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Articoli di Maurizio Caprara, di Luciana Castellina, di Andrea Fabozzi, di Norma Rangeri, Gaetano Azzariti, Marco Travaglio, da il Corriere della sera, il manifesto, Il Fatto quotidiano, 23,24 Giugno, 2017 (c.m.c)

Corriere della sera
ADDIO A RODOTA'
IL GIURISTA DELLE BATTAGLIE
SUI DIRITTI CIVILI
di Maurizio Caprara

Quando tra gli italiani il computer si chiamava ancora cervello elettronico, gli venne di fatto affidato dal Partito comunista italiano una sorta di mandato non ufficiale a dare la linea in materia. Non aveva la tessera del Pci, era deputato dal 1979 di quella famiglia in parte laica e in parte intransigente per vocazione che aveva il nome di Sinistra indipendente, aveva scritto nel 1973 per «il Mulino» un testo intitolato «Elaboratori elettronici e controllo sociale». Sarà stata metà degli anni Ottanta e fece scattare in alcuni dirigenti di Botteghe Oscure una sorta di riflesso condizionato: sa più di noi sull’argomento, ci dirà se l’informatica pone problemi per la libertà e in quale misura apre nuove strade. Cambierà i meccanismi della democrazia? Votare con schede elettroniche ci esporrebbe più a brogli o a occhiuti grandi fratelli orwelliani?

Talvolta questo atteggiamento di delega, di affidamento della ricerca del pensiero considerato più giusto era riservato dai comunisti, su questioni settoriali, agli intellettuali «rossi ed esperti». Ma Stefano Rodotà, nato a Cosenza, morto ieri a 84 anni, padre di Maria Laura, confinava con quel mondo senza rientrare in quel genere di intellettuali. È riuscito a essere di sinistra, anche molto di sinistra, senza che la sua personalità pubblica avesse una connotazione «rossa». Aveva avuto trascorsi radicali, è stato espressione di una laicità liberal-democratica intrecciata con elementi di socialismo. Ed è stato forse questo impasto a frenarlo dal rientrare nel classico rigore, e in una certa rigidità, della tradizione comunista.

Giurista in grado di trattare di diritto penale quanto di diritto costituzionale, garantista ai tempi delle leggi antiterrorismo, risoluto fino al puntiglio nel sostenere le proprie tesi politiche e allo stesso tempo reso morbido da un incedere e una voce tutt’altro che aggressivi, Rodotà, da esterno, contribuì a proporre a Botteghe Oscure una teoria dello Stato della quale il partito aveva bisogno. Nel suo caso, una teoria imperniata sulle libertà.

Nato rivoluzionario, consolidatosi poi nell’edificazione della Repubblica costituzionale, il Pci della fascia di dirigenti trenta-quarantenni legati ad Achille Occhetto avvertiva nella seconda metà degli anni 80 un bisogno di aggiornare il rapporto con le istituzioni impostato da Palmiro Togliatti. Quello lo si sarebbe potuto riassumere in rispetto verso liturgie dell’amministrazione dello Stato e in sostanziale capacità di influenza sui suoi meccanismi anche stando all’opposizione. Occhetto si sporgeva a prendere le distanze dal cosiddetto «consociativismo» che permetteva al partito di essere artefice di decisioni comuni con la Democrazia cristiana. Rodotà, calcando l’accento sulle libertà di scelta dei cittadini, forniva dall’esterno qualcosa di parallelo e diverso da quello che, dentro al partito, avevano maturato due capiscuola contrapposti: il patriarca della sinistra comunista Pietro Ingrao, proiettato nell’evocazione di una democrazia diffusa e «di massa», e il riformista Giorgio Napolitano, attento a spingere Botteghe Oscure verso orizzonti europei e socialdemocratici superando la tradizione comunista.

Intellettuale prestato alla politica per modo di dire — fu nel 1994 che uscì dalla Camera per tornare a tempo pieno allo studio — il professore di Diritto civile aveva una funzione di mente giuridica in quella rete senza stemma e senza inni che era il cosiddetto «partito di Eugenio Scalfari», il fondatore di Repubblica del quale Rodotà era collaboratore con la moglie Carla. Occhetto nel 1989 lo volle ministro della Giustizia e dei diritti dei cittadini nel «governo ombra» messo in piedi per dare al Pci un’aria più britannica prima di trasformarlo in Partito democratico della sinistra, formazione della quale Rodotà fu presidente del Consiglio nazionale.

Due sono stati i suoi bersagli in quegli anni. Francesco Cossiga da presidente della Repubblica: sulle riforme istituzionali e sulla struttura anticomunista Gladio, il giurista di sinistra gli attribuì atteggiamenti da «fasi che annunciano o precedono un colpo di Stato». Il presidente lo ricambiava con sfottò extra-protocollari, come il far sapere di prepararsi a regalargli un paio di pantaloni tirolesi di pelle con fondelli (per presa) rinforzati. L’altro obiettivo di Rodotà, Silvio Berlusconi.

Dal 1997 al 2005, la carica di Garante della privacy. Fuori dalla Camera nella quale era stato vicepresidente e capogruppo, al professore non sono mancate opportunità di ruoli pubblici. Fino all’autentica riscossa sui telegiornali quando nel 2013 venne candidato dai 5 Stelle al Quirinale, traguardo non raggiunto. Rodotà osservò sul Corriere che uno sconfitto era Beppe Grillo, al quale sconsigliava poi una campagna anti-europeista. Il capo dei 5 Stelle gli diede dell’«ottuagenario miracolato dalla Rete, sbrinato di fresco dal mausoleo». Pagina mesta. Incrocio tra due Italie, tra due stili. Che oggi val la pena di ricordare soltanto perché di Rodotà evidenzia autonomia e libertà di pensiero.

il manifesto
UN COMPAGNO,
CHE FU SUBITO PARTE DI NOI SINISTRA
di Luciana Castellina

Perché Stefano non risultò mai esterno e la sua diversità fu quella che Eduard Said ha chiamato «un aiuto fondamentale alla critica di se stessi»

Sapevo, sapevamo tutti, che Stefano era malato da tempo. Ma poiché, sebbene non con la frequenza di sempre, continuava a scrivere e a partecipare, alla fine abbiamo pensato – o ci siamo lasciati illudere dall’idea – che la cosa non fosse grave.Qualche settimana fa era seduto nella fila davanti a me al teatro Argentina per vedere l’ultima opera di Mario Martone. Non posso credere, non ci riesco, che non sia più con noi.

Come parlare di Stefano Rodotà, come ricordarlo, spiegarlo ai giovanissimi che certo lo conoscevano di fama, ma che non possono capire il significato della sua presenza politica in questo ultimo mezzo secolo, nel quale ha giocato un ruolo qualitativamente diverso da ogni atro protagonista di questo tempo, assolvendo ad una funzione essenziale? Una funzione storica. Mi spiego: Stefano Rodotà non era comunista, aveva una formazione diversa da quella del Pci e dalla nostra de Il Manifesto; ma di sinistra.

Qualcuno ha sempre detto di lui che era un liberal democratico, non lo so se era così, era certo un grande giurista ma io/noi l’abbiamo sempre sentito compagno, nel senso più pieno che occorre dare a questa parola. Era entrato nelle nostre vite attraverso quella speciale figura che il Pci nella sua epoca migliore aveva inventato: gli eletti nelle proprie liste non appartenenti all’organizzazione,i c.d. «indipendenti di sinistra». Fu una grande idea, perchè molti di loro ci portarono una folata di nuova e utile cultura. Ma con Stefano fu diverso: ci portò un contributo essenziale alla correzione del nostro modo di essere comunisti. Perché non risultò esterno, fu subito parte di noi, la sua diversità fu quella che Eduard Said ha chiamato «un aiuto fondamentale alla critica di se stessi».

Dovremo, vorrei io stessa, scrivere e spiegare molto di più su chi sia stato per noi tutti Stefano Rodotà. Non posso certo farlo ora perché si tratta di una riflessione storica che non può svilupparsi nei 30 minuti che dall’annuncio della sua scomparsa mi sono dati ora per scrivere. Non posso non aggiungere, tuttavia, il ricordo personale di un percorso che mi ha dato il privilegio di lavorare con Stefano gomito a gomito.

Nel 1980, nel tempo della crisi del compromesso storico e prima del pieno dispiegarsi del craxismo, come risultato di un appello firmato da Claudio Napoleoni e Lucio Magri, nasce Pace e guerra, prima mensile e poi settimanale, con l’intento di dar voce ad un’area di sinistra che tentò ancora un’incontro fra sinistra socialista, comunisti critici del Pci e area della cosidetta “nuova sinistra”,il Pdup innanzitutto. Direttori di Pace e Guerra furono Claudio Napoleoni, Stefano Rodotà e la sottoscritta ( più tardi anche Michelangelo Notarianni).

Con Stefano in particolare abbiamo lavorato insieme quotidianamente per quasi cinque anni, con una redazione fantastica di cui voglio ricordare fra i tanti nomi solo qualcuno che oggi sembra più eterogeneo: Gianni Ferrara ma anche Paolo Gentiloni, Massimo Cacciari, Giuliana Sgrena e Aldo Garzia. ( Ma anche Carla Rodotà, contributo prezioso al nostro lavoro). E una inedita, larghissima partecipazione della socialdemocrazia europea che in quegli anni vide la prevalenza di una splendide leadership di sinistra. Il nostro tentativo fu sconfitto. Sappiamo tutti come e perché. Ma continuo a credere non inutile. Anche se il Pci, sciogliendosi in malo modo, e il Psi con l’avventura craxiana, seppellirono quel tentativo di alternativa.

Ho ricordato Pace e Guerra perché quella esperienza non è per me e per molti compagni solo un ricordo molto importante, ma perché a quel tentativo politico Stefano Rodotà ha coerentemente lavorato per tutta la vita, nelle sedi in cui si è via via trovato ad operare ( non ultima, per importanza, la «nostra» Fondazione Basso, di cui è stato Presidente). Non era utopia, illusione.

Era un obiettivo possibile.Anche recentemente: non ci siamo mai arrabbiati abbastanza per il fatto che la sua candidatura a presidente della Repubblica sostenuta dai Cinque Stelle ( per una volta non ambigua) e da SeL sia stata fatta cadere dal Pd.Ho la massima stima di Mattarella, ma Stefano Rodotà, proprio per la sua storia e la sua personalità, e nonostante i limitati poteri del Qurinale, avrebbe forse potuto contribuire ad evitare il disastro attuale della sinistra.

Ciao Stefano, siamo molto tristi. Un abbraccio a Carla e a Maria Laura.

il manifesto
UN UOMO DI SINISTRA,
AL FUTURO.

di Andrea Fabozzi
«Una grande civiltà. Stefano Rodotà fuori e dentro le istituzioni, per i diritti e i nuovi bisogni, la biopolitica e i beni comuni. Fino alla candidatura al Quirinale»

«Per conto mio, rimango quello che sono stato, sono e cercherò di rimanere: un uomo della sinistra italiana, che ha sempre voluto lavorare per essa, convinto che la cultura politica della sinistra debba essere proiettata verso il futuro. E alla politica continuerò a guardare come allo strumento che deve tramutare le traversie in opportunità».

Sono le ultime parole di un pezzo scritto da Stefano Rodotà, quando – era l’aprile di quattro anni fa – si trovò a dover rispondere a un attacco pubblicato sul giornale per il quale scriveva da quarant’anni e firmato dal fondatore del giornale. Eugenio Scalfari lo accusava di non essersi ritirato dalla corsa per il Quirinale nel momento in cui era tornato «disponibile» (e poi rapidamente eletto) Giorgio Napolitano.

La storia è nota, è la più recente e anche la più clamorosa delle tantissime percorse dal giurista morto ieri all’età di 84 anni. Parlamentare in legislature lontane (dal 1979 al 1992), punto di riferimento per generazioni di giuristi, Rodotà tra il marzo e l’aprile del 2013 si trovò a essere acclamato nelle piazze dai militanti del Movimento 5 Stelle. E non solo da quelli, anche se fu dei grillini l’iniziativa di candidarlo a presidente della Repubblica. Iniziativa malissimo digerita dal Pd, allora a guida Bersani. E «ci si dovrebbe chiedere – scriveva ancora Rodotà rispondendo a Scalfari – come mai persone storicamente di sinistra siano state snobbate dall’ultima sua incarnazione e abbiano, invece, sollecitato l’attenzione del Movimento 5 Stelle».

Ma anche l’attenzione di Grillo finì nell’acido degli insulti, appena il signore del Movimento fu toccato dalle puntualizzazioni del professore sulla non autosufficienza della rete. Dopo averlo candidato al seggio più alto e aver fatto scandire il suo nome nelle piazze, Grillo rapidamente lo degradò «a ottuagenario miracolato dalla rete», così dimostrando che i king maker non sono necessariamente all’altezza dei loro candidati. E per la verità Rodotà non aveva neanche vinto le «quirinarie» inventate da Grillo sul suo blog che – con una partecipazione scarsina – avevano incoronato Milena Gabanelli e Gino Strada prima di lui, però si erano ritirati. Dopo quella polemica Rodotà continuò a scrivere per Repubblica, anche se con meno frequenza e non sempre in prima pagina. Anche perché l’ultima battaglia del professore è stata quella contro la riforma costituzionale e la legge elettorale di Renzi, due leggi che invece il quotidiano fondato da Scalfari ha sostenuto.

Questo suo impegno per il no gli era costato l’accusa, per lui particolarmente insopportabile, di conservatorismo. Prima Renzi poi Boschi individuarono in Rodotà l’avversario perfetto durante tutto l’iter della riforma costituzionale e poi nel corso della campagna referendaria. Era lui il «professorone» per eccellenza, che insieme ad altri aveva firmato (sul manifesto) il primo l’appello contro i rischi di autoritarismo. E quanto fu felice il presidente del Consiglio quando gli fecero sapere che proprio Rodotà nel 1985 aveva avanzato con i deputati della Sinistra indipendente (con Gianni Ferrara, suo grande amico) una proposta di legge per il monocameralismo.

Fece presto Renzi a concludere che Rodotà aveva cambiato idea solo per antipatia verso di lui e la sua riforma costituzionale – e il professore dovette spiegargli che con la legge proporzionale (e i partiti) di trent’anni prima quella sua proposta di riforma aveva tutto un altro segno. «L’Italicum è una legge arretratissima», diceva Rodotà nelle assemblee di quei giorni, sempre attento a non perdere di vista la prospettiva del cambiamento. Qualche volta lo si vedeva intervenire con le stampelle: «Non sono un professore pigro».

Nella sua presenza politica quarantennale c’è sempre stata questa spinta all’innovazione. Civilista più e prima che costituzionalista, lo guidava l’assillo dei diritti e dei bisogni, specie quelli nuovi, da garantire e difendere.

Dalla rappresentanza sindacale – tenne un comizio a Pomigliano, davanti alla fabbrica Fiat che non voleva riconoscere la Fiom – all’acqua, decisivo il suo contributo al referendum del 2011, ai beni comuni: a Roma lo ricordano gli occupanti del teatro Valle e quelli del cinema America. La biopolitica, alla quale ha posto attenzione tra i primi, sempre con un atteggiamento profondamente laico anche rispetto all’invadenza del diritto: «La regola fissa è destinata a essere travolta», avvertiva tutte le volte in cui rispondeva sulle grandi questioni della vita e della morte.

Giurista di grande fama anche all’estero (ha insegnato in diverse università del mondo) Rodotà è stato tra gli estensori della carta di Nizza, la carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. E poi è stato anche uno dei più attenti alle implicazioni della nuove tecnologie, sia come garante della Privacy (il primo quando fu istituita l’Authority nel 1997) sia più recentemente da presidente della commissione che, alla camera, ha scritto la carta dei diritti in internet.

«Alla mia età mi fa sinceramente piacere che qualcuno si ricordi di me», commentò con un filo di ironia la scoperta di essere il prescelto del blog di Grillo. In quei giorni in parlamento, senza il sostegno ufficiale del Pd, arrivò a raccogliere 250 voti dei grandi elettori; molti di più di quelli dei soli grillini. Ma la diciassettesima legislatura che poteva cominciare eleggendo Rodotà al Quirinale, era destinata a partire invece con la storica conferma di Napolitano per un secondo mandato. È questa legislatura, ormai avviata alla fine.

il manifesto
UN'EREDITA' PREZIOSA
di Norma Rangeri,

Caro professore, perché questo sei stato per tanti di noi, ora che ci lasci capiamo ancora di più quanto ci mancherai e quanto mancherai a tutto il paese. Nella nostra vita abbiamo conosciuto poche persone con il tuo profondo senso della democrazia.

Sarebbe riduttivo sostenere che hai insegnato molto agli italiani nelle battaglie in difesa dei diritti civili e sociali. Perché quel di più che ci hai trasmesso è stata l’importanza della parola «cittadino» accompagnata all’alto senso delle istituzioni. Il binomio cittadino – istituzioni ha caratterizzato il pensiero e l’insegnamento che tu, maestro di libertà, hai portato nella vita politica e culturale, dentro e oltre i confini nazionali.

Da questo punto di vista il tuo essere di sinistra ha marcato una differenza rispetto alla cultura marxista e a quella radicale che pure ha avuto grande importanza nella tua esistenza. Nella cultura marxista sei riuscito a infondere il valore fondamentale dei diritti civili che, ai tempi del Pci, erano praticamente sotto traccia. Invece al mondo radicale hai saputo trasmettere la necessità di impegnarsi anche per le lotte sociali.

Senso delle istituzioni, ruolo del cittadino, lotte per il lavoro, temi etici e diritti civili: tutto questo ti appartiene – e grazie a te ci appartiene, rendendoti perciò unico nella cultura democratica italiana.

Ma c’è un’altra cosa di cui sei stato interprete: il rispetto per l’altro. Nella politica nazionale questa disponibilità a capire le ragioni altrui è sempre stata una rarità perché hanno prevalso gli interessi di parte (e di partito), le lotte di potere, gli schieramenti… Da questi giochi preferivi restare lontano scegliendo di impegnarti sui valori, sui principi e sull’interesse generale.

Per tutte queste ragioni siamo convinti saresti stato un grande presidente della Repubblica, in particolare perché avresti difeso – in nome non di un passato storico, ma di una necessità per il presente e per il futuro – i fondamenti della Costituzione.

È con dolore che ti diciamo addio, caro professore, consapevoli del fatto che lasci una eredità culturale, giuridica, intellettuale e politica diventata bene comune per la sinistra e per la democrazia.

il manifesto
LA PASSIONE
DI UN MAESTRO DI VITA.

di Gaetano Azzariti

«Ciao Stefano. Con lucidità disegnava un futuro migliore e allo stesso tempo "possibile"»

Non è facile scrivere queste poche righe in un momento di profondo dolore per la scomparsa di un amico e di un maestro di vita. Stefano Rodotà non era solo il raffinato intellettuale e il protagonista di trent’anni di battaglie civili, era anche un uomo generoso e appassionato.

Il suo immenso carisma credo avesse molto a che fare con la passione che egli riusciva a trasmettere.
Affascinava e coinvolgeva Rodotà quando, con lucida razionalità, disegnava un futuro migliore e allo stesso tempo «possibile».

Ha iniziato ben presto a rappresentare il cambiamento.Lo ha fatto da studioso, quando giovanissimo ha contribuito in modo decisivo a far cambiare passo alla scienza del diritto civile. Erano gli anni ’60 del Novecento, quando uscirono le sue due prime monografie: una rivoluzione per gli studi del tempo.

Di fronte ad una cultura dei giuristi che ancora si attardava nel formalismo giuridico e faceva resistenza entro uno specialismo che relegava ai margini la costituzione repubblicana, ecco un giovane studioso che dimostrava la necessità del cambiamento. Oltre – e sopra – il diritto civile si staglia la costituzione, l’interpretazione giuridica non può che fondarsi su una legislazione per principi che pone al centro i diritti delle persone reali.

L’attenzione per i diritti ha segnato la vita di Rodotà. Non si è mai sottratto dinanzi alla difficoltà di affrontare certi temi. Dalla proprietà («il terribile diritto») ai beni comuni (una formulazione di cui oggi si abusa, alla quale Rodotà è riuscito per la prima volta e praticamente da solo a dare valore scientifico). Tutti temi trattati con realismo e mai dimenticando la materialità della dimensione dei diritti. In uno dei suoi libri più affascinanti «Il diritto di avere diritti» Rodotà indica la rotta agli studiosi di diritto che si riconoscono entro il progetto del costituzionalismo democratico e pluralista. Bisogna pensare ad un «costituzionalismo dei bisogni», scrive.

Dovremmo meditare a lungo la sua lezione, soprattutto in tempi come i nostri che appaiono dimenticare che è delle persone concrete che bisogna parlare.

Tra le ragioni che hanno portato Stefano Rodotà ad opporsi con grande coraggio e rigore all’ultimo tentativo di cambiare la costituzione v’è sicuramente la percezione che il revisionismo dominante non avesse nulla a che fare con i diritti dei cittadini, semmai ne aumentava la distanza, guardando solo alle ragioni del potere e non invece a quelle dei governati. L’ultima «Carta» di valore costituzionale che è stata scritta porta la sua firma. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata a Nizza nel 2000.

È il catalogo più ampio mai scritto dei diritti e il più impegnato tentativo di far mutare rotta all’Europa: «dall’Europa dei mercati all’Europa dei diritti», come ebbe a scrivere. Dopo la sua approvazione l’Europa «ha voltato le spalle alla Carta» (sono ancora sue parole). Ancora una volta la politica si è dimenticata dei diritti. Ma, se i diritti diventano deboli spetta a nessun altro se non a noi difenderli. «il codice di questa impresa – scrive – ha un nome, e si chiama politica.

I diritti diventano deboli quando diventano preda di poteri incontrollati, che se ne impadroniscono, li svuotano e così, anche quando dichiarano di rispettarli, in realtà vogliono accompagnarli a un malinconico passato d’addio. I diritti, dunque, diventano deboli perché la politica li abbandona. E così la politica perde se stessa, perché in tempi difficili, e tali sono quelli che viviamo, la sua salvezza è pure nel suo farsi convintamente politica dei diritti, di tutti i diritti». La lotta continua e Rodotà continuerà a farci vedere la rotta. Sit tibi terra levis, Stefano.

il Fatto Quotidiano
SEMPRE DALLA PARTE GIUSTA,
QUINDI SEMPRE FUORI DA TUTTO
di Marco Travaglio

Un signore e un amico. Da tempestare ogni giorno per interviste, pareri,
consigli. E lui faceva i salti mortali per non farci mai mancare la sua voce
Marco, come sta tuafiglia? Dammi notizie!”. Stava già malissimo, il 5 giugno.
Eppure, appena lesse che la mia Elisa era rimasta schiacciata nella ressa di piazza San Carlo, mi telefonò per avere notizie, con la solita voce squillante e calma, cantilenante e ottimista. Come se stesse benissimo. Stefano Rodotà era anche questo: un vero signore e un amico caro. Mio e del Fatto. Uno di famiglia, da tempestare ogni giorno per interviste, pareri, consigli. E lui ogni volta faceva i salti mortali,tra una conferenza e una galleria (era spesso in treno), per non farci mai mancare la sua voce. Fino all’ultimo, il 23 maggio, quando ci spiegò perché era giusto e doveroso mettere in pagina l'intercettazione dei due Renzi su Consip perché“di assoluto rilievo pubblico”.

Trovava sempre le parole, i toni, gli argomenti giusti. Quando immaginiamo a chi vorremmo somigliare, il primo che ci viene in mente è lui:un hombre verticalintransigente ma pacato, combattivo ma sereno, politico ma etico tanto da non sembrare nemmeno italiano. E quando sentiamo proprio il bisogno di invidiare qualcuno, pensiamo ancora a lui.

Un uomo sempre dalla parte giusta: quella della Costituzione (contro Craxi e gli altri corrotti di Tangentopoli, contro B. loro degno epigono, contro la Bicamerale di D'Alema&B., contro le presunte riforme scassa-Costituzione
di B. e poi di Renzi) e dunque della laicità,della legalità e dei diritti. E dunque, nel Paese più bigotto, corrotto e autoritario d’Europa, sempre fuori da tutto. Non credete ai politici e ai tromboni del cordoglio automatico e del lutto posticcio: a quelli Rodotà non piaceva, e ricambiava.

Il vuoto della sua scomparsa lo avvertiranno molti cittadini, ma i politici e
gl’intellettuali da riporto sentiranno solo un grande sollievo: una spina nel fianco in meno. Quand’era presidente del Pds e nel 1992 fu candidato alla presidenza della Camera, a sbarrargli la strada per conto della peggior partitocrazia fu Giorgio Napolitano. Lo stesso che gli fu naturalmente
preferito nel 2013,quando il popolo della Rete votò Rodotà fra i tre presidenti della Repubblica preferiti alle Quirinarie dei 5Stelle e, dopo le rinunce di
Gabanelli e Strada, Grillo lo candidò al Colle con l’appoggio di Sel e della
base del Pd. Un gesto che, se anche fosse l’unica cosa fatta dai 5Stelle in
tutta la loro storia, potrebbe già bastare e avanzare per non renderla vana.

Per qualche giorno gli eterni padroni d’Italia furono pervasi da
un brivido di terrore: ma come, un uomo colto e perbene che non si
può né comprare né ricattare, un nemico dei compromessi al ribasso,un cultore dei beni comuni, un innamorato della Costituzione e del popolo sovrano, insomma un “moralista”e“giustizialista”(lui, vero garantista a 24 carati) sul Colle? Ma siamo matti?

Quanti di noi,in questi quattro anni, hanno provato a immaginare come sarebbe l’Italia se il Parlamento avesse eletto lui: forse avremmo conosciuto la nostra prima rivoluzione, quella della Costituzione. Certo non avremmo rivisto al governo B., Alfano, Verdini e altre sconcezze. Certo non avremmo questa Rai di regime. Certo avremmo ancora lo Statuto dei Lavoratori. Certo il governo non avrebbe potuto truffare 3,3 milioni di cittadini col trucco dei voucher. L’ultima battaglia referendaria in difesa della Carta fu un onore e un privilegio, anche perché ci consentì di combattere al suo fianco e, tanto per cambiare un po’, vincere.

La sera del 2 dicembre, al teatro Italia di Roma, eravamo tutti insieme per dire che “La Costituzione è Nostra”. Stefano si alzò nel teatro gremito e fu sommerso dai cori“Presidente! Presidente!”. Sarebbe stato un perfetto capo dello Stato, ma anche un ottimo premier, ministro, giudice costituzionale. Tutte cariche dovute, dunque mai ottenute.Grazie, Stefano: sarai sempre il Presidente che non ci siamo meritati.

«Addio Stefano Rodotà combattente galantuomo». Articoli di Massimo Giannini, Simonetta Fiori, Antonio Gnolo. Le interviste di Liana Milella a Gustavo Zagrebelsky e Giovanna Casadio a Emma Bonino.

la Repubblica, 24 giugno 2017 (m.p.r.)


