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«C'è vita a sinistra. Breve storia del «centro» e dei suoi compromessi più o meno storici (dal Pci al Pd). Ma oggi, nel tempo di papa Francesco, esiste ancora nel paese una questione cattolica?»

il manifesto, 12 luglio 2017 con postilla

Vale a dire la questione se la nuova creatura deve subito incorporare nel proprio orizzonte l’alleanza strategica con un centro moderato, o se debba invece puntare a definire, sulla base di un programma concordato, una nuova e unitaria identità. Vorrei limitarmi a guardare alla questione con un supplemento di considerazioni storiche.

La prima è che in Italia ha a lungo dominato la vita pubblica una “questione cattolica”. Il cosiddetto centro si identificava con la Dc, con le organizzazioni sindacali e associative collaterali della Chiesa. Con la natura di questo “centro” il Pci, ha avuto un rapporto duplice: di antagonismo aperto nel Paese, di sintesi e mediazione riformatrice nel Parlamento. E’ stato questo il reale e vincente “compromesso storico” che ha consentito l’accesso dei bisogni popolari nello stato italiano e la modernizzazione del Paese. E per quasi tre decenni: dalla fine degli anni ’40 alla seconda metà degli anni ’70.

E’ stato invece il compromesso storico di Berlinguer ad avviare la confusione delle fisionomie delle forze politiche, a disinnescare il motore del conflitto, a togliere al sistema politico italiano quel dinamismo eterodosso, diverso dagli altri paesi sviluppati, che lo aveva contrassegnato fin lì.

Mi spingo a dire che il dilagare della corruzione nella vita italiana, denunciata da Berlinguer nei primi anni ’80, e periodicamente ripresa dalla stampa, trova un nuovo alimento proprio negli effetti che la politica del compromesso storico ha a livello locale. Il controllo antagonistico del Pci nella vita amministrativa viene meno e dilagano gli accordi…

La questione del centro ritorna imperiosamente con Veltroni e il Pd. Il disegno è ambizioso. Si vuole non solo immettere le forze politiche cattoliche entro un organismo unitario, ma modellare l’intero sistema politico sullo schema bipartitico delle vecchie democrazie anglo-americane. Quest’ultimo pare un progetto modernizzatore, ed è invece un tentativo velleitario e tardivo.

Il sistema bipartitico è ormai in una crisi conclamata tanto nel Regno Unito che negli Usa. I due partiti, progressisti e conservatori, conducono entrambi, nella sostanza, la stessa politica e generano una diserzione sempre più larga degli elettori dal voto. L’intrusione dell’economia e della finanza nella vita dei partiti tende a unificarne le strategie e la condotta, anche perché le campagne elettorali sono sempre più costose.

Nel paese di Gianbattista Vico l’idea di fondare una nuova storia delle culture politiche italiane, eliminandone alcune, e puntando su una loro semplificazione per via giuridico- istituzionale non ha avuto successo. Le culture politiche sono pezzi di storia della società a cui non si possono imporre schemi organizzativi pensati a tavolino. Ma il Pd non ha successo perché ripete ed anzi fa radicalmente suo lo schema del compromesso storico: immette nel suo seno l’avversario-potenziale-alleato. E questo ha due conseguenze su cui devono riflettere coloro che oggi pensano al centro sinistra avant tout. La prima è che diventa sempre più difficile e macchinosa la mediazione politica interna. Qualcuno si ricorda che cosa accadeva nel Pd quando si trattava di decidere sui diritti civili, sui temi di bioetica? Scontri e conflitti interni si tacevano solo grazie alla paralisi generale.

La seconda ragione è strategicamente più rilevante. La fusione tra forze diverse ha annacquato le reciproche alterità e ha tolto alla sinistra la forza motrice del conflitto. Se fai sbiadire la tua storia, mortifichi i principi su cui si sono formati generazioni di militanti ed elettori, non hai poi la forza di imporre all’avversario-alleato il compromesso più avanzato. Il riformismo che ne deriva è inefficace, mortifica gli interessi popolari, crea delusione, allontana militanti e cittadini dalla vita politica.

Ma oggi, come si configura il centro? Esiste ancora una questione cattolica? Anche con il pontificato di papa Francesco? Inutile chiederlo ai partiti che passano da una competizione elettorale all’altra e vivono alla giornata.

In realtà sappiamo pochissimo, oggi, sia sul piano sociale che culturale, di questo fantomatico centro.

Forse sappiamo qualcosa di più su che cosa dovrebbe essere la sinistra. E non ci sono dubbi che ad essa il suo popolo disperso e deluso, ma anche un paio di generazioni di giovani disperati, chiedono una politica radicale, di redistribuzione della ricchezza del Paese, di investimenti pubblici, di difesa del territorio, di potenziamento degli istituti della formazione e della ricerca.

Ce lo confermano i relativi successi di Sanders e Corbyn, della sinistra in Portogallo, quello di Podemos e perfino quello di Syriza nella sinistra greca, schiacciato poi dall’arroganza delle potenze finanziarie europee.

Una politica radicale (spunti concreti in questo senso si sono sentiti anche in bocca a Bersani a Santi Apostoli) è quella che può ambire a un successo elettorale a due cifre. Privilegiare le alleanze rispetto al programma probabilmente non scongiurerà la sconfitta elettorale – assillo troppo esclusivo di tanti attori in campo – e farà fallire il progetto di più lunga lena dell’unità della sinistra.

postilla
Bevilacqua confonde due diversi momenti della proposta politica di Enrico Berlinguer. Quello del "compromesso storico", che tutto era ma non un accordo con la Dc (sebbene avesse bisogno di una "spalla "all'interno della Dc, come negli altri settori del variegato mondo cattolico). E il successivo momento della "solidarietà nazionale", nel cui prodursi si aggirarono molti avversari del compromesso storico, interni al Pci, ma anche espressione di interessi stranieri.

«Sorriso e determinazione. E una voglia generosa di fare qualcosa per la sua città».

la Nuova Venezia, 13 luglio 2017 (m.p.r.)

Venezia. Sorriso e determinazione. E una voglia generosa di fare qualcosa per la sua città. Marina Zanazzo, 61 anni, ha smesso di soffrire. Se n'è andata lunedì sera, nel suo letto d'ospedale al Civile, dopo aver a lungo combattuto con la malattia. Era una persona di grande cultura, proprietaria-factotum di una piccola casa editrice, Il Fontego, che ha lasciato il segno nella società veneziana. Pubblicazioni coraggiose, quasi sempre controcorrente.

Libri di settore, urbanistica e storia di Venezia. E una piccola collana fortunata di libretti dal titolo Occhi aperti su Venezia. Blu per la storia e le curiosità veneziane, rossi quelli di inchiesta e denuncia. Tre euro in libreria, autori che scrivevano gratis, guadagni zero. Un'offerta culturale più che una operazione editoriale. «Si autofinanziano», diceva con orgoglio. Lei che cercava gli autori e li convinceva a dare il loro contributo. Correggeva le bozze, stampava e portava i pacchi nelle librerie. Il suo studio editoriale un magazzino nella storica Corte del Fontego, dietro campo Santa Margherita. Marina era una bella persona e una donna di carattere.
L'ho conosciuta quando, prima che le cronache se ne interessassero dal punto di vista giudiziario, mi aveva convinto a scrivere uno dei libretti sul Mose e le grandi opere. Scandali annunciati che poi scoppieranno dopo qualche mese. «Nel nome di Venezia, chiamiamolo così», aveva detto, migliorando in un attimo un titolo poco felice. «Perché nel nome di Venezia oggi tutto è permesso».
Amarezza e lucidità nel denunciare i tanti problemi di una città che sta perdendo l'anima. Testi raffinati, curati da Edoardo Salzano e Lidia Fersuoch, contributi di professori e intellettuali. Una collana che si era interrotta un paio d'anni fa quando i libretti non sono stati più autosufficienti e la crisi ha costretto a chiudere. I funerali si terranno domani alle 15 alla chiesa dei Carmini.

«». altreconomia online, 12 luglio 2017 (c.m.c.)

Se il “codice di condotta” per le Ong messo a punto dal ministro dell’Interno Marco Minniti venisse messo in pratica «molte migliaia di migranti e rifugiati potrebbero rischiare di morire in mare». La denuncia arriva da Human Rights Watch e da Amnesty International che, con un comunicato stampa congiunto, evidenziano come «qualsiasi codice di condotta, se necessario, dovrebbe avere come obiettivo quello di rendere più efficace il salvataggio in mare», evidenziano le due associazioni. Puntualizzando che l’adozione del codice di condotta «non dovrebbe essere collegato allo sbarco».

Il testo del codice di condotta è stato diffuso ieri da Statewatch, ong indipendente che dal 1991 è attiva nel monitoraggio civico delle attività degli Stati e dell’Unione europea sui temi della giustizia sociale. Il documento, così come è formulato ora, prevede il divieto assoluto per le navi delle Ong di entrare in acque libiche, il divieto di inviare segnali luminosi, l’obbligo «di non effettuare trasbordi su altre navi, italiane o appartenenti a dispositivi internazionali», l’obbligo di non ostacolare le operazioni di search and rescue della Guardia costiera libica.

Infine l’obbligo pubblicare le fonti di finanziamento e quello di ricevere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria (per svolgere le indagini preliminari per individuare scafisti e trafficanti) oltre che di trasmettere alla polizia tutte le informazioni potenzialmente interessanti per l’attività investigativa. «Il rifiuto di sottoscrivere il codice di condotta o il fatto di non adempiere a questi obblighi – conclude il documento – potrebbe portare al rifiuto da parte dello Stato Italiano di autorizzare l’accesso ai porti».

«Le Ong sono impegnate nel Mediterraneo a salvare vite umane perché l’Europa non lo sta facendo» commenta Judith Sunderland, direttore associato di Human Rights Watch per l’Europa e l’Asia Centrale. «Di fronte alle dimensioni di questa tragedia e agli orribili abusi cui sono vittime i migranti in Libia, l’Unione europea dovrebbe lavorare con l’Italia per mettere in atto una robusta attività di search and rescue nelle acque di fronte alla Libia, non limitarla».

Alle voci critiche nei confronti del codice di condotta si è aggiunta oggi quella dell’europarlamentare Barbara Spinelli durante un dibattito sulle attività di ricerca e soccorso promosso dalla Commissione Libe (Libertà civili, giustizia e affari interni) del Parlamento europeo. Spinelli ha ricordato che «un codice di condotta volontario era già stato sottoscritto dalla maggior parte delle Ong impegnate nel Mediterraneo» e ha stigmatizzato come «alcuni paragrafi siano stati concepiti solo per rendere impossibile il salvataggio di vite umane». Per Spinelli i punti critici sono soprattutto il divieto assoluto di operare in acque libiche «dove Triton non è presente e dove muoiono tantissime persone anche perché la Libia non è in grado di gestire un’area SAR» e la presenza della polizia giudiziaria a bordo delle imbarcazioni, in violazione del principio di neutralità delle Ong stesse.

Intanto, dal parlamento inglese arriva una secca bocciatura all’operazione navale “Sophia” promossa dall’Unione Europea per contrastare il traffico di esseri umani: non solo non avrebbe raggiunto i risultati prefissi, ma la strategia di affondare le imbarcazioni dei trafficanti avrebbe spinto questi ultimi a usare sempre più spesso gommoni insicuri e sovraccarichi. Provocando così “un aumento delle morti in mare”, come si legge nell’inchiesta pubblicata dalla Camera dei Lord.

Al 19 giugno 2017 erano stati arrestati 110 smugglers (che però “appartengono agli ultimi anelli della catena criminale”) e distrutte 452 imbarcazioni. La prassi di distruggere le imbarcazioni avrebbe spinto i trafficanti a cambiare strategia: abbandonare i pescherecci, capaci di trasportare 500-600 persone e di raggiungere il centro del Mediterraneo, per sostituirli con gommoni gonfiabili, più economici e facili da reperire. «Questo cambiamento nel modello di business ha reso l’attraversamento molto più pericoloso per i migranti -si legge nel documento inglese-. Il fatto che oggi il 70% delle imbarcazioni in partenza dalla Libia siano gommoni ha provocato un aumento delle morti in mare».

La conclusione a cui giunge la Camera dei Lord è secca: l’Operazione Sophia ha alterato il modello di business, ma non ha in alcun modo ridotto i flussi dei migranti. «Una missione navale non è lo strumento corretto per contrastare l’immigrazione nel Mediterraneo Centrale – concludono i Lord-. Vi è poca giustificazione per il dispiegamento di asset navali e arei di alta fascia per i compiti svolti dall’operazione Sophia nella fase 2A (il contrasto in mare degli scafisti)». Il contrasto ai trafficanti non può essere fatto in alto mare, mentre «ci sono imbarcazioni molto più piccole e più adatte a svolgere l’essenziale compito di ricerca e soccorso, che può essere messo in atto al posto della missione (Sophia, ndr) per continuare a salvare vite».

Controllo, omologazione, appiattimento, rimbecillimento: se gli organi di informazione perdono la loro indipendenza.

il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2017 (p.d.)


Di seguito l’intervento tenuto ieri (martedì 11 luglio) da Barbara Spinelli nel corso di un’audizione su “Libertà e pluralismo dei media nell’UE”organizzata a Bruxelles dalla Commissione Libertà civili,giustizia e affari interni del Parlamento europeo (LIBE) e presieduta dal presidente LIBE Claude Moraes. Barbara Spinelli (GUE/NGL) ha preso la parola in qualità di Relatore del nuovo Rapporto del Parlamento europeo “Libertà e pluralismo dei media nell’UE”.

Il mio sguardo sulla libertà dei media è influenzato dal fatto che per decenni ho fatto il mestiere di giornalista, ed è uno sguardo allarmato. Le condizioni della effettiva libertà dei media, della loro indipendenza da agende politiche e da gruppi di interesse economici, della loro pluralità, si sono aggravate dall’ultima volta che questo Parlamento se ne è occupato, nella relazione presentata da questa Commissione nel 2013. Mi limiterò a elencare alcuni punti che confermano tale aggravamento, e che dovremo a mio parere approfondire.
Primo punto: le fake news. In un numero crescente di democrazie il termine domina il dibattito sui media e sul funzionamento della democrazia stessa. Alcuni parlano di "post-verità", e nel mirino ci sono soprattutto internet e i social network. C'è una buona dose di malafede in queste denunce. Dovremo analizzare il nascere delle fake news andando alla loro radice, e soprattutto evitare di stigmatizzare il cyberspazio creato da internet. Le fake news non sono solo figlie di internet. Sono una malattia che ha prima messo radici nei media tradizionali, nei giornali mainstream. Sono un residuo della guerra fredda. Quasi tutte le guerre antiterrorismo del dopoguerra fredda sono state precedute e accompagnate da fake news: basti ricordare le menzogne sulle armi di distruzione di massa in Iraq. Internet configura uno spazio nuovo e interattivo di informazione, che tende a condannare all'irrilevanza i giornali mainstream. Di qui un'offensiva contro questo strumento, e una serie di misure politiche che tendono a controllarlo, sorvegliarlo, imbrigliarlo. L'offensiva ricorda per molti versi la reazione all'invenzione della stampa, poi della radio e della televisione: le vecchie forze si coalizzano contro il nuovo, per meglio occultare le proprie degenerazioni. Per molti versi è un'offensiva che ricorda la polemica ottocentesca contro il suffragio universale: "troppa democrazia uccide la democrazia". Quand'anche alcuni di questi timori fossero giustificati, le loro fondamenta si sgretolano se poste da pulpiti sospetti o screditati.
Secondo punto: l'estendersi di alcuni fenomeni certo non nuovi, ma in continua espansione: le interferenze della politica e di grandi concentrazioni di interesse nell'informazione, e non solo la violenza subita da giornalisti e informatori ma anche le forme sempre più diffuse e insidiose di autocensura. Lo studio pubblicato nell'aprile scorso dal Consiglio d'Europa – "Giornalisti sotto pressione" – mette in risalto l'estendersi di questa patologia, che nel precedente Rapporto del Parlamento è nominata ma non approfondita. Non viene spiegata la paura che genera l'auto censura (il moltiplicarsi delle interferenze politiche, editoriali, di lobby pubblicitarie) e soprattutto non viene sottolineato il legame causale che lega paure e autocensure alle condizioni sempre più miserevoli in cui informatori e giornalisti si trovano a operare. La vera radice delle fake news come dell'autocensura viene occultata ed è a mio parere il group think, che possiamo descrivere come espressione di un conformismo razionalizzato imposto da gruppi di potere politici o economici. Per usare le parole impiegate da William H. Whyte, che coniò questo termine negli anni '50, si tratta di una "filosofia dichiarata e articolata che considera i valori del gruppo" – quale esso sia – " non solo comodi ma addirittura virtuosi e giusti". La parola è meno moderna di fake news ma più precisa.
Terzo punto, importante nelle democrazie dell'Unione: il cosiddetto dilemma di Copenaghen. I Paesi candidati all'adesione devono rispettare le norme sulla libertà di espressione della Carta europea dei diritti fondamentali e della Convenzione dei diritti dell'uomo (rispettivamente gli articoli 11 e 10), ma una volta entrati tutto sembra loro permesso: negli ultimi decenni ne hanno dato prova le interferenze politiche nella libertà di stampa in Italia, Spagna, Polonia, Ungheria. Da questo punto di vista la Carta mi pare più avanzata della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, visto che esige non solo la libertà ma anche la pluralità dei media.
Quarto punto:i whistleblower. Nel rapporto del 2013 si fa riferimento in due articoli alla necessità di proteggerli legalmente, ma manca una normativa europea e nel frattempo si moltiplicano leggi di sorveglianza sempre più punitive nei loro confronti, specie su internet. Dovremo insistere su questo punto con maggiore forza.
Quinto punto: ne ho già parlato e concerne gli effetti della crisi economica non solo sulla libertà, ma sulla sussistenza stessa dei media. Se aumentano l'autocensura e l'interferenza arbitraria nel lavoro di giornalisti e informatori, è anche perché il loro mestiere è tutelato per una cerchia sempre più ristretta, e più anziana, di operatori. Cresce il numero di precari che danno notizie per remunerazioni ridicole, se non gratis. I diritti connessi al Media Freedom devono essere legati organicamente alla Carta sociale europea e al diritto a un lavoro dignitoso.
Infine, sesto punto:i rimedi. Abbiamo gli articoli della Carta, della Convenzione. Per farli rispettare, è urgente la creazione di un meccanismo che controlli la democrazia nei media. Mi riferisco alla relazione In't Veld, che il Parlamento ha approvato nell'ottobre scorso. Il meccanismo che essa propone è uno strumento che coinvolge gli esperti della società civile, dunque tutti voi presenti in questa audizione. Se approvato da Commissione e Consiglio, sarà in grado di intervenire prima di mettere in campo le misure castigatrici previste dai Trattati come l'articolo 7, chiamato "opzione nucleare" perché applicabile solo all'unanimità e quindi praticamente inutilizzabile.

«Il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’isolamento di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, "soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche"».

la Repubblica, 12 luglio 2017 (c.m.c.)

Il fascismo non è mai morto. Rappresenta il bisogno di certezza comunitaria e gerarchica in una società individualistica. E nonostante i simboli sbandierati, non è un ritorno al passato. L’ombra del fascismo si stende sulla democrazia, anche quando, come la nostra, è nata nella lotta antifascista. La ragione della sua persistenza non può essere spiegata, semplicisticamente, con il fatto che non ci sia sufficiente radicamento della cultura dei diritti. Si potrebbe anzi sostenere il contrario. Ovvero, che sia proprio la vittoria della cultura dei diritti liberali (e senza una base sociale che renda la solitudine dell’individuo sopportabile) ad alimentare il bisogno di identità comunitaria.

Un bisogno che il fascismo in parte rappresenta, tenendo conto che non è solo violenza e intolleranza per i diversi (anche se questi sono gli aspetti più visibili e preoccupanti). Il fascismo rinasce un po’ dovunque nell’occidente democratico e capitalistico - le fiammate xenofobiche e nazionalistiche che gli opinionisti si ostinano a chiamare blandamente “populismo” sono il segno di una risposta, sbagliata, alla recrudescenza di un sistema sociale che funziona bene fino a quando e se esistono reti associative, capaci di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza. Senza diritti sociali i diritti individuali possono fare il gioco contrario.

La democrazia nata nel dopoguerra su una speranza di inclusione dei lavoratori si è arenata di fronte al totem di un ordine economico che non ne vuol più sapere di riconoscere limiti solidaristici alla propria vocazione accumulatrice. È nata sulle macerie di una guerra mondiale, ma non probabilmente sulle macerie dell’etica comunitaria che aveva cementato la società nazionale nel ventennio.

