Una tesi sulla Sinistra, di Edoardo Salzano, e un dialogo tra Salzano ed Enzo Scandurra. La discussione è aperta, anche nei commenti in calce al testo.
Premessa
La parola “Sinistra” viene adoperata in modo ricco di molteplici ambiguità. Abbiamo avviato una riflessione per comprendere quale significato possa assumere in una situazione – quella di oggi – radicalmente diversa di quella del secolo in cui quell’espressione ebbe maggior fortuna. Una parola che comunque continua a costituire un riferimento per gli immaginari e le strategie di oggi.
Abbiamo iniziato a ragionarne con un articolo di Edoardo Salzano, dal titolo “La parola sinistra”, scritto nel luglio 2017 in replica a uno scritto di Enzo Scandurra, e abbiamo proseguito con un dialogo tra Salzano e Scandurra. Pubblichiamo oggi l’articolo originario di Salzano, con il titolo “una Tesi”, e il successivo dialogo tra Salzano e Scandurra, con il titolo “un Dialogo”. La pubblicazione di questi due testi vuole essere lo stimolo ad aprire un dialogo più ampio.
UNA TESI
di Edoardo Salzano
Quando si parla di “sinistra ci si riferisce generalmente, in Italia, quella sinistra politica le cui vicende hanno contrassegnato il XIX e XX secolo. Una vicenda che in Italia ha visto i primi passi nella “predicazione “ socialista di Camillo Prampolini e Filippo Turati, poi ha proseguito con la fondazione del Partito comunista d’Italia e la partecipazione determinante alla Resistenza, ed ha avuto a mio parere il momento più alto nel PCI, il “partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”.
Quella vicenda è proseguita poi sempre più stancamente negli anni successivi: quando il rosso, scolorandosi in un rosa sempre più pallido, si è mescolato con colori sempre più scuri. Riassumerò quella vicenda utilizzando quattro parole chiave: globalizzazione capitalista, sviluppismo, migrazioni, disoccupazione
1.Globalizzazione capitalista
La sinistra, nell’assumere come compito storico la difesa delle classi sociali direttamente sfruttate dal capitalismo, ha anche accompagnato le varie fasi della nascita e dell’affermazione di quel sistema contrattando le forme e i limiti dello sfruttamento riuscendo, a al tempo stesso, in gran parte del mondo, i principi della Rivoluzione liberale dove essi consentivano il maggior peso del potere antagonista delle classi lavoratrici.
Il momento culminante del ruolo salvifico della sinistra si manifestò negli anni delle Seconda guerra mondiale. Il potere del proletariato e delle altre classi subalterne si era affermata come prima forma di un ordinamento nuovo (il “socialismo”, predicato e praticato come prima tappa del percorso verso il”comunismo”). Esso tuttavia non aveva “rotto la catena del potere capitalista nel suo “punto più alto” (l’Europa e gli Usa, permeati da principi liberali), ma nel “punto più basso”(là dove erano falliti i tentativi di introdurre forme diverse dall’autocrazia zarista e dalla servitù della gleba)
In quegli anni, emerse il mostro covato nelle viscere del capitalismo, il Nazismo. La sua presa del potere in uno dei paesi chiave del capitalismo, la Germania, fu immediatamente seguita dalla tigre asiatica, il Giappone, e dal vassallo mediterraneo, l’Italia. Seguì. sperimentazione di nuovi strumenti di guerra in Ispagna. Poi qualcosa cambiò.
Dopo una fase di tentennamenti, si costituì l’alleanza antifascista degli stati e delle aree politico-culturali e sociali che storicamente esprimevano le due facce del capitalismo reale, quello “di Stato”, in Urss e quello “privato a sostegno statale” nel resto del mondo permeato dai principi del liberalismo. Quell’alleanza sconfisse la peggiore catastrofe che minacciava l’umanità:la vittoria dell’Asse nazifasciata nel mondo.
Ma all’indomani dello scioglimento di quell’alleanza nacque la nuova risposta strategica alle “velleità” di superare il capitalismo: la Dottrina Truman. Nel frattempo le difficoltà interne e gli impegni militari avevano condotto all’interruzione del sostegno da parte dell’Urss all’indipendenza di molti stati dell’Africa.
Dal “socialismo reale” non si avanzò mai verso il “comunismo”
2. Sviluppismo
Quella stessa sinistra che ha accompagnato e “servito” l’evoluzione storica del sistema capitalistico aveva collaborato con esso (oppure aveva subìto senza comprendere né reagire) in alcune operazioni che hanno radicalmente mutato il quadro delle ideologie, dei valori, delle strategie e delle pratiche di quel sistema, preparando il terreno per quell’assetto dei poteri che caratterizza oggi il mondo “globalizzato”, e viene diversamente definito dai diversi analisti: da “Neoliberalism” (David Harvey) a “Finanzcapitalismo” Luciano Gallino).
Mi riferisco a una serie di operazioni di vario genere e operanti su vari piani, che hanno coinvolto e stravolto la persona umana in molte sue dimensioni. Mi riferisco all’aver accettato, da parte delle sinistre del passato, la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, effettuata quando la riduzione dei profitti conseguente alle conquiste delle classi lavoratici aveva spinto le classi dominanti a compensarla con un aggravamene e un ampliamento dello sfruttamento dei popoli via via colonizzati (vedi la denuncia di Lenin in L’imperalismo fase suprema del capitalismo).
E mi riferisco soprattutto a quella che è stata definita “la credenza dello sviluppo” (Gilbert Rist, Lo sviluppo, Storia di una credenza occidentale) Qualcosa che è molto più che una ideologia o una convinzione razionale, ma è una fede quasi fanatica per la possibilità dell’indefinito aumento della capacità della produzione di merci, e dell’applicazione di sempre più evolute tecnologie, per affrontare e risolvere tutti i mali del mondo.
La cecità di questa credenza è risultata evidente quando le ragioni dell’ecologia hanno iniziato ad apparire: quando i “limiti dello sviluppo”, l’impossibilità di conservare il pianeta Terra continuando a consumarlo in dosi sempre più massicce, hanno fatto emergere una “consapevolezza ecologica”. E quando poi i fenomeni planetari connessi a queste cause sono apparsi nella vita quotidiana (l’effetto serra, il surriscaldamento dell’atmosfera, la desertificazione di vaste aree, lo scioglimento dei ghiacci).
Eppure, anche laddove e quando questa realtà ha cominciato a diventare evidente a gran parte della “vecchia sinistra” questa è rimasta incollata alla sua credenza. Lungi dall’abbandonarla ha inventato a slogan, strumenti e proposte presentati come capaci di guarirne gli effetti.
È nata così la “green economy”: un aggiustamento marginale del sistema economico dato, e da parte questo “sostenibile”, cioè “sopportabile. Il camuffamento operato dalla Commissione Bruntland, che ha fornito così oltretutto una parola, “sostenibilità”, da pronunciare ore rotundo da tutti gli sviluppisti mascherati, nonché un nuovo campo d’affari all’altra creatura della cecità della “vecchia sinistra: il Neoliberalism.
3. Migrazioni
Un ragionamento altrettanto severo è necessario se si esamina il ruolo svolto dalla “ sinistra” nei confronti dell’altra grande tragedia dei nostri tempi: quella delle migrazioni. Come non seppe comprendere l’avvento della globalizzazione capitalista, come cascò nella trappola dello sviluppismo, così non comprese che l’imperialismo analizzato da Lenin era sopravvissuto alla fase del colonialismo: era divenuto “imperialismo puro”, potere dominatore molto al di là dello sfruttamento economico: potere capace di plasmare i molteplici dispositivi mediante i quali pochi uomini riescono ad asservire tutti gli uomini. Non è certamente un caso se le ultime grandi manifestazioni per la pace – un campo peculiare alla sinistra mondiale – si siano spente dopo la ventata del 1968. come se la sinistra si fosse ormai rassegnata alla vittoria definitiva del capitalismo
Si tratta, in sostanza, di un’altra faccia dello “sviluppismo” Si tratta di non aver compreso che per eliminare tutte le cause del dolorante esodo dal Sud ai Nord del mondo occorreva rovesciare completamente le ideologie le strategie, i modelli specifici da applicare per eliminare le cause dalla migrazioni provocate da guerre e persecuzioni, carestia, siccità, sfratti. Occorreva, in altri termini, abbattere e trasformare dalle radici il capitalismo.
4. Disoccupazione
Dimenticare l’errore originario del capitalismo (aver ridotto ogni cosa a merce, a partire dal lavoro) ha condotto la sinistra a balbettare di fronte al crescente dramma dalla disoccupazione.
Karl Marx ha dato una definizione della forza lavoro e del lavoro da un punto di vista generale, antropologico, esterno quindi al capitalismo: «Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere. (Capitale , libro Primo, sezione III); «In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita (Capitale, libro Primo, sezione IV).
Partendo da questa premessa e sviluppandola grazie al lavoro di Claudio Napoleoni ho sostenuto che il lavoro può (vedi l’eddytoriale n. 144) e quindi deve, essere utilizzato dall’uomo non solo in relazione alla sua propria sussistenza e riproduzione, ma a qualsiasi fine socialmente utile e produttore di valor d’uso a cui egli ritenga utile applicarlo, comprendendo tra tali attività tutte quelle finalizzate alla ricerca della verità, della bellezza, della comunicazione di se stesso e alla comprensione degli altri, Possiamo parlare di “comunismo”? non so. mediante l’impiego di tutti gli strumenti espressivi impiegabili.
Naturalmente, ciascuno di tali impieghi del lavoro dovrebbe essere retribuito nella misura necessaria per continuare a svolgerlo. È l’economia, in altri termini, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia. Il contrario di ciò che avvviene nel sistema capitalistico.
So che si tratta di una tensione per la fuoriuscita dal capitalismo, ma mi sembra l’unica capace di dare una speranza alle crescenti vittime di questo sistema.
5. Una Sinistra inutile?
La “sinistra” di cui disponiamo non ha compreso, e non è stata quindi capace di combattere, le quattro tragedie dominanti di oggi: la globalizzazione capitalistica, lo sviluppismo, le migrazioni, la disoccupazione. Agli occhi di molti ne è stata anzi complice. Com’è possibile allora che abbia credito chi si propone un’aggregazione di tutti quelli che hanno sbagliato (e continuano a sbagliare?)
L’errore di fondo della sinistra è stato quello di non aver compreso che per contrastare quelle tragedie con qualche efficacia, e con quel tanto di fiducia nell’avvenire che è necessario per alimentare la speranza, era necessario fare esattamente l’opposto di quello che si stava facendo. Occorreva riprendere la lotta per il superamento integrale del capitalismo, e non consumarsi in qualche guerriglia contro l’una o l’altra delle sue incarnazioni. Lottare per un’altra economia in un’altra società. Una prospettiva comunista? Forse, ma non solo parolaia.
Nessuno può pensare che sia possibile camminare in questa direzione con i protagonisti, e con le residue o restaurate sigle, della sinistra inutile che popola i palazzi e i palazzetti del potere.
Non so quanta parte dell’elettorato che si è allontanato dalle urne negli ultimi anni sia insoddisfatto delle risposte, o delle mancare risposte della sinistra a quelle tragedie. E non è neppure certo che l’offerta politica di Anna e Tomaso sia immediatamente percepita nella sua consistenza rinnovatrice. Così come, del resto. sono abbastanza sicuro che quella proposta abbia bisogno di tempo per maturare e dar luogo a risultati significativi nei risultati elettorali. È una proposta strategica, ma senza una strategia affidabile per i suoi obiettivi e i suoi metodi non esistono tattiche valide. Perciò è probabile che nell’immediato, si dovrà scegliere, ancora una volta, di votare per una delle offerte politiche che saranno meno lontane dalla strategia preferita.nella spernza che sia l’ultima volta.
Edoardo Salzano, 14 luglio 2017
UN DIALOGO
tra Enzo Scandurra e
Edoardo Salzano
Enzo a Eddy 17 luglio 2017
Caro Eddy,
rispondo solo ora alla tua lucidissima replica al mio articolo: “c’è vita a sinistra….”, perché sono in vacanza in un luogo da dove è difficile leggere la posta e, ancor più, spedirla. Ti scrivo in forma privata ma lascio a te la decisione di pubblicarla senza alcuna riserva, se la ritenessi utile al dibattito in corso.
Inutile dirti che concordo in tutto con la tua lunga analisi politica delle sventurate vicende della sinistra. Il mio, consentimi questa difesa, era un appello fatto con l’ottimismo della volontà. La tua replica è fatta con il (legittimo) pessimismo della ragione. Siamo entrambi, dunque, inseriti perfettamente nell’ossimoro gramsciano.