L'UOMO DEI DIRITTI

di Massimo Giannini
«Ti ricordi cosa rispose Prodi al cardinal Ruini, ai tempi della polemica sulla procreazione assistita, no? “Sono un cattolico adulto”… Ecco, sai oggi di cosa avremmo bisogno? Di tanti “democratici adulti”’, di cittadini che hanno sete e fame di partecipazione, e che hanno voglia di rivitalizzare la democrazia. E guarda, io che giro l’Italia ti dico che ce ne sono tante, di persone così. Persone che si mobilitano, e che non hanno bisogno del leaderino di turno che le comandi, o le strumentalizzi». Passeggiavamo intorno a Via Teulada, quella sera di marzo di un anno fa. Stefano Rodotà era appena stato ospite in studio, a “Ballarò”, a parlare dei suoi cavalli di battaglia: i referendum, i beni comuni, i rapporti tra le élite e il popolo, i migranti. E nonostante stesse già toccando con mano il fallimento imminente di un’altra stagione politica, a ogni passo rinnovava il suo atto di fede illuminista: «Sono vecchio, ma non ho ancora smesso di credere nella ragione umana».
Ora che quel magnifico vecchio di 84 anni se n’è andato, di lui ci resta soprattutto questo. La testimonianza preziosa di un “democratico adulto” che non ha mai rinunciato un solo giorno a battersi per i diritti e per le regole, per l’uguaglianza e per la solidarietà. E di questa missione Rodotà ha riempito tutte le esperienze pubbliche che ha vissuto. Il professore universitario a Roma e il garante di Biennale Democrazia a Torino. Il simpatizzante radicale con Pannella e il parlamentare prima da indipendente del Pci poi del Pds di Occhetto. Il presidente dell’Autorità per la privacy e il direttore del Festival del diritto di Piacenza.
Stefano è stato un “combattente galantuomo”. Uno dei “vecchi più giovani” che io abbia mai conosciuto. Per la modernità con la quale ha affrontato tutte le sue sfide intellettuali. La curiosità che lo ha portato a occuparsi di mille cose. L’umiltà che lo ha spinto a studiare fino all’ultimo. Ne ha passate tante da quel 1933 a Cosenza. Le sfilate del sabato dei balilla e il Partito d’Azione scelto da suo padre. L’amore per Balzac e «le domeniche mattina al cinema con Moravia e Pasolini ». Gli insegnamenti di Arturo Carlo Jemolo e di Max Weber. Il rifiuto dell’offerta di lavoro con Adriano Olivetti («mi chiedo come un uomo così abbia potuto vivere e operare in un Paese come il nostro...») e quel po’ di soldi piovuti «dalla collaborazione con il Mondo di Pannunzio».
Rodotà era un concentrato di tensioni civiche e di passioni giuridiche. Ma non era un giurista di quelli che si limitano a spaccare in quattro la norma: la calava e la faceva agire nella vita quotidiana. Da studenti di legge, alla Sapienza, ci bevevamo i suoi libri. In pochi hanno avuto la sua profondità di pensiero e la sua fluidità di penna. Quando uscì in prima edizione Il terribile diritto, nell’81, per noi fu un’illuminazione. Lì dentro c’era già tutto. La “macchina della proprietà” che comincia a correre «a tutta velocità in un mondo costruito a una sola dimensione, quella del mercato come legge naturale, della riduzione all’economia di tutte le relazioni sociali». La sproporzione proprietaria come motore delle disuguaglianze, che schiaccia qualunque “idea morale di solidarietà”. E poi il successivo fallimento del mercato, l’urgenza di forme di controllo, «il legame sempre più stretto tra i diritti fondamentali e i beni necessari alla loro attuazione», la riscoperta della teoria dei “beni comuni” (dall’acqua alla conoscenza), il loro “uso sociale”, la “costituzionalizzazione della persona”.
I diritti e i deboli: Rodotà sapeva sempre da che parte stare. L’aveva saputo “senza se e senza ma” nel tumultuoso Ventennio berlusconiano, urlando al mondo il conflitto di interessi, le norme ad personam e le leggi-bavaglio del Cavaliere. Continuava a saperlo in questo confuso decennio di vacuo “oltrismo” identitario. Si indignava: «Basta con questa storia che non c’è più distinzione tra destra e sinistra! La distinzione c’è eccome, per me al centro della politica ci sono la dignità, l’uguaglianza, i diritti, la ridistribuzione delle risorse. Non è sinistra, questa?» Uno così non poteva non incontrare Repubblica lungo la sua strada. Collaboratore fisso dalla fondazione del giornale, nel 1976. E ogni volta che lo chiamavi per chiedergli un editoriale, sapevi che ti sarebbe toccato un quarto d’ora di ragionamento mai banale, sulle cose da dire, sulla posizione da prendere. Ma sapevi anche che dopo un paio d’ore ti sarebbe arrivato un pezzo perfetto, che metteva sempre il giornale al “posto” giusto.
Parlavi di diritti negati nel lavoro? «Primo Levi scriveva: per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Senza dignità l’identità è povera, può essere manipolata. Difendere la dignità delle persone è difendere la democrazia». Parlavi di biotestamento? «Abbiamo il diritto ad esercitare in piena autonomia il ‘governo’ del nostro corpo. Il legislatore italiano, purtroppo, per la convivenza».
Aveva sempre idee forti, da opporre ai “debolismi” e ai populismi. Aveva un stella polare, che era la Costituzione. E in nome di questa si era schierato contro la riforma e il referendum di Renzi. «La pochezza del contenuto di quel testo è imbarazzante… E poi un manifesto come quello che chiede ai cittadini “vuoi diminuire ha il vizio o la propensione ad impadronirsi della vita delle persone ». Parlavi di privacy al tempo di Internet? «Io non voglio sapere che a 40 anni mi verrà una terribile malattia. Ma ci sarà qualcuno molto interessato a carpire questa notizia: un assicuratore o un datore di lavoro. E io devo essere tutelato». Parlavi dell’ondata xenofoba? «La paura del cittadino è comprensibile, ma gli impresari della paura che la cavalcano per lucrare una manciata di voti sono un pericolo il numero dei politici? Basta un sì”, incorpora clamorosamente l’antipolitica».
E se gli facevi notare «però Stefano, non sarete un po’ troppo conservatori, sul piano costituzionale?» lui quasi ti riaggrediva un’altra volta. «Questo lo pensa Renzi, che segue un percorso di riduzione della democrazia costituzionale. Io penso a un orizzonte espansivo di cambiamento della Costituzione». Solo una destra giornalistica cinica e votata al birignao poteva ironizzare sulla sua vana- gloria e sulla sua presunta “deriva grillina”. È vero che nel 2013 Grillò lo chiamò per candidarlo al Colle. Ed è vero che lui accettò. Ma non lo fece per infatuazione politica. «Solo un imbecille si sarebbe potuto illudere di vincere la corsa. Se ci ho messo la faccia lo stesso è perché uno con la mia storia aveva tutto il diritto di dimostrare che un’altra scena era possibile».
Gli si poteva anche non credere. Ma per lui parlano le cose che disse dei Cinque Stelle. Nel 2008, quando già intuiva i pericoli del cyberpopulismo: «Approderemo a una nuova utopia tecnopolitica? Vedremo il presidente.com? Una lettura miracolistica dell’Internet 2.0 e delle sue reti sociali sottovaluta il riprodursi di modelli in qualche modo plebiscitari». Nel 2012, quando ammoniva «Grillo al Nord dice non diamo la cittadinanza agli immigrati, al Sud che la mafia è meglio dei politici, questi movimenti sono estremamente pericolosi». Ci sarà un motivo, se poco dopo il capocomico genovese dettò la scomunica sul Sacro Blog: «Rodotà è un ottuagenario miracolato dalla Rete». Lui neanche gli rispose. Continuavano a sfotterlo a colpi di “Rodotà- tà-tà”, per la sua contraerea sul tetto della “Costituzione più bella del mondo”. Sarcasmo mal riposto, pure quello.
Stefano non aveva affatto il culto dell’intangibilità costituzionale, ma semmai della sacralità del costituzionalismo, che è bilanciamento dei poteri. Sapeva quello che tanti capataz contemporanei, a corto di visione e di legittimazione, hanno ormai dimenticato: la democrazia è limite. E la Costituzione non è un libro polveroso: è materia vivente.
Il “democratico adulto”, purtroppo, non vedrà l’esito delle sue e delle nostre battaglie. Non vedrà la fine dell’eterna transizione italiana. Negli ultimi mesi ripeteva spesso: «Chiudetemi in casa, quando comincerò a dare segni di squilibrio». Lui se ne va, senza aver mai cominciato. Gli altri restano, senza aver mai smesso.

GUSTAVO ZAGREBELSKY

“CREDEVA IN UNA SOCIETà FONDATA SUI BENI COMUNI”
Intervista di Liana Milella a Gustavo Zagrebelsky

«Per me è un grande dolore. Per il nostro Paese è un grande vuoto». Il professor Gustavo Zagrebelsky parla di Stefano Rodotà, il giurista stimato e il compagno di tante battaglie a difesa della Costituzione. Nella sua voce c’è commozione e rammarico per un amico di meno.

Cos’era Rodotà per lei, prima ancora che come giurista?
«Sto cercando le parole... Un uomo di grande rigore e grande cultura. Di molta moderazione e di molta costanza nel perseguire i suoi ideali. A ciò aggiungerei uno stile asciutto, e, non sembri una contraddizione, molto dolce».

A me suona ancora nelle orecchie la sua voce roca, sempre pacata anche quando il dibattito pubblico non risparmiava eccessi.

«Molti lettori di questo giornale ricorderanno le sue apparizioni in pubblico, anche in televisione, con questo modo di fare sempre chiaro, legato ai temi, slegato dalle persone con le quali poteva polemizzare».

Ma lui invece è stato oggetto di pesanti aggressioni…
«Sì, ne voglio ricordare in particolare una. Quando fu proposto come possibile presidente della Repubblica fu oggetto di un’ignobile campagna di denigrazione».

Qual è stato il suo contributo alla scienza del diritto?

«Io ho conosciuto Stefano Rodotà alla fine degli anni Sessanta (aveva esattamente dieci anni più di me), in riunioni di giovani e meno giovani giuristi, il cui frutto fu la creazione di una rivista che esiste tuttora, con Rodotà presidente del comitato scientifico, il cui titolo è Politica del diritto. Nel gruppo c’erano colleghi che hanno preso le vie più diverse come Cassese e Amato. La ragione fondativa della rivista era una visione del diritto come strumento di trasformazione sociale. Politico in quel senso, non nel senso della politica dei partiti. Nel senso di una visione politico-civile del diritto. In particolare per lui, per la sua strada successiva, il diritto a protezione ed emancipazione dei più deboli».
Un filone che lo ha accompagnato a lungo…
«Sì, fino all’ultimo, fino al fondamentale volume del 2015 dal titolo Il diritto di avere diritti. Rodotà iniziò come un qualunque giurista prodotto dall’accademia italiana, occupandosi di temi classici del diritto civile e della loro, come si dice, dogmatica. I suoi primi studi sono stati dedicati alla responsabilità civile e al contratto: più classici di così! Il terzo era sulla proprietà, il titolo - Il terribile diritto - dice già molto. Sul diritto di proprietà si costruì la società borghese dell’800 con le sue tensioni, le ingiustizie, le divisioni in classi. La proprietà veniva estrapolata dai concetti giuridici per essere immersa nella grande storia dei rapporti sociali. Il punto finale degli studi storico- prospettici di Rodotà è stato il suo interesse per i beni comuni, sottratti alla partigianeria dei proprietari e attribuiti alla gestione degli utenti».
Ma sul tema dei diritti Rodotà è andato molto più in là fino a guardarli anche nella società futura.
«Per l’appunto. Rodotà è stato un pioniere. Negli ultimi decenni si è occupato a fondo di temi come gli aspetti giuridici della bioetica, l’impatto delle nuove tecnologie sull’esistenza delle generazioni presenti e future, lo sviluppo della tecnica e i rischi di disumanizzazione della vita. E infine della disciplina giuridica e dei diritti della circolazione dei dati in rete».
Rodotà garante della privacy, paladino di un uso responsabile delle intercettazioni, senza violare il diritto di cronaca. Giudica la sua una posizione equilibrata?
«Era quella di chi si rende conto che esistono, e oggi esistono sempre più numerosi, problemi difficili, e difficili in quanto presentano diversi lati. È evidente che esiste un lato dell’essenziale libertà dell’informazione e uno della difesa della dignità delle persone. Anzi, a questo proposito, mi viene in mente che negli ultimi anni, l’interesse di Rodotà si era allargato dai temi strettamente giuridici, a quelli più ampi di natura culturale e morale».
A cosa allude?
«Ai suoi studi, piuttosto sorprendenti in un giurista che all’inizio professava un rigoroso positivismo – il diritto è nella legge, e fuori della legge non c’è diritto – a prospettive di natura cultural-morale. Mi riferisco ai suoi lavori sulla persona umana, sulla dignità, sulla solidarietà, in cui va oltre la prospettiva legata al diritto positivo».
L’impegno politico ha mai viziato la sua autonomia di giurista?
«Questa domanda evoca in me un’altra grande figura di giurista, che senza tradire mai la sua radice intellettuale, si è dedicato alla politica, Leopoldo Elia. Rodotà, laico rigoroso; Elia, cattolico rigoroso. Nessuno dei due disposto a compromettere la propria libertà intellettuale ed entrambi legati da un rapporto di stima e di collaborazione feconda».
Contro Berlusconi prima e contro Renzi poi, Rodotà ha difeso con la dottrina e in piazza la Costituzione. Battaglie forti le sue. Era in sintonia con lei, no?
«Sì, ma Rodotà ha attivamente partecipato a scritture e riscritture di testi costituzionali. Penso al suo impegno nell’elaborazione della Carta europea dei diritti e alla sua partecipazione ad alcune commissioni Bicamerali per l’ammodernamento della Costituzione».
Quindi non era un fanatico della Carta immutabile?
«No, non lo era. Infatti era favorevole al superamento del bicameralismo. Questa sua posizione è stata strumentalizzata nel dibattito recente. Quello che voleva Rodotà era il potenziamento della democrazia parlamentare. Si parlava, in quegli anni, di centralità del Parlamento. Ovvio che in una riforma che si potrebbe definire della centralità del capo del governo, Rodotà fosse contrario al depotenziamento del Parlamento che ne sarebbe derivato».
D’ora in avanti ci sarà un vuoto. Pensando a un “compagno di strada” nelle sue battaglie cosa le mancherà di Rodotà?
«Mi mancherà un collega mite, un maestro di quelli d’altri tempi, il cui sguardo era proiettato nell’avvenire. Ce ne fossero di giovani anagraficamente, ma giovani intellettualmente come Stefano Rodotà».

EMMA BONINO “UN LAICO COERENTE

SAPEVA CHE LA LIBERTÀ È FACILE DA PERDERE”
intervista di Giovanna Casadio a Emma Bonino

«Era un laico coerente, non di quelli a giorni alterni. Mancherà per la sua laicità, per le sue battaglie ma soprattutto per la sua coerenza». Emma Bonino, leader radicale, ex ministro degli Esteri, ricorda Stefano Rodotà con il quale ha avuto un dialogo mai interrotto. Rodotà affidò a lei nel 2012 il compito di parlare delle battaglie civili che hanno reso più moderna l’Italia al Festival del diritto di Piacenza, che aveva ideato.


Bonino, cosa ricorda di più di Stefano Rodotà: la laicità, le comuni battaglie per i diritti?

«Con Rodotà la famiglia radicale ha avuto momenti di grandi sintonie e anche di grandi distanze. Però la questione della laicità e dei diritti ci hanno visto insieme in molte iniziative forse con una accentuazione maggiore, almeno da parte mia, del tema dei doveri che sono inestricabilmente legati alla questione dei diritti: ogni diritto di libertà e responsabilità presuppone il dovere di consentirlo agli altri, che la pensano diversamente. E di Stefano voglio sottolineare la coerenza. Perché è raro un punto di vista laico e coerente. A volte ci sono comportamenti - spot, laici qualche volta e meno laici altre. È difficile, appunto, una posizione laica coerente, costa fatica nella vita politica o personale che sia».
È prezioso in Italia un punto di vista laico?
«C’è sempre più bisogno di laicità. Anche la convivenza tra le varie religioni presuppone che ci siano istituzioni laiche che garantiscano diritti e doveri. Per tutti. La libertà di espressione religiosa, di praticare la propria fede religiosa per me, che sono agnostica, è comunque un diritto basilare. Noi tutti siamo tentati di difendere i diritti quando ci riguardano. Questa è una delle debolezze delle battaglie sui diritti civili: ciascuno si occupa del suo».
A cosa pensa in particolare?
«Alla giustizia. Rita Bernardini ne sa qualcosa. A parte gli operatori del settore, ovvero magistrati, avvocati e carcerati, la gente si interessa alla questione giustizia o alle carceri solo quando ci passa.
Questo lo ricordava sempre Enzo Tortora».
Nella mentalità e nella realtà italiana c’è ancora un vulnus in fatto di laicità?
«Dal testamento biologico al fine vita, alla ricerca scientifica, direi proprio di sì. E Stefano è sempre stato sul fronte di queste battaglie. Per non parlare del dramma vissuto in Italia sulla fecondazione assistita, regolata da una legge oscurantista che è stata abbattuta dai ricorsi di alcune coppie le quali non si sono rassegnate ad andare a Barcellona o in altri paesi europei per gli interventi, e grazie alla testardaggine dell’Associazione Luca Coscioni e di Filomena Gallo».

Diceva Rodotà che è dai diritti che si misura la qualità di una società, è così?

«È così. E, aggiungo io, dall’applicazione dello stato di diritto a partire dalle istituzioni coinvolte».

E che i diritti non si acquisiscono tuttavia una volta per tutte.
«Anche perché ci sono nuovi diritti che la scienza ha scoperto e propone. L’eutanasia, ad esempio. Per noi radicali è una battaglia antichissima. Mi ricordo per la prima volta ne parlarono Loris Fortuna e Marco Pannella, a inizio anni Settanta. Il diritto alla scienza e alla libertà di cure, segnalo, è catalogato dalle Nazioni Unite. Tuttavia si evolve il mondo e anche il modo di stare al mondo. Importante è non farsi guidare dallo schema “io non lo farei, quindi tu non lo devi fare”. Che è un atteggiamento di cui non riusciamo purtroppo a liberarci. Penso al dibattito sulle unioni civili. Si stava discutendo di queste e un gruppo di femministe apre il fronte della maternità surrogata, chiedendone la proibizione a livello mondiale invece di percorrere la strada della regolamentazione per evitare il più possibile lo sfruttamento delle donne».
Raccontava Rodotà di essere stato iscritto solo al Partito radicale. Però non accettò la vostra candidatura al Parlamento nel 1979 bensì quella da indipendente nelle liste del Pci. Pannella riuscì a convincere Sciascia a candidarsi con voi, ma non Rodotà?
«Seguivo in quel periodo la prima campagna per l’elezione del Parlamento europeo, quando Sciascia si candidò con noi. Tutto nasceva da una impostazione diversa: Marco riteneva fosse importante riunire forze nelle liste cosiddette autobus, così da scuotere dall’esterno il corpaccione del Pci. Voleva ci fosse anche Rodotà che esprimeva l’area di cultura giuridica di tipo liberal. Mentre Stefano quello scossone voleva darlo dall’interno e puntò sulle candidature indipendenti nelle liste del Pci. Marco al contrario li chiamava “i dipendenti”».
Non fu Rodotà una personalità accomodante. Quanto è difficile oggi non essere accomodanti o scomodi?
«Oggi io mi auguro che si crei una resistenza rispetto ad accomodarsi tutti nella caricatura anti europeista, nazionalista, sovranista, tanto per citare i cliché che vanno per la maggiore e che non danno risposte ai problemi. Una moda che va forte, anche se ha avuto uno stop in Francia con Macron, ma anche in Austria e in Bulgaria. Non essere accomodanti ma partendo dalla realtà, senza suggestioni pericolose e false come le cose che si sono sentite al Senato sullo ius soli. Le immagini vergognose di quella zuffa hanno fatto il giro del mondo».

DA BIOETICA A PRIVACY,

IL VOCABOLARIO DI UNA VITA
di Simonetta Fiori

Le parole di Stefano Rodotà sono tante, quante ne servono a coprire l’incessante esplorazione in campi diversissimi. Ma non si può comprendere il suo dizionario autobiografico senza un lemma in particolare che ne riassume tutti gli altri. E questa parola è dignità. «Un termine che ha a che fare direttamente con l’umano », spiegava lo studioso. «Il rispetto della persona nella sua integrità».

Dignità. Non c’è aspetto dell’evo contemporaneo che non abbia trovato in Rodotà un interprete rigoroso e fedele al principio della dignità, ritenuta un valore fondante del costituzionalismo tedesco e italiano. Dignità sociale, nel rapporto con gli altri. Dignità nel vivere, dignità nel morire. E se gli si domandava negli ultimi tempi se fosse questa la parola chiave del suo impegno, rispondeva con la consueta semplicità: «Sì, ma l’ho scoperto piano piano: la dignità è un modo antropologico di vivere. Se io riconosco a una persona dignità non posso comportarmi come se questa consapevolezza non l’avessi mai acquisita».
Vita e regole. La vita è un movimento irregolare – scrive Rodotà citando Montaigne – e il diritto non sempre appare adeguato alla sua complessità. L’amore, la sessualità, la nascita, l’intimità, il dolore, la malattia, la fine: in alcune sfere dell’esistenza la norma può risultare inopportuna, intollerante, odiosa. «E allora bisogna fermarsi per tempo. Restituire valore a un diritto che sia al servizio del mestiere di vivere». Il principio di libertà di scelta fu difeso dal giurista nelle sue innumerevoli battaglie per la fecondazione assistita, per il matrimonio e le adozioni di coppie gay, per il testamento biologico.
Bioetica. Fu tra i primi a confrontarsi con la complessità di rivoluzioni scientifiche «che non mettono in discussione solo convinzioni radicate, ma la natura stessa di ciascuno, la sua antropologia». Le tecnologie riproduttive, l’analisi genetica, il diffondersi dei trapianti: per lo studioso la bioetica non si limitava a indicare una serie di temi né poteva assumere un tratto marcatamente normativo, ma doveva diventare «un luogo di elaborazione e confronto» tra discipline e convincimenti diversi.
Diritti. Teorizzò una cittadinanza globale fondata sui diritti. Dunque il superamento di una nozione di cittadinanza come proiezione di un’identità escludente. «Oggi assistiamo a pratiche comuni dei diritti. Le donne e gli uomini dei paesi dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente, lo studente iraniano e il monaco birmano si mobilitano attraverso le reti sociali, si rivoltano in nome dei diritti, scardinano regimi oppressivi». Nuova parola d’ordine mutuata da Hannah Arendt: il diritto di avere diritti.
Privacy. Sollecitato a dare una definizione di privacy, ne distinse i vari passaggi. Da «possibilità di scegliere quando esibirsi o quando rimanersene al riparo», il concetto di privacy si è poi esteso fino a includere «il diritto di poter controllare tutte le informazioni personali raccolte da altri». L’ultimo passaggio è legato alla rivoluzione digitale. «La privacy tutela il diritto di mantenere le mie caratteristiche non solo senza subire alcun tipo di discriminazione ma senza neppure perdere interi pezzi di identità». Il pericolo denunciato dallo studioso è la riduzione della persona a “un corpus di informazioni elettroniche”, primo passo verso la “società del controllo”.
Sinistra. Bussola imprescindibile della sinistra resta per Rodotà la triade “eguaglianza, libertà e fraternità/solidarietà”. Non è certo di sinistra «la riduzione della persona a homo oeconomicus, che si accompagna all’idea di mercato naturalizzato: è il mercato che decide e governa le nostre vite». Inaccettabile il principio che i diritti sanciti dalla carta costituzionale – istruzione o salute – possano essere vincolati alle risorse economiche.
Tecnopolitica. Di fronte alle manipolazioni rese possibile dalla rivoluzione digitale riteneva necessario cimentarsi con una “costituzione per Internet”, «con il modo in cui la tecnologia incontra il tema delle libertà e istituisce lo spazio politico».
Fine. Alla parola “morte” preferiva “fine”. Sosteneva di aver capito il dolore più dai romanzi di Carlo Emilio Gadda che dai testi del diritto. E a Gadda dedicò l’esergo di un capitolo intitolato La fine: «...le moribonde parole dello Incas. Secondo cui la morte arriva per nulla, circonfusa di silenzio, come una tacita, ultima combinazione del pensiero».

IL GRAN LETTORE DI BALZAC

CHE CREDEVA NELL'UNIONE TRA RAGIONE E SENTIMENTO
di Antonio Gnoli

L’umanità di uno studioso diviso tra l’analisi realistica su come riuscire a migliorare la vita di tutti i cittadini e l’idea che non c’è vera giustizia senza amore per la gente.

Tra le cose ultime che Stefano Rodotà ha scritto ricordo un libro sull’amore. Restai sorpreso. Non era l’amore un territorio che il mondo giuridico aveva tentato di assoggettare (sotto la forma del vincolo matrimoniale) o espungere come esperienza irrazionale? L’attenzione di Rodotà si posò sul fatto che l’esperienza dell’amore fosse dettata dall’incontro e dal conflitto tra la vita e le regole. Il diritto aveva vissuto vari secoli separato dalla vita civile. Rodotà provò a invertire quella rotta oppressiva, consapevole che ogni forma di ordine nasce dal disordine e dalle conseguenze che l’irruzione del nuovo può provocare.
Quando nel 2015, lo stesso anno del Diritto d’amore, uscì Il diritto di avere diritti, mi colpì l’esplicito richiamo a Hannah Arendt. Cosa significava quell’allusione diretta a un’autrice, ebrea tedesca, esule prima in Europa e poi in America? Da apolide, Arendt raccontò la propria ventennale condizione di profuga. Accanto ai panni della studiosa indossò quelli della vittima. Apparve evidente cosa volesse dire, nella sua drammatica semplicità, perdere il lavoro, la casa, la lingua, la famiglia, le radici. Cosa significava, insomma, per una persona essere privata di ogni diritto. Arendt comprese che non esiste diritto umano senza che l’umanità stessa si faccia garante della sua difesa e realizzazione. Di tutto questo Rodotà fu consapevole. Lo fu in quanto giurista e in quanto politico. Nonostante i dubbi, conservò sempre una forma di ottimismo che per lui fu come una seconda pelle. Fu un uomo duttile e colto. Curioso e libero di posarsi sui punti più critici della materia che aveva segnato la sua vita, cioè il diritto.
Credo che nell’educazione sentimentale giovanile gli avesse giovato la passione per la letteratura, esplorata in lungo e largo nella grande biblioteca del nonno. Fu anche grazie alla lettura di Balzac, alla sua Comédie humaine, che comprese la potente rifrazione del diritto sulla società. In un incontro che avemmo a casa sua si lasciò andare a qualche amarezza. Gli chiesi come avesse vissuto ed elaborato la vicenda della sua candidatura al Quirinale che lo vide bersaglio del fuoco mediatico. Rispose che non c’era molto da dire. In realtà, temo, che una qualche forma di delusione l’avesse provata. Aggiunse che in quella vicenda lui ci aveva messo il suo nome non perché pensasse davvero di farcela, ma perché uno con una storia come la sua aveva tutto il diritto di mostrare che un’altra scena era possibile: «Possibile, non probabile», precisò. Ho la netta impressione che nella differenza e nel confronto tra possibile e probabile si sia svolta l’esistenza di Stefano Rodotà. Il probabile come costruzione, calcolo, tecnica; il possibile come speranza, dignità, passione e, appunto, amore. Nell’allarmata visione degli ultimi tempi, si convinse che occorressero tanto la ragione quanto il cuore per combattere i vasti incendi di questo mondo.