Nei paesi di cultura cattolica, dove il liberalismo dei diritti si è fatto strada con grande difficoltà, la dimensione corporativa è ben più di un residuo fascista. È il cardine di una struttura sociale retta su luoghi comunitari, come la famiglia o la nazione. Questi luoghi sono diventati gusci vuoti con la penetrazione dei diritti individuali. I quali sono certo un progresso morale, ma non sufficienti, da soli, a garantire una vita esistenziale appagata. I diritti sono costosi, non solo per lo Stato che deve farli rispettare, ma anche per le persone che li godono.

Un diritto è un abito di solitudine - definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società. Senza relazioni sociali strutturate - senza quei corpi intermedi associativi, dalla famiglia al mutualismo locale - essi sono sinonimo di una libertà troppo faticosa. Ecco perché i nostri padri fondatori più lungiumiranti, i liberalsocialisti, erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale, dalla dimensione etica che riannoda i fili spezzati dai diritti individuali.

Non si vuole con questo giustificare la rinascita del fascismo e dell’esaltazione dei simboli del passato. Quel che si vuol dire, invece e al contrario, è che quel che sembra un ritorno nostalgico al passato è un fenomeno nuovo e tutto presente, dettato da problemi che la società democratica incontra nel presente. Sono tre i luoghi dove questi problemi si toccano con mano e che sarebbe miope non vedere.

Il primo corrisponde al declino di legittimità della politica, che ha smarrito il senso etico e di servizio per diventare, a destra come a sinistra, un gioco di personalismi, con i partiti che fanno cartello per blindare leadership e lanciare candidati, cercando consenso retorico ma senza voler includere i cittadini nella vita politica - la rappresentanza assomiglia sempre di più a un notabilato.

Il secondo luogo corrisponde al declino delle associazioni di sostegno che hanno accompagnato la modernità capitalistica opponendo alla mercificazione del lavoro salariato e alla disoccupazione (che è povertà) reti di solidarietà e di sostengo, ma anche alleanze di lotta, di contrattazione, e di progetto per una società più giusta. Il terzo luogo è il mondo largo e complesso abitato dalla solitudine esistenziale connessa alla scomposizione della vita comunitaria.

In altre parole, il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’atomizzazione individua-listica, dalla solitudine delle persone, dall’isolamento perfino cercato di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche». Con la conseguenza, questa palpabile a seguire i social e a sentire molti nostri politici, di veder cadere ogni rapporto con la storia, con la memoria, con l’eredità proveniente dalle generazioni che ci hanno preceduto, come se il futuro potesse avere gambe sue proprie.

Il rischio, è stato detto molto spesso, è quello di vivere in un eterno presente, che può anche significare riciclare simboli del passato fuori del loro contesto di significato. Ora, se le cose stanno così, se la nostra società ha questa forma orizzontale innervata nei diritti, pensare di rimediare ritornando ai modelli gerachici fascisti e al vecchio ordine di sicurezza del comando patriarcale non solo si rivela anacronistico, ma in aggiunta oscura tutti questi nuovi rischi; non ci fa vedere quel che dovremmo riuscire a vedere bene per comprenderlo e correggerlo: l’erosione dell’eguaglianza economica, dell’integrazione sociale e del potere politico dei cittadini democratici.

il manifesto, 11 luglio 2017, con postilla

Dopo il Forum C’è vita a sinistra (il manifesto, 8 luglio), ho letto, con attenzione, i commenti scambiati attraverso le reti dei social. Commenti disincantati, qualche volta delusi, del tipo: «Con questi personaggi e con questo dibattito, non andiamo da nessuna parte».

Ho da obiettare. Quando studiavo Storia dell’Architettura mi insegnarono che le cattedrali si costruiscono con le pietre che si trovano nei dintorni. Ma per non far torto ai partecipanti del Forum – nei riguardi dei quali questa affermazione potrebbe essere scambiata quasi per un insulto -, voglio dire che i D’Alema, gli Asor Rosa e gli altri partecipanti (forse non tutti) si sono dimostrati disponibili (e a titolo gratuito, politicamente parlando) a mettersi in gioco, a spendersi per la comune causa di un vero cambiamento a sinistra, come si conviene agli intellettuali e ai politici coraggiosi e degni di questo nome. In questo confronto i veri “vecchi” mi sono sembrati coloro che si ostinano a non scorgere i tanti segnali (contraddittori? Forse) di vita a sinistra, come fossero in attesa di un messia che sveglia d’incanto le masse addormentate.

In una intervista (Alias dell’8 luglio), a proposito del film di Rossellini Germania anno zero, Luc Dardenne afferma che: «Bisogna cominciare con il cominciamento. E il cominciamento di tutto è il coraggio». Coraggio che «è il momento della decisione radicale, un momento di rottura e non la risultante di un processo di continuità, il momento di una decisione che non è frutto di un sapere e che, al contrario, si produce grazie e malgrado la conoscenza del pericolo che si corre, della paura che si avverte».

Ora io credo che siamo in questa fase particolare che richiederebbe l’abbandono (non la rimozione, certo) delle incertezze, delle tante illusioni tradite, degli errori compiuti in questo tentativo, per scoprirci ottimisti e fiduciosi e coraggiosi “malgrado”, malgrado tutto. E questo anche perché ogni cinismo politico, sia pur improntato al realismo di ciò che è successo, in questa fase, è una manifestazione di rinuncia. Siamo ormai diventati troppo abili nel criticare Renzi e le sue derive di destra, così come siamo diventati professionisti della disfatta che quasi evochiamo, prima ancora di metterci in marcia, prima ancora che questa si realizzi (o si autorealizzi).

Quando ascolto D’Alema parlare della nuova sinistra, o Asor Rosa, o Montanari, non mi chiedo cosa abbiano fatto, o non fatto, costoro nel passato. Mi dico invece: ma non è quello che speravamo che costoro prima o poi facessero? Che gridassero ai quattro venti che “il sovrano è nudo”, come sapevamo da tempo, ma come non riuscivamo a dire? Non parlavamo noi del silenzio (colpevole) degli intellettuali?

So che non basta. Non saranno (solo) loro a cambiare le cose (ma neppure essi lo pensano); ma perché tanto cinismo e risentimento di compagni mascherato da realismo? Il realismo può diventare una malattia mortale quando ci impedisce di vedere i segnali del cambiamento; diventa un freno alle passioni, irretisce le menti anziché illuminarle. Abbiamo già un campione del realismo: è Renzi, che ad ogni girar di vento, cambia tattica e obiettivi (ora, ad esempio, è in sintonia con Salvini sulla questione della difesa delle frontiere). Realisti erano quegli intellettuali che, appena affermato il fascismo, si radunavano sotto il balcone di Piazza Venezia per sentire i discorsi del Duce. E poi, a sera, si rivedevano in un’osteria a ridacchiare delle cose ascoltate: «questo qui», dicevano con realismo, «non dura più di un mese». Mussolini dimostrò più fantasia di loro e sappiamo come è andata a finire quella storia.

Mi piacerebbe che su questo giornale e sui social arrivassero migliaia (milioni?) di lettere con la scritta «Io ci sto!» o, «Per favore, voi che avete l’ambizione di rappresentarci, mettete da parte i vostri problemi personali; vogliamo una sola lista di sinistra alle urne, altre soluzioni non le accetteremmo». Non sarebbe falso ottimismo ed è inutile invocare la memoria triste dell’Arcobaleno. La storia non si ripete mai nello stesso modo due volte, se non nelle menti malate dei realisti. Uno slogan del maggio francese del Sessantotto diceva: «Ancora uno sforzo compagni…», e questa volta la storia può cambiare.

postilla
Non sono affatto d'accordo con Enzo Scandurra. E' la prima volta e non sarà l'ultima. Esprimerò le mie ragioni domani, Per farlo devo scavare un po' nella parola "sinistra", in riferimento ai secoli scorsi (e.s.)

«Possiamo inserire il nostro tempo in una nuova era geologica, l’antropocene, perché le tracce dell’uomo, si trovano ormai anche all’interno delle rocce». lasinistraquotidiana, 8 luglio 2017 (c.m.c.)

Viviamo in un Pianeta sempre più globalizzato ed interconnesso: il giro del mondo, che pareva prodigioso in 80 giorni, oggi si fa in 24 ore, ossia il tempo che sino al XIX secolo era necessario per fare un centinaio di chilometri. Nel frattempo, la popolazione umana, che ha impiegato cinquecentomila anni per raggiungere il Primo miliardo all’inizio dell’Ottocento, nei duecento anni successivi è sestuplicata, conferendo alla storia un’accelerazione senza precedenti.

Tale processo, reso possibile in seguito allo sviluppo dell’economia capitalistica e delle tecnologie ad essa legate,se da un lato ha certamente significato – seppur sempre con limiti di classe, e solo in seguito a grandi lotte sociali – l’aumento dell’aspettativa di vita, la fine di malattie secolari, l’affrancamento di milioni di persone dall’analfabetismo e la crescita della mobilità sociale, dall’altro ha determinato degli squilibri ecologici globali tali per i quali, a giusta ragione, possiamo inserire il nostro tempo in una nuova era geologica, l’antropocene, ché le tracce dell’uomo, sotto forma di emissioni, di plastiche e di polimeri, si trovano ormai anche all’interno delle rocce.

Allo stato attuale, dunque, la globalizzazione, la quale si presenta sotto un segno regressivo per la sua natura capitalistica, ha sviluppato due linee di faglia che rischiano di travolgere il Pianeta e la civilizzazione umana: la diseguaglianza che cresce in progressione geometrica, “grazie” ad una tecnologia che affina sempre di più la capacità di fare profitti e la crisi ecologica innescata da un sistema che è programmato per svilupparsi all’infinito, l’economia di mercato, all’interno però di un sistema chiuso, la biosfera.

Che tale fase regressiva, iniziata a partire dalle periodiche crisi finanziarie del capitalismo del secondo Novecento, sia in atto, è ben chiaro alle classi dominanti,che non a caso puntano alla privatizzazione integrale dei beni comuni,terreno di accaparramento senza scrupoli per multinazionali che impoveriscono milioni di persone, costringendole alla fame e alla migrazione in territori dove altri milioni di persone vengono aizzati contro di loro, scudi umani contro scudi umani, al fine di impedire nelle grandi masse del nord del mondo la presa di coscienza che pure nei secoli precedenti si era avuta.

Le classi dominanti, a differenza degli sfruttati, hanno infatti fatto tesoro della storia: onde evitare il rischio dello sviluppo di un nuovo socialismo e di una nuova coscienza di classe, e dunque un’espansione della democrazia sul terreno delle politiche redistributive, le classi dominanti fomentano lo sviluppo di partiti e movimenti xenofobi, utili idioti e gendarmi del sistema, mediaticamente sovraesposti in quanto fondamentali per deviare il malcontento popolare dalle reali cause (l’accaparramento delle risorse, la demolizione dello stato sociale, la distruzione della democrazia rappresentativa e della cultura di base) del loro malessere a quelle fittizie.

L’esplosione dei partiti e dei movimenti di estrema destra in tutta Europa – partiti di cui la Lega Nord è la variante nazionale – e della cosiddetta “fasciosfera”, ossia la bulimia di siti xenofobi che si autoreplicano diffondendo bufale e allarmando masse di persone deprivate degli strumenti critici di base, va dunque letta entro il contesto di redistribuzione della ricchezza verso l’alto mediante politiche austeritarie presentate come “riforme necessarie” e di conseguente abbandono di qualunque idea di intervento pubblico sul terreno sociale, civile e culturale.

Il rifluire delle grandi masse, dalla condizione di cittadini coscienti, a quella di plebe di consumatori indebitati, l’un contro l’altro armati grazie alla xenofobia ed al securitarismo, non è dunque un “danno collaterale” delle politiche neoliberiste, ma una precisa scelta che data almeno dalla metà degli anni Settanta, quando la Trilateral ammoniva il grande capitale circa i rischi degli “eccessi di democrazia” (sic!) che potevano danneggiare i profitti.

In sintesi, quando, di fronte al montare dell’estrema destra e del discorso razzista divenuto senso comune, ci troviamo ad essere impotenti, e frustrati assistiamo alla messa in mora di qualsiasi idea di solidarietà, dobbiamo mantenere la lucidità di un’analisi che ci permetta di storicizzare e contestualizzare il fenomeno, il quale è tutto tranne che spontaneo, e che dia, di conseguenza, la possibilità di invertire i rapporti di egemonia, attualmente drammaticamente sbilanciati dalla parte di un sistema che, per garantire la propria sopravvivenza, non esita a condannare a morte intere generazioni dell’Africa subsahariana, costruendo intere fortune politiche sulla rimozione collettiva delle migliaia di morti in mare e nel deserto, dato tanto certo quanto non percepito da quegli strati popolari europei che vengono aizzati come cani rabbiosi contro i più dannati fra i dannati della terra.

Ma è proprio nel momento di massimo scoramento, quando pare che l’avversario, la cui brutale razionalità sfida quotidianamente la ragionevolezza, abbia una potenza economica, mediatica e politica soverchiante, è proprio in tale momento che, lucidamente, dobbiamo renderci conto di un punto di partenza costituente anche la più grande contraddizione del sistema capitalistico, accanto a quelle con l’ambiente e con il lavoro: dal punto di vista antropologico, l’animale uomo non è un predatore individuale (come lo sono, ad esempio, i felini), ma fonda la propria sopravvivenza nella catena alimentare sulla sua capacità di agire collettivamente, di coordinare le proprie azioni con altri uomini.

Senza tale agire cooperativo, la specie umana sarebbe stata condannata a perire innanzi agli animali di grossa taglia e a quelli più veloci e più forti. Da questo dato di specie, nel corso dei secoli, si è evoluta poi l’etica in quanto prodotto storico, nata a partire dall’empatia con il prossimo, riconosciuto parte di un comune cammino di sopravvivenza. Ecco perché, se andiamo a scavare al fondo della questione, la grande distopia della destra, ossia il superuomo, non è altro che una super scemenza dietro alla quale sta una volontà non individuale (come viene propagandata), ma di classe, di difesa di una PARS di società contro un’altra, e dunque politicamente battibile attraverso lo sviluppo e la diffusione di diverse forme di pensiero.

Del resto, per paradosso apparente, il punto di massima forza delle propaganda di estrema destra è anche quello di estrema debolezza: quotidianamente, e ventiquattr’ore su ventiquattro, gli apprendisti stregoni delle classi dominanti e i loro utili idioti non fanno che gridare all’assedio, all’invasione e all’insicurezza, e, a loro modo, hanno ragione: i comunitarismi chiusi, gli egoismi di classe e di corporazione, i piccoli individualismi eretti a barriera dei grandi, sono effettivamente sotto assedio, invasi ed insicuri, ché un mondo nuovo, come si è visto all’inizio, avanza a passo spedito ed assedia i fortilizi dei poteri, rimescolando antropologicamente, ancor prima che politicamente, le carte in tavola, e determinando lo sviluppo di una storia che solo la miopia di una politica che si illude di sopravvivere alla crisi economica ed ecologica non sa o non vuole vedere.

Sta a noi mostrare la nudità del re, per poi abbattere la monarchia.

Su eddyburg a mostrare la nudità del re e a raccontare con chiarezza, profondità e rigore che cos'è "Antropocene", come ci siamo arrivati e come sopravviverci ci abbiamo già provato con la "opinione" di Enzo Scandurra, dal titolo, Natura e Cultura

«Il capitale avanza, la democrazia indietreggia. Saltano i vincoli politici e istituzionali che avevano trattenuto «gli spiriti animali» del capitalismo». l'Espresso, 9 luglio 2017 (c.m.c.)

«Il capitalismo sta morendo per overdose da sé stesso». È la tesi del sociologo Wolfgang Streeck, direttore del Max-Planck Institut di Colonia, tra i più autorevoli centri di ricerca in Europa. Nel suo ultimo libro, How Will Capitalism End? Essays on a Failing System (Verso book), Streeck conduce una diagnosi spietata sulle patologie del capitalismo democratico, quella particolare formazione sociale che, nel dopoguerra, aveva allineato democrazia e capitalismo intorno a un patto sociale che gli conferiva legittimità. Dagli anni Settanta, con la fine della crescita economica e, poi, con l'avanzare della rivoluzione neoliberista, quel patto sociale viene meno. Il capitale avanza, la democrazia indietreggia. Saltano i vincoli politici e istituzionali che avevano trattenuto «gli spiriti animali» del capitalismo. Che vince, ma vince troppo. Oggi, a rivoluzione compiuta, il capitalismo è in rovina «perché ha avuto troppo successo», spiega Wolfgang Streeck a l'Espresso.

Professor Streeck, per comprendere la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 lei ha scelto di enfatizzare «le continuità storiche» del capitalismo, rintracciando una lunga «traiettoria di crisi» iniziata negli anni Settanta del secolo scorso. Perché questa scelta?
«Perché la crisi attuale non è un fenomeno accidentale, ma il culmine di una lunga serie di disordini politici ed economici che indicano la dissoluzione di quella formazione sociale che definiamo capitalismo democratico. La traiettoria di crisi corrisponde al processo con cui il capitalismo si è liberato dalle catene, fragili, che gli erano state imposte dopo la seconda guerra mondiale. Indica la trasformazione dell'economia capitalistica dal keynesismo del dopoguerra a una formula politica opposta, di stampo neo-hayekiano, che punta alla crescita attraverso la redistribuzione dal basso all'alto, non più dall'alto al basso. È una transizione che produce una democrazia addomesticata dai mercati, ribaltando quel patto sociale post-bellico che vedeva i mercati addomesticati dalla democrazia. Considerata produttiva nel keynesismo, la democrazia egualitaria diventa un ostacolo all'efficienza».

Secondo la sua analisi, con il «crollo nel 2008 del keynesismo privatizzato» la crisi del capitalismo democratico sarebbe entrata nella sua «quarta e ultima fase». Quali sono le fasi che ci hanno condotto fin qui?
«Il capitalismo democratico del dopoguerra aveva trovato un equilibrio, instabile, tra gli interessi del capitale e dei cittadini. Dagli anni Settanta, venuta meno la crescita, i conflitti distributivi tra capitale e lavoro vengono affrontati con espedienti politici diversi, per creare l'illusione di una crescita inclusiva. Usati per guadagnare tempo, inflazione, debito pubblico e debito privato diventano però problemi di per sé, segnando tre crisi. La prima, negli anni Settanta, è quella dell'inflazione globale, a cui segue l'esplosione del debito pubblico negli anni Ottanta e la crescita dell'indebitamento privato nel decennio successivo, culminata nell'ultima fase, con il collasso dei mercati finanziari nel 2008. Da quattro decenni, lo squilibrio è la normalità. La crisi è dell'economia, ma anche del capitalismo come ordine sociale. Nei Paesi ricchi sono i tre sintomi principali, di lungo termine: il declino della crescita economica, l'aumento dell'indebitamento e la crescente disuguaglianza. A cui si aggiungono cinque disordini sistemici: la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio del dominio pubblico, la corruzione e l'anarchia globale»

Per lei, queste crisi e trasformazioni non sono funzionali a un nuovo equilibrio sistemico, ma indicano un processo di «decadenza graduale ma inesorabile»: la fine del capitalismo. Se è vero che sin dall'Ottocento "le teorie sul capitalismo sono anche teorie sulla sua fine", perché dovrebbe essere diverso, questa volta?
«Il fatto che il capitalismo sia riuscito a sopravvivere alle teorie sulla sua fine non significa che sarà in grado di farlo sempre. La sua sopravvivenza è sempre dipesa da un costante lavoro di riparazioni. Ma oggi le tradizionali forze di stabilizzazione non possono più neutralizzarne la sindrome da debolezza accumulata. Il capitalismo sta morendo perché è divenuto più capitalistico di quanto gli sia utile. Perché ha avuto troppo successo, sgominando quegli stessi nemici che in passato lo hanno salvato, limitandolo e costringendolo ad assumere forme nuove. Siamo di fronte a una dinamica endogena di autodistruzione, a una morte per overdose da sé stesso. Seguirà un lungo interregnum, un prolungato periodo di entropia sociale e disordine. La sua fine va intesa come un processo, non come un evento».

Immanuel Wallerstein ritiene che l'interregnum sarà contrassegnato da un confronto globale tra i sostenitori e gli oppositori dell'ordine capitalistico, «la forza di Davos e quella di Porto Alegre». Al contrario, lei esclude conflitti sociali dalla natura globale. Perché?
«Diversamente da Wallerstein, non vedo un'opposizione globale e unita al capitalismo, che lo sfidi per istituire un ordine nuovo e migliore. Al livello nazionale, ci saranno e ci sono movimenti di opposizione e contestazione, ma disuniti e spesso disorientati, contro un sistema e una classe capitalistici globali. C'è una differenza fondamentale tra conflitti e trasformazione strategica. L'obiettivo strategico ultimo, comune, deve ancora essere sviluppato. Non c'è nessun nuovo ordine dietro le quinte. Ci aspetta invece un'era di disordine, di grande confusione e indeterminatezza, piena di rischi».

