento di Guido Rampoldi (il Fatto quotidiano online, blog Guido Rampoldi), 7 e 8 Maggio 2017, con postilla

la Repubblica, 7 maggio
TRAGEDIA IN ZONA STAZIONE:
GIOVANE RIFUGIATO SI TOGLIE LA VITA
DAVANTI AI PASSANTI
di Zita Dazzi e Franco Vanni

«Trovato impiccato non lontano dal nuovo centro di accoglienza. Aveva 31 anni, arrivava dal Mali ed era da un anno e mezzo in Italia. L'assessore Majorino: "Rafforzare ancora di più la rete degli interventi sociali, in questo Paese è priorità assoluta"»

Le indagini dei carabinieri di Porta Monforte hanno portato a identificare il cadavere nel corpo di un 31enne cittadino del Mali. Decisivo è stato il rilievo delle impronte digitali. L'uomo si trovava in Italia da almeno un anno e mezzo. Aveva un regolare permesso di soggiorno per protezione internazionale, già concesso e in corso di rinnovo a Modena. Non risulta che avesse indicato un luogo di dimora recente. L'autorità giudiziaria al momento non ha ritenuto di dovere disporre autopsia.

Il corpo è stato rinvenuto lungo la massicciata della ferrovia. Il giovane è stato visto mentre saliva sul muretto e poi si calava con la corda al collo. La morte è stata accertata intorno alle 12.50, ma quando è stato soccorso era ancora vivo, è morto nell'ospedale Niguarda. Una foto del giovane suicida è stata mostrata a tutti gli operatori che lavorano nei centri gestiti da Caritas e da Progetto Arca in Stazione e dintorni, ma per ora nessuno sembra averlo mai visto.

Si è suicidato appendendosi con un cappio a un pilone verso i binari della ferrovia, davanti ai passanti, in via Ferrante Aporti. Un giovane migrante di colore, senza addosso documenti o altri elementi di riconoscimento, è stato trovato così dagli agenti di polizia stamattina, domenica, a poca distanza dal Casc, il centro di aiuto sociale del Comune che da qualche giorno sta svolgendo le funzioni che prima venivano svolte all'hub di via Sammartini. Qui vengono controllati i documenti e i profughi vengono inviati ai centri d'accoglienza in città. I migranti neo arrivati, secondo le nuove disposizioni, non possono più restare nella zona della stazione ma vengono inviati in via Lombroso e al Palasharp, in strutture dedicate ai senza fissa dimora.

il Fatto quotidiano, 8 maggio
MIGRANTE SUICIDA A MILANO,
UN INVITO A NON VOLTARSI DALL’ALTRA PARTE
di Guido Rampoldi

Non si conoscono esattamente i motivi per i quali un ragazzo del Mali si è impiccato due giorni nella stazione centrale di Milano, ma colpisce il modo distratto e burocratico con il quale la gran parte di politica e stampa stanno archiviando l’episodio. Non mancano preziose eccezioni (l’assessore Pierfrancesco Majorino, il parroco don Giuliano Savina, per esempio). Però nel complesso sembra prevalere un desiderio di voltarsi educatamente dall’altra parte.

Grossomodo è quel che accadde in gennaio quando un altro migrante si uccise a Venezia, gettandosi nel Canal Grande. In quella occasione una giovane veterinaria emigrata in Francia, Lia Morpurgo, scrisse una lettera che tuttora mi pare l’antidoto migliore contro la nostra fretta di rimuovere questi suicidi. La pubblico qui di seguito con un’avvertenza: nel mettere in relazione l’indifferenza e l’ostilità che circondano i migranti con gli analoghi sentimenti della popolazione civile verso i prigionieri del lager nazisti, ovviamente Lia Morpurgo non ha voluto in alcun modo

La lettera e i versi
di Lia Morpurgo

«Sono una ragazza di 27 anni, e attualmente lavoro come veterinaria in un piccolo paesino nel nord della Francia. Sono una dei tanti giovani italiani emigrati all’estero alla ricerca di lavoro. O meglio, alla ricerca di condizioni di lavoro più dignitose, più umane, più rispettose della legalità, rispetto a ciò che il nostro Paese ahimè ci offre. Una migrante economica, insomma, come i tanti migranti provenienti dall’Africa e dal Vicino Oriente a cui invece vengono negati permessi di soggiorno, lavoro, speranze.

«Ieri, degli amici francesi mi hanno interpellato riguardo alla vicenda di Pateh Sabally, il giovane migrante gambiano morto annegato nel Canal Grande, sotto gli occhi indifferenti di centinaia di cittadini e di turisti. Me ne hanno parlato con gli occhi attoniti e addolorati, chiedendomi come potesse essere possibile che l’indignazione e la vergogna non brucino i nostri volti e le nostre coscienze. Pochissimi i commenti che i giornalisti italiani hanno dedicato a questo fatto doloroso. Pochissimi i commenti sugli onnipresenti, onniscenti “social”.

«L’indifferenza dell’opinione pubblica italiana si aggiunge, come un macigno, all’indifferenza con cui i presenti hanno lasciato annegare Pateh, come se non fosse un loro pari, come se fosse intoccabile. Giacché “… noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno tra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi, cenciosi e affamati e, confondendo l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione”.

«Non è un migrante a scrivere queste parole, ma Primo Levi, in Se questo è un uomo, parlando delle popolazioni che abitavano accanto ai campi di concentramento, indifferenti allo sterminio.

«Settant’anni dopo, due giorni prima del Giorno della Memoria, un giovane migrante di 22 anni è stato lasciato solo ad annegare nell’acqua gelata, circondato da una folla di persone che hanno poi continuato a dedicarsi alle proprie faccende, allo shopping, ai souvenir. Vi domando, come è possibile aver voltato la testa, aver dimenticato?

«Riflettiamoci, e soprattutto, ricordiamo:

«Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi»

postilla

È proprio il piazzale antistante la Stazione centrale di Milano lo scenario che il governo Gentiloni Minniti scelse pochi giorni fa per mostrare a tutti, e in particolare ai "clandestini", il pugno duro che si era pronti a usare nella repressione dei "diversi". Non sappiamo se c'è una connessione diretta tra i due eventi, ma certamente quello sfoggio di violenza di Stato non ha contribuito a tranquillizzare quei nostri simili che sono fuggiti dagli inferni che il nostro mondo ha pesantemente contribuito a rendere tali.

«Le vecchie culture politiche appaiono abbandonate dai loro referenti sociali: sono percepite come omologate alle forme dominanti del capitalismo. La crisi dell’età della globalizzazione spalanca uno spazio per culture capaci di reinventare le forme di allargamento della democrazia, di partecipazione, di potere sociale.».

il manifesto, 9 maggio 2017

Il senso del voto francese è anche questo: con la sua marcia (poco) trionfale Macron ha vendicato Hillary Clinton, caduta nel suo sogno di un presidenzialismo a conduzione familiare e a forte egemonia finanziaria.

La destra in America, con Trump, ha giocato la briscola buttando sul tavolo la risposta conservatrice alla grande crisi del 2007. Con il suo immaginario politicamente scorretto, il comandante supremo dai capelli arancioni, ha strapazzato l’alternativa tecnocratica, che i poteri della finanza avevano fabbricato attorno alla candidatura di Clinton.

Una destra populista e protezionista avrebbe sfondato anche in Francia se però non avesse assunto il volto, ancora imbarazzante dopo il secolo breve, di una fascista al potere. Canterà pure la Marsigliese, ma Le Pen figlia evoca, non meno del padre vecchio camerata, un fantasma troppo oscuro per essere ospitato all’Eliseo. Le alchimie delle istituzioni della Quinta Repubblica hanno consentito la rivincita dei poteri forti della finanza e dei media che hanno investito tanto su un loro cavallo di scuderia che con appena il 23% acciuffa il potere.

Quello che la piccola rivoluzione passiva francese dice è che anche oltralpe si svolge il duello tra l’élite del denaro e della politica, che inventa novità cosmetiche per non perire, e le destre che agitano il codice del populismo, con gli immigrati come nemici concreti ma fasulli costruiti per sfondare. Gli stessi conservatori inglesi cavalcano l’euroscetticismo per riassorbire il dissenso dei ceti popolari. Riescono così a sgonfiare le nuove destre protezioniste, ma al caro prezzo dell’uscita dall’Unione europea. Per non parlare dello spettro della disgregazione del regno che si agita sotto le minacce scozzesi di devoluzione.

Con la prima grande contrazione sistemica del capitalismo globale si è aperta una generale crisi di rappresentanza. Cadono nel loro rendimento i regimi presidenziali, si inceppano i meccanismi maggioritari, si sgretolano i pilastri bipartitici, con buona pace dei profeti della democrazia decidente. Le destre, per resistere agli eventi, si convertono da inflessibili apostoli del liberismo della deregulation (l’asse Reagan-Tatcher) in profeti armati del protezionismo a suon di legge e ordine (l’asse Trump-May). Questo miracolo, che a intermittenza si ripete, è il punto di forza della destra. A sinistra i partiti non paiono troppo credibili quando accennano alla capriola che dalla febbre del liberismo (Cinton-Blair-Schroeder) li conduce a cavalcare le domande securitarie (liberi pistoleri di notte, esercizi repressivi con il decreto Minniti di giorno).

Quello che anche la Francia rivela è che la destra non è indebolita dalla crisi. Ad essere travolti dalle macerie del capitalismo in contrazione, sono i partiti riformisti, quelli di destra hanno mille vite. Escono disarcionati in Grecia, in Francia, in Spagna i partiti socialisti. Credevano di aver congelato i comportamenti elettorali arroccandosi come cartelli inamovibili di un’alternanza statica entro un sistema fermo alla venerazione delle divinità del mercato, che si è convertito in un produttore di diseguaglianza crescente. Le vecchie culture politiche appaiono esangui e abbandonate dai loro referenti sociali: sono percepite come omologate alle forme dominanti del capitalismo che ordina precarietà e incertezza. Solo il bistrattato Corbyn sprigiona simboli e sfide che alimentano qualche sogno di rottura.

La grande crisi sistemica dell’età della globalizzazione spalanca uno spazio per culture capaci di reinventare le forme di allargamento della democrazia, di partecipazione, di potere sociale.

Una nuova sinistra deve ricominciare dalla sua capacità più vecchia e perduta: la critica del potere astratto dello Stato rappresentativo e la contestazione delle alienazioni sociali connesse al dominio del capitale. È terminata la stagione della politica riformista subalterna al capitale e disponibile solo a gestire un movimento minore, determinato dai marginali spostamenti al centro, con la cattura del mitico elettore mediano soddisfatto delle promesse di consumo e di mobilità sociale.

Solo una sinistra di classe (nella analisi delle potenze del modo di produzione) e di popolo (nella proposta politica di un immaginario egemonico, aggregante e aperto alle differenze, alle culture) può sparigliare il duello fasullo tra una nuova destra che manda alla casa Bianca un capitalista e il nichilismo del denaro che invia un suo rappresentante all’Eliseo. Non ci sono altre maniere per arrestare il trionfo della post-democrazia ovunque En Marche.


Ha preso il via, dal 1° maggio scorso, la raccolta firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare della campagna "Ero straniero - L'umanità che fa bene", per cambiare le politiche sull'immigrazione in Italia.
Il suo scopo: cambiare il racconto, superare la legge Bossi-Fini e vincere la sfida dell’immigrazione, puntando su accoglienza, lavoro e inclusione .

L’iniziativa è promossa da: Radicali Italiani, Fondazione Casa della carità “Angelo Abriani”, ACLI, ARCI, ASGI, Centro Astalli, CNCA, A Buon Diritto, CILD, con il sostegno di numerosi sindaci e organizzazioni impegnate sul fronte dell’immigrazione, tra cui Caritas Italiana e Fondazione Migrantes.

Proposta di legge di iniziativa popolare “Nuove norme per la promozione del regolare soggiorno e dell'inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari”.

Sintesi delle proposte

Permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione e attività d’intermediazione tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri non comunitari

S’introduce il permesso di soggiorno temporaneo (12 mesi) da rilasciare a lavoratori stranieri per facilitare l’incontro con i datori di lavoro italiani e per consentire a coloro che sono stati selezionati, anche attraverso intermediari sulla base delle richieste di figure professionali, di svolgere i colloqui di lavoro. L’attività d’intermediazione tra la domanda di lavoro delle imprese italiane e l’offerta da parte di lavoratori stranieri può essere esercitata da tutti i soggetti pubblici e privati già indicati nella legge Biagi e nel Jobs Act (centri per l’impiego, agenzie private per il lavoro, enti bilaterali, università, ecc.), ai quali sono aggiunti i fondi interprofessionali, le camere di commercio e le Onlus, oltre alle rappresentanze diplomatiche e consolari all’estero.

Reintroduzione del sistema dello sponsor (sistema a chiamata diretta)

Si reintroduce il sistema dello sponsor, originariamente previsto dalla legge Turco Napolitano, anche da parte di singoli privati per l'inserimento nel mercato del lavoro del cittadino straniero con la garanzia di risorse finanziarie adeguate e disponibilità di un alloggio per il periodo di permanenza sul territorio nazionale, agevolando in primo luogo quanti abbiano già avuto precedenti esperienze lavorative in Italia o abbiano frequentato corsi di lingua italiana o di formazione professionale.

Regolarizzazione su base individuale degli stranieri “radicati”

Si prevede la regolarizzazione su base individuale degli stranieri che si trovino in situazione di soggiorno irregolare allorché sia dimostrabile l’esistenza in Italia di un'attività lavorativa (trasformabile in attività regolare o denunciabile in caso di sfruttamento lavorativo) o di comprovati legami familiari o l’assenza di legami concreti con il paese di origine, sul modello della Spagna e della Germania. Tale permesso di soggiorno per comprovata integrazione dovrebbe essere rinnovabile anche in caso di perdita del posto di lavoro alle condizioni già previste per il “permesso attesa occupazione” e nel caso in cui lo straniero, in mancanza di un contratto di lavoro, dimostri di essersi registrato come disoccupato, aver reso la dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l'impiego. Si prevede inoltre la possibilità di trasformare il permesso di soggiorno per richiesta asilo in permesso di soggiorno per comprovata integrazione anche nel caso del richiedente asilo diniegato in via definitiva che abbia svolto un percorso fruttuoso di formazione e di integrazione.

Nuovi standard per riconoscere le qualifiche professionali

Il riconoscimento delle qualifiche professionali deve avvenire non solo su base del titolo acquisito all’estero, ma anche attraverso procedure di accertamento standardizzate che permettano la verifica delle abilità e delle competenze individuali acquisite mediante precedenti esperienze professionali.

Misure per l'inclusione attraverso il lavoro dei richiedenti asilo

Si prevede di ampliare il sistema Sprar puntando su un'accoglienza diffusa capillarmente nel territorio con piccoli numeri, rafforzando il legame territorio/accoglienza/inclusione attraverso tre azioni essenziali: apprendimento della lingua, formazione professionale, accesso al lavoro. Si introducono misure per aumentare, a beneficio di tutti, l'efficacia dei centri per l'impiego, da finanziare con i fondi europei Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione), a partire dall'aumento del numero degli addetti e la creazione di sportelli con operatori e mediatori specializzati nei servizi rivolti a richiedenti asilo e rifugiati.

Godimento dei diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati

Ai lavoratori extracomunitari che decidono di rimpatriare definitivamente – a prescindere da accordi di reciprocità tra l’Italia e il paese di origine - va garantito il diritto a conservare tutti i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati in modo che possa goderne, al verificarsi della maturazione dei requisiti previsti dalla normativa vigente, anche in deroga al requisito dell’anzianità contributiva minima di vent’anni.

Uguaglianza nelle prestazioni di sicurezza sociale

Vengono eliminate tutte le disposizioni che richiedono, per l’accesso a molte prestazioni di sicurezza sociale (assegno di natalità, indennità di maternità di base, sostegno all’inclusione attiva ecc.), il requisito del permesso di lungo periodo, tornando al sistema originario previsto dall’art. 41 del T.U. immigrazione che prevedeva la parità di trattamento nelle prestazioni per tutti gli stranieri titolari di un permesso di almeno un anno.

Garanzie per un reale diritto alla salute dei cittadini stranieri

Sono previsti interventi legislativi a livello nazionale affinché tutte le Regioni diano completa e uniforme attuazione a quanto previsto dalla normativa vigente in materia di accesso alle cure per gli stranieri non iscrivibili al Sistema sanitario nazionale (SSN). In particolare si chiede: piena equiparazione dei diritti assistenziali degli stranieri comunitari a quelli degli extracomunitari, coerentemente con i LEA, e inclusa la possibilità di iscrizione al medico di medicina generale, onde garantire la continuità delle cure, e il riconoscimento ai minori, figli di cittadini stranieri, indipendentemente dallo stato giuridico, degli stessi diritti sanitari dei minori italiani.

Effettiva partecipazione alla vita democratica

Si prevede l’elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative a favore degli stranieri titolari del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo.

Abolizione del reato di clandestinità

Si abolisce il reato di clandestinità, abrogando l’articolo 10-bis del decreto legislativo 26 luglio 1998, n. 286.

Se chi governa sapesse governare e decidesse che salvare vite umane viene prima delle competenze allora la burocrazia sarebbe uno strumento di salvezza, e non uno strumento di morte.

la Repubblica, 9 maggio 2017

«PER favore, stiamo morendo. Per favore, 300 persone, stiamo morendo ». Il lucido terrore, la voce incredula e supplicante di Mohanad Jammo, medico siriano in fuga dalle bombe con la moglie e i tre figlioletti, è un pugno allo stomaco che stordisce in giorni in cui la legittimità della presenza delle navi delle Ong a ridosso delle acque libiche e il loro operato sono fortemente messi in discussione. Le registrazioni audio pubblicate sul sito dell’Espresso delle conversazioni telefoniche dell’11 ottobre 2013 tra la sala operativa di Roma della Guardia costiera e un grosso barcone in balia delle onde nel Canale di Sicilia dopo essere stato mitragliato da una motovedetta libica raccontano il drammatico e dimenticato retroscena (su cui nessuna Procura ha mai indagato a fondo) di uno dei più grossi naufragi della storia. Appena otto giorni dopo quello davanti alle coste diLampedusa, a rovesciarsi in un tratto di mare tra l’isola e Malta, fu un grosso barcone di legno su cui viaggiavano 480 profughi siriani, quasi tutte famiglie. Annegarono in 268, tra cui 60 bambini mentre, vergognosamente, Italia e Malta si rimpallavano la “competenza” sul soccorso e la nave Lybra della Marina militare rimaneva ferma per più di cinque ore in attesa di ordini per poi arrivare sul luogo del naufragio quando era ormai troppo tardi.

L’audio delle conversazioni tra il dottor Jammo, a bordo del barcone che stava già imbarcando acqua, e gli operatori che rispondevano alle chiamate di soccorso alla sala operativa di Roma è sconcertante. Un’ora e un quarto dopo aver ricevuto la prima richiesta di soccorso, con le coordinate navali precise e il numero elevatissimo di bambini, donne e uomini in gravissimo rischio di vita, a Roma continuano a suggerire ai migranti di chiamare Malta. «Signore, ti ho dato il numero dell’autorità di Malta. Siete vicino Malta. Vai, vai, chiama Malta direttamente, loro sono lì».
A nulla serve il grido disperato che arriva dal barcone dove l’acqua è ormai alta più di mezzo metro sul fondo e ha invaso la stiva. «Per favore, ho chiamato Malta. Ci hanno detto che siamo vicini a Lampedusa più che a Malta». E poi, scandendo le parole: «Stiamo morendo, per favore, stiamo morendo, 300 persone, stiamo morendo».
Niente da fare. Da Roma, con molta flemma, sanno solo rispondere: «Hai chiamato Malta? Devi chiamare Malta, signore, Stai parlando con Italia». «Sì, sì, Italia. Lampedusa è in Italia — insiste disperato il medico siriano che è ormai agli sgoccioli con il telefono dopo due ore di chiamate — Non abbandonateci, il credito è finito. Siamo senza credito. Se tagliano la linea, per favore, hai il mio numero ora, chiamami tu».
Ma da Roma l’unica chiamata che parte ben tre ore dopo è verso la sala operativa di Malta per una burocratica contesa sulla competenza di quel soccorso. I maltesi fanno notare che la nave più vicina è una della Marina militare italiana, ma nulla si muove fino alle 17.07 quando è Malta a chiamare per dare notizia dell’avvenuto naufragio.
«Il nostro aereo ha visto il barcone rovesciarsi, la gente è in acqua, è urgente, il barcone è affondato ». «Ma è lo stesso barcone? », chiedono da Roma. Sì, lo stesso che per quattro ore e mezza ha invocato aiuto invano. Solo a quel punto intervengono Italia e Malta, i superstiti vengono recuperati e divisi tra i due paesi. A Porto Empedocle sbarcano cinque bimbi piccolissimi soli che, un mese dopo, solo grazie a Repubblica sono stati ricongiunti ai genitori, finiti a Malta, che li credevano ormai morti.

il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2017 (p.d.)