«La cultura di massa sta cambiando. Corbyn, Sanders, il lavoro, i cortei in piazza... il passato non è più tutto da buttare. Il "nuovo" sta perdendo terreno. E va ricostruito». Ma, osserviamo noi, il "vintage" non basta, serve il "nuovissimo". il manifesto, 24 giugno 2017, con postilla

Il successo di Jeremy Corbyn nel resuscitare il Labour, che ormai tutti davano per cotto e stracotto, non è un fatto eccezionale nel panorama politico occidentale. E diversi segnali ci dicono che non si tratti di un caso isolaSotto traccia, infatti, stiamo assistendo a un mutamento culturale profondo che ha un effetto rilevante anche nella sfera della politica.La sbornia neoliberista non è finita ma sta perdendo una delle basi su cui si è costruito il suo successo: è entrata in crisi l’idea che il «nuovo» sia sempre meglio del «vecchio», che le magnifiche e progressive sorti dell’umanità ci attendono, che il domani sarà necessariamente migliore di ieri. È stata proprio questa visione dominante della vita, mutuata e prodotta dalla società dei consumi, dove l’innovazione è fondamentale per mantenere in vita il mercato, che ha portato anche nella sfera politica a sentire come superate quelle forze politiche che appartenevano al passato.A sentire come vecchie e superate parole come «uguaglianza», «giustizia sociale» o lotta di classe/conflitto sociale, a guardare come a riti inutili le commemorazioni dell’Anpi o le manifestazioni di piazza contro le politiche del governo. Al più, tra i più sensibili, resisteva un sentimento di solidarietà umana, quasi di benevola comprensione per queste forme politiche del passato.

Di contro il successo di Corbyin, simply red come lo ha giustamente definito/colorato Tommaso Di Francesco, ci dice che un anziano, nell’era del giovanilismo imperante, che parla il vecchio linguaggio della sinistra pre-Blair , che dice cose semplici ma le rende credibili con la propria storia personale, può riportare una parte importante delle forze popolari a votare per una autentica «Sinistra».Non diversamente qualcosa di simile si è registrato negli Usa con l’inaspettata ascesa dell’anziano Bernie Sanders, bloccato in maniera poco trasparente da una candidata espressione dell’establishment come Hillary Clinton .

Che cosa è successo, al di là di tanti elementi contingenti che possono spiegare il fenomeno? Per comprenderlo, proviamo a spostarci su un altro piano, quello del mondo delle merci.Negli ultimi anni in diverse città italiane ed europee, in particolare a Firenze, sono sorti diversi esercizi commerciali che vendono prodotti di un’altra epoca che sono tornati di moda, anzi sono diventati preziosi perché rari.Nelle strade cittadine vediamo sempre più spesso andare lentamente le vecchie 500 Fiat degli anni ’60 , così come il vecchio Maggiolino, la Lambretta, la Vespa, ecc. Lo stesso accade per alcuni abiti, per la forma antica dei telefoni fissi, per alcuni ambiti dell’arredamento e in tanti altri settori. È il trionfo del vintage che ha un significato che non può essere banalizzato.
Certo, si può leggere questo fenomeno come una scelta di consumo radical-chic, facente parte di quella spasmodica ricerca di distinzione in una società dai consumi standardizzati. Ma, se allarghiamo lo sguardo ci accorgiamo che il vintage esprime anche il bisogno di non buttare a mare il passato, di valorizzarne oggetti e valori che sembravano essere perduti. Ce ne accorgiamo guardando al ritorno con grande seguito dei cosiddetti classici, nel cinema (si pensi solo a Totò e al neorealismo che rivediamo spesso volentieri) quanto nella letteratura (basti pensare, al di là della bravura di Benigni, al revival della Divina Commedia).
se la sinistra diventa vintage esce da qual complesso di inferiorità culturale, di essere superata dal cambiamento imposto dal turbocapitalismo, e ridiventa un punto di riferimento per chi cerca persone e ideali ben radicati nella storia, per chi è stanco di una società «liquida» e narcisista.

Ma, tutto ciò non basta assolutamente. Non basta parlare di eguaglianza e di Costituzione che va realizzata nei suoi valori e programmi.

Questa è una condizione necessaria ma non sufficiente per rispondere alle grandi sfide che abbiamo di fronte. In primis la questione ambientale, la salvezza dell’ecosistema, la capacità di risposta ai mutamenti climatici, senza pensare di salvare capre e cavoli come tentò di fare il «Rapporto Brundtland» che coniò nel 1987 l’espressione «sviluppo sostenibile» con cui si è giustificato il perpetuarsi dello sfruttamento delle risorse naturali.

In secondo luogo la questione del lavoro, che diventerà drammatica nei prossimi anni con l’accelerazione dell’automazione. Senza una drastica riduzione dell’orario di lavoro non c’è via d’uscita chiunque governi. E ancora: le nuove forme di alienazione legate alla diffusione delle tecnologie della comunicazione che distruggono legami sociali e creano monadi che pensano di stare al mondo perché sono iperconnessi ogni momento.

E quindi tutta la grande sfida dell’educazione oggi, di una scuola/università che non possono essere ridotte ad aziende che producono merci. Infine la grande questione della sicurezza che è stata regalata alla Destra e ridotta a terrorismo islamico e immigrati quando la nostra insicurezza nasce sul luogo di lavoro, in quello che mangiamo, che respiriamo, e anche nel fatto di essere aggrediti dalla piccola quanto dalla grande criminalità organizzata (mafia, camorra e ‘ndrangheta), dall’emergere di una nuova classe sociale – la borghesia mafiosa – che si è alleata con la borghesia finanziaria producendo, su scala globale, una deriva criminale del capitalismo. Senza dimenticare l’urgenza di una politica di pace per tutta l’area del Mediterraneo come priorità per la sicurezza del nostro paese.

Questi ed altri i temi rilevanti e sensibili che riguardano la nostra vita quotidiana ed il nostro futuro. Una forza politica di vera sinistra deve provare a tradurli in proposte concrete, a parlare di nuovi stili di vita ed a praticarli prima della presa del potere, a dimostrare, anche simbolicamente, che è possibile.

Su questo punto passa una distinzione profonda col passato: non aspettare la conquista delle poltrone o il successo elettorale come misura della bontà della proposta politica ma praticare insieme a tutte le forze sociali disponibili nuovi modelli economici, sia pure su scala locale, nuove forme di mutualismo sociale, di consumo responsabile, di un uso alternativo del denaro (dalla moneta fiscale alle monete locali complementari), a un (neomunicipalismo realmente partecipato.

Se ci sarà questo cambiamento profondo allora la stessa, desueta, parola «compagno» potrà riacquistare un significato forte e chiaro.

postilla

"Il grande problema di fronte al quale ci troviamo oggi era sconosciutodalla sinistra del secolo scorso: appena intravisto da pochi misconosciuti profeti. Molto schematicamentepotremmo sintetizzarlo così. Il sistema capitalistico ha concluso il (oppure “un”?),suo ciclo storico in un processo nel quale ha avviluppato e coinvolto il suoantagonista storico, il proletariato. La crescita irrefrenabile dello sfruttamento (fino alla dissipazione) di tutte lerisorse disponibili (dall’uomo a tutte le altre componenti dell’ambiente) hareso impossible a masse sempre più ampie di esseri la sopravvivenza sul pianetaTerra. Al cospetto di una tale mutazione. Sebbene l’obiettivo finale rimane sempre quello del superamento delmodello economico del capitalismo, è lecito nutrire forti dubbi sul fatto chesia sufficiente una “sinistra vintage” per concepirlo (e.s.)

Abbiamo ripreso su questo sito ciascuna delle sue lezioni. Lo ricordiamo nell'apertura di eddyburg di oggi con alcune delle sue parole che abbiamo condiviso di più (i.b.)

I DIRITTI CIVILI SPETTANO ALL'UOMO COME TALE, NON SOLO AL CITTADINO".

"Un innegabile bisogno di diritti, e di diritto, si manifesta ovunque, sfida ogni forma di repressione, innerva la stessa politica"
"Se i diritti fondamentali vengono cancellati dal denaro e la democrazia cede alla dittatura, presto nessuno sarà più libero.”
“La «rivoluzione dei beni comuni», che ci porta sempre più intensamente al di là della dicotomia proprietà privata/proprietà pubblica; ci parla dell’aria, dell’acqua, del cibo, della conoscenza; ci mostra la connessione sempre più forte tra persone e mondo esterno, e delle persone tra loro; ci rivela proprio un legame necessario tra diritti fondamentali e strumenti indispensabili per la loro attuazione.”
„[... ] questa inarrestabile pubblicizzazione degli spazi privati, questa continua esposizione a sguardi ignoti e indesiderati, incide sui comportamenti individuali e sociali. Sapersi scrutati riduce la spontaneità e la libertà. Riducendosi gli spazi liberi dal controllo, si è spinti a chiudersi in casa, e a difendere sempre più ferocemente quest'ultimo spazio privato, peraltro sempre meno al riparo da tecniche di sorveglianza sempre più sofisticate. Ma se libertà e spontaneità saranno confinate nei nostri spazi rigorosamente privati, saremo portati a considerare lontano e ostile tutto quel che sta nel mondo esterno. Qui può essere il germe di nuovi conflitti, e dunque di una permanente e più radicale insicurezza, che contraddice il più forte argomento addotto per legittimare la sorveglianza, appunto la sua vocazione a produrre sicurezza.“
Le solite notizie sulla politica di accoglienza dei rifugiati italiana ed europea. Fanno a gara a che è più vicino ai Trump e a Netanyahu nell’erigere barriere armate. Gentiloni in lizza per il primato ma chiede aiuto.

Corriere della Sera, 23 giugno 2017Sulla missione europea per controllare i confini libici il nostro premier ha detto a Juncker che occorre per svariati motivi. In primo luogo la chiedono gli stessi libici, e ieri Gentiloni ha anche visto nella sede della nostra rappresentanza il capo del governo libico di accordo nazionale, Fayez Al-Serraj. In secondo luogo come ex potenza coloniale l’Italia non può gestire la missione, ha aggiunto Gentiloni, i libici non l’accetterebbero.

Un terzo motivo, non detto, che riferiscono nel nostro governo, è di natura diplomatica, geopolitica, e coinvolge la Francia, che ha una base militare in Niger, nella città di Madama, non lontana dai confini libici, e che vorrebbe avere un ruolo di primo piano nel controllo della frontiera tra Libia e Ciad. Il governo francese avrebbe anche stimato in 500 unità il numero di un contingente che controlli i confini, ma secondo le valutazioni del nostro ministero della Difesa occorrono migliaia di unità.

Di qui la richiesta di Gentiloni, che sia a Macron che alla Merkel, in primo luogo, gira almeno un’altra istanza: un coinvolgimento con fondi propri per la gestione dei flussi migratori, e la prevenzione degli stessi, attraverso la Libia. Prima di volare a Bruxelles il capo del governo aveva detto, in Parlamento, che sulla Libia l’Unione si muove in modo «drammaticamente lento»; le sue richieste di ieri hanno lo scopo di fare dei decisivi passi in avanti, creando una consapevolezza maggiore in tutti i Paesi membri.

Il raddoppio dei fondi europei diretti per la Libia (l’anno scorso erano 200 milioni e sono già stati spesi) si accompagna infatti a un precisa condizione di Palazzo Chigi: i nuovi fondi devono provenire solo in parte dal bilancio comunitario, una parte cospicua deve arrivare dai bilanci nazionali.

L’altra richiesta che Gentiloni ha anticipato a Juncker, chiedendogli un sostegno, e che poi ha esplicitato al tavolo del Consiglio europeo, riguarda i migranti salvati nel Canale di Sicilia, da qualunque nave. Per Gentiloni l’automatismo attuale, secondo il quale vengono accompagnati nei porti italiani, è ormai obsoleto: «Possono anche essere portati sulle coste francesi, maltesi o della Tunisia, se coinvolta», sono gli esempi che il nostro presidente del Consiglio ha fatto a Juncker, con il quale ha anche parlato della candidatura di Milano come nuova sede dell’agenzia europea per il farmaco, che per la Brexit lascerà Londra. In tutto i Paesi Ue candidati sono 20, e nonostante i tanti punti di forza di Milano, il dossier si annuncia difficile, se non in salita.

il manifesto, 23 giugno 2017, con riferimenti

In un articolo sul manifesto di poco tempo fa (8/6/2017) avanzavo una previsione che è risultata, inconsuetamente, azzeccata e formulavo un auspicio che invece, a quanto sembra, stenta non dico a concretizzarsi, ma più semplicemente a farsi strada.

La previsione era quella di un progressivo, sempre più rapido e sempre più insolentemente dichiarato, slittamento del Movimento 5 Stelle verso posizioni praticamente coincidenti con quelle dell’estrema destra. Le testimonianze, nel corso degli ultimi giorni, sono numerose.

Ma preferisco fermarmi all’ultima, per il suo carattere davvero speciale. E’ la posizione assunta sulla legge dello ius soli. In politica, com’è noto, esistono, a seconda delle prospettive, posizioni giuste, sbagliate, discutibili, contraddittorie, ecc… Ma se una posizione non è né giusta né sbagliata ma semplicemente disumana, come quella sostenuta da Grillo sulla richiamata legge, significa che tra quella forza e le altre, più o meno discutibili, ma che non la pensano come lui, s’è aperto un fossato invalicabile (come ovviamente per gli stessi motivi, e ancor più, con la Lega di Salvini ecc…).

Il brutto è che ciò era chiaro, chiarissimo fin dal giorno in cui Grillo emise il suo primo strillo incoerente su di una piazza italiana (si potrebbe manifestare qualche stupore perché tra gli attuali sostenitori di una sinistra “dura e pura” ce ne siano che se ne sono accorti con impressionante ritardo, per essere degli innovatori…).

Io,invece sulla base di una forse settaria ma alla fin fine fondatissima preveggenza, mi permetto di reiterare, anzi, di raddoppiare la previsione: con posizioni di questa natura Grillo perderà più voti di quanti pensa di acquistarne. Ossia: il declino del Movimento 5 Stelle sarà lento, ma è ormai inevitabile.

Quanto all’auspicio, mi auguravo che le sinistre, disunite, trovassero un’occasione o un luogo comune per discutere. Non sarebbe solo un problema di correttezza etico-politica, è molto, molto di più. E’ un problema di sopravvivenza. Si direbbe che, al contrario, ognuna di quelle sinistre si sforzi sempre più puntigliosamente di dimostrare e dichiarare come e perché sia diversa da tutte le altre. E’ ancora possibile invertire questa micidiale tendenza?

Avanzerò qualche sommaria riflessione.

Uno dei motivi del contendere, e perciò della divisione, è, a quanto sembra, la parola d’ordine del centro-sinistra. Si può cominciare a ragionarne, confrontando due apparentemente contrari ma in realtà simmetrici, e anzi convergenti, punti di vista.

Innanzi tutto: la parola d’ordine del centro-sinistra rappresenta una prospettiva strategica per la sinistra in Italia. Infatti quando mai la sinistra può aspirare a diventare in Italia forza di governo, localmente e nazionalmente, se non in una prospettiva di centro-sinistra? Non ignoro che nella sinistra esistono componenti e posizioni le quali, del tutto legittimamente, puntano su di un altro versante della lotta politica, quello movimentista, che nasce dal basso e agisce sul basso, ecc… Ma cosa impedisce ad un centro-sinistra di governo di avere rapporti e scambi molto proficui, anzi essenziali, con quest’altra sinistra? Ma il centro-sinistra di cui stiamo parlando è quello che si batte per arrivare a gestire il paese e le sue lotte da una posizione di governo. Quindi, è a questa prospettiva che l’unità delle sinistre dovrebbe innanzitutto guardare.

Ma: un centro- sinistra, nella pienezza delle sue forze e potenzialità, non si può fare con Matteo Renzi. Perché Matteo Renzi è la negazione vivente del centro-sinistra: cultura, ideologia (più o meno profonda), metodi e pratiche di governo spingono in lui, strumentalmente, nella direzione opposta. La battaglia per il centro-sinistra coincide dunque perfettamente – questo dev’essere chiaro – con la battaglia contro l’egemonia nel Pd, e fuori del Pd, di questo personaggio.

E’ ancora possibile questa battaglia? E cioè: è il Pd, innanzitutto, prima di qualsiasi altra componente di sinistra, recuperabile a una prospettiva di centro-sinistra (certo, con lacerazioni interne anche profonde e la liquidazione di ogni tipo di “giglio magico”)? Difficile dirlo. Ma di certo, se non ci si prova, i tempi si allungheranno, tenderanno di diventare semisecolari.

Ma: una battaglia di questa portata e natura, che va ben al di là delle contingenze elettorali, di oggi e di domani, si può iniziare e vittoriosamente condurre senza mettere le carte in tavola? E cioè: noi chiediamo legittimamente il cambiamento, chiediamo di abbattere Renzi per renderlo possibile, solo se discutiamo, progettiamo e propagandiamo un vero e proprio programma, appunto, una serie di punti chiari e definiti intorno a cui far quadrato e, come si diceva una volta, “chiamare alla lotta”.

Di tutto ciò per ora non c’è traccia, né da una parte né dall’altra. Una Costituente di sinistra consisterebbe semplicemente in questo: su cosa siamo d’accordo? Su cosa non siamo d’accordo? I disaccordi sono componibili oppure no? L’unità è una conseguenza di questo, non il presupposto.

Se si passa da qui, una luce si accende. Altrimenti resteremo nell’oscurità profonda che circonda i “quattro dell’Orsa maggiore”: Renzi, Grillo, Berlusconi, Salvini. Mamma mia.

Riferimenti
Sull'argomento abbiamo pubblicato, oltre agli scritti di Anna Falcone e Tomaso Montanari, commenti di Norma Rangeri, Luciana Castellina, Livio Pepino, Piero Bevilacqua, Alfonso Gianni, ed espresso il nostro punto di vista in A proposito dell'iniziativa di Anna e Tomaso (e.s.)

« il manifesto, 23 giugno 2017 (c.m.c.)

L’assemblea del Brancaccio ha avuto il merito essenziale di porre con i piedi per terra il tema della costruzione di una «lista di cittadinanza a sinistra». Il percorso è tutto da costruire, né poteva essere preconfezionato. Ma alea iacta est, indietro non si deve e non si può tornare. Il percorso non sarà facile e il tempo è breve. Proprio per questo conviene da subito affrontare alcuni nodi. La contraddizione nella quale si dibatte la costruzione della lista di cittadinanza a sinistra è chiara e non va sottaciuta.

Da un lato si tratta di favorire il massimo dell’unità possibile, perché il risultato elettorale non risulti deprimente e perché la rappresentanza parlamentare che ne consegue sia dotata di forza e consistenza. Dall’altro lato bisogna garantire la sua autonomia in particolare da qualunque sogno di riedizione di un fantomatico centrosinistra, che ucciderebbe la nuova creatura prima del parto. Tenere insieme e conciliare questi due elementi non è semplice, ma neppure impossibile e soprattutto necessario. Le ragioni non sono solo elettorali, ma più profonde. Comincerei da queste ultime.

Qui non si tratta di (ri)unificare forze di sinistra già esistenti. Non che queste manchino e che non debbano in primo luogo unirsi. Sarebbe ingeneroso oltre che autolesionista dimenticarlo o pensare di farne a meno. Ma esperienze comprovate dimostrano che la somma non fa il totale. Anche se lo facesse, rischierebbe di essere troppo poco persino per superare l’inevitabile asticella del quorum, peraltro per ora ignota come il resto della legge elettorale con cui si voterà, ma soprattutto per reggere la sfida della stagione politica che si apre. La quale appare contrassegnata dal fronteggiarsi di diversi e spesso opposti populismi: lo scontro tra destra e sinistra non sparisce affatto – come dimostrano anche le recenti esperienze di voto europee – ma avviene su quel terreno, ovvero nella crisi della politica, entro un senso diffuso di distacco dalle istituzioni e di diffidenza – eufemismo – verso l’establishment politico-istituzionale ai suoi vari livelli.

L’unico punto fermo sono i valori di fondo della Costituzione, lo abbiamo ben visto con il voto popolare il 4 dicembre, quello stesso però che non si è ripresentato nella stessa misura alle urne delle recenti amministrative facendo lievitare ancora una volta l’astensionismo.

D’altro canto la recente crisi del M5Stelle, cui il gruppo dirigente reagisce con una evidente virata destrorsa, può liberare voti a sinistra (e non solo a destra, come sembra stia ora avvenendo) solo se lì vi è una forza in grado di attrarli. Il compito che ci sta di fronte è quindi ben più complesso: costruire senso, più che cercare consenso. Infatti va ben al di là dell’appuntamento elettorale. Lo trascende in un auspicabile, ma non predeterminato, processo costituente di un nuovo soggetto di sinistra, senza però poterlo bypassare perché la politica non prevede il salto del turno, ma al contrario che di volta in volta si spenda tutto quello che si ha in tasca.

Che senso avrebbe anteporre la scelta delle alleanze – il centrosinistra – senza avere dimostrato che una sinistra autonoma e riconoscibile per profilo politico-programmatico e qualità dell’agire, esiste? E poi centrosinistra con chi? Con un centro – il Pd – che guarda a destra (per parafrasare e capovolgere la celebre espressione di De Gasperi) come dimostrano politiche e recenti sostegni parlamentari? Propugnatore del più ambizioso quanto fallimentare progetto di stravolgimento oligarchico dell’ordine costituzionale?

Non sottovaluto affatto l’importanza delle scissioni e delle diaspore avvenute in campo Pd. Sono il frutto diretto o indiretto delle battaglia politiche e soprattutto referendarie di questi mesi. Queste ultime tanto temute da costruire la truffa del voucher reloaded. Un fatto positivo, dunque. Che andrebbe aiutato a liberarsi definitivamente dai fili vischiosi del bozzolo del passato. Non promuovendo l’abiura, ma una politica senza piombo sulle ali. Se invece si pensa a un centrosinistra senza Renzi, o ci si illude – visti gli esiti delle ultime primarie – o si finisce in bocca ai vagheggiamenti (à la Repubblica) di chi vuole semplicemente cambiare di spalla al fucile, sapendo che un Calenda sparerebbe nella stessa direzione.

La contraddizione di cui sopra può essere superata solo spostando la definizione, da subito e nei modi necessari, di programmi e candidature ai livelli della partecipazione popolare diretta. Da qui la centralità del carattere «di cittadinanza» della lista, che pratica un diverso agire nel momento stesso in cui lo proclama.

Significa costruire la sinistra a partire dalla responsabilizzazione del suo popolo diffuso, che non ha mai smesso di esistere anche se la sua espressione come forza e soggetto politico ancora non c’è.

finirà nella

bad bank di cui si dovrà occupare l’Erario. Come nella migliore tradizione italiana, ripetiamo uno schema che somiglia alla solita privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite». la Repubblica, 23 giugno 2017

È inutile sdottoreggiare di bail in e di burden sharing.
Il grande Sacco Bancario di questi anni, alla fine, lo stiamo pagando noi. Montepaschi, Etruria e le altre tre “banchette”, fino ad arrivare alle due popolari venete: cosa resta del mesto Carnevale inscenato dai Signori del Credito, se non la maschera di Pantalone che apre il portafoglio e copre i buchi con il denaro pubblico? In queste ore politica e mercati brindano al presunto “salvataggio” della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Nel deserto della finanza tricolore incede fiero il tanto agognato Cavaliere Bianco. Banca Intesa, si prende le due venete ed evita la temuta procedura di “risoluzione” che avrebbe scaricato i costi del default non solo sugli azionisti, ma anche sugli obbligazionisti senior e (pro quota) i depositanti oltre i 100 mila euro.

Ma è qui la festa? Banca Intesa compra al prezzo simbolico di un euro la good bank, cioè il “tesoretto” residuo che rimane nei caveau di Vicenza e Montebelluna (i crediti “buoni”, gli sportelli, la struttura commerciale e persino le spettanze fiscali). Tutto il “marcio” (gli Npl, gli altri crediti deteriorati, persino i prestiti in bonis ma a rating più scadente) finirà nella bad bank di cui si dovrà occupare l’Erario. Come nella migliore tradizione italiana, ripetiamo uno schema che somiglia alla solita privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite. Non solo. Banca Intesa “compra” solo a condizione che l’acquisto sia “neutrale” sotto il profilo del patrimonio. Cioè che l’innesto dei cespiti delle due venete non obblighino Ca de Sass a modificare le proprie strategie di copertura dei “ratios” e di distribuzione dei dividendi.
Come hanno detto il ceo Carlo Messina e il patron della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti: l’affare si fa solo se ci garantisce l’intangibilità del capitale e delle cedole. In caso contrario, tanti saluti. Chiaro, lineare, legittimo: gli chiedono un intervento di emergenza, e l’emergenza si gestisce a certe condizioni. Io privato mi siedo al tavolo, ma solo se il mio cip è un euro. Tutto il resto, cioè la bellezza di 10 miliardi, ce lo metti tu, caro Stato.
Parafrasando il famoso spot pubblicitario: ti piace salvare facile, eh? Ma va tutto bene, per carità. Escluse le rovinose “missioni patriottiche” in stile Alitalia, non c’erano più alternative. Banca Intesa tutela i suoi interessi. È lo Stato che cura male i nostri. Si dica la verità ai cittadini. Si ammetta che tra le “quattro banchette”, il Montepaschi e adesso le due venete, il costo dei salvataggi a carico del bilancio pubblico (cioè a carico nostro) supera abbondantemente i 20 miliardi stanziati dal governo con il decreto di fine 2016. Si riconosca che, attraverso questi complicati arabeschi finanziari, è come se tutti noi contribuenti fossimo diventati azionisti e correntisti “virtuali” delle banche salvate, chiamati a coprire pro-quota il costo dei dissesti che altrimenti sarebbero stati interamente a carico dei soci e dei clienti “reali” di quelle stesse banche.
Senza dirlo all’Europa, abbiamo subdolamente disinnescato il bail in, e surrettiziamente replicato il bail out. La politica è arte del possibile. Tanto più in un Paese in campagna elettorale permanente, dove i crac creditizi diventano armi di distrazione di massa. Si evocano paragoni bugiardi, tipo il “Tarp” americano di otto anni fa, o il salvataggio spagnolo del Banco Popular di una settimana fa. Nel primo caso l’Amministazione Usa (al contrario del governo italiano) sborsò preventivamente 750 miliardi di dollari, mettendo in sicurezza l’intero sistema bancario e cacciando tutti i manager incapaci. Nel secondo caso il Banco Santander (al contrario di Banca Intesa) ha scucito 7 miliardi di aumento di capitale.
E qualcuno, prima o poi, ci dovrà anche spiegare perché, com’era già successo ad Arezzo o Macerata prima e a Siena poi, anche sulle due banche venete si è sprecato tanto tempo, prima di turare la falla gigantesca aperta nel fianco del mitico Nord-Est. Tra il 2012 e il 2015 la banca del cavalier Zonin ha bruciato 6,2 miliardi di valore, lasciando sul lastrico 118 mila azionisti e cumulando 1,6 miliardi di perdite. Nello stesso periodo la banca del ragionier Consoli ha distrutto 5 miliardi di valore, rovinato 90mila risparmiatori e totalizzato 1,8 miliardi di passivo. Il bagno di sangue è stato sotto gli occhi di tutti per anni, come già era successo per Mps. Nessuno ha mosso un dito. Lunghi conclavi, e rituali fumate nere. Nel frattempo, l’emorragia è dilagata. Altri 3,5 miliardi sprecati con il Fondo Atlante, e la bellezza di 65 miliardi di depositi totali fuggiti solo dai forzieri di Siena, Vicenza e Montebelluna. Cosa ci sia da celebrare, in tanta macelleria bancaria, non lo capiremo mai.
Donatella Coccoli intervista il giurista Livio Pepino. «Bisogna partire da un programma coerente e dalla forza delle associazioni del territorio che rispondono all’appello

». Left, 22 giugno 2017 (c.m.c.)

Mentre ci si avvicina al secondo turno delle amministrative e diventa sempre più stretto il rapporto tra Mdp e Giuliano Pisapia che il 1 luglio convoca il suo Campo Progressista a Roma, continuano le reazioni dopo l’assemblea al Teatro Brancaccio del 18 giugno. All’appello per una lista unica di sinistra lanciato da Anna Falcone e Tomaso Montanari hanno aderito in molti, e tra questi c’è anche Livio Pepino, ex magistrato prestato all’editoria (cura le edizioni del Gruppo Abele). «Io sono uno dei molti che spera che sia questa sia la prospettiva giusta e cercherò di dare una mano» dice dopo l’incontro.