Ora io penso che nella storia vanno colte le occasioni che si presentano e che, una volta passate, rischiano di non presentarsi più o tra molti, troppi anni. Le condizioni favorevoli a un cambiamento (ovvero alla formazione di una vera sinistra) sono:
- La debolezza politica della “proposta” renziana che stenta ormai a tenere uniti anche i più fedeli seguaci, già stanchi della sua pomposa retorica;
- Lo spostamento fuori campo di Bersani, D’Alema e altri
- Il carisma di cui gode ancora Pisapia
- La novità della proposta Falcone-Montanari,
- L’avvitamento su posizioni di destra del Movimento 5 stelle: hanno smesso di credere nella politica e nel cambiamento e, non ultimo, lo sconcerto per l’inettitudine della gestione della Capitale da parte del Sindaco Raggi.
Se non ora, quando? Mi riferisco alla costruzione di una vera sinistra. Tu dici: perché credere in coloro che ci hanno traditi o, almeno, hanno tradito lo spirito di una sinistra (con riferimento a Bersani, ecc.)? Concordo con te, ma ripeto quello che ho già detto nell’articolo: le cattedrali si costruivano con le pietre che erano in terra. E questo noi abbiamo, altro non è dato o, almeno, la congiuntura storica non offre. L’anomalia della condizione italiana è che il cambiamento non può – per il momento – che essere innescato dall’alto, nella speranza che, dal basso, nel tempo, nasca un vero movimento che non si riduca semplicemente al dissenso o alla protesta, pur legittima. Solo allora assisteremo alla nascita di nuovi leader. Tu dici che questo assemblaggio, che dovrebbe costituire la vera sinistra, è diviso anche su questioni di fondo. Sì, diciamolo con franchezza, lo è e niente fa pensare, a breve termine, che non lo sarà più anche dopo. E del resto, dovremmo forse aspettare che una destra barbara salga al potere per sciogliere i tormenti della sinistra? Io ribadisco, non ignorando le tue giuste critiche, la convinzione che la congiuntura storico-politica è favorevole. Spetta a noi saperla cogliere.
Con ciò ti rinnovo, nell’apparente dissenso, tutta la mia stima e il mio affetto, Enzo
Eddy a Enzo 19 luglio 2017
Caro Enzo, ti ringrazio molto di proseguire questo dialogo e continuare ad aiutarmi pensare dialogando . Forse stiamo soltanto facendo una piccola testimonianza di democrazia…
Tu continui a pensare che i ruderi del passato non siano solo materiali per comprendere la nostra storia, ma anche pietre con cui costruire le cattedrali del futuro. E credi ancora nella possibilità di costruire qualcosa di nuovo innescandolo “dall’alto”. Io no.
Per scendere al concreto (si fa per dire) io vedo i residui della sinistra come profondamente intrisi, ancora oggi, da due elementi pestiferi poichè impediscono di comprendere il presente e progettare un futuro umano: la “credenza dello sviluppo” e la convinzione che il capitalismo non sia superabile. Non è, questo, un rimprovero che faccio ai D’Alema e ai Bersani del passato, ma a quelli di oggi.
Questo sul piano degli elementi di fondo. Sul piano elettorale sono altrettanto convinto che il bacino elettorale costituito dagli astenuti sia irraggiungibile agitando i nomi e le bandiere della sinistra trascorsa.
Non sono ancora sicuro che non sia necessario raggiungere il fondo dell’abisso («che una destra barbara salga al potere», come dici) per risalire. Del resto non vedo una grande differenza, a parte i modi, tra ciò che si agita nel complesso cuore-cervello-pancia di Minniti e quello di Salvini
E poi, che cosa significa oggi “una vera sinistra”? Se cerco di rispondere individuando un’analogia posso risponderti che la sinistra di oggi sarebbe (o sarà) quella che difende gli sfruttati di oggi. Ma se ragiono su quello che ho imparato dell’oggi in cui viviamo mi accorgo che oggi noi, il mondo della vecchia sinistra, apparteniamo, e da tempo, alla semisfera degli sfruttati, non a quella degli sfruttatori. Gli sfruttati di oggi sono quelli che giacciono al fondo del Mediterraneo, e gli altri bruciano nei loro deserti in attesa di raggiungerli.
Abbattere il capitalismo e costruire una nuova economia in una nuova società. Questo è forse il compito storico che ci spetterebbe. Lo sviluppismo è la cecità che ci impedisce di comprenderlo.
Per onestà e sincerità devo aggiungere che non sono sicuro che i nocchieri del piccolo vascello che si chiama “Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” condividano interamente le mie posizioni. Ma sono certo che non esprimano semplicemente al dissenso o protesta, ma qualcosa di più. Mi sembra che questa frase del loro appello dica molto in proposito:
«La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide: queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciate da un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: E’ pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso e innovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta».
Ciao Enzo, alla prossima(poi, se sei d’accordo, inserirò su eddyburg tutto il dialogo)
Enzo a Eddy 20 luglio 2017-
leggo e rileggo le obiezioni che tu muovi al mio “ottimismo della volontà”. Cerco di trovare nella tua replica un errore, qualcosa che mi dica: “Ecco, qui Eddy sbaglia!” Ma non lo trovo. Anzi, a volte io stesso aggiungerei al tuo “pessimismo della ragione” ulteriori elementi e considerazioni.
Siamo una specie dannata, un incidente biologico, l’unica specie che si accanisce contro la natura considerata altro da noi. Il Mito di Prometeo, il fuoco salvifico della tecnica, continua a vivere nel nostro Occidente: fa proseliti, arruola giovani, ingrossa ogni giorno il suo esercito minaccioso. Siamo molecolarmente assuefatti all’idea di uno Sviluppo che infine ci salvi, a quella che una Tecnica possa risolvere per sempre i nostri problemi, nel mentre continuiamo imperterriti nella nostra opera di devastazione sociale e ambientale.
Eppure, ieri mattina ho sentito Vezio, emozionato all’idea che il progetto Bagnoli riparta. Ho sentito, e non è la prima volta, un amore incontenibile in lui, per Napoli, per Bagnoli, per la possibilità di un progetto di riscatto; un riscatto che quella città meriterebbe dopo essere stata profanata e, ancora oggi, vilipesa da giornalisti stranieri incompetenti. Quel suo amore mi ha contagiato, così che ho di nuovo pensato: “Eddy sbaglia, una possibilità ci deve essere ancora, c’è ancora”.
Ma poi la cronaca quotidiana degli avvenimenti - quanto morti affogati oggi? -, mi riporta alla nostra condizione di miseria sociale, all’indifferenza e all’apatia di un Europa che è solo un’immagine sbiadita di quella culla di civiltà che è stata nei tempi (ma non è in questa terra che sono nati Goethe, Shakespeare, San Francesco, Leopardi?), a quel mare tra le terre che è stato un ponte tra Occidente e Oriente, luogo dove è nata la civiltà che era frutto di ibridazione come ci ricorda Braudel, e oggi cimitero di vite miserabili, senza nome, di bambini che del mondo hanno conosciuto solo le sofferenze e le privazioni. E penso, come Cesare Pavese, che ogni guerra è una guerra civile, perché guerra tra umani contro altri umani.
Le statistiche ci dicono il numero di morti che non ha raggiunto quelle terre da dove sono partiti i colonizzatori a depredare le loro risorse. Ma ogni vita, ogni singola vita, chiede ascolto e pietà. Che ne sappiamo di loro? Solo numeri, cifre, statistiche. Cosa pensavano durante quel viaggio mai terminato sui barconi della morte? Quali amori hanno lasciato nelle loro terre e quali speranze coltivavano? Per loro il Mediterraneo non è stato un ponte, ma una bara. Noi non sappiamo nulla di loro, se non che sono i nostri nemici, che attentano il nostro effimero benessere, i nostri mercati di merci corrotte.
Tu, Vezio, io dopo di voi, altri ancora dopo di noi, hanno coltivato la speranza, e la passione, che buoni progetti potessero rendere accoglienti le nostre città, renderle più vivibili, più a misura d’uomo. E ogni giorno scopriamo che leggi ingiuste e mosse dal mito del mercato e dello sviluppo, distruggono territori, devastano paesaggi, mercificano bellezze. Venezia, come Firenze, come Roma, città stuprate, involgarite, dove la bellezza, come diceva Camus, si è ritirata, si è nascosta, in attesa di essere ricercata, semmai qualcuno se ne ricorderà di farlo.
Non vado oltre; come vedi non riesco a trovare in quel che dici l’”errore”. Ma coltivo un sogno, quel sogno che ha sempre animato la sinistra, che ha prodotto passioni, sacrifici di vite umane, agitato masse, e che non ha mai smesso di far girare il mondo.
Eddy a Enzo 21-23 luglio 2017
A questo punto reagisco, e ricordo a me stesso che nella mia firma ho scritto: “dum spiro spero”, con inchiostro a volte verde a volte rosso. E ricordo un brano di Italo Calvino che conclude, nel senso se non nel testo, “Le città invisibili”:
«L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Forse è da qui che bisogna partire. Dal saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Forse nel nostro mestiere siamo in grado di riconoscere “quello che non è inferno”, e possiamo “additarlo” Più difficile è “dargli spazio”, occorrerebbe avere poteri che non abbiamo.
Per riconoscere “quello che non è inferno” c’è però un passo preliminare da fare: far comprendere “che cosa consideriamo inferno”. Per la nostra generazione è abbastanza facile. Se ci riferiamo ai tempi e luoghi nei quali abbiamo avuto la fortuna di avere il confronto tra ieri e oggi ti dà subito la misura del baratro. Spiegarlo ai giovani, senza apparire né essere nostalgici è già un bel problema.
Forse bisogna partire non da ciò che ai nostri occhi è inferno, ma da ciò che è vissuto come “inferno” dai giovani. La disoccupazione?, la mancanza di futuro? La solitudine? Chi più ne ha più ne metta. Qui sento, nel nostro dialogo, l’assenza di un..interlocutore giovane.
Il passo successivo dovrebbe essere il far comprendere perché e come l’”inferno” è nato. Già più facile, rientra nei nostri saperi. La parola chiave è forse quella che riassume il messaggio di Anna e Tom: “un’economia che uccide”. Raccontare, e continuamente, far riconoscere che cosa il capitalismo è, e come e perché è alla radice di ogni “inferno”: da quello del fondo del Mediterraneo a quello dell’Africa, da quello del territorio che si sfascia a quello della forza lavoro inutilizzata, da quello della solitudine a quello del razzismo…
«Più difficile è “dargli spazio», dicevo, «occorrerebbe avere poteri che non abbiamo», dicevo. Da soli non li avremo mai, ovviamente. Solo con gli altri. Ma con quali altri? Da questa domanda, ricorderai, è iniziato il nostro dialogo.
Enzo a Eddy, 11 agosto 2017
Io penso che la semplicità (ancorché radicalità) con la quale hai risposto all’intervista di oggi su il Manifesto, a proposito del tentativo di affossare il piano paesaggistico regionale della Sardegna, è esemplare. Hai ben spiegato “cos’è inferno” e perché; almeno nella nostra disciplina e, anzi, con valore più vasto.
In tema di ambiente sono piuttosto pessimista. Se, a fronte di questi cambiamenti climatici ormai oggettivamente osservabili, ancora c’è spazio per i negazionisti per affermare che si tratta di cose semplicemente naturali, allora penso che quando anche loro prenderanno atto di quanto accade, sarà ormai già troppo tardi per prendere provvedimenti.
Continuo a pensare invece che una possibile intesa generale di tutte le forze di sinistra che non si sentono rappresentate dal PD, sia possibile; difficile, ma possibile.
Ci sono temi e argomenti sui quali non si può essere in disaccordo: la questione dei migranti, la crescente diseguaglianza tra persone, il furto di futuro (soprattutto per i giovani), la disoccupazione (soprattutto al sud), il disastro ambientale. In questo hai ragione: queste cose bisognerebbe chiamarle: inferno e ripeterlo all’infinito. Qui non ci sono compromessi possibili. Ora io penso che i nostri rappresentanti delle tante forme di vita a sinistra, dovrebbero mettere da parte le loro risibili identità politiche per identificare (per usare la metafora di Calvino) quello che è inferno, senza inutili distinguo, ponendo a terra quelle inutili bandierine e tristi vessilli con i quali si tenta di evocare una presunta purezza identitaria. Le persone che dovrebbero assumere su di sé questa responsabilità, sono poche, lo so. Preferiscono in genere partecipare a quel triste rito del “dibattito” politico con tono di prudenza, come se dovessimo vivere per altri cento anni.
Così come capisco che i veri leader nascono dalla (e nella) lotta e non nei salotti di Vespa. Per questo dicevo che in ogni caso, anche in quello più positivo, un cambiamento per ora non può che essere innescato dall’alto. Il nostro Palazzo d’Inverno non è minacciato da nessuna folla.