Lei da una parte sostiene che occorra «de-globalizzare il capitalismo» per «riportarlo nell'ambito del governo democratico», dall'altra che dovremmo «cominciare a pensare alle alternative al capitalismo», anziché migliorarlo. Sono fini compatibili? Un capitalismo de-globalizzato è realistico?
«Il capitalismo globale non può essere governato dalla democrazia nazionale. Al contrario, la evira. Dal momento che la democrazia globale è inconcepibile, ne risulta che il capitalismo globale è incompatibile con la democrazia. Se vogliamo che il capitalismo sia governato, dobbiamo renderlo meno globale. Cosa c'è di pericoloso in questo? È molto più pericoloso lasciare indifesi individui, famiglie, economie regionali e nazionali rispetto ai capricci dei mercati internazionali, con il rischio che cerchino protezione nei Trump e nei Le Pen di turno. Lo trovo evidente».

Per qualcuno l'Unione europea può ancora essere un argine contro la definitiva affermazione della globalizzazione neoliberista. Lei al contrario ritiene che l'integrazione europea sia un «sistematico svuotamento delle democrazie nazionali dai contenuti politico-economici». Perché?
«Basta guardare al Trattato di Maastricht. Negli anni Ottanta c'era ancora la speranza che l'"Europa" potesse interrompere la marcia nel neoliberismo cominciata da Margaret Thatcher. Ma l'"Europa sociale" e social-democratica è stata accantonata. E oggi non c'è strada che ci riporti alla socialdemocrazia. Sotto la dura moneta comune, per i governi nazionali ciò che rimane del compito "europeo" è imporre le "riforme strutturali" neoliberali nei propri Paesi. La Banca centrale europea, con il sostegno del governo tedesco, fa tutto ciò che può per mantenere al potere i governi pro-europei (pro-euro, pro-riforme neoliberali), aspettandosi che ricostruiscano le proprie società in linea con le prescrizioni neoliberali su competitività e flessibilità. È un esperimento sociale e tecnocratico condotto sui popoli dell'Europa».

Nella sinistra europea è diffusa l'idea che, per scongiurare la crescita di partiti e movimenti populisti, occorra rivendicare l'internazionalismo, aggiornandolo. Lei invece è molto scettico sulla democrazia e sulla società civile a dimensione continentale. Perché?
«Perché non ci sono le condizioni per realizzarle. Non esiste un'opinione pubblica europea. La popolazione è organizzata in popoli con lingue diverse, differenti memorie storiche, diverse istituzioni politico-economiche nell'intersezione tra il capitalismo e la società. Se una "democrazia pan-europea" dovesse essere una democrazia giacobina maggioritaria, funzionerebbe come l'euro: a vantaggio di alcune nazioni e a scapito di altre. Verrebbe percepita come un complemento alla tecnocrazia continentale dell'unione monetaria. Non esiste futuro ordine europeo senza gli Stati-nazione. Ogni tentativo di imporre un'unica soluzione ai problemi della governance democratica disgregherebbe l'Europa, anziché unirla. Come ha fatto l'euro»

Una politica di destra, una cultura di destra, un vocabolario di destra. Questo è Renzi. Allora, per qualsivoglia sinistra si voglia vedere o sperare in Italia, Renzi e la sua corte non sono utilizzabili neppure per una politica di "centrosinistra". il

manifesto, 9 luglio 2017

Nella sua cruda parafrasi della slide di Renzi sui migranti da «aiutare a casa loro», Roberto Saviano ha detto una terribile verità: il Pd non solo guarda a destra, e fa politiche di destra. Ma parla con un linguaggio di destra: peggio, è parlato da una cultura di destra.

E d’altra parte: considerare i lavoratori alla stregua di merce (Jobs act), la scuola come un’azienda (Buona Scuola), la cementificazione come l’unico sviluppo possibile (lo Sblocca Italia), il patrimonio culturale come un supermercato (riforme Franceschini), scrivere una riforma costituzionale che intendeva diminuire gli spazi di democrazia e partecipazione, approvare una legge sulla tortura concepita per non punire la tortura di Stato. Cos’è, tutto questo, se non l’attuazione concreta di una cultura di destra?

Ma qua c’è di più.

«Aiutarli a casa loro» non solo è orrendamente ipocrita sul piano dei fatti perché facciamo tutto il contrario: dal mercato italiano delle armi di cui parla Saviano (aiutamoli a spararsi a casa loro) fino alla dolosa incapacità di invertire la marcia di una politica energetica che produce riscaldamento globale, e dunque la desertificazione che contribuisce ad innescare la migrazione di massa.

Ma quello slogan è soprattutto devastante sul piano simbolico e culturale. Perché contraddice radicalmente il principio stesso dello ius soli (una legge di sinistra che non a caso arranca alla fine della legislatura, mentre tutte le riforme di destra che ho elencato sono andate speditissime alla meta) contrapponendo «casa» a «casa».

«Questa è casa nostra», intende dire Matteo Renzi: e «padroni in casa nostra» è uno degli slogan più diffusi non solo nel vocabolario della Lega di Salvini (come si è ampiamente notato in queste ore), ma anche in quello delle peggiori destre xenofobe dell’est europeo. E se dobbiamo aiutarli a «casa loro» è perché ci rimangano; e perché questa «casa» rimanga nostra: senza confusioni, incontri, meticciato. Ognuno a casa propria.

Qua non si tratta di politiche: si tratta di visione del mondo, di concezione del futuro. O meglio di una non-visione del mondo, di una non-concezione del futuro: della scelta disperata di chiudere rabbiosamente gli occhi di fronte a una realtà ineludibile che non si riesce ad accettare. Perché non ci sono, né ci potranno mai più essere, «case» recintate, nostre, esclusive.

E invece quel «noi» opposto a quel «loro» è la chiave del discorso con cui Renzi parla alla pancia del Paese usando la lingua e la cultura di Salvini.

Ora, come si fa a trovare un terreno comune con questo modo di pensare, con questa mentalità, vorrei dire con questa antropologia? In queste condizioni come si fa a continuare a parlare di «centrosinistra»?

Se le parole hanno un senso, oggi in Italia l’unico «centro» con cui comporre un «centrosinistra» è questo Pd che ha rieletto trionfalmente Renzi, il quale è portatore della cultura che abbiamo appena descritto. Una cultura di destra.

Il fatto che il Pd faccia politiche di destra e sia intriso di una cultura di destra non basta per dire, come invece ho detto aprendo l’assemblea del Brancaccio, che il Pd sia da considerare un partito di destra? Può darsi: ma certo non è nemmeno più un «centro» con cui poter costruire un centrosinistra che non sia solo una macchina per il potere, una scala per raggiungere il governo inteso come fine ultimo. Se ce ne fosse stato ancora bisogno, la slide sull’«aiutiamoli a casa loro» dimostra che in questo tempo la casa politica del Pd non può essere la stessa di una sinistra, comunque la si voglia intendere.

C’è una via alternativa: più lunga, più erta e certo non capace di portare subito al governo. È quella che si potrebbe imboccare se ciò che esiste a sinistra del Pd sarà capace di unirsi, e di parlare un linguaggio tanto diverso e credibile da coinvolgere molti di coloro che non votano più. E che non votano perché pensano che una sinistra che pur di tornare al governo è disposta ad allearsi con chi pensa e parla come Salvini non potrà mai costruire eguaglianza e inclusione.

la Repubblica, 9 luglio 2017 (i.b.)

Chioggia - Il cartello all'ingresso del parcheggio parla subito chiaro. "Zona antidemocratica e a regime. Non rompete i c...". Ma è niente rispetto a quello che si vedrà e si sentirà più avanti, sotto gli ombrelloni, tra "camere a gas", inni al Duce e al regime fascista, scritte sessiste. Lungo il sentiero di traversine in legno che porta verso la spiaggia altri cartelli avvisano i bagnanti: "Regole: ordine, pulizia, disciplina, severità"; "difendere la proprietà sparando a vista ad altezza d'uomo, se non ti piace me ne frego!"; "servizio solo per i clienti... altrimenti manganello sui denti". Poi - prima della frase di Ezra Pound ("Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui") - un'insegna indica i servizi igienici: "Questi sono i gabinetti per lui, per lei, per lesbiche e gay".

Benvenuti alla "Playa Punta Canna" di Chioggia, lido balneare da 650 lettini tra le ultime dune di Sottomarina verso la foce del Brenta. La spiaggia del Duce. Altro che stabilimenti marini ai tempi del Ventennio: in questo vasto pezzo di arenile, se possibile, il fascistissimo titolare Gianni Scarpa, 64 anni, da Mirano, bandana nera e ufficio straboccante di gadget mussoliniani con tanto di cannone che spunta da una finestrella, è riuscito a fare persino meglio. "Qui valgono le mie regole", mette in chiaro. Già.

Intanto questa mattina - dopo la denuncia di Repubblica - sulla spiaggia fascista sono arrivati agenti della Digos e della polizia scientifica, inviati dal questore di Venezia, Vito Danilo Gagliardi. Ma torniamo alle "regole". La polizia ha acquisito gli audio e le foto pubblicate da Repubblica.

All'inizio il "comandamento" di "Punta Canna" era "niente bambini e buzzurri" (in effetti di bambini non se ne vedono). Poi per la gioia dei clienti - la maggior parte giovani "di area", palestrati e tatuati anche con simboli runici, aquile, croci celtiche - si è aggiunto molto altro. "La legge della giustizia nasce dalla canna del fucile", ammonisce l'ennesima scritta choc. Di fronte c'è l'angolo doccia col nebulizzatore, protetto da una cinta di canne.

Sta di fronte alla cabina bianca dove il cartello sulla porta dice "camera a gas, vietato entrare". Lo slogan è parte di un crescendo. A destra, prima del bar e lungo il sentiero che porta alla spiaggia, su un pannello di legno è stampata in bella vista la "summa" del lido, il pantheon del proprietario. Sì, insomma: le sue regole. Diversi poster di Benito Mussolini e di saluti romani ("questo è più di un saluto, uno stile di vita"; "questo è il mio saluto, se non ti piace me ne frego"); la foto di un bambino che dice: "Nonno Benito, per un'Italia onesta e pulita torna in vita". Un corollario sfacciatamente nostalgico e apologetico.

Elementi d'arredo alla cui vista i numerosi clienti del lido sono talmente abituati che nessuno - tranne qualche nuovo avventore - ci fa più caso. Il motivo lo capisci appena prendi posto sui lettini (650 di cui 70 coperti da tende bianche tipo gazebo) tutti occupati. Ogni mezz'ora, o comunque quando ne ha voglia, il titolare della spiaggia "intrattiene" i bagnanti alla sua maniera: con delle "comunicazioni" diffuse dagli altoparlanti, dei mini comizi da spiaggia. Che non imbarazzano nessuno perché evidentemente condivisi dai clienti. Inni al regime e insulti alla democrazia ("mi fa schifo"), intemerate contro Papa Francesco ("Lui vuole costruire ponti e non muri? Gliene costruiamo uno noi da Roma a Buenos Aires, così lo rispediamo da dove è venuto"), lotta senza frontiere alla "sporcizia umana del mondo, che è il 50% e qui dentro per fortuna non entra", "tossici da sterminare".

Ieri, sabato pomeriggio, l'imprenditore balneare del "me ne frego" ha dato il meglio di sé sotto il sole delle tre e un quarto. Sentitelo. "Sono molto contento di avere una clientela esemplare. Guardatevi in giro, oggi siete 650, non c'è una cicca, non c'è una salvietta a terra. A me la gente maleducata mi fa schifo...a me la gente sporca mi fa schifo...A me la democrazia mi fa schifo...Io sono totalmente antidemocratico e sono per il regime. Ma non potendolo esercitare fuori da casa mia, lo esercito a casa mia. A casa mia si vive in totale regime... qui è casa mia e di conseguenza si vive a regime". Gianni Scarpa plaude ancora ai suoi clienti esaltandone il comportamento. Poi dalle casse spara un attacco modello Duterte. "Voi sapete che io sono per lo sterminio totale dei tossici (alcuni bagnanti sorridono). Di conseguenza penso che è meglio che girino molto al largo da qui. Chi viene qui sa come la penso io... se vuole viene se vuole non viene e io me ne frego... Perché qui dentro voglio gente educata ".

Internazionale 7 luglio 2017 e un dettagliato articolo di E.T.Mantovani, Comitato Carlos Fonseca, 23 maggio 2017 per comprenderne le ragioni (i.b)



Internazionale, 7 luglio 2017 (ripreso da Prodavinci)
TRE IPOTESI PER IL FUTURO DEL VENEZUELA

di Luis Vincente Leon

Si possono fare tre ipotesi su come il Venezuela potrà uscire dalla crisi che sta vivendo da mesi. Nella prima, il governo di Nicolás Maduro (del Partito socialista unito del Venezuela) mantiene il potere, anche se la situazione nel paese continua a peggiorare. La crisi economica si aggrava e le manifestazioni proseguono, ma il governo fa di tutto per restare a galla.
La repressione delle manifestazioni diventa più severa fino al punto di coinvolgere anche altri componenti della forza armata. Il governo invita a lottare contro quella che viene definita un’insurrezione armata, mentre i militari mantengono una relativa unità. Con il passare del tempo si aggrava la situazione economica ma si logora anche l’opposizione, confusa e debole, chiusa in una battaglia a senso unico che non riesce a vincere ma ripropone ogni volta con le stesse modalità. Senza una leadership forte, la protesta non si allarga. Il governo ne esce indenne e convoca un’assemblea costituente, cambiando le regole elettorali e garantendo alla minoranza rivoluzionaria di restare al potere.

Garantire la convivenza
La seconda ipotesi prevede un’implosione negoziata e potrebbe realizzarsi solo a tre condizioni. Innanzitutto un leader dell’opposizione dovrebbe imporsi sugli altri prendendo decisioni, assumendo l’iniziativa, creando speranze e ampliando la base della protesta. Una maggiore partecipazione alle manifestazioni è la seconda condizione necessaria: se tutto il paese si opporrà al potere, non ci saranno carri armati, gas lacrimogeni o fucili che tengano. Le proteste pacifiche portano all’ingovernabilità e alla terza condizione: una spaccatura nel chavismo.

Chi spera di “convocare il popolo in piazza dietro una Giovanna d’Arco in estasi, che guidi i cittadini adoranti fino alle sedi del potere rischiando la morte” si illude. La protesta pacifica invece può penetrare nel palazzo presidenziale, nel tribunale supremo e nelle caserme. Non fisicamente, ma attraverso il dissenso interno che crea fazioni in lotta tra loro nel sistema. A quel punto ci può essere un cambiamento negoziato, con i militari che spingono per una trasformazione in grado di garantire la stabilità del paese. Le trattative servono anche a permettere ad alcuni protagonisti di uscire di scena incolumi e a ristrutturare le istituzioni, mantenendo però delle quote di potere chavista e militare in modo da assicurare la loro convivenza. Si forma così un governo di transizione che almeno all’inizio non è guidato dai soliti politici dell’opposizione.

Alla prima ipotesi attribuisco il 45 per cento di probabilità, alla seconda il 40 per cento. Nessuna delle due percentuali è bassa ed entrambe danno un’idea del clima d’incertezza in cui viviamo. E il restante 15 per cento?

È la terza possibilità: con un governo che non soddisfa i bisogni del popolo e un’opposizione che a volte sembra persa e confusa sugli obiettivi e i metodi di lotta, può venire allo scoperto qualche gruppo di cospiratori che immaginiamo esista negli ambienti militari venezuelani. In questo caso, la rottura e il cambiamento s’imporrebbero con un golpe militare. Considerata la situazione attuale del paese, secondo alcuni qualsiasi cambiamento sarebbe positivo. Le stesse persone in passato dicevano che niente poteva essere peggio di Hugo Chávez.

Comitato Carlos Fonseca, 23 maggio 2017
(ripreso da alainnet.org)

IL VENEZUELA DALL'INTERNO:
SETTE CHIAVI DI LETTURA
PER COMPRENDERE LA CRISI ATTUALE

di Emiliano Terán Mantovani

Non è possibile comprendere l’attuale crisi in Venezuela senza analizzare nel loro insieme le cause che si sviluppano “dall’interno”, e che non vengono spiegate nel complesso dai principali mezzi di comunicazione. Abbiamo individuato sette chiavi di lettura della crisi attuale che mostrano come non sia possibile comprendere quello che sta accadendo in Venezuela senza prendere in considerazione l’intervento straniero e che il concetto di “dittatura” non spiega né il caso venezuelano, né può considerarsi una specificità regionale di questo paese. Constatiamo a sua volta che il contratto sociale, le istituzioni e i principi dell’economia formale si stanno disfacendo, e che il futuro e le linee politiche nel contesto attuale si stanno definendo attraverso la via della forza e una buona dose di meccanismi informali, eccezionali e sotterranei. Sosteniamo che l’orizzonte condiviso dei due blocchi dei partiti che rappresentano il potere è neoliberale, che siamo di fronte a una crisi storica del capitalismo venezuelano della rendita e che le comunità, le organizzazioni popolari e i movimenti sociali si trovano di fronte a un progressivo annullamento del tessuto sociale.

L’immagine del Venezuela dipinta dai grandi mezzi di comunicazione internazionali di tutto il mondo è senza dubbio un’immagine che esula dall’ordinario. Non ci sono dubbi che ci sia troppa confusione a riguardo, troppo manicheismo, troppi slogan, troppe manipolazioni e omissioni.

Ma al di là delle versioni instupidite della neolingua mediatica che interpreta tutto quello che sta succedendo nel Paese come “crisi umanitaria”, “dittatura” o “prigionieri politici”, e della narrativa eroica del Venezuela del “socialismo” e della “rivoluzione” che interpreta tutto quello che sta succedendo nel Paese come “guerra economica” o “attacco dell’imperialismo”, ci sono molte tematiche, soggetti e processi resi invisibili, che agiscono più in profondità e che costituiscono l’essenza dello scenario politico nazionale. Non è possibile comprendere la crisi attuale in Venezuela senza analizzare nel loro insieme le cause che si sviluppano “dall’interno”.

Il criterio di azione e interpretazione fondato sulla logica “amico-nemico” risponde più a una disputa tra le élite dei partiti politici e dei gruppi economici che agli interessi fondamentali delle classi lavoratrici e alla difesa dei beni comuni. È necessario scommettere su sguardi complessi che analizzino il processo di crisi e il conflitto nazionale, e che contribuiscano a tracciare le coordinate per affrontare e immergersi nella congiuntura attuale.

In allegato il testo completo PDF dell'articolo con le sette chiavi di lettura "per comprendere tale contesto, analizzando non solo la disputa tra governo e opposizione, ma anche i processi che si stanno sviluppando nelle istituzioni politiche, nel tessuto sociale, nelle trame economiche, tenendo in considerazione le complessità del neoliberismo e dei regimi di governo nel Paese."

Intervista di Fiorenza Sarzanini a Louise Arbour. Un po' deboli le risposte, dato il ruolo della signora Arbour. Del resto, se l'intervistatrice sostiene che l'unico modo di fermare i migranti è aiutare i guardiacoste libici a sparare...

Corriere della Sera, 10 luglio 2017

Roma. «L’unica soluzione per risolvere il problema dei migranti è creare flussi legali. Pensare di fermare queste persone alzando muri e impedendo loro di partire è un’utopia». Louise Arbour, è la rappresentante speciale per le migrazioni del Segretario Generale Onu e sta negoziando con i governi l’attuazione del Global Compact, accordo non vincolante per ottenere una migrazione «sicura, ordinata e regolare».

L’Italia denuncia di essere sola di fronte all’emergenza.
«Io non userei questo termine così catastrofico. Il problema certamente esiste, ma parlare di emergenza serve ad enfatizzare i timori. E invece queste persone rappresentano una vera risorsa per gli Stati».

Anche se non sono regolarizzati?
«Certamente, perché forniscono un contributo concreto: la maggior parte di loro manda nel Paese d’origine appena il 15 per cento di quanto guadagna. Il resto lo spende dove ha deciso di vivere».

Perché in Europa c’è tanta ritrosia ad accoglierli?
«Subentra la paura, il rifiuto alla regolarizzazione di chi riteniamo diverso da noi. Ma bisogna spiegare quali sono i vantaggi. Fermare questi flussi non è possibile, il fenomeno è irreversibile e come tale va governato. Anche perché, parlo dei rifugiati, ci sono dei requisiti di solidarietà da rispettare. Purtroppo all’interno dell’Ue si prendono impegni che poi non vengono rispettati».