Durante il suo intervento aveva toccato tre punti, di cui uno era quello delle alleanze. Cioè, lei ha detto, non deve essere questa la principale preoccupazione per costruire una lista unitaria.
Bisogna partire dalle fondamenta e non dai tetti come ha detto anche Tomaso Montanari. Cioè bisogna partire dal programma, dalla forza delle associazioni che rispondono all’appello. E visto che c’è un po’ di tempo ancora, visto che la scadenza elettorale non sarà immediata, occorre stilare un un programma coerente e dopo di che procedere, senza fare l’esame del sangue a nessuno e senza fare recriminazioni sulle storie personali di ognuno. La cosa importante è che ci sia un’adesione convinta al programma, se non c’è, è inutile dire che mi alleo con Tizio, Caio o Sempronio. Ricordiamoci che nel passato questo modo di agire ha portato a sconfitte, come quelle della lista Arcobaleno.

Qual è la sensazione rispetto all’assemblea del 18 giugno?

C’è molto da lavorare, ma mi sembra una buona partenza, c’è stata un’ottima adesione, si sono ascoltati buoni interventi. Questa però è solo la premessa. Si gioca la prima parte della partita nei prossimi due mesi. A settembre bisogna capire se questo appello ha avuto nei territori delle reazioni positive, se c’è mobilitazione forte, voglia di costruire. Io credo che possa funzionare, ripeto, le premesse in qualche modo ci sono, anche se sono tutte le da verificare.

Nel secondo punto da lei toccato, ha parlato di chiarezza nel programma e nell’agire politico.
La chiarezza è collegata naturalmente al primo punto. La cosa importante è il radicamento nel territorio: ora questo potrebbe essere l’ennesimo slogan, ma per me significa che bisogna cercare di mettere insieme e di far ragionare tra di loro una serie di realtà che nel territorio ci sono, fanno cose interessanti e sono orientate verso prospettive egualitarie e però sono distanti dalla politica. Sono associazioni, sono persone che lavorano con i migranti, una parte dei movimenti studenteschi, pezzi del mondo del lavoro che non si sentono rappresentati, ma che però esistono. Ci sono tanti spezzoni che non hanno rappresentanza, il problema non è pensare alla sinistra come a un luogo del Parlamento, il problema è pensare a questi pezzi qui, che se si mettono in rete e in collegamento tra di loro possono fare molto.

Non saranno solo speranze?

Non sono un ingenuo movimentista che pensa che si possa realizzare tutto da un giorno all’altro, ma alcune esperienze ci sono nel mondo. Quello che ha fatto la differenza in Inghilterra con Corbyn e negli Usa con Sanders è stata la mobilitazione di una serie di settori che non lo facevano da decenni e che lo hanno fatto. Hanno trovato un riferimento. E al di là della distinzione vecchi-giovani, perché non è questo il problema, il problema è la coerenza del progetto, dire le parole giuste e avere una storia senza scheletri nell’armadio.

E a proposito di scheletri nell’armadio, lei ha detto al Brancaccio che è un errore non aver fatto una discontinuità con il passato.
Io parto da un’analisi sia del non voto che su quello che in parte, in Italia come in altre parti d’Europa, è diventato un “voto di vendetta” come l’ha chiamato Marco Revelli. In quel 20% delle classi subalterne che negli Usa ha votato per Trump, credo che nessuno pensasse che lui avrebbe risolto i suoi problemi ma che almeno con quel voto gliel’avrebbe fatta pagare agli altri. Anche il voto dei 5 stelle io lo vedo in quest’ottica. Lo si è visto sin dalle prime manifestazioni, quelle del vaffa. Ecco, questo è il sentire comune, io credo a torto ma in buona parte anche a ragione. Ora noi non bisogna cavalcare la demagogia, bisogna fare discorsi seri ma con modalità, facce, parole, forma di rappresentanza che dimostrino effettivamente che si è voltato pagina. E questo al di là delle responsabilità soggettive, perché non è vero che tutti sono uguali. In questi anni c’è chi ha sbagliato. E quando il ceto politico ha perso credibilità per una serie di ragioni, non è che glielo puoi riproporre agli elettori.

E allora cosa fare, come conciliare i vari pezzi dell’alleanza?

Il problema è che non bisogna escludere a priori nessuno. Ma se domani le liste possono anche comprendere pezzi che hanno fatto politica in passato tuttavia devono esserci in prevalenza volti nuovi, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Il senso deve essere quello di un’altra cosa, diversa dal passato. Certo, bisogna dare delle risposte giuste. Per esempio, nel dibattito sulla sicurezza, a chi ha paura non si può dire non devi avere paura, bisogna saper dare delle soluzioni. A chi dice che questo sistema non funziona, è marcio, non gli puoi dire non è vero, gli devi dare delle risposte che, se mai dimostri che su alcuni punti ha torto, ma deve essere una risposta diversa che lo deve portare da qualche parte. Se no, faremo dei programmi bellissimi e nessuno li sosterrà.

Come deve essere una politica seria di sinistra?

Chi è riuscito di nuovo ad aggregare è riuscito a fare una politica concreta: in una città deve aprire delle mense, ambulatori medici gratuiti ecc. Insomma bisogna dare risposte alle persone. Se lo fai, la gente si fida e allora puoi essere anche credibile nel momento in cui fai anche dei progetti più ampi. Oggi, siccome tutti promettono ogni sorta di cosa, e la realtà poi è estremamente deludente, la reazione dell’opinione pubblica è quella di sfiducia.

Testo della lettera inviata ad Anna Falcone e Tomaso Montanari a proposito della loro iniziativa politica: le ragioni del consenso e la perplessità.

L’iniziativa politica di Anna Falcone e Tomaso Montanari è,in Italia, l’evento più promettente degli ultimi anni, dopo la caduta delprogetto di Maurizio Landini. Per la prima volta si parla di Politica in sensoproprio: come un’impresa da condurre insieme per migliorare le condizioni di vita,tendenzialmente, di tutti. La stessa dimensione dell’evento del 18 maggio aRoma ne è la testimonianza.

Come spesso accade quando i media danno la loro impronta aciò che raccontano degli eventi, attorno all’incontro del 18 giugno, e allaproposta politica che è alla sua base, si è alzata una discreta quantità dipolvere, a partire dal peso assegnato dai media al ruolo svolto da quelli che definiremmo“entristi”: quei personaggi della vecchia storia delle sinistre italiane che sisono intrufolati cercando una nuova verginità. Qui voglio sottolineare leragioni per cui, fin dal primo momento, la proposta mi ha convinto e ho cercato,con eddyburg, di seguirla con attenzione.

Le ragioni delconsenso

In primo luogo, la netta rottura con il passato della “politicapoliticante”, con i suoi riti, le sue struttura organizzative, i suoi piccoloPantheon. Craxi, Berlusconi e Renzi, certamente, ma non solo questi. In unaparola, la rottura con i gusci grandi e piccoli delle sinistre (e ovviamente ledestre) del secolo scorso. Voglio precisare: con i gusci, non con le personeche sono capaci di liberarsene.
In secondo luogo, l’affermazione dell’eguaglianza comeessenziale valore e principio da conquistare: un’eguaglianza non solo deidiritti statuiti, ma di quelli sostanziali di ogni essere umano, quale che siail suo censo, il suo ruolo sociale, il sangue o il suolo dal quale proviene, lalingua che parla, la religione che professa.

Ancora il forte riferimento alla difesa e all’attuazione aivalori e principi della costituzione repubblicana del 1948, summula delpositivo che lo scorso millennio ci ha lasciato.
Infine, per scendere dall’ideologia alla politica nelleistituzioni, condivido la scelta di Anna e Tomaso di parlare a tutti ma dirivolgersi in primo luogo a quel “popolo di sinistra” che è sceso in campo e havinto nelle grandi battaglie per la difesa della Costituzione, e prima e insiemeper la difesa dei beni comuni (dall’acqua alla cultura, dalla salute alpaesaggio, dalla democrazia al lavoro). Tornerò criticamente sul termine “sinistra”,ma mi pare che intanto esprima abbastanza bene quella parte dell’elettorato cheha combattuto per quegli obiettivi.

Una larga porzione di questo popolo si è staccato dallapolitica, non ha più votato. Le ragioni sono evidenti, e sono implicite nellaproposta di Anna e Tomaso: sono nella degradazione della politica che èavvenuta per effetto, e nel quadro, dell’egemonia conquistata dal capitalismonella sua fase più recente. La politica del renzismo ne è l’epitome.

La perplessità

Esposte le ragioni per cui ho fin dall’inizio condiviso laproposta di Anna e Tomaso vorrei esprimere la mia perplessità su un punto: nonsul piano della strategia ma su quello della tattica. Mi riferisco allaquestione del difficile equilibrio tra due esigenze: quella della definizionedi una identità “di parte”,radicalmente diversa dalle altre identità che si sono affermate nella storiadel nostro paese, e quella dell’efficacia nell’immediato.

Più d’un commentatore si è riferito a questo punto. Ma lamaggioranza (cito ad esempio Norma Rangeri e Luciana Castellina, che sulcomplesso dell’iniziativa pur si sono espresse in modo molto diverso) criticandol’insufficiente attenzione a quella vasta porzione della vecchia “sinistra” cheè (ancora) fuori e magari lontana dalla “parte” di Anna e Tomaso. La miapersonale opinione è che, nell’immediato, far prevalere la ricerca dell’efficaciaimmediata (e quindi proporre una “lista unica della sinistra”) costringa adannebbiare il messaggio di rottura col passato che è la forza della proposta.Prima affermare, rendere evidente e compiuta, la propria identità/diversità,poi stabilire le alleanze necessarie per raggiungere gradualmente gli obiettivinella pratica politica: questo mi sembrerebbe il percorso preferibile.

La parola “sinistra"

Ciò detto, credo che un approfondimento serio vada fatto sulsignificato del termine “sinistra” oggi. Tutto è mutato radicalmente attorno anoi, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, ma le linee guida del cambiamentoerano state tracciate all’indomani stesso della vittoria del fronteantifascista. Colpa grave della sinistra novecentesca non essersene accorta pertempo (salvo pochi e isolati gruppi e persone). Ciò ammesso, che cosa fareoggi? Che cosa recuperare del grande patrimonio e dall’insegnamento della “vecchia”sinistra”, e come inverarli nelle nuove sfide?
Io credo che una delle domande da porsi, per cominciare, sia“chi erano gli sfruttati e chi gli sfruttatori ieri, e chi sono gli sfruttati egli sfruttatori oggi”. Ovviamente, nonassumendo come campo di ricerca soltanto l’Italia né l’Europa, né il mondoNordatlantico oggi, ma l’intero pianeta Terra.

A quel punto ci accorgeremo che una parte estremamenteconsistente degli sfruttati di oggi sono stati prodotti da un’ideologia e unaprassi fortemente condivisa dalla “vecchia sinistra”: la “credenza” dellosviluppo, che è ancora parte dell’ideologia dominante. Ci accorgeremo che la grande massa degli sfruttati di oggi è costituita proprio dagli "sfruttati dallo sviluppo", come ha scritto Ilaria Boniburini sulla base di una letteratura vasta e poco nota. E ci accorgeremo infine che sfruttati e sfruttatori sono molto vicini,molto spesso nella stessa persona. Allora dalla politica saremo costretti a rivolgerciverso altri saperi.

».

il manifesto, 22 giugno 2017 (c.m.c.)

Ci sono alcune buone ragioni, tanto soggettive quanto di contesto, che spingono a guardare con fiducia e speranza all’iniziativa avviata da Anna Falcone e Tomaso Montanari il 18 giugno scorso al teatro Brancaccio di Roma.

Soggettive, perché la relazione di Montanari ha rivelato una maturità politica non comune, sia per la profondità dell’analisi storica e attuale, sia per l’equilibrio, la coscienza delle difficoltà, con cui ha prospettato il percorso possibile da sperimentare.Ci sono almeno due punti che vorrei sottolineare – a parte gli elementi programmatici – di quella relazione, che ha messo in equilibrio radicalità di proposta e ancoraggio realistico alle possibilità concrete offerte oggi dalla situazione italiana ed europea.

Il primo riguarda il giudizio sull’esperienza storica del centro-sinistra. La riflessione di Montanari non era un saggio scientifico, così come il mio non è che un articolo di riflessione politica. Ma la critica alle iniziative caratterizzanti del centro-sinistra prima di Renzi, dalla modifica del Titolo Quinto della Costituzione, passando per la legge Treu sul mercato del lavoro, sino alla riforma universitaria di Luigi Berlinguer, costituisce un passaggio obbligato per capire almeno un aspetto della storia degli ultimi 20 anni: la dissoluzione progressiva di ogni fede nell’animo del popolo della sinistra, la diserzione dall’impegno e dalla lotta.

Chi vuole trovare ragioni all’astensione elettorale in questo campo le trova tutte qui. Perché non c’è risentimento più profondo di quello che nasce dal sentirsi traditi dalla propria parte. Renzi è stato solo la degenerazione virulenta della malattia neoliberista che aveva già corroso la sinistra.Questo giudizio d’insieme, che può apparire sommario, non deve tuttavia pregiudicare il contributo di chi è stato dentro quella esperienza e vuol voltare pagina.

Nessuna richiesta di pentimento, né processi sommari. Ad ora non si ha notizia di tribunali speciali per quella vicenda. Ma certamente è richiesta una netta discontinuità con quel passato. Questa è una linea dirimente che Montanari ha tracciato con intransigenza, ma senza iattanza: opportunamente ripresa da Nicola Fratoianni e Pippo Civati che hanno aderito all’inziativa.

L’altro punto riguarda la capacità di Montanari di far rivivere alcuni punti della nostra Costituzione, come l’art. 3, quali elementi programmatici di una politica di superamento della democrazia formale.

Una interpretazione che negli ultimi anni ha trovato, per la verità, espressione negli scritti dei nostri migliori costituzionalisti. Ma Montanari ha mostrato sinteticamente come una forza politica che affonda le radici della propria azione nella carta fondativa della Repubblica, possiede una forza ideale straordinaria, una capacità egemonica ancora poco utilizzata nei suoi radicali presupposti egalitari.La situazione di contesto che dà speranza all’esperimento avviato è la non immediata scadenza elettorale.

Se una forza politica nascente è costretta, come sua prima iniziativa, alla corsa per le candidature, ormai lo sappiamo bene, è spacciata. C’è dunque tempo per ragionare e per affrontare le difficoltà gigantesche che si parano davanti. Magari pensando a una Costituente della sinistra, come propone Asor Rosa.

Ora, non c’è dubbio che i maggiori ostacoli vengono, a parte i vari aspetti tecnici e organizzativi, dal seguente problema: come far confluire le forze politiche organizzate, i partiti, come Sinistra Italiana e Rifondazione comunista, dentro il corso, certamente vitale, ma frammentato e magmatico, dei movimenti.

Questi partiti, sprezzantemente definiti “cespugli” dai nostri dottissimi media e da qualche politico altrettanto dotto, non sono ridotte di nostalgici. Benché non esenti da chiusure e settarismi, hanno una storia, talora radicamenti territoriali, sono frutto del lavoro volontario di migliaia di donne e di uomini che li fanno ancora vivere.

E’ giusto avere attenzione alle loro preoccupazioni di rischiare di scomparire in cambio di nulla. E’ giusto immaginare il riconoscimento del loro peso nella nuova organizzazione che dovrà nascere. Ma i loro dirigenti devono avere il coraggio di affrontare la sfida di un progetto indifferibile, senza il quale c’è forse la sopravvivenza di qualcuno, ma di certo la sconfitta di tutti: l’unificazione della sinistra in un nuovo organismo.

Provando a fare della presente debolezza – l’assenza di un leader massimo – un elemento di originalità: un partito-movimento diretto da un collettivo e coordinato da un portavoce che cambia a rotazione. Sarebbe una innovazione straordinaria, perché, diciamolo da storici, partito e democrazia non sono stati molto amici nel corso dell’ età contemporanea.

Infine, l’ambizione del tentativo è condizione del suo possibile successo. Non si tratta di costruire l’ennesimo cartello elettorale.Un orizzonte così limitato mostrerebbe l’irrimediabile strumentalità dell’operazione e allontanerebbe per sempre il popolo che vuole richiamare.

E’ il rischio di cui non si accorge Pisapia.

I lavoratori, i giovani, le donne, gli studenti, il ceto medio impoverito, il popolo delle periferie cerca donne e uomini che non solo li rappresentino in Parlamento, ma che condividano le loro lotte e bisogni, che stiano dalla loro parte, non solo nel momento della competizione elettorale, ma costantemente e all’interno di un progetto di lunga lena per cambiare la società italiana.

«vocidall'estero, 20 giugno 2017 (c.m.c.)
Il consolidarsi dei risultati del secondo turno delle elezioni legislative mostra ancora di più l’ampiezza con cui si è manifestato il rifiuto del voto. Se si sommano astensione, schede bianche e schede nulle – voti, questi ultimi, in forte aumento dal primo al secondo turno (da 500.000 a 2 milioni) – si supera il 61,5%, cifra data dal 57,36% delle astensioni più il 4,20% di schede bianche o nulle. Questo significa che appena il 38,5% degli elettori aventi diritto (ossia 18,31 milioni su 47,58 milioni) ha espresso effettivamente un voto al secondo turno. L’ampiezza del rifiuto del voto, a prescindere da quale forma abbia assunto, spinge a porsi alcune domande sul senso stesso di queste elezioni.

Paese “legale” contro paese “reale”?

Se non avessimo già abusato della contrapposizione maraussiana tra “paese legale” e “paese reale”, dovremmo utilizzarla proprio per descrivere la situazione attuale. Certo, la situazione non è assimilabile a quella in cui Charles Maurras aveva espresso questa dicotomia. Essa indicava aspetti diversi e non può essere ridotta alla sola cifra dei non-votanti. Eppure oggi abbiamo un “paese legale” nel quale il movimento “Republique en Marche” ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi all’Assemblea Nazionale tramite l’ultima tornata di elezioni, di cui nessuno contesta la legalità, ma questa maggioranza assoluta di deputati non può far dimenticare la maggioranza, questa volta davvero schiacciante al confronto, di francesi che non hanno votato o che hanno rifiutato di esprimere una scelta nel momento in cui hanno compilato la scheda di voto. È questa la discrepanza che giustifica, nonostante le remore storiche e politiche, il riutilizzo della dicotomia tra “paese legale” e “paese reale”. L’Assemblea Nazionale, per quanto sia legalmente autorizzata, ha un enorme problema di legittimità.

Una conseguenza di questo è che non c’è alcuna onda di consensi dietro al presidente e al suo partito. Il sistema elettorale francese, come sappiamo e abbiamo ripetuto a sufficienza, non fa altro che amplificare i risultati di una singola elezione. Tuttavia, nel 1981, durante la famosa “onda rosa”, l’astensione era stata solo del 24,9% (al secondo turno). Analogamente, nel 1993 durante “l’onda blu” ci fu un’astensione del 32,4%. Ora siamo in una situazione ben diversa. Ed è questa la situazione che dobbiamo considerare, al di là dei successi degli uni e dei fallimenti degli altri.

Crisi di legittimità e fratture politiche

Se anche – per miracolo – l’elezione fosse avvenuta secondo le regole del sistema proporzionale, – e allora, vorrei ricordare, “France Insoumise” avrebbe ottenuto 84 deputati (anziché solo 19) e il “Front National” ne avrebbe ottenuti 80 (anziché appena 8) – la legittimità dell’Assemblea Nazionale sarebbe stata comunque fragile. Naturalmente si può sempre dire che, in caso di rappresentanza proporzionale, l’astensione sarebbe stata meno marcata. Questo è possibile, ma è da dimostrare. È quindi necessario distinguere il problema della rappresentanza delle forze politiche all’interno dell’Assemblea Nazionale -problema che riguarda ovviamente la rappresentanza delle due forze di opposizione reale, e che potrebbe essere ridotto da un sistema elettorale un po’ diverso – dal problema della legittimità complessiva dell’Assemblea Nazionale, che deriva dall’ampiezza dell’effettivo “sciopero del voto” a cui abbiamo assistito da parte degli elettori francesi.

Questo “sciopero del voto”, che ha coinvolto il 61,5% degli iscritti, dimostra che la crisi politica in Francia, crisi che covava già dal 2012 e dalla rinnegazione europeista di François Hollande, e poi diventata crisi aperta dal 2013, non è ancora terminata. Gli incensatori di Emmanuel Macron e i propagandisti al soldo di “Republique en Marche” possono pure strombazzare in giro che con questa elezione si apre una nuova era. Ma sappiamo tutti che non è così. La società francese resta ancora spaccata in modo duraturo, a causa della disoccupazione, della disuguaglianza, del peso degli interessi delle grandi imprese e delle banche sugli ambienti politici e mediatici, ma anche a causa della crisi della scuola repubblicana, del modello di integrazione francese e del rischio terroristico. Di queste fratture ci ha dato un quadro più attendibile il primo turno delle elezioni presidenziali, che ha dimostrato come di fronte al campo del capitale – un campo che oggi si confonde con quello degli interessi “europeisti” – le diverse forze sovraniste nell’insieme potevano fare il loro gioco e ottenere la maggioranza.

Che futuro si prospetta?

Il grande rischio è di vedere il “paese legale” convincersi di avere tutti i diritti, e mettere in atto le riforme e le misure che aggraverebbero le fratture della società francese. Nei fatti questo rischio può assumere forme concrete differenti. La prima riguarda l’anomia, con una società che si disferebbe progressivamente sotto i colpi sempre più violenti che le vengono inferti, e frammenti di questa società che ricorrono alla violenza per cercare di far valere i propri diritti. Entreremmo allora in un mondo come quello di cui parla Hobbes, il mondo di una “guerra di tutti contro tutti”, con il più grande vantaggio – e la più grande felicità, si è costretti ad aggiungere – di quell’1% che ci comanda. La seconda strada, decisamente preferibile, vedrebbe i francesi unire le proprie forze contro le istituzioni occupate da una minoranza priva di legittimità, per far valere le proprie richieste. È stato questo l’appello rivolto domenica sera ai francesi da Jean-Luc Mélenchon.

Verso quale delle due forme di reazione penderà la bilancia è della più grande importanza. Ciò determinerà il nostro futuro. Bisogna quindi che le forze di opposizione, nel loro insieme, capiscano che non c’è soluzione possibile alla crisi politica se non nelle lotte collettive all’interno delle quali dovrà emergere, ancora una volta, l’idea del bene comune. Perché, e questo deve essere compreso da tutti, il “bene comune” non esiste al di sopra e al di là delle lotte sociali. Il bene comune va costruito all’interno di esse. Pertanto la nostra partecipazione alle lotte collettive sarà importante per definire il futuro che ci attende.

Allora e solo allora potrà essere trovata una soluzione alternativa a quello che alcuni colleghi hanno chiamato giustamente il “blocco borghese” o, più precisamente, il “blocco liberale”. Queste forze, senza rinunciare a ciò che costituisce la loro identità politica, dovranno capire che forme di unità sono necessarie, se un giorno vogliono veder trionfare le proprie idee.

Articolare “il” politico e “la” politica.

Questo implica una riflessione seria sui campi del politico e della politica. Il politico, come sappiamo, si definisce attraverso la contrapposizione tra amico e nemico. È lo spazio dei confronti antagonistici. Ma avere più avversari alla volta implica assumersi il rischio di essere sconfitti, soprattutto quando gli avversari sono a conoscenza del problema. La politica è invece lo spazio dei conflitti non-antagonistici, delle opposizioni e delle divergenze che possono legittimamente emergere tra le forze politiche, e che ad un certo punto dovranno essere risolte, ma la cui soluzione può passare temporaneamente in secondo piano rispetto ai confronti antagonistici prima menzionati. Chantal Mouffe ha definito questo lo spazio del “confronto agonistico”, secondo una distinzione che molti di quelli che si riferiscono al suo pensiero, ma evidentemente non lo hanno letto, farebbero bene a meditare.

Così, ci sono differenze importanti, persino radicali, tra i vari sovranisti, ma questo non dovrebbe impedire ai sovranisti di formare un fronte comune contro lo stesso avversario. È comprensibile che ci siano molti punti che in questi anni hanno contrapposto i militanti del Front National agli attivisti saldamente radicati nella sinistra di France Insoumise. Ci sono differenze nei punti di vista e nell’identità politica. Queste differenze continueranno a esserci anche nelle battaglie che si dovranno condurre. Ma gli uni e gli altri devono capire che queste differenze potranno essere espresse solo quando la sovranità del popolo, cioè la sovranità della Francia, sarà stata ripristinata. Ciò non implica affatto che le contrapposizioni che ci sono tra loro siano superficiali o poco importanti. Non lo sono, se si considera il campo economico, per esempio la questione fiscale.

Queste contrapposizioni ci sono, devono essere rispettate e sono legittime, in quanto rappresentano posizioni sociali differenti. Ma queste contrapposizioni non devono oscurare quella, al contrario irriducibile, tra i sovranisti e i loro avversari. Questo lo aveva capito Eric Dillies, candidato perdente del Front National per la circoscrizione Nord, dove è stato recentemente eletto Adrien Quatennens, candidato di France Insoumise. Eric Dillies aveva dichiarato a un giornale locale, la “Voce del Nord”: “Voterò per lui e ho invitato i miei elettori a seguire il mio esempio (…). Ho incontrato Adrien Quatennens ed è una brava persona. Di fronte a una maggioranza strabordante lui difenderà il popolo, non sarà uno yes-man” [1]. Eric Dillies è stato ascoltato dai suoi elettori e questo può aver contribuito al successo di Quatennens. Questo è un esempio di realizzazione della distinzione tra “il politico” e “la politica”, che i sovranisti dovranno imperativamente mettere in atto in futuro, se vorranno sperare di prevalere.

[1] http://www.lavoixdunord.fr/177015/article/2017-06-12/le-front-national-appelle-voter-pour-l-insoumis-adrien-quatennens

il manifesto, 21 giugno 2017 (c.m.c.)

Se ci fosse stato ancora bisogno di dimostrare che i grandi giornali hanno smesso di raccontare quello che succede per dar spazio solo ai dettagli che servono a corroborare la loro linea politica, l’assemblea del Brancaccio rappresenterebbe la migliore prova. Qualche migliaio di persone, protagonisti molti giovani (di per sé una notizia), 40.000 che seguono in streaming, decine di interventi che raccontano l’Italia invisibile alla vecchia politica ufficiale ma che esiste ed è ricca.

La vera salvezza di una democrazia altrimenti ridotta a povera cosa: comitati di base che si occupano di ambiente, migranti, scuola, solidarietà, lavoro, guerre. Questo è stato soprattutto l’assemblea di domenica, e di questo non una parola è comparsa sui quotidiani. Chi ha accennato all’evento è stato solo per misurare la distanza fra il teatro Brancaccio e Pisapia, che – diciamo la verità – non è “odiato” perché vuole unire, ma perché nessuno sa ancora chi rappres+enta e cosa vuole. (Non basta aver fatto bene il sindaco di Milano per proporsi come leader di una nuova sinistra).

Non è una lamentela , è l’ennesima drammatica prova che in Italia chi gestisce il potere, istituzionale e mediatico, non ha capito che qualcosa di grave è accaduto in questi ultimi decenni: la perdita di credibilità dei partiti e dei tradizionali corpi intermedi, ormai largamente incapaci di rappresentanza sociale e privi del loro tradizionale ruolo di organizzatori della partecipazione, ha prodotto una disaffezione per la democrazia gravida di possibili nefaste conseguenze.