Eddy a Enzo 21-23 luglio 2017
A questo punto reagisco, e ricordo a me stesso che nella mia firma ho scritto: “dum spiro spero”, con inchiostro a volte verde a volte rosso. E ricordo un brano di Italo Calvino che conclude, nel senso se non nel testo, “Le città invisibili”:
«L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Forse è da qui che bisogna partire. Dal saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Forse nel nostro mestiere siamo in grado di riconoscere “quello che non è inferno”, e possiamo “additarlo” Più difficile è “dargli spazio”, occorrerebbe avere poteri che non abbiamo.
Per riconoscere “quello che non è inferno” c’è però un passo preliminare da fare: far comprendere “che cosa consideriamo inferno”. Per la nostra generazione è abbastanza facile. Se ci riferiamo ai tempi e luoghi nei quali abbiamo avuto la fortuna di avere il confronto tra ieri e oggi ti dà subito la misura del baratro. Spiegarlo ai giovani, senza apparire né essere nostalgici è già un bel problema.
Forse bisogna partire non da ciò che ai nostri occhi è inferno, ma da ciò che è vissuto come “inferno” dai giovani. La disoccupazione?, la mancanza di futuro? La solitudine? Chi più ne ha più ne metta. Qui sento, nel nostro dialogo, l’assenza di un..interlocutore giovane.
Il passo successivo dovrebbe essere il far comprendere perché e come l’”inferno” è nato. Già più facile, rientra nei nostri saperi. La parola chiave è forse quella che riassume il messaggio di Anna e Tom: “un’economia che uccide”. Raccontare, e continuamente, far riconoscere che cosa il capitalismo è, e come e perché è alla radice di ogni “inferno”: da quello del fondo del Mediterraneo a quello dell’Africa, da quello del territorio che si sfascia a quello della forza lavoro inutilizzata, da quello della solitudine a quello del razzismo…
«Più difficile è “dargli spazio», dicevo, «occorrerebbe avere poteri che non abbiamo», dicevo. Da soli non li avremo mai, ovviamente. Solo con gli altri. Ma con quali altri? Da questa domanda, ricorderai, è iniziato il nostro dialogo. Ma per stasera basta. A presto, carissimo Enzo
11 agosto 2017 Enzo a Eddy
Che dire? Io penso che la semplicità (ancorché radicalità) con la quale hai risposto all’intervista di oggi su il Manifesto, a proposito del tentativo di affossare il piano paesaggistico regionale della Sardegna, è esemplare. Hai ben spiegato “cos’è inferno” e perché; almeno nella nostra disciplina e, anzi, con valore più vasto.
In tema di ambiente sono piuttosto pessimista. Se, a fronte di questi cambiamenti climatici ormai oggettivamente osservabili, ancora c’è spazio per i negazionisti per affermare che si tratta di cose semplicemente naturali, allora penso che quando anche loro prenderanno atto di quanto accade, sarà ormai già troppo tardi per prendere provvedimenti.
Continuo a pensare invece che una possibile intesa generale di tutte le forze di sinistra che non si sentono rappresentate dal PD, sia possibile; difficile, ma possibile.
Ci sono temi e argomenti sui quali non si può essere in disaccordo: la questione dei migranti, la crescente diseguaglianza tra persone, il furto di futuro (soprattutto per i giovani), la disoccupazione (soprattutto al sud), il disastro ambientale. In questo hai ragione: queste cose bisognerebbe chiamarle: inferno e ripeterlo all’infinito. Qui non ci sono compromessi possibili. Ora io penso che i nostri rappresentanti delle tante forme di vita a sinistra, dovrebbero mettere da parte le loro risibili identità politiche per identificare (per usare la metafora di Calvino) quello che è inferno, senza inutili distinguo, ponendo a terra quelle inutili bandierine e tristi vessilli con i quali si tenta di evocare una presunta purezza identitaria. Le persone che dovrebbero assumere su di sé questa responsabilità, sono poche, lo so. Preferiscono in genere partecipare a quel triste rito del “dibattito” politico con tono di prudenza, come se dovessimo vivere per altri cento anni.
Così come capisco che i veri leader nascono dalla (e nella) lotta e non nei salotti di Vespa. Per questo dicevo che in ogni caso, anche in quello più positivo, un cambiamento per ora non può che essere innescato dall’alto. Il nostro Palazzo d’Inverno non è minacciato da nessuna folla.
20 agosto 2017 Eddy a Enzo
La folla c’è, Enzo, ma non sa di esserlo. È la massa crescente degli “sfruttati dallo Sviluppo”, dalla quale quali emerge, per ora, solo l’aggressione del terrorismo…
file scaricabile qui
R.it scienze, online, 21 agosto 2017
Elon Musk (Tesla) e altri 116 fondatori di aziende di robotica e intelligenza artificiale chiedono di bloccare la corsa agli armamenti autonomi. Si rischiano conflitti destabilizzati da queste tecnologie
"Fermate i soldati-robot" è l'appello che 116 fondatori di aziende di robotica e intelligenza artificiale - tra cui Elon Musk, da sempre sensibile a questo tema e Mustafa Suleyman, fondatore di DeepMind (Google) - lanciano all'Onu da Melbourne, dove sono riuniti nella International Joint Conference on Artificial Intelligence (IJCAI).
La lettera è l'accorata reazione dell'industria dell'intelligenza artificiale alla notizia che il primo meeting del gruppo di esperti governativi (Gge) sui sistemi di armi letali autonome, che avrebbe dovuto aver luogo ieri, è stato rimandato a data da desinarsi. "Invitiamo i partecipanti ai lavori del GGE a sforzarsi di trovare modi per prevenire una corsa agli armamenti autonomi, per proteggere i civili dagli abusi e per evitare gli effetti destabilizzanti di queste tecnologie" recita la lettera aperta.
"Le armi letali autonome minacciano di essere la terza rivoluzione in campo militare. Una volta sviluppate, permetteranno ai conflitti armati di essere combattuti su una scala più grande che mai, e su scale temporali più veloci di quanto gli umani possano comprendere: sono armi che despoti e terroristi potrebbero rivolgere contro popoli innocenti, oltre che armi che gli hacker potrebbero riprogrammare per comportarsi in modi indesiderabili. Non abbiamo molto tempo per agire: una volta aperto il vaso di Pandora, sarà difficile richiuderlo"
Cosa cambia di più quando ad essere impiegati nei conflitti sono macchine in grado di prendere in autonomia decisioni letali quando hanno un nemico umano nel mirino? Innanzitutto c'è un incentivo all'azione militare perché si elimina il contraccolpo psicologico della guerra: "Se si usano i robot autonomi per le operazioni militari, il danno psicologico della guerra - pensiamo all'impatto sull'opinione pubblica della morte di un soldato - diventa un mero danno economico: la distruzione di un robot non è nulla di più che una perdita in un bilancio" spiega a Repubblica.it uno dei primi firmatari dell'appello: Alberto Rizzoli, fondatore di AIPoly, startup che ha lanciato un'app che grazie all'intelligenza artificiale permette ai ciechi di fruire di descrizioni audio di ciò che il loro smartphone inquadra. "Se si trattasse soltanto di robot contro robot, un conflitto sarebbe un'attività poco efficace, visto che è più semplice implementare delle sanzioni piuttosto che sprecare milioni di dollari in un "match" tra macchine intelligenti. Purtroppo è più probabile che i robot killer vengano utilizzati per attaccare esseri umani".
Un elemento di rischio in più è la sostanziale imprevedibilità delle decisioni prese da un'intelligenza artificiale sufficientemente sofisticata: "L'autonomia ha subito un importante cambiamento dal 2012: siamo passati da sistemi prevedibili e programmati manualmente all'uso di reti neurali. Ovvero una vasta serie di neuroni artificiali organizzati in matrici che possono essere addestrati a ripetere, comprendere e prevedere dati numerici in un modo ispirato alla corteccia visiva animale" spiega Alberto Rizzoli.
"Il problema è che le reti neurali sono probabilistiche di natura: un po' come la mente umana, una volta addestrate non possono essere analizzate in dettaglio per capire esattamente perché hanno preso una decisione - magari letale - invece di un'altra. Il cervello di questi robot è una "scatola nera" che compie decisioni, a volte anche sbagliate, che ancora non riusciamo ad analizzare bene. Se un drone autonomo è dotato di armi, bisogna essere certi che non colpisca civili e innocenti, e bisogna che qualcuno sia legalmente responsabile per il suo operato: non si può dar la colpa a un algoritmo". Siccome tutta questa possibilità di controllo appare ancora difficile da ottenere, la strada più praticabile è quella del bando e delle sanzioni per i Paesi trasgressori.
"Per fortuna siamo riusciti ad evitare la diffusione di armi chimiche e nucleari in maniera efficace negli ultimi 70 anni, con qualche eccezione seguita da pesanti sanzioni" osserva Rizzoli. "Forse con un trattato potremmo ottenere lo stesso auspicabile risultato con le armi autonome. Il rischio è comunque alto: il prezzo dei sistemi autonomi scenderà negli anni, e costruire un robot killer nel 2035, ad esempio, sarà come costruire un mortaio improvvisato ad Aleppo nel 2015. L'unica vera soluzione è quella di rendere la guerra obsoleta, cosa che comunque sta succedendo col tempo, dove ogni guerra regala sempre di meno ai vincitori perché il valore economico dei Paesi si è trasferito dalle risorse fisiche (ovvero quelle conquistabili) alle risorse mentali e operative dei loro abitanti".
«La rimozione delle statue “sudiste” ha fatto riesplodere tensioni latenti che ormai degenerano in vero conflitto sociale, non più soltanto fiammate di rabbia dopo le violenze della polizia sui neri».
Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2017 (p.d.)
Siamo nel grande subbuglio americano. Adesso che Donald Trump si è voluto intromettere nella montante diatriba tra suprematisti bianchi e attivisti antirazzisti, coi suoi provocatori commenti e con la sua iper-provocatoria equidistanza dalle parti, la questione è divenuta di portata nazionale, con echi internazionali. Come se davvero solo ora, fuori tempo massimo, gli americani scoprissero la contrapposizione frontale destra-sinistra che in altri luoghi del dibattito politico è superata e archiviata.
L’oggetto del contendere non sfiora nemmeno la cosa sociale, né mette in discussione i principi del capitalismo americano e della piramidale distribuzione delle ricchezze. Il conflitto è interamente abbarbicato all’idea di razza, alle interpretazioni di diritto, sopraffazione e risarcimento, e a quel proposito di “salvare la vecchia America” su cui questo presidente ha trasformato un’incerta campagna elettorale in un prodigio. Questo confronto sempre più acre, acuito dalla partecipazione della traballante amministrazione-Trump, dimostra ancora una volta che la questione della razza in America non solo non è risolta, ma nemmeno anestetizzata. E che gli incidenti a sfondo razziale che hanno punteggiato l’ultimo biennio dell’amministrazione Obama, in particolare quelli che hanno messo sul banco degli accusati le forze di Polizia e il loro rapporto con la comunità afroamericana, erano solo il battistrada di un fronteggiamento che adesso sta scalando rapidamente i gradi del conflitto sociale.
Non è più questione di esplosioni ingiustificate di violenza a sfondo razzistico a opera di agenti indottrinati a produrre distinguo anticostituzionali nello svolgimento delle loro mansioni. A impadronirsi dello scontro è la piazza e le fazioni contrapposte di due visioni incompatibili dell’America d’oggi. Un’America autoprotezionistica, razzista e “chiusa” e un’America progressista e “aperta”, ora dai tratti insolitamente belligeranti. L’insofferenza tra le due parti è divenuta altissima e sono bastati pretesti, come il procedimento di rimozione di statue dei combattenti confederati nella Guerra Civile, per stabilire un’atmosfera di scontro sociale che aggrava il senso d’impotenza di cui l’America della politica ufficiale si sente investita. Quale degli eletti a Washington ha vere chances di parlare agli americani in turbolenza, con l’opportunità d’essere ascoltato? Esistono leader acclarati, in ciò che resta dei due grandi partiti?
Trump ha cominciato a etichettare quei dimostranti antirazzisti come membri di una frangia “alt-left”, parte di una sinistra alternativa fuori dagli schemi della politica tradizionale. Altrettanto, i “fascisti” presentatisi a Chalottesville, città della venerabile Università della Virginia, con torce e bastoni per urlare che l’America deve restare bianca, dai media vengono etichettati come “alt-right”, destra alternativa. Due “non appartenenze” politiche, due tribù aliene, che accendono uno scontro da cui la Washington del Congresso si sente estranea e nel quale non vorrebbe sporcarsi le mani. Ma nel quale, invece, un presidente in delirio ha preso ad affondare le mani, sull’onda del suo protagonismo. È spuntato il tono derisorio e paternalistico dei suoi tweet, i suoi ammiccamenti all’area grigia del razzismo e infine le lodi pronunciate da David Duke, vecchio leader del Ku Klux Klan, per la sua onestà e il suo coraggio.
