LETTERA APERTA A QUANTI SI SCANDALIZZANO
SE LE O.N.G. HANNO CONTATTO CON GLI SCAFISTI
Due sono i casi: o siete d’accordo con Matteo Salvini e gli altrineonazisti (ce ne sono tanti in giro, malamente mascherati), e vi augurate chei milioni di africani e mediorientali chefuggono dagli inferni che oggi abitano affoghino, oppure siete dagli ipocriti.
In apparenza, meglio essere ipocriti che assassini. Ma avolte l’ipocrisia può essere peggiore: nasconde sotto una maschera dibenevolente umanità una persona che persegue il medesimo risultato pratico,uccidere per conto terzi. Forse è peggio essere un Minniti che un Salvini.
Criminale è infatti ogni politica che assuma il respingimento deiprofughi come obiettivo primario.
Persone che hanno la capacità di leggere almeno un giornalenon possono non sapere quali sono le cause che generano l’esodo di milioni di persone,famiglie, gruppi etnici verso i paesidove si vive come noi viviamo: in Europa, al riparo da guerre, persecuzioni,assenza di nutrimento e di riparo.
Chi ha la competenza necessaria per scrivere un articolo suun giornale, o di preparare un servizio per la televisione, o di fare unalezione in un’università, o tenere un corso in una scuola media o elementare,costui non può non aver percepito la vastità dell’inferno che si è prodottonelle regioni da cui fuggono verso l’Europa. E, di conseguenza, la dimensione dell’umanità che tenta di fuggire dalmale in cui vive.
Le persone che hanno la capacità di guardare con occhicritici la storia di oggi, di ieri e dell’altro ieri non possono non sapere chequell’inferno non è stato prodotto dai suoi abitanti, né solo da governicorrotti, né solo da lotte tribali o religiose, ma dal pesante sfruttamentocompiuto per secoli dai paesi del capitalismo, il quale ha utilizzato, comestrumento del proprio dominio, anche la corruzione dei governi locali e l’accensionedi sopiti conflitti etnici.
In una parola, l’esodo dagli inferni del mondo di oggi non cesseràfinche non si sarà stati capaci di ristabilire equilibri che sono statidistrutti.
Sarà un processo lungo, e non vi sono segni che sia neppure iniziatonelle menti dei potenti della terra: quelli che hanno compreso quel che sidovrebbe fare sono pochi, e privi di altri strumenti che non siano la predicazione.
Se così stanno le cose veniamo al punto di oggi: allo “scandalo”che sarebbe costituito dal fatto che le organizzazioni non governative siaccorderebbero con gli uomini e le organizzazioni che, per danaro (poiché questoè lo strumento col quale si paga qualunque servizio nella società in cui viviamo)aiutano i migranti a fuggire dai loro inferni.
Che cosa dovrebbe fare chi volesse aiutare i profughi afuggire? Forse aspettare che i trafficanti li abbiano gettati in mare, eraccoglierne i corpi inanimati o agonizzanti? Non so se le donne e gli uominidelle ONG siano degli eroi o degli angeli: so che, nell’assenza criminale deglistati, in assenza della predisposizione di canali protetti per l’esodo e di idoneestrutture e politiche per l’accoglienza, sono gli unici che fanno ciò che deveesser fatto – se non si vuole riconoscere d’essere affini ai neonazisti alla Salvini.
«Esperti e tecnici che si dedicano solo a contare e ottimizzare sono pericolosi».
L'Espresso, 11 giugno 2017 (c.m.c)
Se è vero che siamo nell'epoca della post-politica, certo non siamo nella post-economia. Ma chi sono gli economisti di cui ascoltiamo le proposte? Bisognerebbe distinguere fra "numeristi" e umanisti. I primi corrispondono a una fantasia che il profano ha dell'economia: una specie di super-ragioneria, che amministra i conti nazionali. Visione falsa. La vera economia, come dice l'etimo della parola, ha per oggetto la vita quotidiana, il governo dei suoi affanni: le misurazioni quantitative ne sono solo uno strumento.
Václav Havel ha chiarito il pericolo della economia "numerista" nella prefazione al testo di T. Sedlácek L'economia del bene e del male (Garzanti). Gli economisti dediti solo a contare e ottimizzare sono pericolosi. Se affidassimo loro l'amministrazione delle orchestre, eliminerebbero le pause dalle sinfonie di Beethoven. Perché pagare i musicisti quando non lavorano? Forse perché, eliminandole, la sinfonia sparirebbe. La mente umana cerca l'armonia: che include l'eccitazione ma anche la pausa.
Il dilemma numerismo-umanismo tocca le grandi questioni economiche, rivelando la loro profonda natura psicologica. Il fisco sta al centro di ogni politica: particolarmente per il cittadino italiano, consapevole dei compiti sociali, eppure – per secolare mancanza di identificazione con lo stato – spesso suo evasore. Immaginiamo un paese A dove le spese pubbliche corrispondano al 40% del prodotto nazionale (PIL). Se A è un paese virtuoso, lo stato imporrà tasse per il 40% del PIL: i cittadini le pagheranno e il bilancio pubblico resterà in pareggio. Immaginiamo ora un paese B. Anche qui le necessità della spesa pubblica corrispondono al 40% del PIL: ma i cittadini in media nascondono metà dei loro redditi. Cosa farà lo stato? Se li tassasse al 40% andrebbe in bancarotta. Sceglierà una tassazione nominale dell'80%. Presumibilmente ne incasserà metà, cioè 40%. Così, anche il paese B manterrà i conti in ordine.
Per il numerista i due sistemi sono equivalenti: sia A che B riescono a pareggiare il bilancio e a fornire prestazioni pubbliche pari al 40% del PIL. Non per quello umanista. I costi numerici sono apparentemente uguali, quelli psicologici ben diversi. In B il cittadino medio dovrà tenere una contabilità doppia per i suoi redditi, ufficiali e nascosti; avrà costantemente paura di confonderli e di essere scoperto; nasconderà i guadagni evasi "sotto il materasso", rischiando di dimenticarli o farseli rubare; spesso rinuncerà a mezzi di pagamento moderni come la carta di credito o il bonifico per internet.
Ma soprattutto, anche se negherà di avere veri sensi di colpa, proverà un disagio indefinibile: qualcosa in lui "sa" che non dovrebbe andare così. Insomma, se risparmierà sulle tasse sosterrà un "costo psicologico" che non è misurabile numericamente, ma è molto alto. Avrà un reddito pari al cittadino di A, ma una qualità della vita decisamente peggiore. Non è finita: anche la sua controparte, il rappresentante dello stato, pagherà costi psicologici seri. Incontrando il cittadino, darà per scontato che questi ha la coscienza sporca. Non potendolo dimostrare, e non potendo nascondere soldi a sua volta, sentirà di essere il babbeo, sacrificato a una maggioranza di furbi; reagirà trattando il cittadino in modo freddo, o altezzoso, o ostile: quando non si farà addirittura tentare dal "ognuno deve pensare a se stesso", chiedendo pagamenti sottobanco. Anche lui sarà spesso di malumore e stressato. Perderà la fede nel suo lavoro e nella società cui esso è destinato. Come un disperato abbandonato dal suo Dio, tanto l'uomo dello stato che il cittadino non "crederanno" più in un ordine sociale, ma nel circolo vizioso della diffidenza.
Se il calcolo della evasione sarà stato corretto, a fine anno i numeri torneranno: ma durante tutto l'anno ognuno avrà vissuto nello stress, perché si basava su una stima indiretta della frode, non su dati certi. E, proprio come la cattiva coscienza, anche l'insicurezza costante ha un alto costo psicologico.
Prendiamo ora un altro esempio. Una valuta stabile è da sempre apprezzata perché evita l'incertezza dei prezzi. È il motivo per cui in tutto il mondo si convertono i risparmi in Dollari o Franchi Svizzeri. Purtroppo, i politici sono eletti per un periodo limitato di tempo. Se l'economia è stagnante, per saziare gli elettori qualcuno propone la svalutazione. Per riavviarla oggi in Italia bisognerebbe innanzitutto tornare alla lira, abbandonata a costo di lacrime e sangue proprio per la sua instabilità. Il politico che la suggerisce si affida però a un numerista, che dimostra con cifre il suo argomento. Se svalutiamo del 20%, sul mercato internazionale le nostre merci costeranno 20% di meno.
Aumenterà l'esportazione: non per maggior fiducia nella produzione del nostro paese (che al contrario si riprenderà la reputazione di esser poco stabile) ma per immediata convenienza (in altre parole: gli stranieri saranno incoraggiati a comprare, ma scoraggiati dall'investire in Italia). Naturalmente molti prezzi internazionali – come quello del petrolio, quotato in Dollari – resteranno invariati: cioè costeranno il 20% in più per noi che abbiamo svalutato. Questo aumenterà sia le spese di chi usa l'auto sia quelle dei produttori: che però ora esportano di più. Logicamente anche i dipendenti vorranno qualche beneficio: il loro costo della vita (che include petrolio e altri beni importati) sta crescendo. Sommando tutti questi aumenti, dopo un po' le nostre merci costeranno un 20% in più. Il vantaggio è svanito. Il numerista interverrà: Svalutiamo ancora, magari del 30%! E, quando avremo esaurito lo slancio, un'altra volta. Insomma, se abbiamo creato un vantaggio esportativo, e poi lo abbiamo perso, abbiamo trovato un equilibrio: la produzione funziona, anche se a singhiozzo.
Non con nuove tecniche, ma con quella del criceto, che crede di viaggiare quando corre nella ruota. Una trappola che ha torturato l'Argentina: che però, non essendo popolata da criceti, è scivolata nella esasperazione. Mentre l'inferno circolare ruota, produttori e dipendenti vivono nell'insicurezza: senza vedere un orizzonte in cui terminerà, perché la via della svalutazione è un viaggio di cui si conosce l'inizio, ma difficilmente la fine. Non potendosi stimare le spese per gli anni futuri, si faranno sempre meno contratti a lungo termine e si programmerà sempre più alla giornata. Questo lascerà cicatrici perfino nel rapporto tra le generazioni, un cui asse portante è lo sguardo dei genitori lanciato verso il futuro dei figli.
Impariamo anche questo dal Sud America, dove continue inflazioni hanno disabituato a pensare se stessi nel futuro lontano: in qualche caso contribuendo addirittura alla diffusione dell'Aids, perché la malattia si manifesta solo nei decenni. Alla lunga, qualunque costo psicologico viene presentato all'incasso: quelli della manipolazione numerica sono silenziosi veleni. Governare gli uomini come se fossero numeri e non psicologia è l'errore più grave che i politici possano commettere.
«Anche in questo caso sembra prevalere la figura che Alain Deneault ha definito lo “stupido funzionale”».
doppiozero, 11giugno 2017 (c.m.c.)
Dunque alla fine appena un pugno di voti (13,6 milioni contro 12,8) e un paio di punti percentuali (42,4 a 40) separano i Conservatives dal Labour. Anzi Theresa May da Jeremy Corbyn, perché nel bene (il secondo) e nel male (la prima) sono stati loro due a giocarsi la partita. Nemmeno lo sciagurato maggioritario secco inglese, che allunga in modo sproporzionato le distanze in termini di seggi (una sessantina in più al partito “maggiore” anche se di poco) stravolgendo il principio di rappresentanza, assicura una governabilità certa (mito di tutti gli aspiranti oligarchi). Il parlamento britannico rimane hang, “appeso” come si dice in gergo: in questo caso appeso all’alleanza con gli unionisti irlandesi del DUP (Democratic Unionist Party), che – se la May sopravviverà al voto di fiducia - sosterranno (“caso per caso”) il futuro governo conservatore come la corda sostiene l’impiccato, garantendogli con i loro 10 seggi una risicatissima maggioranza (di 2 voti).
Sono fondamentalisti protestanti, ultrareazionari, antiabortisti, omofobi (“right-populists” sono definiti), nemici degli human rights, secondo l’imprinting impostogli negli anni settanta dal fascistoide reverendo Paisley, che lo fondò (insieme alla propria milizia paramilitare) per opporsi strenuamente a ogni tentativo di soluzione concordata della questione irlandese. Non i migliori compagni di strada sul difficile sentiero della Brexit.
Ma quello che colpisce, della straordinaria giornata elettorale inglese, e soprattutto della notte che ne è seguita, è il generale rovesciamento di tutte le premesse (e di tutte le promesse). Nulla è andato come previsto all’inizio della campagna. Theresa May le ha “chiamate”, queste elezioni “fuori tempo” e non dovute, senza in realtà averne alcun bisogno. Stava seduta su una propria maggioranza - 330 seggi -, ma per un attacco di bulimia parlamentare ne voleva di più, “voleva tutto”, convinta di poter banchettare con i resti di un’UKIP a cui aveva rubato la bandiera e di poter sfondare su un Labour messo fuori gioco dall’"ingenua” leadership di un uomo considerato anacronistico. È finita a gambe all’aria, perdendo 12 seggi, la maggioranza parlamentare e anche la faccia. Si era giocata la campagna elettorale sullo slogan STRONG AND STABLE: è finita debolissima e totalmente instabile. Voleva affrontare gli “euro-oligarchi senza popolo” di Bruxelles armata di un plebiscitario mandato popolare per imporre manu militari la propria hard brexit. Si trova azzoppata, sola e soprattutto male accompagnata a dover affrontare i sorrisini ironici nelle stanze europee, e le andrà bene se alla trattativa ci arriverà, o se non verrà sostituita durante il suo corso.
Dall’altra parte Jeremy Corbin “il rosso”. Il vincitore morale. L’uomo “del miracolo”. Quello che all’inizio, quando il Labour era dato nei sondaggi sotto di 20-25 punti, tutti guardavano con neanche malcelato scherno, l’ "inadeguato”, il “perdente per vocazione”, l’"obsoleto” – magari simpatico nella sua innocenza ma votato irrimediabilmente al disastro suo e del partito che irresponsabilmente era stato chiamato a guidare -, e che invece li ha stupiti (e dimostrato stupidi) tutti. Ha guidato, in meno di due mesi, una rimonta che non ha precedenti nella storia elettorale, ricuperando giorno dopo giorno punti percentuali, a catena, fino a sfiorare il pareggio se non il sorpasso (cosa sarebbe successo se avesse avuto a disposizione un altro paio di settimane, visto il ritmo assunto dalla rincorsa negli ultimi giorni: in fine velocior). Ha guadagnato al suo partito 3 milioni e mezzo di voti in più rispetto alle elezioni del 2015 (Ed Miliband ne aveva presi 9,3 milioni). Ne ha aumentato il peso di 10 punti percentuali (dal 30% del 2015 al 40%, appunto: uno scatto in avanti paragonabile a quello compiuto nel 1945 dal Labour di Attlee). Ha riconquistato 30 seggi, salvando il posto in parlamento anche a un bel po’ di notabili del suo partito che l’avevano considerato con sufficienza e qualcuno anche tentato di sfiduciarlo per nostalgia blairiana.
E quanto a Tony Blair è bene ricordare (soprattutto ai suoi nostalgici, quelli che pensano che se ci fosse “ancora Lui” sì che le cose andrebbero diversamente…), che al suo ultimo mandato, nel 2005, non andò oltre i 9 milioni e mezzo di voti (3 milioni e passa meno di Corbyn) e vinse solo perché il suo competitor conservatore Michael Howard era peggio di lui e convinse solo 8,7 milioni di elettori (partecipò al voto allora solo il 61% degli aventi diritto, contro quasi il 70% di oggi).
Tra le tante possibili, due chiavi di lettura mi sembrano, a caldo, prioritarie. La prima è la “questione sociale”. O meglio la questione della società. Margaret Thatcher – la vera lady di ferro a cui la May si ispira – aveva dichiarato che “la società non esiste. Esistono solo gli individui”. Jeremy Corbyn, oggi, la smentisce. Rianimando, con il proprio programma aggressivamente “sociale”, una società non estinta ma costretta al mutismo dall’assenza di politiche adeguate, la rimette al centro della scena. Cambia il volto – o meglio lo scenario – della politica britannica. Riconfigura il discorso politico intorno ai suoi “fondamentali”, alla materialità dei suoi processi, anziché alla sua dimensione mediatico-virtuale.
La cifra del suo “inimmaginabile” successo (inimmaginabile per chi vive dentro la bolla virtuale del racconto prevalente) sta nella centralità assegnata nell’ordine del suo discorso ai bisogni, alle domande, al disagio diffuso della “propria gente” e di una parte ampia del proprio “popolo”. Nel suo ritorno a un’origine della sinistra moderna che non si è del tutto estinta ma solo atrofizzata: la vocazione a rappresentare la parte non privilegiata della piramide sociale, il mondo del lavoro e le classi medio-basse: la parte che ha subito il trentennio neo-liberale, che non è più stata né vista né raccontata e tantomeno rappresentata da nessuno in queste “trenta ingloriose”, e che ora ha ritrovato una voce e un “padre”. E’ rientrata, come espressione sociale, in gioco. E insieme ai “bisognosi” il vecchio Corbyn ha riportato in campo i giovani: sta al 66% dei consensi tra quelli sotto i 34 anni (quelli di classe media, acculturati e addottorati, ma anche quelli di periferia, di slum), parlando loro col linguaggio dei rapper arrabbiati, apparendo finalmente “vero” tra tanti avatar che popolano la terra straniera della politica per chi vive tra le pieghe e le piaghe del quotidiano.
Se è vero che il neo-populismo che si aggira come il vecchio spettro per l’Europa (e non solo), è la “forma informe del vuoto lasciato dalla sinistra nel passaggio oltre il Novecento” (e io credo che sia vero: è la tesi centrale del mio ultimo libro), allora bisogna dire che l’operazione inglese di Jeremy il rosso ne è il principale antidoto. È il fattore che può riportare la dialettica politica a un suo ordine conflittuale razionale, prosciugando quell’immenso serbatoio di un’ira non dilazionabile né riconducibile a costruzione di un’alternativa (tale è la sindrome populista, dall’incubo americano con Trump alla parabola dell’UKIP inglese fino al nazionalismo sovranista lepeniano in Francia).
Corbyn si prende quasi tutta Londra, l’area metropolitana dove il Remain aveva stravinto, le constituencies dei quartieri centrali (tranne quelli degli straricchi, soldi e status, come la City) e quelle dei sobborghi, compresi i più problematici dove la rabbia urbana si era orientata sul Leave). Vince nei distretti industriali del Galles, old working class anch’essa schierata per la Brexit, e a macchia di leopardo nelle midlands, tagliando a metà gli schieramenti referendari grazie al nuovo cleavage sociale chiamato a incrociare e neutralizzare quello neonazionalistico e identitario.
È quanto non ha capito la May, la quale invece ha fatto un mortale errore di calcolo quando ha voluto anticipare il voto pensando di potersi aggregare così, grazie alla sua linea hard sulla Brexit, tutto il voto Ukip, considerato espressione di un neo-nazionalismo asociale, o di una vocazione identitaria nazionale e neo-imperiale priva di radici e di motivazioni nell’assetto della società e nelle sue contraddizioni. Non è stato così: la radice “sociale” – il radicamento nel disagio e nella protesta per le proprie “condizioni materiali” del voto per il Leave – è riemersa e si è presa la propria rivincita distribuendo i voti in uscita dall’UKIP lungo la loro discriminante profonda, materiale, e convergendo non solo su un partito conservatore ultra-nazionalista ma anche su un partito laburista di nuovo socialmente rappresentativo e conflittuale.
Il che ci porta alla seconda chiave. Meno nettamente definibile, ma non per questo meno visibile. Non so bene come chiamarla: “Cognitiva”? “Intellettiva”? “Mentale”? Mi viene in mente un passaggio dell’ultimo libro di Luciano Gallino – un testamento, per certi versi – che mi colpì molto quando lo lessi: si riferiva ai due crucci che, in quel suo ultimo tratto di vita, lo tormentavano e che indicava come il “trionfo della stupidità” e la fine dello “spirito critico”. Il primo, soprattutto mi è tornato in mente, nella giornata e nella serata di giovedì 8 giugno, seguendo sulla BBC lo spoglio in diretta da Londra, ma anche sulla stessa rete l’interrogatorio di Comey a Washington, e – si parva licet – l’esito caotico del voto sulla legge elettorale a Montecitorio. Ovunque messaggi da “teoria del caos”. Perdita di controllo sugli eventi. Tendenziale entropia. E su tutto l’insufficienza – meglio, l’"inadeguatezza” – delle classi dirigenti, spinta fino all’autolesionismo.