La prima delle quali è il deliberato tentativo di sostituirla con l’accentramento del potere decisionale nelle mani di una governance che si vorrebbe neutrale (questa era la sostanza della posta in gioco del referendum costituzionale, e questa la principale ragione dell’opposizione al Pd di Renzi). Ebbene l’iniziativa di Falcone e Montanari prende le mosse da questa realtà per cercare di rigenerare la politica, e dunque la democrazia, ripartendo da quanto c’è di vivo: quelle forme di “cittadinanza attiva” che hanno dato vita ai tanti comitati di lotta sul territorio e, ultimamente, a coalizioni che le hanno raccolte a livello cittadino per tentare un nuovo tipo di presenza nelle istituzioni.

Rappresentano di per sé una compiuta alternativa di governo? Certo che no, ma indicano che ci sono forze che stanno costruendo le condizioni per ricostruire una rappresentanza democratica e così ridare legittimità alle istituzioni. Il dialogo con le aggregazioni che sono nate dallo sfaldamento del Pd si fa su questo, evitando le scorciatoie del leaderismo (un “grimaldello” cui abbocca anche qualche pezzo della sinistra); così come la sacralizzazione di una società civile buona e innocente e la demonizzazione dei partiti.

Su questi punti Montanari è stato chiarissimo: senza i partiti non c’è democrazia, la nostra Costituzione resterebbe monca. E chiarissima è stata Marta Nalin, la rappresentante della coalizione civica di Padova (23 % alle ultime comunali): «Reinventare i corpi intermedi, senza demonizzare i partiti e senza santificare la società civile».

Falcone e Montanari un percorso, non ancora la fondazione di un nuovo partito: questa è stata la loro sfida coraggiosa e intelligente. Fra i partiti esistenti ha raccolto l’adesione impegnata di Sinistra Italiana, ma, nonostante le sue consuete recriminazioni e diffidenze, anche di Rifondazione. E ha ricevuto attenzione anche da Articolo 1, sia pure, come è ovvio, ancora titubante. Perché, sia pure in modi diversi, tutti si rendono conto che siamo in una fase di trasformazione epocale e lontani ancora dall’aver raggiunto la maturità politica e culturale per indicare una compiuta strategia all’altezza dei problemi posti dal nuovo mondo.

Il Brancaccio registra la consapevolezza di questa insufficienza, salva i partiti esistenti come essenziali laboratori politici per forze che hanno già riscontrato una propria omogeneità di ispirazione e che però, per ora, si propongono di lanciare la sola sfida possibile in questa fase di transizione: quella di una risposta unitaria nelle prossime scadenze di lotta e istituzionali, una «Alleanza – come è stato detto – per l’uguaglianza e la democrazia».

Grazie dunque alla buona volontà di Anna e Tomaso, come sono stati ormai amichevolmente chiamati da tutti. Hanno avuto il merito di non farsi risucchiare, come purtroppo ancora tanti, dal «non c’è niente da fare», come se stando a casa, ognuno per conto proprio, se ne potesse poi uscire con una soluzione. Già declinare il “noi” e riprendere a riflettere assieme è una conquista.

Non pochi degli abituali pessimisti pessimisti (gli anziani, i giovani per fortuna non sono reduci di tante sconfitte) hanno osservato che di belle assemblee unitarie come questa del Brancaccio ce ne sono state tante negli ultimi 20 anni. E’ vero. Ma c’è un dato fondamentale che i promotori dell’iniziativa hanno capito: che il tempo attuale è molto diverso. Più pericoloso ma anche più consapevole dell’urgenza di una svolta rispetto a quanto è stato fatto in questi anni da chi ha governato e da chi è stato all’opposizione. Questa è la ragione per cui oggi si può ricominciare a proporsi un’alternativa.

I fischi, non tantissimi, , anche se deprecabili) a Gotor sono un segno delle diffidenze che questi difficili decenni che ci stanno alle spalle hanno creato. Non ci si può illudere che settarismi e estremismi, di cui anche il Brancaccio ha dato prova, potranno esser superati facilmente. Tocca a tutti ripensare se stessi e la propria parabola di questi anni: l’unità non si fa a partire da quel che siamo, ma da quello che ci si propone di diventare, ed è su questo che ci si confronta, se necessario anche duramente.

Mai col Pd, come ha detto Montanari? Ecco, su questo, solo su questo, un dubbio, ma forse siamo in realtà d’accordo: per quanto esangue, io credo ci sia ancora un corpo storico che viene dall’ormai dimenticato Pci, non solo vecchi ma anche una memoria, certo un po’ sbiadita, che coinvolge anche più giovani. Io credo che non dobbiamo ignorarli.

Ultimo problema, come si prosegue ora? Spero che nessuno si immagini che ci sarà un fantastico centro promotore di organizzazione dalle Alpi alla Sicilia. Bisognerà cercare di crearlo, ma questa nostra nuova sinistra deve soprattutto imparare a “fare da se”: ad ogni singolo militante in ogni singolo territorio l’onere e l’onore di promuovere l'”Alleanza”, e ogni altra forma di partecipazione che consenta a chi se la sente di costruirla. Reimparando a confrontarci, passo per passo, con gli altri compagni dell’avventura collettiva che abbiamo deciso di correre. Ripartire dai territori non vuol dire tornare all’Italia dei Comuni, ma all’Europa.

Una lezione preziosa sul fenomeno sociale e umano più rilevante del nostro secolo. Gli imbrogli, le contraddizioni e le crudeltà nelle parole e negli atti delle politiche internazionale, i modi in cui l'inumanità degli eventi viene accresciuta anzchè ridotta, già che si dovrebbe fare.

Guidoviale.it blog, 19 giugno 2017 (p.d.)

Chi sono i rifugiati ambientali? Secondo Essam El-Hinawi, che ha introdotto questo termine nel 1985, si tratta di “persone che sono state costrette a lasciare il loro habitat abituale, temporaneamente o per sempre, a causa di una significativa crisi ambientale (naturale e/o provocata da attività umane, come per esempio un incidente industriale) o che sono state spostate in via definitiva da significativi sviluppi economici o dal trattamento e dallo stoccaggio di scarti tossici, mettendo così a repentaglio la loro esistenza e influenzando gravemente la qualità delle loro vite”.
Un’altra definizione da prendere in considerazione è quella dell’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni) che, si badi bene, parla di migranti ambientali e non di profughi. Vedremo che in un diverso contesto la differenza è molto importante. Per l’OIM (2007) i migranti ambientali sono “persone o gruppi di persone che, per pressanti ragioni di un cambiamento improvviso o graduale che influisce negativamente sulle loro vite o sulle loro condizioni di vita, sono costretti a lasciare le loro dimore abituali o scelgono di farlo, temporaneamente o per sempre, e che si spostano sia all’interno del loro paese che oltre confine.

Entrambe queste definizioni collocano i profughi o i migranti ambientali fuori dal diritto alla protezione internazionale garantita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, in base alla quale le persone a cui spetta il diritto di asilo sono solo quelle costrette a fuggire da un fondato timore di persecuzione (da parte di uno Stato) per cinque ragioni: razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un particolare gruppo sociale. Successivamente il diritto di asilo è stato esteso includendovi ogni tipo di violenza e, in particolare, la guerra. In ogni caso il termine profugo (refugee) si applica solo alle persone che varcano il confine del proprio Stato, mentre le persone che si spostano al suo interno per cause di forza maggiore, siano esse la guerra, la violenza o il degrado ambientale, sono chiamate (displaced persons) e non possono ovviamente essere fatte oggetto di protezione internazionale. La correttezza del termine profugo ambientale è stata comunque contestata soprattutto sulla base di due considerazioni:

Primo, il rapporto tra degrado ambientale ed esodo all’estero non è quasi mai diretto. Prima di abbandonare il proprio paese le vittime di un processo di degrado ambientale cercano per lo più altre strade: si spostano in un altro territorio, spesso dalla campagna alla città o dalle regioni periferiche alla capitale. Solo in un secondo tempo tentano la via dell’estero. Ricostruire l’eziologia di questo esodo è pertanto molto difficile. “I disastri – afferma il professor Roger Zetter dell’Università di Oxford, una delle massime autorità negli studi su questo argomento – non spostano la gente. E’ la loro vulnerabilità sociale e politica e la loro esposizione agli shock a predisporli allo spostamento. L’ambiente non ‘perseguita’ come possono farlo una dittatura o una guerra”. Secondo, il tentativo di estendere ai migranti ambientali la protezione internazionale garantita dalla Convenzione di Ginevra, in particolare in un periodo in cui la sua applicazione viene messa in forse da molti Governi, rischia di diluire e compromettere anche la protezione accordata alle persone che la Convenzione deve proteggere.

Altri studiosi ritengono invece che i profughi ambientali siano effettivamente vittime di una violenza, quella dei cambiamenti climatici provocati dall’Occidente e dei disastri prodotti dai suoi investimenti, che rendono tutti gli Stati e i popoli che sono all’origine di questi processi responsabili del destino di chi è costretto a fuggire. Per il professor Francois Gemenne dell’Università di Paris Vincennes, i profughi ambientali sono effettivamente vittime di violenza: quelli propri dell’antropocene, cioè dei cambiamenti climatici e dei disastri ambientali provocati dall’Occidente, dai suoi consumi e dai suoi investimenti, che rendono tutti gli Stati e i popoli che sono all’origine di questi flussi responsabili del destino di chi è costretto a fuggire. Per questo hanno diritto a una protezione internazionale. Quale che siano le ragioni che spingono sia i profughi di guerra che i migranti ambientali a fuggire dai loro paesi, oggi sono entrambi esposti allo stesso carico di maltrattamenti, violenza, sfruttamento, rapine e rischi mortali durante il loro viaggio verso l’Europa, dato che nessun corridoio umanitario viene predisposto per facilitare il loro arrivo.

Come si è visto, le cause che spingono i profughi e i migranti ambientali ad abbandonare il loro paese sono diverse. Più in particolare esse rientrano in una delle seguenti categorie:
- Eventi ambientali estremi come terremoti, alluvioni. Uragani, siccità, carestia, ecc.;

- Lento degrado del suolo anno dopo anno, come desertificazione, innalzamento del livello del mare, esaurimento degli acquiferi (tutti fenomeni che dipendono dai cambiamenti climatici);
- Interventi umani che cambiano lo stato di un territorio, come miniere, pozzi petroliferi o per l’estrazione del gas, appropriazione del suolo o dell’acqua, costruzione di grandi infrastrutture come dighe, oleodotti, ferrovie, strade, impianti turistici, sviluppo urbano o grandi manifestazioni come Giochi Olimpici o esposizioni internazionali.

I profughi e i migranti ambientali abbandonano i loro luoghi di origine secondo modalità differenti a seconda dei fenomeni che li hanno spinti a farlo. Quando sono in gioco eventi estremi e improvvisi, quasi tutti gli abitanti di un’area si spostano insieme verso altre aree il più possibile vicine a quelle che lasciano, per lo più all’interno dello stesso paese. Quando invece il fattore determinante è un degrado graduale dell’habitat, l’emigrazione è in genere più selettiva. Si spostano (da soli o in piccoli gruppi) solo alcuni membri di una famiglia o di una comunità, in genere giovani, spesso i più istruiti e persino i più benestanti, anche perché devono sostenere i costi del loro viaggio, tutt’altro che indifferenti, con le risorse delle loro famiglie o con quelle di parenti che si trovano già all’estero e che li attendono. Spesso, prima di imbarcarsi in un viaggio rischioso verso l’Europa, raggiungono una città o la capitale del paese, dando origine a nuovi slum. Il loro obiettivo principale è guadagnare e mandare del denaro a casa per integrare le scarse risorse delle loro famiglie. Il modello di migrazione seguito dalle persone cacciate dalla costruzione di un’infrastruttura o da qualche altro progetto di sviluppo riproduce quello delle persone colpite da un evento estremo, anche quando il loro trasferimento è organizzato da un’agenzia di governo.

Il modello della gente che fugge da una guerra è invece spesso simile a quello seguito dalle persone cacciate dal degrado del loro habitat, anche quando la loro fuga assume le caratteristiche di una valanga, come oggi in Siria. In entrambi questi schemi di esodo, la maggioranza delle persone desiderano tornare prima o poi da dove sono venuti, anche se pochi riescono poi a farlo. Improvvisi disastri ambientali o lento degrado di un habitat sono spesso causa di conflitti armati o di guerre, perché un ambiente immiserito riduce le risorse di una comunità che vive di un’economia di sussistenza, inducendo gruppi etnici o armati ad accaparrarsi quel che resta a spese di altri gruppi anche con le armi. E’ questo, per esempio, il caso del confitto che coinvolge Boko Haram nel nordest della Nigeria, o di quello che aveva devastato il Ruanda. Spesso l’economia nazionale o le politiche del Governo non sono in grado di far fronte alla rapida crescita di conglomerati urbani provocati da una migrazione interna. E’ questa una situazione che sfocia facilmente in rivolte urbane che, in un contesto vulnerabile, possono poi esplodere in una guerra aperta, soprattutto se delle potenze straniere cercano di trarre vantaggio dalla situazione per raggiungere i loro scopi.

E’ questo il caso della Siria: alle origini della guerra che la sta devastando ci sono anni di siccità che avevano strappato un milione e mezzo di contadini dalle loro terre, facendoli confluire verso città già sovraffollate. Qui, in una fase di radicalizzazione e internazionalizzazione del conflitto, l’obiettivo principale dello Stato islamico è stato quello di accaparrarsi le risorse strategiche del paese: in particolare i pozzi petrolifere e soprattutto le risorse idriche attraverso il controllo delle dighe. Tornando a una visione di insieme, le seguenti carte dell’Africa centrale e settentrionale – prese dalla relazione di Grammenos Mastrojeni al convegno Il secolo dei profughi ambientali?, Milano, 24.9.2016 – mostrano come ci sia una sovrapposizione quasi completa tra le aree segnate da degrado ambientale (1), i paesi coinvolti in una guerra o in un conflitto armato (2), le aree colpite da una carestia (3) e le zone da cui proviene la maggioranza dei flussi migratori (4); a riprova di quanto sia difficile distinguere i profughi di guerra da quelli cacciati da un disastro ambientale. E’ sbagliato considerare questi conflitti questioni puramente regionali. Il peggioramento dell’ambiente globale e l’allargamento delle aree gravemente colpite dai cambiamenti climatici provocano un conflitto crescente tra i paesi sviluppati e la moltitudine dei profughi che cercano la sopravvivenza in paesi meno coinvolti dai cambiamenti climatici. Un documento prodotto dal Pentagono già nel 2004 così prospettava il futuro che ci attende: Le prossime guerre saranno combattute per ragioni di sopravvivenza.

Nei prossimi 20 anni diventerà evidente un sensibile calo della capacità del pianeta di sostenere la popolazione esistente. Milioni di persone moriranno a causa di guerre o carestie, finché gli abitanti del pianeta non saranno stati ridotti a un numero sostenibile. I paesi più ricchi, come gli Stati uniti e l’Europa si trasformeranno in “fortezze virtuali” per impedire l’arrivo di milioni di migranti espulsi dalle loro terre sommerse o non più in grado di produrre cibo per mancanza di acqua. Ondate di profughi in arrivo via mare creeranno gravi problemi. Rivolte e conflitti finiranno per spezzare l’Africa e l’India. I Governi incapaci di garantire le risorse di base e i servizi essenziali e di difendere i propri confini verranno spazzati via dal caos e dal terrorismo. Ma quanto sono i migranti o profughi ambientali? Global Estimates calcola che dal 2008 a oggi siano stati circa 28,5 milioni ogni anno. Un’altra fonte sostiene che solo nel 2015 ci siano stati 27,8 milioni di displaced persons, 19,2 dei quali a causa di calamità naturali e 8,6 a causa di conflitti e violenza; L’OIM prevede 250 milioni di profughi ambientali al 2050. Significativo il numero dei profughi provocati da progetti di sviluppo: in Cina, tra il 1950 e il 2015 circa 80 milioni. In India 65 milioni, di cui solo il 17 per cento sono stati ricollocati in modo più o meno appropriato. Ecco alcune cifre di spostamenti provocati da progetti di sviluppo ed eventi organizzati dall’uomo.

Questi dati sono ricavati dal libro Crisi ambientale e migrazioni forzate, prodotto dall’associazione A Sud, Roma, 2016).

Dighe
- Three Gorges dam (China): 1,2 million
- Danjiangkou dam (China): 340.000
- Narmada (India): 3.200 dams, 250.000
- Upper Krishna dam (India): 176 villages, 93.200 families, 300.000
- Shuikou and Yantan dam (Cina): 180.000
- Itaparica dam (Brasile): 40.000
- Kedung Ombo dam (Indonesia): 32.000
- Nangbeto dam (Togo): 10.600
Eventi
- Olimpic games Seul (1988): 720.000
- Olimpic games Bejing (2008): more than 1 million
- Expo Shangai (2010): 400.000
- Santo Domingo: 500 year from Discovery of America (1992): 180.000

Le politiche dell'Unione europea

Quali sono le politiche dell’Unione Europea nei confronti dei profughi? Schematizzando molto per motivi di tempo si può dire quanto segue: L’Europa deve riuscire a respingere il maggior numero possibile di profughi. Lo fa distinguendo tra profughi che hanno il diritto di chiedere asilo in base alla Convenzione di Ginevra perché fuggono guerre o persecuzioni, e “migranti economici”, che non hanno quel diritto e devono essere rimpatriati. I profughi ambientali rientrano in questa seconda categoria.

La selezione tra profughi di guerra e migranti economici viene effettuata negli sulla base dei paesi di origine, classificati in sicuri e non sicuri. Paesi come Afghanistan, Mali, Niger, Nigeria, Sudan, Etiopia sono considerati sicuri e i profughi di quei paesi sono considerati migranti economici e sono costretti al rimpatrio. Per promuoverlo vengono stipulati degli accordi con i loro Stati di origine a cui sono versati miliardi di euro in cambio di questa riconsegna. Ma vengono anche dotati di armamento militare o strumenti di sorveglianza e recentemente, come viene prospettato per il Niger, si progetta il trasferimento in loco di un contingente militare per bloccare i flussi. Respingere i profughi tra le braccia degli aguzzini da cui cercano di fuggire significa esporli al reclutamento delle loro formazioni armate, estendere i fronti di guerra, rendere inabitabili per tutti i loro paesi, come lo sono oggi gran parte della Libia e i territori in mano allo Stato islamico.

Costituire l’Europa in fortezza può rendere difficile penetrarvi, ma rende anche impossibile uscirne, perché l’intero continente sarà sempre di più circondato da guerre e bande armate. Ma le politiche di respingimento accrescono anche l’ostilità dei circa quaranta milioni di abitanti di origine straniera – di cui venti di religione musulmana – già insediati in Europa come cittadini europei o immigrati regolarizzati. Ostilità che si è già rivelata origine di un terrorismo stragista autoctono e non importato, ma anche di una crescente estraneità e di un crescente rancore di intere comunità che genereranno nuovi conflitti interni su basi etniche o pseudoreligiose.

L’alternativa a queste politiche deve essere comunque elaborata dal basso, dalla cittadinanza attiva e non solo dai governi, coinvolgendo sia le comunità autoctone che quelle migranti. Non può essere definita in partenza, ma alcuni dei suoi capisaldi possono essere enunciati fin da ora. Si tratta di un programma radicale, assimilabile a un vero e proprio regime change a livello europeo, che per ora può essere valorizzato solo come strumento di mobilitazione e di condizionamento dei Governi, cercando i necessari collegamenti con tutti i movimenti attivi su questi temi. In sintesi:

I sette pilastri di una risposta ragionevole

Primo: Politiche di austerità e incapacità di accogliere sono strettamente legate. “Non c’è posto” per i profughi perché non c’è più posto per tanti cittadini europei dato che l’austerità continua a sottrarre lavoro, reddito, casa e servizi a tutta la parte inferiore della piramide sociale. Non si può gestire i flussi crescenti dei profughi senza affrontare anche la disoccupazione e la povertà tra un numero crescente di cittadini europei: con un vasto programma di spesa non per grandi opere inutili e dannose, ma per mille e mille piccoli interventi nel tessuto della società.

Secondo: Sul lungo periodo il riequilibrio demografico della popolazione europea con nuovi apporti dall’esterno, per evitare che si riduca a una comunità di vecchi, è inevitabile. Così si rischia di dover richiamare, in un domani non lontano, una parte di quelle popolazioni che oggi ci adoperiamo per respingere e far annegare. E’ appena il caso di ricordare che il milione e mezzo di profughi entrati in Europa nel 2015, quando ancora era aperta la rotta balcanica, eguaglia a mala pena i migranti economici accolti ogni anno in Europa per tutto il secondo dopoguerra, fino al 2008, pur in presenza di una crescita demografica autoctona che oggi è venuta meno.

Terzo: Per questo occorrono corridoi umanitari di ingresso e soprattutto politiche inclusive, costruite dal basso, fondate su progetti che promuovano la collaborazione tra cittadini europei, soprattutto giovani, e nuovi arrivati. I campi di questi interventi sono noti: assistenza alla persona, agricoltura innovativa di piccola taglia (al posto dello sfruttamento e della schiavizzazione dei profughi e dei migranti non regolarizzati in forme tradizionali di agricoltura estensiva), ristrutturazioni edilizie, salvaguardia degli assetti idrogeologici, fonti energetiche rinnovabili, artigianato di riparazione e manutenzione dell’usato, cultura e altro ancora. Sono per lo più attività legate alla lotta contro i cambiamenti climatici che, quando, e se, se ne presenteranno le condizioni, possono essere trasferite da migranti di ritorno anche nei paesi di origine ed essere il motore di un riequilibrio ambientale ed economico di quei territori.

Quarto: Un programma e dei progetti del genere non possono essere affidati né al mercato, dove ognuno si cerca un lavoro da sé, né solo a programmi governativi. Abbinando accoglienza e lavoro, inclusione e produzione, soltanto l’economia sociale e solidale è adatta a concepirli, promuoverli e gestirli; ovviamente con un massiccio sostegno dei poteri pubblici.

Quinto: Le persone fuggite da guerre e disastri per lo più desiderano ritornare nei loro paesi se solo il degrado sociale e ambientale venisse invertito. Sono queste le premesse per la costituzione di una grande comunità euromediterranea. Immigrati e profughi costituiscono un grande potenziale da valorizzare sia nella definizione di una prospettiva politica di pacificazione dei paesi da cui sono fuggiti e di cui conoscono bene conflitti e dinamiche; sia nella progettazione del risanamento ambientale e sociale dei loro territori di origine grazie ai contatti che mantengono con le comunità che hanno lasciato, ma anche grazie alle professionalità e soprattutto alle relazioni che hanno acquisito in Europa.

Sesto: Per questo le loro comunità possono e dovrebbero essere aiutate a organizzarsi per essere parti in causa in campagne per bloccare sia le guerre in corso nei loro paesi di origine, sia le forme più devastanti della presenza economica dell’Europa in quegli stessi territori.

Settimo: Premessa obbligata è una battaglia culturale per riavvicinare le persone tra loro; è nello scambio culturale e nella ibridazione dei rispettivi apporti, ma soprattutto nella vicinanza alle loro sofferenze, che si possono creare le basi per la riconquista di una dimensione umana alla politica. Il rigetto che molti cittadini e cittadine europee manifestano verso profughi e migranti non è dovuto solo alla paura (di una loro propensione a delinquere o del terrorismo). Questa certo non manca, ma viene spesso usata a copertura del rifiuto di mescolarsi con persone e culture di cui si teme che possano mettere in forse abitudini e tradizioni a cui ci si sente legati. E’ questo timore del diverso che va affrontato, senza demonizzare o tacciare di razzismo (ben presente invece in chi lo promuove e lo sfrutta) chi ne è solo portatore o vittima. Farsi concittadini di chi era straniero: questo deve essere il nostro impegno.

«Senza il riconoscimento del loro status di uomini e donne in fuga dalla guerra e dalla fame, queste persone vivono nel difficile, sovraffollato limbo dei centri di accoglienza o di tendopoli, senza documenti né la possibilità di lavorare».

la Nuova Venezia on line, 20 giugno 2017

Hanno sfilato in oltre trecento, martedì mattina a Venezia, per chiedere di essere trattati con dignità e protestare contro le condizioni di sovraffollamento del centro di Conetta, nel quale vivono in attesa che lo Stato riconosca o meno il loro status di rifugiati. "Non siamo merce", "Cona no buono", "Basta alla ghettizzazione" alcuni degli slogan che sono risuonati martedì mattina tra le calli e i campi.

Nella Giornata mondiale del profughi, si sono ritrovati martedì mattina nel piazzale della stazione di Santa Lucia, per poi raggiungerre campo Santo Stefano - nei pressi della Prefettura - dopo aver attraversato l'intera città. Ad organizzare la manifestazione è stato l'Unione sindacale di Base-Usb. Ad aprire il corteo, uno striscione con la foto di Sandrine, la giovane ivoriana morta a gennaio per una trombosi, al centro di Cona: un decesso che aveva acceso i riflettori sulle difficili condizioni di vita all'interno della struttura.

Dal 2001, il 20 giugno è la Giornata mondiale dei profughi, per ricordare l’anniversario della convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (Convention Relating to the Status of Refugees), firmata il 20 giugno del 1951.

I manifestanti chiedono un'accelerazione delle pratiche burocratiche per il riconoscimento dello status di rifugiati, migliori condizioni di vita all'interno dei centri di accoglienza e hanno portato in piazza il loro disagio anche con canti e balli, oltre che con slogan contro il razzismo e per chiedere "Asilo per tutti". Tra loro, diverse nazionalità e fedi religiose e un'unica richiesta: "Dignità".

"C'è chi attende anche da due anni il permesso di soggiorno", spiegano dall'Usb, "chiediamo alla Prefettura di organizzare un incontro a breve per affrontare tutte le criticità: prima di tutto, bisogna velocizzare la burocrazia".

Senza il riconoscimento del loro status di uomini e donne in fuga dalla guerra e dalla fame, queste persone vivono nel difficile, sovraffollato limbo dei centri di accoglienza o di tendopoli, senza documenti né la possibilità di lavorare.

ytali.com, 19 giugno 2017 (p.d.)

Nel dibattito sull’ le reazioni d’ira delle destre hanno almeno l’utilità di ricordarci che la legge in corso d’esame al senato – una volta approvata- costituisce un passaggio trasformativo epocale per il nostro paese.

È una riforma che fa la storia, e hanno ragione le destre, dal loro punto di vista, a volerla bloccare, e con essa la storia. Lo ius soli aggiunge un capitolo fondativo alla vicenda del nostro paese. E pone l’Italia come nazione modello e all’avanguardia in un mondo nel quale la rivoluzione demografica sta cambiando radicalmente in pochi anni assetti di secoli. È una riforma con un peso specifico pari, se non superiore a quello delle riforme che negli anni del miracolo economico furono definite “strutturali”, perché incidevano sulla struttura stessa della nazione, in primis la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Ha la stessa portata, se non maggiore, delle grandi riforme sociali degli anni Settanta, come la 180 che aboliva i manicomi, la legge che riconosceva l’obiezione di coscienza, la Baslini-Fortuna che istitutiva il divorzio, la legge a tutela del diritto di interruzione della gravidanza. Furono riforme spinte e accompagnate da una forte, appassionata e corale pressione della società e della politica. Anche per questo, furono riforme che rivoluzionarono l’Italia.