È uno scenario di caos: un presidente instabile, disinformato, divisivo; un Congresso immobilizzato in un’impotenza votata solo al contenimento dei danni; uno slancio partecipativo popolare che percepisce questa situazione d’emergenza come un risveglio in cui schierarsi da una parte o dall’altra. Una destra estrema che prova a compattare i mille gruppuscoli locali e la crescente insofferenza di chi assiste a questo smantellamento dell’etica americana - non ultimo il drappello di Ceo delle corporation, ritiratisi precipitosamente dal comitato di consultazione attivato dagli amministratori economici di Trump.
La sensazione d’emergenza sale: l’America deve verificare i propri principi fondatvi, se un presidente ammicca a chi scende in piazza per rilanciare la questione che la stessa America bianca ha generato, allorché ha letteralmente inventato il problema della razza. Destra e sinistra alternative ora sono schierate per riesaminare l’interrogativo originale: cos’è l’America? Una repubblica multirazziale o un sistema maschilista, nel quale solo i bianchi hanno diritto a piena cittadinanza? Riaffiora la vecchia narrativa connessa al mito dell’innocenza e falsamente simboleggiata proprio da quelle icone confederate che gli scalmanati separatisti - e un benevolo presidente - provano a difendere. In questo scenario, venerdì è arrivata la cacciata di Stephen Bannon, stratega della campagna di Trump e architetto della sua visione, nella quale ha istillato i principi da ras dell’ultradestra e lo spregiudicato uso delle fake news di cui era l’orchestratore. Trump lo sacrifica a chi gli chiede un gesto di ragionevolezza. Inutile dire che l’immediato riposizionamento di Bannon sarà alla testa di quelle milizie della alt-right che puntano a destabilizzare la nazione. Almeno fin quando la crisi non finirà per sommergere la Casa Bianca.
vocidall'estero.it, online, 18 agosto 2017 (c.m.c)
«Proponiamo la traduzione integrale di un capitolo tratto dal Skin in the Game, l’ultimo libro di Nassim Nicholas Taleb. Con tipica irriverenza e lucidità, Taleb propone un’interpretazione provocatoria e contro-intuitiva delle dinamiche che regolano i comportamenti sociali: a determinate condizioni, i cambiamenti sociali, ben lungi dall’essere causati dalle azioni della maggioranza, sono il frutto dell’ostinata volontà di una minoranza intollerante. In quest’ottica le attuali retoriche di accoglienza, integrazione e tolleranza acquistano un significato inquietante e tendenzialmente auto-distruttivo. Come sempre il messaggio, però, può anche essere visto dalla prospettiva opposta: la consapevolezza di avere una “posta in gioco” nel cambiamento sociale potrebbe portare anche una minoranza virtuosa, purché motivata e determinata, a contrastare l’apparentemente inevitabile declino sociale, economico e culturale».
Perché gli europei mangeranno Halal — Perché non è obbligatorio fumare nella zona fumatori — Le preferenze alimentari al funerale del re saudita–Come impedire ad un amico di ammazzarsi di lavoro – La conversione di Omar Sharif — Come causare un crack dei mercati
Per gettar luce sul funzionamento dei sistemi complessi, inizierei col portare qualche esempio. Se una minoranza intransigente – una minoranza di un certo tipo – raggiunge un livello percentuale anche minimo, diciamo il tre o quattro per cento della popolazione totale, l’intera popolazione dovrà sottostare alle sue preferenze. Inoltre, il dominio della minoranza causa una distorsione ottica: un osservatore sprovveduto potrebbe ritenere che le scelte e preferenze corrispondano a quelle della maggioranza. Se sembra assurdo, è perché le nostre percezioni scientifiche non sono calibrate per comprendere i sistemi complessi (inutile rifarsi a convinzioni scientifiche o accademiche e alle prime impressioni; nei sistemi complessi queste falliscono, e qualsiasi razionalizzazione, tranne la saggezza delle nonne, è destinata a fallire).
L’idea che sta alla base dei sistemi complessi è che l’insieme si comporta in modo non deducibile dalle sue componenti. Le interazioni sono più importanti della natura di ciascuna unità. Studiare le formiche prese singolarmente non potrà mai (e per situazioni di questo tipo si può tranquillamente dire “mai” senza tema di smentita) dare un quadro d’insieme sul funzionamento di una colonia di formiche. Per questo, è necessario studiare una colonia di formiche come una colonia di formiche, né più, né meno, e non come una collezione di formiche. Si ha così una qualità “emergente” del tutto, per la quale le parti e il tutto differiscono, perché ciò che conta è l’interazione tra queste parti. E l’interazione può obbedire a regole molto semplici. La regola discussa in questo capitolo è la regola della minoranza.
La regola della minoranza spiega come sia sufficiente un piccolo gruppo di persone virtuose ed intolleranti che non abbiano niente da perdere, e che abbiano coraggio, perché la società funzioni secondo le loro preferenze.
Questa spiegazione della complessità mi è venuta, inaspettatamente, durante una grigliata all’aperto offerta dal New England Complex Systems Institute. Mentre gli organizzatori apparecchiavano i tavoli e sistemavano le bevande, un mio amico molto osservante, che mangia soltanto Kosher, si avvicinò per salutarmi. Gli offrii un bicchiere di quel liquido giallo zuccherato con aggiunta di acido citrico altrimenti noto come limonata, nella quasi certezza che l’avrebbe rifiutato per via delle sue regole alimentari. Ma così non fu. Accettò e bevve il liquido detto limonata, ed un altro osservante Kosher commentò: “Tanto, tutte le bevande sono Kosher qui”. Diedi un’occhiata al cartone di limonata. In piccolo, stampigliato, c’era un simbolo, una U racchiusa in un cerchio, ad indicare che era Kosher. Il simbolo può essere facilmente identificato dagli interessati, che vanno espressamente a cercare questa minuscola stampigliatura. Tutti gli altri, incluso me, avevamo passato tutti questi anni a bere bevande Kosher senza rendercene conto.
Delinquenti allergici alle noccioline
Allora mi venne una strana idea. La popolazione Kosher rappresenta meno di tre decimi di punto percentuale dei residenti negli Stati Uniti. Nonostante questo, quasi tutte le bevande in commercio sono Kosher. Perché? Semplicemente perché produrre esclusivamente Kosher permette a produttori, distributori e ristoratori di non dover distinguere tra bevande Kosher e non-Kosher con etichette speciali, scaffali separati, inventari separati, magazzini differenti. E la discriminante di tutto ciò è questa:
Chi segue le regole Kosher (o Halal) non mangerà cibo non Kosher (o non Halal), ma chi non segue le regole Kosher può comunque consumare alimenti Kosher.Oppure, trasposto in altri ambiti:Un disabile non userà mai i bagni regolari ma un non-disabile può usare il bagno per i disabili.
Chiaro, a volte nei fatti si esita ad usare un bagno con il simbolo per disabili a causa di una certa confusione – si scambia questa regola con quella dei parcheggi, credendo che l’uso del bagno sia riservato esclusivamente ai disabili.
Chi ha un’allergia alle noccioline non può mangiare prodotti che siano entrati in contatto con arachidi, ma chi non ha questa allergia può tranquillamente mangiare cibi senza traccia di arachidi. Il che spiega perché sia così difficile trovare noccioline in aereo e perché le noccioline siano vietate nelle scuole (contribuendo così ad aumentare il numero di persone con allergie da noccioline, dato che una delle cause di queste allergie è la ridotta esposizione).
Applichiamo ora la regola in ambiti in cui la cosa diventa divertente:
Una persona onesta non commetterà mai atti criminali, ma un criminale può sempre agire legalmente.Chiamiamo la minoranza il gruppo intransigente, e la maggioranza quello flessibile. E la regola è quella della asimmetria nelle scelte.
Una volta ho fatto uno scherzo ad un amico. Anni fa, quando i produttori di tabacco nascondevano e minimizzavano le prove dei danni causati da fumo passivo, i ristoranti di New York avevano aree fumatori e non-fumatori (persino gli aerei, incredibilmente, avevano un’area fumatori). Un giorno andai a pranzo con un amico che era in visita dall’Europa: il ristorante aveva tavoli liberi solo nella zona fumatori. Io riuscii a convincere il mio amico che dovevamo comprare delle sigarette perché per stare nella zona fumatori si doveva fumare. E lui si conformò.
E ancora. Innanzi tutto conta parecchio la geografia del territorio, la sua organizzazione dello spazio; è molto diverso se gli intransigenti vivono tutti insieme o se sono distribuiti in mezzo al resto della popolazione. Se i seguaci della regola di minoranza vivessero in un ghetto, con la loro piccola economia separata, la regola della minoranza non si applicherebbe. Ma se la popolazione è distribuita nello spazio, se ad esempio la percentuale di tale minoranza in un quartiere equivale a quella nel villaggio, quella nel villaggio equivale a quella della provincia, quella della provincia a quella della regione, e quella della regione è la stessa che in tutto il paese, allora la maggioranza (flessibile) dovrà sottostare alla regola della minoranza.
Inoltre, anche la struttura dei costi ha la sua importanza. Nel nostro primo esempio, si dà il caso che produrre limonata conforme alle regole Kosher non cambi molto il prezzo, almeno non abbastanza da giustificare inventari separati. Ma se la produzione di limonata Kosher costasse molto di più, la regola si indebolirebbe in una qualche proporzione non-lineare con la differenza di prezzo. Se produrre cibi Kosher costasse 10 volte tanto, la regola della minoranza non si applicherebbe, tranne forse in qualche quartiere molto ricco.
Anche i musulmani hanno il loro tipo di regole Kosher, ma queste sono più limitate e si applicano solo alla carne. Musulmani ed ebrei hanno infatti le stesse regole di macellazione (tutto ciò che è Kosher è anche Halal per i musulmani, o almeno così era nei secoli scorsi, ma non è sempre vero il contrario). Si noti come queste regole di macellazione siano motivate dalla posta in gioco, e tramandate da pratiche greche e semitiche del Mediterraneo Orientale, in base alle quali le divinità erano venerate solo investendoci qualcosa, come sacrificare animali alla divinità per poi mangiarne i resti. Gli dei non amano le cerimonie a buon mercato.
Ora si consideri questa manifestazione della dittatura della minoranza. Nel Regno Unito, dove la popolazione musulmana (praticante) è solo il tre o quattro per cento, gran parte della carne è Halal. Quasi il settanta per cento delle importazioni di agnello dalla Nuova Zelanda sono Halal. Circa il dieci per cento dei negozi della catena Subway sono Halal (cioè, non servono carne di maiale), nonostante le significative perdite commerciali derivanti dal non poter servire prosciutto. Lo stesso vale in Sudafrica, dove, con la stessa proporzione di musulmani, una quantità sproporzionata di polli sono certificati come Halal. Tuttavia, in UK e in altri paesi cristiani, Halal non è un concetto abbastanza neutro da diffondersi molto, poiché la gente potrebbe ribellarsi se costretta a seguire regole religiose estranee. Ad esempio Al-Akhtal, poeta arabo cristiano del VII secolo, ribadì la scelta di non consumare mai carne Halal in un noto poema provocatorio in cui si vantava del suo Cristianesimo: “Io non mangio carne sacrificale”. (Al-Akhtal si riferiva alla tipica reazione cristiana di tre o quattro secoli prima — i cristiani in epoca pagana venivano torturati obbligandoli a mangiare carne sacrificale, che per loro era sacrilegio. Diversi martiri cristiani morivano di fame.)
Ci si può attendere lo stesso rifiuto delle regole religiose in Occidente, man mano che la popolazione musulmana va crescendo.
Quindi la regola della minoranza potrebbe portare a una maggiore proporzione di alimenti Halal nei negozi rispetto a quanto giustificato dalla proporzione dei consumatori Halal nella popolazione, ma solo fino ad un certo punto, perché alcuni potrebbero sviluppare un’avversione al cibo musulmano. Per certe regole Kashrut (concernenti i cibi Kosher, N.d.T.) senza connotazioni religiose, la percentuale può tranquillamente avvicinarsi al 100%. Negli USA e in Europa i produttori di cibo “biologico” vendono sempre di più proprio grazie ad un’applicazione della regola della minoranza, e perché i prodotti ordinari non etichettati come tali sono spesso percepiti come contenenti pesticidi, erbicidi ed organismi transgenici geneticamente modificati, “OGM”, che secondo alcuni presentano rischi sconosciuti. (In questo contesto OGM si riferisce al cibo transgenico, ottenuto trasferendo geni da un organismo o una specie estranea). Oppure la preferenza può essere dettata da motivi esistenziali, da un atteggiamento di prudenza, o da un’inclinazione (in stile Burke) verso i valori della tradizione – c’è chi preferisce non discostarsi troppo e troppo velocemente da ciò che mangiavano i nonni. L’etichettatura “biologico” è un modo per indicare che quell’alimento non contiene OGM.