Le difficoltà incontrate dall’Onu per formare un governo in Libia e la fragilità dell’esecutivo in carica hanno aggravato il problema?
«La Libia è uno dei problemi più seri che ci troviamo ad affrontare. Ma fino a che si procederà seguendo lo schema attuale non si raggiungerà alcun risultato».

Che cosa vuole dire?
«Dare soldi ai libici servirà soltanto ad aumentare il flusso migratorio e anzi contribuirà ad intensificarlo. Concedere fondi alla Guardia costiera locale non è la soluzione, anzi».

È l’unico modo per cercare di fermare le partenze.
«No, credere che sia così è un grave errore. L’unica strada da percorrere è quella che mira a mettere a posto le cose dal punto di vista politico. Si deve creare un governo stabile, evitare che i trafficanti continuino a spostare le armi dal sud al nord del Paese. Se non si imboccherà questo percorso la situazione peggiorerà ulteriormente».

L’Onu ha provato, evidentemente non è così semplice. Non si è fatto abbastanza?

«Quando la Nato ha deciso di annientare il regime di Gheddafi era prevedibile che ciò avrebbe portato al caos, ma questo sembrava non importare a nessuno. Adesso è molto più difficile trovare un rimedio. Se però l’Europa si illude che la concessione dei finanziamenti servirà a chiudere la partita commette uno sbaglio».

E allora qual è la soluzione?
«Lo ripeto, bisogna aprire canali di trasferimento legali anche per i cosiddetti migranti economici. Nel 2018 sarà operativo il Global Compact per favorire gli ingressi legali per motivi di studio, lavoro e ricongiungimento familiare di chi non ha diritto allo status di rifugiato».

Un ampio concentrato di tutte le stoltezze, inequità e ignoranze, spruzzate di falso buonismo, che circolano nel pensiero corrente dai tempi del colonialismo mussoliniano,

la Repubblica, 9 luglio 2017, con postilla (i.b)

Dal confronto tra i cinque continenti, sia dalla loro estensione territoriale e sia dal numero degli abitanti e dalla loro età, emergono alcune considerazioni che vanno tenute presenti per quanto riguarda la storia del prossimo futuro. L'Asia è il continente più esteso e il più popoloso. L'età media è variabile da regione a regione, ma complessivamente non invecchia né ringiovanisce, è stabile. Gli abitanti sono 4 miliardi e 436 mila e il territorio è di 44 milioni e 580 mila chilometri quadrati. L'Europa è il continente territorialmente più piccolo: 10 milioni e 180 mila chilometri quadrati con una popolazione di 749 milioni di abitanti.

Infine è molto interessante l'Africa, con 30 milioni e 370 chilometri quadrati e una popolazione di un miliardo e 216 milioni di abitanti. L'invecchiamento è molto scarso e la crescita demografica molto elevata.

Trascuriamo le Americhe del Nord e del Sud che occupano un diverso emisfero. Qui da noi il vero tema da tener presente è l'Africa: vasta estensione e in proporzione all'Asia una popolazione minimale e giovane. Ha ragione Marco Minniti quando dice che il vero problema dell'Europa in genere e delle nazioni europee che si affacciano sul Mediterraneo è quello di fronteggiare l'Africa. In che modo?

Matteo Renzi è stato durissimamente contestato da tutti gli altri partiti italiani, a cominciare dalla dissidenza della sinistra guidata da Giuliano Pisapia, per aver detto che l'Italia deve bloccare l'accoglienza dei migranti e semmai dirottarli e soccorrerli nel Centro-Africa da cui provengono. Renzi per fronteggiare attacchi e insulti che gli sono piovuti addosso come una tempesta di grandine, ha parzialmente smentito le affermazioni che gli erano state attribuite, col massimo godimento soprattutto di Salvini. Ora si aspetta. Luglio e agosto le vacanze e subito dopo il tema andrà ripreso. Il come non è chiaro né da parte di Renzi né dei suoi critici interni né da quelli esterni. Ma gli estremi di quel tema sono invece chiarissimi fin d'ora e di questo vogliamo ora parlare.

Desidero anzitutto ricordare il mio incontro con Papa Francesco giovedì scorso. Uno dei temi di cui abbiamo parlato è appunto quello della povertà dei migranti in gran parte provenienti dall'Africa e diretti soprattutto verso l'Europa. Tutta l'Europa, del Sud, del Centro e del Nord.

La tesi del Papa è che il meticciato è inevitabile e va anzi favorito dall'Europa. Ringiovanisce la nostra popolazione, favorisce l'integrazione delle razze, delle religioni, della cultura. La popolazione europea sta, in quasi tutti i Paesi, diminuendo e invecchiando. L'accoglienza dei migranti è dunque per Francesco un fatto positivo, destinato a cementare una sostanziale amicizia tra i tre continenti che la geografia pone a confronto tra loro: l'Asia, l'Africa e l'Europa.

Molte nazioni hanno attualmente un sistema dittatoriale, ma il tempo e i popoli migranti possono favorire l'estendersi delle democrazie. Questo penso io. Naturalmente sono percorsi storici pieni di variazioni, nel bene e nel male, per i popoli che ne sono contemporaneamente i protagonisti e le vittime. Ma il percorso storico io credo sia questo perché questa è la modernità che dal Quattrocento domina l'Europa e anche l'India e la Cina. Non ancora l'Africa e perciò è all'Africa che bisogna guardare.

Il Pd vuole instaurare lo "ius soli". Incontra molte difficoltà, soprattutto in Senato dove non dispone d'una maggioranza. Ma lo "ius soli" è una conquista se il Pd riuscirà a ottenerlo. Oppure si potrà introdurre qualche modifica che però non intacchi il principio. Per esempio un diritto che diventa operativo solo quando il bambino è rimasto in Italia per almeno cinque anni dalla nascita, con eventuali assenze d'un mese l'anno se ci fossero esigenze dei genitori stranieri che non possono e non vogliono lasciare il figlio senza di loro.

Uno dei punti di fondo che i Paesi meridionali dell'Ue hanno rifiutato è stato quello di accettare l'attracco di navi cariche di migranti nei loro porti. Gentiloni ha protestato, Renzi ha protestato, ma poi c'è stata la mediazione favorita dalla Germania di aiutare con una "regalia" come contributo all'accoglienza.

Se posso esprimere un mio sentimento, sono sbalordito di quanto è accaduto. L'Italia, secondo me, deve esigere che le navi battenti bandiera francese o spagnola o portoghese o turca o greca o cipriota, attracchino nei rispettivi porti. Saranno poi quei governi a decidere la loro politica nei confronti di quelle navi, ma non rimandandole in Italia perché l'Italia deve accettare l'attracco delle navi di bandiera italiana.

In teoria alcune navi potrebbero battere bandiera europea, questo è uno dei motivi per i quali temi di questa importanza esigono al più presto uno Stato europeo federato. Allora sì, sarebbe relativamente facile governare in vari modi l'accoglienza o il respingimento dei migranti. Nel frattempo tuttavia il bravo e generoso e democratico ed europeista Macron, non vuole accettare le navi che battono bandiera francese. Dovrebbe invece consentire l'attracco nei suoi porti. Comunque può fare quel che vuole, ma sarà difficile a questo punto non mettere in gioco il suo europeismo e il rispetto per la democrazia. Gaullisti? De Gaulle era meglio, fece la pace con l'Algeria.

A questo proposito desidero ricordare che dal 1936, quando Mussolini conquistò l'Etiopia, le persone nate in Eritrea e nella Somalia italiana, erano considerati cittadini italiani. Si cantava una canzone intitolata "Faccetta nera" che diceva: Faccetta nera / sarai romana / la tua bandiera sarà sol quella italiana! / Noi marceremo insieme a te / e sfileremo avanti al Duce e avanti al Re!".

Vedete? Il tempo passa ma spesso i temi d'allora si ripropongono.

Il nostro ministro dell'Interno Marco Minniti, è molto consapevole del problema delle emigrazioni dai Paesi dell'Africa occidentale. Fuggendo da Paesi dove rischiano di morir di fame o di essere imprigionati e uccisi, la loro fortuna sarebbe quella di organizzare un sistema di accoglienza europea, o al momento solo italiano, direttamente in quei territori.

Bisognerebbe trattare con quei governi, assumersi la responsabilità effettuando in quei Paesi una serie di investimenti appropriati alle esigenze locali, alimentari, sociali, culturali, sindacali. Insomma investimenti adeguati e richiesti da quei governi. Gli investitori sarebbero anzitutto italiani e/o europei e/o americani. I lavoratori, adeguatamente retribuiti, sarebbero anzitutto immigrati riportati nei Paesi d'origine e poi utilizzati dai Paesi in questione. Ci dovrebbe anche essere un contingente militare italiano di 200 o 300 effettivi, che dovrebbero sorvegliare e garantire che gli investimenti in corso siano adeguatamente protetti.

Questo è il programma Minniti (ovviamente condiviso da Gentiloni e da Renzi). Minniti sa che i migranti puntano sul confine libico- tripolitano. È là che i migranti vanno ed è là che saranno fermati e riportati nella patria dalla quale stanno fuggendo, ma nelle condizioni di cui abbiamo parlato.

La tesi del nostro ministro dell'Interno (che fa anche il ministro degli Esteri in certe occasioni) è che l'Africa è un continente destinato a crescere più velocemente degli altri e se la crescita avverrà anche sul suo territorio potrà addirittura mettere in moto un movimento alla rovescia: molte ditte e tecnici europei si dislocheranno in Africa per aiutarla a crescere più velocemente e a imparare a costruire nuove imprese e nuove iniziative. Concludo dicendo che il paragone è: aiutiamo l'Africa e l'Africa aiuterà noi.

postilla

Vorremmo ricordare, sempre in riferimento al periodo coloniale mussoliniano che Scalfari utilizza per sorreggere le sua argomentazione, che le leggi razziali impedivano agli Italiani di sposare le donne nere, ma le potevano impunemente stuprare. Ad oggi sono ancora migliaia e migliaia le persone, nate dall'unione di italiani con eritree a cui non viene riconosciuta la doppia cittadinanza. Del nefasto periodo coloniale italiano, d'altra parte, si parla sempre meno, non si insegna nulla a scuola e viene cancellato dalla storia ufficiale. Raccomandiamo di leggere gli scritti di Angelo Dal Boca, importante storico del colonialismo italiano. Alcuni saggi si trovano nelle cartelle di eddyburg "Italiani brava gente". (i.b.)

I politici ignorano, per convenienze elettorali, l’evidente relazione tra le leggi che limitano la migrazione regolare e l’aumento del traffico di esseri umani. La sensata conclusione di aprire i canali legali ripresa dal

"Refugee Deeply"Internazionale, 7 luglio 2017 (i.b)

Nel momento in cui l’immigrazione viene vista quasi come una crisi esistenziale per l’Unione europea, è facile dimenticare che Bruxelles ha sviluppato una politica comune al riguardo solo negli ultimi due anni. Prima erano i singoli paesi a gestire la questione, e i loro errori condizionano ancora oggi i tentativi di dare una risposta al problema. Tuttavia il fatto che le politiche migratorie dell’Unione siano relativamente nuove significa anche che abbiamo la possibilità di lasciarci alle spalle le idee sbagliate che hanno guidato le azioni dei singoli stati ed evitare le loro tragiche conseguenze.

Gli sforzi per chiudere le rotte dell’immigrazione illegale possono funzionare solo se sono accompagnati dal tentativo di espandere i canali per entrare legalmente in Europa. In pratica questo significa che gli stati dovrebbero concedere più visti per motivi di lavoro nel corso delle trattative con i paesi d’origine o di transito dei migranti sui rimpatri di coloro che non hanno il diritto di restare nell’Unione.

Il flusso migratorio verso l’Europa è alimentato da alcuni fattori – dalla guerra in Siria ai vari conflitti dell’area che si estende fino all’Afghanistan – di cui l’Unione non è direttamente responsabile. Ma finora le politiche europee sui migranti hanno causato grandi sofferenze alle persone in fuga dalla povertà, dalla guerra e dalle discriminazioni, senza fare nulla per rendere i cittadini europei più sicuri. Il principale equivoco alla base di questo fallimento è la convinzione che i confini europei possano e debbano essere chiusi ai migranti economici.

Questa convinzione ha praticamente impedito ai migranti africani e asiatici di entrare legalmente nella maggior parte dei paesi europei. È importante tenerlo presente quando vediamo le caotiche scene di persone trasportate illegalmente via mare o via terra. Fino agli anni novanta, quando furono introdotte forti limitazioni ai visti, i migranti arrivavano in Europa in aereo. Eppure l’evidente relazione tra le leggi che limitano la migrazione regolare e l’aumento del traffico di esseri umani è spesso ignorata dai politici e dall’opinione pubblica.

La destra populista che chiede la chiusura delle frontiere trascura il fatto che i confini sono già chiusi per chi viene da paesi esterni all’Unione, e questo succede da anni. La traversata su vasta scala del Mediterraneo dalla Libia, e dal Nordafrica più in generale, verso l’Italia è invece un fenomeno relativamente recente e una conseguenza del progressivo inasprimento delle leggi italiane, culminato nel divieto di restare nel paese per gli stranieri che non hanno un contratto di lavoro, divieto introdotto dalla legge Bossi-Fini del 2002.
Misure del genere, oltre a causare enormi soferenze a persone la cui unica colpa è quella di voler lavorare, non raggiungono il loro obiettivo, cioè ridurre i lussi migratori via mare. Gli sbarchi in Europa di migranti provenienti dalla Libia sono aumentati di oltre il 25 per cento nei primi cinque mesi del 2017 rispetto allo stesso periodo del 2016.


Concessioni necessarie

È necessario cambiare strada: l’Europa riuscirà a chiudere i canali dell’immigrazione illegale solo se aprirà quelli legali. Le due cose vanno di pari passo. La Commissione europea si sta rendendo conto che è impossibile stringere accordi di riammissione (per rimpatriare i migranti economici e i richiedenti asilo la cui domanda viene respinta) senza offrire in cambio un aumento dei visti di lavoro. Si potrebbe mettere a punto un nuovo sistema che veda una coalizione di paesi europei offrire una serie d’incentivi ai paesi d’origine e di transito dei migranti, tra cui la concessione di un certo numero di permessi di soggiorno in cambio di un accordo sui rimpatri.

Probabilmente questa coalizione non godrebbe del sostegno unanime di tutti i governi dell’Unione. Alcuni paesi, soprattutto quelli del gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) si opporrebbero, così come quelli dove i partiti ostili all’immigrazione hanno un ruolo di primo piano nelle alleanze di governo.

Ma questa “coalizione di volenterosi” potrebbe comunque comprendere Italia, Germania, Svezia e Austria, e avere il sostegno di stati importanti come Francia e Spagna. E non si può escludere la partecipazione di altri paesi interessati al rafforzamento delle frontiere, come Slovenia, Croazia, Bulgaria e Grecia. Questo “patto” non sostituirebbe gli accordi di partenariato che sono già in vigore con alcuni paesi d’origine e hanno ricevuto l’appoggio anche degli stati più riluttanti all’idea di “concedere” poteri a Bruxelles in materia d’immigrazione. Lo scambio tra i canali d’immigrazione legali e gli accordi di riammissione potrebbe avvenire in maniera meno formale, attraverso un memorandum d’intesa tra un certo numero di paesi europei e i singoli stati d’origine. I primi indicherebbero il numero di visti che sarebbero disposti a concedere (prerogativa in gran parte affidata ai governi nazionali) mentre i secondi accetterebbero modalità più rapide per i rimpatri.

Un circolo vizioso

Non sarebbe la soluzione a tutti i problemi. I lussi migratori dall’Africa non s’interromperanno di colpo. Rafforzare le istituzioni dei paesi africani, salvaguardare lo stato di diritto e favorire lo sviluppo economico devono essere i pilastri di una più ampia strategia dell’Unione. Esigere il rispetto dei diritti umani in Libia è fondamentale per eliminare uno dei fattori principali che spingono i migranti a partire. Tuttavia, permettergli di farlo legalmente, mettendo in piedi nel frattempo un meccanismo efficace per i rimpatri, è il genere di cambiamento politico di cui l’Europa ha bisogno. I più cinici sosterranno che queste misure sarebbero impopolari.

Ma un’attenta analisi degli ultimi risultati elettorali in vari paesi europei lascia pensare che molti abbiano confuso una chiassosa e influente minoranza di elettori ostili all’immigrazione con la maggioranza della popolazione, che non ha idee xenofobe ma vorrebbe semplicemente che il problema fosse affrontato in modo più efficace.

La strategia dei “confini chiusi” ha favorito i partiti populisti ostili ai migranti: i confini chiusi causano un aumento dell’immigrazione illegale, che a sua volta alimenta il senso d’insicurezza della popolazione e ostacola l’integrazione dei nuovi arrivati. È arrivato il momento di interrompere questo circolo vizioso, che sta danneggiando la democrazia europea e sta causando terribili sofferenze ai migranti. Ora spetta a una coalizione di volenterosi proporre soluzioni più realistiche al problema dell’immigrazione.
Sferzante denuncia dell'ipocrisia dei falsi buonisti alla Renzi che guardano a una tragedia umanitaria con l'occhietto rivolto ai voti da acchiappare agli affari dei mercanti di armi.

il Fatto Quotidiano online, 9 luglio 2017

Mi permetto di parafrasare così le parole del Segretario del Partito di centrosinistra, ossatura della maggioranza di Governo: Se vi considerate di sinistra non dovete sentirvi moralmente in colpa se iniziate ad avvertire impulsi razzisti. Non siete voi a essere razzisti, sono i negri a essere troppi. Ma vi assicuro che continuerò ad avere moralmente a cuore gli affari di chi tra voi produce armi da vendere ai Paesi in guerra, impedendo che si creino condizioni di vita accettabili per i negri "a casa loro". Per Renzi dunque l'Italia non ha il "dovere morale di accogliere" ma di "aiutare a casa loro".

Eppure Renzi sa perfettamente che l'Italia realizza l'esatto contrario perché aiuta sì chi decide di lasciare il proprio Paese, ma ad ammazzarsi a casa propria. La prova? Le esportazioni di armi italiane". Così Roberto Saviano su Facebook.

2,7 miliardi di euro nel 2014, 7,9 miliardi di euro nel 2015, 14,6 miliardi di euro nel 2016. Queste cifre mostrano come è cresciuto negli ultimi 3 anni (e Renzi ne è al corrente) il valore complessivo delle esportazioni di armi dall'Italia. Ma il dato politicamente importante è il boom di vendite verso Paesi in guerra in violazione della legge 185/1990, che vieta l'esportazione e il transito di armamenti verso Paesi in stato di conflitto e responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. L'Italia nel 2014-2015 è stato l'unico Paese della UE ad aver fornito pistole, revolver, fucili e carabine alle forze di polizia e di sicurezza del regime di Al Sisi (con quale faccia chiedono verità per Giulio Regeni!).

Nigrizia denuncia forniture militari a Paesi dell'Africa settentrionale, a regimi autoritari, all'Arabia Saudita, condannata dall'Onu per crimini di guerra e per la quale il Parlamento europeo ha chiesto un embargo sulla vendita di armamenti.Quanta ipocrisia dunque nell'affermare di voler aiutare i migranti a casa loro. Ma attenzione, quella di Matteo Renzi non è una gaffe o un errore di comunicazione, è piuttosto un frettoloso e maldestro tentativo di dare in pasto una risposta alla ferocia della piazza.Matteo Renzi e il suo entourage non stanno capendo nulla della attuale fase politica. Se fosse un giocatore di calcio, il mister l'avrebbe fatto accomodare in panchina da un bel po'. Ma purtroppo l'allenatore è lui e la prima cosa che ha fatto da allenatore è stata liquidare Emma Bonino, risorsa vera della Repubblica.

il manifesto, 9 luglio 2017

Amburgo. Centomila per alcunii partecipanti, 80mila per altri, 76mila nell’annuncio ufficiale degliscrupolosi organizzatori. Comunque tante e diverse persone hanno saputosconfiggere la paura, creata da esponenti governativi e dai media nazionali elocali, dopo gli scontri della notte.