Questa volta niente di tutto questo. Lo sembra una riformetta capitata chissà come in parlamento (e dire che furono 26 i ddl all’inizio del percorso nel 2014), un affare che riguarda il governo in carica, da una parte, e Salvini, Meloni e Grillo dall’altra, con la chiesa che ancora una volta supplisce alla latitanza della politica progressista nelle grandi battaglie per i bisognosi e gli esclusi. Nei giorni scorsi, abbiamo appreso di riunioni delle sinistre, di operazioni politiche di vario tipo. Di leader vecchi e nuovi tirati per la giacca, di leader vinavil tra fazioni in conflitto. Niente, zero sulla battaglia in corso per i nuovi italiani in attesa di essere regolarizzati. Fa veramente male contemplare l’indifferenza della sinistra, in tutte le sue versioni, e anche dei social, sul tema dello ius soli.

Siamo nell’imbarazzo di scegliere quale sia la spiegazione meno imbarazzante, se cioè l’assenza sia dovuta a distrazione, provocata da un’attenzione puramente autoreferenziale alla proprie vicende interne che esclude il mondo esterno, cadesse pure un meteorite sull’Italia; o se sia a dovuta al non voler riconoscere al governo in carica e al partito che lo sostiene il merito di una riforma storica, di cui l’Italia di sinistra e progressista dovrebbe essere particolarmente fiera. Abbiamo raccolto una voce secondo la quale Matteo Renzi avrebbe adesso intenzione di mobilitare il partito in tutte le sue articolazioni locali per difendere e sostenere la legge. Finora il leader del Pd si è limitato a polemizzare con i grillini, senza però rivendicare con la dovuta forza “in positivo” l’importanza rivoluzionaria della misura. Facendo così, anche lui contribuisce a banalizzare la riforma riducendola a oggettucolo di polemica tra tanti con avversari e concorrenti .

Noi vogliamo prenderla per buona, l’indiscrezione, perché sarebbe addirittura ovvio, da parte del segretario del principale partito di governo, accompagnare il varo della nuova legge con una mobilitazione sociale, non solo per dare più forza al governo, ma per sottolineare la portata storica della riforma. Come le marce che spinsero in America le grandi conquiste dei neri, conquiste che avrebbero portato al pieno godimento, da parte degli africani-americani, di tutti i diritti. Cittadini al pari di tutti gli altri. Come i nuovi cittadini italiani* che tali diventeranno grazie allo ius soli.

* Secondo la Fondazione Leone Moressa, basandosi su dati dell’ISTAT, ci sono circa un milione e sessantacinquemila minori stranieri, in gran parte figli di genitori da tempo residenti in Italia, o che hanno già frequentato almeno un ciclo scolastico (le due categorie si possono sovrapporre). I minori nati in Italia da madri straniere dal 1999 a oggi sono 634.592.

una straripante partecipazione, molto importante per l’avvio dell’impegnativo cammino, sono emersi tuttavia forti accenti identitari, una scarsa propensione all’unità». il manifesto, 20 giugno 2017


Non è che l’inizio,l’inizio di una perigliosa navigazione, però l’affollata assembleadi domenica al teatro Brancaccio hariunito le isole dell’arcipelago della sinistra, quelle che nel referendum del4 dicembre hanno vissuto e condiviso la felice battaglia per la Costituzione.
Accanto a una straripantepartecipazione, molto importante per l’avvio dell’impegnativo cammino, sonoemersi tuttavia forti accenti identitari, una scarsa propensione all’unità. Anzi,di più: l’impressione netta è che per il momento i carri della carovana dellasinistra in costruzione siano due. Orientati verso direzioni diverse edistinte.
Forse potrebberoincontrarsi per strada, ogni tanto, per convergere su alcune battagliepolitiche e sociali comuni. Ma se si votasse domani la spinta prevalentesarebbe a favore di due liste separate, il contrario di quel che i duepromotori, Anna Falcone e Tomaso Montanari, intendono perseguire con la lorocoraggiosa iniziativa. Sarebbe un esito molto negativo.
Naturalmente non per chipensa che venti deputati e un bottino elettorale del 3% siano l’obiettivo daraggiungere, ma sicuramente per chi ancora spera in un’aggregazione larga, conl’ambizione di oltrepassare i confini fin qui tracciati dagli attori rimasti incampo negli ultimi, drammatici anni della crisi.
L’elenco dei presentiall’incontro fa capire che le «isole» sono tantissime. I promotori Montanari eFalcone di Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, SinistraItaliana, i Rifondaroli, i fuorusciti dal Pd e ora Art.1- Mdp (pochissimi), eD’Alema, Castellina, Civati, Ingroia, de Magistris (Claudio). Storie e vitepolitiche molto diverse tra di loro, ma non per questo meno animate da una vivae giusta convinzione: che c’è un mondo – piccolo, medio o grande che sia –oltre il Partito democratico.
Però quello che si notavadi più era proprio l’assenza dei tanti che in questa lunga traversata neldeserto della crisi, hanno voltato le spalle alla sinistra decidendo di nonvotare. Anche se c’erano esempi, esperienze portate al microfono da nuovegenerazioni, ragazze e ragazzi dei movimenti sociali.
E però nel rosso teatroviveva un terzo elemento, che si è mostrato ai presenti platealmente. Lacontestazione. Il rifiuto. Tangibile quando ha parlato il senatore MiguelGotor, uscito dal Pd con Bersani: le sue parole sono state coperte dalla salarumoreggiante, contenuta a fatica dagli organizzatori. L’episodio ha messo inrilievo il sentimento prevalente della riunione: mai un centrosinistra conRenzi, tenere alla larga quelli del Pd perché hanno contratto un «virus».
Ma se un ex, un fuoriuscitodal Pd viene a dire che si riconosce nei valori e nei contenuti dell’assemblea,non dovrebbe essere considerato come un nemico del popolo. Quindi un ostacoloin più. Bensì il segno tangibile di un meritato consenso.
L’immagine offerta alBrancaccio dalla platea e dagli intervenuti al dibattito, fa dunque risaltare,insieme alla vivacità e ai colori di una radicata presenza nella società,insieme all’orgoglio di una militanza tanto preziosa, i punti più deboli di una«alternativa» (non di governo) di sinistra: la mancanza di una reale unità; loscarso interesse verso chi negli ultimi anni ha deciso di non impegnarsi,perché disilluso e poco attratto dalle «minestre riscaldate»; la prevalenza diquelli convinti di avere la «giusta» linea.
E quindi comeuscirne? Non avendo la bacchetta magica possiamo solo avanzare qualchesuggerimento, sul filo dei discorsi fatti in passato sostenendo che «c’è vita asinistra».
Innanzitutto non dovrebberoprevalere atteggiamenti divisori, perché se è corretto sostenere che con Renzinon c’è futuro a sinistra, è sbagliato invece porre paletti o veti neiconfronti di chi ha rotto, con dolore e con fatica, con il proprio passato(penso a Bersani e ai bersaniani).
Poi ognuno dei «costruttoriper l’alternativa», dovrebbe essere in grado di dire, innanzitutto a se stesso,che non esistono questioni politiche irrinunciabili (tranne quelle legate aivalori e ai principi) e anche a questo serve una piattaforma programmatica.
Terzo punto, diconseguenza, bisognerebbe elaborare un programma politico economico e socialeper il Paese, sia sul breve che sul lungo periodo.
E, infine, last but notleast, identificare una leadership, un punto di riferimento,preferibilmente femminile, capace di unire, mettere insieme, essereprotagonista. La presenza dei leader è servita alla sinistra inglese eamericana per riunire le forze sparse alternative, di sinistra, democratiche,riformiste. Va preso atto che oggi la politica, in Italia e nel mondo, si fondaanche sul leaderismo. Che non significa avere una persona sola al comando, comeRenzi, Grillo, Berlusconi, Salvini.
La fantasia al potereè uno slogan che l’anno prossimo compie cinquant’anni, quanti ne sono passatidal 1968. Di quella fantasia ne abbiamo ancora un discreto bisogno, anche sulterreno della leadership che deve rappresentare un contenuto altrettantoforte e radicale.

Alla fine dell’estatequesta perigliosa navigazione dovrebbe trovare l’approdo in una Costituente,come suggeriva su queste pagine AlbertoAsor Rosa. Ovvero il risultato,l’approdo di un processo largo e democratico che discute le forme, il nome, ilsimbolo di una forza, di una Nuova Sinistra. Una prospettiva per la qualelavoreremo per aiutare un esito felice di questo processo.
Una breve cronaca dell'evento e l'intervento di Tomaso Montanari.

libertaegiustizia.it, 19 giugno 2017 (p.d.)

FALCONE E MONTANARI,
PER LA SINISTRA
UNA NUOVA SPERANZA
di Rossella Guadagnini
L’esordio è esplicito: “Vogliamo costruire una grande coalizione civica di sinistra, alternativa al Pd, capace di portare in Parlamento quella metà del Paese che non vuole andare a votare”. Comincia così l’intervento di Tomaso Montanari che apre la giornata del 18 giugno al Teatro Brancaccio di Roma. Lo storico dell’arte inaugura i lavori dell’assemblea insieme ad Anna Falcone, avvocata e vice presidente del Comitato del No al Referendum costituzionale, che li chiuderà sei ore dopo. Insieme hanno lanciato un appello, “Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” a cui oggi hanno risposto in oltre 1500. Più i 50mila contatti delle visualizzazioni in video. Sono presenti le varie anime della sinistra, dagli esponenti politici agli attivisti di movimenti sociali e agli ambientalisti; dagli studenti (il più giovane che interviene ha 18 anni) ai sindacalisti.
“L’obiettivo finale -prosegue Montanari- è una sola lista a sinistra e, da domani, può partire il passaggio costituente: non c’è un nome, non c’è un programma, non c’è una leadership. Vorremmo portare in Parlamento un’alleanza fra cittadini, associazioni e partiti. In autunno si farà una grande assemblea nazionale, per definire un nome, un simbolo, i criteri per le candidature”. Applausi, poi iniziano le considerazioni. “La stagione del centrosinistra è finita -afferma lo storico dell’arte- Non c’è alcuna esclusione, ma deve essere chiaro che chi è qui la Costituzione la vuole attuare, non rottamare. E’ il futuro che ci sta a cuore, non la resa dei conti col passato. Pisapia lo abbiamo invitato: ha risposto che ‘non ci sono le condizioni perché io venga’. Non è un buon inizio, ma ha almeno il pregio della realtà: il 1 luglio ci aspettiamo una risposta chiara su cosa pensa del Jobs Act, della buona scuola…”. Quindi conclude: “Noi puntiamo a percentuali a due cifre, una nuova lista Arcobaleno non serve a niente”.
Qualche polemica per Miguel Gotor, senatore di Articolo 1-Mdp, specie quando cita il nome di Pisapia in un richiamo all’unità politica. Apprezzato invece Pippo Civati di Possibile: “Dobbiamo essere uniti, ma se qualcuno insiste per andare con Renzi non lo trattiene nessuno”. E Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana: “L’unità è un valore, ma all’unità non si può sacrificare la credibilità” e accende la platea con la richiesta di “uscire dalle formule astratte, una discussione che non parla più alla vita delle persone”. Sul tema del lavoro, che serpeggia per tutta la giornata, il leader di SI ricorda: “E’ stato detto che in Italia si lavora poco: non è vero. Con una media di 1800 ore l’anno, lavoriamo di più. E’ venuto il momento di ridurre l’orario di lavoro”. Molto apprezzato anche Maurizio Acerbo, nuovo segretario di Rifondazione Comunista, che ha raccontato: “Al telefono un impiegato di un call center mi ha detto: lei è comunista? Ma se i comunisti non ci sono più”.
Seduti in prima fila, in platea, l’uno accanto all’altro, Massimo D’Alema e Nichi Vendola. Poi c’era Antonio Ingroia di Rivoluzione civile, che però non ha avuto la parola ed è andato via con la scorta, e decine di parlamentari delle formazioni presenti e passate della sinistra. Il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, Corradino Mineo, Vincenzo Vita, Raniero La Valle, Alfonso Gianni, Roberto Speranza, Stefano Fassina, Eleonora Forenza e l’Altra Europa con Tsipras.
E i giornalisti: Norma Rangeri, direttrice de il manifesto, Paolo Flores d’Arcais direttore di MicroMega, Massimo Bordin di Radio Radicale, Roberto Natale. Sul palco, invece, è salito Paolo Foschi del Corriere della Sera, che ha fatto il punto sullo stato dell’informazione in Italia, sui nuovi “servi di redazione”, giornalisti precari e collaboratori, sottopagati e minacciati. Si è parlato di donne con Francesca Koch della Casa internazionale delle donne e di scuola con Marina Boscaino. Di welfare e di salute. Infine i magistrati, Paolo Maddalena e Livio Pepino: il primo, già presidente della Corte Costituzionale, ha sottolineato i mali economici di un Paese come il nostro che, continuando con le attuali politiche, rischia di depauperare anche il proprio patrimonio di imprese, oltre a quello artistico e paesistico. Il secondo ha esortato la nuova forza nascente a non commettere gli errori del passato.
“La terza via ha fallito l’intento, dunque perché ripeterne gli sbagli?” ha ribadito a sua volta Anna Falcone nel prendere la parola per l’intervento conclusivo. “Si parla di una sinistra rancorosa, noi invece vogliamo una sinistra felice. I giovani sono importanti, purché siano con noi non solo per protestare, ma per costruire uno spazio nuovo. I cittadini italiani non hanno più tempo: il nostro obiettivo è operativo, individuare i punti che ci uniscono per presentarci alle prossimi elezioni e costituire una nuova speranza per chi si è disaffezionato alla politica, è deluso e si sente demotivato. Sulla scheda che è stata distribuita all’ingresso sono espresse due questioni cruciali su cui si chiede ai partecipanti dell’assemblea di esprimersi: le priorità di un programma condiviso e la vostra idea in più per un progetto coraggioso e innovativo. Dobbiamo operare un taglio netto con il passato per essere credibili, una discontinuità. Tutti devono fare un passo indietro per poterne fare uno in avanti. Dobbiamo offrire soluzioni praticabili per un reale rinnovamento, per una politica che rimetta al centro un ideale condiviso di società e faccia battere il cuore”.
“I nostri punti fermi -riassume Falcone- sono lavoro, reddito minimo di cittadinanza, ambiente e riconversione energetica, scuola, formazione e ricerca, sanità pubblica, sovranità popolare. Noi vogliamo una democrazia realmente partecipata, in cui uno vale uno; un’informazione libera e corretta. E vogliamo tempo, tempo per la nostra vita, per la cose che ci appassionano, per i nostri figli. Vogliamo equità fiscale, assistenza e inclusione sociale sui migranti. E un’economia sostenibile. La Costituzione è di tutti, va solo attuata. Il voto è utile se ti rappresenta e noi vogliamo costruire uno spazio che finalmente ci rappresenti. Siamo qui per tornare a combattere”.