Spingendo per gli alimenti geneticamente modificati con mezzi che andavano dalle lobby, alle mazzette ai politici, fino alla palese propaganda scientifica (con campagne diffamatorie contro individui come il sottoscritto), le grandi aziende agricole si illudevano ingenuamente che bastasse avere la maggioranza dalla loro parte. Niente di più sbagliato. Come dicevo, il tipico ragionamento aridamente “scientifico” è troppo poco sofisticato per questo genere di decisioni.
Teniamo presente che chi mangia OGM transgenici può mangiare anche non-OGM, ma non il contrario. Quindi basta che ci sia una piccola parte, non più del 5%, di popolazione che non mangia gli OGM, distribuita uniformemente nello spazio, per far sì che l’intera popolazione finisca con il consumare non-OGM. In che modo? Supponiamo che si debba organizzare un evento aziendale, un matrimonio, o una grande festa per celebrare la caduta del regime saudita, o il fallimento della banca di investimenti speculativi Goldman Sachs, o la pubblica umiliazione di Ray Kotcher, il presidente di Ketchum, l’agenzia di pubbliche relazioni specializzata nel diffamare scienziati e informatori scientifici in nome e per conto delle grandi multinazionali. C’è forse bisogno di mandare questionari per chiedere agli invitati se mangiano o no OGM transgenici e prenotare se è il caso pasti speciali? No. Basta ordinare tutto non-OGM, a meno che la differenza di prezzo non sia significativa. E la differenza di prezzo sembra essere irrilevante, perché il prezzo degli alimentari (freschi) in America è determinato in gran parte (fino all’80 o 90%) dalla distribuzione e stoccaggio, non dal costo di produzione agricola. E dato che la domanda di alimenti biologici (o designati come “naturali”) da parte della minoranza è in continua crescita, i costi di distribuzione diminuiscono e la regola della minoranza finisce con l’accelerare anche questo effetto.
Le grandi imprese agricole industriali non hanno capito che, in questo gioco, per vincere non basta avere più punti dell’avversario, ma bisogna avere il 97% dei punti totali. Ancora una volta, stupisce che a queste grandi aziende, capaci di spendere milioni di dollari in campagne di ricerca e diffamazione, con centinaia di scienziati convinti di essere più intelligenti del resto della popolazione, sia potuto sfuggire un concetto talmente elementare come le scelte asimmetriche.
Un altro esempio: non si pensi che la diffusione di auto con il cambio automatico [negli USA, N.d.T.] sia dovuta necessariamente al fatto che la maggioranza preferisce guidare automatico; potrebbe essere semplicemente il caso che chi sa guidare con il cambio manuale può sempre guidare con quello automatico, ma non il contrario [1].
Il metodo di analisi qui utilizzato è noto come gruppo di rinormalizzazione, un potente apparato matematico che in fisica teorica permette di studiare i cambiamenti nel tempo. Vediamo di che si tratta – senza usare le formule.
Gruppo di rinormalizzazione
La figura in alto mostra quattro riquadri che presentano la cosiddetta auto-similarità frattalica. Ciascun riquadro contiene quattro riquadri più piccoli. Ciascuno dei quattro riquadri contiene quattro riquadri, e così via, verso l’alto e verso il basso fino a raggiungere un certo livello. I due colori rappresentano: il giallo la scelta maggioritaria, il rosa quella minoritaria.
Immaginiamo che l’unità più piccola contenga quattro persone, una famiglia. Uno di questi è la minoranza intransigente e mangia solo alimenti no-OGM (inclusi quelli biologici). Il suo riquadro sarà in rosa mentre gli altri sono gialli. Con la “prima rinormalizzazione”, la figlia testarda riesce ad imporre le sue regole a tutti e quattro, ed il riquadro-famiglia diventa interamente rosa, ovvero tutti sceglieranno no-OGM. Nel terzo passaggio, la famiglia è invitata ad una grigliata cui partecipano altre tre famiglie. Poiché l’ospite sa che loro mangiano solo no-OGM, cucinerà esclusivamente biologico. Lo spaccio alimentare del quartiere, rendendosi conto che i suoi clienti ormai chiedono solo no-OGM, inizierà a vendere solo cibi no-OGM per semplificarsi la vita, il che avrà un impatto sul distributore locale, e così via di rinormalizzazione in rinormalizzazione.
Per caso, il giorno prima del barbecue di Boston, mi trovavo a zonzo per New York, e passai dall’ufficio di un amico cui volevo impedire di lavorare, ossia, svolgere quell’attività che, se abusata, causa perdita di lucidità mentale, nonché cattiva postura e perdita di definizione dei connotati facciali. Il fisico francese Serge Galam si trovava anche lui per caso di passaggio, e aveva deciso di bighellonare un po’ nell’ufficio del mio amico. Galam era stato il primo ad applicare le tecniche di rinormalizzazione alle scienze sociali e politiche; il suo nome non mi era nuovo perché si trattava dell’autore del più importante libro sull’argomento, che da mesi giaceva in una scatola di Amazon mai aperta nella mia cantina. Mi illustrò dunque le sue ricerche e mi mostrò un modello computerizzato di elezioni, in base al quale basta che una minoranza superi un certo livello perché le sue preferenze prevalgano.
Nelle analisi politiche esiste dunque la stessa illusoria convinzione, diffusa dagli “scienziati” politici: si pensa che se un determinato partito di estrema destra o sinistra ha, poniamo caso, il sostegno del 10% della popolazione, ne consegue che il suo candidato otterrà il 10% dei voti. No: gli elettori di riferimento devono essere classificati come “inflessibili” e voteranno sempre per la loro parte. Ma alcuni elettori flessibili possono anche votare per i partiti estremisti, esattamente come chi non osserva l’alimentazione Kosher può mangiare Kosher, e questi sono gli elettori su cui ci si deve concentrare perché possono gonfiare il numero di voti per un partito o l’altro. Il modello di Galan produceva una miriade di effetti contro-intuitivi per le scienze politiche – e le sue previsioni risultavano molto più vicine alla realtà di quanto lo sia un’interpretazione ingenua.
Il veto
Quando una persona è in grado di pilotare le scelte di un gruppo di rinormalizzazione, questo si chiama l’effetto “veto”. Rory Sutherland suggerisce che sia questo il motivo per cui certe catene di fast-food, come McDonald, hanno successo, nonostante la scarsa qualità dei loro prodotti, perché in un certo gruppo socio-economico non vi sono obiezioni a frequentarlo – e solo per una piccola parte di quel gruppo. Per dirla in termini tecnici, si tratta della migliore tra le peggiori ipotesi di divergenza dalle aspettative: quando la media e la varianza sono basse.
Quando ci sono poche scelte, il McDonald sembra l’opzione più sicura. Ed è un’opzione sicura anche in posti poco raccomandabili, con pochi clienti abituali, in cui la varianza del cibo rispetto alle aspettative può essere significativa – sto scrivendo queste righe alla stazione centrale di Milano e, per quanto possa essere offensivo per un visitatore che venga da lontano, il McDonald è uno dei pochi ristoranti frequentabili qui. Sembrerà strano, ma ci vanno anche gli italiani che cercano di salvarsi dai cibi più a rischio.
Lo stesso vale per la pizza: è un tipo di cibo comunemente accettato e, tranne che non ci si trovi in un ristorante di lusso, non c’è nulla di male ad ordinarla.
Rory mi scrisse anche a proposito dell’asimmetria birra-vino e di come questo influenza le scelte ai ricevimenti: “Se la percentuale di donne invitate supera il 10%, non è più possibile servire soltanto birra. Ma la maggior parte degli uomini beve anche vino. Quindi, se si serve solo vino, basta un solo set di bicchieri — il donatore universale, per usare la terminologia dei gruppi sanguigni.”
La strategia del miglior limite inferiore è la stessa adottata dai Cazari per scegliere tra Islam, Giudaismo e Cristianesimo. Narra la leggenda che tre delegazioni di alto livello (vescovi, rabbini e sceicchi) cercarono di convertirli. Ai cristiani venne chiesto: se doveste scegliere tra Giudaismo e Islam, quale preferireste? Il Giudaismo, risposero questi. Poi fu chiesto ai musulmani: quale delle due, Cristianesimo o Giudaismo. Il Giudaismo, dissero i musulmani. Era dunque il Giudaismo, e la tribù si convertì.
Lingua Franca
Se ad un meeting che si svolge in Germania, in un’austera sala conferenze in stile teutonico di un’azienda sufficientemente internazionale o quantomeno europea, uno dei presenti non capisce il tedesco, l’intero meeting si terrà in…inglese, o almeno nell’inglese sgangherato parlato nelle aziende di tutto il mondo. Così si riesce ad oltraggiare sia gli antenati teutonici che la lingua inglese[2]. Tutto cominciò con la regola asimmetrica per cui coloro che non sono di madrelingua inglese parlano (male) l’inglese, ma il contrario (che gli anglofoni parlino altre lingue) è meno probabile. Il francese in passato era la lingua della diplomazia usata dai funzionari, che generalmente erano di estrazione aristocratica – mentre i loro connazionali più rozzi, occupandosi di commercio, si affidavano all’inglese. Nella rivalità tra le due lingue, l’inglese risultò vincitore man mano che il commercio acquisì prevalenza nella vita moderna; questa vittoria non ha nulla a che fare con il prestigio della Francia o gli sforzi dei loro funzionari nella promozione della loro più o meno gradevole ed ortograficamente coerente lingua latina rispetto a quella ortograficamente più confusa dei polpettoni d’oltre Manica.
Si può dunque intuire in che modo l’emergere di una lingua franca possa rispondere alle regole della minoranza – e questo è un aspetto che i linguisti ignorano. L’aramaico è una lingua semitica che soppiantò il canaita (ossia, l’ebraico-fenicio) nel Levante, e somiglia all’arabo; era la lingua parlata da Gesù Cristo. Il motivo per cui riuscì a prevalere nel Levante e in Egitto non è una particolare potenza imperiale semitica o il fatto che hanno una forma del naso interessante. Furono i Persiani – che parlano una lingua indoeuropea – a diffondere l’aramaico, la lingua di assiri, siriani e babilonesi. I Persiani insegnarono agli egiziani una lingua che non era la loro.
Semplicemente, quando i Persiani invasero Babilonia, lì trovarono un’amministrazione con scribi che erano in grado di usare solo l’aramaico e non conoscevano il persiano, quindi l’aramaico divenne la lingua ufficiale. Se un segretario è capace di scrivere sotto dettatura solo in aramaico, gli si deve parlare aramaico. Ciò portò alla stranezza per cui l’aramaico si è diffuso fino in Mongolia, perché i registri di stato erano scritti in siriaco (un dialetto orientale dell’aramaico). Secoli dopo la storia si replicò al contrario, con gli arabi che usarono il greco nei loro primi governi del VII e VIII secolo. Infatti, durante l’epoca ellenistica, il greco aveva soppiantato l’aramaico quale lingua franca nel Levante, e gli scribi di Damasco tenevano i loro registri in greco. Ma non furono i Greci a diffondere il greco in tutto il Mediterraneo – non fu Alessandro (che comunque non era greco ma macedone e parlava un dialetto greco differente) a causare l’immediata e profonda ellenizzazione. Furono i Romani ad accelerare la diffusione del greco, che veniva usato nelle loro amministrazioni in tutto l’Impero orientale.
Un mio amico franco-canadese di Montreal, Jean-Louis Rheault, si lamentò una volta con me a proposito della perdita della lingua dei franco-canadesi fuori dai confini delle province. Disse queste parole: “In Canada, per bilingue si intende anglofono, e per “francofono” si intende bilingue.”
La strada a senso unico delle religioni
Allo stesso modo, la diffusione dell’Islam in Medio Oriente, dove il Cristianesimo era fortemente radicato (essendo nato lì) può essere attribuita a due semplici asimmetrie. In origine, i sovrani islamici non erano particolarmente interessati a convertire i Cristiani, dato che questi pagavano le tasse – il proselitismo dell’Islam non si rivolgeva alle cosiddette “genti del libro”, cioè individui di credo abramitico. In realtà, i miei antenati, che sopravvissero per tredici secoli sotto il dominio musulmano, trovavano vantaggioso non essere musulmani: in particolare, così evitavano la coscrizione obbligatoria.
Le due regole asimmetriche erano le seguenti. Primo, se un uomo non-musulmano sotto dominazione islamica sposa una donna musulmana, deve convertirsi all’Islam – e se uno dei genitori è musulmano, il figlio sarà musulmano[3]. Secondo, essere musulmani è irreversibile, e l’apostasia è il crimine più grave per la religione, punito con la morte. Il famoso attore egiziano Omar Sharif, nato Mikhael Demetri Shalhoub, era di origine cristiana libanese. Si convertì all’Islam per sposare una famosa attrice egiziana e dovette cambiare il nome con uno arabo. Più tardi divorziò, ma non tornò alla religione dei suoi antenati.