Fazal Amin ha 22 anni ed è arrivato dall’Afghanistan. “Da quanto tempo sei qui?”, gli chiedo. “Non molto”, dice. “Un anno”. Ha provato a entrare in Croazia 35 volte. E 7 volte in Ungheria.
Circa 5 mila profughi sono bloccati in Serbia ormai da mesi. Dal 18 marzo 2016, per l’esattezza. Da quando l’Unione Europea ha deciso di rispedire in Turchia chiunque entri illegalmente in Grecia, chiudendo così la cosiddetta via dei Balcani. Ma la frontiera è vicina, è a un paio d’ore da Belgrado: e quindi molti, di notte, provano ad attraversare. Per poi, all’alba, essere di nuovo qui. Ciondolano tutto il giorno nella zona della stazione. Tra un centro dell’Unhcr in cui possono connettersi a Internet, e di fronte, un ambulatorio di Medici Senza Frontiere. Che non è neppure un ambulatorio, in realtà, perché sono tutti ragazzi, tutti in salute: hanno bisogno solo di una doccia. “E dopo un anno, nessuno ci ha ancora pensato”, dice uno dei medici.
Nel 2016, la missione Frontex per il controllo dei confini è costata 254 milioni di euro. L’Ue ha previsto poliziotti, lacrimogeni, fili spinati, sensori a infrarosso: ma non sacchi a pelo. Molti, dopo un anno, dormono ancora per terra. Di giorno, girano per Belgrado come tutti gli altri ragazzi. Con lo zaino e le Nike. Non fosse per la pelle più scura, sembrerebbero studenti. E invece, non possiedono che quello zaino. E si capisce subito quanto sia dura: hanno tutti dei capelli bianchi. A meno di 30 anni.
La Belgrado dei turisti è a pochi passi da qui. E anche quella degli artisti: per molti, Belgrado sarà presto la nuova Berlino. Quest’area, alla confluenza tra il Danubio e la Sava, è uno sconfinato cantiere da 3,5 miliardi di euro: il nuovo lungofiume, tutto acciaio e vetro. Ma per ora, di là dalla strada che finisce alla cattedrale, è ancora la Seconda guerra mondiale: circa mille profughi sono accampati nei vecchi magazzini delle ferrovie, degli edifici lunghi, rettangolari. Senza luce. Tutti mattoni e amianto.
L’interno è così poco interno, con i soffitti squarciati, gli infissi senza vetri, che si sta intorno al fuoco. Un fuoco di pneumatici e bottiglie di plastica: non c’è legna. Solo aria di diossina. E per terra, spazzatura, coperte, e cataste di ragazzi. Hanno in tutto 15 bagni chimici e due docce. E 4 lavandini. Quest’inverno, solo l’intervento di Medici Senza Frontiere ha evitato morti assiderati, facendo salire la temperatura da -16 gradi a -1. Si accede dal retro della stazione. Molti pendolari parcheggiano l’auto proprio qui, davanti al primo dei magazzini. Guardano distratti un ragazzino scalzo nel fango.
“I profughi sono solo in transito, non vogliono fermarsi in Serbia. E quindi non c’è ostilità”, dice Andrea Contenta, di Medici Senza Frontiere. “Ma non è solo questo. I profughi, per esempio, sono liberi di girare in pieno centro: non credo che a Parigi, a Roma sarebbe così”, dice. Oltre ai mille intorno alla stazione, mille sono nel campo di Krnjaca, di là dal Danubio, e altri mille in quello di Obrenovac, fuori città.
Due campi di prefabbricati in cui non manca niente. Eppure la Serbia, con il suo reddito pro capite di 4.716 euro, è uno dei Paesi più poveri d’Europa. Un paese da cui si parte. Nel 2015, l’anno dell’esodo, il 40 percento delle richieste di asilo in Germania è arrivata da qui. Non dalla Siria. Da Serbia e Kosovo.
“Quello che tutti temono, in realtà, è essere rispediti in Bulgaria. Perché sono tutti dublinanti”, spiega Andrea Contenta. Sono tutti profughi, cioè, a cui la polizia ha registrato le impronte in Bulgaria: è dalla Bulgaria che sono entrati in Europa, e quindi, secondo il regolamento di Dublino, è in Bulgaria che sono tenuti a presentare domanda di asilo. E ad aspettare il responso. “Ma in Bulgaria vengono rinchiusi in veri e propri centri di detenzione”, dice. “Mentre alla frontiera con Ungheria e Croazia, intanto, vengono respinti con manganelli, gas e cani. Alla fine, sono trattati meglio qui che in quell’Europa che sognano”.
Per i profughi la Serbia è il crocevia ideale, perché confina con quattro Paesi dell’Unione Europea: la Bulgaria, l’Ungheria, la Croazia, e anche la Romania. Ma oltre alla geografia, in realtà, conta la politica. I profughi sono concentrati sostanzialmente in tre Stati in cui, per motivi diversi, hanno potuto diventare merce di scambio.
Il primo è la Turchia: si è impegnata a tenersi i profughi in cambio di 3 miliardi di euro e l’accesso allo spazio Schengen per i propri cittadini. Il secondo è la Grecia. Che in questo momento, ovviamente, è costretta ad accettare qualsiasi decisione di Bruxelles. Dal 2015, ha ricevuto 780 dollari a profugo, aumentati a 14.088 dopo la chiusura della via dei Balcani: secondo un’inchiesta del Guardian, 70 dollari su 100 sono svaniti. E infine, appunto, la Serbia. Che dal 2014 sta negoziando l’adesione all’Unione Europea: la promessa su cui Aleksander Vucic, riconfermato presidente il 2 aprile, ha costruito tutto il suo consenso. “Ma la democrazia, qui, non è ancora solida.
Per niente. Si registrano attacchi sempre più frequenti alla società civile, alla stampa. Alla magistratura”, spiega Srdjan Cvijic, analista della Open Society. “Ospitando i profughi, Vucic si assicura il sostegno di Bruxelles. Che è pronta ora a sorvolare su tutto il resto. Su un avvicinamento all’Europa che è un avvicinamento solo al suo mercato”, dice. “Non ai suoi valori”.
L’Unione Europea ha delle norme sull’immigrazione, ma non ha una politica dell’immigrazione. Non ha delle norme coerenti. Uguali per tutti. E anche qui a Belgrado, in realtà, tutto è tranquillo, sì: ma il merito, più che dell’Ue, è degli europei. Dei volontari europei. Mentre tanti partono per il califfato, tanti partono per Calais. Per Kos. Per Lampedusa.
Qui alla stazione sono una sessantina, e sono in larga parte di quel genere di ventenni che i governi detestano: piercing, capelli rasta. L’aria da centro sociale. Domandi se studiano, se lavorano, e ti rispondono che per ora sono in viaggio, a cercare il senso della vita. D’istinto, diresti che non sono capaci di badare neppure a se stessi: e invece, sotto la guida di Paul Linger, il solo veterano, cucinano, spazzano, montano generatori. Recuperano legna e vestiti. Risolvono problemi pratici e burocratici di ogni tipo. “Ma soprattutto, parlano con i ragazzi”, dice Paul. Chiacchierano, giocano. Suonano. “Un luogo così, con mille giovani uomini affamati, esausti e sfiduciati, in mezzo a una strada da mesi, potrebbe essere una polveriera. E invece, è diventato un gruppo di amici”.
Tutto è organizzato autonomamente, qui. Con donazioni private. E perfettamente. “Con le mille procedure, i mille formalismi delle Ong, o delle agenzie dell’Onu, tutto questo non sarebbe mai possibile. Abbiamo un’unica regola: ognuno fa quello che può”, dice Paul. “Anzi, due regole ”, dice. “Perché per stare qui, ognuno paga di tasca sua”. E non dice altro, ma non solo perché è molto impegnato. “Tanto ormai sui profughi è già stato detto tutto: è solo questione di volontà politica”, taglia corto. Ho tempo solo di domandargli perché è qui. Mi guarda come se dovessi domandare piuttosto a tutti gli altri perché non sono qui, poi mi dice: Perché questi profughi sono in Europa. E io sono europeo.
Anche se tecnicamente, non lo è: è inglese. In realtà, però, non è affatto facile. Leonor viene dal Portogallo, ed è un’assistente sociale. “Ma in Portogallo mi occupo di barboni e tossici. Mentre qui ho davanti dei ragazzi identici a me. Come posso aiutarli davvero?” dice. “Sono normalissimi. Sono solo nati nel posto sbagliato”. “Possiamo solo cucinargli una zuppa. Trovargli una felpa. E per questo, siamo degli eroi”, dice Mateo, spagnolo. “Ma il loro problema non è certo questo”.
“Quest’inverno, quando erano nella neve fino al collo, sono arrivati centinaia di fotografi. Ma ora non interessano più a nessuno. Perché ormai abbiamo visto di tutto. E qui, in fondo, è passabile, no?”, dice l’italiano Roberto. “Ascolti le loro storie, e ti viene da chiedergli: sei stato torturato? Ti hanno stuprato davanti a tua madre? Sei stato ucciso? No? E allora, perché sei andato via? Anche se io per primo - conclude - vivo a Londra. Io per primo sono un migrante economico”.

Brecht diceva:«il ventre che generò il nazismo è sempre fecondo». Si riferiva al capitalismo dei suoi tempi; quello rappresentato da Macron non è certo migliore. Micromega online, 7 maggio 2017


L’orrore è stato evitato, il candidato fascista non salirà i gradini dell’Eliseo. Un grande sospiro di sollievo dunque, ma da entusiasmarsi c’è poco. Se nel cuore storico della democrazia europea, la Francia di “liberté, égalité, fraternité” che deve la legittimità delle sue istituzioni ai sanculotti del 1789 e ai resistenti del maquis e del governo in esilio contro il tradimento di Vichy, il candidato di un partito intasato di negazionisti in nostalgia di Petain e di cattolici vandeani, prende un terzo dei consensi, sarebbe più serio mantenere un certo timore, oltre che qualche oncia di vergogna. E capire come sia stato possibile arrivare a tanto, andando alle radici per poter reagire. Prima che sia troppo tardi.

Perché è già molto tardi. Lo dice la noncuranza di massa (e anche di élite) che ha minimizzato o negato, in realtà rimosso, il carattere fascista del partito Fn, nella continuità tra Le Pen padre, figlia e nipotina Marion. E che ancor più lo farà, ora che “Marine la Patriota” cercherà di accreditarsi tale addirittura “rifondando” con nuovo nome e nuovi apporti il Fn.

Noncuranza che si lascia imbambolare da qualche frase ad effetto, belletto e botulino ideologici, e sarebbe il meno, ma che si radica soprattutto per affatturazione della sirena sociale e collasso dello spessore storico, massime nella generazioni più giovani. Circolano massicciamente posizioni del tipo “il nazi-fascismo - salvo frange minoritarie di nostalgiche macchiette - è un fenomeno del secolo scorso”, oggi esistono solo “destre sociali”, “il revisionismo storico è una posizione culturale, all’operaio che vede ridursi i suoi diritti non importa niente di cosa Le Pen pensi di Giulio Cesare”.

Destra sociale? I fascismi si sono sempre dichiarati sociali, dalla parte dei lavoratori e dei disoccupati. Hitler aveva chiamato il suo partito “nazional-socialista” (nazismo è la contrazione). Abbindolate le masse, hanno sistematicamente e regolarmente distrutto ogni organizzazione di lavoratori, intrecciato valzer e amorosi sensi con i più biechi poteri finanziari e industriali, distrutto ogni possibilità legale di lotta per i non privilegiati.

È evidente e sacrosanto che prima viene la pancia piena e poi la morale (citazioni di Brecht a bizzeffe, volendo), e che anzi il grande capitale e la grande finanza, quando messi alle strette, tra un’avanzata democratica di oppressi ed emarginati e la soluzione fascista hanno troppo spesso preferito quest’ultima. E allora? E’ un buon motivo per fare harakiri e immaginare che il DNA della Resistenza antifascista non sia più necessario? La pancia vuota che si lascia affatturare da un fascista resterà vuota, e non potrà neppure lottare, se non a rischio di carcere tortura e vita.

Ma ogni generazione sente il prepotente bisogno di ripetere gli errori delle generazioni precedenti. Anche Mussolini, e Hitler, e i loro scherani, a molte personalità e persone comuni dell’epoca apparivano delle “macchiette”: in pochi anni hanno ridotto l’Europa in macerie e fame.

Oggi queste consapevolezza storica minima si è perduta, e il sonno della memoria, come quello della ragione, produce mostri. Purtroppo, in Francia, come in Italia, come in Europa tutta, si sconta un peccato originale, non aver dato vita nel dopoguerra alla necessaria epurazione antifascista in tutti gli apparati dello Stato (ma anche nel giornalismo e nella cultura). Non aver realizzato quella damnatio memoriae tassativamente ineludibile, che non garantisce contro ritorni di fascismo (la pulsione di servitù volontaria possiede circuiti neuronal-ormonali più antichi e radicati di quelli illuministico-democratici, ahimè), ma ne riduce le probabilità per il possibile.

Invece, nei decenni, con lenta ma infine inesorabile crescita, si è tollerato che partiti e movimenti fascisti si ricostruissero, si legittimassero per partecipazione elettorale, divenissero per mitridatizzazione parte del panorama ordinario del nostro habitat politico e sociale.

È stata questa l’altra faccia di una politica di establishment che per guerra fredda prima e liberismo selvaggio poi ha impedito che venissero realizzate nelle leggi e nella pratica di governo le solenni promesse contenute nelle Costituzioni nate dalla vittoria contro i fascismi.

In Italia fu chiaro da quasi subito, purtroppo. Il 2 giugno 1951 Piero Calamandrei, che della Costituente era stato uno dei massimi protagonisti, già doveva stigmatizzare che mentre nella Costituzione “è scritta a chiare lettere la condanna dell’ordinamento sociale in cui viviamo”, la politica del governo andava in direzione opposta, e il vero nome della festa della Repubblica era perciò “La festa dell’Incompiuta”.

E rivolgendosi ai giovani nel 1955, a Milano, ribadiva: “La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma solo in parte. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”. In Italia, come in Francia, come in Europa, siamo più che mai a questo, e la convinzione ormai dilagante che i fascismi siano lontani dal nostro orizzonte possibile quanto Giulio Cesare, fornisce ai reazionari e conservatori un’ulteriore arma di narcolessia di massa.

Macron non è la soluzione, a meno che da Presidente non diventi un Macron inedito, perché la finanza (e più in generale la politica economica) liberista è il motore della crisi sociale e della deriva politica che, per hybris di diseguaglianze, infesta e mina le democrazie. Rispetto ai lepenismi (in Europa si sono ormai moltiplicati sotto le più diverse e accattivanti fogge, ma sempre humus fascista veicolano), la vittoria di Macron potrebbe confermarsi solo il laccio emostatico che tampona l’emorragia in attesa dell’intervento chirurgico. Ora si tratta di realizzarne gli strumenti, quella sinistra illuminista egualitaria e libertaria oggi purtroppo introvabile in forma politica organizzata, ma diffusa in forma sommersa o carsica nelle società civili di molti paesi d’Europa.

«Invece di accapigliarsi su Zuccaro - ha fatto bene, ha fatto male? - e in considerazione del fatto che fare la guerra ai migranti è una brutta cosa, non sarebbe meglio organizzare seriamente l’accoglienza?». Domanda ineccepibile. Ahimè, hanno già risposto.

il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2017

La Storia se ne infischia della Giustizia: quello che deve accadere accade, che il Diritto lo consideri giusto oppure no. La Politica dovrebbe governare la Storia, un po’ come il pilota che conduce una nave in acque tempestose; se il pilota è incapace la nave naufraga. Che è proprio quello che sta avvenendo per quanto riguarda l’immigrazione in Europa attraverso il Mediterraneo.

Fame e Guerra sono i motori dell’immigrazione: si migra in cerca di salvezza; quindi si è disposti a tutto. Non ha senso aspettarsi collaborazione da parte dei migranti, sono i Paesi di destinazione che devono gestire un fenomeno storico come questo. Non importa come, si può stabilire che i migranti sono invasori da combattere o esseri umani da accogliere; ma, nell’uno o nell’altro caso, si devono adottare misure concrete, idonee a raggiungere l’obbiettivo stabilito: un esercito in armi alle frontiere o un’efficiente organizzazione di accoglienza.

Quello che non ha senso è dire ai migranti che migrare è vietato e che, se tuttavia migrano, saranno aiutati se si troveranno in difficoltà. Ancora più insensato è ricorrere ai Tribunali: quelli che migrano non commettono un reato ma quelli che li aiutano sì: saranno puniti. Così i trasportatori ammucchiano sulle barche i trasportati (previo adeguato compenso), li portano al largo e aspettano che qualcuno li raccolga. C’è il rischio che la barca affondi prima che arrivino i soccorsi ma sono gli incerti del mestiere del migrante.

In questo sistema demenziale (analogo a quello che regola la prostituzione: prostituirsi non è reato però per quelli che la organizzano sì, così le strade sono piene di poverette e gli organizzatori contano i soldi), arriva la denuncia di Carmelo Zuccaro, Procuratore della Repubblica di Catania: le Ong vanno a raccogliere i migranti, c’è il sospetto di accordi organizzativi tra trasportatori e salvatori; e poiché i soldi non hanno odore, anche di accordi economici; voi li imbarcate, noi li “salviamo” e li portiamo a destinazione, i soldi ce li dividiamo.

Prima di Zuccaro l’aveva detto, 4 mesi fa, Frontex. Ma non c’è bisogno di grande acume investigativo per capire che, in un sistema velleitario e vigliacco come quello adottato dall’Italia, l’opportunità di lucrare sulla migrazione è stata raccolta da molti.

L’Italia non vuole i migranti; quindi di organizzare accoglienze efficienti (una per tutte: sussidi e alloggi in cambio di lavori di pubblica utilità) non se ne parla; però sparargli quando arrivano non sta bene; e anche affondarli in mare non si può. Quindi non si fa nulla: i migranti sono deportati in campi di concentramento gestiti da privati (che ci guadagnano); sono salvati in mare da privati (anche) che forse (e sarebbe appena ovvio) ci guadagnano; quando li si acchiappa, si perseguitano i trasportatori che – in realtà – svolgono un servizio di pubblica utilità (remunerato com’è giusto che sia): i migranti sono in pericolo di vita, scappano da guerra e fame, vogliono essere trasportati al di là del mare.

Giuridicamente (per quello che vale in una tragedia come questa) la differenza tra lecito e illecito sta nello scopo e nel momento in cui i migranti vengono raccolti in mare. Se sono trovati a metà strada o giù di lì si tratta di salvataggio, se me li vado a cercare a una decina di chilometri dalla costa di partenza, si tratta di trasporto: se lo si fa per scopi umanitari si commette il reato di favoreggiamento della immigrazione clandestina semplice (reclusione fino a 3 anni, quindi niente: affidamento in prova ai servizi sociali etc); se lo si fa a scopo di lucro, favoreggiamento aggravato (da 4 a 12 anni: in realtà da niente a 4/5 anni). Se ci si associa per commettere più reati di questo tipo, si tratta di associazione a delinquere, una cosa più seria. Che anche qualche Ong voglia una fetta della torta non sarebbe per nulla strano: con tutti i soldi che ci sono in ballo, l’efficacia intimidatoria di queste norme è pari a zero.

Invece di accapigliarsi su Zuccaro – ha fatto bene, ha fatto male? – e in considerazione del fatto che fare la guerra ai migranti è una brutta cosa, non sarebbe meglio organizzare seriamente l’accoglienza?

A volte ci vengono in mente idee che ci sembrano tanto ovvie da non meritare d’essere dette, né tantomeno scritte e addirittura pubblicate. Poi ci accorgiamo che saranno pure ovvie secondo il nostro giudizio, ma sono talmente controcorrente che i casi sono due: o siamo fuori di testa noi, oppure lo sono tantissimi altri. Ecco due esempi, due eventi, che in questi giorni sono all’attenzione dei media: le ONG complici degli scafisti, l’ampliamento della legittima difesa.