UN PROGETTO DI
GIUSTIZIA E UGUAGLIANZA
di Tomaso Montanari
Pubblichiamo l’intervento di Tomaso Montanari pronunciato all’assemblea di Alleanza Popolare per la Democrazie e l’Uguaglianza, che si è svolta al Teatro Brancaccio di Roma, il 18 giugno 2017. Il presidente di Libertà e Giustizia ha scritto questo intervento e ha partecipato all’assemblea di cui è stato promotore, insieme a Anna Falcone, come privato cittadino e non nelle vesti associative.
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
L’articolo 3 della Costituzione della Repubblica. Il cuore del progetto che uscì dall’antifascismo e dalla Resistenza. Ecco il nostro punto di partenza. Ma è anche il nostro punto di arrivo: l’attuazione dell’eguaglianza sostanziale, l’inclusione, la persona umana come misura di tutte le cose. Questa la bussola, questa la mèta. Questo il metro per costruire una vera coalizione civica di sinistra.
L’inclusione è una prospettiva rivoluzionaria, in una Italia in cui imputiamo ai migranti come una colpa, addirittura come un reato, l’essere nati altrove. Abbiamo ridotto ad un problema contabile – di quote e flussi – la questione centrale di questo tempo: una migrazione di massa che ci interpella senza sosta circa la qualità della nostra democrazia, circa la realtà della nostra Costituzione, e anzi circa la nostra stessa umanità. È a Lampedusa, è nel disastro umano e democratico di Ventimiglia – non qua a Roma – che si capisce cosa vuol dire essere eguali, o non esserlo.
Partiamo dalla Costituzione perché – lo sappiamo tutti – non saremmo oggi qua senza la lunga battaglia culminata nella straordinaria vittoria del No, lo scorso 4 dicembre. Ma bisogna essere molto chiari. Ci è stato spesso rimproverato che il No non fosse un progetto politico. E oggi ci si dice che non esiste un popolo del No. È vero. Hanno ragione: non esiste un popolo del No, esiste un popolo della Costituzione. Un popolo che sente proprio, e urgente, il progetto della Costituzione. E che ora vuole attuarlo. Abbiamo capito che con quella riforma costituzionale non erano in gioco solo singoli articoli. Era revocato in dubbio un intero progetto. Erano messi in discussione i principi fondamentali della Carta. Abbiamo detto no ad una oligarchia. Abbiamo detto no alla formalizzazione della oligarchia della finanza e delle banche. E abbiamo detto no perché volevamo dire un grande Sì: un Sì alla democrazia.
E la nostra idea di democrazia è quella che Michel Foucault leggeva in Aristotele: «La risposta di Aristotele (una risposta estremamente interessante, fondamentale, che entro certi limiti rischia forse di provocare un ribaltamento di tutto il pensiero politico greco): è che è il potere dei più poveri a caratterizzare la democrazia». Ebbene, oggi è vero il contrario. Il potere è saldamente nelle mani dei più ricchi. E, come ha scritto Tony Judt, «i ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri. Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi. Chi non ha bisogno di servizi pubblici (perché può comprare trasporti, istruzione, e protezione sul mercato privato) non cerca le stesse cose di chi dipende esclusivamente dal settore pubblico. … Le società sono organismi complessi, composti da interessi in conflitto fra di loro. Dire il contrario (negare le distinzioni di classe, di ricchezza, o di influenza) è solo un modo per favorire un insieme di interessi a discapito di un altro».
Oggi tutto il sistema serve a perpetuare una radicale negazione della democrazia, bloccandoci in gated communities: gruppi divisi per censo e ben recintati, culturalmente, socialmente e materialmente. Gruppi dai quali è impossibile evadere. Oggi si parla di una Sinistra rancorosa. Se ci si riferisce ai regolamenti interni di un ceto politico autoreferenziale e rissoso, sono d’accordo. Non sono d’accordo, invece, se ci si riferisce alla sacrosanta rabbia che in molti proviamo per questo stato delle cose. Una indignazione che è la molla fondamentale per ridiscutere i fondamentali di una politica profondamente corrotta, in tutti i sensi.
Occorre rovesciare il tavolo della sinistra, per tornare a guardare le cose dal punto di vista di chi è caduto a terra: non da quello di chi è garantito. Noi oggi siamo qua per fare nostro questo punto di vista. Il punto di vista di chi è caduto, di chi non si è mai alzato. Quando è stato chiaro che ciò che pure si continua a chiamare ‘sinistra’ sarebbe stata sotto il controllo di una oligarchia senza alcuna legittimazione dal basso, e intimamente legata al sistema, abbiamo detto: ‘basta’. Se l’unica prospettiva della sinistra era tornare ad allearsi, in qualunque forma, al Pd di Matteo Renzi, ebbene noi non avremmo nemmeno votato.
Io ed Anna Falcone abbiamo deciso di invitarvi a venire qua oggi, quando l’ennesimo amico ci ha detto che alle prossime elezioni politiche non avrebbe votato. Quando noi stessi ci siamo confessati un identico stato d’animo. Milioni di persone ­– tra cui moltissimi giovani – che il 4 dicembre erano andati ai seggi per dire no a quel progetto di oligarchia, ora non vedono niente a cui dire sì con un voto. Nessun progetto di giustizia ed eguaglianza. Solo giochi di potere: autoreferenziali, incomprensibili. Senza futuro: morti. E «lasciate che i morti seppelliscano i morti», dice il Vangelo. Tutti questi giochi sono basati su un assunto, un dogma, una certezza: che ormai in Italia voti solo il 50% dei cittadini. E sulla cinica consapevolezza che quel 50% che vota è la metà più garantita, più protetta. Quella che ha qualcosa da perdere. E che, invece, nel 50% che non vota ci sono i sommersi. I disperati. I disillusi. Gli scartati, di cui nessuno si cura.
Ebbene, l’idea che ci ha condotti oggi qua è molto semplice: costruire una grande coalizione civica nazionale e di sinistra capace di portare in Parlamento questa metà di Italia. Con il suo dolore, le sue ferite, le ingiustizie patite. Ma anche con il suo progetto, la sua voglia di riscatto, la sua fame di futuro. La sua fantasia. Abbiamo difeso con i denti una Repubblica parlamentare. Abbiamo rigettato il disegno di uno strapotere del potere esecutivo. Ebbene, siamo coerenti: è il Parlamento il centro della vita democratica. Una delle ragioni della decadenza della nostra democrazia è l’umiliazione perpetua del Parlamento, cristallizzata in sistemi elettorali che l’hanno consegnato alla cieca fedeltà a pochi capi. E allora: è venuto il momento di lavorare sulla rappresentanza, non sul feticcio della governabilità. In questi giorni siamo stati rimproverati perché non pensiamo ad una sinistra di governo. Vorrei rispondere con chiarezza e con forza. In questi ultimi vent’anni la sinistra italiana ha scambiato i fini con i mezzi: il governo è diventato un fine, e ci siamo dimenticati a cosa serviva, governare. E invece il governo è un mezzo, è uno strumento, per attuare un progetto: e noi oggi vogliamo lavorare al progetto, portando in Parlamento l’energia, la sofferenza, la visione di questo Paese. È questo l’unico voto veramente utile: quello che costruisce rappresentanza democratica, portando in Parlamento l’altra metà dell’Italia. Un grande progetto di inclusione e di attuazione della sovranità.
Sia chiaro. Sappiamo bene che è nelle città che si gioca la partita più carica di futuro. La distruzione delle economie dei comuni, la verticalizzazione elettorale delle figure dei sindaci, l’alienazione dello spazio pubblico, il massacro dei tessuti urbani hanno fatto delle cento città italiane altrettante fabbriche della diseguaglianza e della infelicità. Ma dove è il pericolo, là si trova anche il rimedio: ed è da quelle stesse città che sono partite mille esperienze di rinnovamento: molte delle quali oggi sono rappresentate tra noi. Si tratta di esperienze cruciali, la vera novità della scena politica italiana. Penso – per esempio – all’esperienza delle coalizioni civiche di sinistra di Padova e di Catanzaro. Quel che conta in questi esempi è la qualità di una partecipazione intensa e lucida, che ha tenuto insieme partiti, associazioni e cittadini. Tanti cittadini: cittadini che avevano da anni rinunciato alla politica. Ecco il punto: riunire, federare, far dialogare, mettere insieme, cucire tutte queste esperienze di partecipazione civica, facendole sfociare in Parlamento, centro della comunità civile italiana.
Basta guardare a queste esperienze sparse per tutta Italia per comprendere che siamo di fronte ad una rottura con la formula del centro-sinistra. Ma non è questione di sigle, né tantomeno si tratta di escludere un’area politica. È questione di storia, di fatti. È ai governi di centro sinistra che dobbiamo lo smontaggio sistematico del progetto della Costituzione. La prima riforma costituzionale votata dalla sola maggioranza parlamentare è stata la riforma del Titolo V della Costituzione sul finire della prima legislatura dell’Ulivo. È stato un governo di centro sinistra a decidere una guerra illegittima sia per la Carta dell’Onu, sia per la nostra Costituzione. L’approccio restrittivo all’immigrazione è stato introdotto dalla legge Turco-Napolitano. L’avvio della precarizzazione dei rapporti di lavoro la dobbiamo alla riforma Treu. L’abbandono del ruolo dello Stato nell’economia (e dunque nella vita dei cittadini) è avvenuto in forza delle privatizzazioni incontrollate e delle spesso altrettanto incontrollate liberalizzazioni volute da governi di centro sinistra. La mancanza di una seria legge contro la concentrazione dei mezzi di informazione è frutto di scelte compiute durante la prima legislatura dell’Ulivo. Il colpo finale alla progressività fiscale è venuto dalla stessa area politica. La “federalizzazione” dei diritti, che oggi ne impedisce l’uguale attuazione su tutto il territorio nazionale (pensiamo alla sanità!), è iniziata con le riforme di Franco Bassanini. L’infinita stagione della distruzione della scuola e della aziendalizzazione dell’università porta anche la firma di Luigi Berlinguer. E l’espianto di fatto dell’articolo 9 della Costituzione – quello che protegge ambiente e patrimonio culturale – non lo si deve a Lunardi o a Bondi, ma ai governi Renzi e Gentiloni, con lo Sblocca Italia e la riforma Franceschini.
Infine, il completo abbandono del Mezzogiorno d’Italia a se stesso: una delle macro-diseguaglianze più atroci e insopportabili. Un abbandono sancito dalla cinica alleanza tra il Pd e il peggio dei governi regionali del Sud: basti pensare allo scandalo della Campania. Quando noi diciamo che è finita la stagione del centro sinistra, diciamo che bisogna rompere con tutto questo: bisogna rompere con una sinistra alla Tony Blair, che fa il lavoro della destra. Con un Renzi indistinguibile da Berlusconi.
Bisogna finirla con un centro sinistra che ha sostanzialmente privatizzato il rapporto tra il cittadino e i suoi diritti, sterilizzando e di fatto abrogando i principi fondamentali della Costituzione. Come ha scritto Luciano Gallino, la «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, … [è] volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra». Gallino ha spiegato che il primo articolo di questa legge – virtuale, ma ferrea – fatta propria in Italia dal centro sinistra dice che «lo Stato provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio».
Alcune personalità politiche che hanno contribuito a questo smontaggio dello Stato oggi non stanno con il Partito Democratico di Matteo Renzi (erede naturale di quelle politiche), ma dicono di voler partecipare ad un processo unitario a sinistra. «Ci siamo dimenticati dell’uguaglianza», ammette Romano Prodi nel suo ultimo libro: chi la pensa così, è benvenuto. Non c’è alcun bando, alcuna proscrizione, alcuna esclusione. Ma deve essere chiaro che la rotta è invertita. Che la rotta è diametralmente opposta a tutto questo. Non chiediamo un’abiura rispetto al passato (e come potremmo? a che titolo?): ma dev’essere chiaro che qua vogliamo costruire un futuro diverso. Lo stesso vale, sia chiaro, per le posizioni espresse al referendum del 4 dicembre. Nessuno è bandito perché ha votato sì. Ma nel momento in cui il Pd e Forza Italia annunciano che nella prossima legislatura riproveranno a manomettere la Costituzione, bisogna che ci sia un impegno esplicito e non derogabile: chi sta da questa parte la Costituzione vuole attuarla, non rottamarla.
È il futuro che ci sta a cuore: non la resa dei conti con il passato. E, allora, cosa vogliamo per il futuro? Provo a dire tre cose concrete, che indicano la direzione. Vogliamo applicare l’articolo 53 della Costituzione, quello che impone la progressività fiscale: sia per i redditi, che per i patrimoni.
Negli ultimi decenni sono state aumentate le tasse ai poveri per poterle diminuire ai ricchi. Occorre invertire la tendenza. Le tasse vanno ridotte a chi ne paga troppe: ai redditi bassi e ai redditi medi; vanno aumentate a chi ne paga poche: ai redditi alti e altissimi. Solo allora una lotta senza quartiere all’evasione fiscale potrà avere successo. Ci vuole una seria imposizione patrimoniale. E occorre ripristinare una seria imposta di successione. Perché una seria progressività fiscale realizza due obiettivi: consente di raccogliere le risorse necessarie a sostenere e incrementare lo stato sociale e opera una redistribuzione della ricchezza. Come ben sappiamo, la Costituzione è fondata sul lavoro, nel senso che indica una precisa prospettiva di trasformazione della società. È la rivoluzione promessa di cui parlava Piero Calamandrei. Ed è per questo che la disoccupazione sfigura le vite delle persone e contemporaneamente mina la tenuta della democrazia. Per questo la Costituzione non sarà attuata finché non ci sarà parità di retribuzione tra uomini e donne.
Solo ieri siamo scesi in piazza, con la CGIL, per denunciare il vero e proprio inganno costituzionale compiuto dal governo Gentiloni sui voucher: un atto grave nel merito, e ancor più grave perché aggirando e contraddicendo un referendum già convocato distrugge, dall’alto e dall’interno delle istituzioni, quel rispetto della legalità costituzionale che è il presupposto minimo per il funzionamento della nostra democrazia. La Costituzione costruisce i rapporti economici su un equilibrio tra capitale e lavoro. Ma oggi il capitale spadroneggia sul lavoro. Lo Stato per primo abusa del precariato (nella scuola, negli ospedali, nelle biblioteche, nei musei). Bisogna tornare a un rapporto più equilibrato. La prima cosa da fare è reintrodurre una disciplina il più possibile unitaria dei rapporti di lavoro: bisogna tornare a un contratto, tendenzialmente unico, a tempo indeterminato. A tutele uguali per tutti.
E poi l’ambiente: come ha detto con forza Barack Obama, siamo probabilmente l’ultima generazione che può ancora fermare l’autodistruzione del genere umano. L’Italia non l’ha capito. La media del nostro consumo di suolo è del 7% annuo, contro il 4,1 medio dell’Unione Europea. Matteo Renzi e Maurizio Lupi, con lo Sblocca Italia, hanno slegato le mani ai signori del cemento e delle grandi opere (dal Tav in Val di Susa al fantasma ricorrente del Ponte sullo Stretto), con un’idea di sviluppo distruttiva e tremendamente vecchia. Invece, l’unica vera opzione è UGO: l’Unica Grande Opera utile, e cioè il risanamento del territorio italiano. La prevenzione antisismica, la cura idrogeologica, la conservazione programmata del patrimonio culturale, che con il territorio è indissolubilmente fuso. Una vera spending review dei conti pubblici, ma orientata sui valori fondamentali della Costituzione (e dunque in primis rivolta a comprimere una sempre crescente spesa militare), è la premessa necessaria per finanziare questa immensa opera: capace di dare lavoro a centinaia di migliaia di persone, e di farci risparmiare i miliardi che buttiamo per riparare alle continue catastrofi ambientali in gran parte provocate da noi stessi.
È venuto il momento di ricostruire lo Stato, e il suo ruolo. Uno stato capace di fare l’interesse di tutti. Bisogna mettere fine “al sistematico sacrificio degli interessi pubblici più sacrosanti (la salute, la difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, l’ordinato sviluppo urbanistico, l’onesto rispetto della legge e dell’equità) agli interessi privati, di parte, di corrente, di gruppi e uomini nella lotta per il potere”: sono parole di Enrico Berlinguer, pronunciate nel 1974.
Oggi l’interesse pubblico – anzi direi la possibile felicità pubblica – parte dalla scuola, dalla conoscenza, dalla cultura. Uno dei tratti più torvi del potere berlusconiano e renziano è stato, ed è, il disprezzo per la conoscenza, e il connesso travisamento del ruolo della scuola. La scuola ha un unico compito: formare il cittadino sovrano di domani, e creare uguaglianza. Non produrre clienti, consumatori o schiavi. E ogni bambino perduto è un cittadino perduto. L’ultima rilevazione dell’Istat dà la dispersione scolastica al 14,7%, con picchi del 24% in Sicilia o in Sardegna. La media europea è dell’11%, l’obiettivo per il 2020 è del 10%. Di fatto oggi in Europa percentuali più alte ci sono solo in Spagna e Portogallo, Malta e Romania. Nell’Italia di oggi l’analfabetismo funzionale (cioè la condizione di chi avendo letto un testo, non è in grado di riferirne correttamente i contenuti) è al 47%.
La Costituzione impone alla Repubblica di promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca»: il progetto è quello di una redistribuzione di massa di una conoscenza continuamente rinnovata dalla ricerca, l’obiettivo è formare un cittadino consapevole, attivo, critico. Una società critica, una società del dissenso non è un ostacolo allo sviluppo: è una condizione essenziale per la democrazia. Ma le politiche degli ultimi decenni, con un’accelerazione finale, sono andate in direzione diametralmente opposta. La cosiddetta cultura, e con essa il patrimonio culturale e la ‘buona’ scuola: tutto è stato messo al servizio di una generale de-intellettualizzazione del Paese, al servizio di un assopimento collettivo della coscienza critica, al servizio di una nostra radicale metamorfosi da cittadini in clienti, consumatori, spettatori. Invertire la rotta è la prima condizione per cambiare lo stato delle cose: anzi per immaginare che cambiarlo sia possibile.
Sappiamo bene che perché lo Stato italiano provi ad attuare il progetto della sua Costituzione bisogna ridiscutere i fondamenti dell’Unione Europea. Non c’è dubbio che gli obiettivi dei trattati europei divergano in modo anche radicale da quelli che la nostra Costituzione ci impone. Questo oggettivo scontro finora ha piegato la Costituzione: fino al punto da farci inserire il pareggio di bilancio nell’articolo 81. Ebbene, anche su questo è ora di invertire la rotta. L’Italia è il più autorevole di un grande gruppo di paesi che può e deve chiedere una profonda revisione dei trattati. Mentre da subito bisogna attuare i punti più avanzati dei trattati attuali: per esempio l’articolo 3 del Trattato di Lisbona, che mette tra gli obiettivi dell’Unione la piena occupazione. Per far questo occorre costruire una sovranità europea, una vera politica europea. È questo l’unico europeismo che può darci ancora Europa e, domani, più Europa. Perché, sia chiaro, l’Italia non ha futuro fuori dall’Unione Europea. Ma questa Unione Europea va cambiata dalle fondamenta.
È su tutto questo, e su molto altro ancora, che dobbiamo e vogliamo discutere insieme, da oggi in poi. Ed è importante, anzi decisivo, decidere come farlo. Se le idee, i nodi, le prospettive che oggi proveremo a delineare vi sembreranno quelli essenziali, vitali, da domani può partire un vero processo costituente, dal basso. Non c’è nulla di stabilito, di deciso. Non un nome (alleanza popolare per la democrazia e l’eguaglianza è solo una didascalia esplicativa di un progetto), non un programma, non una leadership, non candidature. Ciò che vorremmo è un’alleanza capace di portare in Parlamento la parte sommersa di questo Paese. Un’alleanza tra cittadini, associazioni, comitati e partiti. Su questo punto bisogna essere chiari. Un vento impetuoso soffia oggi in Italia contro l’idea stessa di partito. Noi non siamo d’accordo. Non crediamo alla favola che oppone una società buona ai partiti cattivi. Sentiamo invece il dovere di distinguere: tra partito e partito, e nella società stessa. Sappiamo quanto i partiti in sé siano cruciali nel funzionamento del sistema disegnato dalla nostra Costituzione.
Pensiamo che il Partito Democratico di Renzi sia ormai un pezzo della destra. Perché fa politiche di destra: e di destra non sempre moderata. Lo diciamo con grande dolore, e con profondo rispetto per una gran parte dei suoi militanti. Ma dove dovremmo collocare un partito che lavora per aumentare la diseguaglianza (si pensi al Job’s act)? Lo diciamo una volta per tutte: chi partecipa a questo processo costituente di una nuova sinistra partecipa alla costruzione di una forza radicalmente alternativa al PD.
Pensiamo che il Movimento 5 Stelle sia prigioniero di un’oligarchia imperscrutabile. E vediamo che nella sua agenda – sempre più spostata a destra, con tratti preoccupanti di xenofobia e intolleranza – non c’è posto per la parola eguaglianza.
Ma vediamo anche che ci sono partiti diversi. Possibile e Sinistra Italiana hanno subito risposto a questo appello. La loro adesione non ci ha sorpreso: eravamo stati accanto in mille battaglie, non da ultimo in quella per il No. E hanno risposto anche Rifondazione Comunista, e tante esperienze politiche di partecipazione, tra cui per esempio Dema, l’Altra europa per Tsipras e molte altre.
Naturalmente se fossimo convinti che la forma partito è sufficiente, oggi non saremmo qua: non si tratta di rifare una lista arcobaleno con una spruzzata di società civile. C’è forte l’esigenza di qualcosa di nuovo, e di qualcosa di più grande. Lo dico con le parole di Gustavo Zagrebelsky: è necessaria la «più vasta possibile unione che sorga fuori dei confini dei partiti tradizionali tra persone che avvertano l’urgenza del momento e non siano mosse da interessi, né tantomeno, da risentimenti personali: come servizio nei confronti dei tanti sfiduciati nella politica e nella democrazia».
Altri partiti non hanno ancora deciso se partecipare. Articolo 1-Movimento Democratico Progressista ci ha chiesto di parlare: ascolteremo tra poco, e con grande attenzione, il senatore Miguel Gotor. Abbiamo invitato Giuliano Pisapia, e il suo Campo progressista: la risposta è stata che «non ci sono le condizioni». Non ci pare un buon inizio. Ma è una risposta che aiuta a spiegare perché oggi siamo qua: perché temiamo che nessun’altro voglia parlare alla metà del Paese che non vota.
Il nostro obiettivo finale rimane una sola lista a sinistra: e aspettiamo, il primo luglio, una risposta chiara. Una risposta sulle cose, non sulle formule. In questi giorni, le migliaia di persone che hanno aderito a questo invito hanno espresso due sentimenti contraddittori: entusiasmo e paura. L’entusiasmo di chi diceva: «Sono felice di poter tornare a votare!». La paura di chi teme che anche questo tentativo fallisca, come tutti quelli ­– generosi e coraggiosi – che l’hanno preceduto. Non li elenco: tutti li conoscete, molti di voi ne portano ancora le cicatrici. C’è chi teme che questo mondo sia troppo magmatico per unirsi anche solo in una lista. C’è chi teme che i partiti controllino questo processo, come burattinai da dietro le quinte. Entrambi questi rischi esistono. E l’esito di questo processo dipende tutto da quanti saremo, e da quanto determinati saremo.
Vogliamo costruire una vera ‘azione popolare’, come direbbe Salvatore Settis. Ma ci riusciremo solo se la partecipazione senza tessere sarà così ampia da superare di molte volte quella degli iscritti ai partiti. Una lista di cittadinanza a sinistra: questo vogliamo costruire. Qualcosa ci assicura che anche questa volta non finirà male? No, niente ce l’assicura: se non il nostro impegno. In una politica che si fonda sull’esibizione della forza, sull’arroganza e sul marketing del nulla noi diciamo al Paese: siamo poveri, siamo piccoli, siamo a mani nude, siamo pieni di limiti e avviati su un sentiero irto di ostacoli. Ma vogliamo mettere insieme tutte queste nostre debolezze: perché sappiamo che Davide può rovesciare Golia. Anche questo abbiamo imparato, il 4 dicembre. In una sinistra gremita da leaders senza popolo, noi siamo un popolo che non cerca un leader, ma partecipazione e condivisione. Sappiamo, sentiamo che ci dobbiamo provare: che non possiamo rassegnarci all’astensione. Che rimarrebbe, dopo un fallimento, l’unica possibilità. Ma non vogliamo rassegnarci ad una passione politica che escluda a priori il tema della rappresentanza parlamentare. Se vogliamo che il mondo cambi, dobbiamo portare in Parlamento chi vuole cambiare il mondo.
Da oggi dobbiamo costruire luoghi per decidere. Questo mare di idee, sofferenze, speranze, conoscenze deve sapersi organizzare. Deve saper decidere, dal basso e in modo trasparente: scegliendo un programma chiaro e forte, in dieci punti. In pratica, dobbiamo da domani avviare un percorso sul territorio, con assemblee che consentano il censimento e la raccolta delle energie disponibili e una sorta di carovana che attraversi l’Italia definendo i nodi del programma. Chi sottoscrive questo progetto dovrà riunirsi in assemblee territoriali capaci di eleggere una assemblea nazionale che definisca progetto, nome, simbolo e struttura organizzativa di questa coalizione. E un regolamento e dei criteri per far emergere le candidature. Io credo che queste ultime andranno scelte non al centro, ma collegio per collegio, circoscrizione per circoscrizione. Non con la truffa delle primarie aperte a chi passa, né con manovre occulte di centri organizzati di potere: ma in modo partecipato e veramente democratico.
Dobbiamo decidere con un processo in cui ogni cittadino conti a prescindere dalle tessere che ha o non ha in tasca. Un percorso che dovrebbe portare – lo ripeto – ad una grande lista civica nazionale, di sinistra e per l’attuazione della Costituzione. Se vogliamo che un processo come questo giunga in porto, ci sarà bisogno di una partecipazione più larga, e anche di una partecipazione nuova, di un altro modo di fare politica. Non basato sul leaderismo, ma sulla comunità. È per questo che io, personalmente, non mi candiderò a nulla. E mi auguro che saremo in tanti, ad impegnarci fino in fondo, ma senza candidarci. È infatti vitale che esista una cerchia di cittadini attivi e partecipanti, ma capaci di tenere alto il senso critico. Prendendo parte, anche appassionatamente, ma senza smorzare la critica.
Lo dico oggi per bloccare sul nascere un prevedibile tormentone. Ieri la Stampa ha, per esempio, scritto che «Tomaso Montanari e Anna Falcone … si candidano a diventare la faccia fresca e “presentabile” della sinistra radicale, quella che dalla sconfitta della Sinistra Arcobaleno del 2008, ha cambiato più volte sigle ma non le percentuali elettorali, sempre ferme al 3 per cento». Ecco, è esattamente il contrario. Non solo perché le nostre facce non rappresentano e non contano nulla. Ma perché questa ‘cosa’ nasce per ambire a percentuali a due cifre: perché ambisce a recuperare una parte dell’astensione di sinistra. E se dovesse ridursi a una lista arcobaleno con davanti le sagome della cosiddetta ‘società civile’ sarò il primo a dire che il tentativo è fallito. Riuscirà se ci sarà una travolgente azione popolare. Così travolgente da non aver bisogno né di narrazione né dell’attenzione dei giornali: perché sarà un realtà. E così plurale da avere tanti volti da rendere impossibile isolarne alcuni. Se oggi siamo qua è perché crediamo che questa azione popolare possa prendere vita: perché è l’unico mezzo per uscire da questo gorgo di infelicità. Perché – lo ha detto don Lorenzo Milani – «sortirne da soli è avarizia, sortirne tutti insieme è politica».
Un amico, militante del Movimento 5 Stelle, mi ha sorpreso in questi giorni, scrivendomi: «Una volta – molto tempo fa – chiesero a Vittorio Foa cosa desiderasse per Natale: la risposta fu” una destra democratica”. A noi grillini non farebbe schifo una sinistra fedele ai suoi ideali e alla Costituzione, tanto per cambiare…». Una sinistra fedele ai suoi ideali, e alla Costituzione: ecco, è proprio quella che da oggi vogliamo provare a costruire. Tutti insieme.

il manifesto, 18 giugno 2017 (c.m.c)

Il rapporto del Gruppo interdisciplinare sulla medicina basata sulle evidenze (Gimbe) ha riaperto una discussione ciclica sul costo della sanità italiana. La spesa sanitaria italiana è poco inferiore alla media europea, e in percentuale sul Pil dovrebbe scendere ulteriormente al 6,5% nel 2019. Tuttavia, secondo il rapporto Gimbe, ci sono ancora sprechi e inefficienze, calcolabili nel 20% circa della spesa sanitaria totale. Di norma, dibattiti di questo tenore preludono a nuovi tagli in nome della razionalizzazione.

L’esperienza, però, suggerisce che malgrado la pesante riduzione di spesa, l’efficienza del sistema sanitario non sia migliorata, anzi. L’impressione è che i tagli favoriscano la parte malata del sistema sanitario, dove proliferano sprechi, clientele e frodi, a danno del servizio sanitario pubblico. Dal canto suo, quest’ultimo invece ottiene regolarmente riconoscimenti internazionale, per la capacità di coniugare l’accesso a tutte le fasce sociali con un livello elevato di qualità delle prestazioni. L’equilibrio però è sempre più precario: la spesa sanitaria alimenta gli sprechi, ma riducendola si lede il diritto sociale alla cura. In entrambi i casi, il vero sconfitto è il paziente.

Una delle cause principali degli sprechi è il grande numero di prescrizioni sanitarie inutili. Secondo le stime, circa tredici miliardi di euro si volatilizzano in esami medici inutili, prescritti con leggerezza sia dai medici di base che nei reparti di ospedale. Proprio per restituire sobrietà al sistema sanitario, senza pregiudicarne il carattere universale e pubblico, è nata l’associazione Slow Medicine. E il riferimento a Slow Food non è affatto casuale. Oggi, infatti, troppo spesso si va dal medico a chiedere esami specialistici come a un supermercato per fare la spesa. Tra i fondatori di Slow Medicine, figurano medici, ma anche scienziati, economisti studiosi di comunicazione, tutti uniti dalla promozione di una medicina «sobria, rispettosa e giusta». Per capire come migliorare la sanità italiana, abbiamo parlato con il suo presidente Antonio Bonaldi. 65 anni, bergamasco, ha diretto diverse Aziende Sanitarie Locali del nord Italia, e conosce dunque da vicino la sanità pubblica e i suoi problemi.

La sanità italiana non è già abbastanza «slow»? Per un’ecografia bisogna aspettare molti mesi…Il nome si presta a interpretazioni maliziose, ma per noi «slow» vuol dire «agire senza fretta», o «prendersi il tempo». Invece spesso si agisce senza riflettere: per esempio si prescrivono esami medici illudendosi che «più» significhi «meglio». I greci avevano due termini per il tempo, chronos e kairos. Noi stiamo con kairos.

Si spieghi meglio.Il primo indica la sequenza degli eventi. Il secondo è il tempo giusto per fare le cose, dunque l’evento nella sua relazione con il contesto. Per noi «slow» significa questo, anche in medicina. Il dialogo e la relazione con il paziente sono un elemento fondamentale. Instaurare un rapporto con il paziente serve a spiegare che certi problemi medici non hanno una soluzione immediata. Invece ci si preferisce prescrivere esami o terapie inutili. Ma troppi esami non sono solo inutili: sono dannosi. Si arriva al paradosso di una medicina che ammala, invece di guarire.

Però il paziente è più soddisfatto…Soprattutto, si evitano contenziosi. Perché quando l’esito di una malattia è negativo, spesso nascono cause legali e si dà la colpa al dottore. Perciò, il dottore prescrive qualunque esame per dare l’impressione che si stia facendo tutto il possibile. Ci costa 10 miliardi di euro l’anno, e vale il 10% dell’intera spesa. Quasi l’80% dei medici ci casca. Ma così il paziente si illude che la medicina sia una scienza esatta e che la tecnologia fornisca la soluzione per ogni problema, perciò aspettative e contenziosi aumentano ulteriormente.

I contenziosi legali si evitano instaurando un dialogo con l’ammalato. Infatti, le cause si concentrano nella medicina ospedaliera, non riguardano il medico di base che conosce meglio i suoi pazienti.

Il decreto Lorenzin sull’«appropriatezza prescrittiva» del 2015 voleva porre un freno a questo fenomeno.
Ma non funzionava, e infatti è stato abrogato nelle sue linee sostanziali. Il decreto aumentava i controlli sulle prescrizioni dei medici, ma l’appropriatezza non si può raggiungere a colpi di decreto. Quando tra dottore e paziente si inserisce la legge, viene meno il patto che li lega. Il dottore non prescrive esami che ritiene necessari per paura di controlli, mentre il malato crede che per ragioni di risparmio economico gli sia negato un diritto fondamentale come il diritto di essere curati. Due figure che dovrebbero collaborare, il malato e il paziente, vengono messe l’una contro l’altra. Bisognerebbe invece intervenire sulle cause a monte, sugli interessi anche economici che spingono a prescrivere troppo.

Può essere più preciso?
La ricerca medica è guidata dall’industria, che persegue il profitto. Troppi dispositivi medici sono introdotti sul mercato senza che la loro efficacia sia provata da ricerche serie, ma da articoli sponsorizzati dalla stessa industria. Si pensi alla moda degli integratori vitaminici, del tutto inutili ma diffusissimi.

Anche la sanità italiana però qualche colpa ce l’ha, o no?
Certo, l’eccesso di prescrizioni e la cattiva gestione vanno di pari passo. Basta controllare i dati forniti sul web dal Programma Nazionale Esiti per capirlo.

Per esempio?
Le fratture al femore vanno operate entro 48 ore, altrimenti si rischia di morire. Però, il Piano nazionale esiti ci dice che, per mancanza di ortopedici, solo il 60% dei pazienti viene operato in tempo. D’altra parte, in Italia si fanno duecentomila interventi in artroscopia l’anno. In gran parte, per curare l’osteoartrosi. Ma come conferma anche un recente articolo del British Medical Journal, contro l’artrosi la fisioterapia ha la stessa efficacia della chirurgia, a costi molto inferiori. Se si facessero meno interventi in artroscopia, si libererebbero ortopedici per interventi necessari come quelli al femore.

Quali consigli darebbe al ministro per rendere più efficiente il sistema sanitario?Ripeterei quello che consiglia un recente rapporto dell’Ocse intitolato «Tackling wasteful spending on health». Innanzitutto, agire sulle prestazioni inutili. In secondo luogo, a parità di efficacia, privilegiare le alternative terapeutiche meno costose. Infine, per ordine di impatto economico, intervenire su frodi, inefficienze e ridondanze.

Non sarebbe utile investire maggiormente in prevenzione?
Certo, a patto che non si scambi il concetto di «prevenzione» con quello di «diagnosi precoce», perché in quel caso si aumenterebbe ancora di più il numero delle prescrizioni. Per prevenire occorre agire sul contesto o, come diciamo noi, «coltivare la salute« nei vari settori: l’ambiente, l’alimentazione, la sicurezza sul lavoro, i vaccini.

Quindi la nuova norma sui vaccini vi trova d’accordo.
No, l’approccio del ministro Lorenzin è di nuovo sbagliato. Lo abbiamo spiegato in un documento stilato insieme alle trenta associazioni della rete «Sostenibilità e salute». Intendiamoci, i vaccini sono importantissimi. Ho diretto per molti anni un’azienda sanitaria locale e io stesso ne ho prescritti a migliaia. Ma i vaccini non si impongono per legge, con pene severe per chi non la rispetta. Dodici, per giunta. I vaccini vanno prescritti caso per caso, secondo le esigenze di ciascuno, perché si tratta comunque di farmaci. Con i genitori bisogna parlare e convincerli. Non ha senso dividerli tra chi è «per» e chi è «contro» i vaccini. Sarebbe come dividersi tra chi è «contro» o «a favore» dei farmaci. E quando si creano fazioni contrapposte, le persone smettono di ragionare. E a quel punto diventa difficilissimo convincerle.

la Nuova Venezia Corriere del Veneto, 17-18 Giugno 2017 (m.p.r.)

la Nuova Venezia, 17 giugno 2017

TANGENTI PER EVADERE LE TASSE
BLITZ CON 16 ARRESTI A VENEZIA
di Carlo Mion

Venezia. Soldi, regali, cene e assunzioni di parenti per ammorbidire le verifiche fiscali e ridurre il debito erariale una volta contestata l'evasione. Sedici le persone arrestate tra imprenditori, commercialisti, ufficiali della Guardia di Finanza e dirigenti dell'Agenzia delle Entrate. Questa nuova operazione, durata due anni, è stata portata a termine dagli investigatori del Nucleo di polizia tributaria di Venezia, coordinati dal sostituto procuratore Stefano Ancilotto.

L'indagine è nata durante l'inchiesta sul Mose. Alcune intercettazioni facevano capire agli inquirenti dell'esistenza di un sistema illegale che consentiva agli imprenditori di ridurre i "danni" da verifica fiscale. Oltre ai sedici ordine di custodia cautelare il Gip Alberto Scaramuzza ha concesso anche il sequestro di beni per 440 mila euro. Gli arrestati. Quattordici le ordinanze di custodia cautelare in carcere e due agli arresti domiciliari nei confronti di sei imprenditori (due domiciliari), tre funzionari dell'Agenzia delle Entrate, due commercialisti, due ufficiali della Guardia di Finanza, un appartenente alla Commissione tributaria regionale del Veneto e due dirigenti di un'azienda assicuratrice.

Tra gli arrestati ci sono Elio Borrelli, ai vertici dell'Agenzia delle Entrate prima a Venezia ora in Abruzzo, Christian David e Massimo Esposito, rispettivamente responsabile delle verifiche il primo e ex direttore dell'Agenzia di Venezia il secondo. I due tenenti colonnelli della Guardia di Finanza Vincenzo Corrado (residente a Treviso) e Massimo Nicchinello, il giudice della Commissione tributaria regionale Cesare Rindone, i commercialisti di Treviso Tiziana Mesirca e Augusto Sartore di Chioggia, gli imprenditori appartenenti al gruppo edile Bison di Jesolo, alla Cattolica Assicurazioni di Verona, alla società Baggio di Marghera, attiva nella logistica, oltre all'industriale dell'acciaio Pietro Schneider di Udine. Gli episodi contestati. Nel primo di questi, sono coinvolti l'intera famiglia Bison (padre, madre e due figli), imprenditori jesolani, Elio Borrelli, direttore dell'Agenzia delle Entrate di Venezia fino al 31 dicembre 2015 e il suo successore Massimo Esposito. Inizialmente è Borelli ad essere pagato da Bison, poi Esposito.

Secondo il gip ci sono le prove relative al pagamento di tangenti per 140. 000 euro, in varie tranches tra il settembre 2016 e il maggio 2017. In cambio, i due funzionari si sono adoperati per ridurre dell'80% le imposte dovute da tre società del gruppo Bison, con sede nel Veneziano, sottoposte a verifica fiscale da altri funzionari della stessa Agenzia, passando così da 41 milioni di euro dell'originario debito erariale a poco più di 8 milioni effettivamente pagati. Inoltre, l'imprenditore ha ottenuto che venisse ritardata la notifica di avvisi di accertamento per debiti tributari, in modo da chiedere rimborsi Iva per 600mila euro che non poteva ottenere. Sempre i due funzionari dell'Agenzia, si sono accordati con il commercialista di Chioggia Augusto Sartore, per ricevere 50.000 euro in cambio della promessa di "accomodare" un accertamento tributario alla Somit Srl. Si ritorna al concreto con passaggio di tangenti nell'episodio che coinvolge il colonnello della Guardia di finanza Vincenzo Corrado, residente a Treviso, il funzionario dell'Agenzia delle Entrate Christian David, la commercialista di Treviso Tiziana Mesirca e gli imprenditori veneziani Paolo Maria Baggio e Paolo Tagnin.

Naturalmente vengono pagate tangenti per ridimensionare l'esito di verifiche eseguite a una società immobiliare e a un'azienda di trasporti. I due imprenditori hanno pagato Corrado e David, con l'intermediazione della commercialista. L'ufficiale, in cambio di denaro e benui di lusso per un valore di 40.000 euro, ha fatto da "ponte" con il funzionario dell'Agenzia delle Entrate e con il proprio interessamento ha reso possibile la riduzione del 70% debito complessivo delle aziende verificate, passato da 13 a 3, 7 milioni di euro. Sempre Corrado coinvolge il collega Massimo Nicchiniello, in servizio a Udine, per "addolcire" l'esito delle verifiche alla Burimec di Butrio (Udine) dell'imprenditore Pietro Schneider, in cambio i due ufficiali hanno avuto soldi e cene in ristoranti di lusso, oltre all'assunzione alla Burimec del figlio di Corrado.