Al suicidio neppur troppo assistito. Verrebbe da dire la “stupidità” delle classi dirigenti. Stupidità non in senso letterale, come deficit di QI (in qualche caso anche questo), ma in senso funzionale. Incapacità di comprensione strategica. Di misurazione delle conseguenze del proprio operare se non nel tempo brevissimo o istantaneo. Di previsione sistemica. Così è stato per Theresa May, ma allo stesso modo era stato per David Cameron, che aveva lui stesso indetto il referendum sulla permanenza in Europa che ha decretato la sua rovina; e per Matteo Renzi con la riforma costituzionale e il referendum che allo stesso modo di Cameron l’ha travolto (anche se lui a differenza dell’altro non è sparito dalla scena politica come aveva invece annunciato e promesso).
E così sta avvenendo con Donald Trump negli Usa, che prometteva un’America Great Again e che la sta portando nella peggior crisi istituzionale della sua storia. O per Hollande, che in cinque anni di Presidenza (apparentemente un punto di forza per un politico di mestiere) è riuscito a distruggere il proprio partito conducendolo all’irrilevanza. E l’elenco potrebbe allungarsi. In tutti questi casi quella che sembra prevalere è la figura che Alain Deneault (filosofo canadese dalla penna tagliente) ha definito lo “stupido funzionale” o come sintetizza nel titolo il “mediocre”: uno che fa tutto quello che sembra al momento giusto, perché così è richiesto dai suoi pari, e che però produce come risultato disastri (per sé e per gli altri).
“Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia – scrive Deneault -, niente di paragonabile all’incendio del Reichstadt, e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato un sol colpo di cannone. Eppure di fatto l’assalto è avvenuto, ed è stato coronato da successo: i mediocri hanno preso il potere”. E quando parla di potere pensa a quello economico, banca e finanza soprattutto; a quello universitario (le pagine sulla degenerazione dell’universo accademico sono tanto più feroci quanto più espressione di un’esperienza vissuta); a quello giornalistico ed editoriale; oltre naturalmente a quello politico.
L’ambito in cui l’impatto della mediocrità in quanto “stupidità funzionale” è più devastante. Ed è il prodotto temo “sistemico” – dunque scarsamente contrastabile con misure di semplice restyling istituzionale o con settoriali “riforme” – di un fondamentale meccanismo della nostra vita pubblica: la sconnessione drammatica tra livello istituzionale e livello sociale. Per dirla con Carlo Galli, nel suo ultimo interessantissimo libro sulla Democrazia senza popolo, il fatto – terminale – che “le istituzioni stanno funzionando senza saper analizzare la realtà sociale (e quindi senza saperne risolvere i problemi) e anzi respingendola come un fattore di disturbo e cercando di sopperire con ‘narrazioni’ agli esiti disastrosi delle politiche che impongono”.
Si spiega solo così, con questa secessione dell’"alto” e del “dentro” (all’interno delle casematte del potere istituzionale ma anche mediatico) rispetto a tutto ciò che sta in “basso” e nel “fuori” (da quei cerchi magici che sembrano possedere il monopolio della validazione sociale), da una parte l’ostilità senza risposta, spesso il rancore, il deficit di rappresentanza che produce le tante “insorgenze” cosiddette populiste. E dall’altra parte la vacuità, l’inefficacia, la contraddittorietà e l’insensatezza del discorso “ufficiale”, delle “verità sistemiche” assunte dalle “sedi autorevoli” e propagate dai media mainstream ma puntualmente smentite dall’evolversi dei fatti.
La nostra memoria pubblica è corta, effimera, ma non più di un paio di anni fa, quando l’ondata giovane alle primarie del Labour aveva portato alla leadership Corbyn, il coro degli autorevoli si era scatenato, nelle forme più pittoresche: si andava dal “Corbyn … perderà a manetta” (Gianni Riotta) a “Al Labour piace perdere” (Matteo Renzi) fino al “Chi sarà più felice, Ken Loach o Cameron?” (Sergio Staino)… Tutti chiusi nel proprio involucro stagno, impegnati a confermarsi a vicenda nella damnatio imaginis dell’unico che da quella loro bolla stava fuori, e per questo poteva indicare una via diversa. Difficilmente rinunceranno a pontificare ancora. Ma più difficilmente potranno continuare a monopolizzare la comunicazione pubblica e impedire di “cercare ancora” uno spiraglio di alternativa.
L'incauta offerta di Pisapia a Renzi di aiutarlo a vinceree portandogli il gruppo dei fuggitive dal PD; ma s'affacciano anche altre idee anch'esse diversamente accomodanti con le vecchie politiche neoliberiste. Noi invece saremo a Roma il 18 giugno.
il manifesto, 11 giugno 2017
PRIMARIE AVVELENATE,
NON ESISTONO
MA GIÀ SPACCANO LA SINISTRA
di Daniela Preziosi
«Alleanze. Gazebo di coalizione, c’è il niet di Mdp. Che avverte l’ex sindaco: Renzi è un piazzista, no al dialogo. Malumori anche nel Pd»
Le primarie del centrosinistra con un Pd che fino a una settimana sfotteva la «sinistra rissosa» sono un’ipotesi irrealistica, il classico ballon d’essai delle fasi politiche di stallo. Ma tanto poco basta per rialzare il termometro nella sinistra che fino a tre giorni fa tendeva all’unità, complice un incombente sbarramento al 5 % nella legge elettorale ormai spazzato via dall’orizzonte.
Per il terzo giorno consecutivo ieri Renzi, stavolta dal Corriere della sera, ha lanciato un amo a Giuliano Pisapia, leader di "Campo progressista": «Noi ci siamo. Vediamo che farà lui». Il segretario Pd spiega meglio la sua idea di accordi a sinistra a legge vigente: un patto al senato, ma non alla camera, dove tanto è convinto di imbroccare l’onda del voto utile perché «il premio al 40% consente di tentare l’operazione maggioritaria». L’ex premier non risponde alle condizioni che Pisapia pone per riaprire il dialogo: primarie di coalizione, cancellazione dell’articolo 18, discontinuità. A questo dibattito manca il principio di realtà. Lo ricorda il presidente dem Matteo Orfini a Repubblica, che «c’è una legge proporzionale che non prevede coalizioni e quindi le primarie non avrebbero senso», dunque benvenga Pisapia in coalizione ma dopo il voto se avrà i numeri, «con questo sistema elettorale oguno tessa la sua tela e poi ci ritroveremo in parlamento in base al consenso che i cittadini ci daranno».
Ma questi giri di valzer comiminciano a suscitare malumori a sinistra, fra gli stessi alleati di Pisapia che il primo luglio hanno con lui un appuntamento a Roma per costruire «la casa comune» della sinistra. Bersani, D’Alema, Rossi, cioè tutta la «Ditta» ex Pd non hanno alcuna intenzione di allearsi con il proprio ex partito. Ampiamente ricambiati: Renzi spiega alcuni di loro farebbero fatica «anche a tornare alle feste dell’Unità».
Le polemiche non sono dirette, almeno per ora. Massimo Paolucci, europarlamentare vicinissimo a D’Alema, spiega che la proposta di Renzi a Pisapia è «una polpetta avvelenata», «Non esistono le condizioni minime per svolgere insieme al Pdr le primarie di coalizione. Senza una chiara alleanza politica, un simbolo ed una piattaforma comune sarebbe una grave errore, una decisione incomprensibile per milioni di nostri elettori delusi dalle scelte fatte, in questi anni, su tasse, lavoro, scuola, politiche sociali, investimenti». Il presidente della Toscana Enrico Rossi: «Le primarie di coalizione hanno poco senso perché la storia del sindaco d’Italia è finita il 4 dicembre 2016. Noi dobbiamo costruire un’alleanza per il cambiamento a sinistra del Pd fatta da coloro che, di sinistra e di centrosinistra, non si riconoscono più nel Pd di Renzi».
Enrico Rossi si rivolge al lato politico dove si collocano Sinistra italiana e Rifondazione comunista, e offre una lista unitaria, anche con i civici ex no che si vedranno a Roma il 18 giugno. Sorvolando sul fatto che difficilmente queste aree apprezzerebbero – anzi digerirebbero – la benedizione degli ulivisti Prodi, Letta, Bindi, così tanto invocata da Mdp.
Anche Pisapia evita la polemica interna. Ma dai suoi arrivare segnali di insofferenza: «Dobbiamo investire sulla riapertura di una nuova stagione di centrosinistra in discontinuità con questi anni. Aggiungo che oggi, per ragioni tutte giuste, governiamo, da una posizione di leggera subalternità, con Renzi e persino con Alfano».
PRIMARIE,
UN FAVORE A RENZI
di Massimo Villone
Per un tabellone elettronico salta il patto di scambio tra voto subito – voluto da Renzi, Grillo e Salvini – e sistema similtedesco proporzionale – voluto da Berlusconi. Ora Renzi dice di puntare al voto nel 2018. Con il Consultellum nella doppia versione Camera-Senato, e aggiunge un’offerta di coalizione a Pisapia. Non sappiamo se sarà l’ultima mossa. Ma se lo fosse, a chi darebbe scacco?
Anzitutto, scacco a ciò che è a sinistra del Pd. A tal fine, il Consultellum è molto efficace. Alla Camera, il premio con soglia al 40% rafforza molto il richiamo del voto utile. Raggiungere la soglia sarà pure improbabile, ma l’argomento sposta comunque voti. Al Senato, il voto utile si aggancia agli sbarramenti, troppo alti per i partiti minori. E contro un’aggregazione che potrebbe ambire a superarli si offre la coalizione a uno dei player. Divide et impera. Ed è davvero sorprendente che Pisapia risponda chiedendo primarie. È solo un favore a Renzi, con il regalo di una probabilissima vittoria che ne rafforzerebbe legittimazione, leadership e disegno politico.
Dalla sinistra sparsa alla sinistra scomparsa: questo è il copione di Renzi. Una sparuta pattuglia di deputati farebbe sopravvivere qualche pezzo di ceto politico, ma rimarrebbe del tutto insignificante.
E la diversità dei sistemi elettorali? La governabilità? Mattarella? Questo è il secondo scacco. Il Capo dello Stato non può impedire lo scioglimento della Camere in due casi. Il primo è lo scioglimento anticipato voluto da una maggioranza parlamentare in grado di negare la fiducia a qualsiasi governo. Questa era l’ipotesi sottesa al patto tra i quattro leaders. Fatta la legge elettorale, Mattarella non avrebbe potuto opporsi al voto subito. Il secondo caso è la fine naturale della legislatura, perché la tempistica è dettata dalla Costituzione, e nessun rinvio è consentito. Dire che si vota nel 2018 equivale a dire che si vota con la legge che c’è. Quindi, basta non fare, e Consultellum sia: ecco lo scacco a Mattarella.
È chiaro che rimangono tutte le censure nel merito, in specie per la diversità tra Camera e Senato. Il pasticcio viene da Renzi, per l’arrogante pretesa di anticipare con una legge elettorale solo per la Camera la riforma costituzionale poi sepolta dai no. Come non bastasse, ora Renzi lucra sul malfatto, potendo con la sua proposta ottenere vantaggi anche limitandosi a un gioco di interdizione.
Che si può fare? In Parlamento, poco. Sono controinteressati alla proposta Renzi soprattutto i partiti minori, che certo non controllano i lavori parlamentari. Inoltre, sono spinti verso la subalternità per non morire. Qualcosa, invece, si può fare sul piano della politica. E qui una lezione viene dal voto in Gran Bretagna.
Per molti, Corbyn era un pezzo di modernariato politico, da non prendere sul serio. Ma in poche settimane di campagna ha recuperato quasi del tutto un distacco che sembrava incolmabile, con un programma elettorale vicino a una proposta socialdemocratica vintage. È chiaro che ha trovato una corrente profonda di cui non si sospettava l’esistenza. E colpisce che abbia così guadagnato tra i giovani e nell’area del non voto. Una vecchia sinistra in disarmo ha visto i propri figli innalzare le bandiere da tempo ammainate.
Forse nel voto GB la più importante indicazione è proprio questa: la sinistra può essere competitiva se dismette una lunga sostanziale subalternità ai mantra del privato, del mercato, della finanza. Perché non in Italia? Dunque, bene se qui la sinistra sparsa si compatta e trova qualche candidatura eccellente. Meglio se formula un progetto non di nicchia, volto a ritrovare in modo compiuto le antiche risposte socialdemocratiche sulla dignità della persona, la solidarietà, l’eguaglianza, la giustizia sociale, il ruolo del pubblico. Da un appeal verso i giovani e il non voto potrebbe venire la massa critica utile a superare qualsiasi scoglio di sistema elettorale.
In realtà lo stesso Renzi potrebbe fiutare il vento e volgersi a una proposta socialdemocratica vintage. Vogliamo anche augurarglielo. Certo, sarebbe difficile riconvertire l’ultimo Pd, tutto privato, competizione e libero mercato. Ma uno che nasce boy scout deve pure saper affrontare
Micromega online, 10 giugno 2017
Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l'urgenza della
proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l'assalto soverchiante di tutti quelli che: "mamma mia come superiamo il 5%?".
Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte.
Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.
Si parte dalla Costituzione, anzi dalla sua anima sociale e antiliberista affermata meravigliosamente dall'articolo 3, e si sostiene che si deve prima di tutto rispondere a quel popolo di sinistra che in nome di quell'anima ha votato NO il 4 dicembre. Benissimo, questo però significa esplicitare subito alcune discriminanti.
Prima di tutto non possono essere interlocutori di questa proposta coloro che hanno votato SÌ, per capirci sono fuori Giuliano Pisapia e Romano Prodi. Il problema si pone però anche verso chi ha votato NO, ma prima ha sostenuto il Jobs Act, la legge Fornero e soprattutto quella mina ad orologeria contro i principi sociali della Costituzione, quale è il nuovo articolo 81 che obbliga al pareggio di bilancio in ottemperanza al mostruoso Fiscal Compact.
Durante il governo Monti il parlamento quasi unanime ha costituzionalizzato quella austerità che giustamente Falcone e Montanari vogliono rovesciare. E se non sono solo buoni propositi, la rottura con l'austerità significa soppressione immediata delle misure che emblematicamente la realizzano. Chi le ha votate naturalmente può ammettere di essersi sbagliato e sostenere un programma che proponga di cancellare quelle misure, ma lo deve fare con rigore e sofferenza e non per furbizia.
Jeremy Corbyn ha riconquistato fiducia nel mondo del lavoro, dopo essere stato svillaneggiato dalle sinistre liberali e dai loro mass media, accettando il voto sulla Brexit e proponendo un programma secco di nazionalizzazioni. Questa parola da noi è tabù nei sindacati confederali e anche in buona parte della sinistra più radicale, eppure è proprio sul terreno delle privatizzazioni che si gioca la possibilità di arrestare e veder dilagare ancora le politiche economiche liberiste. Alitalia e Ilva sono i primi banchi di prova, poi seguiranno le Poste, le Ferrovie, Enel ed Eni e naturalmente ciò che resta del sistema bancario. O torna l'intervento pubblico diretto nell'economia, o da noi va tutto in mano alle multinazionali, visto che la grande borghesia italiana non esiste più come classe autonoma dai poteri della globalizzazione. O il pubblico, o si e si svende ciò che resta del paese, questa è l'alternativa reale oggi e che scelta fa al riguardo la sinistra prefigurata da Falcone e Montanari?
Lavoro con diritti, scuola pubblica e stato sociale, ambiente, territorio e beni comuni sono dichiaratamente al centro della proposta di nuova sinistra. Anche qui possiamo solo dire giustissimo, ma dobbiamo però aggiungere: che misure concrete si vogliono subito attuare, che leggi si vogliono cancellare, che nuovi atti si vogliono varare? Naturalmente ci sono programmi decennali da individuare, ma il buongiorno si vede dal mattino, ad esempio dall'impegno a cancellare tutta la buona scuola e la controriforma della sanità, a quello a fermare tutte le grandi opere, a partire dalla famigerata Tav in Valle Susa. Non è solo questo che basta, ma è questo che serve per capire se si vuol fare sul serio.
Il bilancio delle spese militari dello stato italiano è in continua ascesa e Gentiloni si è impegnato quasi a raddoppiarlo per raggiungere quel 2% del PIL posto dagli accordi NATO. Si ribalta questa scelta nel suo opposto con il taglio delle spese ed il ritiro dalle missioni all'estero, o ci si accontenta di partecipare alla sfilata del 2 giugno con la spilla della pace? Anche qui le scelte programmatiche, che Falcone e Montanari pongono giustamente come discriminanti, se sono vere individuano già di che pasta e di quali persone dovrebbe essere composta la nuova sinistra.
Che alla fine dovrà misurarsi con la questione di fondo: le politiche del lavoro, dell'ambiente e dello stato sociale, in alternativa alla austerità e alle spese di guerra, sono realizzabili accettando i vincoli UE e NATO? Noi che abbiamo costituito Eurostop pensiamo di no, che senza la rottura con quelle istituzioni nulla di buono sia possibile per i poveri e gli sfruttati. Noi pensiamo così, ma siamo disposti ad accettare la sfida di chi invece pensa che quelle istituzioni siano positivamente riformabili. Chi crede a questo però deve essere disposto a rompere se poi dovesse verificare che il suo programma è posto all'indice proprio da quelle istituzioni. E deve dirlo.
Chi ha votato NO il 4 dicembre non può dimenticare che tutta la governance europea si era spesa per il SI. Né può ignorare che la Costituzione del 1948 e i trattati di Maastricht e Lisbona sono formalmente e concretamente incompatibili. Si può non volere la rottura con la UE nel programma, ma si deve essere disposti a farla se le istituzioni comunitarie quel programma ti impediscono di realizzarlo. Tsipras tra il rispetto del referendum popolare e quello dei diktat della Troika ha scelto il secondo. La sinistra proposta da Falcone e Montanari è disposta a fare la scelta esattamente opposta?
Siccome nel testo di Falcone e Montanari non ho trovato risposte chiare a domande per me decisive per capire cosa essi vogliano fare, mi sono permesso alcune di quelle domande di formularle io. Mi permetto di suggerire ai due estensori dell'appello di parlarne esplicitamente nell'assemblea del 18 giugno. Magari si affermi l'opposto di quanto scritto qui, ma per favore si faccia chiarezza. E non si parli d'altro per favore, sappiamo tutti che i nodi sono questi e non si sciolgono coprendoli di grandi valori e buoni propositi.
Il verso di Renzi è quello di sempre: per lui Giuliano Pisapia e "Campo progressista" sono il retino col quale riportare a Casa Renzi i transfughi del PD. E Pisapia accetta. Ma c'è chi comprende che la sinistra è altrove.
il manifesto, 10 giugno 2017
«Il leader Pd ha tentato la stessa mossa dopo il flop referendario Cauto l’ex sindaco: "Faccia le primarie. E dica mai con la destra". Mdp resta gelido sul dialogo Rossi: "Serve una sinistra forte in parlamento"»
«Non è la mia sconfitta. È la sconfitta di Grillo. E degli altri». La botta è forte, la seconda botta forte dal 4 dicembre, ma l’ex premier Matteo Renzi ha tempi di reazione (anche troppo) rapidi e tenta subito una manovra diversiva. Ai suoi spiega che il pasticcio non l’ha fatto lui, che si è limitato a stringere accordi politici, semmai è stato il Pd alla camera ad aver sottovalutato quello che stava succedendo nel passaggio fra la commissione e l’aula: doveva prevedere e sventare «l’imboscata dei 5 stelle». L’allusione è al relatore della legge Emanuele Fiano e al capogruppo Ettore Rosato, non proprio due assi di diplomazia, che ora attaccano alzo zero il tradimento grillino.
Ma se il piano b di Renzi, e cioè andare al voto comunque prima della finanziaria con qualche correttivo al Legalicum fatto per decreto, viene subito frenato dal Colle, ieri dall’infaticabile ma non infallibile ex premier è arrivato subito un piano C.
Anzi, un piano «p», nel senso di Pisapia. Un cambio di strategia raffazzonato in fretta e furia sulla falsa riga di quello post referendum. Il piano prevede un repentino cambio di verso sul tema delle coalizioni: contrordine, dunque, il Pd non è più possibilista sulle larghe intese con Forza Italia, ora si orienta verso il centrosinistra. O, più precisamente, si offre di caricare sul suo carrozzone azzoppato il Campo progressista di Pisapia. È la stessa mossa fatta all’indomani della sconfitta del referendum costituzionale, finita poi su un binario morto.