Migliaia di giovani avevanoinfatti tenuto impegnate le forze dell’ordine per almeno quattro ore, travenerdì e sabato, in un vero e proprio «riot urbano»: erette e incendiatediverse barricate nel quartiere di Sternschanze, la polizia tenuta lontana dallancio di sassi e due supermercati interamente saccheggiati. Al di là delcontributo di alcuni gruppi organizzati, è stato evidente il coinvolgimentoattivo di migliaia di giovani abitanti di Amburgo, prevalentemente immigrati diseconda generazione, in una sorta di «carnevale di riappropriazione eautodifesa delle strade» dal dispositivo di militarizzazione, che si era vistoall’opera negli ultimi giorni.
Solo verso le due del mattino gli apparati di sicurezza sono riusciti ariprendere il controllo della situazione: con ripetute cariche, l’uso degliidranti e il lancio massiccio di gas lacrimogeni e irritanti, ma anche con ilrastrellamento di interi isolati, a mitra spianato, ad opera dei repartispeciali Sek.
Pesanteil bilancio dellanottata: secondo fonti ufficiali, sono 213 gli agenti feriti, un centinaio imanifestanti (ma molti hanno preferito rivolgersi per le cure alla Saniautogestita), per fortuna nessuno in modo grave, e 203 le persone fermate.Questo clima non ha scoraggiato, anzi, quanti si sono presentati, a partiredalle 11 di sabato mattina, in Deichtorplatz. La stessa composizione del corteoha saputo esprimere tutta la ricchezza di contenuti della mobilitazioneanti-G20. Ad aprire la marcia la rappresentanza delle delegazioniinternazionali presenti ad Amburgo: tra questi i greci della rete Diktyo e delCity Plaza occupato, i sindacalisti francesi di Sud-Solidaires, molti attivistiscandinavi e olandesi. Poi, forte di almeno 7.000 presenze lo spezzone dellecomunità curde in Germania, molte donne e molti giovani, uniti sotto le paroled’ordine del «confederalismo democratico», pronti a difendere l’esperienzadella Rojava autonoma e a denunciare le ambigue relazioni tra il governo Merkele il regime del sultano Erdogan. Subito dopo, in più di diecimila, le attivistee gli attivisti delle reti di movimento «post-autonome» tedesche, la «SinistraIntervenzionista» e «Ums Ganze», protagonisti della giornata dei blocchi divenerdì e, a seguire, i gruppi autonomi e anarchici di «Welcome to hell».
Particolarmentevivace, come da tradizione, il blocco dei tifosi del Sankt Pauli, ilcui stadio è stato uno dei punti di riferimento per la preparazione nell’ultimoanno della protesta contro il vertice. Significativo lo spezzone dei movimentidei migranti e delle associazioni di solidarietà, a partire da quelle impegnateanche nel Mediterraneo, come Sea Watch e Jugend Rettet, a marcare come laquestione della libertà di movimento, dell’apertura dei confini e diun’accoglienza solidale e degna, sia tema decisivo di qualsiasi propostapolitica globale. Poi arrivava l’arancione di Attac; le «tute bianche» deimovimenti contro i cambiamenti climatici e per una radicale conversioneecologica del sistema produttivo nella coalizione Ende Gelände; le bandiererosse del partito die Linke; gli striscioni del sindacato Ver.di, deimetalmeccanici della Ig Metall e di alcune sezioni della stessa confederazioneDgb.
Un arcobaleno di colori e di proposte di rottura con il modellorappresentato dai Venti Grandi e in sostanza difeso da un corteo, «Hamburgzeigt Haltung», convocato dai socialdemocratici e associazioni collaterali innome di un generico «sostegno ai diritti umani», che avrebbe volutocontrobilanciare le contestazioni, ma che ha raccolto circa 4mila partecipanti.
Dasegnalare provocazionidella polizia: un attacco con gli idranti ai margini della piazza conclusiva e,soprattutto, diversi controlli, perquisizioni e fermi nei confronti diattivisti che venissero riconosciuti come «italiani, francesi o spagnoli».Inutili arroganze, a lavori del summit ampiamente conclusi, di cui ha fatto lespese anche l’europarlamentare della Lista Tsipras, Eleonora Forenza (poirilasciata; mentre scriviamo altre persone sono ancora in stato di fermo).

Ma al di là di questo, la riuscita della manifestazione della«Solidarietà senza confini» ha degnamente concluso una settimana dimobilitazione e lotta capace di mostrare, in modalità assai differenti fraloro, un campo ricco di proposte alternative all’esito, semplicementedisastroso, del vertice dei G20. Come tali conflitti e tali alternative sianocapaci di connettersi, convergere e costruire forza comune, in modo dariequilibrare, se non rovesciare, i rapporti di potere dati, è questionestrategica ancora tutta da affrontare.

L'iter della legge e il commento di Luigi Manconi nell'articolo di C. Torrisi e A. Zitelli. In quello di Valerio Onida le ragioni per le quali chi ha tenacemente voluto per trent'anni che anche l'Italia avesse una legge contro la tortura di Stato ha dovuto votare contro. valigiablu.it Corriere della Sera, 6 e 9 luglio 2017


valigiablu.it, 6 luglio 2017
REATO DI TORTURA IN ITALIA

“UN TESTO PROVOCATORIO E INACCETTABILE.
UNA LEGGE TRUFFA”
di Claudia Torrisi e Andrea Zitelli


Il reato di tortura è legge. La Camera dei deputati ha approvato definitivamente mercoledì 5 luglio il provvedimento, con il voto favorevole, tra gli altri, di Partito Democratico e Alternativa Popolare. Movimento 5 stelle, Sinistra Italiana e Mdp si sono astenuti, mentre Lega Nord, Forza Italia e Fratelli d'Italia hanno votato contro.
Quella dell'introduzione del reato di tortura in Italia è una storia lunga trent'anni. Il 3 novembre del 1988 con la legge 498 il nostro paese ha ratificato la Convenzione ONU contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti del 1984 (CAT). Il documento delle Nazioni Unite per la prima volta sanciva che ogni Stato aderente avrebbe dovuto prendere «provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari» efficaci per «impedire che atti di tortura siano compiuti in un territorio sotto la sua giurisdizione», nonché provvedere «affinché qualsiasi atto di tortura costituisca un reato a tenore del suo diritto penale». Nonostante queste previsioni, in Italia nessuno delle decine di disegni di legge sul tema che si sono susseguiti a partire dal 1989 è riuscito a essere approvato (per molti l'esame non è mai iniziato).
Il 26 giugno scorso è arrivato in quarta lettura alla Camera dei deputati il provvedimento che dovrebbe introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura. Il testo è stato presentato nel 2013, ha avuto un iter piuttosto tormentato e ha subito numerose modifiche. A metà maggio c’è stata l’approvazione del Senato (con voto favorevole tra gli altri di Pd e M5S), accompagnata dalle critiche delle associazioni per i diritti umani e dello stesso promotore della prima proposta del disegno di legge, il senatore del Partito democratico Luigi Manconi, che ha parlato di «stravolgimento» del testo originario.
I richiami e le condanne internazionali all’Italia

La mancanza di un reato specifico nel nostro ordinamento è stata più volte richiamata a livello internazionale. Lo scorso 22 giugno la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l'Italia, definendo le sue leggi «inadeguate» a punire e prevenire gli atti di tortura commessi dalle forze dell'ordine. La sentenza è stata pronunciata in seguito al ricorso presentato da 42 persone che la notte tra il 20 e il 21 luglio 2001 si trovavano all'interno della scuola Diaz di Genova quando ci fu la violenta irruzione della polizia. Una condanna analoga era stata già emessa dalla Corte di Strasburgo nel 2015, con la decisione sul caso di Arnaldo Cestaro, un manifestante sessantenne all'epoca del G8 del 2001 e anche lui vittima del pestaggio da parte delle forze dell'ordine nella scuola sede del Genova Social Forum. In quell'occasione, la Corte ha ritenuto che «i maltrattamenti subiti dal ricorrente durante l’irruzione della polizia» dovessero essere «qualificati come 'tortura'», ma che Cestaro non avrebbe potuto ottenere giustizia nel proprio paese, poiché non è previsto il reato.
Per questa ragione i giudici hanno stabilito la necessità che l’ordinamento italiano si doti di strumenti giuridici adeguati. Due anni dopo, a marzo di quest'anno, il comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha ritenuto insufficienti le misure prese fino a questo momento dall'Italia per dare esecuzione alla sentenza della Corte europea sul caso Cestaro. L'organismo ha notato «con preoccupazione» che «la legislazione italiana non si è ancora ad oggi dotata di disposizioni penali che permettano di sanzionare in modo adeguato i responsabili degli atti di tortura e di altre forme di maltrattamenti vietati dalla Convenzione europea dei diritti umani». Nella stessa direzione vanno anche raccomandazioni del Comitato ONU contro la tortura e di quello analogo del Consiglio d’Europa. Anche nelle osservazioni conclusive dell'ultima sessione del Comitato dei Diritti Umani delle Nazioni Unite dello scorso marzo viene espressa apprensione per il fatto che «il reato di tortura non sia stato ancora inserito nel codice penale» italiano. Un passo che secondo il Comitato va fatto «senza ulteriore ritardo».
Il percorso del disegno di legge in Parlamento
Il lungo percorso di questo disegno di legge in Parlamento, dalla sua versione originaria a quella di oggi, è stato caratterizzato da continue modifiche al testo, apportate dalla maggioranza nel corso delle votazioni tra Camera e Senato, con le conseguenti critiche da parte di coloro che, pur favorevoli all’introduzione del reato di tortura, ritenevano che i cambiamenti depotenziassero il testo originario, tanto da rischiare di renderlo inutile.
Cosa prevedeva il testo presentato da Manconi
Nel marzo del 2013, Luigi Manconi, insieme ad altri 2 senatori, presentò un disegno di legge che prevedeva l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Il testo, “elaborato dalle associazioni Antigone e da A Buon Diritto, e fortemente voluta da Amnesty International”, puntava così a colmare la mancanza di questo reato nell’ordinamento giuridico italiano. Il Ddl (composto da quattro articoli) si rifaceva alla definizione di tortura della Convenzione delle Nazioni Unite del 1984: «(...) qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate».
Il reato di tortura veniva pertanto riconosciuto come un “delitto proprio” – cioè commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio – e non era quindi inteso come un reato comune. L’articolo 1 prevedeva la reclusione da quattro a dieci anni per il “pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, lesioni o sofferenze, fisiche o mentali” per ottenere informazioni o confessioni, per punirla, intimorirla o per discriminarla. La pena aumentava se c’erano anche lesioni personali e raddoppiava con la morte della persona sottoposta a tortura. Erano previsti inoltre gli stessi anni di reclusione per “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che istiga altri a commettere il fatto, o che si sottrae volontariamente all’impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente”.
Come è poi cambiata la proposta di legge

Il disegno di legge viene approvato con modifiche una prima volta, circa un anno dopo, nel 2014, da parte del Senato. Nel nuovo testo di legge (composto da 6 articoli), il reato di tortura passa da “proprio” a generico, con una pena prevista da 3 a 10 anni. Commettere il fatto da parte di un pubblico ufficiale da elemento costitutivo del reato passa così ad aggravante: con una reclusione in carcere da 5 a 12 anni (da 6 mesi a 3 anni per l’istigazione). Le pene, inoltre, vengono aumentate in caso di lesione personale. Se poi la tortura provoca la morte della vittima, sono previsti 30 anni. Per il colpevole che uccide volontariamente una persona, torturandola, c’è l’ergastolo.
Ad aprile del 2015, il provvedimento arriva per la seconda votazione alla Camera. L’aula lo approva, anche questa volta con modifiche. Oltre a cambiare l’entità delle pene previste (in alcuni casi aumentadole), nel nuovo testo si aggiunge che il reato di tortura si applica – sia nel caso generico, che nell’aggravante commessa da un pubblico ufficiale – se la sofferenza patita dalla vittima è ulteriore “rispetto a quella che deriva dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Tre mesi dopo la Commissione Giustizia del Senato apporta nuovi cambiamenti al testo. Per configurarsi il reato di tortura le violenze e le minacce devono essere “reiterate” e il colpevole deve aver agito “con crudeltà” e aver cagionato oltre a sofferenze fisiche anche “un verificabile trauma psichico”. Il requisito delle condotte “reiterate” è stato poi cancellato dall’aula del Senato pochi giorni dopo.
Lo scorso 17 maggio, l’aula del Senato approva per la terza volta il provvedimento, circoscrivendo ulteriormente la configurazione del reato (che resta comune). Nel testo viene aggiunto che affinché ci sia tortura, il fatto deve essere commesso mediante “più condotte” o attraverso “un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Vengono poi ridotti gli anni di carcere previsti per l’istigazione alla tortura da parte di un pubblico ufficiale (passando da “uno a sei anni” a “sei mesi a tre anni”) e specificato che il fatto deve avvenire con modalità concretamente idonee all’istigazione della tortura. La nuova formulazione del reato è quindi questa: «Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona».
In un dossier del servizio studi della Camera viene specificato che il testo votato al Senato (e ora arrivato alla Camera per la quarta votazione) “dal punto di vista sistematico, connota il delitto in modo non del tutto coincidente con quello previsto dalla Convenzione ONU e sembrerebbe rendere più ampia l'applicazione della fattispecie, potendo la tortura essere commessa da chiunque e indipendentemente dallo scopo che il soggetto abbia eventualmente perseguito con la sua condotta”. Una differenza dovuta al fatto che, si legge ancora nel documento, nella Convenzione ONU “la specificità del reato di tortura è individuata e saldamente agganciata alla partecipazione agli atti di violenza, nei confronti di quanti sono sottoposti a restrizioni di libertà, di chi è titolare di una funzione pubblica”.
Per questo nella Convenzione il reato non può essere comune, ma viene ritenuto “proprio del pubblico ufficiale che trova la sua specifica manifestazione nell'abuso di potere, quindi nell'esercizio arbitrario ed illegale di una forza”.

Chi si oppone al disegno di legge

I continui ritardi e rinvii cui è stato sottoposto il disegno di legge sul reato di tortura dipendono principalmente dall’ostruzionismo di diverse parti politiche, secondo le quali il Ddl sarebbe nocivo per le forze dell'ordine e ne limiterebbe l’operato. Di questa opinione, ad esempio, è il ministro degli Esteri Angelino Alfano, che a luglio del 2016 – quando era titolare del Viminale – ha di fatto bloccato l'esame della legge, per scongiurare «ogni possibile fraintendimento riguardo l'uso legittimo della forza da parte delle forze dell’ordine». Lo stop è arrivato in seguito a una richiesta congiunta da parte di sigle sindacali di polizia e carabinieri per ottenere modifiche a un testo che avrebbe esposto «tutti gli operatori a denunce strumentali da parte dei professionisti del disordine e dei criminali incalliti» e rischiato di «legare le mani alle forze dell’ordine».
Lo scorso maggio Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, ha dichiarato di non aver partecipato al voto sul provvedimento perché preoccupato dell’«uso strumentale» che si potrebbe fare di queste norme; mentre la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, ha detto che «punire ogni forma di tortura è sacrosanto, ma non è quello che fa il ddl», che avrebbe invece «un solo scopo: intimidire il personale del comparto difesa-sicurezza e impedirgli di lavorare». Su posizioni analoghe anche la Lega Nord (che ha votato contro il provvedimento al Senato e ha promesso battaglia alla Camera): «Idiozie come questa legge espongono le forze dell'ordine al ricatto dei delinquenti», aveva dichiarato nel 2015 il segretario Matteo Salvini partecipando al “No T-Day”, sit in davanti Montecitorio per protestare contro l'introduzione del reato organizzato dal sindacato autonomo di polizia (Sap).

Le critiche al disegno di legge
Il giorno dopo il passaggio al Senato, Luigi Manconi ha scritto sul Manifesto un articolo in cui ha spiegato le ragioni della sua decisione di astenersi dal voto del Ddl: «Ritengo che quello approvato non sia un testo mediocre: è né più né meno che un brutto testo. E la scelta di non votarlo è stata per me particolarmente gravosa». In effetti, come abbiamo ricostruito, il disegno di legge che il parlamento si appresta ad approvare è molto diverso rispetto a quello depositato quattro anni fa e presenta diversi punti critici. A differenza di quanto previsto dalla Convenzione del 1984, innanzitutto, la tortura non viene configurata come “reato proprio” ma come “delitto comune”, che può essere compiuto da chiunque si trovi a esercitare una qualche forma di «vigilanza, controllo, cura o assistenza».
Questo inquadramento è stato difeso dal relatore di maggioranza della legge, Franco Vazio: «Il reato comune è più ampio, se fosse il contrario mi verrebbe da dire che non sarebbero ricompresi atti di tortura non del pubblico ufficiale. Nel nostro caso, invece, il reato è comune e nel caso in cui venisse compiuto dal pubblico ufficiale subisce un particolare aggravamento di pena. (...) Abbiamo costruito cioè un testo capace di cogliere tutte le sfaccettature».
Secondo Manconi, però, definire la tortura un “reato comune” snatura l'essenza stessa di un delitto che non è «misurabile sulla base dell’efferatezza, della crudeltà o dell’intensità delle sofferenze che infligge, bensì sulla sua origine. Questo è il nodo che nessuno vuol comprendere: non è un atto tra due individui capace di produrre sofferenze fisiche o psichiche, ma è l’atto commesso e realizzato da chi detiene legalmente il potere di tenere sotto controllo un’altra persona. Questa parola 'legalmente' è cruciale». La tortura, insomma, «nasce dall’abuso di potere legale. Se non si capisce questo, non si capisce nulla. La tortura, per intenderci, non è quella di Er Canaro contro l’usuraio, quella è un’altra roba».
Questa posizione è condivisa anche dall'Unione Camere Penali Italiane, secondo cui «l’aver voluto insistere sulla sua qualificazione come reato comune, anziché proprio, prevedendo solo una circostanza aggravante (almeno nell’intento del legislatore) nel caso in cui dei fatti si renda responsabile un soggetto pubblico (bilanciabile con le attenuanti), ha comportato un vero e proprio stravolgimento dell’assetto, per così dire 'naturale' della fattispecie».
Un gruppo di magistrati che si è occupato dei processi per i fatti del G8 di Genova ha scritto una lettera alla presidente della Camera dei deputati, denunciando come la configurazione di “reato comune” possa avere delle conseguenze anche sul raggio d'applicabilità della legge a fatti riconosciuti come tortura in sede europea, come l'irruzione alla scuola Diaz: La necessità, imposta dalla norma, di inquadrare la relazione tra l’autore e la vittima (quest’ultima deve essere privata della libertà personale; oppure affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’autore del reato; ovvero trovarsi in condizioni di minorata difesa) è conseguenza della scelta di configurare la tortura come un reato comune, ma esclude dall’ambito operativo della fattispecie molte delle situazioni in cui si sono trovate le vittime dell’irruzione nella scuola Diaz che non erano sottoposte a privazione della libertà personale da parte delle forze di Polizia e non si trovavano in una situazione necessariamente riconducibile al sintagma della 'minorata difesa'.
Il Ddl prevede che per essere qualificato come tortura il delitto debba aver causato "acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico". Le violenze e minacce, inoltre, devono essere state perpetrate "con crudeltà" e si deve trattare di un atto compiuto attraverso "più condotte" o che comporta un "trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". Il campo è poi ulteriormente ristretto, specificando che la legge non è applicabile nel caso "di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti".
Anche questi aspetti, frutto delle modifiche cui è stato sottoposto il disegno di legge, sono stati duramente criticati da Manconi, secondo cui «così come è stata scritta, la norma risulta di ardua applicazione: devono ricorrere nella definizione votata tali e tante circostanze da rendere complessa ogni operazione ermeneutica». Ad esempio, la richiesta di più condotte implica per il senatore che «il singolo atto di violenza brutale (si pensi a una pratica singola di waterboarding, ndr cioè la simulazione d'annegamento) potrebbe non essere punito»; mentre il fatto che il trauma psichico debba essere verificabile «significa introdurre un elemento di valutazione che impone probabilmente perizie psichiatriche o psicologiche. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima?».
La previsione di un “trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”, secondo il relatore di minoranza del Ddl Vittorio Ferraresi (M5s) «vuol dire tutto e niente» perché, così come per le “più condotte”, «si dovrà vedere la giurisprudenza e si dovrà vedere sia l’interpretazione dei giudici sia poi l’applicazione». Molte volte, ha aggiunto, «in luoghi come le carceri è già impossibile tirare fuori qualche informazione e qualche prova, figuriamoci con questa scritta se si potrà andare a vedere veramente se il trattamento è inumano o se c’è la crudeltà o non c’è. Stiamo parlando veramente di un livello di difficoltà di accertamento di un reato così grave, che lascia il tempo che trova».
Nella lettera alla presidente Boldrini, i magistrati del G8 di Genova lamentano che «se ai casi che sono stati esaminati nei processi di cui ci siamo occupati fosse stata applicata la normativa oggi in discussione» non avrebbero potuto chiamare in causa nemmeno l'agire «con crudeltà» previsto dal ddl: «secondo l’interpretazione corrente dell’omonima aggravante comune, infatti, la crudeltà è un contenuto psichico soggettivo non facilmente ravvisabile nell’agire del pubblico ufficiale che potrebbe sempre opporre di aver operato avendo di mira finalità istituzionali».
Quelle riferite dai magistrati sarebbero però, secondo il relatore Vazio, preoccupazioni eccessive: «Se entriamo nella logica della Diaz - non conosco i fatti e rispetto il parere del pubblico ministero - mi sentirei di dire che quei fatti vi rientrano pienamente. I giornali riferirono di attività di particolare crudeltà che hanno cagionato certamente 'acute sofferenze fisiche'. Ipotizziamo però che non ci siano le caratteristiche. Beh rimangono i reati per i quali si possono punire quelle persone che hanno commesso fatti di violenza, minacce, percosse o arresti illegittimi».
Queste ultime sono proprio le fattispecie che fino a questo momento sono state utilizzate nei processi in mancanza del reato di tortura in episodi come quelli della scuola Diaz, della caserma di Bolzaneto o del carcere di Asti, con il risultato di una pressoché generalizzata impunità, anche per via dei tempi di prescrizione brevi dei reati che sono stati ascritti ai colpevoli. E proprio sul tema della prescrizione del reato, infine, il Ddl non prevede nulla. Nel passaggio alla Camera è stata eliminata la previsione del raddoppio dei termini, nonostante sia la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che la stessa Convenzione di New York prevedano l'imprescrittibilità per la tortura. Interpellato su questo punto, Vazio ha risposto: «Non stiamo parlando di un reato come la corruzione, che è difficile da scoprire perché colui che ha subito il reato non ha interesse a denunciarlo».
Molto spesso, invece, accade l'esatto contrario. Come spiega l'avvocato Michele Passione, autore di uno dei saggi contenuti nel libro Per uno Stato che non tortura, «l'emersione delle notizie di reato è molto complicata. Perché se una persona è detenuta in un qualunque luogo di privazione della libertà personale, far emergere fintanto che la sua condizione di detenzione permane quello che gli è accaduto è molto complicato. Si ha il timore di essere esposti a ritorsioni, e nel frattempo il tempo scorre. Poi le indagini sono molto complicate perché c'è una protezione che viene fatta attorno a queste vicende per questioni che sono spesso subculturali prima ancora che di altro tipo. E quindi la prescrizione è un approdo molto facile».
Per il senatore Manconi, dunque, l’approvazione di questo Ddl tortura «significa ancora una volta che non si vuole seriamente perseguire la violenza intenzionale dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio in danno delle persone private della libertà o comunque loro affidate». Un appello sottoscritto da cittadini, giornalisti, psicologi, vittime di tortura, magistrati e avvocati, ha definito inoltre il Ddl approvato dal Senato una «legge truffa», un «testo provocatorio e inaccettabile». Se la Camera lo approvasse, «l’Italia avrebbe una legge che sembra concepita affinché sia inapplicabile a casi concreti; avremmo cioè una legge sulla tortura solo di facciata, inutile e controproducente ai fini della punizione e della prevenzione di eventuali abusi», si legge nella petizione firmata, tra gli altri, anche dalle vittime del G8 Arnaldo Cestaro e Lorenzo Guadagnucci, e da Ilaria Cucchi.
Le associazioni per i diritti umani condividono le stesse preoccupazioni. Secondo Amnesty International Italia e Associazione Antigone si tratta di un testo «impresentabile» e «limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo e circoscrivere in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura mentale è assurdo per chiunque abbia un minimo di conoscenza del fenomeno della tortura nel mondo contemporaneo, nonché distante e incompatibile con la Convenzione internazionale contro la tortura».
Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International, in un’intervista a Radio Radicale ha ribadito a fine giugno che la legge non è adeguata, ma ha aggiunto di ritenere «che comunque il fatto di porre fine alla rimozione della tortura, al silenzio del codice penale sulla tortura, introducendo una legge che non sarà applicabile in tutti i casi ma lo sarà sicuramente in alcuni, rappresenti un piccolo, un piccolissimo passo avanti». Il 16 giugno scorso, il commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks in una lettera inviata ai presidenti di Camera e Senato, a quelli delle relative commissioni Giustizia e a Luigi Manconi, ha sollecitato il Parlamento italiano ad adottare una legge sulla tortura «pienamente conforme agli standard internazionali in materia di diritti umani». Muižnieks ha ravvisato come alcuni aspetti del Ddl siano «disallineati rispetto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, alle raccomandazioni della Commissione europea per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani e degradanti e alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura». Per questa ragione il commissario ha espresso «preoccupazione» per il fatto che una tale legislazione possa creare «situazioni in cui episodi di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti restino non normati, dando luogo pertanto a possibili scappatoie di impunità».