Con queste due regole asimmetriche è possibile fare delle semplici simulazioni e vedere come un piccolo gruppo islamico che occupi l’Egitto cristiano (Copto) possa, nel corso dei secoli, portare i Copti a diventare un’esigua minoranza. Basta soltanto una piccola percentuale di matrimoni interconfessionali. Si spiega egualmente perché il Giudaismo non si diffonda e tenda a restare in una minoranza, dato che questa religione segue la regola opposta: la madre deve essere ebrea, e i matrimoni interconfessionali abbandonano la comunità. Un’asimmetria ancora più estrema di quella del Giudaismo spiega la diminuzione in Medio Oriente di tre religioni gnostiche: i Drusi, gli Yazidi e i Mandei (le religioni gnostiche sono quelle in cui i misteri e la conoscenza sono tipicamente accessibili soltanto ad una minoranza di anziani, mentre il resto della comunità è all’oscuro delle questioni religiose). A differenza dell’Islam, dove uno qualsiasi dei genitori deve essere musulmano, e del Giudaismo, dove almeno la madre deve avere quella religione, queste tre religioni richiedono che entrambi i genitori siano della stessa fede, altrimenti la persona viene esclusa dalla comunità.
L’Egitto ha un territorio pianeggiante. La popolazione è distribuita in maniera omogenea, il che permette la rinormalizzazione (cioè permette la prevalenza della regola delle asimmetrie) – come spiegato precedentemente in questo capitolo, perché le regole Kosher diventino prevalenti è necessario che gli ebrei siano distribuiti abbastanza uniformemente nel paese. Ma in posti come il Libano, la Galilea e il nord della Siria, dove il territorio è montagnoso, cristiani e altri musulmani non sunniti sono rimasti isolati. Se i cristiani non vengono in contatto con i musulmani, non vi sono matrimoni interconfessionali.
I Copti d’Egitto hanno anche avuto un altro problema: l’irreversibilità delle conversioni islamiche. Molti Copti si convertirono all’Islam durante il dominio islamico quando si trattava di una procedura puramente burocratica, per poter accedere a determinate professioni o per risolvere un problema che richiedesse la giurisprudenza islamica. Non c’è bisogno di credere, perché l’Islam non è fondamentalmente diverso dal Cristianesimo Ortodosso. Con il passar del tempo una famiglia cristiana o ebrea convertita per convenienza diventa convertita sul serio, e un paio di generazioni più tardi i discendenti dimenticano che quello dei propri antenati era solo un accomodamento.
Quindi l’arma vincente dell’Islam è stata il suo essere più intollerante del Cristianesimo, il quale a sua volta si era imposto grazie alla sua intolleranza. Infatti, prima della nascita dell’Islam, la diffusione del Cristianesimo nell’Impero Romano si può considerare dovuta….alla cieca intolleranza dei cristiani, l’incondizionata, aggressiva resistenza del loro proselitismo. I pagani romani inizialmente tolleravano il Cristianesimo, era nella loro tradizione condividere le divinità con gli altri popoli dell’impero. Ma poi iniziarono a chiedersi perché questi Nazareni non fossero disposti a fare cambio con le loro divinità e ad inserire il loro Gesù nel pantheon romano in cambio di altri dei. Forse i nostri dei non valgono abbastanza per loro? Ma i cristiani erano intolleranti verso il paganesimo romano. Le “persecuzioni” dei cristiani furono causate molto più dall’intolleranza dei cristiani verso il pantheon e gli dei locali che non il contrario. Noi però leggiamo la storia scritta dai cristiani, non dai greco-romani. [4]
Non sappiamo abbastanza del lato dei Romani durante l’ascesa del Cristianesimo, perché il dibattito è stato monopolizzato dall’agiografia: ad esempio, conosciamo la storia di Santa Caterina martire, che continuò a convertire i suoi carcerieri finché non fu decapitata, se non che…probabilmente non è mai esistita. Esistono un’infinità di storie di martiri e santi cristiani – ma quasi nulla sull’altra parte, gli eroi pagani. Gli unici documenti che abbiamo sono quelli sul ritorno al Cristianesimo durante l’apostasia dell’imperatore Giuliano e gli scritti del suo seguito di pagani greco-siriani, come Libanio Antioco. Giuliano aveva inutilmente tentato di ritornare all’antico paganesimo, ma era come cercare di mantenere un pallone sott’acqua. E ciò non perché, come ritengono gli storici erroneamente, la maggioranza fosse pagana: ma perché la fazione cristiana era troppo intransigente. Il Cristianesimo poteva contare su menti brillanti come Gregorio Nazianzeno e San Basilio, ma nessuno che potesse paragonarsi, o almeno avvicinarsi, al grande oratore Libanio. (La mia ipotesi euristica è che più una mente è pagana, più è intelligente, con maggiori capacità di comprendere sfumature ed ambiguità. Religioni puramente monoteistiche come il Protestantesimo, il Salafismo o l’ateismo fondamentalista, riescono a soddisfare solo le menti capaci di ragionamenti letterali e mediocri, incapaci di tollerare le ambiguità.)
Si evidenzia infatti nella storia delle “religioni” mediterranee, o piuttosto dei rituali e sistemi di comportamento e di credenze, una cesura storica operata dagli intolleranti, che ha effettivamente portato a ciò che viene comunemente inteso come religioni. Il Giudaismo avrebbe potuto quasi estinguersi a causa della regola di successione materna e il suo confinamento su base tribale, ma il Cristianesimo poté imporsi, e lo stesso vale per l’Islam. E poi, quale Islam? Ne esistono molte varietà, e il risultato finale è molto diverso dalle versioni precedenti. Perché lo stesso Islam ha finito con l’essere monopolizzato dai puristi (nella sua parte sunnita), semplicemente perché questi erano più intolleranti degli altri: i Wahabbiti, fondatori dell’Arabia Saudita, erano quelli che distruggevano i templi, per imporre le regole più intolleranti, imitati recentemente dall’”ISIS” (l’Islamic State of Iraq and Syria/il Levante). Ogni derivazione successiva dell’Islam sunnita sembra essere concepita per compiacere il suo ramo più intollerante.
Imporre la virtù
Questa idea di unilateralità aiuta a sfatare un certo numero di altri equivoci. Perché i libri vengono messi all’indice? Certamente non perché offendono la gente comune – la maggior parte di loro è passiva e disinteressata, o non abbastanza motivata da richiederne la censura. Sembra piuttosto, sulla base delle esperienze passate, che bastino pochissimi (ma motivati) attivisti per censurare un libro, o includere certe persone in una lista nera. Il grande filosofo razionalista Bertrand Russell perse la sua cattedra alla City University of New York a causa di una lettera scritta da una madre furiosa – e ostinata – per il fatto che sua figlia potesse trovarsi nella stessa aula con una persona dallo stile di vita dissoluto e dalle idee sovversive. [5]
Lo stesso vale per i proibizionismi – almeno negli Stati Uniti il proibizionismo dell’alcool ha originato una serie di storie di mafia davvero appassionanti.
Non illudiamoci che la formazione dei valori morali di una società avvenga come evoluzione del consenso. No, sono i più intolleranti ad imporre la virtù agli altri, proprio in base alla loro intolleranza. Lo stesso vale per i diritti civili.
Esempio questo perfetto per capire come i meccanismi della religione e della trasmissione di regole morali obbediscano alle stesse dinamiche di rinormalizzazione delle regole alimentari – e per mostrare che il senso morale comune non è altro che un’imposizione da parte di una minoranza. Abbiamo visto in precedenza l’asimmetria tra l’osservanza e l’infrazione delle regole: chi rispetta le leggi ( o le regole) seguirà sempre le regole, ma un delinquente, o una persona con una serie di principi più permissivi, non infrangeranno sempre tutte le regole. Analogamente si è discusso l’effetto fortemente asimmetrico delle regole alimentari Halal. Uniamo adesso i due concetti. In arabo classico, la parola Halal ha un suo contrario: Haram. La violazione di disposizioni legali e morali – di qualsiasi tipo – è Haram. La stessa interdizione disciplina sia l’alimentazione che tutti gli altri comportamenti umani, come giacere con la donna altrui, prestare ad usura (senza condividere il rischio del debitore) o uccidere il proprio latifondista per diletto. Haram è Haram, ed è una regola asimmetrica.
Da ciò consegue che, perché una regola morale si affermi, una minoranza intransigente di individui sparsi geograficamente è sufficiente a determinare le norme prevalenti in una società. La cattiva notizia è che chi osservi l’umanità in aggregato potrebbe erroneamente arrivare alla conclusione che il genere umano si stia spontaneamente evolvendo per essere migliore, più morale, più amabile, con un alito più profumato, quando invece questo vale solo per una piccola parte dell’umanità.
La persistenza della regola della minoranza, una tesi probabilistica
Una tesi probabilistica che conferma la prevalenza della regola della minoranza nel dettare i valori sociali è la seguente. Dall’osservazione di diverse società e della loro storia si evidenzia come siano sempre le stesse regole morali generali ad affermarsi, con alcune varianti non significative: non rubare (quanto meno, non dalla stessa tribù); non adescare gli orfani per il tuo piacere; non picchiare gratuitamente il primo venuto per allenarti, usa invece i sacchi da boxe (tranne se sei spartano, ma anche in quel caso sei autorizzato a uccidere solo un numero finito di iloti per allenarti), ed altre interdizioni di questo genere. Si nota anche che con il passare del tempo queste regole si evolvono per diventare sempre più universali, espandendosi in territori sempre più vasti, fino ad includere progressivamente gli schiavi, le altre tribù, le altre specie (gli animali, gli economisti), ecc. Ed una delle proprietà salienti di queste regole è il loro essere “o nero o bianco”, binarie, discrete, non ammettere gradazioni. Non è possibile rubare “un pochino” o uccidere “con moderazione”. Non è possibile osservare il Kosher e mangiare “solo un pezzettino” di maiale alla grigliata domenicale.
Per questo è molto più probabile che questi valori provengano da una minoranza che non dalla maggioranza. Perché? Consideriamo queste due tesi:
Paradossalmente, applicando la regola della minoranza i risultati sono molto più costanti—la varianza dei risultati è minore e la regola è più suscettibile di affermarsi indipendentemente tra la popolazione.
Ciò che emerge dalla regola della minoranza sarà probabilmente o bianco o nero.
Un esempio. Immaginiamo che un malvagio voglia avvelenare una collettività aggiungendo delle sostanze alle lattine di soda. Ha due possibilità. La prima è il cianide, che segue la regola della minoranza: una goccia di veleno (oltre una certa soglia) rende velenosa la totalità del liquido. La seconda è un veleno che funzioni solo se è prevalente, che richiederebbe l’aggiunta di oltre metà di liquido velenoso per essere efficacemente mortale. Consideriamo adesso il problema inverso, in cui un gruppo di persone dopo aver cenato assieme muoiano tutte misteriosamente, e se ne debbano investigare le cause. Lo Sherlock Holmes del caso concluderebbe che una condizione per cui tutte le persone che hanno consumato la soda sono state ammazzate, è che il nostro malvagio abbia optato per la prima ipotesi, non per la seconda. In altre parole, la regola della maggioranza presenta ampie fluttuazioni sulla media, con un’alta percentuale di sopravvivenza.
Il carattere o-bianco-o-nero di tali regole sociali si può spiegare anche così. È come se, a certe condizioni, mescolando il bianco con il blu scuro in varie proporzioni il risultato non sia diverse gradazioni di celeste, ma sempre il blu scuro. A queste condizioni è infinitamente più probabile che il colore prodotto sia blu scuro che non con altre regole che permettano altre gradazioni di blu.
Il paradosso di Popper
Una volta mi trovai ad un ricevimento con tanti tavoli, la tipica situazione in cui si deve scegliere tra il risotto vegetariano e il menù non-vegetariano, quando notai che al mio vicino era stato servito il pasto (incluse le posate) in un vassoio simile a quello dei pasti in aereo. I piatti erano avvolti in carta stagnola. Si trattava evidentemente di un ultra-Kosher. Tuttavia, questi non appariva contrariato dal fatto di condividere il tavolo con mangiatori di prosciutto che, per di più, combinavano burro e carne nello stesso piatto. Lui voleva soltanto essere libero di seguire le sue preferenze.
Per gli ebrei e per minoranze islamiche come gli Shiiti, i Sufi, e religioni simili come i Drusi e gli Alawiti, l’obiettivo è di essere lasciati in pace nel seguire le loro preferenze alimentari – con rare eccezioni storiche qua e là. Ma se il mio vicino fosse stato un Salafita Sunnita, avrebbe preteso che l’intera sala fosse Halal. O forse l’intero palazzo. O l’intera città. Magari l’intero paese. Possibilmente l’intero pianeta. Infatti, data la totale assenza di separazione tra chiesa e stato, e tra sacro e profano, in quel caso Haram (il contrario di Halal) significa letteralmente illegale. L’intera sala sarebbe stata fuori legge.