«Ormai è chiaro che in questo parlamento non c’è spazio per una riforma e si voterà con le leggi attuali. Per questo, ho già detto a Giuliano di correre divisi alla Camera, ma in coalizione al Senato», fa dunque sapere Renzi a mezzo
Repubblica, quotidiano che ha avuto sempre un debole per l’ex sindaco di Milano, e che lo preferisce coalizzato con il Pd.
La risposta di Pisapia in prima battuta è piccata: «Prima bisogna ragionare partendo da una constatazione oggettiva: quel tipo di alleanza con la destra o centrodestra è perdente per il Paese e per la buona politica». L’ex sindaco ha già esperienza di un Renzi mobile qual piuma al vento. E oggi ormai ha messo in piedi la rete Campo progressista che prepara per il primo luglio il lancio di un fronte comune con Mdp di Bersani e D’Alema. E cioè quelli che il leader Pd non vuole vedere neanche dipinti. Ricambiato.
L’imminente varo di una legge elettorale con lo sbarramento al 5 per cento e la precipitazione al voto avevano spinto la sinistra a (provare a) unirsi. Il crollo dell’ipotesi finto-tedesca e il ritorno del voto al 2018 però cambiano tutto. Dal lato del Pd, ma anche dal lato della sinistra variegata che affrontava la mission impossible dell’unità con una serie di incontri pubblici, ora presumibilmente tutti da ricalibrare.
Così nel pomeriggio si misura tutta la confusione che regna nel virtualissimo campo del centrosinistra.La scena va in onda in diretta su Radiopopolare che nel corso della sua festa costringe sullo stesso palco lo stesso Pisapia, Fiano, Enrico Rossi (Mdp) e Nicola Fratoianni (Si). E lì succede che Fiano attacca Rossi (finisce male, il dem che si deve scusare «per l’arroganza») e invece corteggia Pisapia. Il quale a sua volta fa la mossa di accettare il dialogo ma avanza condizioni irricevibili per Renzi: «Sono per il massimo dell’unità e rimango sempre favorevole al dialogo ma tenendo fermo il punto che qualsiasi alleanza con il centrodestra è contro i nostri valori oltre che un inganno agli elettori. Renzi accetti le primarie di coalizione, ci vuole discontinuità rispetto a ora.
E ripristini i diritti a chi li ha tolti con l’art.18». Rossi, sulla carta già alleato di Pisapia (Mdp e Campo progressista siedono nello stesso gruppo alla Camera), boccia invece la richiesta di primarie: «Non sono un punto fondamentale». Poi scarta decisamente l’idea di un accordo con il Pd e chiede invece a Pisapia e Fratoianni di fare «una larga sinistra che punti a mandare in parlamento più eletti possibile».
Grande è la confusione sotto il cielo, la sinistra stenta a capitalizzare la nuova sconfitta di Renzi. Pisapia prova a fare il pontiere ma sbaglia ponte: chiede che nel finale di legislatura il Pd abbandoni l’alleanza a destra e assicuri l’approvazione di ius soli, reato di tortura, codice antimafia e provvedimenti sull’uguaglianza sociale. Replica scontata di Fiano: «Certo, ma i voti nostri e vostri anche uniti non bastano».
I governi europei e l'UE fingono di voler combattere gli slogan xenofobi, neonazisti e criminale dei Salvini e Le Pen, ma ne assumono pienamente le politiche. Il modello turco, farcito di menzogne e di crudeltà, viene proposto da Renzi come "soluzione finale" e accettato da tutti.
il Fatto quotidiano, 6 giugno 2017, con postilla
Solo in apparenza e per opportunismo le istituzioni europee e i governi degli Stati membri sono preoccupati dalle estreme destre che crescono in tutta l’Ue e in alcuni casi già governano. Si dicono allarmati dalla loro chiusura verso immigrati e rifugiati, dalla xenofobia. La verità è diversa e ci vuole poco per accorgersene. Da fine 2015 le politiche d’immigrazione comunitarie e nazionali incorporano ed emulano le linee difese dalle destre estreme.
Gli slogan di Salvini e Le Pen – “aiutiamoli a casa loro”, “respingiamoli in massa”, senza minimamente curarsi delle ragioni delle fughe (guerre, fame, siccità) – non sono più loro esclusive parole d’ordine. Sono ormai l’ossatura della politica comunitaria. Il governo austriaco che chiudeva le frontiere (e che oggi propone di relegare i rifugiati nelle isole greche, seguendo l’esempio australiano) obbediva già agli slogan del partito di Norbert Hofer.
Il Migration compact 2.0 di Renzi, approvato dalle istituzioni europee, dice esattamente questo: aiutiamoli a casa loro, in Africa soprattutto, visto che da lì parte il maggior numero di richiedenti asilo o migranti. Il modello da imitare è quello dell’accordo UeTurchia stipulato il 7 marzo, che garantisce sovvenzioni dirette di 6 miliardi di euro. L’accordo (ma viene chiamato statement, dichiarazione, per aggirare l’approvazione che il Parlamento europeo deve dare ai Trattati) è giudicato pericoloso e potenzialmente illegale da tutte le maggiori Ong:
- perché i rimpatri forzati e per gruppi etnici verso la Turchia violano la Convenzione di Ginevra e la Carta europea dei diritti fondamentali (divieto di respingimento), secondo cui ogni domanda d’asilo deve essere esaminata individualmente, non secondo l’appartenenza a una collettività;
- perché la Turchia respinge una notevole parte dei rimpatriati nelle stesse zone di guerra da cui erano fuggiti (Siria), non esitando a sparare sui fuggitivi siriani che vorrebbero scappare in Turchia;
- perché la Turchia ha sì ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, ma con precise limitazioni geografiche: Ankara non si assume obblighi verso profughi non europei. Non ha ratificato il Protocollo di New York del ’67 che ha rimosso gli originari limiti che definivano rifugiati solo i profughi europei sfollati per eventi antecedenti il ’51.
In altre parole, quello di Erdogan non è uno “Stato sicuro”. L’intesa comunque porrebbe naufragare, visto che Ankara non ha ottenuto la liberalizzazione dei visti per i connazionali.
Nonostante ciò, l’accordo è presentato come eccellente. È anzi il prototipo degli accordi con una serie di Stati africani suggeriti nel
Migration Compact 2.0 come soluzione ottimale della questione rifugiati. Ecco i 4 principali obiettivi del piano:
1) Aiuti allo sviluppo e cooperazione economica vanno massicciamente rilanciati, ma in stretta e assai contestabile connessione con il management delle frontiere, con la gestione dei rifugiati e, molto genericamente, con le questioni di sicurezza. Mettere tutto ciò sullo stesso piano è contestabile dal punto di vista del diritto internazionale.
2) Priorità deve essere data a 17 “partner strategici”: Algeria, Egitto, Eritrea, Etiopia, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Libia, Mali, Marocco, Niger, Nigeria, Senegal, Somalia, Sudan e Tunisia. Nessuna preoccupazione sfiora gli estensori circa il non rispetto dei diritti fondamentali e dell’obbligo di non-respingimento in paesi come Eritrea, Sudan, Libia, Mali, Etiopia e Somalia.
3) Fin dal Consiglio europeo del 28-29 giugno, sarà proposto un “piano straordinario”, che prevede accordi con 7 “Paesi-pilota”: 4 Paesi d’origine (Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Senegal), 2 di transito (Niger, Sudan), e uno di transito e origine (Etiopia). Qui si sperimenterà il nuovo volto dell’aiuto allo sviluppo: investimenti in progetti sociali e in infrastrutture, condizionati a “precise obbligazioni” nella cooperazione sulla sicurezza militar-poliziesca e il contenimento dei flussi migratori, economici o politici che siano.
4) Il finanziamento: si parla di una sorta di Piano Juncker per l’Africa, come se il Piano per l’Unione avesse funzionato: il bilancio Ue metterebbe a disposizione 4,5 miliardi, che dovrebbero servire da leva per investimenti privati o pubblici pari a 60 miliardi.
Fin qui i punti chiave del piano che il governo italiano difende da tempo, e che la Commissione e i partner europei (Ungheria in testa) mostrano di apprezzare. Questa involuzione dell’Unione ha ormai una storia. La svolta avvenne il 4 marzo 2015, quando il commissario all’immigrazione Avramopoulos ruppe il tabù, in una conferenza stampa: “Dobbiamo cooperare con i regimi dittatoriali nella lotta allo smuggling” di migranti e rifugiati.
Segue un’escalation di momenti di verità della governance europea. Il culmine è raggiunto il 25 gennaio dalle parole che il segretario di Stato belga all’immigrazione Théo Francken avrebbe rivolto all’omologo greco Ioannis Mouzalas, secondo quanto riferito da quest’ultimo alla Bbc: in un Consiglio informale dei ministri dell’Interno e della Giustizia, ad Amsterdam, il belga gli avrebbe consigliato: “Respingeteli o affondateli” (“push back migrants, even if that means drowning them”). Il ministro belga ha smentito, ma Mouzalas ha ripetutamente confermato.
A questo si aggiungano le dichiarazioni ufficiali del massimo rappresentante del Consiglio europeo, il presidente Donald Tusk. Ne elenchiamo alcune:
13 ottobre 2015, lettera ai colleghi del Consiglio europeo. C’è un’apertura alla Turchia (compreso l’appoggio a “zone sicure” in Siria) e una messa in guardia contro le frontiere aperte: “La facilità con cui è possibile entrare in Europa è il principale pull factor per i migranti”. Nessun accenno alla fuga per ben altri motivi: guerre attizzate o acuite dagli occidentali, dittature cruente, respingimenti in massa di eritrei operati dal Sudan, disastri ambientali e fame in gran parte provocati da investimenti e accaparramenti di terre (land grabbing) da parte di imprese occidentali.
22 ottobre 2015, intervento al Congresso di Madrid del Partito popolare europeo: “Non possiamo continuare a pretendere che la gran marea di migranti sia ciò che vogliamo, e che stiamo perseguendo una politica di frontiere aperte”.
3 marzo 2016, appello ufficiale “ai migranti potenzialmente illegali”: “Non venite in Europa. Non credete agli smuggler. Non rischiate le vostre vite e il vostro denaro. Non servirà a nulla!”. Ricordiamo che la stessa identica frase (“It’s all for nothing!”) fu detta nel 2014 dal governo australiano, uno degli Stati più criticati per la politica dei rifugiati.
Il Migration compact 2.0, unito a simili proposte dell’ungherese Orbán, è una tappa di questa escalation. Pochi giorni fa, alla vigilia del G7 in Giappone, il capo gabinetto di Jean-Claude Juncker, Martin Selmayr, ha twittato: “Un G7 con Trump, Le Pen, Boris Johnson, Beppe Grillo? Uno scenario dell’orrore che mostra perché è importante combattere il populismo. Con Juncker”. Mettere sullo stesso piano quei quattro nomi è una truffa, sicuramente apprezzata da Renzi alla vigilia delle amministrative e cinque mesi prima del referendum costituzionale. Ma più fondamentalmente resta la domanda: se è importante combattere Le Pen e l’estrema destra, perché adottare precisamente le sue politiche, con direttive, accordi e il Migration compact di Renzi?
Postilla
La vigorosa e documentata denuncia della nostra parlamentare europea, che nessuna eco ha avuto nei mass media italiani, denuncia la politica criminale dei governi e delle istituzioni europee nei confronti dei popoli costretti a fuggire dalla morte per guerra, per miseria, per fame e per sete, a causa delle iniziative politiche, economiche e sociali tenacemente condotte dal Primo mondo e dai suoi emuli nel corso dei secoli del colonialismo, ancora pesantemente in atto. Numerosi articoli sull' Emigration conpact, sono reperibili in eddyburg digitando l'espressione nel "cerca".
il manifesto, 10 giugno 2017 (c.m.c.)
Dalla riproposizione di un maggioritario ormai privo di ogni appeal e di qualsivoglia praticabilità alla disinvolta rincorsa di proporzionali di importazione, di risulta o misti. Con la sola preoccupazione di arrivare al più presto al voto e di non intaccare il potere degli apparati di designare i futuri parlamentari.
Poi, in un giorno, è di nuovo cambiato tutto. La spallata referendaria del 4 dicembre, che ha chiuso una stagione politica fallimentare, non ha travolto – né era realistico pensarlo – un’idea di politica e un ceto di governo. E oggi il re è nudo. È in questo contesto che si colloca l’appello di Falcone e Montanari per un soggetto politico a sinistra del Pd: proposta interessante, soprattutto per il suo collocarsi nel solco della vittoria referendaria del 4 dicembre, ma non a qualunque costo, essendo sempre in agguato – come mostrano le prime reazioni – letture che tendono a riportarla nella prospettiva di un centrosinistra morto e sepolto o nella pura sommatoria dei vari (e non rigogliosi) cespugli nati fuori dal suo recinto.
Per non ripetere esperienze del passato ci sono alcune condizioni.
1) Prima i contenuti, poi gli schieramenti
Nella costruzione di un nuovo soggetto occorre abbandonare ogni logica di schieramento e puntare esclusivamente sui contenuti. Tanto più se si voterà con un sistema proporzionale (come è di fatto il Consultellum), il punto fondamentale sarà portare in Parlamento posizioni chiare e impegnative da immettere nel confronto politico in una prospettiva di medio termine e non di (irrealistiche) immediate alleanze. E il ricatto del “voto utile” o del “meno peggio” perderà di senso, qualunque sia la soglia di sbarramento.
2) La grande questione della diseguaglianza
Sui contenuti, la grande questione, evidenziata nell’appello di Falcone e Montanari, è quella della disuguaglianza, accentuata a dismisura dalla crisi. Alcuni – le destre, il Pd e i suoi satelliti – la considerano, nei fatti, un dato inevitabile, se non positivo, e ritengono che la ricetta per uscire dalla crisi sia interna al liberismo e che non possa prescindere dalla riduzione della spesa pubblica, dall’abbattimento dello stato sociale, dalla diminuzione delle tutele del lavoro, dall’espansione del privato, dall’investimento in opere faraoniche: è una linea politica che viene da lontano e solo chiudendo gli occhi si può pensare che, senza una sconfitta elettorale, possa cambiare nei tempi brevi.
Altri pensano che la strada sia quella opposta, cioè una rinegoziazione delle politiche europee a partire della esigenze dei paesi del Sud e un nuovo corso (finanziato con il taglio delle spese militari e di quelle per le grandi opere, una imposizione fiscale equa ed efficiente, il recupero delle risorse concesse a fondo perduto alle banche) fondato su un piano di interventi pubblici sull’obiettivo della piena occupazione, sulla razionalizzazione del welfare, sul reddito di cittadinanza, sulla riconversione ecologica, sul riassetto del territorio e delle infrastrutture del paese, sulla valorizzazione delle migrazioni e via elencando.
Sono due prospettive inconciliabili tra cui non esistono vie intermedie. Occorre scegliere in maniera esplicita senza furbizie tattiche (e il voto inglese di ieri mostra che una scelta netta può essere pagante anche in chiave elettorale);
3) Una forte discontinuità
Non si va da nessuna parte senza una forte discontinuità in punto di metodo, persone, linguaggio. Una discontinuità che accantoni apparati impresentabili (anche al di là delle loro reali responsabilità) e sappia aggregare movimenti, associazioni, singoli, amministratori di piccole e grandi città in un progetto di rinnovamento delle stesse modalità della rappresentanza.
Una discontinuità che sappia anche fare i conti con un sistema comunicativo semplificato, assertivo, spesso demagogico che non ci piace ma da cui non si può prescindere (pur mantenendone il necessario distacco critico). Già sentito, certo, e più volte. E negli ultimi dieci anni vi si è risposto con proposte verticistiche, burocratiche e perdenti come quella della Sinistra Arcobaleno del 2008 e di Rivoluzione civile del 2013… Cosa autorizza a pensare che, oggi, si possa voltar pagine?
Un punto di partenza c’è: la mobilitazione referendaria che ha dimostrato come, qualche volta, l’impossibile diventa possibile.
4) Le buone idee non bastano, serve l'organizzazione
C’è un ultimo problema. In tutti i recenti tentativi di costruzione di esperienze alternative ci si è mossi sul presupposto che le buone idee siano da sole capaci di produrre l’organizzazione necessaria (e sufficiente).
Non è così. Lo dico pur consapevole, da vecchio movimentista, delle degenerazioni burocratiche e autoritarie che si annidano nell’organizzazione. Contro queste derive va tenuta alta la guardia ma la sottovalutazione del momento organizzativo (e della sua legittimazione) è stata una delle cause principali della rissosità e della inconcludenza di molte aggregazioni politiche ed elettorali dell’ultimo periodo, a cominciare da quella di “Cambiare si può” (nata con grande entusiasmo e partecipazione ma presto paralizzata dalla mancanza di luoghi di decisione e, per questo, diventata facile preda di una nefasta e alienante occupazione).
C’è – pare – un po’ di tempo prima delle elezioni: sarebbe bene sfruttarlo sin dal 18 giugno.
Left, 9 giugno 2017 (c.m.c.)
Perché elezioni anticipate? E chi decide che debbano essere anticipate? È paradossale che non appena i maggiori partiti si sono accordati per darci una legge elettorale si sentono legittimati a mettere in circolo l’idea di andare a elezioni anticipate subito, appena dopo l’estate. Perché non aspettare la fine naturale della legislatura? Ha una qualche giustificazione questo anticipo? Ha la stessa giustificazione, di quella di colei che, comprando un cappotto in estate per approfittare dei saldi lo voglia indossare subito, proprio perché appena comprato.
Vannino Chiti su Huffington Post ha scritto con molta ragione a proposito della poca cultura costituzionale che anima gli attuali partiti. «Può darsi che sia fuori moda – scrive Chiti – ma per me il rispetto delle regole e della Costituzione resta fondamentale: non si può ridurre, in un accordo tra partiti, a quello di semplice notaio il ruolo del presidente della Repubblica. Spetta a lui fissare la data delle elezioni! Non si può, in incontri tra Forza Italia e Pd, stabilire il giorno di conclusione per l’approvazione della legge elettorale, dimenticando che spetta farlo alla Conferenza dei capigruppo convocata e diretta dal presidente del Senato. Oltre al 7 di luglio, è stata decisa anche l’ora?».
Gli attori politici di questa fase storica sono mediocri e deludenti, e la causa non è l’esito del referendum del 4 dicembre. Se fosse passato il Sì, i partiti non sarebbero per incanto diventati “partiti politici” propositivi e di buon conio; sarebbe restati esattamente gli stessi ma così ingombranti (quelli al governo, soprattutto) da poter permettersi di essere mediocri con protervia.
Oggi, che devono dimostrare sul terreno di essere forze politiche capaci nella loro diversità di avanzare proposte che siano diverse e capaci di produrre risultato, oggi, i partiti mostrano la loro pochezza, che cercavano di nascondere scaricando i problemi sulla Costituzione. Sono partiti “cartello” – cioè tutti loro prima di tutto istituzionali ed essenzialmente parlamentari – con addentellati sociali labili e spesso assenti, e con uno sforzo che è solo volto ad avere pubblicità, ma senza lasciar intendere ai cittadini-elettori quale prodotto offrono che non sia anche offerto dagli altri.
Il mainstreamismo è la malattia dei partiti apparato elettorale: loghi (non luoghi) simbolici e strutturalmente quasi inesistenti e leggerissimi, vuoti di idee-principi portanti che riescano a dare visibilità non solo ai loro leader e leaderini.
Finalmente una buona notizia dal fronte più dolorante del mondo di oggi. Ma «non ci si illuda che bastino pareri e future sentenze come grimaldello per scardinare l’ideologia neonazionalista della Fortezza Europa, trasformandola in una casa dalla cui porta entra chi ha diritto».
l'Avvenire, 9 giugno 2017
.Grazie a un parere dell’avvocato generale della Corte Ue inizia finalmente a vacillare il "sistema Dublino", cardine della Fortezza Europa. E, a conti fatti, uno dei maggiori impedimenti a una più equa gestione sul territorio Ue del problema dei migranti. Il principio impone ai profughi di presentare domanda di asilo nel primo Stato Ue in cui hanno posto piede. Altrimenti vi ci vengono rispediti. "Dublinanti" è diventato così il brutto sinonimo, quasi dispregiativo, usato dalla burocrazia per indicare chi è stato respinto nel Paese di primo arrivo. Da ieri si riconosce che in caso di crisi potrebbe non valere più.