1. Le ONG e gli scafisti.

Noi la vediamo così. Milioni di persone (uomini, donne, bambini, vecchi e giovani, soli o in famiglie o in gruppi di vicini) fuggono da carestie, miseria, oppressioni, catastrofi: tutte condizioni che i paesi del Primo mondo hanno contribuito a provocare, come è dimostrato da rapporti e documenti noti a chiunque voglia sapere. Questo fiume di persone, chiamiamoli “fuggitivi”, appartengono alla stessa razza cui apparteniamo Albert Einstein e tutti noi. Essi sono respinti alle frontiere dei paesi ove sono diretti: là dove c’è un maggior benessere (in gran parte pagato dal loro malessere). Trovano sul loro cammino barriere d’ogni tipo: muri, fili spinati, arnesi ancora più ingegnosi e devastanti, truppe armate, e via enumerando.

Ma i fuggitivi incontrano anche alcune persone, mosse non dalla carità ma dalla voglia di guadagnare (come del resto le nostre riverite banche), che si offrono di trasportare i fuggitivi, in carovane guidate dove è possibile, su camion sovraccarichi nei deserti, con scafi più o meno malandati quando si tratta di attraversare barriere d’acqua, come il nostro Mediterraneo. Chiamiamoli “trafficanti” in termini dispregiativi.

Dall’altro lato delle barriere c’è qualche gruppo di persone (chiamiamoli “volenterosi”) che, a differenza dei loro governi e dei loro giornalisti mainstream, si rendono conto che quei miserabili, parte della loro stessa razza sebbene spesso di diverso colore, hanno il pieno diritto di fuggire e di approdare su terre meno infernali di quelle da cui fuggono. Questi volenterosi, raccolti in organizzazioni non governative (poiché i governi sono impegnati a costruire barriere e recinti), raccolgono fondi, offrono gratis il loro lavoro e partono per incontrare i fuggitivi e portarli in salvo.

Dove possono raccoglierli? È evidente, lì dove i primi traghettatori, gli ignobili (come le banche) “trafficanti”, li hanno lasciati: in mare. Ma le persone non sono di sughero, quindi non galleggiano. Non sarebbe allora del tutto normale che i volenterosi si accordassero con i trafficanti per scambiarsi non la “merce”, ma i “beni “costituiti dai membri di quella umanità fuggiasca?

Non sappiamo se, nella realtà, i volenterosi delle Ong lo facciano oppure no. Ma ci sembrerebbe del tutto naturale che lo facessero. E se la legge non lo consente, allora pensiamo che andrebbe cambiata la legge, non la realtà. O meglio ancora, che andrebbero realizzati, da parte degli stati, corridoi protetti e attrezzati per consentire ai fuggitivi di raggiungere i loro obiettivi. Sono anni che alcuni saggi lo propongono, testardamente inascoltati.

2. Pena di morte e legittima difesa.

In molti paesi la pena di morte per delitti gravi è ancor oggi consentita. Eccone alcuni: USA, Grenada, Bielorussia, Cina, Giappone, Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Egitto, Arabia Saudita, India, Indonesia. In tutto sono una cinquantina. Tra essi nessun paese europeo, salvo la Bielorussia. In alcuni paesi dell’Europa (come l’Italia, la Germania, la Francia) era consentita fino agli ultimi decenni del secolo scorso, ma sempre soltanto per reati gravi e dopo regolare processo. Non ci risulta che in nessun paese d’Europa, e in quasi nessuna delle altre regioni del mondo, sia ammessa la pena di morte per i ladri, o presunti tali.

In Italia sì. Governo e parlamento stanno cincischiando e battibeccando sul “come” (non sul “se”) introdurre nei nostri codici una norma che consenta a chiunque di “difendersi” con le armi contro chiunque si introduca nella sua abitazione con atteggiamento minaccioso verso le persone o “le cose”.

A noi sembra che una decisione in questo senso altro non sia che decretare che è consentito a privati cittadini di esercitare la pena di morte senza un regolare processo, senza una causa grave, e senza subire alcuna punizione. Non sappiamo a quale età barbarica si debba risalire per trovare qualcosa di simile, e non ci sembra che la discussione che si sta svolgendo tra deputati e senatori abbia turbato l’opinione pubblica quanto il fatto richiederebbe. Tutti d’accordo gli italiani?

Forse l’impiego quotidiano della violenza delle “autorità”, nazionali e locali, nelle strade e nelle piazze (contro i migranti, contro i poveri, contro chi celebra riti diversi dai nostri, contro gli straccioni, contro i diversi), forse la dilagante ossessione per la “sicurezza” e la “decenza”, forse l’abitudine alla repressione preventiva di qualsiasi dissenso che non sia stato previamente “autorizzato” dalla questura ha talmente assuefatto i nostri connazionali che nessuno si rende conto dell’orrore di questa forma di “legittima difesa”. Oppure, ancora una volta, siamo noi fuori di testa, perché ci sembra stravagante ciò che per tutti è ovvio.

Venezia, 7 maggio 2017

Riferimenti
Sulle caratteristiche, le ragioni e le responsabilità della questione "migranti" invitiamo a leggere, su eddyburg, almeno i seguenti documenti: Eddytoriale n. 169, l'articolo di Ilaria Boniburini I dannati della terra, gli articoli di Guido Viale Perchè i migranti sono la soluzione e Il secolo dei rifugiati ambientali , Barbara Spinelli Il secolo deirifugiati ambientali?. Un'intera cartella abbiamo dedicato al tema Accoglienza Italia

«Herrou è diventato il simbolo dei cittadini che in tutta Europa si sono mobilitati per aiutare i migranti, ma che in molti casi sono incorsi in veri e propri processi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». Internazionale online 6 maggio 2017 (c.m.c.)

Cédric Herrou ha 37 anni, è un contadino francese, coltiva ulivi nella val Roia, al confine tra Italia e Francia, dove negli ultimi anni sono passati migliaia di migranti. Il 10 febbraio un tribunale di Nizza ha condannato Herrou a pagare una multa di tremila euro con la condizionale per aver aiutato alcuni profughi ad attraversare il confine. Lo ha invece assolto dalle altre accuse: quella di aver occupato insieme a una cinquantina di eritrei una struttura dismessa delle ferrovie dello stato francesi e di aver favorito il movimento e la residenza di migranti irregolari in Francia.

Era accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver aiutato duecento migranti ad attraversare la frontiera e per aver dato da mangiare e da bere a 57 di loro. Rischiava fino a cinque anni di prigione e trentamila euro di multa per aver aiutato queste persone che non avevano regolari documenti “a entrare e a spostarsi” nel paese.
Negli ultimi mesi Herrou è diventato il simbolo dei cittadini che in tutta Europa si sono mobilitati per aiutare i migranti, ma che in molti casi sono incorsi in veri e propri processi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Il 4 maggio a Roma l’agricoltore francese ha incontrato i volontari e i migranti della Baobab experience che hanno da poco affrontato l’ennesimo sgombero da parte delle forze dell’ordine.

Herrou ha raccontato che, nonostante i processi, i movimenti di base che aiutano i migranti tra Italia e Francia si sono rafforzati e ora rappresentano un vero e proprio argine alle violazioni del diritto d’asilo che sono sistematiche alla frontiera tra i due paesi. Herrou interverrà al festival Pensare migrante il 5-6-7 maggio alla Città dell’Altraeconomia di Roma.

«L’esclusione delle popolazioni interessate dai processi decisionali è una costante di tutte le grandi opere e svela l’involuzione neocoloniale delle democrazie».

il manifesto, 7 maggio 2017 (c.m.c.)

Nonostante la pioggia battente un fiume di persone ha percorso, ancora una volta, le strade della Val Susa per dire No al Tav e alle altre grandi opere che devastano il paese. Un fiume colorato, vivace e combattivo, di oltre quindicimila persone provenienti da ogni parte d’Italia e non solo. Davanti a tutti le mamme della Terra dei fuochi e una rappresentanza di terremotati di Amatrice. E uno slogan scritto su cento striscioni e ritmato lungo tutto il corteo: «Contro la Torino-Lione c’eravamo, ci siamo e ci saremo!».
I siti dei grandi giornali – almeno mentre scrivo – ignorano un evento di cui avevano anticipato il probabile insuccesso, evocando divisioni e disaffezione e amplificando le polemiche della destra e del Pd per la partecipazione del vicesindaco di Torino. Invece è stato, ancora una volta, un esempio di democrazia. Da parte di un movimento che da venticinque anni tiene aperta la partita ed è più che mai determinato a vincerla con gli strumenti della politica, della parola, degli argomenti, della ragione. Ma la manifestazione dice qualcosa di più. La consapevolezza che la nuova linea ferroviaria Torino-Lione è un’opera devastante, di grande impatto ambientale, di conclamata inutilità trasportistica, insostenibile in termini di spesa e decisa in modo autoritario apre la strada a una consapevolezza ulteriore.

Quella secondo cui lo scontro in atto in Val Susa è prima di tutto una grande questione di democrazia. Perché l’esclusione delle popolazioni interessate dai processi decisionali è una costante di tutte le grandi opere e svela l’involuzione neocoloniale delle democrazie, aggravata dalla delega agli apparati (polizia, magistratura e, addirittura, esercito) della gestione delle più rilevanti questioni politiche.

Si spiega così la durata e l’ampiezza della partecipazione, che è anche una forma di resistenza contro la violazione di diritti fondamentali delle persone e delle comunità. Una violazione che non può essere legittimata da un voto di maggioranza. Perché – come ha scritto Gustavo Zagrebelsky – «nessuna votazione, in democrazia chiude definitivamente una partita. La massima: vox populi, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti».

È una lezione che dovrebbe essere meditata da quel che resta di una sinistra troppo spesso interessata alle questioni istituzionali più che alle dinamiche reali e profonde del paese.

«Il populismo, l’erosione della classe media, il declino della Ue, una politica sempre più basata sull’audience:

è la Grande Regressione Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo». ilSole24ore, 7 maggio 2017 (c.m.c.)

Sulle orme della Grande trasformazione di Karl Polanyi (1944) questa raccolta propone di chiamare il nostro tempo una Grande regressione (Feltrinelli). Pubblicato in tedesco, il volume esce in contemporanea in tutte le lingue europee. Porta i segni del senso di sconforto da cui è stato partorito il progetto di chiedere a quindici sociologi una riflessione sulle conseguenze degli attentati terroristici di Parigi nell’autunno 2015.

Nonostante la similitudine con il titolo dell’opera di Polanyi, questo libro agile e di larga lettura presenta una sua identità specifica, a tratti emotiva, tra catastrofismo e volontarismo. L’idea che lo ispira è il declino dell’occidente, «decisamente regredito, lasciandosi alle spalle una serie di standard di vita faticosamente conquistati e ritenuti ormai consolidati». Ad essere regredito è il mondo dei valori del cosmopolitismo e dell’illuminismo, e dell’apertura della mente e delle frontiere che lo caratterizzava. Una cultura nobile che ci ha guidato fino a quando il mondo era diviso in zone di influenza (la Guerra fredda) e la sovranità aveva il potere di fare scelte economiche e sociali e pattugliare le frontiere.

Sembra che i principi kantiani - i nostri principi – avessero forza morale quando non ispiravano la politica, quando c’erano le frontiere ed era possibile distinguere tra “immigrazione” e “migrazione” scrive Zygmunt Bauman. Non oggi, che gli Stati non possono far fronte alle “ondate” di disperati della terra. Il “Terzo Mondo”, nelle parole di Umberto Eco (uno degli ispiratori ideali del volume insieme a Ralf Dahrendorf e Richard Rorty) «non bussa ma entra, anche se non siamo d’accordo». Secondo Bruno Latour, il sentimento che nasce è dunque questo: «Padroni a casa propria! Indietro tutta!». Il problema è che «non esiste più una “casa propria”, per nessuno. Via di qua! Dobbiamo tutti muoverci. Perché? Per il fatto che non c’è un pianeta in grado di realizzare i sogni della globalizzazione» (p. 106).

La difficoltà sta nel fatto che non possiamo essere cosmopoliti per scelta: dobbiamo esserlo, punto. E questo è difficile per chi non è pietista come era Kant. Quando essere tolleranti diventa un lavoro, i principi illuministici scricchiolano. Lo aveva capito Rorty che trent’anni fa spiegava la difficoltà di essere tolleranti quando i diversi vivono sotto casa perché richiede un lavoro faticoso di autocontrollo. E quindi il liberale, commentava Rorty, non vede l’ora di rientrare in casa e rifugiarsi nel privato, dove può dire quel che pensa e l’arte del “trattare” e del “compromettere” non è così necessaria.

Il mondo che descrive questo volume è un luogo di fatica. E la fatica è, sembra di capire, proporzionale alla mescolanza delle razze e, soprattutto, alla loro proporzione. Ivan Krastev si serve della categoria di “minaccia normativa” di Karen Stenner per spiegare questo fenomeno: la «sensazione che l’integrità dell’ordine morale sia a rischio e che il “noi” percepito si stia disintegrando» (p. 98). Il nesso tra “noi” bianchi e il mondo meno bianco che ci circonda non è celabile. Scrive ancora Bauhman: nel 1990, la città di New York «contava fra la sua popolazione il 43%di “bianchi”, il 29% di “neri”, il 21% di “ispanici” e il 7% di “asiatici”. Vent’anni dopo, nel 2010, i “bianchi” rappresentavano solo il 33% ed erano a un passo dal diventare una minoranza» (p. 34). Dunque è lo sbilanciamento nel rapporto tra i bianchi e gli altri il problema della fatica del vivere immersi nella diversità?

La politica non è in miglior salute della società se è vero che, come scrive Wolgang Streeck, la distanza tra “gente comune” e “persone colte” sta rompendo la cittadinanza democratica. Non tutti i capitoli sono unanimi nella diagnosi e ugualmente condivisibili. Donatella della Porta ci racconta con cura i tentativi di aggiustare le istituzioni democratiche sotto la spinta della crisi del debito e dell’erosione dei diritti sociali. A partire dai budget partecipativi fino all’immaginazione istituzionale degli Islandesi, che con una sinergia di procedure e metodi (elezione, referendum, sorteggio e consultazione via web) hanno scritto una nuova costituzione (che il Parlamento ha poi bocciata ma che a giudizio della Commissione europea era ben fatta). Nella sua “lettera” ideale a Juncker, David Van Reybrouck osserva giustamente che se la democrazia dà cattiva prova di sé è a causa da un lato della scarsa volontà di “volere” l’Europa politica e dall’altro dell’abuso dello strumento referendario da parte di leader o poco saggi o arroganti.

Regressione della democrazia verso che cosa? Tutti i saggi menzionano il declino della Ue, il populismo, l’egemonia neo-liberale, l’erosione della classe media, l’istigazione delle passioni peggiori da parte di media, vecchi e nuovi, e di una politica che è sempre più una questione di “audience”. Arjun Appadurai non ha dubbi che si vada verso l’autoritarismo – che sia di Putin, Erdogan e Trump poco cambia.

Ma le istituzioni e le procedure sono irrilevanti? La Turchia e gli Stati Uniti non sono la stessa cosa ed è problematico sostenere che chi ha votato per Trump ha votato “contro la democrazia” (p. 23), la quale non vale solo quando ci piacciono le sue scelte e “vota” sempre per se stessa fino a quando può tornare a votare regolarmente. L’arte della distinzione ci dovrebbe aiutare a non mettere in uno stesso fascio democrazia, populismo e autoritarismo. Certo, ha ragione César Rendueles ad auspicare che le democrazie si occupino della cultura etica dei cittadini (un problema vecchio quanto le democrazie) ma è riduttivo ritenere che le procedure e le regole del gioco siano solo questioni formali.

E se invece di pensare all’Occidente come “uno” ne vedessimo le differenze? Di qui procede Slavoj Žižek per formulare, alla fine, la questione del “che fare?”. E da leninista di vecchia data impermeabile a catastrofismi e fatalismi, si rivolge alla ragione strategica e alla volontà: cercare di unire «i due piani: l’universalità contro il senso di appartenenza patriottico e il capitalismo contro l’anticapitalismo di sinistra» senza ripercorrere le strade battute (che sono o sconfitte o indesiderabili): «dobbiamo spostare la nostra attenzione dal Grande lupo cattivo populista al vero problema: la debolezza della posizione moderata “razionale”» (p. 230).

La soluzione “non moderata” è la seguente: dare gambe giuridiche e politiche al cosmopolitismo di Kant. Insomma, prendere sul serio Trump e portare alle conseguenze radicali il fatto che gli Stati-nazioni non funzionano più per cui l’anti-destra populista dovrebbe avere il coraggio di proporre «un progetto di nuovi e diversi accordi internazionali: accordi che impongano il controllo delle banche, accordi sugli standard ecologici, sui diritti dei lavoratori, sul servizio sanitario, sulla protezione delle minoranze sessuali ed etniche ecc.» (p. 234). Chi sia il soggetto che può far questo non ci viene detto. Tuttavia il volume sceglie di aprire con una confessione di pessimismo e di chiudere con un appello a Kant – dalla diagnosi della regressione alla cura illuminista.

«». 7 maggio 2017 (p.d.)
Di Firenze resistente ho sentito parlare per la prima volta da Edoardo Detti, assessore all'urbanistica del Comune, ispiratore del piano regolatore della città dei primi anni Sessanta. Detti era un urbanista-professore e raccontava Firenze agli studenti con parole semplici, auspicava la sua capacità di conservarsi in salute, per continuare ad essere di tutti. Poi anche per Firenze sarebbero arrivati giorni difficili, aggressioni tentate e alcune riuscite, sempre incombenti i progetti di speculazione proporzionali ai elevati valori immobiliari da quelle parti. Nel 1989 il clamoroso no di Occhetto al disegno squilibrato per costruire la nuova città nella piana di Castello, stop al patto supino, il Comune subalterno a Fondiaria & C. Del seguito parlano le inchieste e le sentenze. Si racconta anche di questa storia nel libro – a cura di Ilaria Agostini – Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltacittà 2004-2014, Aión, 2016.

Un caso esemplare che spiega il rinnovato interesse alle trasformazioni di aree di pregio del Paese da parte di potenti uomini d'affari in ottimi rapporti con la politica. Un programma per molte città italiane non percepito dai più. A lasciar fare, si sa, la vita nelle aree urbane peggiora, e ad essere penalizzati sono normalmente i più deboli. A Firenze c'è chi ha deciso di farci caso e di non lasciar fare; e di replicare nel merito ai teorici delle città funzionali alla rendita immobiliare, pure se chiamate smart-city.

Un movimento attivo pure al tempo di Matteo Renzi amministratore della Provincia e poi del Comune (2004-2014) che ostentava la discontinuità con il passato. Calcando la scena toscana con con lo stile politico ridimensionato di recente (la rottamazione se conviene, decisioni fulminee, tutto storytelling, ecc.). Criticato dai suoi oppositori fiorentini per il messaggio incubato “Firenze città delle opportunità”, meno tutele per la città dei tesori/più vantaggi per gli investitori.

Firenze, la palestra dove il sindaco si è preparato per trasferire il modello di governo locale alla scala dell'intero Paese. SbloccaItalia un primo traguardo immaginato nel corso dell'allenamento fiorentino. La legge per l'emancipazione dagli intoppi burocratici e dai tempi di valutazione dei progetti, mentre un po' dappertutto si rafforzava l'idea che ogni forma di cittadinanza fosse assoggettabile alle ambizioni di grandi costruttori, Sgr, gestori di fondi, general contractor, società di project management e via dicendo. Tutta roba che regalerà al Paese la sventola della bolla edilizia e anche di questo si parla nel libro.

Ilaria Agostini lo spiega bene, raccogliendo e richiamando opportunamente i contributi degli autori del volume. E indica la strada per reagire. Lo strumento è la mobilitazione civica sull'esempio di quella sperimentata a Firenze. Una forma di partecipazione svincolata dagli schemi convenzionali dei dibattiti pubblici guidati dalle istituzioni. Imprevista dal sindaco Renzi e raccolta attorno alla lista “perUnaltracittà” (poi laboratorio politico) a guida di Ornella De Zordo, massima l'attenzione ai temi urbanistici con il più alto grado di competenza, indispensabile per organizzare la resistenza della civitas per l'urbs. Per conservare le città che “avvolgono di poesia la vita di coloro che vi abitano” – sono parole di Simone Weil.

Un libro utile a chi è interessato alle vertenze per il diritto alla città, ma anche a chi volesse saperne di più su evoluzione e affaticamento del renzismo. È uscito circa un anno fa, quando le politiche di Renzi avevano un indice di consenso più alto; e letto allora il giudizio di “perUnaltracittà” poteva sembrare eccessivo e rubricabile tra le polemiche di provincia. Esaminato oggi, tante cose si capiscono meglio, dal particolare al generale. D'altra parte Firenze non è un dettaglio. E neppure Renzi.

Scritto per eddyburg e inviato contemporaneamente a La Nuova Sardegna.