Corriere della Sera, 9 luglio 2017

LA LEGGE SULLA TORTURA

E I VINCOLI DA RISPETTARE
di Valerio Onida

Caro Direttore, è stata definitivamente approvata la legge che introduce nel codice penale il delitto di tortura. Si tratta di un provvedimento che lo Stato italiano era tenuto ad adottare fin da quando, nel lontano 1988, fu data esecuzione in Italia alla Convenzione di New York del 10 dicembre 1984, entrata in vigore nel 1987. Siamo in ritardo di quasi trenta anni!

Infatti da tempo la Corte europea dei diritti dell’uomo ha «messo in mora» l’Italia su questo tema. Nella sentenza Cestaro contro Italia del 7 aprile 2015, relativa ai noti fatti della scuola Diaz di Genova all’epoca del G8 del luglio 2001, la Corte aveva espressamente dichiarato che «è la legislazione penale italiana applicata al caso di specie a rivelarsi inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e al tempo stesso priva dell’effetto dissuasivo necessario per prevenire altre violazioni simili». E lo scorso 22 giugno, in un’altra pronuncia relativa agli stessi fatti (Bartesaghi Gallo e altri contro Italia), la Corte, confermando il suo giudizio, aveva ribadito «l’insufficienza dell’ordinamento giuridico italiano quanto alla repressione della tortura».

Dunque, una legge assolutamente necessaria. Come si spiega allora che si sia discusso per tanto tempo, e che addirittura, in Senato, proprio uno dei primissimi firmatari della relativa proposta di legge nella presente legislatura, Luigi Manconi, abbia dovuto annunciare che non votava, non condividendolo, il testo così come portato all’esame dell’assemblea?

Il punto chiave è nella definizione delle condotte che integrano il delitto di tortura. La definizione della tortura è espressamente e precisamente dettata dalla convenzione internazionale che l’Italia ha sottoscritto: «Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito»: esclusi naturalmente il dolore o le sofferenze «derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate». Dunque si tratta di un tipico «delitto di Stato».

La legge avrebbe dovuto semplicemente riprodurre la definizione della Convenzione, o comunque rifarsi integralmente ad essa, per darvi piena e fedele attuazione. Invece in Parlamento si sono elaborati e votati dei testi che hanno preteso di dare una diversa definizione. L’ultimo testo suona così: «Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Si noterà, anzitutto, che mentre la Convenzione si riferisce unicamente ad atti compiuti da un pubblico ufficiale o per sua istigazione o con il suo consenso, la legge si riferisce a «chiunque», quindi configura un delitto comune, sia pure poi prevedendo una aggravante e quindi una pena maggiore se i fatti sono commessi «da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio».

Perché questa diversa definizione? Non vale addurre che anche soggetti non investiti di funzioni pubbliche, come gli appartenenti a gruppi di criminalità comune o mafiosa o terroristica, possono ricorrere per i loro scopi criminali alla tortura nei confronti delle persone loro prigioniere. Infatti non mancherebbe comunque il modo di punire adeguatamente tali violenze commesse da privati, mentre le condotte «tipiche» da prevenire e da punire sono quelle dei pubblici funzionari che legalmente hanno il controllo fisico di una persona. Ma fin qui, si potrebbe dire, poco male: si è estesa la portata della definizione del delitto al di là dell’ambito internazionalmente definito. (anche se non è detto che questo non provochi delle conseguenze).

Tuttavia la legge in discussione va al di là: ritiene che vi sia un’ipotesi di tortura solo se «il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Perché «più condotte» e non ne basta una? Secondo la Convenzione, è tortura «qualsiasi atto» intenzionale con quei caratteri, ed è logico che sia così. Si potrà forse obiettare che comunque, secondo la legge, anche un singolo atto, se comporta «un trattamento inumano e degradante», sarebbe punito. Ma che cosa conduce a discriminare una singola condotta che cagioni «acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico» senza però comportare un «trattamento inumano e degradante»? E ancora, che vuol dire che il trauma psichico deve essere «verificabile»? Un atto che cagioni «acute sofferenze psichiche» non è tortura se il trauma psichico non è «verificabile»?

Il Parlamento non era libero di definire restrittivamente i confini del delitto: era vincolato dalla Convenzione internazionale, dato che la Costituzione (art. 117) obbliga il legislatore ordinario a conformarsi alle norme internazionali. Onde, una legge non conforme alla convenzione potrebbe e dovrebbe domani, nel caso in cui venga in applicazione, essere portata all’esame della Corte costituzionale e da questa censurata. Non a caso il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, aveva indirizzato una lettera agli esponenti del Parlamento italiano esprimendo la preoccupazione che proprio queste caratteristiche della legge possano dare luogo a potenziali «scappatoie» di impunità.

Si è temuto forse di far apparire una «volontà punitiva» nei confronti delle forze dell’ordine? Ma chi può pensare che si esprima una «volontà punitiva» ingiustificata allorché si definiscono, in conformità alle norme internazionali, condotte illecite che non devono e non possono in nessun caso e sotto nessun pretesto essere proprie delle forze dell’ordine di uno Stato democratico? Piuttosto, suona offensivo per i nostri poliziotti e i nostri carabinieri pensare a nascondere o a mascherare o a minimizzare condotte inequivocabilmente contrarie, prima ancora che ai diritti umani, al loro statuto fondamentale di agenti e protettori della legalità .

La ferocia nascosto dietro il buonismo a chiacchiere di Renzi e Minniti. Intervista di Rachele Gonnella a Khalid Chaouk, il parlamentare PD eletto in rappresentanza er migranti.

il manifesto, 9 settembre 2017

Tende ancora a prendere le parti del ministro Marco Minniti, magari aggiustandone il tiro, ma l’ultima svolta del segretario dem in senso neosalviniano della serie «aiutiamoli a casa loro» sta provocando più un forte maldipancia in Khalid Chaouki, deputato Pd di origini marocchine, membro della commissione Esteri, primo musulmano eletto nella storia parlamentare italiana. Già nella sfida dei gazebo alle primarie si era allontanato dalla versione .4 del renzismo, per intenderci quella con sponda sempre più a destra, per avvicinarsi al governatore pugliese Michele Emiliano, fino a entrare a far parte della sua corrente chiamata Fronte democratico. Chaouki chiede ora, dalla tribuna dell’assemblea di Fronte democratico di un torrido week-end romano, la convocazione urgente di una riunione della Direzione Pd interamente dedicata al tema delle politiche sull’immigrazione.

Con quale scopo chiede una direzione ad hoc?

Vorrei capire quale linea condivisa adotta il partito democratico su questi temi. In primo luogo perché intravedo il rischio di rimanere succubi di chi, in minima parte legittimamente e in larga parte forzando, alimenta la paura e lo scontro all’interno della società italiana negando tutte le buone cose fatte in questi anni. In secondo luogo perché ancora non vedo una scelta chiara in direzione dell’inclusione dei nuovi cittadini e anche qui temo si ceda al panico delle ultime settimane. Bisogna capire che ci sono 5 milioni di cittadini che sono già parte integrante del sistema politico, economico e sociale italiano.

La richiesta è che sullo ius soli non si perda altro tempo, è così?
È l’obiettivo principale. Per rispondere alla paura si deve dare un segnale forte. Almeno un milione di giovani, che sono i nostri principali alleati contro chi fomenta odio e intolleranza, aspetta da troppo tempo il riconoscimento di un diritto fondamentale che riguarda la loro identità. Bisogna che siano sicuri che questa legislatura non si chiuderà senza l’approvazione di questa norma.

Crede che questi nuovi italiani saranno anche potenziali elettori di centrosinistra?
Non è assolutamente detto. Anzi, se si guarda ciò che è successo in altri paesi, la prima generazione che accede al voto tendenzialmente si rivolge verso i partiti conservatori. Ma è per un diritto fondamentale che l’Italia deve dar loro una risposta e per sentirsi così più forte attraverso una iniezione di energie positive in tutti i campi della vita pubblica.

La linea cattivista sull’accoglienza non è stata inaugurata da Minniti e dalla polemica sulle ong-pull factor?
Ci vuole riconoscenza verso le decine di migliaia di volontari che sono l’orgoglio dell’Italia, che la fanno grande, impegnandosi ogni giorno per la solidarietà e il salvataggio di vite umane nel Mediterraneo. Se ci sono ong non corrette vanno punite, ma non si può criminalizzare un mondo del volontariato, di scuole, chiese e realtà associative nei territori, anche di nostri sindaci e amministratori locali che hanno lavorato e lavorano nel silenzio per tenere alta la bandiera dei diritti umani nel nostro Paese. Non è giusto farne il capro espiatorio dell’incapacità dell’Europa di gestire un problema complesso e strutturale come il fenomeno migratorio.

I governi europei a Tallinn e a Parigi hanno opposto un Niet a tutte le richieste di aiuto del governo Gentiloni. Renzi propone come contromisura di non pagare i contributi europei, è l’unica risposta?
È imbarazzante constatare l’ignavia dei governi europei e l’unica risposta possibile è mobilitare le opinioni pubbliche e anche i partiti vicini in tutta l’Europa per evitare che vinca un egoismo che danneggia tutti. L’Italia deve poi aumentare il suo protagonismo nell’accoglienza attraverso canali legali e sicuri di ingresso operando ove possibile una selezione dei richiedenti asilo già nei paesi di transito e di partenza. Penso alle fortunate esperienze con Tunisia e Marocco e agli accordi con il Niger e con il Sudan.
Scusi ma in Niger e in Sudan non risulta sia garantito il rispetto dei diritti fondamentali. Così non si cementano regimi autocratici?
Lì porteremo l’Unhcr e le ong europee, che sorveglieranno i percorsi nei paesi terzi e monitoreranno la situazione dei diritti umani in stretto collegamento con l’Ue per canali sicuri e legali verso l’Europa.


APPELLO DEL BRANCACCIO
18 giugno 2017
di Anna Falcone e Tomaso Montanari

La scandalosa realtàdi questo mondo è un’economia che uccide: E’ pensabile trasporre questa veritàin un programma politico coraggioso e innovativo? Noi pensiamo che non ci siaaltra scelta.
Siamo di fronte ad una decisione urgente. Che non è deciderequale combinazione di sigle potrà sostenere il prossimo governo fotocopia, macome far sì che nel prossimo Parlamento sia rappresentata la parte più fragiledi questo Paese e quanti, giovani e meno giovani, in seguito alla crisi, sonoscivolati nella fascia del bisogno, della precarietà, della mancanza di futuroe di prospettive.
La parte di tutti coloro che da anni non votano perché noncredono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana:coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario;coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti opensioni da fame.
La grande questione del nostro tempo è questa: ladiseguaglianza. L’infelicità collettiva generata dal fatto che pochi lucrano surisorse e beni comuni in modo da rendere infelici tutti gli altri.
La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide:queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciateda un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: «E’pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso einnovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta. E pensiamo che il primopasso di una vera lotta alla diseguaglianza sia portare al voto tutti coloroche vogliono rovesciare questa condizione e riconquistare diritti e dignità.
Per far questo è necessario aprire uno spazio politiconuovo, in cui il voto delle persone torni a contare.
Soprattutto ora che sta per essere approvata l’ennesimalegge elettorale che riporterà in Parlamento una pletora di “nominati”.Soprattutto in un quadro politico in cui i tre poli attuali: la Destra e ilPartito Democratico – purtroppo indistinguibili nelle politiche enell’ispirazione neoliberista – e il Movimento 5 Stelle o demoliscono o almenonon mostrano alcun interesse per l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Ci vuole, dunque, una Sinistra unita, in un progettocondiviso e in una sola lista. Una grande lista di cittadinanza e di sinistra,aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile. Unprogetto capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso èandato in massa a votare “No” al referendum costituzionale, perché in quellaCostituzione si riconosce e da lì vorrebbe ripartire per attuarla e nonlimitarsi più a difenderla.
Per troppi anni ci siamo sentiti dire che la partita sivinceva al centro, che era indispensabile una vocazione maggioritaria e che ilpunto era andare al governo. Da anni contempliamo i risultati: una classepolitica che si diceva di sinistra è andata al governo per realizzare politichedi destra. Ne portiamo sulla pelle le conseguenze, e non vogliamo che torni alpotere per completare il lavoro.
Serve dunque una rottura e, con essa, un nuovo inizio: unprogetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioniinnovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e noncontrollato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia,anzi, la continuazione.
Un progetto che parta dai programmi, non dalle leadership emetta al centro il diritto al lavoro, il diritto a una remunerazione equa o aun reddito di dignità, il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione.
Un progetto che costruisca il futuro sull’economia dellaconoscenza e su un modello di economia sostenibile, non sul profitto, nonsull’egemonia dei mercati sui diritti e sulla vita delle persone.
Un progetto che dia priorità all’ambiente, al patrimonioculturale, a scuola, università e ricerca: non alla finanza; che affronti iproblemi di bilancio contrastando evasione ed elusione fiscale, e promuovendoequità e progressività fiscale: non austerità e politiche recessive.
Un simile progetto, e una lista unitaria, non sicostruiscono dall’alto, ma dal basso. Con un processo di partecipazione aperto,che parta dalle liste civiche già presenti su tutto il territorio nazionale, eche si apra ai cittadini, per decidere insieme, con metodo democratico,programmi e candidati.
Crediamo, del resto, che il cuore di questo programma siagià scritto nei principi fondamentali della Costituzione, e specialmente nelpiù importante: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono egualidavanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, direligione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compitodella Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono ilpieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti ilavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art.3).
È su questa piattaforma politica, civica e di sinistra, chevogliamo costruire una nuova rappresentanza. È con questo programma chevogliamo chiamare le italiane e gli italiani a votare.
Vogliamo che sia chiaro fin da ora: noi non ci stiamocandidando a guidarla. Anzi, non ci stiamo candidando a nulla: anche perché lecandidature devono essere scelte dagli elettori. Ma in un momento in cui glischemi della politica italiana sembrano sul punto di ripetersi immutabili, eimmutabilmente incapaci di generare giustizia ed eguaglianza, sentiamo – atitolo personale, e senza coinvolgere nessuna delle associazioni o dei comitatidi cui facciamo parte – la responsabilità di fare questa proposta. L’unicaadeguata a questo momento cruciale.
Perché una sinistra di popolo non può che rinascere dalpopolo.
Invitiamo a riunirsi a Roma il prossimo 18 giugno tutticoloro che si riconoscono in questi valori, e vogliono avviare insieme questoprocesso.