In questa lunga crisi migratoria, a conti fatti, la norma è stata un peso per la Ue. Oltre agli enormi costi umani, ha infatti ulteriormente appesantito la situazione degli Stati in prima linea come il nostro Paese, la Grecia e la Spagna. L’Italia in particolare si è trovata a pattugliare, dopo il 3 ottobre 2013, un tratto di Mediterraneo smisurato con la propria Guardia Costiera per salvare vite umane stipate da bande di trafficanti senza scrupoli su barche sempre più fragili e contemporaneamente, grazie al "Dublino" a mettere in piedi un sistema di accoglienza complesso e oneroso perché obbligata ad assistere coloro che aveva salvato. Anche la xenofobia ricomparsa sul web e nelle strade deve molto al caos creato dalle norme dei regolamenti Dublino. Caos cui si è sommata l’indifferenza dei membri transalpini della Ue verso il flusso in arrivo prima dal Medio oriente e poi dall’Africa che ha portato Roma – come anche la Grecia – a rinunciare a prendere le impronte alle persone salvate che si sono dirette verso nord per ricongiungersi ai familiari laddove welfare e mercato del lavoro offrivano maggiori possibilità di integrazione.
Dopo un lungo braccio di ferro l’Ue ha raggiunto nel 2015 un fragile e discutibile compromesso, lasciando alla Turchia il compito di bloccare la rotta balcanica per tre miliardi di euro mentre il sistema di ricollocamento interno per quote di profughi eritrei e siriani avrebbe dovuto alleggerire la pressione sugli Stati mediterranei. Ma l’accordo è congelato per l’avversione dell’Europa orientale.
Ieri l’Avvocato generale della Corte Ue ha dato ragione alla Ue mediterranea. Non si può applicare la normativa di Dublino in casi di emergenza, ha stabilito. Cosa cambia? Il diritto di rispedire i migranti nei Paesi di primo ingresso potrebbe essere di fatto sospeso. In concreto, guardando ai nostri confini, potrebbe ad esempio finire il blocco dei gendarmi francesi a Ventimiglia e cessare il rimpatrio dei minori africani da parte delle guardie di frontiera austriache. Per l’Avvocato generale il fatto che in un momento di forte pressione migratoria uno Stato membro organizzi o faciliti il transito dei migranti verso altri Paesi europei non è contestato. Vedremo a breve se a questo parere su casi concreti di richiedenti asilo farà seguito una sentenza della Corte di Giustizia del Lussemburgo. In genere il parere viene accolto.
Comunque il banco potrebbe saltare. È la prima volta che alla voce critica delle Ong e delle organizzazioni umanitarie contro le norme "dublinanti" si affianca un parere legale che sostituisce il buon senso alla rigidità di un regolamento insostenibile. Ora è il turno di una soluzione politica che sancisca il definitivo superamento del "muro di Dublino". Abbia il coraggio di riformarlo con un meccanismo di suddivisione responsabile e solidale dei rifugiati e dei richiedenti asilo in base alla popolazione, senza eccezione, includendo tutti e 27 i membri. Non è certo a colpi di sentenze che la Ue può uscire dalla profondità di questa crisi migratoria che contribuisce a metterne a repentaglio l’unità.
Nonostante le difficoltà, non ci sono alternative a una politica europea unitaria, ricca di lungimiranza e di umanità, per provare ad affrontare questi scenari complessi. E non ci si illuda che bastino pareri e future sentenze come grimaldello per scardinare l’ideologia neonazionalista della Fortezza Europa, trasformandola in una casa dalla cui porta entra chi ha diritto. Solo un’Unione più coesa nell’accoglienza responsabile può trovare lo slancio unitario per vincere la sfida e riuscire a governare con una logica nuova – quella della cooperazione con l’Africa – flussi che altrimenti rischiano di non fermarsi.
I numerosi punti deboli della proposta di Pisapia per le elezioni. A noi per quardare altrove basterebbe ricordare che vuol fare un centro sinistra dove una sinistra non c'è, e che considera il renzismo un potenziale alleato.
il manifesto, 10 giugno 2017
E’ indubbio che l’idea di Giuliano Pisapia di federare i gruppi frantumati e dispersi della sinistra contiene elementi di dinamismo politico da apprezzare. Soprattutto alla luce dell’inerzia che oggi sembra paralizzare quel campo, incapace peraltro di far leva e valorizzare le forze che si sono aggregate intorno alla campagna referendaria coronata da successo il 4 dicembre. Ma l’apprezzamento si arresta qui. Per il resto la sua iniziativa appare il vecchio tentativo di ricucitura di un ceto politico diviso, in vista della competizione elettorale. Come ricordano Anna Falcone e Tomaso Montanari (il manifesto, 6 giugno).
In tutta la condotta che ha caratterizzato la sua manovra nelle ultime settimane – soprattutto l’ambizione di ricomporre un centro-sinistra con il Pd di Renzi – mostrano una superficialità di lettura della situazione italiana sconcertante e drammatica. Ma come legge Pisapia, se non le tendenze di fondo del capitalismo degli ultimi 30 anni, la storia italiana degli ultimi 3 anni? Davvero Renzi è personaggio da confederare in un nuovo (?) centro-sinistra? E qui non voglio riferirmi alla persona.
Negli ultimi giorni, peraltro, i suoi ex alleati, da Alfano a Cicchitto, hanno aggiunto pennellate shakespeariane al ritratto del leader, campione di tradimenti e menzogne. I cattolici, quando sono inclini al cinismo, per una misteriosa chimica teologica, diventano imbattibili in materia.
Ma è più importante osservare la politica che egli ha condotto con il suo governo negli ultimi 3 anni. I cui risultati fallimentari sono facilmente osservabili nel ristagno sostanziale dell’economia, nella persistenza inscalfita della disoccupazione, nella crescita della povertà assoluta e relativa, nella crescente marginalità del Sud, nella riduzione delle risorse alla ricerca e all’Università.
Quello che stupisce in coloro che si ostinano a voler trascinare Renzi nella famiglia della sinistra è il non riuscire a vedere che dietro la facciata pubblicitaria del giovane condottiero c’è una politica non solo moderata, ma vecchia, la stessa che da anni sta condannando il Paese a una lenta consunzione.
E’ sufficiente esaminare tre iniziative strategiche del suo governo per comprendere che l’allora presidente del consiglio ha condotto delle politiche esattamente inverse alle necessità della fase storica attuale.
L’abolizione dell’Imu sulla prima casa – strizzata d’occhio ai ceti abbienti – ha accentuato la tendenza storica alle disuguaglianze sociali, quella ricostruita su grandi serie da Thomas Piketty, quella denunciata oggi persino dall’Ocse, come una causa rilevante della stagnazione economica internazionale.
Da noi la disuguaglianza ha una connotazione ancora più grave: essa si presenta come emarginazione delle nuove generazioni: disoccupazione, precarietà, lavoro gratuito, alti costi delle rette universitarie, scarse risorse per la ricerca, per il welfare delle giovani coppie (case, asili, scuole materne).Le figure che portano creatività, energia e spirito innovativo in ogni ambito della vita sociale vengono messe ai margini.
Ebbene su questo punto occorre oggi a sinistra una intransigente chiarezza. L’idea di una politica che raccolga i consensi dei ceti moderati è una vecchia pratica che può portare a qualche successo elettorale, ma che non va alla radice dei problemi. Alle famiglie dei ceti moderati occorre dire con coraggio, che senza una importante redistribuzione della ricchezza, senza un loro apporto economico al rilancio del Paese i loro figli e nipoti andranno via, l’esclusione sociale si accrescerà, L’Italia avrà un incerto futuro. E nessuno deve dimenticare che da noi la marginalità sociale si trasforma in humus per la criminalità grande e piccola.
Il secondo punto strategico riguarda il lavoro. Con il Jobs act Renzi ha continuato la vecchia politica di flessibilità del lavoro. E’ la stessa all’origine della crisi mondiale iniziata nel 2008. I bassi salari e la precarietà del lavoro negli Usa, surrogati dall’indebitamento delle famiglie per il sostegno alla domanda, costituiscono il modello di sviluppo che è rovinosamente crollato. E occorrerebbe ricordare che sul piano storico esistono le prove del fatto che la disponibilità di manodopera a buon mercato ritarda gli investimenti in innovazione tecnologica.
Ai primi del ‘900 i trattori hanno rapidamente conquistato le spopolate campagne degli Usa. In Italia la vasta presenza del bracciantato povero ha ritardato a lungo l’ingresso delle macchine in agricoltura.
Infine la Buona scuola. Può sembrare il punto strategicamente meno rilevante. Al contrario, è quello che mostra il provincialismo e l’arretratezza culturale del progetto di Renzi. Mandare i nostri studenti in qualche fabbrica a “fare esperienza”, è una battaglia di retroguardia. Riporta le lancette della storia all’età delle manifatture. Oggi i profitti capitalistici non sono assicurati da una qualche manovalanza ben addestrata, ma dalla creatività, dalla invenzione, dalla capacità di immaginare nuovi prodotti e servizi.
Serve cultura, sapere complesso, non abilità manuale ed esperienza aziendale. Anche sotto il profilo strettamente capitalistico è utile studiare Platone, piuttosto che assistere alla confezione degli hamburger da McDonald.
«C’erano solo individui. Atomi solitari, ognuno accecato da un "si salvi chi può" esclusivo, arrestato al confine del proprio Io. Ognuno in guerra disperata col proprio vicino in una fuga da non-si-sa-cosa verso non-si-sa-dove…». il manifesto,
8 giugno 2017 (c.m.c.)
Il surplus – l’eccedenza – di messaggi e di energia negativa dell’evento, e il deficit di pensiero con cui è stato elaborato. L’accaduto è (non riesco a trovare altra parola) “inusitato”: una folla ferma, ordinata, fino ad allora tranquilla d’improvviso impazzisce, senza altra apparente ragione se non la folla stessa. Qui non ci sono hooligans che aggrediscono, come all’Heysell trent’anni fa. E nemmeno un attacco terroristico: di terroristi nemmeno l’ombra, solo molto terrore sottocutaneo che evidentemente attraversava come una corrente elettrica quella massa di corpi assiepati. Per tre giorni si è cercato un episodio,anche minimo, che possa aver scatenato il panico: un petardo, uno spray urticante, delle urla minacciose, un gesto provocatorio. Nulla. Almeno fino ad ora. Tutto sembra parlare di un fenomeno (“inusitato”, appunto) di autocombustione della folla. Di un evento (terribilmente distruttivo) privo di causa efficiente. E di un “autore”.
È questa la cosa – il monstrum, grande come una piazza grande – su cui dovremmo alzare l’allarme e applicare il cervello: questa gigantesca sindrome mentale che ci rende irriconoscibili a noi stessi (e inspiegabili), materializzatasi nel cuore di Torino. E invece è partita subito la banale caccia all’errore da cronaca quotidiana, la più trita polemica politica sulle colpe amministrative e sui loro colpevoli: il prefetto, il questore, il sindaco, il capo dei vigili, che pure qualche errore avranno fatto se alla fine si sono contati oltre 1500 feriti (in gran parte, bisogna dirlo, non gravi). Ma che non possono certo essere indicati all’origine del disastro (a meno di pensare che un’ordinanza, qualche transenna meglio posizionata, un centinaio di vigili o agenti in più avrebbero potuto per miracolo arginare quel fiume di folla impazzita). E la focalizzazione sui quali serve solo a rassicurare e rimuovere il carattere tremendamente perturbante dei fatti.
Invece quel perturbante dobbiamo tenerlo ben fermo davanti agli occhi. Per decodificare ciò di cui ci parla. E la prima cosa che ci dice, attraverso quelle immagini notturne, un po’ gotiche, di quella piazza in preda ai fantasmi, è che siamo cambiati. Nel profondo. La guerra a bassissima intensità che da anni si combatte nel cuore d’Europa (a fronte di quella ad altissima intensità che si consuma oltre i suoi confini), questa guerra le cui armi sono coltelli, martelli, furgoni, Suv Van e Tir, oggetti domestici o quasi, ha avuto in realtà un fortissimo impatto mentale, sulla nostra sfera psichica. Quello stillicidio di attacchi, da Charlie Hebdo a Bataclan a Nizza Berlino Londra Manchester… ha depositato sul nostro sistema nervoso collettivo una pellicola tossica. Ha riconfigurato i nostri neuroni-specchio sui codici del panico. E ha abbassato la soglia di allarme fin quasi a zero, così che il meccanismo della chiusura difensiva verso ogni altro scatta pressoché “per nulla”. Siamo davvero tutti dei “mutanti”, anzi ormai dei mutati.
La seconda cosa che Torino ci dice è che la profezia annunciata dalla signora Thatcher all’inizio degli anni ’80, si è pienamente adempiuta. «La società non esiste, esistono solo gli individui», predicava. E in effetti in quello spazio pubblico per eccellenza che è la piazza centrale della città la Società non c’era. C’erano solo individui. Atomi solitari, ognuno accecato da un «si salvi chi può» esclusivo, arrestato al confine del proprio Io. Ognuno in guerra disperata col proprio vicino in una fuga da non-si-sa-cosa verso non-si-sa-dove… Chi c’era racconta cose che chiede di non ripetere, di nasi fratturati a gomitate, gambe storpiate, bambini calpestati e neppur visti, abiti stracciati nel tentativo di sopravanzare chi era davanti come ostacolo, i più fragili abbattuti dai più muscolosi, i più lenti dai più veloci… È come se lì si fosse materializzata, in forma di girone infernale, l’immagine plastica del paradigma che definiamo “neo-liberista”. La potenza dissolvente del suo negativo, in una rappresentazione drammaturgica del suo individualismo possessivo, anzi predatorio.
La sua competitività – il suo
mors tua vita mea – eletta a dato strutturale e naturale. La rottura dei legami sociali visti come ostacolo e rallentamento. L’assenza di senso che non sia quello del mero sopravvivere. La dissoluzione di ogni lavoro – anzi “mestiere” – in astratta ed effimera funzione. Non è senza significato che gli unici “eroi” di quella notte, coloro che hanno fatto scudo e salvato Kelvin, il bambino di origine cinese, siano un
bodyguard nero e un ex soldato italiano, due che hanno ritrovato nella propria “professione” la risorsa per “restare umani”. E che il giovane che, a braccia larghe, si sforzava di calmare i vicini perché non era “successo niente” – uno dei pochi “spiriti critici” in quella follia – sia stato selezionato come possibile colpevole, fermato e interrogato per ore.
Curare questa doppia sindrome dovrebbe essere compito della politica. Che invece oggi più che mai mostra la propria miseria, miopia e, in qualche caso, vocazione sciacallesca, nel ricercare nel proprio competitor immediato il colpevole di tutti i mali.
il manifesto, 8 giugno 2017, con postilla
In vita mia, – ormai piuttosto lunga, direi, – penso che non mi sia mai capitato d’imbattermi in una situazione politico-istituzionale come quella cui stiamo assistendo in Italia da alcune settimane, e che avrà fra poco la sua ultima sanzione e ricaduta. Intendo l’accordo di ferro stretto fra i quattro maggiori partiti italiani, il Pd, Forza Italia, Movimento 5Stelle e Lega Nord, - per varare una nuova legge elettorale e andare di corsa al voto. Sì, certo, nel 1953 il tentativo della Dc di far passare la cosiddetta “legge truffa”… I pericoli corsi dalla Repubblica nel 1960 con il governo Tambroni… L’ascesa al potere nel 1992 dell’esecrabile Berlusconi… Sì, certo, tutto questo e molto altro è già accaduto nel nostro instabile e stravolto paese. Ma la differenza, rispetto alla situazione di oggi, è che in tutti questi altri casi esisteva un’alternativa, un punto di riferimento visibile e consistente, in grado di opporsi ai disegni eversivi che attraversavano la nostra repubblica.
Oggi no, non c’è, o non si vede, o non ha abbastanza forza, per ora, per farsi vedere. Ciò consente, - e questo è un dato incontestabile sul piano pratico-storico, - di procedere d’amore e d’accordo tra quattro forze politiche (apparentemente) fra loro opposte allo scopo di realizzare una rivoluzione, appunto, politico-istituzionale, da cui sarà estremamente difficile tornare indietro.
Naturalmente tutto questo non sarebbe stato possibile, se non fosse il prodotto di un processo globale che viene avanti da anni (con responsabilità ampiamente diffuse anche nelle attuali minoranze); e cioè il mutamento di natura e di destinazione di quelle forme collettive che sono state il cuore del sistema democratico in Italia, in Europa e nel mondo, e cioè i partiti politici. Concepiti all’origine, e poi vissuti a lungo, con ideologie spesso contrapposte ma con modalità sostanzialmente omologhe, come espressione di larghi (o comunque significativi) settori della società contemporanea, essi hanno perduto a poco a poco questa funzione di rappresentanza allargata e sono diventati strumenti di ristretti gruppi dirigenti, anzi, nell’ultima e più significativa fase, semplicemente di un uomo solo.
Questo, forse, nella situazione italiana non è stato colto ancora fino in fondo. Nella gestione dei partiti si è fatta avanti, e alla fine si è imposta, la pratica di una categoria eminentemente privatistica come quella dell’utile riservato a uno solo, e da lui compiutamente e ormai incontestabilmente gestito (persino con una distribuzione, che si direbbe percentuale, degli utili fra i fedeli). Ha cominciato Berlusconi; ha continuato, con indiscutibile genialità creativa, Grillo; Salvini è puramente e semplicemente nato da questo; e Matteo Renzi, a colpi di primarie, ha plasmato il Pd su tale modello, talvolta sopravanzandolo nell’audacia delle proposte innovative.
Si capisce dunque perchè “i quattro dell’Orsa maggiore”, presunti protagonisti di una lotta morale fra loro nella vita politica italiana, si siano trovati così facilmente e rapidamente d’accordo su caratteristiche e finalità della legge elettorale, di cui in questi giorni si sta parlando. Il fatto è che essi hanno un interesse comune, che va ben al di là delle possibili (e peraltro molto ipotetiche) differenze di linea. Questo interesse comune consiste nel procurare e ottenere che la situazione prima sommariamente descritta, - partiti di natura profondamente diversa rispetto a quella lasciataci in eredità dalla tradizione, - diventi parte integrante del sistema istituzionale italiano: mediante una legge elettorale che ne consenta la perpetuazione, al di là dei limiti normalmente concessi all’avvicendamento delle forze politiche di governo.
Non entro nel merito dei particolari più tecnici della futura legge elettorale, perché voci più esperte della mia lo hanno già fatto e senza dubbio continueranno a farlo, ma mi soffermo sui punti per me più qualificanti.
1) La scelta, indiscussa e indiscutibile, da parte del Sovrano (capilista bloccati o no), degli individui, - di tutti gli individui, - che andranno a rappresentare il suo Partito, - che andranno a rappresentare lui medesimo, - in Parlamento;
2) La cancellazione di qualsiasi altra forza di rappresentanza popolare, che, affiancata o contrastante con le quattro principali forze politiche, ne metta in pericolo in qualche modo, – anche limitatamente, anche discrezionalmente, - la egemonica rappresentanza di quell’area;
3) La riduzione del sistema politico italiano ai quattro partiti facitori della nuova legge elettorale , in maniera che, dopo il voto, sia lasciato indiscussamente a ognuno di loro il gioco delle maggioranze e delle minoranze il patto del Nazareno, che anticipò eloquentemente queste conclusioni della legislatura, potrebbe essere uno di modi con cui il prossimo governo verrà fatto; ma perché no, nelle condizioni date, un patto fra i due antieuropeisti amici di Trump e Putin, Grillo e Salvini? Ma le previsioni in questo senso non possono essere che avventate: diciamo che tutto diventerebbe possibile).
Le leggi elettorali dovrebbero in generale consentire di esprimere al meglio il consenso, e favorire quindi di volta in volta l’alternanza delle diverse forze politiche al governo. Questa invece serve a rendere stabile, anzi permanente, lo status quo: i quattro Sovrani si trovano d’accordo sul principio che, innanzi tutto, la rappresentanza parlamentare venga statualmente divisa fra loro quattro: alleanze e combinazioni si vedranno poi, ma non c’è da dubitare che, in base alla loro scelta originaria, qualche “inciucio” ne salterà fuori. Dunque, una sorta di “colpo di forza” in veste compiutamente democratica? Del resto, soluzioni autoritarie di ogni tipo sono sempre state rese possibili, oltre che dall’esercizio puro e semplice della violenza, anche da maggioranze democraticamente espresse, che si trovano d’accordo nel legittimare formalmente un restringimento degli stessi spazi di democrazia, che avevano reso possibile il formarsi di quelle maggioranze.