Articoli di Liana Milella e Andrea Colombo sulla goffaggine con la quale il parlamento a guida PD vorrebbe rendere più aggressivo il far west italiano e consentire l'assassinio dei presunti ladri a casa propria.

la Repubblicail manifesto. 6 maggio 2017


la Repubblica
LEGITTIMA DIFESA, SI CAMBIA
VIA DAL TESTO LA PAROLA NOTTE
MA AL SENATO VOTO A RISCHIO
di Liana Milella

«Renzi: basta errori e avanti con la legge. Grasso: “Meno male che c’è ancora la seconda Camera”. E Salvini minaccia il referendum»
L’ordine di Renzi è perentorio: «Sulla legittima difesa il Pd deve andare avanti perché la battaglia sulla sicurezza è strategica». Senza gli «errori» commessi alla Camera nelle ultime ore, togliendo dal testo subito l’espressione «tempo di notte», ma certamente senza mettere il ddl in un cassetto di palazzo Madama per dimenticarlo poi lì com’è avvenuto per tante altre leggi sulla giustizia. Renzi sa bene che i numeri del Senato sono ballerini per la maggioranza e che sarà necessario l’apporto dei verdiniani di Ala soprattutto dopo il deciso niet alla legge dei bersaniani di Mdp, ma è deciso ad andare avanti ugualmente.

Quando, a metà mattina, proprio il presidente del Senato Piero Grasso pronuncia una battuta chiaramente ironica e allusiva alla riforma costituzionale bocciata – «Diciamo meno male che c’è il Senato, se dobbiamo intervenire su questo tema, staremo a vedere le ulteriori proposte di modifica» – Renzi veicola ai suoi un messaggio chiaro che viene riassunto così: «Sulla sicurezza il Pd si gioca la prossima partita elettorale. La legittima difesa è una questione estremamente sentita dalla gente. La legge attuale non è né sufficiente, né adeguata, quindi dobbiamo andare avanti e cambiarla. Stavolta senza fare errori, né cedere a eccessivi compromessi». Come quelli che, invece, ci sono stati con i centristi di Alfano.

A 24 ore dal voto alla Camera, tra i renziani si apre la caccia al “colpevole”, a chi, pur di trovare un accordo con Alternativa popolare che minacciava di votare contro in aula, ha cambiato all’ultimo momento il testo della legittima difesa. Eh già, fanno notare adesso i Dem, perché fino a martedì sera, la legge che doveva andare in discussione non toccava affatto l’articolo 52 del codice penale, quello di Berlusconi e Castelli del 2006, cioè la legittima difesa vera e propria, ma un altro articolo, il 59 sulle circostanze in cui matura il reato.

Ma nell’ultima riunione di maggioranza, a poche ore dal voto, il ministro della Famiglia Enrico Costa, che ancora ieri difendeva la legge – «Non va cambiata, perché è sacrosanta» – ha puntato i piedi e preteso una modifica radicale della legittima difesa e dell’articolo 52. Il ministro Anna Finocchiaro, per evitare in aula una pesante spaccatura della maggioranza, ipotizza una possibile mediazione legislativa, che a quel punto mette d’accordo Pd e Ap. Il giorno dopo l’intero gruppo Dem, pur tra i mal di pancia degli orlandiani, la ratifica.

Dopo due anni di discussione parlamentare, per la prima volta, compare l’indicazione di un’irruzione “in tempo di notte”, oggetto di ironie politiche e scetticismo tra magistrati e giuristi. Ecco, ancora ieri, la bocciatura del presidente dell’Anm Eugenio Albamonte – «un intervento inutile» – e il suo invito «a cestinare il testo e lasciare le cose come stanno».

Ma è proprio questo che Renzi non è intenzionato a fare. Non vuole affatto fermarsi. Nelle stesse ore in cui il leghista Matteo Salvini ironizza sulla marcia indietro del Pd, «che vota una legge il giovedì per poi sconfessarla il venerdì», e lancia l’idea di un referendum per cancellare quella che battezza «una legge schifezza», Renzi chiede ai suoi di correggere e adeguare il testo.

Si muove subito un suo uomo, David Ermini, ex responsabile Giustizia del Pd e relatore della legittima difesa, che fa cadere il tabù del «tempo di notte ». «Se ci devono fare una campagna elettorale contro, noi lo togliamo» dice Ermini, anche se poi lui, la presidente Pd della commissione Giustizia Donatella Ferranti, il capogruppo Pd alla Camera Ettore Rosato, accusano la stampa di aver presentato la legge in modo distorto. Quelle parole – «in tempo di notte» – non escluderebbero affatto, secondo loro, che la legittima difesa sia possibile anche in qualsiasi ora della giornata quando un’irruzione in casa o nel luogo di lavoro avviene con violenza e inganno.

Dalla prossima settimana la battaglia si sposta al Senato. Mentre M5S tempesta il Pd con hashtag ironici, dal #legittimaignoranza di Vittorio Ferraresi, al #Renziinsegueivoti di Danilo Toninelli, al #legittimadifesanotturna di Alfonso Bonafede.

Il manifesto
SPARI ELETTORALI.
IL PD TRAVOLTO
DALLE CRITICHE E DAL RIDICOLO
di Andrea Colombo

«Legittima difesa. L’Anm boccia il testo. Grasso:«Meno male che c’è il senato». Renzi dà la colpa agli altri, cercando inutilmente il voto di Forza Italia. Ermini: “Via la parola notte”»

È peggio che un semplice disastro. La legge sulla legittima difesa affonda sommersa non solo dalle critiche ma anche dal ridicolo. La campagna securitaria decisa da Renzi con l’obiettivo di rubare voti alla destra si è risolta in una sgangherata rotta.I magistrati aprono il fuoco. «Intervento che non serviva e anche un po’ confuso», attacca il presidente dell’Anm Eugenio Albamonte. Non si ferma qui e affonda la lama nella carne viva: non bisognerebbe «assecondare gli umori» popolari, «meglio desistere dal mettere mano a questa normativa». Nella pattumiera.

Grasso, presidente di quel Senato che Renzi voleva abolire e al quale ora si raccomanda per modificare la legge, si gode la rivincita: «Meno male che c’è il Senato». Le opposizioni si divertono, non lesinano in sarcasmo. «Se questa legge passa raccoglieremo le firme per abrogarla col referendum», si allarga Salvini.

La legge, oltretutto, ha ottime probabilità di non uscire viva dall’aula del Senato. Renzi si è impegnato a modificarla, cioè a peggiorarla, nella speranza di raccattare i voti di Fi ma Berlusconi non ha intenzione di fargli il favore sacrificando la ritrovata intesa col Carroccio. Neppure gli scissionisti dell’Mdp cambiano idea e in queste condizioni una maggioranza al Senato non c’è.

Non sarà neppure facile cavarsi d’impiccio ricorrendo all’eterna arma del cassetto. La legge arriverà in commissione tra due settimane e per il Pd la cosa migliore sarebbe seppellirla lì. Più facile a dirsi che a farsi. All’origine si tratta infatti di una delle proposte di legge in quota opposizione. E’ una legge della Lega e se il Carroccio insiste per portarla in aula non c’è alternativa.

Ma il peggio è la rete. La vecchia sigla del programma cult di Renzo Arbore, Ma la notte no, impazza, vive una seconda giovinezza. Le battutacce si contano a centinaia. Inutilmente il relatore Ermini, fedelissimo del capo e reduce da una lavata di testa che lèvati, prova a correggere: «Toglieremo la parola Notte». Non ce ne sarebbe bisogno per la verità, «ma se serve a correggere un’opinione completamente stravolta…». Inutile. La slavina è irrefrenabile, il coro sull’assurda legge che permette di sparare ai malfattori ma solo di notte prosegue. Il povero Ermini in realtà ha ragione. La legge è pessima ma la distinzione tra notte e giorno è frutto solo di un pasticcio mediatico di un testo confuso, che però il gran capo conosceva bene.

Renzi aveva fiutato l’aria malsana già giovedì sera, navigando in rete e traendo le conclusioni dal diluvio di critiche e ironie pesanti che già s’abbatteva sulla legge. In questi casi il suo schema è fisso: addossare la colpa agli altri. Si attacca al telefono, strapazza Ermini: «E’ scritta così male che si comunica male da sé. Bisogna rimediare, cambiarla, sparigliare». Poi ordina al suo portavoce, l’onorevole Anzaldi, di chiamare quattro giornalisti fidati per spiegare che il capo è fuori di di sé: «Così non si può andare avanti. Manca una regia. Su questa strada andiamo a sbattere». Trattandosi di una proposta di legge nata in Parlamento e fatta propria dal partito di cui Renzi è segretario, con un suo uomo come relatore, non si capisce bene chi, se non Renzi stesso, avrebbe dovuto occuparsi della regia. Particolari. L’importante è scaricare ogni responsabilità su qualcun altro, meglio se sul governo. Al resto penseranno i media.

Quando per la legge arriverà il momento della verità, Renzi è già pronto a sfruttare come d’abitudine la situazione a proprio vantaggio, insistendo sull’impossibilità di andare avanti a fronte di un Senato dove le divisioni interne alla maggioranza non permettono più di procedere. Tanto più che, subito dopo la legittima difesa, arriveranno a palazzo Madama altri due provvedimenti modello Mission Impossible, la legge sul testamento biologico e quella sulla cittadinanza e lo ius soli.

Lo sgambetto del capo è stato preso malissimo dal governo, anche se tutti cercano di non rendere palese l’irritazione. La ministra per i rapporti col parlamento, Finocchiaro, incaricata di cercare una difficilissima mediazione sia con Fi che con i centristi della maggioranza, decisi a rendere il testo più severo di quanto non intendesse Ermini, si è ritrovata sul banco degli imputati e mastica amaro. Il ministro Orlando, che al provvedimento leghista era contrario dall’inizio, vede ancora più rosso, tanto che i suoi sbottano: «Siamo alla presa in giro. L’intervento di Renzi è insopportabile». Ma anche tra i capibastone della maggioranza Pd, Franceschini e Martina, l’umore è cupo. Si erano illusi che dopo la batosta del 4 dicembre Renzi fosse cambiato. In meno di una settimana si sono resi conto che non è così. Matteo Renzi è sempre lo stesso.

«L’elezione, per quello che fa temere, per quello che può suscitare, non è che un momento, ma inevitabile. Tocca a noi attraversarla, utilmente, con gli occhi aperti. Non basta che Le Pen perda le elezioni; la sua sconfitta deve essere pesante».

il manifesto, 7 maggio 2017, con postilla

Di che cosa sarà fatto il domani? Ricorro a questo titolo di Derrida, preso in prestito da Victor Hugo: è adeguato a rappresentare il tormento di tanti elettori, nella sinistra più o meno radicale, di fronte al «dovere elettorale» del secondo turno. Non penso di poter spazzare via le incertezze che gravano sull’orizzonte. Ma, a uso di tutti noi, vorrei tentare di circoscriverle e dar loro un nome.

Sappiamo contro che cosa andiamo a votare, perché lo facciamo e come farlo. Non ci sono scappatoie rispetto alla scelta dell’avversario di Marine Le Pen, il cui nome sulla scheda elettorale è Emmanuel Macron. La questione non riguarda solo il detestabile programma del Front National.

Riguarda gli effetti che provocherebbe l’arrivo al potere, o anche vicino al potere, di un partito neofascista, nato dall’Algeria francese e dall’Oas (Organisation de l’armée secrète, l’organizzazione paramilitare clandestina francese creata nel 1961 con l’appoggio del regime franchista spagnolo, NdT); un partito fondato sulla denuncia dell’immigrazione e sull’individuazione di un nemico interno. Sarebbe fatto certo lo scatenarsi, come nel Regno unito dopo la Brexit, ma decuplicata, di un’ondata di aggressioni razziste, islamofobe e xenofobe. Insieme al crollo dei valori repubblicani e delle sicurezze personali.

Non basta dunque che Le Pen perda le elezioni; la sua sconfitta deve essere pesante. E non è garantito.

E’ importante anche sapere per chi voteremo: un tecnocrate ambizioso, intelligente ma minoritario, sostenitore del neoliberismo e della «modernizzazione» della società francese in un quadro europeo, spinto in orbita da una rete di finanzieri e alti funzionari, sostenuto da una generazione di giovani adepti della «terza via»; Macron si è espresso chiaramente sui crimini della colonizzazione.

Ma soprattutto quali gli effetti del nostro voto? Come inciderà sulla situazione che il primo turno ha rivelato? Non parlo qui di «terzo turno» o di maggioranza potenziale, ma della situazione della politica in Francia.

Mi limiterò ad affrontare due questioni.

Il nostro sistema politico attraversa una crisi istituzionale, senza possibilità di recupero. Come altrove, anche se con tratti peculiari, è diventato ingovernabile con le vie «normali», alle quali apparteneva l’alternanza dei partiti di centrodestra e centrosinistra. Il fatto che entrambi abbiano praticato politiche reali sempre più indecifrabili è un sintomo di questa crisi, ampiamente responsabile della delegittimazione che colpisce la «forma partito»; ma ne è anche uno degli effetti.

Emmanuel Macron, avendo a suo tempo studiato la dialettica hegeliana, tenta di trasformare la negazione in affermazione, con la sintesi dei contrari. Di fronte al «né di destra né di sinistra» della tradizione fascista, propone un «sia di destra che di sinistra».

Potrebbe funzionare solo se egli riuscisse ad apparire come l’uomo della provvidenza, al di sopra delle forze sociali. Ma siccome non è così e non lo sarà, la crisi è destinata ad acuirsi, mettendo in pericolo la solidità degli ideali democratici.

Spetta dunque a noi inventare istituzioni, formazioni non meno ma piùrappresentative, e più sincere nell’esprimere conflitti reali, così da restituire ai cittadini il potere di influire sulle scelte del governo.

Questo cantiere di matrice popolare e non populista, che alcuni movimenti recenti hanno abbozzato, anche durante la campagna elettorale, deve rimanere aperto stabilmente, nel pericoloso periodo che attraverseremo.

Questo cantiere non è separabile da quello della «frattura sociale». Si propongono gli argomenti più svariati, per sostenere che nuove divisioni sociali, culturali, territoriali, professionali, generazionali hanno sostituito l’antagonismo fra «destra» e «sinistra». Questo non è falso, almeno se ci si riferisce a una definizione convenzionale. Ma la traduzione di queste divisioni in alternative ideologiche come «nazionalismo contro mondialità» o «chiusura contro apertura», è davvero mistificatoria!

La verità è che da una parte le disuguaglianze si aggravano in modo drammatico, dall’altra la globalizzazione fa crescere nuovi antagonismi fra i poveri, o i non-ricchi, e più generalmente fra i lavoratori, gli utenti, i funzionari, gli studenti, tutto assoggettati alle logiche della redditività finanziaria.

Questo non fa scomparire la lotta di classe, ma ne oscura singolarmente le caratteristiche, e soprattutto ne impedisce la cristallizzazione in movimenti politici, già non scontata in altri tempi.

Per esorcizzare la violenza di cui queste «contraddizioni all’interno del popolo» sono portatrici, per liberare prospettive di futuro, occorreranno molta riflessione e molti confronti, ma soprattutto bisogna spingere con tutta la forza possibile verso altre politiche economiche: non sotto forma di selvaggia deregolamentazione e restrizione dei diritti del lavoro, o al contrario di protezionismo e rafforzamento delle frontiere, ma – come suggerisce l’economista Pierre-Noël Giraud– politiche neo-mercantiliste di redistribuzione degli investimenti fra le occupazioni nomadi e quelle sedentarie (il che non è affatto lo stesso che scegliere fra il «lavoro nazionale» e l’immigrazione) e di transizione energetica.

Ora, per ragioni di efficacia e di solidarietà, esse hanno senso solo su scala europea – a condizione, ovviamente, che l’Europa inverta il corso che ha preso quando ha adottato il dogma della «concorrenza libera e non falsata» e dei suoi corollari, l’austerità di bilancio e l’immunità delle banche.

Per questo è deplorevole che, nella campagna attuale, il dibattito sulle implicazioni europee della politica francese si limiti ad antitesi grossolane o a considerazioni formali sulle istituzioni della zona euro, anziché affrontare la questione dei rapporti di potere nello spazio europeo, anch’esso in piena crisi sistemica, e del suo futuro.

Non ci può essere un’altra Francia senza un’altra Europa. L’elezione di Macron non è una condizione sufficiente perché questi problemi diventino il terreno di un impegno collettivo. Ma l’elezione di Le Pen è una ricetta sicura perché il loro significato sia definitivamente deviato.

Anziché fare tabula rasa del passato, dobbiamo trarne le lezioni. L’elezione, per quello che fa temere, per quello che può suscitare, non è che un momento, ma inevitabile. Tocca a noi attraversarla, utilmente, con gli occhi aperti.
* da Libération, inserto settimanale del 2 maggio, per gentile concessione dell’autore al manifesto

postilla

Come abbiamo scritto è del tutto comprensibile che ci sia chi non vuol scegliere tra la peste e il colera, considerando sia Macron che Le Pen diversamente avversari di chi è convinto che, insieme al fascismo, si deve combattere anche l'humus da cui il fascismo puntualmente rinasce: e il neoliberosmo, che Macron esprime, è proprio l'espressione di quell'humus. Ma il 20 % non è sufficiente per rappresentare un'alternativa vincente, occorre che cresca, e che quindi si valutino le due ipotesi, Macron e Le Pen, a seconda dei maggiori o minori spazi di probabilità che diano alla conservazione di quel tanto di democrazia che consente alla sinistra radicale di crescere e di migliorare la sua forza di convinzione. È la strada che scelse la sinistra comunista italiana dopo l'8 settembre 1943 (e.s.)

«Una certa possibilità di giungere a un camminare lento nel mondo può provenirci oggi da un paradosso: la profondità dello spazio/tempo e quello che ci può insegnare». doppiozero, 6 maggio 2017 (c.m.c.)

«Nelle notti di maggio inoltrato nelle terre irpine si faceva il fieno. Voleva dire che le erbe per la fienagione, lasciate al sole perché si essiccassero, venivano raccolte in fasci legati in tre punti da liane fatte dello stesso fieno (i truocchi). Le liane si facevano a loro volta con un arnese agricolo, il manganiello, che non aveva nulla a che fare con il suo omonimo fascista o con quello in dotazione ancor oggi alle forze dell’ordine. Era un arnese fatto con legno torto di ulivo uncinato a un’estremità e canna, che ruotando immerso nel fieno, ne raccoglieva una parte e la trasformava in legaccio.

A fare compagnia ai lavoratori sotto la luna piena era il silenzio. Bisognava finire il lavoro prima del sorgere del sole che, asciugando la rugiada, avrebbe reso friabile il fieno. Solo le voci sommesse di chi lavorava si sentivano nella notte. Voci che facevano da sfondo al ritmo intenso della fatica e ne costituivano la colonna sonora, insieme al fruscio lento e musicale del fieno ammorbidito dalla rugiada della notte di quasi estate.

Il risveglio della natura sarebbe stato lento e silenzioso: con l’arrivo delle prime luci avrebbero iniziato gli altri uccelli coi loro canti a sostituire la melodia notturna dell’usignolo. A giorno fatto ormai era tempo di mangiare e voci capaci di ascolto avrebbero accompagnato la frugale colazione, seduti sui fasci di fieno a contemplare il lavoro appena finito e ad ascoltare storie che si ripetevano con qualche differenza che le rendeva ogni volta nuove.

Capitava che a quell’ora, dopo aver portato i piccoli greggi fuori dagli jazzi, passasse per i tratturi qualche pastore che veniva invitato a favorire, a fare una sosta per condividere un poco di cibo. Poteva succedere allora che, in cambio, tirasse fuori dal tascapane l’armonica e regalasse alla comitiva qualche tarantella o un veloce saltarello. Si dileguava in quel momento la stanchezza della notte e il silenzio del mattino si arricchiva di ulteriori possibilità di ascolto. Di fronte a quella sana allegria veniva da pensare che il silenzio non è andare via dal mondo per qualche tempo, ma uno dei tanti modi densi di sentirlo, il mondo, e di risuonare con le sue vibrazioni.»

Il silenzio non è assenza di presenza, di suoni o rumori. Il silenzio, anzi, è un particolare e generativo modo di vivere la presenza, riconoscendo che cosa implica un ascolto, quali trasformazioni di noi stessi richiede. Scrive lo scrittore Amitav Ghosh: «Il riconoscimento segna notoriamente il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza. Riconoscere, pertanto, non è la stessa cosa che entrare in contatto per la prima volta, né abbisogna di parole: quasi sempre il riconoscimento è muto. L’aspetto più importante del termine riconoscimento sta dunque nella prima sillaba, che rimanda a una consapevolezza preesistente» (Robinson, 16 aprile 2017).