Una gaffe di Renzi parlare la stessa lingua di Salvini? Non ci crede nessuno.Articoli di Carlo Lania e di Roberto Ciccarelli e Massimo Franchiil manifesto 8 luglio 2017


MIGRANTI, RENZI CAMBIA ROTTA:
«SERVE IL NUMERO CHIUSO»
di Carlo Lania
Pd. Ilsegretario del Pd: «Non abbiamo il dovere morale di accoglierli. Aiutiamoli acasa loro»
Chi conosce bene Matteo Renzi assicura che il cambiamento dilinea definitivo sarebbe avvenuto durante lo scorso weekend quando l’ex premier– impegnato nell’ennesima revisione di Avanti, il suo ultimo libro – ha capitoche dall’Europa non sarebbe mai arrivato quell’aiuto chiesto più volte per ungestione comune dei migranti. Da qui la scelta di invertire rotta e – andandoanche oltre le iniziative assunte finora dal governo Gentiloni e in particolaredal ministro degli Interni Minniti – mettere ufficialmente la barra a destraalle politiche del Pd sull’immigrazione. A spingere il segretario anche laconvinzione che esitare ulteriormente avrebbe solo continuato a favorire Lega eMovimento 5 Stelle. «Dobbiamo dire che ci deve essere un numero chiuso diarrivi, non ci dobbiamo sentire in colpa se non possiamo accogliere tutti»,annuncia quindi ieri mattina l’ex premier a «Ore nove», la rassegna stampa chetiene quotidianamente su Facebook. Affermazione compensata solo in parte dallacontemporanea assicurazione che il Pd manterrà la promessa di far approvare loius soli, «una norma di civiltà».
La proposta di istituire un numero chiuso per i migranti non èl’unico indizio del nuovo corso renziano. Anzi, le anticipazioni che sempreieri appaiono su Democratica, la rivista on line del partito, confermano che lasvolta ormai è definitiva. Anche per la scelta delle parole utilizzate. Insiemea una difesa delle frontiere, c’è infatti l’invito «a uscire dalla logicabuonista e terzomondista per cui noi abbiamo il dovere di accogliere tuttiquelli che stanno peggio di noi». A completare il quadro c’è poi un piccologiallo, relativo a una frase del libro apparsa su Facebook e poi rimossa. Frasenella quale, parlando sempre dei migranti, si afferma che «non abbiamo ildovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale diaiutarli. E aiutarli davvero a casa loro». Parole che scatenano le reazioni el’ironia del web.
Rispetto a pochi mesi fa il cambio di rotta è notevole. Fino aquando a Palazzo Chigi c’era Renzi l’accoglienza dei migranti non è infatti maistata messa in discussione dal governo. Il che non significa che siano mancatigli scontri, anche duri, con l’Unione europea, restìa allora come oggi a farsicarico della sua parte di responsabilità. Valgano per tutti la richiesta di nonfar accedere ai fondi europei i paesi che non accolgono i migranti, ma anche lepolemiche sulla richiesta italiana di scorporare le spese per l’accoglienza dalparametro deficit/Pil. Renzi però ha sempre rivendicato con orgoglio isalvataggi effettuati in mare e, soprattutto, non ha mai messo in discussioneil fatto che i migranti venissero fatti sbarcare e accolti in Italia.
Che il vento stesse cambiando, era comunque intuibile. Dadicembre a oggi, da quando al Viminale siede Minniti, Renzi non ha infatti maicriticato il nuovo e più duro indirizzo impresso dal governo alle politichesull’immigrazione. «Certo, quando qualche giorno fa l’Austria ha minacciato dischierare i mezzi corazzati al Brennero, Matteo avrebbe voluto una presa diposizione più dura da parte del ministro degli Interni, ma ha condiviso laminaccia di chiudere i porti», confermano le persone vicine all’ex premier.
La richiesta del numero chiuso rappresenta quindi l’avvio deiuna strategia che, nella mente dell’ex premier, guarderebbe ormai piùall’elettorato di centro che a quello di sinistra. Quanto questo sia poirealizzabile dal punto di vista tecnico, è tutto da vedere. L’unica modo perporre un tetto agli ingressi riguarda infatti solo i migranti in possesso di unpermesso di soggiorno per motivi di lavoro, e si concretizza attraverso undecreto flussi varato dal governo. Misura che chiaramente non comprende le migliaiadi disperati che rischiano di affogare nel Mediterraneo per di raggiungerel’Europa. E che per di più sono tutte potenziali richiedenti asilo e in quantotali impossibili da rimpatriare, almeno non prima che una commissioneterritoriale abbia deciso sul loro destino. «La convenzione di Ginevra nonprevedi tetti al numero dei richiedenti asilo», conferma l’avvocato FulvioVassallo Paleologo, presidente dell’associazione Diritti e frontiere, chericorda anche come l’Italia non abbia firmato la lista dei Paesi Terzi sicuriche permetterebbe di rimpatriare una parte dei migranti irregolari. «Fatico –prosegue Paleologo – a trovare un brandello di fonte normativa che possagiustificare il numero chiuso. Queste affermazioni mi preoccupano come quellefatte dal presidente estone secondo il quale non conta la cornice legale ma lavolontà di fare le cose. Assistiamo a una prevaricazione dei governi rispettoai parlamenti e alle norme vigenti».
Da Tallinn ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando haprovato a ridimensionare le parole di Renzi: «Sono solo un modo, come laquestione dei porti, di dire all’Europa che non riusciamo a gestire da soli unfenomeno che durerà ancora molto nel tempo», ha spiegato il Guardasigilli.
«AIUTIAMOLI A CASA LORO». E LA LEGA DI SALVINI
FINÌ PER COPIARE ILPD DI RENZI
di Roberto Ciccarelli e Massimo Franchi
Clamoroso autogol mediaticodel Pd. Una «card» riprendeva una frase contenuta nel libro di Matteo Renzi suimigranti da aiutare «davvero a casa loro». Le inviperite reazioni social («Masiete come la Lega!», le più educate) hanno portato a cancellare il post. Ma lafrittata ormai era fatta. E lo stesso consulente social di Matteo Salvini (LucaMorisi) ne ha approfittato rilanciando con la versione firmata dalla Lega:«Scegli l’originale». Renzi poi ha cercato di metterci una pezza in un postsuccessivo intitolato «Lotta alla superficialità».
Con poco successo. Tanto cheperfino Enrico Mentana in un post su facebook intitolato “Il caso Mattei” hastigmatizzato questo comune sentire tra i due leader del Pd e Lega accomunatidallo stesso nome. Il tutto mentre su twitter il trend topic più in voga era#renzirispondi lanciato dal Movimento 5 Stelle per accusare Renzi di posizionitroppo morbide sull’immigrazione. A questo campionato di chi supera a destra ladestra ha partecipato anche Forza Italia: “Diffidate dalle imitazioni” è statoscritto sull’account twitter delpartito. Eora, cosa farà Renzi con il suo libro? Lo ritirerà dalle librerie, neldisperato tentativo di correggere il disastroso passaggio xenofobo, oppurelascerà le bozze al suo editore percorrendo la strada fotografata sullacopertina verso la leghizzazione completa del Partito Democratico? Con questauscita il segretario del Pd ha voluto celebrare la fine del rapporto della“sinistra” “con la logica buonista e terzomondista per cui noi abbiamo ildovere di accogliere tutti quelli che stanno peggio di noi”.

«Keynes offre una soluzione per sfruttare le risorse inutilizzate fino a quando la domanda del mercato non si riprende».

Vocidall'estero online, 6 luglio 2017 (c.m.c.)

Pubblichiamo oggi la traduzione di un altro articolo della rivista European House of Cards. Joachim Starbatty dà una lettura keynesiana dell’eurocrisi. Secondo Keynes, per paesi come quelli dell’europeriferia, la soluzione è semplice: stimolare la domanda con spesa governativa e svalutare la moneta per recuperare competitività. Il problema è che questo è impossibile, perché il “core” dell’eurozona li ha legati con un cambio fisso. È il cambio fisso il vero ostacolo alla ripresa economica in Europa. Purtroppo, nonostante questo semplice dato sia sotto gli occhi di tutti gli addetti ai lavori, continua a essere negato per non turbare il “sogno di un’Unione Europea sempre più stretta”.

La soluzione di J.M. Keynes – un aumento della spesa governativa in grado di stimolare la ripresa economica durante una recessione – viene spesso proposta come soluzione per i paesi troppo indebitati del Sud dell’eurozona. Ma per i paesi della periferia dell’eurozona, questo approccio non rappresenta un cammino credibile verso la ripresa economica.

Nel suo libro epocale La teoria generale dell’occupazione, degli interessi e della moneta (1936) Keynes dimostrò che la capacità produttiva inutilizzata e i lavoratori potrebbero essere rimessi in opera grazie alla spesa del governo. Quello che non discuteva era la competitività, che è al cuore del problema che devono affrontare le economie dei paesi dell’eurozona in crisi. La spesa a deficit deve essere intesa come un ponte: Keynes offre una soluzione per sfruttare le risorse inutilizzate fino a quando la domanda del mercato non si riprende.

Tuttavia, la spesa governativa non produrrà un’efficiente allocazione dei fattori di produzione, quando non ce ne era fin dal principio. In altre parole, non può risolvere il problema della mancanza di competitività economica di base. Inoltre, una spesa pubblica su larga scala richiederebbe altro debito pubblico, che per molti paesi sarebbe insostenibile. Nella Teoria generale di Keynes, tuttavia, troviamo un suggerimento: un’economia può uscire dal suo problema di disoccupazione manipolando il tasso di cambio. Un governo che deve affrontare un’alta disoccupazione può stimolare l’occupazione svalutando la moneta, cosa che si traduce in esportare più beni e importare occupazione.

Di conseguenza, i suoi partner commerciali importeranno più beni ed esporteranno occupazione. È la strategia indicata come “Beggar-my-neighbour (Frega il vicino)”. Ed è quello che sta avvenendo nell’eurozona. Il principale problema dell’unione monetaria è un rapporto di prezzi relativi falsato: il valore dell’euro è troppo basso per la Germania e troppo alto per i paesi della periferia, In Germania, il surplus della bilancia di pagamenti è aumentato dall’1% del 2000 all’oltre 8% attuale e la disoccupazione è scesa dall’11% del 2005 al 5% attuale, mentre la disoccupazione della periferia del Sud è quasi raddoppiata. Questa è una chiara prova empirica della politica “frega il vicino”. È comprensibile che gli esportatori tedeschi siano soddisfatti dell’euro-regime; ma è incomprensibile che i governi della periferia europea aderiscano a un sistema monetario che sta distruggendo i loro Paesi.Per loro c’è una sola possibilità di tornare alla prosperità economica: una consistente svalutazione di una nuova valuta nazionale.

In alcuni casi, sarà necessaria una ristrutturazione del debito. Il governo tedesco naturalmente è consapevole dei prezzi relativi truccati e impone ai governi della periferia europea una svalutazione interna, basata su un abbassamento dei salari guidato dall’alta disoccupazione, dalle politiche di austerità e dall’import in caduta. Possiamo imparare in dettaglio da Keynes quello che succede ai governi che seguono le ricette della cancelliera Angela Merkel. Nel suo Trattato sulla riforma monetaria (1923), Keynes criticava aspramente le politiche deflazionistiche della Francia, messe in atto per difendere un Franco sopravvalutato. Dopo la Grande Depressione, l’Inghilterra e gli USA seguirono i suoi consigli e abbandonarono il Gold Standard: la sterlina inglese e il dollaro americano si svalutarono, e i due Paesi divennero più competitivi della Francia.

Il governo francese dovette decidere se svalutare a sua volta, o perseguire una politica deflazionistica di tagli alla spesa per riottenere competitività. Keynes osservò che «nemmeno un politico completamente incosciente applicherebbe una politica finalizzata al dimezzamento dei salari, al raddoppio del debito pubblico e alla riduzione drastica dei prezzi delle esportazioni». Vi suona familiare? La Troika e i politici dei Paesi creditori europei hanno adottato proprio questa politica, per sei anni. E così, anche se un aumento della spesa governativa non può risolvere la crisi, il taglio della spesa, delle pensioni e dei salari non farà altro che aggravarla.

Keynes ha dedicato un intero capitolo del suo Trattato a questo problema: se una nazione debba perseguire politiche deflazionistiche o svalutare la sua moneta. Ed è giunto a una chiara conclusione: la politica giusta per le nazioni è svalutare, e raggiungere un valore della moneta adeguato al commercio e ai salari. Di conseguenza i Paesi dovrebbero perseguire una svalutazione esterna, cioè un adeguamento del loro tasso di cambio, anziché una svalutazione interna, realizzata attraverso tagli salariali. Se Keynes fosse vissuto oggi, raccomanderebbe la Grexit e l’uscita dall’euro degli altri paesi che si trovano in crisi economica. Il ritorno alle valute nazionali restituirebbe ai singoli paesi il Controllo della loro politica monetaria, che potrebbe finalmente allinearsi alle esigenze di ciascuna economia nazionale. Era fatale che intrappolare Germania e Grecia insieme in un’unica politica monetaria avrebbe avuto conseguenze disastrose. La situazione attuale non è una sorpresa, ma una conseguenza logica dell’Unione Monetaria Europea.

Perché l’élite politica dell’Unione europea rifiuta perfino di prendere in considerazione anche solo la possibilità che un paese esca dall’eurozona, per non parlare di sviluppare un quadro giuridico – di cui ci sarebbe bisogno già da molto tempo – per un simile evento? L’unica risposta è che l’euro è ormai una questione ideologica. L’euro è il simbolo di un’unione sempre più stretta. Per questo è considerato “politicamente scorretto” nel giro delle istituzioni europee mettere in discussione la forma attuale dell’Euro, nonostante gli enormi costi sociali che infligge all’Europa meridionale.

TgCom News24 e A.Zoratti, Sbilanciamoci online, 5-6 luglio 2017 (i.b)

TGCom News24, 6 luglio 2017
CETA: ACCORDO DI LIBERO SCAMBIO
EU E CANADA ENTRA IN VIGORE
di Carlo Max Botta

L’accordo di libero scambio tra la UE e il Canada entra in vigore, anche se in forma provvisoria in attesa delle ratifiche parlamentari dei vari stati membri.

Siamo di fronte a un’altra minaccia molto preoccupante partorita nelle stanze segrete della Commissione Europea, la commissione che oggi rappresenta probabilmente il nido mondiale delle lobby. Il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement ) è un trattato simile al TTIP stipulato tra l’UE e il Canada.

Tribunali aziendali. Come il contestatissimo TTIP, anche il CETA prevede un nuovo sistema giuridico, aperto solo alle società e agli investitori stranieri. Questo permetterà alle aziende canadesi di citare in giudizio il governo (nel nostro caso l’Italia) per ‘ingiustizia’ ogni volta che i loro profitti vengono considerati a rischio. Lo stesso vale per un gran numero di società americane che hanno interessi in Canada. In poche parole le lobby potranno istituire una sorta di tribunale sovranazionale privato la cui giurisdizione si pone addirittura al di sopra del nostro ordinamento giuridico.

Una vera follia. Sarà l’ennesima entità indipendente autopotenziata che tutelerà gli interessi delle lobby, svincolandosi allo stesso tempo da ogni giudizio sia morale che politico (come appunto la BCE, il FMI e la stessa Commissione Europea)! Una sorta di dittatura togata che a suon di miliardi potrà mettere in difficoltà qualsiasi Stato che provi ad intralciare gli interessi delle lobby e delle multinazionali.

Il CETA elimina sia le barriere tariffarie (dazi doganali appunto) che quelle non tariffarie, ovvero dei livelli minimi di standard qualitativi previsti per tutte le categorie di prodotto scambiato, inclusi quelli agricoli e sanitari, con enormi ripercussioni negative in termini sociali, economici, ambientali e salutari.

Il Canada ad esempio produce un grano che richiede trattamenti chimici per ovviare alla mancanza del clima ottimale per farlo maturare: sole e sana ventilazione (come ad esempio le aree del sud Italia). Queste sostanza oltre che cancerogene sono pericolosissime in termini genetici.

In merito a tale aspetto sono stati analizzate (su mandato della Coldiretti pugliese) alcune note marche di pasta italiane che hanno adoperato negli ultimi lotti il grano canadese. Dai risultati emerge che tali paste manifestano livelli altissimi di sostanze velenose che nei grani italiani sono pressoché inesistenti.

Inoltre va sottolineato, l’incredibile revisione di tolleranza della Commissione Europea, infatti gli euro-commissari hanno alzato il tasso di tolleranza dell’80% di tali veleni per facilitare appunto il commercio di questi prodotti sulle nostre tavole (tolleranze che prima del CETA erano proibite addirittura già per alimenti destinati agli animali in allevamento).

Tali nuovi livelli di “idoneità” rendono la pasta pericolosa ai bambini al di sotto dei 3 anni (livelli di DON), pertanto già oggi i packaging dovrebbero riportare obbligatoriamente che “il prodotto non può essere somministrato a bimbi di età inferiore ad anni 3“. Capite che invece di migliorare la salubrità alimentare, tali accordi legalizzano l’esatto contrario?

Nessun notiziario però racconta ciò che lo scrivente ha vissuto personalmente a Bruxelles, parlo del modus operandi di tali trattati. Le regole sono più ferree dei vecchi apparati come il KGB sovietico. Giudicate voi se esagero. Innanzitutto a nessun parlamentare è concesso entrare nelle stanze in cui le multinazionali, lobbisti e commissari europei discutono le sessioni del trattato.

I membri accreditati alla commissione che possono entrare nelle “stanze segrete” non possono portarvi all’interno il telefonino, nessun apparecchio elettronico, ancor meno registratori, nessun foglio di carta per appunti e nemmeno una banale biro! Capite la follia? Se fosse una cosa bella e lodevole per il popolo perchè tutta questa ossessionata segretezza? Con una corretta informazione non verrebbe più tollerata questa linea vile ed ingannevole di promozione della lobby UE.

Lo scopo del CETA è quello di ridurre il regolamento per affari. Potrebbero venir meno a tutto campo le basi di tutele per cittadini, lavoratori, consumatori, ambiente ecc; in quanto ritenuti «ostacoli agli scambi». In poche parole anche la nostra Costituzione che si basa sulla salvaguardia della salute e di quei diritti inalienabili, per il CETA è un ostacolo intollerabile (ecco il motivo del tribunale sovranazionale).

Una minaccia per i servizi pubblici. Se non è abbastanza chiaro, lo Stato sarà obbligato attraverso il CETA a cedere alle multinazionali i servizi pubblici inalienabili, fra questi cito ad esempio energia, acqua e sanità. Chi avrà la possibilità economica potrà “comprarsi” tali servizi, mentre per gli altri non ci sarà alcuna pietà o Un orrore che cancellerà ogni dignità del cittadino, specie per le future generazioni.

CETA è una minaccia per l’ambiente. Vengono legalizzati usi di idrocarburi altamente inquinantiattualmente proibiti in Europa oltre ad alzare i livelli di tolleranza di inquinamenti in più campi (che si manifesteranno appunto intolleranti per la salute e per l’ambiente)

Insomma questa Europa impone solo provvedimenti e direttive che, guarda caso, sono tutte, ripeto, tutte azioni che si vedono in netto contrasto con la nostra Costituzione, ma soprattutto in contrapposizione con le esigenze reali e le volontà dei cittadini.

Sbilanciamoci online, 5 luglio 2017
LA LUNGA MARCIA DEL CETA
di Alberto Zoratti

Non è bastato Justin Trudeau, il primo ministro canadese in visita in Italia durante il G7 di Taormina, a far calmare gli animi accesi sul CETA, l’accordo di libero scambio tra UE e Canada sulla strada della ratifica parlamentare. Ci hanno provato, descrivendo il leader canadese come un novello Kennedy, salito sulla trincea della lotta al cambiamento climatico e della difesa delle libertà economiche dinanzi all’America First di Donald Trump. “Un leader femminista”, come ha avuto modo di presentarlo la presidentessa della Camera Laura Boldrini, all’interno di una narrazione che preparava la strada al processo più sostanziale dell’approvazione del trattato.

La lunga corsa inizia da lontano. Era il 2009 e gli accordi di libero scambio di seconda generazione (che comprendono cioè sia l’abbattimento dei dazi che delle barriere non tariffarie) erano appena venuti alla luce. In quel momento gli occhi erano puntati sull’accordo con la Corea del Sud, trattato molto sensibile non solo per i nostri produttori di riso ma anche per le nostre case automobilistiche, che vedevano nei colossi sudcoreani dei possibili competitori. E dove non ha potuto l’agricoltura ci hanno pensato le auto, considerato che l’unico veto all’approvazione dell’accordo con la Corea al Consiglio Europeo dell’ottobre 2011 fu proprio italiano.

Fu in quel brodo primordiale che prese forma il CETA, negoziato in modo opaco e sostanzialmente segreto (le questioni legate alla trasparenza vennero affrontate solo con il TTIP alcuni anni dopo, grazie alle ingenti mobilitazioni e alle pressioni della società civile) fino al settembre 2014, quando con una stretta di mano Unione Europea e Canada suggellarono un accordo che a quanto diceva l’allora Commissario europeo De Gutch avrebbe dovuto vedere la luce in breve tempo. “EU only”, pensavano: dopotutto venne interpretato come “accordo non misto”, cioè di pura competenza europea, e avrebbe avuto il fast track della sola ratifica europarlamentare.

Ma le cose non furono così semplici. Da una parte la mobilitazione della società civile, che spinse fortemente per il carattere misto dell’accordo (cioè con competenze concorrenti Stati membri – Unione europea) e che portò alla decisione di renderlo tale nel Consiglio Europeo del luglio 2016. Nei primi mesi del 2017 la Corte di Giustizia Europea confermò la posizione mista, con una sentenza sull’accordo Unione Europea – Singapore sul suo capitolo investimenti (che era al centro della contesa). Questo fu il caso in cui l’Italia perse quel minimo scatto di orgoglio di pochi anni prima: la Campagna Stop TTIP Italia pubblicò nel giugno 2016 un carteggio privato tra il Ministro Carlo Calenda e la Commissaria Malmstrom in cui l’Italia sosteneva l’ipotesi del carattere EU only. Che in parole semplici significava: evitiamo la ratifica del nostro Parlamento, per correre più veloci verso l’approvazione.