Siamo dunque fra l'incudine del mutamento elettorale impostoci e il martello delle future deformazioni democratiche: non più la democrazia come un campo ampio di partecipazione, confronto e lotta, ma un serraglio ben delimitato della legge assunta a tale scopo.
Se altri argomenti non fossero persuasivi, ce n’è uno che chiarisce senza ombra di dubbi la situazione: la volontà, anche questa assolutamente condivisa e comune, di abbattere il più presto possibile il governo Gentiloni e di andare subito dopo al voto (con una campagna elettorale limitatissima nel tempo e nelle intenzioni, quasi tutta estiva: tanto che bisogno c’è di persuadere gli elettori, basta portarsi dietro, ognuno, le propri truppe). Ora, non si ripeterà mai abbastanza che l’abbattimento, in questa chiave e con tali metodi dell’attuale governo, costituisce un vulnus alla credibilità dell’Italia, ai sui bilanci, alla sua (sia pur limitata) coesione sociale (a questo proposito: esiste forse la possibilità che il Presidente Mattarella, solitamente attento a questo aspetto delle cose, respinga tale sciagura in nome dei “superiori interessi nazionali”?).
Dunque, cosa spinge “i quattro dell’Orsa maggiore” a imboccare una strada così perigliosa così in fretta? Non potrebbero anche loro, votata la “loro” legge elettorale, aspettare il naturale esaurimento della legislatura? No, non possono aspettare. Popolo, forze politiche e intellettuali, associazioni, opinione pubblica organizzata (la stampa, ad esempio, ed altro) potrebbero maturare un’opposizione più netta, più convinta, persino più ruvida, di quanto finora non sia avvenuto (ma in parte è già avvenuto). Dunque, fa parte della riuscita dell’impresa anche la rapidità fulminea con cui viene concepita, messa in opera e realizzata: anche il costringere a pensare poco, a riflettere meno e a discutere ancora meno, costituisce un connotato non irrilevante dell’intera operazione.
Un aspetto positivo va tuttavia riconosciuto alle proposte di riforma elettorale di cui abbiamo cercato di discutere. E cioè: le forze oppositive sopravviventi, quasi tutte per ora (si sarebbe detto una volta) “a sinistra”, se si presentassero al confronto politico e al voto così come sono, uscirebbero tranquillamente di scena, che è un altro fondamentale obiettivo dell’attuale riforma elettorale. La condizione della sopravvivenza, e dunque del perdurare di un effettivo gioco democratico, per quanto inizialmente difficilissimo, è che tali forze presentino un solo volto del paese: da Orlando (se possibile) a Bersani a Pisapia a D’Alema a Civati a Fratoianni…
E questo per due motivi. Il primo è il più ovvio: per entrare nel prossimo Parlamento bisognerà presentare un volto unico al paese, ossia, se si vuole entrare di più nel linguaggio elettorale di cui stiamo parlando, una sola lista.
Il secondo motivo è invece molto, molto più importante. Un’alternativa oggi non c’è: dunque va costruita, anch’essa rapidamente, finché c’è tempo. L’esperienza Macron in Francia, incomparabilmente più dignitosa e rilevante di quanto sta accadendo nel nostro paese, dimostra anch’essa tuttavia che le “vecchie sinistre”, prese ognuna per sé, nella grande maggioranza dei casi europei, non ce la fanno più a interpretare e rappresentare l’enorme mutamento che società e politica hanno attraversato in questi decenni in Europa (nel mondo?).
C’è uno spazio, identificabile con vaste aree di cultura dell’alternativa e della partecipazione, con cui sarebbe possibile anche in Italia incontrarsi e colloquiare. A patto, ovviamente, che, anche su questo versante, come sarebbe paradossale, non si realizzi un mero incontro elettorale, ma si proceda a una rifusione profonda delle forze in gioco, per arrivare a un organismo unico totalmente diverso. Non si parla più di “Costituente della sinistra”? Si torni a parlarne. La questione, infatti è tutt’altro che teorica, come ho cercato di argomentare dall’inizio di questo articolo. È, innanzi tutto, una questione di sopravvivenza: non dei singoli partiti; ma del sistema democratico-rappresentativo in Italia.
postilla
L'insieme dei gusci e dei nomi del millennio scorso saranno capaci di attrarre nell'arena delle decisioni elettorali una parte consistente del popolo di oggi?
Ytali, 6 giugno 2017 (c.m.c.)
“Il muro invisibile. Come demolire la narrazione del debito” a cura di Antonio De Lellis (Bordeaux Edizioni 2017)
E se il debito fosse il frutto di una scelta ragionata per imprigionare i popoli? E se il tutto fosse finalizzato a impoverire i popoli asservendoli alle logiche dominanti della finanza e di un mercato neoliberista, ormai esanime, che distrugge posti di lavoro o uccide i lavoratori e il pianeta, la nostra casa comune? Da queste domande prende spunto il libro appena uscito Il muro invisibile. Come demolire la narrazione del debito a cura di Antonio De Lellis (Bordeaux Edizioni 2017) a cui ho contribuito con un saggio su etica, economia e solidarietà sociale nella visione islamica contemporanea.
Il libro raccoglie vari altri saggi – di ispirazione cattolica e non – in cui gli autori ragionano sui diversi aspetti del debito e sulla costruzione di percorsi di aggregazione che possano invertire le attuali rotte di marginalizzazione e depauperamento per creare un percorso comune di giustizia, sostenibilità, uguaglianza e pace, affinché ci sia per tutti terra, casa e lavoro.
Il mio ragionamento sul “debito” si declina a partire da un versetto del Corano, a mio avviso tra i più belli, che esalta il valore economico della generosità: «E quando uno dona dei suoi beni sulla via di Dio è come un granello che fa germinare sette spighe, ognuna delle quali contiene cento granelli, così Dio darà il doppio a chi vuole, e Dio è ampio e sapiente» (Cor. II, 26).
Sono partita da questo per illustrare un diverso modello di sviluppo economico, welfare e solidarietà (per molti versi utopico), che l’islam, come religione, propone. La solidarietà sociale è l’asse portante del pensiero economico islamico contemporaneo, un filone relativamente recente di studi e ricerche che, a fronte della pervasività dei processi di globalizzazione, propone una reinterpretazione della propria “tradizione” culturale, basata sul Corano e sui testi degli autori medievali, e della “modernità” occidentale.
Ne nascono teorie e pratiche economiche connotate come islamiche, frutto in realtà di un processo di ibridazione con prestiti dai principi dell’economia di mercato così come dal socialismo. In ambito islamico, l’interdipendenza tra etica e attività economica ha prodotto fenomeni come la finanza islamica, che ormai ha superato i confini dei paesi islamici per affermarsi anche in Europa, ma ha anche elaborato un impianto islamico di welfare, costruito sulla rivisitazione dell’elemosina legale (zakàt) che grazie alla rete globale di internet sta sperimentando nuove e sempre più efficaci forme di raccolta e distribuzione.
Nella visione islamica, gli obiettivi di sviluppo non sono realizzabili senza tener conto del fattore umano, la cui tutela è garantita nell’ambito dello stato sociale. Gli interventi del welfare devono essere modulati in base a criteri di urgenza sociale: lotta alla povertà, famiglia, formazione e inserimento lavorativo. L’importanza della solidarietà sociale nella concezione islamica deriva anche dal principio secondo cui l’uomo, in quanto rappresentante di Dio sulla terra, altro non è che l’affidatario delle risorse terrestri: queste appartengono in ultima istanza a Dio e sono un bene collettivo di cui tutti (le generazioni presenti e quelle future) hanno diritto di godere. Da qui la logica del rifiuto della competizione “cannibalistica” proposta – secondo l’ottica islamica – dal neoliberismo e la sua sostituzione con una “competizione cooperativa”.
Gli economisti islamici contemporanei ravvisano nella razionalità mercantile proposta dal capitalismo internazionale e dalla spinta alla globalizzazione una nuova forma di imperialismo, un impulso alla crescita che non ha per finalità i bisogni sociali o individuali ma diventa fine a se stessa; l’umanità appare sempre più dominata da questa razionalità mercantile che privilegia le funzioni economiche e appare retta dai valori di efficienza e redditività. Viceversa, secondo Umar Chapra, uno tra i più noti economisti islamici dei nostri tempi, i paesi islamici hanno bisogno di un differente sistema economico capace non solo di garantire benessere e sviluppo, ma anche di soddisfare l’esigenza di fratellanza e giustizia.
Il sistema dovrebbe essere in grado non solo di rimuovere le disuguaglianze, ma anche di garantire una giusta riallocazione delle risorse in modo tale che siano assicurate sia l’efficienza che la giustizia. Dovrebbe essere in grado di motivare i soggetti ad attenersi ai suoi principi e ad agire non solo nel proprio interesse ma anche in quello della collettività. Tale riposizionamento del sistema economico è possibile solo attraverso riforme di politica economica e sociale tali che nessun individuo o gruppo possa trarre un ingiustificato vantaggio violando i principi base del sistema. Per creare un equilibrio tra le scarsità delle risorse e i bisogni è necessario focalizzarsi sugli stessi esseri umani piuttosto che sul mercato e sullo stato.
Gli esseri umani non possono diventare destinatari e mezzi di un sistema economico a meno che esso non sia basato su una visione d’insieme (una Weltanschauung) che restituisca loro un posto centrale. L’islam ha una Weltanschauung e una strategia armoniche con i suoi principi religiosi, che sono in grado di fornire una guida per una soluzione giusta e fattibile dei problemi che i paesi islamici si trovano ad affrontare, partendo dal presupposto che ci sia la volontà politica di adottare gli insegnamenti islamici e implementare delle riforme coerenti con tali principi. Dato che le economie di molti paesi islamici sono ancora in via di sviluppo, non dovrebbe essere difficile – sostiene Chapra – adottare un nuovo progetto e riorientare i sistemi economici e finanziari. Lo sviluppo non è, dunque, un fatto meramente economico; fede e etica hanno un ruolo fondamentale nella crescita di una regione (Chapra, Islam and the Economic Challenge, Markfield, 1992).
Fede, solidarietà e una forte morale possono fare da volano per lo sviluppo economico poiché creano unità e spirito di sacrificio. Per gli economisti islamici, il discorso religioso si integra con quello economico tenuto conto che etica e morale sono elementi fondamentali della realtà sociale ed economica.
Il welfare islamico oggi: modelli e prospettive
Lo studio su un modello di welfare islamico applicabile al contesto contemporaneo si colloca nel quadro del complesso rapporto tra tradizione e modernità, continuità e rottura nel mondo islamico e la ricerca (che riguarda un contesto ben più ampio di quello islamico) di modelli alternativi di sviluppo e protezione sociale rispetto a quelli convenzionali, rivelatisi spesso inefficaci o fallimentari nei paesi emergenti anche a causa di problemi economici strutturali e dell’incapacità delle classi dirigenti di conciliare crescita economica e programmi di welfare. Le politiche di aggiustamento strutturale e le riforme neo-liberiste implementate in molti paesi arabi negli ultimi decenni, con il conseguente ridimensionamento del ruolo dello stato, soprattutto nel campo dell’assistenza sociale e medica e dell’istruzione, hanno maggiormente dato spazio a iniziative islamiche di welfare.
In paesi come l’Egitto e la Giordania (ma possono spiegarsi in questi termini anche la vittoria di Hamas nelle elezioni politiche del 2006, così come il sostegno che Hezbollah trova in Libano), movimenti e partiti legati ai Fratelli Musulmani hanno guadagnato consenso anche grazie alle molte iniziative di welfare dal basso che essi conducono. In Marocco la crescita del Partito Islamico per la Giustizia e lo Sviluppo, ormai accettato nella scena politica specialmente dopo le riforme liberiste introdotte dal re Muhammad VI, è legata anche alla sua attività nei quartieri più poveri e al suo ben organizzato associazionismo femminile.
Nel sistema ridistributivo proposto dall’islam, l’elemosina rituale, uno dei pilastri della fede, gestita a livello statale, para-statale o tramite associazioni caritative locali e internazionali, è considerata da sempre il principale strumento operativo. Dal punto di vista dell’etica economica islamica, la società è un sistema cooperativo in cui l’individuo, agente responsabile, una volta soddisfatti i propri bisogni, si prende naturalmente cura di quelli degli altri secondo le proprie capacità.
L’odierna dottrina economica islamica sottolinea l’importanza di liberare la comunità dalla povertà, incoraggiando ciascuno a trasferire parte dei beni ai poveri. Si pone l’accento sulla riabilitazione e il recupero dell’autosufficienza, facendo sì che il povero ridiventi un membro produttivo del gruppo sociale. Prendendo spunto dagli insegnamenti coranici, dalla tradizione profetica e giurisprudenziale dell’islam classico, gli economisti islamici contemporanei cercano di sviluppare un modello macroeconomico basato sullo spirito cooperativo nei rapporti tra gli agenti economici. Essi enfatizzano il fatto che l’islam incoraggia la giustizia distributiva e assicura un dignitoso standard di vita a tutti i membri della società attraverso l’istruzione, la formazione, un lavoro decoroso, un giusto salario, la sicurezza sociale e l’assistenza ai poveri.
Per raggiungere questi obiettivi non si può prescindere dall’introduzione di un moderno sistema fiscale in cui l’elemosina legale (zakàt) deve, però, occupare un posto centrale. Essa assume dunque un grande valore, anche simbolico, nella costruzione di un welfare state islamico. Alle associazioni islamiche non è sfuggito che anche la raccolta delle elemosine poteva trarre vantaggio dalle grandi potenzialità della rete: ultima metamorfosi del lungo cammino di questo pilastro dell’islam dal medioevo ad oggi sono gli zakàt calculators, formulari elettronici che permettono di calcolare, e in genere anche di pagare on-line usando una carta di credito, la zakàt. Molte organizzazioni e ONG islamiche (tra cui le note Muslim Hand, Muslim Aid, Muslim Relief) hanno al loro interno uno zakàt calculator per raccogliere fondi con cui finanziare progetti assistenziali o di intervento in caso di disastri e calamità naturali, destinati prevalentemente alle comunità islamiche, ma non solo.
Il paradigma della secolarizzazione che ha dominato il secolo scorso sembra superato nel XXI secolo, insieme all’idea che la perdita di confini dell’agire umano avrebbe consentito l’espansione su scala planetaria di una cultura egemone. La globalizzazione ha, viceversa, messo a nudo i conflitti di cui soffre ogni società, e minacciato le identità storiche locali, esponendole ai rischi della loro relatività. I processi di globalizzazione stanno proponendo in modo nuovo, spesso sullo sfondo di eventi dolorosi, la centralità del problema dell’identità, collettiva e individuale. Il confronto tra globalizzazione e religioni – in quanto elementi identitari fortemente sentiti – si propone ormai in maniera sempre più evidente.
L’etica islamica permette di relazionare le scelte statali ai bisogni dell’uomo e di garantire un armonioso svolgersi della vita sociale. In tale contesto la necessità di dare spazio alle esigenze dei più deboli si traduce in un programma solidaristico e la solidarietà viene intesa come principio che consente di assumere in modo etico l’interdipendenza tra gli uomini. La trasformazione della beneficenza in solidarietà appare destinata a diventare “stile di vita” degli uomini migliorando il tessuto sociale della comunità: sapersi partecipe nelle emergenze, in interventi destinati al bene degli altri diviene fattore di elevazione personale che finisce col migliorare il tessuto sociale della comunità. La solidarietà assurge a presupposto nell’avvio di attività sociali e, in particolare, del fenomeno del volontariato. Più in generale si pone alla base di una riformulazione del rapporto tra economia, diritto e morale sociale. Le odierne pratiche islamiche di welfare rientrano dunque in un più generale progetto legato all’attualizzazione dell’islam e alla sua pacifica convivenza con l’occidente e le altre religioni.
il manifesto, 6 giugno 2017
Cominciando dal nuovo ordine globale dopo la prima Guerra mondiale, la narrazione storica presenta un mondo sempre più interconnesso dal punto di vista economico e in espansione rispetto alle tecnologie di comunicazione. L’Europa si è sviluppata secondo l’internazionalismo liberale wilsoniano e ha superato l’era delle monarchie e degli imperi. Il panorama politico europeo consisteva in moderni stati nazione, i cui cittadini erano in possesso di un passaporto e di diritti civili, mentre negli anni Venti del Novecento la Società delle Nazioni come organismo sovranazionale si rivolgeva ai soggetti coloniali almeno nel caso di ex possedimenti degli stati conquistati.
Sempre in quegli stessi anni, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha lavorato per la diffusione su scala globale di leggi sul lavoro, introducendo patti tra i sindacati, gli stati e i lavoratori come misura contro lo sviluppo del movimento comunista. Ad un’analisi più approfondita, però, gli stati nazione moderni, nati dopo il 1919, seguivano l’idea di un’entità omogenea basata sullo stesso linguaggio, religione ed etnia, tutti e tre questi fattori combinati in una concezione essenzialista del nazionalismo e del patriottismo.
Accanto a questo processo di costruzione della nazione e tenendo conto dell’evoluzione del «mondo in connessione», in una dicotomia ossimorica, gli strumenti dell’esclusione e della marginalizzazione si sono decisamente diffusi. Anche l’istituzione di diritti delle minoranze era basata sulla individuazione dell’alterità. Va sottolineato il fatto che l’idea dell’esistenza di un’autenticità etnica, considerata un fattore di modernità, ha nutrito l’anti-semitismo e legittimato l’eliminazione delle popolazioni nomadi.
La società delle Nazioni si vantava di avere supportato e organizzato un cosiddetto «scambio di popolazioni» tra la Grecia e la Turchia nel 1923. L’organizzazione di stampo coloniale ancora vigente differenziava tra cittadini e soggetti originari delle colonie e offriva tutte le ragioni per legittimare differenti gradazioni di diritti civili, minando ciò che era stato dichiarato come universale e innegabile dalla tradizione dell’Illuminismo.
Utilizzando il concetto di cittadinanza, lo stato ha lavorato alla produzione di strumenti di esclusione, utilizzando la difesa dallo snaturamento «etnico» di una nazione come metodo. Un processo usato quasi ovunque nel mondo dopo il 1919, dall’Unione Sovietica agli stati fascisti. Di conseguenza, la lista di coloro che non rientravano nel contesto sociale di quella che era immaginata come una nazione etnicamente autentica era cresciuta significativamente ben prima che Hitler instaurasse il regime nazista in Germania.
Il risultato di queste molteplici forme di esclusione è di avere creato un nuovo tipo umano migrante. La denominazione contemporanea di profughi, nemici stranieri, sfollati ci dà un’idea di quanto il mondo dal ventesimo secolo si sia allontanato dal cosmopolitismo kantiano. Così, un supposto background trans-culturale si è trasformato nella più pericolosa e indesiderata questione durante il ventesimo secolo.
Mentre si concentrano sugli strumenti legali di esclusione, i governi elevavano a imprescindibile essenza la nozione di uno stato nazione etnicamente omogeneo, generando la riduzione della diversità culturale, con conseguenze devastanti. Come spiega Timorhy Snyder nel suo libro impressionante e terrificante Terre di sangue (Rizzoli), dopo Hitler e Stalin il tessuto sociale cosmopolita dell’Europa dell’Est è stato distrutto per sempre.
Ma così facendo, discutiamo su un problema europeo e sulla storia del fascismo? Non esattamente. L’inclusione dell’Asia conferma l’organizzazione ossimorica di un mondo sempre più connesso da una parte e di una distanza sempre maggiore tra i diritti politici e sociali, se paragonati alla protezione delle catene di merci e di oggetti e alle relazioni economiche, dall’altra parte. Invece di una continuazione del «mondo in connessione» come si era sviluppato nel tardo Ottocento, una separazione del mondo caratterizza il ventesimo secolo. Fino ad oggi, coloro che sono stati esclusi dalla protezione nazionale hanno avuto raramente una voce. Ciò che conosciamo, al di là delle testimonianze autobiografiche, risulta dagli strumenti che gli stati hanno utilizzato in un processo di marginalizzazione delle persone, per esempio le decisioni in merito all’immigrazione, il rifiuto della convalida dei passaporti, i tentativi di propaganda in contesti ideologici e politici vari.