Il silenzio e l’ascolto sono condizioni essenziali per quel riconoscimento che può consentirci di ricongiungerci all’anima del mondo, al sistema vivente che ci precede e di cui siamo provvisoria espressione. Nel silenzio, come nell’ascolto, sono l’altro e il mondo, non la loro assenza, il campo di prova. L’ascolto e il silenzio assumono la connotazione di una conversazione con l’altro e il mondo, in cui la loro irriducibilità a noi è elaborata astenendosi dalla facile e frettolosa via d’uscita o di fuga che troppo spesso diventa la parola. Silenzio e ascolto possono diventare, allora, un particolare modo di accorgersi del mondo, un modo lento di sentirlo e, quindi, di sentirsi. Un modo in grado di cogliere l’unicità di ogni istante e della vita stessa: un thick feeling del mondo cui fa eco la thickdescription nella prospettiva antropologica di Clifford Geertz.

Alla maniera del monito poetico di Anna Achmatova:

Ma io vi prevengo che vivo
per l'ultima volta.
Né come rondine, né come acero,
né come giunco
né come stella,
né come acqua sorgiva,
né come suono di campane
turberò la gente,
e non visiterò i sogni altrui
con un gemito insaziato.

O secondo il ritmo del suono che il silenzio offre a chi sa ascoltarlo, viene da aggiungere non solo nel buio, secondo il canto di Simon & Garfunkel:

Hello darkness, my old friend
I've come to talk with you again
Because a vision softly creeping
Left its seed swhile I was sleeping
And the vision that was planted in my brain
Still remains
Within the sound of silence.
Lentezza, silenzio e ascolto costituiscono quello che nelle scienze del cervello e del comportamento è riconducibile all’approccio in prima persona, il cosiddetto first person approach, che secondo Francisco Varela è in grado di combinare neurofisiologia e fenomenologia, dando vita a quella peculiare view from within, o visione dall’interno, propria della scimmia che si parla, quale noi umani siamo.

Il gioco introiezione/proiezione ci caratterizza e ci distingue, non perché non riguardi altri animali, ma in quanto è, da noi umani, animali di parola, risolto troppo spesso, precocemente, appunto, nella parola. La sospensione provvisoria di senso e una certa distanza o “estraneità” sono condizione necessaria per l’ascolto: solo la lentezza e il silenzio possono creare in noi quello spazio necessario. Ascoltare non significa eliminare l’estraneità ma elaborarla senza negarla, farla lavorare in noi, dandosi tempo. È a partire da quella sospensione che possiamo riconoscere come non sia il mondo che emerge dal soggetto, ma il soggetto che emerge dal mondo. Se il mondo ci genera, insieme all’illusione di essere noi a generarlo, conviene attraversarlo lentamente, ascoltandolo, spesso e per quanto possibile in silenzio.

Vale la pena domandarsi perché sono, allora, così difficili, il silenzio, l’ascolto e la lentezza, quelle dimensioni così densamente descritte nella narrazione magistrale di Sten Nadolny, che con La scoperta della lentezza se ne era occupato come pochi, irridendo alla cieca convulsione del nostro vivere attuale, con la precisione e il piglio che sono nella migliore tradizione letteraria di lingua tedesca. Come ha scritto Oreste del Buono, «Nadolny è uno scrittore di finezza, capziosità e suggestioni poetiche rare. La sua prosa è una continua sorpresa e la lentezza diventa, di segmento in segmento vissuto, un’avventura coinvolgente».

Baruch Spinoza ci fornisce una risposta forse più impegnativa della domanda quando introduce la vertigine della “causa sui”. La constatazione del mondo così com’è, della sua autofondazione, o, per dirla con William James, che ciò che è, è, in quanto semplicemente è, incluso il pensiero, (“We must simply say that thought goes on” – Principles of Psychology, 1890, vol. 1, Dover, New York, 1950; pp. 224-225), ci inquieta e induce a produrre spiegazioni rumorose e frettolosamente succedanee per riempire un vuoto che viviamo intollerabile.

Giungiamo così a pensare di essere noi a venire prima delle relazioni; che la tecnica sia un’esperienza accessoria prodotta da noi, e perdiamo il senso profondo della realtà: sono le relazioni a generarci e meriterebbero silenzioso ascolto; lungi dall’essere un’esperienza accessoria, la tecnica è antropogenetica: in quanto la tecnica, allora l’uomo. La stessa scienza è una teoria della tecnica: come ha argomentato acutamente Rocco Ronchi in un libro svolta per la riflessione filosofica: “La scienza è una teoria della tecnica, nel senso soggettivo del genitivo” (R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017; p. 262).

Fino a che rimaniamo autocentrati al punto da ritenere di essere gli artefici di qualcosa che chiamiamo esperienza, ritenendola esito della nostra sperimentazione di un mondo che sta là fuori e di cui partecipiamo come osservatori a distanza e con uno sguardo superiore, aumenteremo la nostra velocità di attraversamento e selezioneremo solo i segnali conformi, fino ad operare una reductio ad unum–indipendentemente da quale sia l’unum– che pare uno dei tratti preponderanti della nostra contemporaneità.

Siamo invece una actual entity che si fa nel corso del processo – emerge – per poi costituirsi come fatto compiuto solo al termine del processo stesso come suo risultato, che tende però a viversi come separata dal processo. Una specie di meta senza cammino, a causa della velocità del procedere e della cattiva elaborazione dell’ansia che la lentezza necessaria per ascoltare richiederebbe. Ad andare in crisi e, spesso, sovente perduta, è l’esperienza, che diventa così “esperienza di qualcosa”, con tutta la coazione compulsiva a “fare esperienze” che ne deriva. Non senza ragione, quando capita di dire a qualcuno che siamo stati in un luogo o di parlare di un’esperienza, spesso la risposta è: già fatto. “L’esperienza non è semplicemente esperienza di qualcosa”, scrive Ronchi, “per noi l’esperienza è sempre qualcosa” (p. 176).

Nei luoghi, infatti, troviamo nulla di più che quello che siamo capaci di portarvi. Non è che portiamo con noi quel che vi troviamo, come si porta un fardello o un bagaglio. È che conosciamo riconoscendo e sentiamo ascoltando: pensiamo camminando. Allora sarà il nostro mondo interno che, portandosi in un luogo, si farà raggiungere da quel che il luogo ha da dire; si farà osservare e ne ricaverà senso e significato, tendenzialmente unici, tanti quanti sono gli osservatori e quante sono le occasioni.

Del resto la domanda potrebbe essere: ma come facciamo a intenderci con questo mondo, con la natura e con gli altri? O meglio come facciamo a fare i conti con quelli che forse sono i più urgenti problemi del nostro tempo: la vivibilità degli ecosistemi a partire dalla sopravvivenza della specie; la convivenza tra le culture; possibilmente senza autodistruggerci?

Una certa possibilità di giungere a un camminare lento nel mondo può provenirci oggi da un paradosso: la profondità dello spazio/tempo e quello che ci può insegnare. In fondo siamo di fronte alla prima possibilità. A pensarci bene, infatti, è solo in questo nostro tempo che veniamo ridefinendo la nostra collocazione e il significato di noi stessi nell’universo e negli spazi ravvicinati della nostra vita.

Quando scopriamo che in una lontana galassia, distante da noi 8 miliardi di anni luce, un gruppo di astronomi guidato dal ricercatore Marco Chiaberge e di cui fa parte anche Alessandro Capetti, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha scoperto un buco nero supermassivo che sta letteralmente schizzando via dal centro galattico, a una velocità di 7,5 milioni di chilometri all’ora (per coprire la distanza tra la Terra e la Luna ci impiegherebbe appena 3 minuti) e che, secondo i ricercatori, questo buco nero “in fuga” è stato accelerato dalla enorme energia delle onde gravitazionali emesse durante la fusione dei due buchi neri che lo hanno generato; non solo, ma scopriamo anche che i ricercatori stimano che per spingere a una velocità così elevata un oggetto celeste della massa pari a un miliardo di volte quella del Sole, come il buco nero da loroindividuato, sia stata necessaria un’energia pari a quella rilasciata da 100 milioni di supernove, noi esseri umani come ci sentiamo?

Minuscoli è dir poco, persi forse nell’infinità dello spazio e nella profondità del tempo, ma forse proprio per questo presi da un’opportunità di guardarsi finalmente dal di fuori, di sorvolarsi e, accogliendo il limite e la finitudine come valori, incontrarsi con il mondo non dal di sopra ma dal di dentro: dal mondo interno e come parte del mondo. Non può trattarsi di un incontro automatico. Anzi. Richiede un autospiazzamento e una riflessione, nel senso di flettersi due volte su se stessi. Lo spaesamento e lo scompiglio per la sopravvenienza di un incontro con noi stessi, a lungo mancato e non atteso ma oggi necessario, richiede una sintonizzazione su una tonalità comune, per inventare un gesto di intesa.

Ci vuole garbo, però, e riflessione. Così come ci vuole la disposizione a considerare le nostre orme, voltandosi indietro a guardare: lo stesso gesto che immaginiamo possa essere stato alla base dell’imparare a tracciare segni e poi, alfine, a scrivere. Il garbo necessario ha le sembianze dello “shibboleth” ebraico: misurare le parole e lo stesso modo di pronunciarle; curare l’inflessione e essere attenti al linguaggio non verbale utilizzato.

E perciò, camminare con passo leggero, fermarsi ad ascoltare, soprattutto il vuoto interno, per consegnarsi ad un atteggiamento di apertura perché un’inedita sintonia con il mondo e gli altri si realizzi.

Voltandosi a guardare le orme, alfine emergerà, camminando nel silenzio interiore e nell’ascolto del mondo, una inedita armonia, quel thick feeling che non è fuggire dal mondo, ma partecipare del suo processo, come un seminatore che semina la terra ma da essa è seminato nel moment now in cui passo, gesto della mano, seme, terra e contesto coincidono.

». la Repubblica, 6 maggio 2017 (c.m.c)

La questione al centro del nuovo libro di Jonathan Sacks - “Non nel nome di Dio”, edito da Giuntina - ce la siamo posta tutti, ma, formulata da colui che fu per molti anni rabbino capo della “United Hebrew Congregations of the Commonwealth” e che è una delle voci più autorevoli dell’odierno dibattito teologico internazionale, assume una certa perentorietà. Eccola: «L’ebraismo, il cristianesimo e l’islam si definiscono come religioni di pace e tuttavia tutte e tre hanno dato origine alla violenza in alcuni momenti della loro storia».

Come mai? Come spiegare il paradosso di religioni che vogliono la pace e che però producono guerra e terrorismo? La questione interessa tutti, non solo i credenti, perché la religione è tornata sulla scena mondiale e tornerà sempre più; anzi, per Sacks il XXI secolo è «l’inizio di un processo di de-secolarizzazione di cui la prova principale si chiama demografia: «In tutto il mondo i gruppi più religiosi hanno il più alto tasso di natalità», mentre «dove le comunità religiose scompaiono segue prontamente il declino demografico».

La religione quindi sarà sempre più rilevante ed è per questo urgente scioglierne le ambiguità. E se alla violenza da essa prodotta si deve rispondere militarmente per arginarne l’effetto, per estirparne in radice la causa si deve rispondere teologicamente: «Non abbiamo altra scelta che riesaminare la teologia che porta al conflitto violento; se non facciamo questo lavoro teologico, ci troveremo di fronte al perdurare del terrore».

Naturalmente la religione non è la causa diretta della violenza, visto che nessun secolo è stato meno religioso, e al contempo più violento, del Novecento. La radice della violenza non è la religione, la questione è molto più complicata, ha a che fare con la nostra più profonda identità: noi siamo potenzialmente violenti in quanto animali sociali. È cioè la nostra tendenza a formare gruppi a essere al contempo all’origine della civiltà e all’origine della violenza: «L’altruismo ci porta a fare sacrifici a vantaggio del gruppo e allo stesso tempo ci porta a commettere atti di violenza contro quelle che vengono percepite come minacce al gruppo».

Quella volontà di relazione che positivamente genera coppie, famiglie, amicizie, comunità, altrove causa aggregazioni sotto forma di banda, branco, clan, brigata. Un’umanità senza gruppi è impossibile, ma un’umanità strutturata per gruppi è naturalmente violenta. E il punto è che la religione sostiene i gruppi in modo molto più efficace di qualsiasi altra forza: per questo appare come la maggiore generatrice di solidarietà e insieme di intolleranza.

Contro questa ambiguità strutturale della natura umana manifestata dalla religione in sommo grado, Sacks propone «una teologia dell’Altro» il cui fine è generare un desiderio di immedesimazione verso chi, per l’istinto naturale, è solo un nemico: «Per guarire dalla violenza potenziale verso l’Altro devo essere capace di immaginarmi come l’Altro». Questa teologia dell’Altro opera a livello metodologico spingendo a uscire dalla logica istintuale Noi-Loro per abbracciare la prospettiva spirituale che sa leggere la realtà dal punto di vista altrui. È ciò che le religioni chiamano conversione.

Il punto decisivo però è che le religioni capiscano che sono proprio loro, oggi, a doversi convertire per porre fine alla lotta reciproca simile a «rivalità tra fratelli ». Le tre religioni monoteistiche infatti sono «fratelli in competizione» per accaparrarsi il ruolo di vero depositario della rivelazione divina. Per questo la relazione tra ebraismo, cristianesimo e islam è stata finora all’insegna del superamento reciproco: «Il più piccolo crede di aver prevalso sul più grande: il cristianesimo ha fatto così con l’ebraismo, l’islam
Bonificare i testi sacri per neutralizzare l’odio lo ha fatto con entrambi». Il XXI secolo, però, «invita a una nuova lettura».

Sacks dà l’esempio proponendo una “controlettura” di alcuni testi decisivi della Bibbia ebraica, perché «i testi stessi che si trovano alla radice del problema, se giustamente interpretati, possono fornire la soluzione». Tramite questa rilettura Sacks mostra in modo magistrale che ciò che i testi realmente dicono non è quanto recepito nei secoli passati all’insegna della differenza Noi/Loro e ancora oggi alla base della rivalità tra le tre religioni abramitiche, ma è il superamento di questa logica istintuale in vista della pace e della concordia.

È decisivo notare però che il criterio di questa sua “contro-narrazione” è qualcosa di esterno al testo sacro. Non è la coerenza del testo in sé, né la tradizione interpretativa: è la pace il criterio decisivo. Per questo per Sacks il primato spetta all’etica, come nella migliore tradizione ebraica da Moses Mendelsohn a Hermann Cohen, da Martin Buber a Abraham Heschel, da Hans Jonas a Emmanuel Lévinas. Questa esigenza etica fa scoprire che «la Bibbia ebraica contiene non soltanto una narrazione ma anche una contro-narrazione» in base a cui «la nascita di Isacco non destituisce Ismaele » e «la scelta di Giacobbe non significa il rifiuto di Esaù».

Non c’è quindi alcun posto privilegiato da contendersi, c’è invece la riscoperta di un Dio universale e padre di tutti. Ecco perché «la Genesi descrive due patti: il primo con Noè e tutta l’umanità, il secondo con Abramo e i suoi figli». L’essenziale è comprendere che il secondo patto particolare è in funzione del primo patto universale, e non viceversa come le religioni hanno sempre pensato. Questo è il cambiamento di paradigma che il nostro tempo impone: prima la fede era finalizzata al Noi, ora va finalizzata al Tutti: al Noi + Loro.

Il problema è che i testi sacri delle tre religioni monoteiste contengono non pochi passi che, interpretati in modo letterale, producono violenza e odio. A tale riguardo scrive giustamente Sacks: «Possiamo e dobbiamo reinterpretarli ». Occorre quindi una grande, onesta, bonifica dei testi sacri, segnalando quei brani che incitano all’odio e alla violenza, magari stampandoli in corpo minore, di certo accompagnandoli con adeguati commenti. È un dovere da cui la teologia e le istituzioni religiose non possono più esimersi. Questo processo virtuoso nel linguaggio laico si chiama autocritica, nel linguaggio religioso conversione, in ebraico “teshuvà”.

Il nuovo libro di Jonathan Sacks ne è un bellissimo esempio e non poteva venire che da parte ebraica. Saranno capaci il cristianesimo e l’islam, che a differenza dell’ebraismo si considerano religioni universali valide per tutti, di raccogliere la sfida?

Qualche episodio dei guasti provocati dalle aziende del "capitalismo avanzato" italiano nello sfruttamento delle risorse dell'Africa viene al pettine dei tribunali. Chissà come andrà a finire.

il Fatto quotidiano online, 4 maggio 2016

Sono passati sette anni da quando, il 5 aprile del 2010, una conduttura petrolifera di proprietà della Nigerian Agip Oil Company Limited, la controllata di Eni in Nigeria, esplose a circa 250 metri da un torrente, nella zona settentrionale dei territori della comunità Ikebiri, nello Stato di Bayelsa. Gli sversamenti inquinarono il fiume e gli stagni, danneggiando sia la fauna ittica che la vegetazione e compromettendo le fonti di sostentamento di interi villaggi basate soprattutto sulla pesca, e poi sulla raccolta di frutti e sulla coltivazione. Ora il capo della comunità, Francis Timi Ododo, a nome delle popolazioni che vivono in quell’area, ha avviato una causa legale nei confronti della multinazionale italiana Eni. Procedimento nel quale sarà supportata dalle sezioni europea e nigeriana di Friends of the Earth. La comunità chiede due milioni di euro a titolo di risarcimento, ma soprattutto la bonifica dell’area devastata dall’incidente. Bonifica che, secondo la Naoc, è già stata eseguita. E in tribunale sarà Davide contro Golia. Oggi è stato notificato l’atto di citazione nei confronti dell’Eni, nei prossimi giorni toccherà alla sua controllata, mentre il procedimento legale avrà luogo presso il Tribunale di Milano. In Italia a rappresentare gli interessi della comunità è l’avvocato Luca Saltalamacchia, mentre in Nigeria è il legale Chima Williams. “Si tratta di un caso senza precedenti in Italia – sostiene Friends of the Earth – e, se la comunità dovesse vincere la causa, sarebbe la prima volta che una compagnia italiana viene condannata dalla giustizia del suo Paese per un disastro ambientale causato in una nazione straniera”.

L’incidente del 2010 – La comunità Ikebiri è composta da diversi villaggi situati sul delta del Niger, dove le popolazioni si dedicano alla produzione dell’olio di palma, alla costruzione di canoe, alla pesca, all’agricoltura. “Ricostruire i fatti non è stato semplice – spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Saltalamacchia – ma lo abbiamo fatto anche attraverso i documenti della stessa Naoc”. Il 5 aprile 2010 la comunità di Ikebiri scoprì l’esistenza della fuoriuscita di petrolio. Nella zona, Naoc possiede sette pozzi petroliferi e otto condutture, con diverse linee di flusso. La compagnia fu immediatamente allertata. “I loro tecnici – continua il legale – intervennero l’11 aprile insieme a unità armate”. In seguito a quel controllo, al quale fu ammessa la presenza di un delegato della comunità, fu la stessa Naoc a redarre un report, ammettendo che l’incidente era stato causato da “difetti della tubatura” e annotando: “La riparazione è stata completata. Le aree impattate dovrebbero essere bonificate il più presto possibile”. Quello che avvenne in seguito è tuttora poco chiaro.

Le prime operazioni – “L’area fu chiusa – spiega Saltalamacchia – e la controllata di Eni ha sempre dichiarato di aver proceduto nei giorni a seguire a una bonifica, ma di tale operazione non è mai stata mostrata una documentazione, anche se richiesta più volte”. Quello che la comunità sa, invece, è che nei giorni successivi a quel primo intervento sul posto all’area fu dato fuoco. Nessuno della comunità ha potuto vedere la zona in quel frangente, in quanto sarebbe stato molto pericoloso avvicinarsi. “Da un lato ci chiediamo come mai non è mai stata fornita documentazione rispetto alla bonifica che Naoc dice di aver eseguito – aggiunge il legale – dall’altro, allargando lo sguardo a quanto avviene nella zona del Delta del Niger, in un report è stata la stessa Onu a lanciare l’allarme riguardo alla pratica dei certificati di avvenuta bonifica ‘regalati’ dalle agenzie governative. Non è questo il caso, ma il sospetto è che la bonifica non sia avvenuta e si sia solo cercato di trovare un intervento tampone, magari proprio incendiando il sito”. Un’accusa che la Naoc ha sempre rigettato al mittente.