Nella vicenda che riguarda la Cattolica Assicurazione di Verona compare il nome di Cesare Rindone, giudice della commissione tributaria del Veneto che diventa mediatore tra Albino Zatachetto, (oggi segretario del presidente di Cattolica), e Giuseppe Milone, responsabile amministrativo, i quali intrattenevano rapporti con Borrelli, David e Corrado in cambio di orologi Rolex, l'assunzione di amici e compagne: i funzionari hanno fatto sì che il debito erariale scendesse da 8, 8 a 2, 6 milioni di euro. Promozione chiesta mai ottenuta. Elio Borrelli nel 2015 punta a diventare direttore dell'Agenzia delle Entrate di Verona. Una promozione che cerca coinvolgendo Arcangelo Boldrini, commercialista di Mestre, amico di Enrico Letta e in quota Pd in vari enti. Boldrini ha il compito di interessare il sottosegretario Pierpaolo Baretta. Se la promozione arriva "per te la vita cambia", dice Borrelli all'amico commercialista. Promozione mai arrivata.

Corriere del Veneto, 18 giugno 2017
MAZZETTE, LA CRICCA A CACCIA DI CLIENTI

«HA LA FACCIA DA PRIMA REPUBBLICA»
di Alberto Zorzi

Per il gip il «gruppo decisionale» faceva proposte seriali e non aspettava richieste dagli imprenditoriVenezia «Mi sembra di aver capito che Canevel è un tipo da Prima Repubblica e quindi si può...». Vincenzo Corrado, il finanziere del comando provinciale di Venezia che è stato uno dei 16 arrestati venerdì mattina nell’inchiesta sulle tangenti all’Agenzia delle Entrate, dice e non dice, ma il senso è chiaro. La «cricca», che secondo l’accusa del Nucleo di polizia tributaria di Venezia e del pm Stefano Ancilotto aveva al centro Corrado e soprattutto un gruppetto di funzionari dell’Agenzia – dall’ex dirigente del Centro operativo di Venezia Elio Borrelli all’ex direttore della sede lagunare Massimo Esposito, al capo settore Controlli e riscossione Christian David –, cercava sempre nuovi clienti per il suo schema ormai rodato: soldi o regali in cambio di uno sconto sostanziale sulle sanzioni fiscali, tanto che proprio a casa di Corrado i suoi colleghi delle fiamme gialle hanno trovato i due Rolex che gli sarebbero stati regalati dagli imprenditori. E dall’ordinanza di custodia del gip Alberto Scaramuzza spuntano altre aziende finite nella rete o su cui i funzionari infedeli avrebbero messo gli occhi, anche se poi - come ammette lo stesso giudice - non si è arrivati a contestazioni penali, come nei 5 casi delle imputazioni.

Corrado, parlando con la commercialista trevigiana Tiziana Mesirca, anche lei arrestata, cerca di capire se si può agganciare la Canevel Spumanti di Valdobbiadene, con quella battuta sul suo ad Carlo Caramel e gli anni d’oro delle tangenti. «Però Titty, dimmelo in tempo se è il caso che io posso eheh...», dice. «I pubblici ufficiali non aspettano che sia il privato a sollecitare il loro intervento, ma spesso si propongono per accomodare le verifiche o gli accertamenti», annota il gip. Una mediazione fondamentale è quella dei professionisti: non solo la Mesirca, ma anche il commercialista chioggiotto Augusto Sartore. Questi è stato a sua volta arrestato per corruzione per aver promesso a Borrelli ed Esposito 50 mila euro per la società Somit.

Ma dalle indagini emerge che Sartore avrebbe sondato i funzionari anche per altre società da lui seguite: una è la Nuova Coedmar, impresa coinvolta nell’inchiesta del Mose (il suo legale rappresentante Gianfranco Boscolo Contadin ha patteggiato 2 anni per corruzione e false fatture), che aveva avuto un verbale di accertamento da 5-6 milioni; poi ci sono la polesana Cultiva società agricola e la chioggiotta Acquachiara. «Sebbene non abbiano portato per il momento all’elevazione di ulteriori contestazioni di fatti di corruzione, dimostrano in modo chiaro l’esistenza di un sistema di trattazione certamente illecito delle società assistite da Sartore». C’è anche un risvolto quasi ridicolo, laddove Borrelli si informa con Esposito su una certa Comet Corsetterie, sempre di Chioggia, ritenendola azienda legata a Sartore: i due fanno i conti, ipotizzano una tangente di 80 mila euro, ma quando vanno dal commercialista lui replica che si sono sbagliati. «No Comet, Somit - dice Sartore al telefono - io ho la Somit».

«Questi soggetti hanno creato un vero e proprio sistema criminoso - commenta il gip, spiegando perché ha deciso di applicare il carcere per 14 di loro - Trattasi di soggetti organizzati in un vero e proprio gruppo decisionale». Quasi un’associazione per delinquere, anche se per ora non è stata contestata. Secondo il giudice c’è però una «pericolosità sociale eccezionalmente elevata e un intenso pericolo di reiterazione», perché funzionari dell’Agenzia, professionisti, finanzieri e imprenditori si sono resi protagonisti di uno «svilimento della pubblica funzione che era non casuale ed estemporaneo, ma sistematico e ramificato». Al punto che chi invece era onesto, come la funzionaria Anna Boneschi, venne spostata a Treviso, con l’esultanza della «cricca». Oltre al pericolo di reiterazione, il giudice cita anche l’inquinamento probatorio e alcune conversazioni in cui alcuni di loro si raccomandavano di «pulire» la contabilità o di stare attenti alla posta elettronica e alle telefonate. Esposito, poi, chiamava Borrelli con una Sim intestata alla suocera defunta.

Domani ci saranno i primi interrogatori, tutti per rogatoria, visto che gli arrestati sono stati sparpagliati in vari carceri. Per ora i difensori sono molto abbottonati, in attesa di leggere tutte le carte dell’inchiesta coordinata dal pm Ancilotto. A parlare è invece Claudia Nicchiniello, parente di quel Massimo arrestato per aver partecipato a un episodio di un’impresa friulana, quando era alla Finanza di Udine (ora è comandante a Siracusa). «La sua unica colpa è aver partecipato a una cena e non aver allontanato in modo netto alcuni colleghi - afferma - A casa sua non sono stati trovati soldi o regalie, ma solo due bambine, certo non assunte da nessun imprenditore. Il suo arresto ha avuto lo sciagurato effetto di sminuire la figura di un ufficiale che ha concluso importanti arresti in Sicilia».

Un buon esempio di ipocrisia applicata a un tema che tocca l'essenza profonda della democrazia: quello dell'uguaglianza tra gli esseri umani.

Corriere della sera, 18 giugno 2017, con postilla

Pur essendo favorevole in linea generale alla nuova legge sulla nazionalità in discussione al Senato, trovo che le si possono egualmente muovere alcune ragionevoli critiche. Principalmente due. La prima è che nella concessione automatica della cittadinanza prevista per coloro che sono nati in Italia da genitori di cui almeno uno con regolare permesso di soggiorno da cinque anni come minimo, non si prevede però alcun accertamento preliminare circa la conoscenza né della nostra lingua, né dei costumi, né delle regole, né di niente della società italiana.

Si tratta appunto di una concessione automatica che tra l’altro, per il solo fatto di essere tale, viene privata di quel forte rilievo simbolico che invece sarebbe stato giusto conferirle. Bisogna sempre ricordare, infatti, che tutto quanto viene dato senza alcun corrispettivo perde per ciò stesso d’importanza. Il secondo punto su cui mi sentirei di dissentire riguarda il divieto di doppia cittadinanza, che secondo me sarebbe stato opportuno introdurre in ogni caso e che invece è assente. Mi rendo conto delle possibili obiezioni, probabilmente anche di carattere costituzionale. Ma anche in questo caso era comunque necessario, ne sono convinto, pensare a un modo per conferire alla concessione della cittadinanza un carattere di cesura simbolicamente irrevocabile, di frattura definitiva, rispetto a qualsiasi altra appartenenza.

Bisognava far capire insomma che la concessione della cittadinanza esclude in modo assoluto qualunque eventuale doppia fedeltà. Così come sarebbe stato forse utile considerare l’ipotesi di accrescere i motivi per i quali la cittadinanza, una volta acquistata, la si può anche perdere. Proprio in relazione a questi ragionevoli dubbi mi pare per nulla campata in aria la preoccupazione che l’immissione di nuovi cittadini provenienti da contesti radicalmente differenti dal nostro possa finire per alterare l’identità storico-culturale del Paese.

La Repubblica, con la sua Costituzione, le sue regole le sue leggi, non è nata dal nulla, infatti, e non vive nel nulla, non discende dall’empireo giuridico-formale dei «Diritti». Per mille tramiti essa scaturisce e si alimenta ogni giorno, invece, di una storia - che è anche una complessa storia di valori - la quale, si provi qualcuno a dimostrare il contrario, si colloca nel tempo e nello spazio e ha un nome e un cognome. Si chiama Italia. Sollevare questioni del genere è semplice buon senso, non ha niente di xenofobico né di razzista. E un Paese serio che si trova davanti un problema esplosivo come quello di una immigrazione apparentemente incontrollabile ne dovrebbe discutere in modo serio.

Ma da noi questo si rivela sempre difficile. Presentando la proposta di legge di cui stiamo dicendo la Sinistra, ad esempio, ha avuto l’indubbio merito di porre il problema in modo concreto, indicando comunque una soluzione concreta, ed è del merito di questa che si dovrebbe parlare. Che bisogno c’è allora che essa ricorra al sentimentalismo un po’ dolciastro di pubblicare teneri visini di bimbi extra-comunitari dagli occhi spalancati, che - si dice per convincerci - «sono nati qui»?

È un sentimentalismo, va subito aggiunto, che però ha un’attenuante. Una sola ma politicamente decisiva, dal momento che anche in politica la moneta cattiva è destinata a scacciare sempre quella buona. E cioè il fatto di rispondere al «cattivismo» programmatico e apocalittico di buona parte della Destra. Alla quale, come se non bastasse si è aggiunto ora anche il Movimento Cinque Stelle (dopo essersi astenuto alla Camera). Gli argomenti messi in campo dagli oppositori si sono distinti infatti per la loro sgangherata demagogia. Abbiamo sentito e letto di tutto tranne che qualche proposta in positivo. Dal «non si fa nulla per gli italiani» (che non si capisce che cosa c’entri, essendo che gli italiani una cittadinanza fino a prova contraria già ce l’hanno) alla denuncia per gli affari sporchi connessi al traffico e all’accoglienza degli immigrati (tutto vero, ma realmente si pensa che eliminando il «business» dell’immigrazione magari si elimina anche l’immigrazione?), all’allarme diffuso per le terribili malattie che gli immigrati importerebbero (anche qui: ma che cosa c’entra con la nazionalità?).

Su tutto aleggia poi una sorta di furibonda paranoia identitaria nonché l’idea, non saprei dire se più ingenua o più bizzarra, che senza la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana di una legge sulla concessione della nazionalità, milioni di africani se ne starebbero tranquilli a morire di fame rinunciando a intraprendere il loro disperato viaggio verso l’Europa. Invece, se una cosa è certa è l’impeto ininterrotto e di difficilissimo contenimento del fenomeno migratorio da cui siamo investiti. Si tratta di una vera e propria emergenza nazionale che richiederebbe alle forze politiche d’opposizione, ma in modo tutto particolare a quelle della Destra, il perseguimento degli interessi vitali del Paese, non la ricerca a tutti i costi di un qualche possibile guadagno elettorale.

La cultura della nazione, il patriottismo, quello vero, significa tra le altre cose anche questo: capire quando bisogna rinunciare agli interessi della propria parte in nome di un interesse generale. Oggi tale interesse si sostanzia in due obiettivi assolutamente prioritari. All’interno, evitare da un lato l’apartheid di fatto e dall’altro il comunitarismo multiculturale, assicurando nel modo più rigoroso la legalità e la sicurezza; all’esterno utilizzare tutte le risorse politiche e diplomatiche (il ricatto compreso, caro presidente Gentiloni, il ricatto compreso!) per obbligare i nostri soci europei a non lasciarci da soli nelle peste alle prese con un problema che è anche il loro problema. Chiunque dia comunque una mano per raggiungere uno di questi obiettivi, a qualunque partito appartenga, è un benemerito del nostro Paese.

postilla

Sono nato da genitori entrambi italiani, da molte generazioni
(sebbene i miei avi paterni fossero di ispanica prosapia). Lo giuro, e posso documentarlo in modo ineccepibile. Quindi ho il pieno diritto di essere considerato italiano per jus sanguinis: ho certamente tutti quei requisiti che, secondo Ernesto Galli della Loggia, devono essere posseduti da chi voglia avere il brand di cittadino italiano Secondo lo jus sanguinis. E infatti, la legge mi ha riconosciuto tale.

Eppure devo ammettere, che, quando nacqui cittadino italiano non possedevo affatto quei requisiti, conoscenze, consapevolezze, innate capacità che, secondo Galli Della Loggia, sono indispensabili per essere catalogati con l’etichetta di “cittadino italiano”. Quando uscii, suppongo strillando, dal corpo di mia mamma non possedevo «alcuna conoscenza né della nostra lingua, né dei costumi, né delle regole, né di niente della società italiana». Purtroppo mia mamma non c’è più né alcuna delle altre persone che assistettero a quel lontano episodio, quindi il lettore dovrà accontentarsi della mia parola. Quindi secondo il conto elzevirista del Corriere non ho il diritto di essere “cittadino italiano.

Su molti altri punti e affermazioni di Galli Della Loggia sono in profondo disaccordo, ma soprattutto con i molti veli d’ipocrisia che avvolgono il suo nazionalismo spinto fino ai margini della xenofobia e del razzismo. Ma ciò che particolarmente mi ha irritato è il non assumere esplicitamente, da parte dell'autore, una posizione netta e dire, semplicemente e schiettamente: sono contrario allo jus soli e non mi distinguo affatto né dai Di Maio né dai Salvini. (e.s.)
». l

a Repubblica Robinson, 18 giugno 2017 (c.m.c.)

Yona Friedman vive a Parigi, in una casa popolata di pupazzi, maschere, uccelli in legno che pendono dal soffitto, e dove per terra giacciono le sue installazioni confezionate con filo di ferro e legno flessibile.

Nel suo libro L’ordine complicato (Quodlibet, 2008), sembra esserci la chiave per capire come questo architetto novantaquattrenne, ebreo ungherese, professore in diverse università americane, concepisca il mestiere.

Un mestiere fatto di poche realizzazioni, molta creatività e molte riflessioni che hanno fatto di lui un guru. E molte sono le sue espressioni diventate celebri, come la “mobile architecture” o quelle consegnate ad altri suoi libri, da L’architettura della sopravvivenza (Bollati Boringhieri) all’ultimo, Tetti, che uscirà in Italia a luglio (Quodlibet). In Tetti, Friedman si misura con il tema a lui più caro: i modi per coinvolgere nell’architettura le persone che devono usufruirne e per rendere concreta la partecipazione, parola altrimenti avvolta in una cortina retorica.

A lui è dedicata una mostra che si apre il 23 giugno al Maxxi di Roma intitolata “Mobile Architecture, People’s Architecture” (a cura di Gong Yan ed Elena Motisi). Nella mostra, che si inaugura insieme a quelle sull’Italia di Zaha Hadid e sul Teatrino scientifico di Franco Purini e Laura Thermes, si ragionerà di questioni centrali nel lavoro di Friedman, il quale espone un adattamento della sua Ville Spatiale, una costruzione aerea che risale alla fine degli anni Cinquanta composta di abitazioni, strade e altre strutture progettate, appunto, da chi dovrebbe viverle. La mostra comprende bozzetti, installazioni, video e anche una sezione dedicata alla sua casa di Boulevard Garibaldi.

Friedman che cos’è l’architettura della sopravvivenza?
«L’idea nasce dalla ricerca del modo migliore per ridurre l’impatto negativo sull’ambiente di una costruzione, salvaguardando però un buon livello tecnologico e mantenendo i costi il più possibile bassi. È indispensabile riscoprire pratiche compatibili con un modo di vita più sobrio».

Lei ha raccontato di aver maturato quest’idea dalle esperienze della guerra, quando era partigiano in Ungheria, e del dopoguerra.
«Ho visto cosa sono la miseria, le coabitazioni forzate e l’importanza dell’aiuto reciproco. Ma la povertà è la condizione in cui vive oggi la maggior parte della popolazione mondiale. Negli anni Settanta ho visitato l’India e sono rimasto impressionato dalle tecniche di sopravvivenza negli insediamenti poveri della città. Ho imparato che il problema dell’abitare non è relativo alla casa ma ai mezzi di sussistenza. Il cibo e il tetto, insomma. Ho provato a sviluppare questa idea nei libri destinati ai giovani architetti occidentali».

Ma l’architettura contemporanea è orientata a incontrare i bisogni delle persone o solo di pochi privilegiati?
«La nostra attenzione deve essere destinata ai bisogni delle persone, in particolare di quelle più povere. Questo, almeno, è evidente per me, ed è evidente che questi bisogni non sono diversi in Europa come in Asia o in Africa».

Lei insiste per la partecipazione delle persone ai processi di costruzione. Ma concretamente questo come può avvenire?
«Il coinvolgimento degli abitanti sta in primo luogo nel lasciar decidere a loro quali problemi sono importanti. In secondo luogo, devono poter decidere quali tecniche sperimentare. E quindi occorre lasciarli fare e consigliare quando necessario. Ma la maggior parte degli architetti è gelosa del proprio ruolo e vuole mantenere lontano dalla progettazione chi abiterà l’edificio».

Come ha concepito l’idea della “Ville Spatiale”?
«Ho immaginato una situazione in cui le persone potessero progettare liberamente edifici a più piani senza imporre vincoli. Un modo per vedere come un’architettura pensata da chi deve abitarla alimenti l’improvvisazione».

E dove nasce la “mobile architecture”?
«È la base teorica della “Ville Spatiale” perché le scelte degli abitanti possono cambiare periodicamente. E dunque l’architettura deve essere flessibile, assecondando i bisogni che via via mutano».

Molti suoi colleghi vanno alla ricerca di effetti spettacolari. Cosa pensa delle “archistar”?
«Il termine “archistar” è esattamente l’opposto del mio mondo concettuale. Potremmo non escludere che gli architetti diventino artisti, ma l’architetto-artista è un equivoco. Io non penso che l’architettura come arte voglia dire realizzare su larga scala mediocri sculture. Gli architetti-artisti dovrebbero essere “scultori del vuoto”, perché l’architettura differisce dalla scultura in quanto la osservi dall’interno. E gli interni sono più importanti dell’esterno, perché è l’interno ad essere usato. L’esterno è solo il segno dello status sociale del proprietario».

Una giornata di lotta per una democrazia che stanno cancellando. «Che razza di democrazia è quella italiana dove si cancellano i referendum, dove 12 milioni di concittadini non ricevono le cure del servizio sanitario, dove il lavoro ha perso diritti, dignità e speranza».

il manifesto, 18 giugno 2017

Il governo da una parte, la Cgil dall’altra. Su sponde opposte rispetto alla polemica di questo momento sullo sciopero nei trasporti, ma a ben vedere su distanze siderali in merito all’idea stessa di contratto sociale tra rappresentanti e rappresentati.

Al presidente del consiglio convinto che «l’intero paesaggio sociale italiano non è sulle posizioni della Cgil», e pronto a decidere nuove regole sullo sciopero, è arrivata a stretto giro, la replica secca di Camusso nel discorso di chiusura di una bella manifestazione accolta dall’afa bollente: «Non è accettabile che si usi uno sciopero discutibile per attaccare il diritto di sciopero, e al governo dico fate la legge sulla rappresentanza».

Del resto il conflitto tra il sindacato di Camusso e il governo Renzi-Gentiloni si è materializzato con la piazza rossa di San Giovanni a Roma. Contro i voucher, la Cgil ha risposto al governo con una grande mobilitazione, decine di migliaia di lavoratori chiamati a proseguire la battaglia iniziata con le oltre tre milioni di firme raccolte per un referendum che Renzi ha avuto paura di affrontare temendo una seconda sonora batosta dopo quella del 4 dicembre. Ma non tutto è permesso per evitare il diritto al voto dei cittadini, il governo Renzi-Gentiloni invece ha annullato il referendum e resuscitato i voucher. La Cgil non si dà per vinta e né la Corte costituzionale, né il capo dello stato possono eludere il dovere di esprimersi e di vigilare sul grande scippo.

A vederli sfilare con i loro berretti rossi tutto sembravano ieri i lavoratori venuti a Roma da tutta Italia, tranne che pensionati in gita. Per le strade della Capitale c’erano tutte le generazioni, comprese quelle che dopo 41 anni di lavoro, grazie alla legge Fornero, non possono andare in pensione. Compresi i pensionati che oggi rappresentano il sostegno, l’unico, dei giovani disoccupati, comprese le centinaia di aziende in crisi perché governate da una classe imprenditoriale capace solo di tagliare il salario.

Nei paesi autoritari non c’è libertà del lavoro e non c’è nemmeno democrazia, ha detto dal palco la segretaria della Cgil. E, con lei, ci chiediamo che razza di democrazia è quella italiana dove si cancellano i referendum, dove 12 milioni di concittadini non ricevono le cure del servizio sanitario, dove il lavoro ha perso diritti, dignità e speranza.

il Fatto Quotidiano on line,18 giugno 2017 (m.p.r.)

Ci sono volute le immagini raccapriccianti di un inferno di cemento, lamiere, plastica e vetro per aprire nel Regno Unito il dibattito sui privilegi delle classi più abbienti. E già, perché a Londra, dopo la tragedia della Grenfell Tower non si è parlato delle diseguaglianze di reddito – tema ormai trito e ritrito – ma dell’ingiustizia perpetrata da un sistema dove i poveri sono diventati invisibili e, tutt’al più, diventano numeri quando si trasformano nei corpi carbonizzati delle vittime di un incendio. Per chi voglia capire cosa sta succedendo nel Regno Unito, perché si è votato Brexit e perché il filo-marxista Corbyn ha portato a casa il 40 per cento dei voti, suggerisco di usare come parole guida ingiustizia e Grenfell Tower. Quest’ultima faceva parte della vecchia Londra, una città popolata dagli sfollati alla fine della seconda guerra mondiale, una città che sembrava una fetta di formaggio gruviere, tanti erano le voragini scavate dalle bombe dei blitz.

Al loro posto, dal 1945 fino agli anni Settanta, vennero eretti complessi di case popolari, palazzi e grattacieli che come ha commentato una residente della Grenfell Tower oggi assomigliano più a piccionaie che a edifici residenziali. Una o massimo due camere da letto incastrate una sopra all’altra con al centro due ascensori puzzolenti e una singola scala. Protezione contro gli incendi inesistente. Ma tutto ciò avveniva nel dopoguerra.

Nelle case popolari andarono a vivere i poveri, i senza tetto e chiunque non avesse la possibilità di vivere in una casa propria. Ma la vita non era così difficile. I governi laburisti e conservatori costruirono intorno a questi centri scuole, ospedali, uffici postali e così via, pietre miliari della vita societaria. E a tutti questi servizi accedevano anche coloro che avevano una casa loro. La parola d’ordine era dunque integrazione.

Fu la signora Thatcher a offrire ai residenti delle case popolari la possibilità di acquistare a prezzi stracciati l’appartamento in cui vivevano. Potevano diventare landlord e farci quel che volevano. Successe negli anni Ottanta e da allora molti di questi palazzi e grattacieli sono stati privatizzati e ristrutturati, gli appartamenti venduti o affittati. Ed è esattamente quello che è successo alla Grenfell Tower. Ciò spiega perché tra i dispersi c’erano stranieri, come il profugo siriano o la coppia di giovani italiani, andati a Londra a cercare fortuna.

Nonostante la privatizzazione degli appartamenti, le parti comuni sono rimaste pubbliche e le ristrutturazioni sono state a carico delle circoscrizioni. Quasi tutte non hanno trasformate torri come la Grenfell in edifici sicuri, a norma con le moderne regole anti-incendio. Sono costruzioni vecchie, che spesso non possono essere migliorate, bisognerebbe buttarle giù e ricostruirne di nuove, ma lo Stato non ha i soldi per farlo. Allora cosa si fa? Ci si concentra sull’aspetto esteriore, pretendendo che si siano fatte grandi cose.

Molti hanno detto che si è voluto abbellire la Grenfell Tower perché si affacciava sui giardini delle case dei multimiliardari di Holland Park e Kensington, ma la verità è ancora più cruda. Nell’era dell’austerità ingannare gli inquilini e l’elettorato è diventata un’arte. E come i padroni di case coprono le crepe con una mano di vernice così lo Stato britannico ha coperto con pannelli di alluminio i pericoli della Grenfell Tower.

Ma torniamo all’ingiustizia, tema che in questa Londra di metà giugno, stranamente calda e luminosa, rischia di diventare una buccia di banana per la signora May. A est della città, intorno alla City e anche a sud, dall’altra parte del fiume, negli ultimi dieci anni sono sorti grattacieli spettacolari dove si sono ubicate le imprese più ricche del mondo. Alcuni, specialmente quelli lungo il fiume, a Dockland, ospitano appartamenti con viste mozzafiato sulla città, simili a quelle dei piani più alti di Grenfell Tower. Lì però i sistemi di sicurezza sono tutti a norma, ci sono gli allarmi anti-incendio che aprono automaticamente rubinetti incastrati nei soffitti da dove scorrono fiumi e fiumi di acqua; ci sono scale anti incendio accessibilissime e tanti ascensori.

Queste costruzioni appartengono al settore privato mentre le case popolari rientrano in quello pubblico. Due pesi e due misure, insomma, chi ha costruito i nuovi edifici ha dovuto farlo seguendo regole che non sono state rispettate nella ristrutturazione di quelli vecchi.

Come i grattacieli anche la popolazione di Londra si bipartisce intorno alla dicotomia pubblico/privato dove vige il principio di due pesi e due misure. I ricchi non usano l’Nhs, il sistema sanitario pubblico, non fanno la fila per mesi per fare la chemio, non mandano i figli alla scuola pubblica, a stento usano la metro… I ricchi abitano la Londra del settore privato dove tutto funziona, tutto è sicuro e tutto è costosissimo.

Per chi, come i residenti della Grenfell Tower, sopravvive all’interno del settore pubblico Londra è invece un inferno: sovrappopolata, con lavori sottopagati, sporca e con sempre meno servizi pubblici. Con la scusa dell’austerità i governi conservatori, e ahimè, prima di loro anche quelli laburisti, hanno tagliato i fondi al settore pubblico e fatto orecchie da mercante alle proteste dei residenti delle case popolari. Grenfell Tower è solo la punta dell’iceberg, ce ne sono centinaia di migliaia di edifici simili in tutto il Regno Unito pronti a prendere fuoco per un corto circuito.

La rabbia dei sopravvissuti è diretta verso tutti questi governi che si sono avvicendati dagli anni Ottanta in poi, una classe politica che ha tagliato le tasse ai ricchi, ha aperto le frontiere agli stranieri e quando l’economia ha iniziato a perdere quota ha introdotto politiche di austerità sulla pelle dei meno abbienti e dei poveri. Comportamenti ingiusti che hanno prodotto la tragedia di Grenfell.

La voce dei sopravvissuti è la voce di una nazione che vuole cambiare, che è stufa delle promesse da marinaio dei governi e che vede di buon occhio le proposte ‘socialiste’ di Corbyn, perchè da sempre abita nel settore pubblico, l’unico che conosce, ma anche non ne può più di un’Europa guidata da politici che di loro non ne vogliono sapere.

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