Durente la Seconda Guerra Mondiale, la sovrapposizione tra la marginalizzazione e la connessione globale aumentò. Le parti in guerra imprigionarono civili in campi di internamento in Asia, Europa e Stati Uniti con l’accusa di essere «nemici della nazione». A partire dal 1942, una serie di accordi complessi tra gli stati belligeranti portarono ad attività di rimpatrio sia del corpo diplomatico, ma soprattutto di civili. Alcuni di loro avevano vissuto per anni in luoghi ora chiamati «esteri» rispetto alla loro nazionalità, sebbene le espressioni «nemici stranieri» e «rimpatrio» non corrispondessero alla loro concezione di sé.
In questo contesto sociale, il teatro europeo della guerra era ugualmente presente nel Pacifico, come testimonia l’esperienza delle navi di scambio che spesso ospitavano diplomatici che rappresentavano uno dei molti organismi di governo in esilio a Londra. Sulle navi di scambio era sempre presente un delegato svizzero, custode del rispetto dei patti definiti internazionalmente. In un caso, il delegato svizzero sperò in una breve tappa in Vietnam organizzata dalla Francia di Vichy quando i rappresentanti del movimento della Francia Libera di De Gaulle erano saliti a bordo. In altri casi, le famiglie ebree ebbero grossi problemi coi passaporti. Lo stesso accadde alle molte persone bloccate a Shangai dopo un lungo viaggio dall’Europa Occidentale attraverso la Siberia o dalla Siria e dall’Egitto. I missionari americani dalla Cina si incontrarono con i diplomatici latinoamericani a Manciukuò e in Corea per gestire il possibile ingresso di persone in fuga nei loro paesi. In molti di questi casi, che hanno ottenuto visibilità grazie alla prospettiva degli European Global Studies, il rimpatrio è stato un atto di migrazione forzata, realizzato su navi neutrali, noleggiate specificatamente con questo scopo.
Le navi partivano da porti americani, inglesi e asiatici e navigavano per i cosiddetti scambi verso porti neutrali in Portogallo, Goa e Mozambico. C’era sempre un delegato svizzero a bordo, che vigilava sulle condizioni di scambio negoziate, per esempio controllando la lista dei passeggeri, la gestione dei bagagli, delle merci e del denaro. Visto che la Svizzera riceveva tutte le informazioni da entrambi le parti in trattativa, le fonti presenti negli Archivi Svizzeri permettono uno sguardo unico su una delle operazioni più spettacolari e meno studiate che la guerra nel Pacifico offre.
Da questo esempio, pressoché sconosciuto nella storia per altro ben approfondita della Seconda Guerra Mondiale, comprendiamo fino a che punto una guerra globale determina nuovi modi di connessione e come si siano aperti nuovi spazi di scambio con l’Africa, come importante centro nevralgico. Impariamo che tali operazioni di scambio coinvolsero un considerevole numero di strutture che trasformarono piccoli stati neutrali in potenti agenti di relazioni.
In ogni caso, incrementando strumenti e metodi di connessione, le attività descritte hanno distrutto le società transculturali nei porti asiatici. La conseguenza è stata che la conoscenza e le competenze globali sono diventate fonti di sospetto, da un punto di vista nazionale. Sia le potenze dell’Asse che gli alleati effettuarono interrogatori meticolosi ai loro cittadini rimpatriati per ottenere informazioni che avessero rilevanza militare. La comunità a bordo, quindi, rispecchiava ogni sorta di biografia rotta, reindirizzata e distrutta nel limbo della non-appartenenza. La sovrapposizione antitetica di mercati connessi e di comunità globali separate o addirittura distrutte si è perpetuata anche nel periodo della Guerra Fredda.
Quali sono le conseguenze a lungo termine di una storia del ventesimo secolo raccontata dal punto di vista della separazione? In contrasto col contesto di una società di consumi neoliberale, la storia della separazione individua un vuoto sociale, politico e culturale nella comprensione delle opportunità e delle emergenze delle vite di chi attraversa le frontiere, in quanto risorse umane per la costruzione di identità fondate su competenze globali. Le leggi sull’immigrazione di oggi propongono verifiche negative – l’ossimoro «migrante temporaneo permanente» può servire, quindi, come esempio.
Traduzione di Laura Marzi
il manifesto, 6 giugno 2017
Siamo di fronte ad una decisione urgente. Che non è decidere quale combinazione di sigle potrà sostenere il prossimo governo fotocopia, ma come far sì che nel prossimo Parlamento sia rappresentata la parte più fragile di questo Paese e quanti, giovani e meno giovani, in seguito alla crisi, sono scivolati nella fascia del bisogno, della precarietà, della mancanza di futuro e di prospettive. La parte di tutti coloro che da anni non votano perché non credono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana: coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario; coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti o pensioni da fame.
La grande questione del nostro tempo è questa: la diseguaglianza. L’infelicità collettiva generata dal fatto che pochi lucrano su risorse e beni comuni in modo da rendere infelici tutti gli altri.
La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide: queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciate da un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: «E’ pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso e innovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta. E pensiamo che il primo passo di una vera lotta alla diseguaglianza sia portare al voto tutti coloro che vogliono rovesciare questa condizione e riconquistare diritti e dignità.
Per far questo è necessario aprire uno spazio politico nuovo, in cui il voto delle persone torni a contare. Soprattutto ora che sta per essere approvata l’ennesima legge elettorale che riporterà in Parlamento una pletora di “nominati”. Soprattutto in un quadro politico in cui i tre poli attuali: la Destra e il Partito Democratico – purtroppo indistinguibili nelle politiche e nell’ispirazione neoliberista – e il Movimento 5 Stelle o demoliscono o almeno non mostrano alcun interesse per l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Ci vuole, dunque, una Sinistra unita, in un progetto condiviso e in una sola lista. Una grande lista di cittadinanza e di sinistra, aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile. Un progetto capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso è andato in massa a votare “No” al referendum costituzionale, perché in quella Costituzione si riconosce e da lì vorrebbe ripartire per attuarla e non limitarsi più a difenderla.
Per troppi anni ci siamo sentiti dire che la partita si vinceva al centro, che era indispensabile una vocazione maggioritaria e che il punto era andare al governo. Da anni contempliamo i risultati: una classe politica che si diceva di sinistra è andata al governo per realizzare politiche di destra. Ne portiamo sulla pelle le conseguenze, e non vogliamo che torni al potere per completare il lavoro. Serve dunque una rottura e, con essa, un nuovo inizio: un progetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioni innovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e non controllato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia, anzi, la continuazione.
«Il 18 giugno a Roma. È necessario uno spazio politico nuovo, ci vuole una sinistra unita e una sola, grande lista di cittadinanza aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati»
Un progetto che parta dai programmi, non dalle leadership e metta al centro il diritto al lavoro, il diritto a una remunerazione equa o a un reddito di dignità, il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione. Un progetto che costruisca il futuro sull’economia della conoscenza e su un modello di economia sostenibile, non sul profitto, non sull’egemonia dei mercati sui diritti e sulla vita delle persone.
Un progetto che dia priorità all’ambiente, al patrimonio culturale, a scuola, università e ricerca: non alla finanza; che affronti i problemi di bilancio contrastando evasione ed elusione fiscale, e promuovendo equità e progressività fiscale: non austerità e politiche recessive. Un simile progetto, e una lista unitaria, non si costruiscono dall’alto, ma dal basso. Con un processo di partecipazione aperto, che parta dalle liste civiche già presenti su tutto il territorio nazionale, e che si apra ai cittadini, per decidere insieme, con metodo democratico, programmi e candidati.
Crediamo, del resto, che il cuore di questo programma sia già scritto nei principi fondamentali della Costituzione, e specialmente nel più importante: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3).
È su questa piattaforma politica, civica e di sinistra, che vogliamo costruire una nuova rappresentanza. È con questo programma che vogliamo chiamare le italiane e gli italiani a votare.
Vogliamo che sia chiaro fin da ora: noi non ci stiamo candidando a guidarla. Anzi, non ci stiamo candidando a nulla: anche perché le candidature devono essere scelte dagli elettori. Ma in un momento in cui gli schemi della politica italiana sembrano sul punto di ripetersi immutabili, e immutabilmente incapaci di generare giustizia ed eguaglianza, sentiamo – a titolo personale, e senza coinvolgere nessuna delle associazioni o dei comitati di cui facciamo parte – la responsabilità di fare questa proposta. L’unica adeguata a questo momento cruciale.
Perché una sinistra di popolo non può che rinascere dal popolo.
Invitiamo a riunirsi a Roma il prossimo 18 giugno tutti coloro che si riconoscono in questi valori, e vogliono avviare insieme questo processo.
Nave dei folli, la Stultifera navis di Sebastian Brant. Sono stipati in uno spazio stretto, non sanno dove vanno; chi indica avanti, chi guarda indietro e chi a destra o a sinistra; altri sono inebetiti». la Repubblica, 6 giugno 2017 (c.m.c.)
Chi sa perché si debba chiudere la legislatura qualche mese prima della normale scadenza e votare in autunno? Se ce lo chiediamo, non sappiamo rispondere. Se lo chiedessimo, non avremmo chiare risposte. Infatti, non ci sono ragioni evidenti e, in mancanza, la stragrande maggioranza dei cittadini interpellati è per la prosecuzione fino alla scadenza naturale: c’è un governo, ci sono leggi importanti da approvare definitivamente, ci sono scadenze legislative importantissime da rispettare in materia finanziaria, ci sono rischi per la tenuta dei conti pubblici, ci sono apprensioni per le conseguenze di possibili violazioni dei parametri europei di stabilità finanziaria, per non parlare dei rischi della speculazione internazionale.
Vorremmo una risposta che riguardi non gli interessi di questo o quel partito in Parlamento e nemmeno di tutti o della maggior parte dei partiti, ma il bene del nostro Paese, quello che si chiama il “bene comune”. Nel nostro sistema costituzionale, a differenza di altri, non è previsto l’auto-scioglimento deciso dai partiti per propri interessi o timori. La durata prefissata e normale della legislatura (cinque anni) è una garanzia di ordinato e stabile sviluppo della vita politica.
La stabilità è stato il Leitmotiv invocato quando faceva comodo, anche quando si sono rese evidenti ragioni oggettive di scioglimento delle Camere, come dopo la dichiarazione d’incostituzionalità della legge elettorale, all’inizio dell’anno 2014.
Una risposta istituzionale non c’è. Ci sono anzi molta ipocrisia e reticenza che nascondono ragioni che sono, infatti, di mero interesse partitico. Da parte del maggior partito di maggioranza, il Partito democratico, si dice che votare in autunno o alla scadenza normale nella primavera dell’anno venturo non fa una grande differenza, ma poi si lavora forsennatamente a una legge elettorale nuova per andare al voto il più presto possibile.
Lo muove il desiderio del suo segretario e della cerchia che gli sta intorno di una rivincita dopo la sconfitta nel referendum del 4 dicembre? Oppure, il desiderio di fare piazza pulita degli oppositori interni, privandoli della candidatura alle elezioni? Oppure, la volontà di ostacolare, strozzando i tempi, l’organizzazione di forze concorrenziali a sinistra? Oppure, il timore di dover sostenere misure impopolari da “lacrime e sangue” in autunno, che farebbero perdere consenso e voti alle elezioni a scadenza normale? Oppure, perfino la volontà di non dover sostenere riforme importanti e da lungo tempo attese su diritti fondamentali, come quelle che questo giornale ha segnalato e continua a segnalare, riforme che potrebbero essere in dirittura d’arrivo ma col rischio di far perdere consensi tra porzioni dei suoi elettori (misure antimafia, riforme della giustizia, lo ius soli al posto dello ius sanguinis per la cittadinanza, il cosiddetto testamento biologico, il delitto di tortura, ecc.)? Dal Pd viene la spinta e gli altri partiti pro-elezioni anticipate si accodano per loro ragioni: chi perché pensa di poter subito incassare successi (M5Stelle, Lega), chi per rientrare in gioco (Forza Italia).
C’è pervicacia, ma se le ragioni sono quelle anzidette le si dovrebbe definire “interessi di bottega”. Al di sopra, ci dovrebbe essere l’interesse nazionale di cui custodi sono il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica. Né l’uno né l’altro hanno il potere di costringere qualcuno, se non vuole più, a sostenere il governo in carica, ma entrambi hanno almeno il potere di promuovere un chiarimento in Parlamento, prima di qualunque crisi di governo e di scioglimento delle Camere, e di chiamare i partiti ad assumere esplicitamente le loro responsabilità di fronte al Paese: “esplicitamente”, cosa in questa fase non facile per assenza di argomenti degni della posta in gioco ma, proprio per questo, doverosa.
Il voto anticipato s’intreccia con la nuova legge elettorale senza la quale, si dice, non si può votare. Poiché il voto è urgente, la legge è urgentissima. Tralascio le assurdità contenute nel testo iniziale, spiegabili in parte col voler continuare con i “nominati” e non con gli “eletti”, in parte con la cementificazione degli oligarchi di partito, in parte con la sfrenata fantasia creativa degli autori. Di questo s’è ampiamente scritto e detto e, del resto, ad alcuni dei macroscopici abusi sembra che qualche volenteroso voglia porre rimedio. Ciò che colpisce, sopra tutto, è che, pur di avere una legge, si rinnegano tante cose dette centinaia di volte nel passato recente: che non ci sarebbero più stati compromessi dopo le elezioni (gli “inciuci”); che “la sera stessa” si sarebbe saputo chi avrebbe vinto e governato per cinque anni, che il bipolarismo e l’alternanza erano dati acquisiti e che mai e poi mai si sarebbe ritornati agli obbrobri della prima repubblica.
Tutto questo era diventato quasi una questione di fede, ma in un lampo s’è dileguato. Anzi, si sente il contrario. Certo, proporzionale o maggioritario è questione opinabile e, infatti, le opinioni divergono. Ma, che si sia passati da un momento all’altro, senza una riflessione di merito, da ballottaggi e premi di maggioranza, cioè dalla logica maggioritaria, alla proporzionale, questo è piuttosto sconcertante e si spiega con la voglia di voto anticipato. Che cosa potrà accadere, se si potranno formare maggioranze e quali, se si dovrà tornare a rivotare, se si dovrà rimettere mano, ancora una volta, alla legge elettorale, tutto questo sembra interessare poco o nulla i partiti che chiedono elezioni subito. Vogliono cogliere il loro frutto. Poi si vedrà.
E pure, la legge elettorale non è solo un mezzo di realizzazione d’interessi immediati, ma è una prefigurazione del sistema delle relazioni politiche a venire e di questo si tace. Che cosa s’immagina? Di poter governare da soli? Se non da soli, con chi? Il dopo, naturalmente, è nelle mani degli elettori, ma questi avranno pure il diritto di sapere prima come sarà poi utilizzato il loro voto! Ma, sul dopo esistono sospetti, reticenze e, sulle ipotesi meno presentabili ai propri elettori, silenzi o tiepide smentite. Come potranno orientarsi gli elettori? Non è la stessa cosa se il Pd si prepara a una coalizione con Forza Italia, oppure con una qualche formazione alla sua sinistra; non è la stessa cosa se il M5Stelle è o non è disposto a collaborare con la Lega. Non si può trattare gli elettori come burini e considerare i loro voti come “bottino” o massa di manovra. Meritano altro. L’astensione diffusa dovrebbe essere presa in considerazione come un segnale di secessione interiore: un segnale ancora più forte a sentire i tanti, sempre di più, che dicono che a queste condizioni non sono disposti a votare ancora.
Sia consentito un accenno personale, che forse rispecchia uno stato d’animo anche d’altri. Guardo le convulsioni di questa fine-legislatura e non posso fare a meno di pensare alla Nave dei folli, la Stultifera navis di Sebastian Brant. Potrebbe essere istruttiva l’immagine che ne diede Albrecht Dürer per l’edizione del 1494. Sono stipati in uno spazio stretto, non sanno dove vanno; chi indica avanti, chi guarda indietro e chi a destra o a sinistra; altri sono inebetiti; uno è colpito da un pugno e cade in mare. Tutti hanno le classiche orecchie d’asino. Non c’è allegria. È un triste carnevale. L’unico che sembra divertirsi sta attaccato alla fiaschetta. La pazzia, però, è generale. Nessuno si preoccupa di dirigere la nave. Non c’è segno di consapevolezza del pericolo che incombe. Che un minuto dopo si possa affondare tutti insieme, non interessa a nessuno. Questa è la pazzia: stare o agitarsi ciascuno per proprio conto, girare in tondo, ciechi, senza connessioni, senza futuro. Credere di poter sopravvivere solo sopravvivendo.
S’avvicinano le elezioni e la frenesia sulla nave impazza. Nella poesia di Rimbaud, il Bateau ivre danza sui flutti, leggero come un tappo, ed è abbandonato alle correnti. Noi, invece, l’abbiamo tra noi e danziamo con lui.
«In origine fu Al Qaeda, poi vennero i video del Califfato: “Kill them wherever you can”, uccidili ovunque tu possa». Perchè Londra è l'obiettivo preferito dei terroristi. Perchè e come la strategia della "cupola" del terrorismo voglia favorire la reazione violenta della nazioni colpite.
il Fatto Quotidiano online, 5 giugno 2017
Al-Hayat, testata web che è portavoce del Califfato, 24 gennaio 2016. In un nuovo video di rivendicazione degli attentati del maledetto venerdì 13 novembre 2015 a Parigi, due dettagli allarmano l’intelligence inglese. Il primo è il nome in codice dell’operazione: “Kill them wherever you can”. Uccidili ovunque tu possa. Il secondo è nel finale del video: in cui, successivamente, appaiono le immagini di David Cameron, allora premier inglese, la Camera dei Lord e alcune zone turistiche britanniche. Gli analisti non hanno dubbi: “Si tratta di una conclamata minaccia agli interessi britannici”. Del resto, il Regno Unito era tra i bersagli prioritari previsti da Abdelhamid Abaaoud, il capo dei terroristi che avevano attaccato Parigi e che verrà ucciso in un raid della polizia francese pochi giorni dopo, a Saint-Denis.
Dieci anni prima, il 7 luglio del 2005, era stata al-Qaeda a colpire Londra con attentati alla rete dei trasporti (metro, bus) causando la morte di 56 persone. Il terrorismo islamico presentava il macabro conto dell’alleanza Bush-Blair, del fatto che la Gran Bretagna era il più fedele alleato degli Stati Uniti nella coalizione internazionale che aveva anche come obiettivo non secondario la distruzione della rete di Osama bin Laden. Londra aveva pesantemente contribuito all’eliminazione di numerosi centri di addestramento dei quadri di al-Qaeda, nonché allo smantellamento di molti gruppi estremisti islamici che ad essa facevano riferimento. Tuttavia, grazie alla struttura proteiforme di al-Qaeda e alla forte esposizione mediatica degli attentati in Europa, in Medio Oriente e in India, l’organizzazione si trasforma poco per volta in una sorta di vasta confederazione che aggrega militanti in nome “dello jihad dal basso”, e che attua operazioni condotte da individui isolati o da piccoli gruppi, spesso autoradicalizzati, che vivono nella clandestinità e che non hanno legami diretti con il centro dell’organizzazione. È da questa eredità logistica che parte l’Isis, nei cui ranghi s’inseriscono tra il 2013 e il 2014 numerosi jihadisti anglofoni, come il boia “Jihad John”, al secolo Mohamed Emzawi, ucciso alla fine del 2015.
Negli ultimi tre mesi le minacce si sono concretizzate con tre attacchi (a marzo, la folle corsa del suv sul ponte di Westminster, poi la recente strage alla Manchester Arena, infine Londra), in altre cinque occasioni i servizi segreti sono riusciti a sventare altrettanti complotti terroristici. Non è un caso: l’8 giugno ci saranno le elezioni anticipate volute dalla premier Theresa May. Gli attacchi di Londra arrivano quando mancano cinque giorni al voto, coi sondaggi che danno i laburisti in grande rimonta rispetto ai conservatori e il rischio di una svolta imprevista rispetto ai calcoli della May.