Il sito inquinato – Naoc sostiene che gli sversamenti abbiano interessato un’area di circa 9 ettari, ma secondo la comunità la contaminazione ha interessato prima una zona contenuta, di circa 17,9 ettari, allargandosi poi proprio per mancanza di una bonifica. A supportare questa tesi ci sarebbero i risultati di alcune analisi chimiche fatte eseguire a novembre 2015 sui luoghi dell’incidente. I risultati? “Dimostrano che il sito è inquinato in più punti, non solo nelle immediate vicinanze dell’area interessata”, aggiunge l’avvocato Saltalamacchia. A causa delle piogge, il petrolio fuoriuscito venne trasportato ad oltre due chilometri di distanza. “Ancora oggi all’interno di questo perimetro – spiega il legale – il terreno risulta pesantemente inquinato. La verità è che servirebbe una vera bonifica, operazione complessa quanto costosa, anche più di un eventuale risarcimento”. Potenzialmente l’area inquinata potrebbe essere ampia 400 ettari, eppure Naoc sostiene di aver correttamente bonificato il sito. Dalla comunità, i residenti raccontano un’altra storia. Come quella di Emilia Matthew. “In questi anni è successo – spiega – che molti di noi si siano ammalati. La pesca, che da sempre ha rappresentato la nostra fonte di sostentamento, è ora assolutamente a rischio. I pesci che vivevano nei laghetti e negli acquitrini sono stati tutti uccisi dal petrolio. Anche le nostre coltivazioni, che comprendono le piante medicinali che noi stessi usiamo per curarci, sono state contaminate dal petrolio”.

I tentativi di accordo andati in fumo – Diversi i tentativi di mediazione messi in atto dalla comunità per ottenere un risarcimento, ma soprattutto la bonifica dei luoghi. Subito dopo l’incidente la comunità Ikebiri contattò Eni, chiedendo di essere risarcita per quanto accaduto e ottenendo un pagamento di due milioni di naira (equivalenti a circa 6mila euro attuali e 10mila nel 2010). “Al di là di questa cifra – sottolinea Friends of the Earth – versata, peraltro, solo a titolo di ‘materiale di primo soccorso’, non vi è stato alcun tipo di risarcimento”. Un’offerta iniziale di 4,5 milioni di naira (equivalenti a 13mila euro attuali e 22mila del 2010) è stata rifiutata dalla comunità, che l’ha giudicata insufficiente. Attraverso il suo legale italiano, la comunità ha cercato più volte di giungere a un accordo transattivo sia con Eni che con Naoc, ma non si è arrivati a nulla di concreto. “Secondo gli standard applicati nel passato dalle corti nigeriane e tenuto conto del tempo trascorso dal 2010 a oggi – spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Saltalamacchia – un risarcimento congruo dovrebbe ammontare a poco più di 700 milioni di naira, pari a circa due milioni di euro”. In quelle aree dopo questo tipo di incidenti la maggior parte delle comunità accettano risarcimenti anche irrisori, lasciando che il sito rimanga inquinato. “In questo caso – spiega il legale – la comunità è intenzionata ad andare avanti e far valere i propri diritti”.

Delta del Niger quinto al mondo per tasso di inquinamento – Il delta del Niger è il quinto luogo con il più alto tasso di inquinamento petrolifero al mondo. È come se, dagli anni Cinquanta al 2006, si fossero verificati in questo luogo cinquanta disastri della portata del naufragio della petroliera Exxon Valdez, che nel 1989 sversò nei mari dell’Alaska 40,9 milioni di litri di petrolio. Gli sversamenti continuano ancora oggi, al ritmo di più di uno al giorno. Lo Stato di Bayelsa, dove ha sede la comunità Ikebiri, è considerato uno dei più inquinati di tutto il Paese. L’Eni è consapevole di tali problematiche, tanto che si è dotata di una serie di strumenti di due diligence da applicare alla propria attività, anche in Nigeria, dichiarando che tali strumenti sono vincolanti anche per la Naoc. “Esistono decine e decine di risoluzione delle Nazioni Unite e regolamenti europei – aggiunge Saltalamacchia – che parlano della tutela dei diritti umani, dei risarcimenti, delle responsabilità, ma gli Stati non li rispettano come dovrebbero. Questa è una controversia storica per l’Italia”.

Il cane a sei zampe, interpellato da ilfattoquotidiano.it, ha fatto sapere che “NAOC, una delle società controllate di Eni che opera in Nigeria, ha sempre operato in modo responsabile sul territorio. In relazione all’oil spill che avrebbe interessato la comunità Ikebiri nel 2010 – è il commento della società petrolifera – NAOC ha avviato un dialogo costruttivo con gli esponenti della comunità Ikebiri, ed è intervenuta in modo tempestivo ed efficace per bonificare i siti interessati, che sono stati oggetto di ispezione da parte delle autorità competenti nigeriane con esito positivo. Tuttavia – ha specificato Eni – alcuni membri della comunità Ikebiri avevano già promosso un procedimento giudiziario presso la corte competente nigeriana nell’ambito del quale NAOC, in quanto titolare delle attività, sta fornendo tutti i chiarimenti necessari in ordine alla risoluzione della controversia. Eni è stata informata dell’inizio di procedimenti giudiziari in Italia in merito a tali vicende. Il Department Petroleum Resources (equivalente di UNMIG in Italia) – ha concluso la società – ha validato, insieme al NOSDRA (National Oil Spill Detection and Response Agency) che fa capo al Ministero dell’Ambiente nigeriano, la nostra posizione nelle Joint Investigation Visit effettuate”.

Giacomo Russo Spena intervista Luciano Canfora. «L’utopia dell’egoismo nella storia inizia quando l’uomo scoprì l’oro e la proprietà privata. Gli anticorpi consistono nella spinta all’uguaglianza che mette in discussione la supremazia dell’egoismo proiettato verso il profitto». MicroMega online, 4 maggio 2017 (c.m.c.)

«Come osservò Tocqueville la libertà è un ideale intermittente, l’uguaglianza invece è una necessità che si ripresenta continuamente, come la fame». Luciano Canfora, classe ’42, è professore emerito dell’Università di Bari, storico, filologo classico e saggista. Per ultimo, ha scritto per Il Mulino “La schiavitù del Capitale” (112 pp., 12 euro) nel quale sottolinea, con un pizzico di ottimismo, come il capitalismo abbia vinto «ma forse è solo un tornante della storia». Insomma, la partita sarebbe tutt’altro che chiusa: «L’Occidente si trova di fronte a controspinte molteplici, tutte gravide di conflitti e di tensioni e daccapo ha perso l’offensiva. Più sfida il mondo (per usare la terminologia di Toynbee) e più aspra è la risposta».

Professor Canfora, per lei campeggiano due utopie al mondo: l’utopia della fratellanza e quella dell’egoismo. Non trova che quest’ultima stia stravincendo a livello globale?
«Ha quasi sempre vinto sul breve periodo: l’utopia dell’egoismo nella storia ha giocato all’attacco. Come scrive Lucrezio nel quinto libro del De rerum natura essa inizia quando l’uomo scoprì l’oro e la proprietà privata. Il moderno profitto ne è l’equivalente monetario; è connaturato da una spinta biologica. Ma, attenzione, questa egemonia ha la strada in salita, la storia ci ha anche dimostrato che prima o poi all’utopia dell’egoismo si contrappone una reazione. Gli anticorpi consistono nella spinta all’uguaglianza che mette in discussione la supremazia dell’egoismo proiettato verso il profitto. La storia non ha ancora dato la vittoria a nessuno»

Sono più pessimista: come reazione alle politiche dell’Occidente abbiamo il fanatismo religioso dove – lo dimostra il caso della banlieus parigine – gli emarginati ormai scelgono l’integralismo islamico come via di riscatto dall’esclusione sociale. Prima della caduta del Muro di Berlino, in Occidente chi si opponeva allo status quo optava per la “via socialista” mentre ora si iscrive direttamente alle milizie del Califfato?
«Nel Novecento pur di sconfiggere il vacillante “socialismo realizzato”, l’Occidente ha preferito armare il peggior fondamentalismo islamico, ad esempio i Talebani in Afghanistan. Così sulle ceneri del socialismo – pensiamo anche alle varie esperienze nel mondo arabo con il partito Baath e alle forme laiche di antimperialismo in Medioriente – si è imposta la barbarie dell’integralismo religioso con la sua escalation di terrore. Anche qui la storia ci può essere d’aiuto: ucciso Robespierre, dopo anni, quel pensiero si è palesato nuovamente, ma in forma ancor più violenta, sotto le sembianze di Stalin. I vuoti vengono riempiti, con modalità sempre più cruente. L’Islam di oggi, comunque, non è surrogato del mondo socialista ma, come dimostra un recente studio di un ex diplomatico USA, pubblicato dall’editore Kopp, è uno dei prodotti della guerra globale della Cia».

Mi sta dicendo che sono “giocattoli” scappati di mano?
«L’Isis si muove in modo unitario, come una grande potenza. Il capitalismo è quel titanico stregone che unificando il pianeta nel nome e nel segno del profitto ha suscitato e scatenato forze che non sa e non può più dominare. Pensiamo al rapporto con l’Arabia Saudita wahabita, per gli Usa il criterio realpolitico ha quasi sempre avuto la meglio sulle scelte di principio».

Sicuramente l’Occidente avrà le sue responsabilità, intanto in Europa resta il problema degli attentati...
«Bisogna dirsi le verità scomode: da un lato abbiamo la barbarie, dall’altro non ha senso schierarsi con le nostre guerre umanitarie. Siamo dentro una spirale guerra/terrorismo. L’Occidente detiene la ricchezza, le armi, la cultura ed ha in mano le principali carte del gioco. Ha tutto l’interesse, economico e politico, ad alimentare odi e violenza per smerciare le armi che produce. Tra l’altro costruisce l’immaginario e le narrazioni con morti di serie A e morti di serie B: gli attentati in Occidente vengono deprecati col massimo della solennità, mentre le azioni terroristiche che da 14 anni insanguinano l’Iraq dopo la proditoria cacciata di Saddam ottengono un trafiletto sui giornali. Nel luglio 2016 due centri commerciali a Baghdad vengono distrutti da un attentato suicida dell’Isis, le dimensioni dell’enorme carneficina vennero rese note col contagocce. In Occidente utilizziamo due pesi e due misure».

Nella prima parte de La schiavitù del Capitale Lei compie una ri- o de-costruzione storica della categoria di “Occidente”. Non è quindi un blocco unitario come troppo spesso crediamo?
«L’ingresso degli Usa negli equilibri europei nel 1917, nella I guerra mondiale, cambia gli scenari. Per Oswald Spengler, in quella data, ha inizio il declino dell’Occidente. Dopo il 1917 il concetto di Occidente prende le sembianze degli Usa: non è un giudizio di valore il mio ma una fotografia dei rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Europa».

Torniamo all’utopia della fratellanza, come uscire da questo capitalismo che ha ripristinato forme di dipendenza di tipo schiavile?
«La crisi non scoppierà ai margini, nelle periferie metropolitane, ma scoppierà dentro il cuore del sistema. Mi spiego meglio: la crisi si produrrà al suo interno, tra le sue classi dirigenti tecnicamente attrezzate ma non dominanti. All’orizzonte non intravedo organizzazioni di qualche peso capaci di contrapporsi – e a livello globale le soluzioni non passano per l’Isis o per la Corea del Nord – soltanto la critica può salvare l’Occidente da se stesso. Il potere finanziario si fonda anche su ceti acculturati i quali non sono complici del profitto, o lo sono in misura marginale rispetto ai veri detentori della ricchezza. Sono questi ceti che vanno scossi tramite l’arma della critica. Consentimi una battuta: una rivista come MicroMega ha più responsabilità di quanto si pensi!»

Alla fine del libro, come appendice, c’è un intervento di Alexis Tsipras del giugno 2015 nel quale invita i greci a ribellarsi ai diktat della Troika parlando di recupero della democrazia e di sovranità popolare. Non crede che in Grecia abbiamo visto il vero volto criminale delle Istituzioni? Alla fine il governo ellenico è stato costretto a capitolare accettando i vari memorandum…
«Quando ho deciso di inserire questa parte, ero consapevole del fatto che, alla fine, Alexis Tsipras fosse stato costretto alla resa e ad andare contro il suo popolo. Ma quel discorso è di grande importanza simbolica perché mise in crisi il sistema UE. Mi ricordo i giornali dell’epoca che criticarono la scelta del referendum: come aveva osato Tsipras dare la parola ai cittadini disobbedendo alla Troika?

«Poi, purtroppo, col coltello puntato alla gola è stato costretto a cedere alle pressioni dell’Eurogruppo. Ma nella sua lotta era isolato ed è stato abbandonato, dal governo spagnolo e dal nostro. Adesso Renzi dice di voler sbattere i pugni a Bruxelles contro Junker, con quale credibilità essendo stato il pugnalatore della Grecia? L’Italia poteva fare fronte con la Grecia e chiedere alla Troika di rinegoziare un debito pubblico assurdo e una serie di parametri di Maastricht. Si poteva venire a patti. Invece... è andata come è andata».

Anche la Francia di Hollande in realtà non si spese molto per la Grecia, non trova?
«Certo, è complice in primis. Fa ribrezzo la politica dei socialisti francesi: calpestano i vari parametri europei ma essendo soci di serie A, nessuno gli dirà mai nulla. Un milieu ripugnante».

Rimaniamo in Francia. Adesso in Europa, come si evidenzia dalle elezioni di domenica con il duello tra Le Pen e Macron, lo scontro è tra un nuovo populismo xenofobo e l’ultraliberismo?
Innanzitutto, sarei meno succube della propaganda nostrana che descrive i fenomeni populisti con caratteristiche di fascismo. Andrei più cauto nell’affibbiare etichette. Gli stessi media che per anni hanno accusato la sinistra di utilizzare con troppa leggerezza il termine “fascismo”, vedi la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, adesso utilizzano tale categoria con disinvoltura. La storia va analizzata bene: quando Charles De Gaulle prospettò l’Europa delle patrie, dall’Atlantico agli Urali, qualcuno pensò di definirlo fascista? O un sovranista? Potremmo davvero definirlo tale? Direi piuttosto che il gollismo è un fenomeno specifico, con le sue proprie caratteristiche, circoscritto alla storia francese».

Professore, mi sta dicendo che Marine Le Pen non incarna un nuovo fascismo? È sicuro di ciò che sostiene?
«È una definizione grossolana. Ha degli elementi in comune con il fascismo ma anche aspetti diversi: per esempio la capacità di intercettare un malcontento sociale della classe operaia francese. Cosa che non fu per il fascismo al suo sorgere: Mussolini, appoggiato dalla Corona, vinse contro la classe operaia. La situazione era diversa. Non vengo intimidito dalle formule dei giornaloni e dico che il lepenismo è una specifica realtà francese che dà voce ad una parte dei francesi che verrà calpestata da Macron e dalle sue banche».

Sì, ma fomenta razzismo e guerra tra poveri. Prende i voti della classe operai al grido «prima i francesi»...
«Se l’Europa dei Macron fosse in grado di salvaguardare il welfare, e anzi fosse in grado di estenderlo alle masse impoverite che vengono dai barconi, sarei il primo a dire «viva la Bce». Ma non avviene questo. In Italia abbiamo visto come Renzi col Jobs Act ha destrutturato lo Stato Sociale per poi tacciare di populismo chi invece vuole difenderlo. L’uguaglianza è come la fame, è un bisogno permanente. E Marine Le Pen si rivolge a quelle classi subalterne abbandonate dalla sinistra».

In realtà in Francia il candidato Melenchon ha ottenuto al primo turno il 17% prendendo i voti, in primis, dei ceti sociali più deboli. Non crede possa esistere una terza via, tra i Macron e i Le Pen?
«L’unica speranza è questa. E devo dire che, per fortuna, in Europa esistono alcune forze di sinistra alternativa. Ad esempio si parla troppo poco della Linke in Germania, è un modello molto interessante».

Beh, penso a Podemos e al suo “populismo di sinistra”. Così è stato bollato anche Melenchon. Su questo che idea si è fatto?
«Respingo in toto la categoria del populismo. È ridicola dal punto di vista lessicale e non ha alcun valore concettuale né pratico. Populisti sarebbero tutti quelli che si richiamano al popolo, e allora lo sono tutti a partire da Giuseppe Mazzini? Altrimenti chi sono? Castro era populista? Il partito popolare, che parlava di “popolo” e rifiutava la nozione di “lotta di classe”, era populista? Lenin era populista? Salvini è populista? Dunque Garibaldi, Lenin, Sturzo tutti populisti? È un termine che viene utilizzato per squalificare coloro che non sono d’accordo col sistema dominante vigente: uno strumento volgare di lotta contro qualcuno».

«300 agenti, cani, cavalli, mezzi blindati e un elicottero = 52 migranti portati in Questura, nessuno denunciato». Questa l'incredibile prova di forza effettuata nella "capitale morale d'Italia" per far paura ai fuggitivi dagli inferni che abbiamo concorso a realizzare.

il Post, 3 maggio 2017

Nel primo pomeriggio di martedì 2 maggio la polizia ha fatto una grande operazione alla Stazione Centrale di Milano, che ha portato al trasferimento in Questura di 52 immigrati, nessuno dei quali è poi stato denunciato. All’operazione hanno partecipato 300 poliziotti, alcuni mezzi blindati, squadre cinofile, agenti a cavallo e un elicottero. Prima dell’operazione le serrande che chiudono gli ingressi in piazza Duca d’Aosta della stazione della metropolitana Centrale sono state abbassate, e anche i cancelli che consentono l’accesso all’atrio della stazione sono stati chiusi. La stazione della metropolitana è rimasta aperta con l’accesso limitato agli altri ingressi, mentre chi doveva prendere il treno è dovuto passare dagli ingressi laterali, con disagi e rallentamenti. Gli agenti si sono avvicinati alla stazione chiudendo i tre lati di piazza Duca d’Aosta per impedire alle persone di scappare.

l motivo dell’operazione è che commercianti e residenti da un po’ di tempo denunciano una situazione di degrado della Stazione Centrale: soprattutto negli ultimi mesi sono aumentati i migranti che dormono intorno alla stazione, vicino alla quale si trova anche l’hub per migranti di via Sammartini. Una decina di giorni fa un migrante aveva avuto una breve colluttazione con un militare, in piazza Duca d’Aosta: ne era nato uno scontro tra un gruppo di migranti che aveva circondato alcuni soldati, tirando loro qualche oggetto, prima che intervenissero degli altri militari a disperdere la folla.

Dei 52 immigrati portati ieri in Questura dalla polizia, però, nessuno è stato denunciato. Quattro di loro, senegalesi e gambiani, hanno anzi scoperto che la loro domanda per ottenere lo status di rifugiato era stata accolta. In piazza Duca d’Aosta c’era anche il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, che ha fatto delle dirette su Facebook elogiando i controlli ed è stato contestato da qualche passante. L’assessore alla Sicurezza di Milano Carmela Rozza, del PD, ha detto di essere d’accordo con l’operazione: «Da tempo abbiamo chiesto a Prefettura e Questura una massiccia campagna di identificazione di coloro che stazionano in tutta l’area della Stazione Centrale e intorno all’hub di via Sammartini». Pierfrancesco Majorino, assessore al Welfare e sempre del PD, ha invece detto di non essere d’accordo e di preferire «la cultura degli interventi mirati, continuativi e condotti nel silenzio». Patrizia Bedori, consigliera comunale del M5S, ha detto: «Nel rispetto della legalità non possiamo che essere contenti del blitz. Speriamo non resti un fatto isolato».

«il manifesto, 4 maggio 2017
La destra non si accontenta: né quella radicale Lega-Fdi né quella sedicente «moderata» azzurra. Anzi, è lo stesso Silvio Berlusconi a farsi sentire per ordinare ai forzisti di votare contro la legge che modifica l’articolo 52 del codice penale sulla legittima difesa, dopo la bocciatura dell’emendamento leghista, sottoscritto da La Russa per Fdi e Gelmini per Fi, che voleva introdurre la «presunta proporzionalità» tra la risposta dell’aggredito e l’offesa dell’aggressore. Se fosse stato accolto, avrebbe reso superflue le indagini del magistrato. Sarebbe stata una licenza di uccidere. «Noi vogliamo rafforzare la legge ma senza cedere alle follie della Lega. Bisogna lasciare al giudice margini di discrezionalità», dice il relatore Armini, Pd, spiegando il no all’emendamento della destra unita.

Sfumata la possibilità di un voto unitario di maggioranza (ma senza Mdp) e destra riunificata, la maggioranza stessa si compatta grazie a una modifica proposta dai centristi di Area popolare che rende la norma ancora più rigida ma senza sostituire del tutto la legge di Lynch al codice penale. Sarà considerata legittima difesa «la reazione a un’aggressione commessa in tempo di notte, ovvero la reazione a seguito dell’introduzione nei luoghi ivi indicati con violenza alle persone o alle cose, ovvero con minaccia o con inganno». Sarà altresì legittima difesa sparare «in situazioni comportanti un pericolo attuale per la vita, l’integrità fisica, per la libertà personale o sessuale». Lo Stato inoltre, grazie a un emendamento del Pd approvato dall’aula, risarcirà le spese legali della vittima in caso di assoluzione.