Mentre scrivo queste righe, si discute se la libertà dell’Occidente può essere minacciata dalle politiche invasive necessarie per combattere i fondamentalisti salafiti.
In altre parole, può la democrazia – che per definizione è la regola della maggioranza – tollerare i suoi nemici? La domanda da porsi è: “Siete d’accordo sull’opportunità di negare la libertà di parola a qualsiasi partito politico che abbia tra i suoi obiettivi l’abolizione della libertà di parola?” Oppure, andando oltre, “Può una società che ha scelto la tolleranza essere intollerante con gli intolleranti?”
Questa è l’incoerenza della Costituzione americana denunciata da Kurt Gödel (gran maestro del rigore logico) quando si presentò all’esame per la cittadinanza. Leggenda vuole che Gödel abbia iniziato a contestare l’esaminatore e che Einstein, che era suo testimone, sia dovuto intervenire per salvarlo.Ho già scritto in precedenza di come persone carenti nella logica mi chiedano spesso se sia necessario essere “scettici sullo scetticismo”; in questi casi rispondo come fece Popper quando gli chiesero se fosse possibile “falsificare la falsificazione”.
Questi punti possono essere chiariti con la regola della minoranza. Sì, una minoranza intollerante può controllare e distruggere la democrazia. Anzi, come abbiamo visto, se le si dà corda alla fine distruggerà l’intero pianeta.
Quindi, con determinate minoranze intolleranti è necessario essere intolleranti. Non è ammissibile utilizzare “valori americani” o “principi occidentali” quando si ha a che fare con il Salafismo intollerante (che disconosce agli altri il diritto di avere la propria religione). L’Occidente è attualmente sulla via del suicidio.
L’irriverenza dei mercati e della scienza
Passiamo adesso al mercato. Possiamo affermare che il mercato non è la somma dei suoi partecipanti, ma che le variazioni di prezzo riflettono le azioni degli acquirenti e venditori più motivati. Sì, è il più motivato a comandare. Questa è una cosa che solo i trader capiscono: perché un prezzo può crollare del 10% a causa di un singolo venditore. Basta solo che sia un venditore intransigente. I mercati reagiscono in maniera sproporzionata rispetto all’impeto iniziale. Il mercato azionario globale rappresenta attualmente oltre trentamila miliardi di dollari, ma nel 2008 una singola transazione di soli cinquanta miliardi, meno di due decimi percentuali del totale, scatenò un crollo di quasi il dieci percento, causando perdite per circa tremila miliardi. Si trattava di una transazione avviata dalla banca parigina Société Générale, che aveva scoperto una truffa da parte di un trader disonesto e tentava di annullare così l’acquisto. Perché i mercati reagirono in modo così esagerato? Perché la transazione era unilaterale – rigida – ossia esisteva la volontà di vendere, ma non la possibilità di far cambiare idea a qualcuno. Il mio motto è:
Il mercato è come un grande cinema con un piccolo ingresso.
E il modo migliore per scovare un idiota (come il tipico giornalista economico) è vedere se la sua attenzione è focalizzata sulle dimensioni della porta o su quelle della sala. Se qualcuno, mettiamo, grida “al fuoco!” in un cinema, il panico si scatena proprio perché chi vuole uscire non ha nessuna intenzione di stare tranquillo, esattamente con la stessa intransigenza vista nel caso delle regole Kosher.
La scienza funziona in modo analogo. In un’altra occasione spiegherò perché la regola della minoranza è alla base dell’approccio di Popper alla scienza. Ma per adesso occupiamoci dell’assai più divertente Feynman. Che t’importa di cosa dice la gente? è il titolo di una raccolta di aneddoti del grande Richard Feynman, lo scienziato più insolente e irriverente dei suoi tempi. Come il titolo del libro suggerisce, Feynman illustra la sua idea della fondamentale irriverenza della scienza, che si comporta in modo analogo all’asimmetria Kosher. In che modo? La scienza non è la somma di ciò che pensano gli scienziati ma, proprio come il mercato, un processo fortemente asimmetrico. Quando un’ipotesi viene falsificata, da quel momento è falsa (questo almeno è il modus operandi della scienza, per adesso mettiamo da parte discipline come le scienze economiche o politiche, che sono poco più che pompose forme di svago). Se la scienza si basasse sul consenso della maggioranza staremmo ancora al Medio Evo, ed Einstein sarebbe finito laddove aveva iniziato, da impiegato dell’ufficio brevetti con degli strani, inutili hobby.
Alessandro diceva che era meglio avere un esercito di pecore guidate da un leone che un esercito di leoni guidati da una pecora. Alessandro (o senza dubbio chi inventò questo proverbio plausibilmente apocrifo) aveva capito il potere di una minoranza attiva, intollerante e coraggiosa. Annibale terrorizzò Roma per oltre quindici anni con un piccolo esercito di mercenari, vincendo ventidue battaglie contro i Romani, nelle quali questi ultimi avevano sempre la superiorità numerica. Si ispirava ad una versione dello stesso proverbio. Durante la battaglia di Canne, a Giscone che lamentava il fatto che i Cartaginesi fossero molto meno numerosi dei Romani, rispose: “Una sola cosa vale più del loro numero…fra tutti loro non c’è un solo uomo che si chiami Giscone.[6]”[i]
Unus sed leo: ne basta uno, ma che sia un leone.
Il vantaggio dato dal coraggio ostinato non vale solo negli affari militari. Tutto lo sviluppo della società, sia economico che morale, nasce da un piccolo gruppo di persone. Chiudo qui questo capitolo sull’importanza delle forze in gioco nelle condizioni della società. Una società non si evolve attraverso il consenso, con votazioni, maggioranze, comitati, riunioni prolisse, conferenze accademiche, e sondaggi; per spostare in modo significativo l’ago della bilancia sono sufficienti pochi individui molto motivati. Basta che esista, da qualche parte, una regola asimmetrica. E l’asimmetria è presente praticamente ovunque.
Note
[1] Grazie ad Amir-Reza Amini.
[2] Grazie ad Arnie Schwarzvogel.
[3] Vi sono minime varianti nelle diverse regioni e sette islamiche. La regola originale è che se una donna musulmana sposa un uomo non musulmano, l’uomo deve convertirsi. In pratica, in molti paesi devono farlo entrambi.
[4] I vari culti esistenti nel mondo Romano erano considerati, dal popolo, egualmente veri; dal filosofo, egualmente falsi; dal magistrati, egualmente utili. La tolleranza produceva dunque non soltanto la comprensione reciproca, ma anche la pace religiosa. Gibbon
[5] “Non dubitare mai che un piccolo gruppo di persone attente e impegnate possa cambiare il mondo. In realtà sono sempre e solo stati loro a cambiarlo.” — Margaret Mead
[6] I Cartaginesi presentano una penuria nelle varietà onomastiche: la frequenza dei nomi Amilcare e Asdrubale tende a confondere gli storici. Così come esistono una miriade di Gisconi, tra cui uno dei personaggi del Salambo di Flaubert.
[i] https://books.google.com/books?id=VzMGAAAAQAAJ&pg=PA269&lpg=PA269&dq=gisco+battle+of+cannae&source=bl&ots=2ybmCD6EaT&sig=lqU71NF46YOpnOSXDfZUsQco2O0&hl=en&sa=X&ved=0CC4Q6AEwAmoVChMI7vnU8-2tyAIVRjw-Ch3DhQkM#v=onepage&q=gisco%20battle%20of%20cannae&f=false
«». il manifesto, 20
agosto 2017 (c.m.c.)
Brava Ada Colau a convocare subito una manifestazione a Piazza de Catalunya, nemmeno 24 ore dopo l’orribile massacro. Bravi i barcellonesi che a centinaia di migliaia hanno risposto all’appello gridando «no tinc por». E bravi i cittadini globali che si sono uniti a loro, piangendo per la ferita inferta alla città simbolo dell’accoglienza e dell’inclusione, ma anche per le proprie vittime: impressionante la cifra di 35 nazionalità. Hanno espresso, oltre alla pena per i corpi maciullati, la protesta per l’insulto che è stato fatto a quello che viene chiamato il «nostro libero modello di vita».
E però c’è qualcosa che non mi convince nella ormai ripetuta proclamazione dei nostri valori, non sono certa che la nostra idea di libertà sia davvero così acriticamente proponibile ad un mondo in cui la maggioranza degli esseri umani ne sono stati privati.
So bene che a proporre questo discorso si entra su un terreno scivoloso, quasi si volesse negare l’importanza dei diritti e delle garanzie individuali che la Rivoluzione francese ci ha conquistato, così come il sistema democratico-borghese che accorpa oramai quasi tutto l’occidente. Non vorrei scambiarlo con nessun altro sistema attualmente vigente, quale che sia la sua denominazione. Per questo, del resto, penso si debba difendere un’idea di Europa che lo salvaguardi dal vortice terrificante che attraversa il mondo.
E però non posso non chiedermi se questo modello, questa idea di libertà, possono davvero risultare convincenti per chi ne vive la contraddizione, per chi abita l’altra faccia del modello: una moltitudine di esseri umani, quelli che disperatamente attraversano il Mediterraneo e vengono respinti; chi vive nelle desolate periferie urbane e patisce una discriminazione di fatto (no, non «legale», per carità!); chi abita i villaggi del Sahel o mediorientali.
La nostra orgogliosa riaffermazione «non abbiamo paura» ha certamente un senso molto positivo: vuol dire non sopprimeremo la libertà, non ricorreremo ad antidemocratiche misure di polizia, non ridurremmo per garantirci sicurezza le nostre libertà. È un messaggio importante ed è bello che a Barcellona sia stato riaffermato a Piazza de Catalunya. Ma non basta, e, anzi, ripeterlo, se non ci si aggiunge qualche cos’altro, rischia di essere controproducente.
Siamo tutti consapevoli che la disfatta che l’Isis sta subendo sul territorio non rappresenta affatto la fine della minaccia terrorista. Che, anzi, lo smantellamento delle sue roccaforti potrebbe rendere anche più intenso il ricorso alle azioni di gruppo, o persino individuali, che colpiscono senza possibilità di prevedere come e dove. Sappiamo oramai anche che è ben lungi dall’essere esaurito il reclutamento di giovani jihadisti pronti a morire. Che provengono dall’Oriente, dal Sud, ma sempre più spesso anche dalla strada accanto. Contro di loro non c’è polizia che tenga, una sicurezza militare è impossibile.
La sola ancorché ardua via da imboccare sta innanzitutto nell’interrogarsi su cosa muove l’odio di questi ragazzi. Non l’abbiamo fatto abbastanza. Non ci riproponiamo la domanda con altrettanta forza quando ribadiamo la superiorità della nostra idea di libertà. E così questo nostro atto di coraggiosa resistenza rischia di suonare inintellegibile a chi di quella libertà gode così poco. Perché chiama in causa non solo il nostro orrendo passato coloniale, le responsabilità per le rapine neocoloniali del dopoguerra, il razzismo di fatto, le sanguinose, offensive guerre che continuiamo a produrre con la scusa di portar la democrazia. Queste sono responsabilità di governi che anche noi combattiamo, anche se dovremmo farlo con maggiore vigore. ( Ha ragione Ben Jelloun che si è chiesto perché non abbiamo portato dinanzi alla Corte per i delitti contro l’umanità il presidente Bush, il maggiore artefice dell’esplosione jihadista).
E però c’è qualcosa che tocca a noi, proprio a noi di sinistra, fare: ripensare il nostro stesso, superiore modello di democrazia, ripensarlo con gli occhi dell’altro, dell’escluso, sforzarsi di capire la rabbia che induce al martirio. Non per giustificarlo, per carità, e neppure per chiudere gli occhi sulle occultate manovre di potere che guidano e finanziano il terrorismo. Ma – ripeto – per capire e impegnarsi a ripensare il nostro stesso modello di civiltà, all’ individualismo che la caratterizza, tant’è che la democrazia la decliniamo sempre più in termini di diritti e garanzie personali, non come rivendicazione di un potere che deve riuscire a liberare l’intera umanità.Penso che questo bisognerebbe gridarlo nelle piazze, aggiungendo un impegno politico al «non abbiamo paura».
L’Europa, che gli attentati vogliono colpire, è forse il meglio di questo orrendo mondo globale, ma non è innocente, non può essere riproposta semplicisticamente come punto d’approdo del processo di civilizzazione.
Un articolo spietatamente veritiero sulle ragioni degli attentati in Europa e sulle morti, anche quelle taciute, che la folle crescita economica sta producendo. Il Fatto Quotidiano online, 19 Agosto 2017 (i.b.)