Non è la prima volta che il terrorismo cerca di radicalizzare la situazione politica. Di recente, ci ha provato in Francia, alla vigilia delle primarie presidenziali, con la sparatoria agli Champs Elysées. Lo scopo è forzare le decisioni di chi governa in senso autoritario. Il terrorismo – quale che sia la sua matrice e i suoi mandanti – punta a destabilizzare. Gli attentati spesso diventano pretesti per adottare leggi più restrittive in nome dell’emergenza. Infatti, la May ha avvisato ieri l’opinione pubblica: “Non “possiamo e non dobbiamo far finta che le cose possano continuare come sono, no, le cose devono cambiare”. Convinta che dietro tutto ci sia l’estremismo islamista, ha proposto un piano articolato in quattro punti. Solo che non c’è nulla di nuovo, è aria fritta in funzione elettorale: “Li affronteremo sul terreno delle idee e di Internet”. Putin queste cose le sostiene dai tempi di Beslan…Vuole rilanciare la cooperazione antiterroristica tra l’Unione Europea e Londra, dimenticando che la condivisione delle informazioni non passa da Bruxelles e che per il momento solo Francia e Germania lo fanno, ma fra di loro. Pure la lotta al net-terrorismo (col blocco amministrativo dei siti che ospitano materiale apologetico) risale, in Gran Bretagna, al 2005-2007, e si è visto come funziona…
La May, infine, scopre che il terrorismo si è evoluto e che c’è una nuova “tendenza dell’estremismo: i terroristi si ispirano non solo sulla base di un complotto pianificato, ma si copiano gli uni con gli altri”. Dicasi emulazione. Insomma, per riassumere, la premier vuole sconfiggere l’ideologia islamista per far capire che i valori occidentali sono superiori, mettere fine allo spazio sicuro offerto i terroristi della rete on-line, continuare l’azione militare contro l’Isis in Iraq e in Siria, garantire pene detentive più lunghe e collaborare con gli alleati per regolare il cyber-spazio “in modo da evitare il diffondersi dell’estremismo e la pianificazione degli attentati”. Un replay dell’intervento al G7 di Taormina.
Il grande pensatore liberale il quale «aprì un varco nella storia del pensiero economico attraverso cui passeranno prima le utopie dei cosiddetti socialisti ricardiani, poi la lucida anatomia del Capitale di Karl Marx, ed infine la critica di Piero Sraffa che scoprirà proprio in Ricardo le radici di un approccio all’economia radicalmente alternativo al pensiero unico liberista». il manifesto
, 4 giugno 2017
Nella gelida Europa della Restaurazione, mentre l’ancien régime prova a soffocare la marea populista – così la chiamerebbero oggi – scatenata dalla Rivoluzione Francese, viene alle stampe nel cuore di Londra un’opera a suo modo sconvolgente, i Principi di Economia Politica di David Ricardo.
Era il 19 aprile 1817. «Il sistema di Ricardo è un sistema di discordie che tende a generare ostilità tra le classi sociali e tra le nazioni» tuonerà nel 1848 l’economista americano Carey, che denuncia Ricardo come il padre del comunismo ed il suo libro come «un vero e proprio manuale del demagogo, che punta al potere attraverso ruralismo, guerre e saccheggi». Ma come ha potuto un ricco borghese liberale, quale Ricardo era, farsi alfiere della lotta di classe?
Il carattere intimamente “sovversivo” dei Principi, colto da Carey, risiede nella particolare spiegazione che Ricardo elabora della divisione del prodotto sociale tra le diverse classi, una formula che rappresenta la distribuzione del reddito come un conflitto tra le classi sociali per la spartizione di un prodotto dato.
Il «grande significato di Ricardo per la scienza», afferma Marx, sta proprio nell’aver spinto l’analisi oltre la superficie delle apparenze fino a svelare la «effettiva fisiologia della società borghese». Alla superficie del sistema economico possiamo vedere solo i prezzi delle merci, che ci offrono un’immagine opaca delle relazioni economiche sottostanti: le classi sociali si contendono infatti le quote di un prodotto il cui prezzo varia con la suddivisione stessa, cosicché appare possibile immaginare che gli interessi di capitalisti, lavoratori e proprietari terrieri possano convergere intorno all’obiettivo comune della crescita, una crescita capace di accontentare tutti – alimentando contemporaneamente profitti, salari e rendite.
Nelle parole ironiche di Marx, «se poi per caso si viene alle mani, come risultato finale di questa concorrenza tra terra, capitale e lavoro si avrà che, mentre essi litigavano sulla ripartizione, hanno totalmente accresciuto con la loro rivalità il valore del prodotto, a ognuno ne tocca una fetta più grande, cosicché la loro concorrenza stessa non appare che come la stimolante espressione della loro armonia».
Questo suggeriva l’allora indiscussa teoria del valore di Adam Smith, e questo ripetevano gli economisti conservatori come il reverendo Malthus, impegnati ieri come oggi a difendere gli interessi dell’establishment attraverso una narrazione che li descrive come interessi generali e non particolari: se esiste un bene comune (la crescita), il conflitto di classe appare come un elemento deleterio per la società nel suo complesso, perché impedisce la cooperazione pacifica tra le sue diverse componenti.
All’epoca di Ricardo, l’establishment era rappresentato dai grandi proprietari terrieri, ma una borghesia capitalistica in ascesa stava conquistando sempre maggiore potere economico e politico. Sarà il conflitto tra queste due classi a scatenare il dibattito scientifico tra Ricardo e Malthus, dibattito che sfocerà nella redazione dei Principi.
Malthus stava conducendo una battaglia in difesa dei dazi sulle importazioni di cereali, che avrebbero mantenuto elevato il prezzo dei principali prodotti agricoli (eredità delle guerre napoleoniche) garantendo così ampi guadagni alle rendite.N ella narrazione di Malthus, neanche a dirlo, tutti avrebbero usufruito dei guadagni derivanti dai dazi perché, argomentava il reverendo, i maggiori consumi dei proprietari terrieri avrebbero a loro volta arricchito l’intera società.
Le opere di Ricardo formano la punta di diamante della reazione suscitata da Malthus nella fiorente borghesia capitalistica: quando la rendita cresce sotto la spinta dei prezzi dei cereali, i profitti devono necessariamente ridursi perché cresce il valore monetario dei salari che i capitalisti devono corrispondere ai lavoratori.
Chiave di volta del ragionamento di Ricardo è la relazione inversa tra i salari e profitti: dal momento che i lavoratori consumano quanto appena sufficiente alla loro sussistenza, il maggiore prezzo dei prodotti agricoli si trasferirà interamente sui salari facendoli crescere proporzionalmente, e quindi i profitti riceveranno una quota minore del prodotto.
Questa rappresentazione plastica delle relazioni tra le classi sociali mette a nudo il contenuto puramente politico del problema, svelando gli interessi particolari dei proprietari terrieri nel mantenimento dei dazi.
Nonostante avesse dimostrato la sua superiorità sul campo delle idee, Ricardo perderà la sua battaglia politica con Malthus: i dazi e gli altri principali privilegi dell’aristocrazia terriera inglese resisteranno per oltre trent’anni agli attacchi della borghesia capitalistica inglese.
Tuttavia, l’eredità di Ricardo andrà ben al di là del suo tempo, travalicando persino gli interessi della classe sociale a cui l’autore dei Principi apparteneva. Una volta strappato il potere all’aristocrazia terriera, infatti, la borghesia sarà chiamata in causa dal nascente proletariato, le cui aspirazioni troveranno una legittimazione e una spinta proprio in quello stesso paradigma teorico che aveva aperto la strada all’abbattimento dell’ ancien régime.
Nei fatti, le pagine scritte da Ricardo duecento anni fa aprono un varco nella storia del pensiero economico attraverso cui passeranno prima le utopie dei cosiddetti socialisti ricardiani, destinate ad infrangersi sulle barricate del ’48 sotto i colpi della repressione, poi la lucida anatomia del Capitale di Karl Marx, che ispirerà l’assalto al cielo dei bolscevichi (altro e più noto ’17) ed infine la critica dell’economia politica di Piero Sraffa, il fraterno amico di Gramsci che scoprirà proprio in Ricardo le radici di un approccio all’economia «sommerso e dimenticato», forse proprio perché radicalmente alternativo al pensiero unico liberista.
Possiamo ora comprendere i timori di Carey, secondo il quale «le opere di Ricardo sono un arsenale per anarchici e socialisti, per tutti i nemici dell’ordine borghese». Un arsenale di cui ignoriamo il potenziale ogni volta che rinunciamo ad interpretare l’economia a partire dal conflitto di classe che anima la nostra società, fuori dalla retorica pacificante del bene comune.
«Accordo di Parigi. Levata di scudi mondiale contro la decisione del presidente Usa. Solo Putin tende la mano. La Ue respinge l'ipotesi di rinegoziare l'accordo».
il manifesto, 3 giugno 2017 (c.m.c.)
Attraverso il simbolo di decine di monumenti nel mondo illuminati di verde come segno di protesta, il risultato della decisione di Trump di far uscire gli Usa dall’accordo di Parigi è l’isolamento internazionale di Washington. Al punto che ieri il segretario di stato, Rex Tillerson, si è sentito in dovere di precisare che gli Usa continueranno a ridurre le emissioni di Co2 (Tillerson era fino a qualche mese fa alla testa della Exxon-Mobil, che come altre grandi società è contraria all’abbandono della Cop21).
Intanto, il giorno dopo non è chiaro quali saranno le mosse di Trump: stando alla dichiarazione di giovedì, dovrebbe attivare l’articolo 28 dell’accordo di Parigi per uscirne, ma questo prevede tempi lunghi, complessivamente 4 anni dalla ratifica, che per gli Usa è stata il 4 novembre 2016. In altri termini, se gli Usa usciranno, lo faranno solo nel novembre 2020, cioè al momento delle nuove elezioni presidenziali. La decisione ha grandi possibilità di restare lettera morta (a differenza dell’accordo di Kyoto, distrutto dal rifiuto di Bush di rispettare gli impegni di Clinton).
Anche se c’è un effetto imminente: gli Usa non parteciperanno più al «fondo verde» dell’accordo, dove avrebbero dovuto contribuire con 3 miliardi di dollari a favore dei paesi più poveri (Obama ha già versato 1 miliardo). Toccherà agli altri – Ue e Cina in testa – compensare questo vuoto.
Un primo effetto della decisione di Trump è stato di rinforzare l’intesa Ue-Cina su questo fronte (ma solo su questo): alla conclusione dell’incontro bilaterale annuale a Bruxelles, c’è stata la riconferma dell’impegno alla lotta contro il riscaldamento climatico, ma la prevista dichiarazione comune è saltata (a causa di tensioni sul fronte commerciale, acciaio in testa, Bruxelles frena sull’apertura alla Cina come «economia di mercato»).
«Aumenteremo la cooperazione sul cambiamento climatico», ha precisato il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk. La Cina, che è il principale inquinatore mondiale ma anche il paese che investe di più nella transizione energetica, ha confermato la volontà di proseguire su questa strada, in stretta collaborazione con gli europei. Solo Vladimir Putin tende la mano a Trump, anche se la Russia non seguirà gli Usa e non uscirà dall’accordo (che ha firmato, ma non ancora ratificato). Con una dichiarazione confusa, il presidente russo, alla testa di un’economia dipendente dall’energia fossile, ha affermato: «Non giudicherò Obama, ops Trump, per la decisione presa, non bisogna agitarsi, ma creare le condizioni per lavorare in comune, se non sarà impossibile trovare un accordo».
I dirigenti del mondo intero hanno utilizzato parole molto dure contro la decisione di Trump. Il Vaticano l’ha definita «terribile» per l’umanità. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che aveva cercato di fare pressione su Trump per evitare l’uscita, ha espresso «immensa delusione» per una decisione «a favore di una crescita delle emissioni di Co2». Guterres ha reiterato ieri l’appello, rivolgendosi alle città e alle imprese americane per «un’economia durevole».
Gli europei sono decisi a recuperare la leadership nell’economia verde. Emmanuel Macron, che ha reagito già nella notte di giovedì, ha fatto una parodia della frase feticcio di Trump e invitato, in inglese, a «make our Planet great again».
Macron ha invitato gli scienziati a una fuga di cervelli verso la Francia, dove «troveranno una seconda patria e soluzioni concrete». Macron, che oggi riceve il premier indiano Narendra Modi (che ha confermato l’impegno per l’accordo), è stato drastico, dopo una telefonata con Angela Merkel: «Francia e Usa continueranno a lavorare assieme, ma non sul clima». Il presidente francese ha escluso un «rinegoziato» dell’impegno preso da Obama (riduzione delle emissioni di Co2 del 26-28% entro il 2025), non ci sarà «un accordo meno ambizioso». «Non vi sbagliate – ha aggiunto – sul clima non c’è un piano B, perché non c’è un pianeta B».
La cancelliera Merkel ha parlato di «scelta molto disdicevole» («e mi esprimo in termini misurati») e si è detta «più determinata che mai» a cercare un fronte unito per far fronte alla sfida. Per Berlino, la scelta di Trump è semplicemente «nociva» per il mondo. Macron ha parlato di «colpa».
Germania, Francia e Italia hanno firmato un documento comune dove prendono «conoscenza con dispiacere della decisione Usa» e sottolineano che sono «fermamente convinti che l’accordo non potrà essere rinegoziato».
Il commissario all’azione per il clima, Miguel Arias Canete, ha affermato che «il mondo può contare sull’Europa» dopo la «decisione unilaterale» degli Usa. La britannica Theresa May, che ha telefonato a Trump, ha sottolineato che l’accordo «protegge la prosperità e la sicurezza delle generazioni future, assicurando contemporaneamente l’accessibilità all’energia per i cittadini e per le imprese».
il manifesto
, 3 giugno 2017 (c.m.c.)
“Un intervento necessario perché altrimenti il sistema economico, non solo bancario, andrebbe in crisi», dichiaravano nell’aprile 2016 il sempiterno presidente di Acri (le fondazioni bancarie) Giuseppe Guzzetti e Claudio Costamagna, presidente di Cassa Depositi e Prestiti, in merito all’avvio del Fondo Atlante. Fondo di 4,25 miliardi, creato per sostenere la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà e risolvere il problema delle sofferenze, finanziato, fra gli altri, con 500 milioni di Cassa Depositi e Prestiti.L’intervento salva-banche, sempre secondo i due autorevoli presidenti, si era reso necessario perché l’Italia è un paese molto «bancocentrico», dove le imprese e le famiglie per avere prestiti e mutui si rivolgono alle banche, le quali «se falliscono mandano in crisi l’intero sistema».
Da non credere: dopo aver azzerato in 25 anni il controllo pubblico sulle banche – nel ’92 era pari al 74,5% – ed aver privatizzato persino Cassa Depositi e Prestiti, oggi ci si stupisce che famiglie e imprese per chiedere prestiti vadano in banca.. Ma tant’è.
Il Fondo si è da subito cimentato con gli aumenti di capitale di Veneto Banca e della Popolare di Vicenza, con l’obiettivo di evitare a qualunque costo che, dopo Popolare Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara, altre banche, di ben maggiori dimensioni, finissero in risoluzione, innescando una crisi di sfiducia rovinosa per l’intero sistema bancario.
Ma già in questa prima operazione, dovendo il Fondo coprire tutta la ricapitalizzazione delle banche venete e non solo una parte come inizialmente previsto, le risorse a disposizione del Fondo si sono rapidamente esaurite e, con esse, la fiducia degli investitori di portare a casa i rendimenti del 6% allora vagheggiati. Prosciugate le risorse sul primo obiettivo -la ricapitalizzazione delle banche- nell’agosto 2016 è stato creato Atlante 2 per intervenire sulle sofferenze bancarie. Questa volta il Fondo raggiunge solo 1,7 miliardi (di cui una parte proveniente dal Fondo Atlante), e l’entusiasmo di Giuseppe Guzzetti si è già trasformato in aperta delusione «il contenuto numero di adesioni rischia di vanificare in larga misura lo scopo per cui Atlante è nato: non solo strumento per governare alcune emergenze, ma intervento per creare un vero mercato dei crediti deteriorati».
Un anno dopo, il fallimento è conclamato, certificato dalla svalutazione che banche come Unicredit e IntesaSanpaolo hanno fatto del proprio investimento in Atlante.
Oggi la situazione per le due banche venete è, per usare un eufemismo,in salita. L’intervento dello Stato (20 miliardi di garanzie pubbliche approvati per il salvataggio di una serie di banche) può essere messa in campo solo ottemperando alla richiesta della Ue di individuare 1 miliardo da soggetti privati, in modo da alleggerire il peso dell’intervento pubblico. Soldi che nessun privato è intenzionato a mettere e tanto meno il Fondo Atlante, che ha dichiarato inesistenti le condizioni per qualsiasi ulteriore investimento nelle due banche.
Nel frattempo, Atlante 2 acquista crediti deteriorati delle banche in sofferenza: è recentissimo l’acquisto da Banca Marche, Banca Etruria e CariChieti di 2,2 miliardi lordi, tra sofferenze e incagli, pagati 713 milioni, pari al 32,5% del loro valore, una soglia decisamente più alta della media delle transazioni di mercato. La tipica copertura di una falla, senza alcuna strategia: le banche, attraverso Atlante, comprano i crediti deteriorati pagandoli più di quanto varrebbero sul mercato, con l’intento di dirottare verso quel soggetto i soldi dei risparmiatori esasperati che non vogliono sentir più parlare di subordinate e cercano qualcosa di «sicuro».
Da qualsiasi punto la si osservi, la crisi sistemica delle banche sembra aggrovigliarsi su se stessa.
Imbellettata da qualche spruzzo di "civili",mascherata dalle ipocrite parole pacifiste, si è ripetuta una volta ancora la marcia in (dis)onore dei produttori e commercianti di morte, fomentatori e alimentatori di guerre (a spese del contribuente) in ogni parte del mondo.
il manifesto, 3 giugno 2017
Non c’è niente di più menzognero che far sfilare civili insieme a truppa armata, tank e cacciabombardieri. È il nuovo «politicamente corretto» che accompagna l’ideologia della guerra umanitaria disseminata a partire dalla guerra Nato del 1999 e confermata in Libia soltanto sei anni fa.
Un «politicamente corretto» andato in onda, come negli ultimi anni, anche ieri 2 giugno. Come se la ripetizione delle marce trionfali dell’Occidente militarizzato, imbellettata qui e là di presenze civili, possa giustificare fino a nascondere, la sostanziale maschera della vocazione alla guerra che ci circonda.
Certo, ha ragione il presidente Sergio Mattarella: vogliamo «per le giovani generazioni un futuro di pace». Che altro?! Ma come se, secondo il vecchio motto imperiale «para bellum», prepariamo la guerra? Perché spendiamo in armi e spese militari più di 70 milioni di euro al giorno (secondo gli ultimi dati internazionali dell’autorevole Sipri); perché raddoppia l’autorizzazione all’export di armi italiane e il governo se ne rallegra perché così “il Pil cresce”, arrivando a ben 14,6 miliardi di euro (l’85% in più rispetto al 2015), per esportazioni verso paesi come Arabia saudita, Kuwait, Turchia, Pakistan, Emirati Arabi, tutti – tanti i petro-regimi – impegnati in guerre sanguinose. Un commercio i cui effetti si faranno sentire proprio nei prossimi anni. Ecco che la guerra si riproduce a mezzo di guerra e deve continuare. Secondo il dettato del neofita presidente statunitense Donald Trump.
Così, pendendo incredibilmente dalle sue labbra, stiamo raddoppiando, fino al 2%, le nostre spese militari per sostenere la Nato, che pericolosamente si allarga a Est a cercare nuovi conflitti; e abbiamo impegnato ben 15 miliardi (per ora) per l’acquisto di 90 cacciabombardieri F35 (che possono montare armi nucleari).E, mentre trasformiamo la vocazione naturale di intere regioni italiane in vecchie e ammodernate servitù militari, siamo pronti alla Nuova Difesa Europea, non sostitutiva ma aggiuntiva dei costi atlantici; per una Unione europea che chiede alle aziende statali di ogni Paese di produrre armi: lì naturalmente nessuno pone vincoli di bilancio. Che invece tagliano salari, lavoro, società, giovani, sanità, scuola, servizi sociali. E per finire, i militari italiani sono impegnati – da Mosul a Kabul – su ogni fronte aperto di guerra. Lì dove a morire sono in prima fila i civili.