Lega e Fdi si scatenano. Accusano la maggioranza di «tutelare i delinquenti e umiliare le vittime» e di «preferire i carnefici alle vittime». Forza Italia oscilla. Il capo gira il pollice: «Noi non siamo certo per la difesa “fai da te” ma di fronte al pericolo deve essere garantito il diritto alla difesa. Il testo votato dalla maggioranza delude queste aspettative, non dà risposta al tema centrale del diritto alla difesa, lascia alla discrezionalità del giudice margini eccessivi. Chi è costretto a usare un’arma per difendersi non può essere sottoposto alla lunga e umiliante trafila di un procedimento giudiziario nel quale deve giustificare le sue azioni». Però i deputati forzisti votano l’emendamento «deludente» salvo poi, a meno di improbabile sorprese, pronunciarsi contro la legge nel complesso, stamattina, nel voto finale.

La legge che Montecitorio modificherà oggi era stata varata proprio da Berlusconi e dall’allora guardasigilli Castelli. L’allargamento del diritto di sparare anche in caso di «violenza contro le cose», cioè di semplice furto senza minaccia per la vita o l’integrità della vittima, era già in quel testo. La non punibilità era però subordinata alla presenza di un’offesa «ingiusta» e soprattutto all’accertamento di una «difesa proporzionata all’offesa». Il nuovo testo dunque non lascia affatto le cose come stanno, come sostiene la destra. La nuova norma limita fortemente i margini di discrezionalità del magistrato, che riguardavano essenzialmente proprio la proporzionalità tra l’offesa e la reazione. Quel che la destra chiedeva era di cancellare del tutto il ruolo del magistrato.

La legge passerà oggi col voto del Pd e di Ap. La situazione è dunque paradossale. Un premier e un governo targati di fatto Pd, a fronte di un calo accertato della criminalità, aggravano ulteriormente una delle leggi peggiori varate dalla destra, la quale non si accontenta e lucra consensi chiedendo di più. È l’Italia del 2017, bellezza. Un bel posticino.

«In Francia tira la stessa cattiva aria che nel resto d’Europa. Non sembra che l’opinione pubblica se l’attendesse. Emmanuel Macron, da parte sua, non sembra rappresentare un incrollabile baluardo contro l’estrema destra, al contrario».

Sbilanciamoci.info, newsletter n.516, 5 maggio 2017

Al secondo turno delle elezioni presidenziali tramontano i vecchi partiti e Emmanuel Macron e Marine Le Pen si contendono una Francia divisa – socialmente e geograficamente – e incerta. Le Pen ha incassato sette milioni e mezzo di voti, più del doppio di quanti ne avesse fatti suo padre nello scontro con Chirac nel 2002. […]

I risultati del primo turno delle elezioni presidenziali a Parigi sono stati un poco lugubri: al secondo turno accanto a Emmanuel Macron è uscita Marine Le Pen, con sette milioni e mezzo di voti, più del doppio di quanti ne avesse fatti suo padre nello scontro con Chirac nel 2002. Il risultato finale non è affatto sicuro.
Le cose sono andate finora così: il Partito Socialista aveva indetto le primarie per scegliere il candidato. Ma quando è uscito Benoît Hamon – uno dei leader della sinistra, l’altro era Montebourg – il Partito Socialista (PS) non è stato contento, a cominciare da Hollande. Credo sia stato Hollande medesimo a introdurre al governo Emmanuel Macron, giovane brillante economista, allievo della banca Rothschild. Senonché Macron, a un anno delle elezioni presidenziali, ha deciso per conto suo di presentarsi, contando sul fatto che il PS non si sarebbe mobilitato per Hamon.

E infatti è andata cosi: nell’aprile 2016, Macron ha fatto sapere che avrebbe concorso alle elezioni. Hollande non lo ha appoggiato, ma lui si è presentato ugualmente nel novembre 2016, lanciando a proprio sostegno non un partito ma un “movimento”, En Marche. La sua fortuna è stata fulminea, dovuta anche al fiasco del partito di destra classico, Les Républicains, il cui candidato François Fillon, già premier di Sarkozy, ha rappresentato la destra classica, ma è sprofondato in una sordida storia di compensi per moglie e figli come assistenti parlamentari. Quando questo pasticcio è uscito, ha rifiutato di ritirarsi: risultato, è rimasto escluso dal secondo turno della competizione elettorale. Emmanuel Macron può vantarsi di aver liquidato i due interlocutori classici delle elezioni post-golliste, Partito Socialista e Les Républicains.

Analizzando il voto del primo turno, la Francia appare divisa in due, socialmente e geograficamente. Socialmente, Marine Le Pen è stata votata sopratutto da povera gente: con meno di 3000 euro di reddito l’anno, e priva di istruzione medio-alta. Macron ha raccolto i voti della classe media (comprendendo anche gli operai) decisa di abbandonare la sinistra e di quelli che avevano un diploma medio-superiore. Nella competizione si è inserito anche un uomo di sinistra, Jean-Luc Mélenchon (La France Insoumise), che non ha voluto unire i suoi voti a quelli di Hamon (considerando il PS più o meno un traditore della classe operaia) ed è risultato quarto al primo turno. Ecco i risultati principali:
Emmanuel Macron: 8 657 326 voti (24,01 %); Marine Le Pen: 7 679 493 voti (21,30%); François Fillon (primo escluso): 7 213 797 voti (20,01%), cioè 450 000 voti meno di Marine Le Pen; Jean-Luc Mélenchon (secondo escluso): 7 060 885 voti (19,58%); Benoit Hamon (quinto ma con molto distacco): 2 291 565 voti (6,36%).

Geograficamente, la Francia appare divisa fra Nord-Est e Sud-Ovest, il primo tutto in preda al Front National, salvo Parigi e Lille, e il Sud-Ovest, in gran maggioranza su posizioni anti-Le Pen, con un paio di dipartimenti a sinistra e qualche altro al Fronte Nazionale. I due candidati operai, di tendenza trotzkista, molto simpatici in televisione, sono usciti quasi ultimi, Nathalie Arthaud 0,64% e Philippe Poutou 1,09%. Tutti, salvo Jean-Luc Mélenchon, hanno dato la parola d’ordine “votare contro il Front National di Marine Le Pen” (Mélenchon si riserva di interpellare prima i suoi iscritti e di far sapere la decisione venerdì prossimo).

Oltre alla differenza sociale (occupazione e cultura), c’è una ulteriore differenza fra i votanti dei due candidati. Marine Le Pen è la candidata che ha avuto più voti nella maggioranza dei comuni, che in Francia sono molto frammentati, mentre Macron prevale nelle città. Non si può essere certi – quali che siano gli appelli delle altre forze politiche – che essa sia sconfitta fin da oggi.

Nella campagna elettorale, Marine Le Pen ha mantenuto qualche differenza da suo padre (ha smentito gli attacchi di lui agli ebrei; ha però considerato responsabili del più grande rastrellamento
anti-ebraico a Parigi nel 1942 – al Vel d’Hiv – le forze di occupazione tedesche, rendendone innocente la Francia), la sua parola d’ordine è stata “Je suis le Parti du peuple”, indicando i nemici del popolo nell’Unione Europea e nella finanza, nonché impegnandosi contro i migranti, sospettati di introdurre di fatto i simpatizzanti dell’ISIS (di qui la sua richiesta di finirla con l’accogliere i migranti e di espellere tutti quelli fra di loro che sono indicati come potenzialmente pericolosi, quelli con “schede S”). In generale la sua campagna è stata realmente protezionista e populista; purtroppo abbastanza vicina a quella di Jean-Luc Mélenchon, sul quale cadono oggi i fulmini di tutti i “democratici per bene”.

Il primo turno delle presidenziali indica realmente un crollo dei partiti democratici tradizionali e in particolare dei socialisti; e ugualmente una reale affermazione del Front National che è una prima assoluta nella storia della Repubblica. La mancanza di coesione fra gli altri partiti, e sostanzialmente l’isolamento di un debole Partito Socialista, rendono possibile, almeno in via di principio, la vittoria di Marine Le Pen come Presidente. Le conseguenze politiche per la Francia e quelle per l’Europa sono evidenti.

Una risorgenza della sinistra è tutta da inventare. Non sembra che essa possa nascere dal PS e l’estrema sinistra è troppo debole. Non ci sono che poche manifestazioni antifasciste; la più grossa dovrebbe essere il primo maggio a Parigi, place de la République, ma non è un partito particolare a indirla.

Naturalmente un esito vittorioso di Le Pen creerebbe non pochi problemi per la successiva scadenza elettorale, le elezioni legislative si terranno l’11 e 18 giugno. In realtà non sembra che siano verosimili né una maggioranza di governo, né una di opposizione. In conclusione, in Francia tira la stessa cattiva aria che nel resto d’Europa. Non sembra che l’opinione pubblica se l’attendesse. Emmanuel Macron, da parte sua, non sembra rappresentare un incrollabile baluardo contro l’estrema destra, al contrario.
La politica ridotta a tifoseria. Così anche il direttore del giornale del neoliberismo italiano cede allo spirito dei tempi. Non ammette che a qualcuno non vada bene né l’uomo della Trilateral Commission né l’apostolo della destra xenofoba e che rifiuti di appoggiare sia l’uno che l’altro.

la Repubblica, 4 maggio 2017

DUNQUE si può essere di sinistra e non votare contro Marine Le Pen: pur di non votare per Macron. È il nuovo mantra — “né né” — che attraversa un pezzo di elettorato francese radunato nel 19,58 raccolto da Mélenchon al primo turno, e lo assolve preventivamente mentre viaggia verso l’astensione al ballottaggio decisivo per il futuro della République, e forse dell’intera Europa. Manca il tripode con l’acqua di Ponzio Pilato per lavarsi le mani sullo spazio imperiale del Pretorio, all’ora sesta di un giorno in cui il cielo si oscurò. Tutto il resto è pronto. Intellettuali, blogger, filosofi, storici, sindacalisti hanno già fornito la giustificazione teorica a questo tradimento repubblicano che ha come posta in gioco visibile il palazzo dell’Eliseo, ma in realtà arriva a intaccare le fondamenta dello spirito democratico francese e i suoi valori di fondo ereditati dalla Rivoluzione.

Naturalmente c’è la ribellione allo strapotere della finanza, delle banche, dell’Europa, radunate in una trimurti ingigantita e resa così simbolica delle sofferenze di questi anni da diventare il nemico assoluto, ideologico, politico, culturale, addirittura morale. Basta guardarsi intorno per capire le ragioni di questo rigetto. E se non basta, si può ricordare una vecchia frase di Camus: «mai il numero di persone umiliate è stato così grande».

Ma qui, con ogni evidenza, c’è qualcosa di più. Non un progetto alternativo, un’obiezione culturale, un’idea che metta in movimento una politica diversa, di cui avremmo bisogno. C’è quasi un odio antropologico — che non ha nulla a che fare con la politica — per la figura fisica e insieme fantasmatica del tecnocrate che gioca la sfida del governo, mettendo le sue carte sul tavolo, senza camuffare la sua cultura e i suoi programmi nell’opportunismo della rincorsa populista. Così, mentre l’indebolimento degli anticorpi repubblicani e la rabbia popolare facilitano la dediabolisation di Le Pen, un moderno diavolo borghese sale sul trono vacante e diventa il bersaglio della sinistra delusa, dispersa, furiosa. È il politico che crede nella vocazione europea della Francia, nella funzione storica di guida che il Paese ha giocato nella Ue con la Germania, nei vincoli della responsabilità, nella modernizzazione post- ideologica. Tutto quello (in una versione franco-centrista) che nel malandato e diseredato lessico della sinistra italiana abbiamo provato a chiamare da anni “riformismo”, qualcosa che non c’è, e dovrebbe in poche parole coniugare la speranza dell’emancipazione sociale con la responsabilità di governo.

Tra i “né né” naturalmente Michel Onfray è in prima fila, con una vecchia patente di sinistra e una furia iconoclasta che lo ha reso popolare da anni: da Valls ad Attali, a Kouchner, a Cohn-Bendit, «sono i promotori forsennati di una politica liberale che hanno permesso a Marine Le Pen di fare il botto e arrivare al secondo turno». E lo storico Emmanuel Todd gli fa eco nell’intervista ad Anais Ginori: «Votare Front National è approvare la xenofobia, ma votare Macron è accettare la sottomissione. Per me è impossibile scegliere. Considero il lepenismo e il macronismo come due facce della stessa medaglia. Le Pen è il razzismo, Macron è la servitù alle banche e alla Germania. Per questo mi astengo con coerenza, anzi con gioia, aspettando che nasca un mondo migliore».

Con l’astensione ovviamente la sinistra pura e dura ingigantisce il rischio che Marine Le Pen riempia questa attesa accomodandosi sulla poltrona dell’Eliseo. Ma non importa più. L’odio nei confronti del riformismo ha bisogno di minimizzare i rischi del post-fascismo, per sdoganare l’astensione tranquillizzando le coscienze inquiete davanti alla xenofobia del Front. Se Macron è uguale a Le Pen, allora Marine definitivamente non viene più dall’inferno, è una nemica ma come tanti, anzi non è nemmeno la peggiore, entra nella normalità del gioco politico francese, culturalmente accettata, moralmente scusata, storicamente amnistiata. Anzi, esercita una sorta di tacita egemonia culturale, quando la sinistra per accusare la finanziarizzazione macronista usa i termini tipicamente lepenisti di “sottomissione” e “servitù”, che non hanno più al centro il cittadino come soggetto politico universale, secondo la lezione francese, ma lo spirito di Francia, collettivo, nazionalista e patriottico, che Marine vuole resuscitare, per scagliarlo contro l’Europa tiranna.

La frattura culturale e l’infiltrazione avviene anche a destra, nel campo repubblicano, con “tradimenti” singoli e furbizie isolate, come denuncia Alain Juppé, oggi sindaco di Bordeaux, che non ha dubbi: «la vittoria di Le Pen sarebbe uno scisma geopolitico, un disastro economico, una sconfitta morale. Per questo serve un appello solenne a resistere alla tentazione di rompere tutto, di rovesciare il tavolo». È il vero sentimento nazionale, per il bene della Repubblica, che affiora a destra e fatica ad emergere nella sinistra (due terzi degli elettori di Mélenchon sono per l’astensione) ipnotizzata invece dal risentimento per il nuovo nemico, al punto da perdere quel senso della responsabilità nazionale che l’ha sempre contraddistinta.

Perdendo intanto anche il senso morale delle proporzioni, quando Todd teorizza che c’è più da temere «nella fanatizzazione dei benpensanti che nella risorgenza del fascismo ». Faceva tristemente eco, nel corteo del Primo Maggio e a poche ore dalla più pericolosa sfida lepenista alla Repubblica, quello striscione sindacale in boulevard Beaumarchais che archiviava ogni criterio di distinzione, base di qualsiasi buona politica: “Peste o colera, né l’una né l’altra”. Per la sinistra, non è ancora passata l’ora sesta.

I ritratti si fanno con le luci e con le ombre, poichè di ombre e luci è fatta la realtà. Ripubblichiamo qui un interessante dibattito tra due persone che si stimavano, e perciò si criticavano: Valentino Parlato e la nostra collaboratrice Carla Ravaioli. Ci sembra che questo dialogo riveli le ombre del "veterocomunismo".

”Il disastro ambientale. Ne discutono molto animatamente Carla Ravaioli, e Valentino Parlato”. Su il manifesto del 4 febbraio 2007" (in eddyburg il 9 agosto 2008)

Carla Ravaioli e Valentino Parlato, un'ecologista e un economista, disputano da molti anni sui problemi centrali della nostra vita

Valentino. D'accordo, avete ragione. Però tra voi ambientalisti c'è una componente di fondamentalismo, che nuoce.
Carla. Con quello che sta succedendo, ti sembra il caso di parlare di fondamentalismo?
V. Mi riferisco a quelli che mi annunciano di continuo la fine del mondo. E se domando quando accadrà, mi rispondono: tra 5.000 anni. E io dico: chi se ne frega.
C. Oggi nessuno ti dirà nulla del genere. Il Wwf ha parlato del 2050, data da cui cominceremo a consumare il Pianeta, non più i suoi frutti. La Commissione Europea pone i prossimi cinquant'anni come lo spazio entro cui dovremo darci molto da fare per contenere l'effetto serra, se no saranno guai tremendi...

V. Ma voglio insistere sui lati deboli dell'ecologismo. Anche tu, in un libro, scrivi di una mercificazione dell'ecologia, attraverso la pubblicità o che altro...
C. Ma non vedo come questo possa apparire un lato debole dell'ecologismo. E' invece la denuncia di un fenomeno tipico dello stesso sistema che, facendo merce di ogni cosa, e moltiplicandone all'infinito la produzione, crea lo squilibrio ecologico.

V. Cioè, l'economia capitalistica riesce a integrare, a trasformare in merce anche le vostre posizioni?
C. Accade, sì. Pensa al business verde che oggi tutti inseguono furiosamente... ti pare un fatto positivo? Che riduca il rischio ambientale?

V. No.
C. Appunto. Io cito questo fatto per sottolineare la pervasività, l'onnipresenza, la capacità di raggiungere ogni espressione della realtà che sono tipiche del neoliberismo. Il consumismo, una delle cause prime della crisi ecologica, nasce così, con una manipolazione continua dei cervelli.

V. Avete un atteggiamento strano. Lo trovo anche scorrendo i tuoi scritti... L'economia, che era la radice del progresso e del benessere, è diventata cattiva.
C. L'economia capitalistica...

V. Voi enfatizzate in modo fondamentalistico l' idea che la distruzione dell'ambiente dipende dal capitalismo, dai meccanismi di accumulazione.
C. Non c'è proprio bisogno di enfatizzare. E' l'accumulazione in sé che contraddice la realtà naturale. Insomma, se vogliamo farci capire da chi ci legge, devi lasciarmi ribadire i punti fondamentali del problema. 1) Il nostro pianeta è una quantità finita e non dilatabile, incapace quindi di alimentare un'economia in continua crescita (ricordando che tutto quanto si produce è «fatto» di natura, minerale, vegetale, animale); 2) Analogamente, il pianeta non è in grado di assorbire, metabolizzare e neutralizzare i rifiuti, solidi, liquidi, gassosi, derivanti da ogni tipo di produzione. I quali inquinano terra, acque, aria, causando lo squilibrio dell'ecosfera.

V. Rifiuti che diventano un'altra base di speculazione capitalistica...
C. Sì, ma è un aspetto minore, un «danno collaterale».

V. Sei tu che ne parli. C. Certo, ma ne parlo in poche righe su un intero libro, neanche tanto piccolo. A me pare che tu, da sempre notoriamente in posizione di drastico rifiuto verso l'ambientalismo, oggi che è ormai impossibile negare l'esistenza del problema, tendi a cogliere gli aspetti più discutibili della militanza verde. Che esistono, come no, ma che inseriti innanzitutto nel discorso generale acquistano un altro valore... Non è così che potrai negare o sminuire la gravità della crisi ecologica.

V. Secondo me l'ambientalismo attuale è romantico. Se dite che i guasti dell'ambiente sono causati dal capitalismo, dovete dire di conseguenza: il nemico principale da abbattere è il capitalismo.
C. Io lo dico. Anche in questi pochi scritti miei che hai scorso. Ma non solo io. Gran parte degli autori più qualificati che si occupano della materia, da Gorz a Daly, a Martinez-Allier, a Giovenale, a Passet, a Foster, a Beck, a Cini, (per limitarmi a pochi nomi) accusano il capitalismo. Ma anche chi non lo nomina direttamente, lo dice quando indica la crescita illimitata come responsabile del dissesto ecologico. Certo, c'è anche un bel po' di ambientalisti che evitano con cura di accusare il capitalismo.

V. Io sono un veterocomunista, e quindi penso che per bloccare il disastro del mondo ci vuole un potere.
C. Faccio fatica a seguirti su questa strada...

V. Insomma come lo blocchi il disastro del mondo?
C. Io credo che occorra una rottura culturale, una discontinuità storica. Il mondo cambia senza sosta. Le vecchie rivoluzioni non servono più. Oggi bisognerebbe liberare i cervelli: il consumismo è una delle peggiori forme di corruzione mentale, anzi esistenziale, oltre che una delle prime cause del guasto ecologico.

V. Il consumismo non è colpa dei consumatori, ma dei produttori che spingono i consumatori a consumare.
C. Ma è quello che ho appena detto. E lo dico da una vita.

V. Allora, siccome i produttori sono forti, come ne abbatti il potere?
C. Prima di dare le risposte (che io ovviamente non ho, che credo nessuno oggi abbia) forse si dovrebbe cercare di porre le domande giuste. Temo che quella che tu poni non lo sia. Il fatto è che fa riferimento ai modelli storici delle sinistre, che non servono più. La storia è una lunga serie di fatti che prima non c'erano stati. La Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Sovietica, sono stati eventi mai accaduti prima. E se oggi l'intera comunità scientifica mondiale chiede il taglio del 60% dei gas serra, questa è una rivoluzione.