Altri furono gli ostacoli in questa corsa contro il tempo, che vedeva come spade di Damocle le elezioni francesi, quelle potenziali italiane, le tedesche e la stessa Brexit. Nell’ottobre 2016 toccò alla piccola Vallonia, il cui parlamento è titolato a ratificare accordi commerciali (conditio sine qua non per la ratifica del Parlamento belga), e al suo primo ministro Paul Magnette. La lotta di Davide contro Golia durò quasi un mese, velato di minacce, pressioni e intimidazioni. Ma il piccolo parlamento nordeuropeo riuscì comunque nell’impresa di far mettere nero su bianco alcune “linee rosse” da non superare, non ultime la questione dello sviluppo sostenibile e quello della tutela degli investimenti.

Già, perchè a far fronte alle proteste della società civile ci pensava la retorica europea secondo la quale questi accordi di nuova generazione, come TTIP e Ceta, avrebbero garantito alti standard sociali e ambientali. Peccato che il capitolo specifico sia solamente consultivo, che il rispetto alle Convenzioni dell’OIL sia sottolineato ma per nulla rafforzato con meccanismi di enforcement chiari, a differenza di ciò che riguarda la questione investimenti dove un arbitrato specifico ha la possibilità di imporre richiesta di compensazione economica davanti a un arbitrato a quei Governi (nazionali o locali) accusati di distorsione del mercato (o di esproprio indiretto, con un’interpretazione molto ampia). Uno sbilanciamento molto pericoloso, che rischia di diminuire lo spazio di agibilità degli Stati.

Un esempio di come questi due ambiti siano in conflitto lo si trova in Germania, vicino ad Amburgo, dove la Vattenfall (impresa energetica scandinava con molti interessi nel nucleare e nel termoelettrico tedesco), facendo leva su un accordo internazionale di liberalizzazione dell’energia di cui Germania e Svezia sono firmatari (Energy Charter Treaty) è riuscita a far modificare a sua favore una norma sull’emissione di acque di scarico dalla sua centrale termoelettrica alla periferia della città tedesca grazie alla denuncia davanti a un arbitrato. La causa è finita in patteggiamento, con la municipalità di Amburgo che ha scelto di allentare le norme. Peccato che pochi anni dopo, con una sentenza resa pubblica nell’aprile scorso, la Corte di Giustizia Europea ha strigliato il Governo tedesco proprio perché quell’allentamento negli standard è andato contro le norme di tutela ambientale comunitaria.

Anche il CETA presenta un capitolo sulla tutela degli investimenti. Al posto dell’arbitrato classico investitore – Stato (ISDS) una mobilitazione internazionale durata più di un anno ha indotto l’Unione Europea a proporre un dispositivo riformato: un po’ più trasparente e pubblico, ma ispirato agli stessi principi dei vecchi arbitrati. Pochi passi avanti e parziali, secondo le campagne internazionali, che chiedono che il capitolo sia stralciato definitivamente o congelato.

Ma d’altra parte, cosa potrebbe accadere? Il recente caso Ombrina Mare è significativo: l’impresa energetica Rockhopper, propietaria dell’impianto denuncia l’Italia davanti a un arbitrato dell’Energy Charter Treaty con una possibile richiesta di 13 milioni di euro (i dati però non sono pubblici) per il ritiro della concessione di prospezione e di estrazione di idrocarburi dall’Adriatico. Un’azione prevedibile, considerato che sono già diverse le cause a cui l’Italia dovrà rispondere, sempre sotto l’ombrello dell’ECT, per la rimodulazione degli incentivi al fotovoltaico, ma che evidentemente non scalfisce la piena fiducia delle istituzioni negli arbitrati, qualunque struttura abbiano.

Lo sbilanciamento è talmente evidente che lo scorso 3 luglio, a un seminario con la società civile organizzato a Bruxelles dalla direzione commercio internazionale – DG Trade – della Commissione europea proprio sul capitolo “Sviluppo sostenibile” dei trattati di libero scambio, Georgios Altintzis dell’ITUC (International Trade Union Confederation, la confederazione internazionale dei sindacati) sottolineava come il modello proposto negli accordi commerciali sia inaccettabile: problemi con la Corea del Sud sulla libertà di associazione sindacale, con il Guatemala e il Salvador sempre sul rispetto delle Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL) o con la Colombia per il rispetto della Convenzione CITES sulle specie protette, non riescono a essere affrontati e risolti perchè il meccanismo è troppo farraginoso e inconcludente. “Bisognerebbe far sottostare l’approvazione dei trattati di libero cambio da parte dei Parlamenti alla ratifica e applicazione delle Convenzioni OIL e di quelle ambientali” ha sottolineato con forza Altintzis, ma Madeleine Tuininga, direttrice del dipartimento Commercio e Sviluppo sostenibile della DG Trade ha chiarito come “esistano approcci differenti, ognuno con i suoi pro e contro”. In attesa del documento annunciato dalla Commissione Europea sullo sviluppo sostenibile e il commercio, queste parole non depongono a favore di un sostegno incontrastato all’attuale politica commerciale comunitaria.

Criticità evidenti, quindi, ma almeno con il CETA le indicazioni geografiche sono protette, così sottolinea il Ministero dello Sviluppo Economico. “In Canada riceveranno protezione”, ricorda Coldiretti, “un elenco di 171 prodotti ad indicazione geografica dell’Unione Europea tra cui figurano 41 nomi italiani rispetto alle 289 denominazioni Made in Italy registrate”. I produttori canadesi potranno continuare ad utilizzare il termine Parmesan ma anche produrre e vendere, come già fanno, Gorgonzola, Asiago, Fontina (anche se con l’indicazione Made in Canada). Il prosciutto di Parma Dop con il CETA potrà entrare in Canada, ma in coesistenza con quello dell’azienda privata che ne ha registrato il marchio. Una vittoria? Non sembrerebbe.

Eppure nonostante questi limiti e queste criticità, il Governo italiano corre verso una ratifica impedendo un vero dibattito nel Paese. Alla fine di giugno alla Commissione Esteri del Senato una maggioranza PD – Forza Italia, con l’assenza di Articolo Uno MDP, ha spianato la strada verso Palazzo Madama.

Ma in strada, o meglio in piazza – il 5 luglio a piazza Montecitorio – scendono anche la Campagna Stop TTIP Italia, Coldiretti, Slow Food, CGIL, Greenpeace e molti altri, per chiedere uno Stop immediato alla ratifica, e l’apertura di un serio dibattito attorno al tema degli impatti sociali e ambientali non solo del CETA, ma anche degli altri trattati che la Commissione europea sta negoziando, nonostante le critiche e gli avvertimenti provenienti dalla società civile e dal mondo produttivo della piccola e media impresa.

Riferimenti
Sull'argomento abbiamo pubblicato diversi articoli. Segnaliamo in particolare l'appello di Alex Zonatelli e la delucidazione di Monica di Sisto
La solita ricetta sviluppista-neocolonialista pronta a fare affari unicamente attraverso opere faraoniche inutili per i "dannati dello sviluppo" e a relazionarsi con governi pronti a svendere risorse e diritti.

il manifesto, 6 luglio 2017 (p.d.)

L’hanno chiamato «Compact with Africa», ma il presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara, ha voluto ribattezzarlo come «Piano Merkel». Pilastro centrale della presidenza tedesca del G20, nonché tema centrale del summit di Amburgo del 7 e 8 luglio, «Compact with Africa», si presenta come una massiccia iniziativa per rafforzare gli investimenti privati in Africa, «precondizione essenziale per una crescita forte, bilanciata e sostenibile del continente».

«Non un banale aiuto economico a paesi in via di sviluppo», ha tuonato a più riprese Merkel, ma un programma che mira a una «globalizzazione più inclusiva». Parola del ministro dell’economia di Berlino Wolfgang Schäuble. È la vecchia storia della povertà che si combatte con grandi infrastrutture, trasporti, energia e settore idrico in primis, e con la privatizzazione serrata di quelle già esistenti. In sintesi, il solito mantra del G20 che aspira a mobilitare capitali privati attraverso apparenti nuove forme di partenariato pubblico-privato e di meccanismi finanziarizzati. Quegli stessi che sono la causa principale delle crisi ripetute e quindi dell’intensificarsi della povertà. Eppure, nell’apparente miopia che sottende questo circolo vizioso, si attivano i «soliti noti».

Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Banca africana di sviluppo in testa, al fine di negoziare con i paesi africani piani d’azione specifici per ogni Stato, a patto che si rendano disponibili ad attuare riforme adeguate «per migliorare il clima degli investimenti». A suggellare questo vincolo di amorosi sensi si candida il G20, garante d’eccellenza per potenziali investitori incerti.

Ricetta vecchia, ingredienti ammuffiti, verrebbe da dire. Il sempre meno credibile Club dei 20, che ben poco ha fatto per prevenire crisi come quella che gli ha dato i natali nel lontano 2008, si propone come l’architrave politico per eccellenza per creare l’infrastruttura finanziaria necessaria a migliorare le condizioni di vita in Africa. O, ancor meglio, a rilanciare il Continente Nero come laboratorio della narrativa sviluppista, in salsa privata. Tralasciamo il fatto che il Compact for Africa non fa assolutamente tesoro delle tante esperienze negative del passato, cioè i costi pagati dalle popolazioni in nome dello sviluppo, il peggioramento dei servizi, la mancanza di trasparenza nelle operazioni e nei contratti, la cessione di ampi spazi di democrazia e l’aumento dei rischi finanziari per il pubblico.

Accantoniamo anche il «piccolo dettaglio» che «migliorare il clima per gli investitori» significa ridimensionare la sovranità degli Stati nella loro funzione di regolamentazione degli investimenti e che il Compact for Africa trascura i già deboli vincoli finanziari fissati, ad esempio, a garanzia della sostenibilità nell’ambito dell’Accordo per il Clima di Parigi. Proviamo pure a dimenticarci che nessuno sembra preoccuparsi di come tutto ciò potrebbe costituire il punto di inizio di una nuova crisi del debito africano. Fino a qui, infatti, niente di nuovo.

«Aiutiamoli a casa loro», è l’unica apparente novità in un racconto che altrimenti sembrerebbe scritto nella vulgata di moda all’epoca degli aggiustamenti strutturali, condito di sostenibilità come panacea di tutti i mali. Il mondo è cambiato, tocca adeguarsi. Negli anni ’80 e ’90 in Occidente non si moriva ancora per colpa delle bombe, il Mediterraneo non era ancora un cimitero, il vincolo tra sfruttamento di risorse in Africa e sicurezza in Europa non era ancora un tema, e l’ipocrisia cinica, violenta e razzista di chi ci governa non era ancora chiara come oggi.

Il nostro sistema si sente sotto attacco. Davanti alla minaccia di soccombere, anche la retorica buonista dell’aiuto in nome della solidarietà non basta più. Quindi, per dirla con le parole della cancelliera Merkel, «migliorare le condizioni in Africa equivale a creare più sicurezza per noi». Ben consapevole che di fronte al si salvi chi può in cui versa l’Occidente la solidarietà non porta benefici elettorali, con un’ abile mossa la cancelliera trasforma la crisi in opportunità, assicurando ai capitali privati, alle multinazionali straniere, alle banche e fondi d’investimento la possibilità di continuare a depredare l’Africa per molti anni a venire, con la rassicurazione che adesso, oltre che per aiutare loro, tuteliamo anche la nostra sicurezza.

In questo quadro però, fa pensare il fatto che il Compact for Africa irrompe sull’agenda globale proprio mentre gli Stati membri della insicurissima Europa si accapigliano sulla questione migranti e si affannano a blindare le frontiere, allorquando l’Italia fa la voce grossa minacciando di chiudere i porti di approdo, la Germania indaga le Ong per immigrazione clandestina e pressoché ovunque si tenti di trasformare la solidarietà in reato. Il Re è già nudo, ma forse va spogliato ancora un po’. Il mondo è un campo di battaglia, il doppio standard nelle relazioni internazionali da malevola eccezione è diventata la regola, la criminalizzazione dello «straniero» ha raggiunto un punto tale per cui perfino il mantra dell’«aiutiamoli a casa loro» è cosa già vecchia ed è oramai soppiantato da una deriva esplicitamente xenofoba e islamofobica. Tuttavia a casa loro si continua ad andare.

A firmare i contratti multimilionari per grandi infrastrutture, preferibilmente senza gare d’appalto, con interventi militari mascherati da missioni di pace, pompando petrolio e gas fino ad afflosciare il pianeta come un pallone sgonfiato, e a vendere armi a regimi repressivi, tappandosi gli occhi su dove e come quelle stesse armi verranno usate. Tanto poi ci pensa la cooperazione allo sviluppo alla ricostruzione. Ma una buona notizia, per chi dice di governarci c’è, eccome. Possono smetterla di affaticarsi a trovare modi sempre più innovativi per mascherare scelte politiche privatistiche con il bene collettivo. Non c’è più bisogno di inventarsi pericolosi equilibrismi per salvare la forma, o la faccia. È tutto chiaro, sotto gli occhi di tutti. Anche dei milioni di sconfitti dalla globalizzazione, nel Sud come nel Nord del mondo, che la storia che proprio la globalizzazione genererà inclusione non se la sono mai bevuta. E che, sospettiamo, continueranno a non farlo.

Corriere della sera /economia, 4 luglio 2017, con postilla

La chiusura delle frontiere ai cittadini extracomunitari fino al 2040 potrebbe costare alle casse dell’Inps 38 miliardi. È quanto emerge da una simulazione presentata oggi dal presidente Inps, Tito Boeri, secondo il quale con la chiusura delle frontiere agli immigrati fino al 2040 avremmo 73 miliardi in meno di entrate contributive e 35 miliardi in meno di prestazioni sociali destinate agli immigrati «con un saldo netto negativo di 38 miliardi». Insomma, «una manovrina in più da fare ogni anno per tenere i conti sotto controllo». Secondo Boeri «una classe dirigente all’altezza deve avere il coraggio di dire la verità agli italiani: abbiamo bisogno di un numero crescente di immigrati per tenere in piedi il nostro sistema di protezione sociale».
L’Inps ha eseguito una simulazione dell’evoluzione da qui al 2040 della spesa sociale e delle entrate contributive nel caso in cui i flussi di entrata di contribuenti extra-comunitari dovessero azzerarsi: «Nei prossimi 22 anni avremmo 73 miliardi in meno di entrate contributive e 35 miliardi in meno di prestazioni sociali destinate a immigrati, con un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse dell’Inps». Gli immigrati che arrivano in Italia sono sempre più giovani e rappresentano 150mila contribuenti in più ogni anno; molti - spiega Boeri - lasciano il nostro Paese prima di maturare i requisiti per la pensione e ci regalano i loro contributi: «Nostre stime prudenziali sono ad oggi di circa un punto di Pil». «Abbiamo perciò bisogno di più immigrati - è la conclusione di Boeri - Impedire loro di avere un permesso di soggiorno quando sono in Italia è la strada sbagliata perché li costringe al lavoro nero e li spinge nelle mani della criminalità».

Più giovani, più contributi. Ma il saldo...

«Gli immigrati che arrivano da noi siano sempre più giovani: la quota degli under 25 che cominciano a contribuire all’Inps è passata dal 27,5% del 1996 al 35% del 2015. In termini assoluti si tratta di 150.000 contribuenti in più ogni anno». In questo modo ha spiegato il presidente: «Compensano il calo delle nascite nel nostro Paese, la minaccia più grave alla sostenibilità del nostro sistema pensionistico, che è attrezzato per reggere ad un aumento della longevità, ma che sarebbe messo in seria difficoltà da ulteriori riduzioni delle coorti in ingresso nei registri dei contribuenti rispetto agli scenari demografici di lungo periodo».

Nel 2016, secondo dati di preconsuntivo, il saldo finanziario dell’Inps è stato negativo per 180 milioni di euro, contro i +1.434 milioni del 2015. Il patrimonio netto è passato da 5.870 milioni a 254 e l’avanzo di amministrazione da 36.792 a 36.612 milioni. Nel presentare il Rapporto annuale, il presidente ha fatto notare che i «disavanzi contabili dell’Inps offrono una rappresentazione fuorviante delle sostenibilità del nostro sistema previdenziale né offrono informazioni aggiuntive sullo stato dei conti pubblici nel loro complesso, perché le stime del disavanzo e del debito pubblico dell’Italia non cambierebbero ripianando i debiti dell’Inps nei confronti dello Stato. Per azzerare questo debito dell’Inps e riportare il suo stato patrimoniale ampiamente in territorio positivo, basterebbe infatti trasformare le anticipazioni in trasferimenti a titolo definitivo, come già avvenuto nel 1998, nel 2011 e nel 2013. Il tutto senza alcun aggravio per il disavanzo e il debito pubblico».

Salario minimo

Il blocco dell’adeguamento all’aspettativa di vita per la pensione di vecchiaia «non è una misura a favore dei giovani», dice ancora Boeri presentando la Relazione al Rapporto annuale dell’Istituto a proposito della discussione sul possibile stop nel 2019 all’adeguamento dell’età di uscita, spiegando che i costi si «scaricherebbero sui nostri figli e sui figli dei nostri figli». Sarebbe meglio - spiega - fiscalizzare una parte dei contributi all’inizio della carriera lavorativa per chi viene assunto con un contratto stabile.
Secondo il presidente è anche arrivato il momento per l’introduzione del salario minimo nel nostro ordinamento. «Avremmo il duplice vantaggio - dice - di favorire il decentramento della contrattazione e di offrire uno zoccolo retributivo minimo per quel crescente nucleo di lavoratori che sfugge alle maglie della contrattazione». Boeri afferma che «le premesse ci sono» ricordando che il nuovo contratto di prestazione occasionale fissa una retribuzione minima oraria. «Di qui il passo è breve - conclude - per introdurre il salario minimo».

Effetto articolo 18

Sul Jobs Act Boeri pensa che: «Quello che il contratto a tutele crescenti sembra avere fatto è rimuovere il tappo alla crescita delle imprese sopra la soglia dei 15 dipendenti (ex art 18 dello Statuto dei lavoratori, ndr). I nostri studi, nell’ambito del programma VisitInps Scholars dimostrano — ha spiegato il presidente — che c’è stata un’impennata nel numero di imprese private che superano la soglia dei 15 addetti: dalle 8mila al mese di fine 2014, siamo passati alle 12mila dopo l’introduzione del contratto a tutele crescenti». Boeri ha inoltre precisato che «gli incentivi fiscali non sembrano avere avuto alcun ruolo in questo contesto, come era legittimo attendersi dato che la decontribuzione era la stessa sopra e sotto la soglia».

Male il congedo di paternità. E il reddito delle donne...
«Il congedo di paternità obbligatorio non è stato in gran parte applicato. Due terzi dei neopadri non hanno preso neanche il giorno obbligatorio nel 2015, l’anno in cui questa misura è stata maggiormente adottata. Se l’obiettivo di questa legge era quello di stimolare una maggiore condivisione degli oneri per la cura dei figli e di cambiare le percezioni di datori di lavoro restii ad assumere le donne in età fertile, il risultato è stato molto deludente», ha spiegato Boeri. «Impensabile cambiare attitudini - continua - se non si introducono sanzioni per le imprese che violano la legge e se non si va al di là di uno o due giorni di congedo di paternità obbligatorio. Il cambiamento culturale e nelle norme sociali che il congedo di paternità vuole favorire non può essere incoraggiato con un congedo simbolico».

Sul fronte maternità, invece, «Il reddito potenziale delle donne lavoratrici subisce un calo molto accentuato (-35% nei primi due anni dopo la nascita del figlio), soprattutto fra le donne con un contratto a tempo determinato, perché provoca lunghi periodi di non-occupazione. Non sorprende perciò constatare come la crisi abbia fortemente ridotto le nascite (-20% nel Nord del paese)». I costi della genitorialità potrebbero essere fortemente contenuti non solo rafforzando i servizi per l’infanzia, «ma anche e soprattutto promuovendo una maggiore condivisione della genitorialità», conclude Boeri.

postilla
Forse il saldo negativo delle entrate che si avrebbe con la chiusura delle frontiere aiuterà a far cambiare idea ai governanti. Ben vengano tutti i punti di vista che contribuiscono a comprendere la stoltezza di questa manovra. Ma non bisogna dimenticare che la ragione prima e fondamentale per combattere le attuali politiche di contenimento e respingimento dei migranti deve rimanere la difesa di tutti gli esseri umani, al di là e al di qua delle frontiere, nonché la salvaguardia dei principi elementari della nostra civiltà.

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