Stiamo in armi a raccogliere il dividendo dei falliti conflitti precedenti che abbiamo innescato. Dalla guerra in Iraq del 1991, poi in Afghanistan – la più lunga e controproducente della storia contemporanea – fino a quella del 2003 sempre in Iraq; e poi in Libia e in Siria, e chi più ne ha più ne metta. C’è un solo modo per festeggiare il 2 giugno, la festa della nascita della Repubblica. Rinunciare alla marcia trionfale, alla sfilata militare che strumentalmente vuole mimetizzare il macigno delle spese militari – che non preparano un «futuro di pace» – con pennellate di «civile».
Del resto è già accaduto. Nel 1976 i militari non vennero fatti sfilare per l’impegno a sostenere i terremotati del Friuli. Oggi c’è una evoluzione machiavellica e perversa: i sindaci delle zone terremotate hanno dovuto aprire la sfilata militare. Provocando gravi ed ulteriori divisioni nel cuore sconvolto del Belpaese, perché in tanti si sono rifiutati di marciare visti i risultati delle loro terre ancora sotto le macerie, dopo troppe parole e promesse.
Bene dunque hanno fatto i pacifisti a rendersi visibili, a tornare in piazza ieri a Roma, a Cagliari e a Camp Darby (Pisa-Livorno). Perché si festeggia la nascita della Repubblica praticando e facendo viva la Costituzione repubblicana che all’articolo 11 – maltrattato, cancellato, vilipeso – dice che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. La marce trionfali militari sono senza futuro.
«"». Casa della Cultura, 2 giugno 2017 (c.m.c.)
Emanuele Bompan con Ilaria Nicoletta Brambilla , Che cosa è l'economia circolare (Edizioni Ambiente, 2016)
È una buona domanda quella posta nel titolo del libro Che cosa è l'economia circolare (Edizioni Ambiente, 2016) scritto da Emanuele Bompan con Ilaria Nicoletta Brambilla e arricchito dall'introduzione di Antonio Cianciullo, direttore della rivista "Materia rinnovabile" e voce autorevole sui temi della sostenibilità, dell'ambiente e del riciclo dei materiali. Comincerò dalla risposta contenuta nel libro stesso elaborata sulla base delle definizioni dei più autorevoli studiosi di questo relativamente giovane capitolo delle scienze economiche. Quella circolare - scrivono gli autori - è «un'economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un'economia circolare - proseguono - i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera⋄. Il tutto - si precisa - nell'alveo dell'economia di mercato.
La definizione considera giustamente due tipi di flussi. La vita, infatti, "funziona" con un grande flusso di materie e di energia dai corpi naturali - aria, acqua, suolo - agli esseri viventi e di nuovo agli stessi corpi naturali. I vegetali "fabbricano" - e non a caso gli ecologi li hanno chiamati organismi produttori - le proprie molecole organiche utilizzando l'energia solare, l'anidride carbonica dell'aria e l'acqua e l'azoto del suolo, e liberano ossigeno che viene immesso nell'atmosfera.
Analogamente, gli animali si nutrono ricavando le molecole nutritive dai vegetali (e da altri animali) e l'ossigeno dall'aria (organismi consumatori). Nel corso del loro metabolismo liberano anidride carbonica che immettono nell'aria ed escrementi nel suolo. Alla fine della loro vita, vegetali e animali cedono le loro spoglie al suolo e alle acque dove innumerevoli organismi decompositori si impadroniscono delle loro molecole e le trasformano in atomi e molecole che sono di nutrimento ad altri organismi viventi. Produttori vegetali, consumatori animali e decompositori sono i grandi protagonisti del dramma della vita che si svolge nella biosfera, il grandissimo, ma non infinito, palcoscenico del regno della natura. Nel mondo naturale praticamente non esistono rifiuti perché ogni sostanza usata dagli esseri viventi ritorna disponibile per altri esseri viventi nei grandi cicli geochimici - sostanzialmente chiusi - della biosfera.
L'economia circolare riguarda anche i flussi "tecnici" di materiali, quelli legati alla produzione e al consumo delle merci, proponendosi la loro rivalorizzazione, il loro riutilizzo, per evitare che rientrino nella biosfera. Tutti i fenomeni economici e sociali, tutte le attività di produzione e consumo di merci e servizi, sono basati anch'essi su flussi di materia e di energia che cominciano dalla biosfera - il serbatoio delle risorse naturali, inorganiche e organiche - passano attraverso la singola abitazione, i campi coltivati, la fabbrica, la città, il territorio antropizzato, e ritornano, più o meno presto, nei corpi riceventi naturali sotto forma di materia gassosa, liquida o solida, delle scorie e dei rifiuti.
Analogo processo avviene anche per i servizi che sono sempre, direttamente o indirettamente, legati alla circolazione di materia. La nota promessa di un mondo immateriale o virtuale è abbastanza ingannevole se tende a far credere che la società del futuro non avrà bisogno di materiali (o gliene serviranno pochi). Cosa che vale anche per il termine "consumo" perché in realtà ciascuna persona non "consuma" gli oggetti, i beni materiali, le merci che usa, ma ne modifica solo la materia e l'energia in altre forme, poi dissipate nell'ambiente naturale circostante.
I processi tecnici, quindi, consistono nella circolazione natura-produzione-merci-uso-scorie-natura. Si potrebbe scrivere una vera e propria "storia naturale delle merci", raccontare la "produzione di merci a mezzo di natura". Le analogie con i fenomeni biologici non devono meravigliare: i fenomeni economici e sociali non sono altro che uno dei volti con cui si manifesta la vita degli "animali" umani. Quelle che devono essere rivalorizzate dall'economia circolare, per evitare il rientro nella biosfera, sono le scorie, inevitabile risultato dei flussi tecnici. Sarà quindi utile conoscere bene le diverse materie per scegliere le soluzioni più opportune, tanto più che esse variano continuamente nel tempo.
Dai tempi della rivoluzione agricola del Neolitico, e in grado sempre più intenso dai tempi della rivoluzione industriale del XVII secolo, gli esseri umani traggono le materie prime per i loro processi sia dai cicli della biosfera sia da materiali immagazzinati nel corso delle ere geologiche precedenti: minerali, carbone, petrolio, gas naturale. La fabbricazione di metalli, macchinari, prodotti chimici, abitazioni o la produzione di energia richiedono perciò anche materiali che non si formeranno mai più in natura, almeno nei tempi prevedibili della vita degli esseri umani.
Quindi i processi di produzione lasciano, dietro a sé, un vuoto che corrisponde a un irreversibile impoverimento delle risorse della natura. Inoltre, nel corso della produzione dei beni materiali, le risorse tratte dalla natura in parte si trasformano nei manufatti e nei servizi di cui si occupa la scienza economica, in parte vengono scartati come scorie e rifiuti. La massa di questi ultimi è molte volte superiore a quella degli oggetti di cui si occupa l'economia e le loro caratteristiche chimiche e fisiche sono tali da non permetterne la scomposizione e assimilazione da parte dei cicli della biosfera: sono, appunto, non biodegradabili.
I rifiuti non biodegradabili, quando sono immessi direttamente nei corpi riceventi naturali, ne modificano la "qualità", cioè la possibilità di essere utili ad altri. Per evitare questo l'economia circolare propone di sottoporli a processi di trattamento, depurazione o riciclo che possano generare, eventualmente, beni materiali utili. In altri termini, a differenza dei processi sostanzialmente "chiusi" della vita, della biosfera, i processi tecnici ed economici - quelli che si svolgono nella parte della biosfera modificata dagli esseri umani - risultano "aperti" nel senso che ciascuno si lascia alle spalle una natura impoverita e contaminata.
L'economia circolare si propone di alleviare la preoccupazione che, continuando a sottrarre risorse naturali dalla biosfera e ad immettere scorie nella stessa, si arrivi a un giorno in cui alcune di queste risorse saranno esaurite o diventeranno scarse tanto da diventare fonte di conflitti per la loro conquista, o che i corpi riceventi naturali vengano intossicati al punto da non essere più utili ai fini della vita. Fenomeni questi che, nel corso della storia, si sono verificati molte volte e si stanno verificando tuttora in modo sempre più vistoso.
La scoperta di questa situazione potenzialmente insostenibile - che, evidentemente, non potrà durare a lungo - non è nuova e il libro di cui stiamo parlando fa un'opportuna lunga trattazione dei "precursori" dell'economia circolare che risale anche a prima dell'invenzione di questa espressione. Tra gli autori di cui si parla è inevitabile citare Barry Commoner (1917-2012) che nel 1971 pubblicò un libro intitolato The closing circle. Nature, Man, and Technology - in italiano Il cerchio da chiudere. La natura, l'uomo e la tecnologia (Garzanti, 1972) - mettendo in evidenza, appunto, che i cicli delle merci industriali sono aperti, anzi sempre più aperti, a mano a mano che vengono introdotti materiali estranei alla natura, non biodegradabili - come le materie plastiche o molti pesticidi e prodotti sintetici - con conseguente inquinamento della biosfera.
Commoner era un biologo ma anche gli economisti si stavano accorgendo del problema. Joseph Spengler (1902-1991), per esempio, inaugurando il congresso dell'American Economic Association del 1965 aveva affermato che quella di allora - e la cosa vale ancor più per quella di oggi - avrebbe dovuto essere chiamata non "società opulenta" ma "società dei rifiuti".
Nell'espressione in lingua inglese c'è un gioco di parole fra "affluent society" - il titolo di un, allora, celebre libro di John Kenneth Galbraith, tradotto in italiano nel 1959 da Edizioni di Comunità con il titolo Economia e benessere e riedito nel 2014 con il titolo La società opulenta - e "effluent society", appunto la società che fa uscire dal proprio corpo un profluvio di scorie.
La parte più interessante del libro di Bompan e Brambilla è dedicata ad alcune delle "ricette" - se così le possiamo chiamare - con cui si potrebbe, volendo, chiudere (un poco) il ciclo delle merci. Alcune di queste sono quelle tradizionali del riciclo dei rifiuti che prevedono che una parte della materia contenuta nelle merci possa essere ritrasformata in nuove merci. Nel caso di merci relativamente semplici tale operazione è già praticata con successo e potrebbe essere ulteriormente perfezionata ed estesa. Dalla carta straccia si può recuperare la cellulosa con cui ottenere altra carta. Dal vetro usato, per fusione, può essere recuperato altro vetro.
Questo, però, con un'avvertenza. Il riciclo avrà tanto più successo quanto più "pulito" è il rifiuto. La carta dei giornali usata è costituita da cellulosa "sporcata" con l'inchiostro che ha "trasportato" l'altro valore del giornale, l'informazione. Il riciclo presuppone che la carta del giornale sia "liberata" in qualche modo dall'inchiostro. Se esistesse un "diavoletto di Maxwell" per la materia, questo riuscirebbe a separare l'inchiostro dalla carta e fornirebbe cellulosa pura da ritrasformare in nuova carta e inchiostro da riutilizzare per nuove stampe. L'informazione, invece, andrebbe persa.
Purtroppo il "diavoletto di Maxwell" non esiste per l'energia e tantomeno per la carta. Il riciclo porta così a recuperare solo una parte della carta iniziale. Lo stesso vale per il vetro. Da quello colorato è possibile recuperare soltanto vetro dello stesso colore, un'operazione che avrebbe qualche successo soltanto se fosse possibile sottoporre a riciclo tutte le bottiglie di vetro dello stesso colore ed esattamente della stessa composizione chimica, cosa di difficile attuazione anche con la più volonterosa raccolta differenziata.
Il problema si fa più difficile con le merci complesse. Da un autoveicolo rottamato è possibile recuperare alcune componenti - ferro, alluminio, rame, plastica, gomma - soltanto dopo che questo è stato scomposto nelle sue varie parti. Lo stesso vale per le materie plastiche che possono essere recuperate soltanto se sono rigorosamente della stessa natura e composizione. E vale per gli stessi pneumatici dei cui cicli di recupero parla il libro. Le loro varie componenti - gomma, telatura, sostanze di carica - possono essere recuperate solo in parte e spesso destinate a un uso merceologicamente più modesto, come la trasformazione in pavimentazioni o pneumatici ricostruiti. Il successo di ciascuna operazione di riciclo presuppone dunque una buona conoscenza di ciascuna merce usata: da quali materie prime è stata ottenuta, con quale ciclo produttivo, quali modificazioni chimiche ha subito durante l'uso e così via. Una vera "merceologia dei rifiuti" che richiederebbe tecniche di analisi ancor più raffinate di quelle utilizzate per i controlli delle merci nuove (1).
I più comuni esempi di economia circolare riguardano merci destinate al consumo, ma molto può essere fatto anche nell'ambito dei cicli produttivi, agricoli o industriali, nei quali si formano residui talvolta responsabili di significativi inquinamenti. I casi esemplari sono piuttosto numerosi perché da sempre gli imprenditori si sono affannati a recuperare tutto quello che era possibile dai sottoprodotti e dai rifiuti. Questo sia per guadagnare di più, sia per evitare condanne per inquinamento che le legislazioni nazionali e internazionali prevedono con sempre maggiore frequenza. Addirittura, alcuni nuovi materiali o prodotti sono stati scoperti proprio immaginando possibili riutilizzi degli scarti.
Il caso più noto riguarda la prima produzione chimica industriale, estremamente inquinante, del carbonato sodico, la soda artificiale, l'agente lavante che sostituiva la soda ricavata dalle piante e dalle alghe. Nicolas Leblanc (1742-1806) aveva messo a punto nel 1793 un processo che prevedeva il trattamento del sale con acido solforico e comportava la liberazione di acido cloridrico, per decenni scaricato nell'atmosfera con danni alla salute e alle coltivazioni. Il solfato di sodio veniva poi trattato con calce e carbone. Insieme al carbonato di sodio si formava un fango di solfuro di calcio che era depositato in discariche all'aria aperta da cui si liberava idrogeno solforato puzzolente e soprattutto nocivo.
Le proteste popolari nel 1863 costrinsero il Parlamento britannico ad emanare l'Alkali Act che imponeva alle fabbriche di soda di evitare le emissioni inquinanti. Dapprima gli imprenditori furono costretti a raccogliere l'acido cloridrico in acqua entro dei barili, fino a quando Walter Weldon (1832-1885) inventò nel 1873 un processo per trasformare l'acido cloridrico in cloro, una nuova merce che cominciò una marcia trionfale nell'industria. L'acido cloridrico diventava così "materia seconda" per un altro ciclo produttivo.
L'inquinamento dovuto ai fanghi di solfuro di calcio fu risolto nel 1882 da Carl Claus (1827-1900), con un processo che consentiva di utilizzarli come "materia seconda" per un ciclo che, mediante ossidazione, permetteva di recuperare anidride solforosa per la produzione di acido solforico, una delle materie prime dello stesso processo Leblanc. In ogni caso, i due processi arrivarono tardi perché nel frattempo Ernst Solvay (1838-1922) aveva inventato nel 1864 un altro processo che produceva il carbonato di sodio con un rifiuto costituito da cloruro di calcio, ingombrante e scomodo da smaltire, ma meno dannoso dei rifiuti del processo Leblanc, e per il quale fu trovato un impiego nello spargimento sulle strade per ritardare la formazione del ghiaccio dalla neve.
Gli esempi di "storia del riciclo" - ma forse sarebbe più corretto dire "storia dell'economia circolare" - che si potrebbero fare sono numerosi: si tratta quindi di un interessante capitolo della "storia della tecnica e delle innovazioni". Ma torniamo al libro di Bompan e Brambilla che contiene altre "ricette" di economia circolare di grande interesse in virtù delle quali si potrebbero fare davvero grandi progressi. Una riguarda la vita delle merci e dei prodotti. Un oggetto durante l'uso si consuma e si usura: pensiamo ai frigoriferi o agli altri elettrodomestici, alle automobili, ai mobili. Talvolta la vita è accorciata dalla comparsa sul mercato di altri modelli più funzionali o semplicemente più attraenti per cui oggetti ancora utilizzabili vengono sostituiti andando a unirsi al popolo dei rifiuti (per fare un solo esempio, le macchine per scrivere che sono state soppiantate dai computers). Il carico di rifiuti nella biosfera potrebbe essere alleggerito se tutti questi oggetti fossero progettati per durare a lungo o, in alternativa, se fossero facilmente riparabili. Una maggiore standardizzazione di alcune componenti, per esempio, consentirebbe di prolungarne la vita attraverso la sostituzione delle parti consumate o danneggiate.
Un'altra interessane "ricetta" riguarda la possibilità di sostituire il possesso di un bene con l'uso, quando occorre, dello stesso bene posseduto da altri. L'automobile, per esempio, è un oggetto che spesso viene utilizzato per poche ore al giorno. Il resto del tempo resta immobile a occupare spazi pubblici o privati. Se si potesse utilizzare un'automobile nelle ore in cui ci si deve spostare lasciando il veicolo a disposizione di altri nelle altre ore, il consumo di materiali e di spazio diminuirebbe significativamente. Per inciso questa proposta era stata fatta nel 1971 da Aurelio Peccei - l'imprenditore e intellettuale che fondò il Club di Roma - in un poco noto articolo intitolato Automobile: il crepuscolo di un idolo (2).
Interessante anche l'osservazione che il concetto di riutilizzo vale anche per lo spazio edificato. Molto spazio non è utilizzato o è abbandonato e potrebbe essere riattivato in modo da evitare nuove costruzioni che contribuiscono a impoverire la natura con l'estrazione di materiali e con l'occupazione di altro spazio.
Purtroppo non è possibile far tornare nella biosfera tutta la materia entrata nei cicli "tecnici". Anche il solo fatto di usare un oggetto comporta un peggioramento della sua qualità merceologica e l'impossibilità fisica di ricostruirne le proprietà di partenza. L'economista Nicolas Georgescu-Roegen, ha scritto che il degrado della materia durante l'uso equivale a quello imposto dal secondo principio della termodinamica all'energia, per cui alla fine di ogni trasformazione è minore la sua quantità "utile". E ha proposto un "quarto principio" con cui spiega che è impossibile il riciclo all'infinito della materia. In altri termini, è impossibile chiudere qualsiasi ciclo che coinvolge la trasformazione della materia.
Per concludere, va fatta un'ultima osservazione. Il grado di impoverimento della biosfera a causa della sottrazione di materie richieste dai processi tecnici e il grado di contaminazione della biosfera a causa della immissione di rifiuti è inevitabile conseguenza di una società - quella del mercato - basata sulla necessità di produrre sempre più merci non perché soddisfano bisogni umani ma perché fanno crescere la ricchezza privata e pubblica e assicurano occupazione e salari che consentono l'acquisto di altre merci, e così via. Per fare qualche passo verso la "liberazione", almeno parziale, dai rifiuti bisognerebbe cominciare a chiedersi: che cosa sto comprando - che sia conserva di pomodoro o una cucina, gasolio o il sacchetto di plastica per la spesa - come è fatto? Dove è stato fatto? Con quali materie? Dove finirà quando non servirà più? È strettamente necessario? Ci sono alternative? Non si tratta di auspicare una società povera, ma austera sì, anche perché le merci "consumate" sono fabbricate portando via dalla natura acqua, minerali, prodotti forestali, impoverendo la fertilità dei suoli, beni sottratti "ad altri".
Molte merci e risorse che soddisfano la nostra insaziabile fame di "consumi" sempre più mutevoli e superflui sono "rubate" ad altri che alla fine si arrabbiano. Si arrabbiano i popoli che non hanno accesso ai beni primari per l'esistenza. Si arrabbia la natura perché i crescenti consumi e rifiuti alterano i suoi lenti e duraturi cicli. La vera ricetta sta quindi nell'usare le conoscenze tecnico-scientifiche per comprendere meglio i cicli della natura e per richiudere, almeno in parte, quelli più brutalmente rotti dall'avidità della nostra società. Forse senza rendersene conto, i sostenitori dell'economia circolare scavano la fossa sotto i piedi del sistema capitalistico: far durare di più gli oggetti, riparare le merci consumate, condividere l'uso delle automobili, fabbricare merci rinnovabili, sono altrettante pugnalate alle spalle dell'industria dei divani, delle automobili, della chimica. Che quella circolare sia un'economia sovversiva?
1) Per qualche informazione in più sulla "rifiutologia", vedi G. Nebbia, La rifiutologia: un nuovo capitolo della merceologia, in: R. Molesti (a cura di), Economia dell'ambiente e bioeconomia, (Franco Angeli, 2003).
(2) A. Peccei, Automobile: il crepuscolo di un idolo, trad. it. dalla rivista francese "Preuves", n. 6, II semestre 1971, in"CNS", a. XII, fasc. 50, n. 10, novembre 2002 e ora pubblicato sul sito web di Arianna Editrice.