V. Allora anche Kyoto è stata una rivoluzione ...
C. Avrebbe potuto esserlo, ma la timidezza delle proposte, e soprattutto l'ostilità dei grandi potentati economici, e la mancata firma di numerosi stati, Usa in testa, l'hanno di fatto vanificata. E' rimasta però un preciso antefatto per tutte le direttive a seguire. Ma, permettimi, provo a girare a te la domanda. Tu chi attaccheresti? Dato e non concesso che in difesa dell'ambiente tu voglia abbattere questo potere, da dove cominceresti?

V. Comincerei dagli oppressi. Un'organizzazione forte e anche violenta degli oppressi, tale da imporre il suo potere. Perché combattere il consumismo, significa fronteggiare interessi fortissimi, e ci vuole un forza enorme per vincerli.
C. Quali oppressi? Ce n'è di tanti tipi... Io proverei a fare un altro discorso. Tra le sinistre e l'ambientalismo, non' c'è mai stato un feeling positivo. Credo che sia stato un grave errore, delle sinistre innanzitutto, ma anche dei Verdi. Quando si litiga ognuno dà il peggio di sé. L'errore delle sinistre è innanzitutto aver trascurato il fatto che a pagare più pesantemente i danni ambientali sono sempre i poveri. Sono gli operai che lavorano su processi tossici e cancerogeni. I morti della Montedison, di Seveso, di Bohpal, te li ricordi? Sono quelli che non riescono a salvarsi dalle alluvioni, i ricchi se le cavano sempre in qualche modo... E i profughi da terre desertificate, da laghi e fiumi senza più pesce, da paesi sommersi nella costruzione di centrali idroelettriche... Oggi si calcolano sui 50 milioni i profughi ambientali. Tu parli di oppressi: non sono degli oppressi tutti questi?

V. Ma voi questo aspetto sociale lo mettete poco in rilievo...
C. Io l'ho sempre detto. E scritto, anche sul manifesto. Ma le sinistre sono rimaste ferme a una miope difesa della fabbrica, anche inquinante, in nome dell'occupazione. Che è un problema reale, chi lo nega, ma non cancella la gravità del problema ecologico, anche in rapporto al benessere dei lavoratori.

V. E i verdi non hanno saputo fare altro che ridurre il discorso alle scempiaggini di un antindustrialismo indiscriminato. Gli ambientalisti seri devono darsi da fare per superare queste posizioni.
C. E le sinistre devono capire che la crescita da loro invocata ogni tre parole non solo distrugge l'ambiente, ma non risolve nulla sul piano sociale. Negli ultimi decenni il prodotto ha continuato a salire, ma sono aumentate, e fortemente, anche le disuguaglianze. Lo dicono tutti, persone al di là di ogni sospetto di estremismo, come Stiglitz, Fitoussi, e Soros, perfino Lutwak... Allora perché proprio le sinistre debbono intestardirsi su questa strada?

V. Ma insomma per i poveri Cristi, che si fa? Chávez, ad esempio, è socialista, per prima cosa vuol dar da mangiare agli affamati, e che fa, aumenta lo sfruttamento del petrolio, cerca di venderlo bene... E' un circolo vizioso.
C. Usa gli strumenti disponbili. Che altro può fare? Oggi tutti i massimi problemi hanno assunto una dimensione sovranazionale, che però condiziona anche i singoli paesi. Sono problemi che soltanto a livello sovranazionale si potranno risolvere, forse. E non dimentichiamo un altro fatto: La Fao, che non è un organismo antisistema, afferma che la produzione mondiale di cibo basterebbe a sfamare tutti. Ma circa il 40% del cibo prodotto in Occidente viene distrutto. Per tenere alti i dazi, per difendere varie categorie di produttori, ecc. Non si tratta dunque di produrre di più, ma di distribuire in modo meno iniquo.
V. I verdi di distribuzione non parlano. Inoltre la distribuzione avviene in questo modo perché ci sono poteri forti interessati a questo. come fare senza abbattere quei poteri? Tra voi ambientalisti, l'idea di abbattere un potere non c'è. Vogliamo costruire un potere contrapposto, vogliamo che insieme al problema dello sfruttamento proletario, tema fondamentale di tutti i vecchi socialismi, anche la distruzione dell'ambiente diventi fondamentale per le sinistre d'oggi. Quello che ci vorrebbe è un nuovo comunismo. Resta però il fatto che se oggi, rebus sic stantibus, riduciamo la produzione, noi facciamo solo disoccupazione e morti di fame.
C. Con tutti i nostri enormi progressi, scientifici e tecnologici, oggi saremmo in condizione di sconfiggere la povertà, di dare benessere a tutti, di vivere a lungo tutti in buona salute. Invece nel sud del mondo ci sono 850 milioni di persone affamate, mentre in Occidente l'obesità da sovralimentazione è diventata una malattia sociale: una sorta di tremenda metafora della società attuale. Saremmo in grado di produrre il necessario e anche non poco superfluo per l'intera popolazione del globo, lavorando tutti un tempo molto limitato. E invece abbiamo masse di disoccupati e di precari, gente soggetta a sfruttamenti da protocapitalismo, costretta a orari pesantissimi e a straordinari di fatto obbligati. Il tutto per produrre quantitativi crescenti di merci inutili, di durata sempre più breve, per lo più destinate nel giro di poche settimane a finire in discarica. E si torna all'inquinamento del mondo: tutto si tiene. Queste sono le tue res. Per esempio, riprendere l'idea della riduzione degli orari di lavoro, riprenderla seriamente, non sarebbe un buon inizio per smuoverle?
V. La riduzione degli orari non mi pare al centro del discorso ecologista...
C. Certo che no. Ma in fondo l'ambientalismo è un movimento, compito dei movimenti è porre una questione. La sintesi politica è compito delle forze politiche. E d'altronde l'ambientalismo indica soluzioni...
V. Sì, la decrescita. La decrescita, scusami, è una scemenza totale.
C. Non sono d'accordo. Certo, la decrescita non è un programma. Però indica inequivocabilmente quella che è la causa principale della crisi ecologica, cioè l'accumulazione capitalistica. E in un mondo che sa dire solo crescita crescita, gridare decrescita significa mettere la crescita, il Pil, la produttività, la competitività, tutti i totem dell'economia neoliberista, in rapporto con il disagio e le paure che lo squilibrio ecologico ha ormai creato tra la gente. Il movimento della decrescita riflette su un tipo di vita che non continui a mettere a rischio l'ecosistema e la nostra stessa sopravvivenza. Perché questo bisogna fare: ripensare radicalmente il nostro vivere.
V. No, contro tutto questo o il movimento ecologista diventa comunista o non si farà un passo avanti.
C. Secondo me, sono le sinistre che debbono diventare ambientaliste, facendo proprio tutto il positivo che l'ambientalismo ha detto, e devono saperlo usare per trarne una politica completamente diversa da quella attuale. E diversa anche da quella storica, che pur combattendo e spesso vincendo grosse battaglie a favore del lavoro, di fatto non ha mai messo in discussione l'ordine dato. Tu vorresti che i verdi diventassero comunisti... Ma quanti sono i comunisti oggi?
V. Pochi. Assai pochi.
C. Tu prima avevi ragione parlando di un nuovo comunismo. Ma le sinistre, nel loro non facile rapporto con i Verdi, non si sono accorte della dimensione eversiva che l'ambientalismo contiene. Che consiste appunto nella critica dell'accumulazione, che nessun comunismo, da Lenin a D'Alema, ha mai messo in discussione. Ma, il mondo è cambiato e diventa sempre più piccolo. Come dice Wallerstein, non ci sono nuovi spazi da occupare e utilizzare per la produzione di plusvalore, mentre la crescita, oltre ad essere ecologicamente distruttiva, dal punto di vista sociale oggi non dà risultati apprezzabili. Sarebbe necessario rileggere in questa chiave i problemi del mondo per tentare di mettere a fuoco un nuovo comunismo.
V. Fino a che voi Verdi non vi metterete in testa che occorre qualcuno che comandi, sarete solo dei predicatori inutili. Non basta dire cose giuste. Attorno agli obiettivi giusti bisogna organizzare una forza. Senza forza non si fa niente.
C. Tu sei ancora fermo alla rivoluzione armata, insomma...
V. Non penso alle armi, ma a un partito, a una forza sociale e anche politica e di cultura.
C. Io alla necessità della forza non ci credo, non ci voglio credere. La forza, anche usata per i fini migliori, finisce per imporre all'operazione un'impronta negativa, un'ipoteca che la snatura. E però, sono d'accordo, sarebbe necessario un soggetto forte che si facesse carico del problema. Io da tempo penso all'Europa. L'Europa con la sua storia, la sua cultura... L'Europa certo colpevole di orrendi misfatti, dal colonialismo alla shoah, ma anche patria dell'illuminismo, del socialismo, dei diritti del cittadino, dello stato sociale... potrebbe forse essere il moderno sovrano, capace di orientare il mondo, o quanto meno di sollecitarlo a farsi carico di un problema sempre più urgente. Certo, con questi industriali che non capiscono che stanno distruggendo la base stessa della loro attività....Se il mare cresce, il deserti avanzano, i cicloni si moltiplicano...
V. Tra quanti anni questo accadrà?
C. Sta già accadendo. E un domani che pareva lontano è ormai qui.
V. Ma anche le energie rinnovabili... Se fai andare lo stesso meccanismo col sole o col vento invece che col petrolio, le cose non cambiano. E i Verdi puntano solo su questo...
C. Con energie rinnovabili attive su vasta scala i gas serra diminuirebbero, e questo non è trascurabile. Ma, sono d'accordo, è necessaria una strategia molto più complessa. I Verdi propongono anche molte altre cose, ma un compito di questa portata, come arrestare la catastrofe ecologica, cioè necessariamente cambiare il modello di produzione, distribuzione e consumo, non è cosa che possano fare i Verdi. Questo è un compito che tocca alle sinistre.
V. Sono d'accordo. Il difficile è il come...
C. Se ci fosse una precisa, consapevole, volontà politica delle sinistre, sarebbe una buona base di partenza. E ci sono anche cose che si potrebbero fare subito. Ad esempio, riscaldamento e refrigerazione: invece di soffrire il caldo d'inverno e il freddo d'estate, come accade oggi, regolare le temperature sui 20-21° d'inverno e 28-29° d'estate, in case uffici negozi di tutto il mondo: sarebbe un risparmio energetico niente male, eh?
V. Hai detto che si possono fare più cose...
C. Sì. Fabbricare merci destinate a durare di più, come accadeva una volta, e non programmare automobili, frigoriferi, lavatrici, da sostituire nel giro di quattro-cinque anni. E' una cosa che non richiederebbe riconversioni industriali, solo volontà politica.
V. Con caduta dei consumi...
C. Appunto. Si parlava di rivoluzione, no? Ma si potrebbe pensare a una cosa che proponevo nel mio ultimo libro. Oggi le amministrazioni di sinistra, centrali e locali, non sono poche nel mondo. Se ognuna di esse confrontasse le proprie scelte economiche con una serie di norme da osservare, domandandosi ogni volta se si tratti di cosa necessaria, se non esistano più urgenti priorità, quali siano le ricadute dell'opera sul piano ambientale, sociale, sanitario, ecc. In Sicilia, ad esempio, non sarebbe il caso di risanare ferrovie vetuste o addirittura abbandonate, di riparare acquedotti che perdono quantitativi enormi di un liquido sempre più prezioso, o magari di fornire cancelleria ai tribunali, lenzuola agli ospedali, ecc. prima di ostinarsi sul ponte di Messina? Certo, se le sinistre fossero vere sinistre... O ancora: se il mondo decidesse di non fabbricare più armi. Lasciamo per un attimo tutte le ragioni pacifiste o semplicemente umane. Pensiamo solo a quanto inquina la produzione di quantitativi sempre crescenti di armi, il loro trasporto, e il loro «consumo». Ma, se mi consenti, vorrei finire con un'altra cosa, a cui penso da tempo. Io credo che il manifesto in tutto ciò potrebbe avere una funzione non trascurabile. Perché il manifesto è un giornale, ma è anche un soggetto politico. Ecco, perché il manifesto non fa propria la battaglia ambientalista, con dibattiti anche duri, magari con sedute di autocoscienza, ma anche con pubblici confronti con le sinistre istituzionali? Sono convinta che la cosa potrebbe risultare utile. Anche alla diffusione del giornale. Perché no?
V. «Sono un veterocomunista, e quindi penso che per bloccare il disastro del mondo ci vuole
un potere...»
C.«La storia è una sequenza di fatti nuovi. E se oggi la comunità scientifica mondiale chiede il taglio del 60% dei gas serra, questa è una rivoluzione»

Il Fatto quotidiano, 2 maggio 2017
UNESCO, ALFANO:
“ITALIA CONTRO RISOLUZIONE SU GERUSALEMME”.
MA 22 PAESI LA APPROVANO.
ISRAELE: “VERGOGNOSO”

«La Risoluzione si intitola "Palestina Occupata" ed è stata presentata da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan. Critica severamente il governo israeliano per i suoi progetti di insediamento nella Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi dei luoghi sacri di Hebron. Tra i Paesi che si sono pronunciati a favore del testo, ci sono anche Russia e Cina»
L’Italia si è espressa contro contro la risoluzione sul riconoscimento dei luoghi santi in Israele presentata all’Unesco. Il documento, però, è stato comunque approvato grazie al voto di 22 Paesi. “Ho dato precise istruzioni di voto al rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unesco: votare No contro l’ennesima risoluzione politicizzata su Gerusalemme, tra l’altro nel giorno di una importante festa nazionale israeliana”, aveva annunciato il ministro degli Esteri, Angelino Alfano. “La nostra opinione – dice il numero uno della Farnesina – è molto chiara: l’Unesco non può diventare la sede di uno scontro ideologico permanente in cui affrontare questioni per le cui soluzioni sono deputate altre sedi. Coerentemente con quanto dichiarato a ottobre noi, dunque, voteremo contro la risoluzione, sperando che questo segnale molto chiaro venga ben compreso dall’Unesco”.

Il testo della risoluzione, però, è stato adottato a larga maggioranza dall’Unesco. Tra i Paesi che si sono pronunciati a favore del testo, ci sono anche Russia e Cina. Tra le dieci nazioni che si sono opposte, invece, ci sono Stati Uniti, Gran Bretagna, Grecia, Ucraina, Togo, Lituania, Paesi Bassi e Germania, oltre ovviamente all’Italia. Francia, Spagna, India e altri 20 Paesi si sono invece astenuti. La risoluzione era stata presentata da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan. Si intitola “Palestina Occupata” e critica severamente il governo israeliano per i suoi progetti di insediamento nella Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi dei luoghi sacri di Hebron. Chiede inoltre la fine del blocco Israeliano su Gaza senza evocare gli attacchi sferrati da Hamas contro lo Stato ebraico.

“Il tentativo di negare il legame tra Israele e Gerusalemme non cambia il fatto che Gerusalemme è la capitale eterna del popolo ebraico. È una decisione vergognosa“, dice l’ambasciatore israeliano all’Onu, Danny Danon. Prima del voto, il premier israeliano Benyamin Netanyahu aveva duramente criticato il progetto di risoluzione. “Non c’è altro popolo – ha detto – al mondo per il quale Gerusalemme sia così importante e sacra come per gli ebrei, anche se una riunione in programma oggi all’ Unesco cercherà di negare questa verità storica. Denunciamo l’Unesco e ribadiamo quella che è la verità: attraverso la storia ebraica Gerusalemme è stata il cuore della nazione”.

Il 18 ottobre scorso i diplomatici italiani avevano scelto di non prendere posizione sul documento che definisce Israele “potenza occupante” e utilizzava solo la terminologia araba per definire posti simbolici come “il Monte del Tempio“. Una decisione definita come “allucinante” dall’allora presidente del consiglio, Matteo Renzi. E infatti, pochi giorni dopo, l’attuale premier Paolo Gentiloni aveva annunciato che l’Italia era pronta a cambiare la sua posizione sulla risoluzione. “Se ci verranno riproposte anche nel mese di aprile le stesse condizioni: passeremo dal voto di astensione al voto contrario”, aveva detto l’allora ministro degli Esteri. E infatti oggi Alfano ha confermato il pollice verso dell’Italia. CUn annuncio, quello del ministro degli Esteri, che ha raccolto il plauso di Israele. Che però non è bastato per non fare approvare la risoluzione.

la Repubblica, 3 maggio 2017
UNESCO, NO DELL’ITALIA
AL TESTO CONTRO ISRAELE
di Vincenzo Nigra

«Un anno fa Roma aveva scelto l’astensione, ora lo strappo nonostante l’ammorbidimento della risoluzione e il riconoscimento dell’importanza di Gerusalemme per le tre fedi. Netanyahu ringrazia Alfano»
IL COMITATO esecutivo dell’Unesco, l’agenzia culturale dell’Onu, ieri ha votato ancora una volta una risoluzione contro il comportamento di Israele a Gerusalemme e Gaza. Il testo è stato approvato con 22 voti, ma per la prima volta i voti contrari e gli astenuti sono la maggioranza (23 astenuti e 10 no).

Questa volta fra l’altro le pressioni di Israele e Usa hanno fatto saltare un accordo negoziato fra i paesi arabi e gli 11 paesi della Ue che sono membri del Comitato esecutivo. In cambio della garanzia di un voto positivo, gli europei sotto la guida della Germania avevano ottenuto da arabi e palestinesi alcune modifiche al testo. La mozione era diventata quindi meno aggressiva per Israele; per esempio, era stato evitato di citare soltanto con la dizione in arabo i nomi dei luoghi di Gerusalemme. Inoltre era stato inserito un riferimento al fatto che «Gerusalemme è importante per le tre religioni monoteistiche, Giudaismo, Cristianesimo e Islam», riferimento sempre assente nelle versioni precedenti.

La posizione dell’Italia ha però fatto saltare l’accordo dei paesi europei, tanto che alla fine anche Germania, Gran Bretagna e Grecia hanno abbandonato il voto positivo e si sono schierati per il “no” assieme agli Usa. La posizione italiana filo-Israele è figlia dell’ultimo voto su Israele all’Unesco, quello del mese di ottobre, quando in Italia erano scoppiate polemiche anche all’interno del governo. Allora la Farnesina aveva deciso di astenersi come aveva fatto altre volte in passato. Ma il premier Matteo Renzi aveva reagito criticando il ministero degli Esteri e impegnandosi a far cambiare voto nelle prossime occasioni. Allora Renzi aveva definito «allucinante, oltre che incomprensibile e sbagliata» l’astensione italiana: «È il momento di cambiarla».

Nel weekend il primo ministro di Israele Bibi Netanyahu aveva telefonato al ministro degli Esteri Angelino Alfano, mentre l’ambasciatore a Roma Ofer Sachs ha parlato con i consiglieri diplomatici del premier Gentiloni e con alti funzionari della Farnesina. Ieri Netanyahu ha telefonato ad Alfano dopo il voto per ringraziarlo, come rivela lo stesso ministro italiano: «Avevo annunciato al primo ministro la nostra decisione di votare contro la risoluzione, e avevo anche espresso l’auspicio che altri paesi Ue andassero verso la stessa direzione. Netanyahu ha ringraziato l’Italia per questa scelta che rappresenta un esempio per gli altri Paesi, congratulandosi per il ruolo guida dell’Italia».

postilla
Abbiamo già riportato informazioni sulla questione pubblicando l'articolo La cortina fumogena della paura, di Zvi Shuldiner, il 22 ottobre 2016. Lo avevamo pubblicato con una postilla, che riprendiamo integralmente qui di seguito:
«L'Unesco rimprovera il governo israeliano di non consentire gli interventi amministrativi, gestionali manutentori e religiosi nella Moschea di Al Aqsa, il terzo luogo sacro per i musulmani, costruito nell’anno 705. La pretesa di Netanyahu si fonda sul pretesto che sul medesimo sito esisteva, secoli prima, un tempio, sacro agli ebrei , distrutto durante la rivolta contro i romani nell’anno 70. Il lettore che voglia essere un po' più serio di Matteo Renzi legga il testo del documento dell'Unesco, disponibile qui.»
Evidentemente Renzi non l'ha letto, nè alcuno del suo vasto entourage. oppure lo ha letto, ma, poichè il merito delle questioni per lui non conta (a meno che non si tratti di accrescere il suopotere personale, e di garantiursi risorse materiali o morali che lo aumentino, si è m così come ha fatto (tramite l'obbediente Alfano) per far contento il suo feroce oppressore del popolo palestinese ma ben più potente e dovizioso

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