La notizia dell'ennesimo attentato che ha colpito l'Europa sta riempiendo giornali, tv e blog di immagini e video. All’indignazione per le tante vittime innocenti si intrecciano i commenti di intellettuali, giornalisti e politici. Purtroppo, come al solito, si tratta di commenti fuorvianti che cavalcano l’emozione del momento, completamente incapaci di mostrare una visione d’insieme. La quasi totalità delle opinioni che ci apprestiamo ad ascoltare nello tsunami dis-informativo che giungerà nelle nostre case non ci spiegheranno i perché di tali gesti che sono solo sintomi di una grave malattia. Una malattia che è la fine del modello di sviluppo del mondo occidentale che, per perseverare nella sua folle crescita economica, deve depredare nuovi territori sempre con maggiore voracità.
Il fine nei prossimi giorni sarà sempre lo stesso: dividere in modo ipocrita il mondo tra buoni e cattivi, in modo da permettere a coloro che esercitano il vero potere di raggiungere gli obiettivi prefissati. Obiettivi atti a giustificare nuove spese militari, ulteriori restrizioni delle libertà in Occidente e la possibilità di usare, ancora un volta, la religione come maschera per celare la vera posta in palio che è la razzia di petrolio, gas e stupefacenti. Negli ultimi anni pianificate guerre dirette e per procura hanno destabilizzato un’importante area geografica. Le aggressioni all’Iraq, all’Afghanistan, alla Libia, alla Siria hanno fatto montare la rabbia. Rancori e odi che si sono incanalati in tanti disadattati europei usati come concime per seminare paura ma anche in gruppi radicali e terroristici. Gruppi come Al Qaeda e Isis, che però sono stati usati e finanziati, come è accaduto in Siria, in maniera strumentale dagli Stati Uniti che si sono autoproclamati portatori sani di democrazia e libertà.
L’invito che sento di rivolgere è di non limitarsi a volerinterpretare l’immagine di un puzzle solo con l’ultimo pezzo che ci viene mostrato dai mass media. Per rispettare le vittime degli attentati non serve essere informati su che musica ascoltassero e di quali film fossero appassionati, la vera sfida è spegnere la Tv e trovare gli altri tasselli del puzzle, quelli che poi danno la possibilità di vedere il quadro d’insieme, quello che è vietato mostrare. Secondo uno studio dell'associazione privata Council on Foreign Relations, solo nel 2016 il premio Nobel per la Pace, Obama, ha permesso che fossero sganciate ben 26.172 bombe su ben sette Paesi sovrani (Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen, Somalia e Pakistan). Si tratta di tre bombe ogni ora per 24 ore al giorno che hanno ucciso migliaia e migliaia di civili innocenti come coloro che passeggiavano sulla Rambla a Barcellona.
Secondo un rapporto del 2014 dell'Ong britannica Reprive, per ogni “terrorista” ucciso nella guerra dei droni combattuta dagli Usa, le vittime civili sono state 28. In dieci anni, su 41 terroristi assassinati i droni hanno ucciso 1.147 innocenti. Uomini, donne e bambini di cui giornali e Tv non ci renderanno mai conto.
Guai se i fuggitivi dagli inferni del Terzo mondo danneggiano il turismo firmato Unesco! Rigettiamoli in mare e salviamo il nostro Pil, chiede l'assessore al turismo dell'indigena Sicilia. Il FattoQuotidiano, 18 agosto 2017, con postilla
«In un'intervista al quotidiano La Sicilia, Anthony Barbagallo ha spiegato che a suo avviso la presenza di rifugiati e richiedenti asilo "danneggerebbe" il turismo italiano e deturperebbe il patrimonio paesaggistico d'eccellenza della Penisola: "Non sono razzista e sono per l’accoglienza, ma con alcuni limiti di buon senso"»
“L’immigrazione danneggia le nostre eccellenze paesaggistiche”. Ad affermarlo è l’assessore al Turismo della Regione Sicilia, Anthony Barbagallo, in un’intervista rilasciata al quotidiano La Sicilia. “Non sono razzista e sono per l’accoglienza, ma con alcuni limiti di buon senso – prosegue il politico del Pd che, nel proprio profilo Facebook riporta la pagina del giornale con le sue parole – Uno di questi: non distribuire i profughi nei comuni turistici. Non si possono fare Sprar con decine di migranti a Taormina, a Bronte o nel patrimonio Unesco. I migranti vanno distribuiti altrove. Perciò chiedo ai nostri solerti prefetti di esentare dall’obbligo di accoglienza i sindaci dei comuni turistici siciliani”.
Secondo Barbagallo la deroga riguarderebbe circa una cinquantina di Comuni: tutti quelli sedi di siti Unesco, più quelli a evidente vocazione turistica. “Non è difficile, secondo me si può fare – ha aggiunto – Sin da subito”. Tra le altre emergenze che danneggiano il turismo nell’Isola, l’assessore ha citato anche “i pesantissimi danni d’immagine” causati dai “rifiuti, per i quali, oltre ai controlli, urge una rivoluzione culturale” e quest’anno dagli incendi: “Calampiso, con le immagini degli sfollati in tv – ha ricordato Barbagallo – ma anche Piazza Armerina con tre ordigni bellici esplosi in mezzo a una lingua di fuoco: sembrava la fine del mondo e io mi sono assunto la responsabilità di sospendere uno spettacolo a Morgantina”.
postilla
Il sig. Antony Barbagallo vive in Sicilia, regione i cui abitanti sono il prodotto di successive migrazioni. Sembra non sapere che le bellezze di cui la Sicilia è piena sono opera di migranti, venuti in gran parte dai paesi che sono oggi gli stessi da cui fuggono i disperati che vorrebbe rimuovere. Certamente non sa che i migranti di oggi fuggono dai loro territori perché sono stati sfruttati, devastati e resi deserti per ottenere il benessere nel quale vive. Se l’Unesco si occupasse di educazione degli adulti potrebbe forse insegnare al sig. Barbagallo qualcosa di utile. Ma è, ahimè, solo un’agenzia mondiale per lo sviluppo del turismo nei paesi ricchi, quindi finirà per raccomandare ai prefetti di accogliere le sue richieste. Oppure provvederà ancor prima il solerte Marco Minniti, che i prefetti comanda.
«
». il manifesto,
La globalizzazione ha seminato speranze e creato possibilità. Lo ha fatto nei paesi sviluppati (apertura dei mercati, importazioni a basso prezzo, possibilità di esportare e di produrre). Lo ha fatto nei più grandi paesi arretrati (afflusso di capitali, possibilità enormi di produrre ed esportare…). Insieme a merci e capitali si sono mosse anche persone (dall’est all’ovest dell’Europa, dai paesi asiatici verso l’Europa, dal sud al nord delle Americhe). Oggi questa fase espansiva si è arrestata.
Nei paesi avanzati le speranze si sono tramutate in paure (perdita di lavoro, incertezze sul futuro, abbassamento dei salari) alimentando un bisogno di protezione ed una tendenza a chiudersi. Nei paesi arretrati si è consolidata un’area dei paesi fermi che hanno visto peggiorare le condizioni di vita dei loro popoli (guerre, condizioni climatiche….) ai quali non rimane che la speranza di una fuga disperata verso i paesi ricchi. La coincidenza temporale tra queste due opposte spinte determina quella che possiamo chiamare la grande contraddizione dei nostri tempi.
Come governare una situazione così complessa? Ci vorrebbe un governo mondiale capace di varare un progetto di riequilibrio e di governo dei processi. Ci vorrebbe una grande ondata di solidarietà e l’assunzione del tema della redistribuzione come necessità storica di fronte alla grande stagnazione. La chiesa e Papa Francesco predicano e praticano con le loro missioni ed opere caritatevoli – sono le loro forme di azione – accoglienza e solidarietà. Due parole che appartenevano alla sinistra. Ma la sinistra di oggi sembra non avere le parole adatte per fronteggiare la grande contraddizione. Non le ha perché per la sinistra non è sufficiente dire parole giuste. Le parole non possono essere prediche, ma debbono essere strumenti di azione, strumenti che convincono, trascinano, impegnano a lottare per cambiare.
Le parole della sinistra dovrebbero unire i poveri dei paesi ricchi con quelli che arrivano dai paesi poveri. Ma questo non avviene e la sinistra appare debole quando apprezza e fa proprie le giuste parole della Chiesa ed appare succube quando finisce per accodarsi alle parole della destra. Nel frattempo la destra con le sue parole che seminano paure ed odio fa opinione, alimenta chiusure, esplosioni di razzismo.
Che fare allora? Non ci resta che sentirci impotenti e tagliati fuori dal corso degli eventi e della storia? Le risorse ci sono. Nelle tante forze giovanili ed impegnate nei movimenti per l’accoglienza, sono nelle tante persone che sanno cosa significano razzismo ed esclusione. Ma l’insieme di queste forze non riesce a fare massa critica, a creare opinione diffusa, a mobilitare. Il fatto che la sinistra tutta abbia più consensi nelle aree centrali e meno in quelle periferiche parla da solo e spiega perché essa non riesce a legare il disagio degli italiani a quello degli immigrati.
Ma pensiamoci bene. Anche quelli che urlano contro i migranti e magari vivono in periferie desolate, senza lavoro e senza servizi, sono dei fuggitivi: sfuggono dai problemi che li assillano, riversando le colpe sui poveri che arrivano invece di lottare e semmai di unirsi a loro. E così gli ultimi si dividono, si contrappongono, si disarticolano. Ma non è colpa loro se questo accade. Chi dovrebbe fare questo, proporlo, organizzarlo se non la sinistra? Ecco allora il problema. La sinistra non può oscillare tra l’accogliere in nome della solidarietà gli ultimi che arrivano senza mettersi in regola con gli ultimi che stanno tra noi. Né può pensare di affrontare il problema sposando la linea dura per recuperare consensi. Su questo terreno vincerà la destra, perché l’ha detto per prima ed è più credibile.
Quando parliamo di sinistra del futuro dovremmo parlare di queste difficoltà ad unire i tanti fuggitivi, interni ed esterni, in una grande battaglia per una più equa distribuzione, intanto, di quello che c’è, dei redditi, del lavoro, dei poteri. Altrimenti mentre noi parliamo di sinistra del futuro rischiamo di assistere al ritorno del passato, del razzismo, dei nazionalismi, della guerre.
Ps. Mi ha stimolato a scrivere questo articolo la lettera al manifesto di Mauro Polidori di Acilia che ci invita a guardare alle periferie urbane ed anche, aggiungo, ai piccoli centri, dove una informazione tutta centrata sui migranti nasconde la crisi da abbandono che essi vivono.
Vedi su eddyburg l'articolo La parola "sinistra" di Edoardo Salzano
I ministri degli esteri che si sono succeduti nei governi ENI-Renzi continuano a smentire le reiterate dichiarazioni del
New York Times. Si coprono il viso di fango pur di non rinunciare agli affari, politici e petroliferi in Egitto e Libia. il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2017
«Sulla verità per Giulio Regeni, promessa a più riprese dalle nostre istituzioni, nessun passo avanti. Secondo il governo italiano, nell’articolo del New York Times non ci sono notizie»
Il governo smentisce ancora il
New York Times. Ieri Palazzo Chigi ha accettato di rispondere alle domande del
Fatto Quotidiano, le stesse pubblicate in prima pagina il 17 agosto per chiedere chiarimenti sulle rivelazioni del giornale statunitense. In un passaggio della lunga inchiesta sulla morte del ricercatore triestino, il
Nyt ha raccontato delle “informazioni esplosive” acquisite dai servizi segreti americani nelle settimane dell’omicidio di Regeni, che dimostravano la mano dei servizi di Al-Sisi nel rapimento e nella tortura del ricercatore triestino, e furono subito comunicate al governo Renzi: “Avevamo l’evidenza incontrovertibile della responsabilità degli apparati egizia
Le domande del Fatto Quotidiano sono rivolte ai protagonisti politici della vicenda: i vertici dell’esecutivo di ieri e di oggi; l’ex premier Renzi, l’ex ministro degli Esteri Gentiloni (oggi presidente del Consiglio), l’ex ministro dell’Interno Alfano (oggi alla Farnesina), l’ex responsabile dei Servizi segreti Minniti (oggi al Viminale).
Le risposte sono arrivate unicamente da Palazzo Chigi. Con una nuova smentita: “Confermiamo quanto detto nella nota diramata a Ferragosto: non c’è stata comunicata nessuna prova esplosiva, né elementi di fatto”.
Abbiamo chiesto di chiarire il contenuto delle comunicazioni tra la Casa Bianca e l’Italia in quei giorni, e il motivo per cui quelle informazioni furono ignorate. Ma per il governo non c’è niente da aggiungere: “Nei contatti tra le Amministrazioni non c’è stata alcuna rivelazione”.
Abbiamo chiesto poi di chiarire il comportamento dei nostri Servizi segreti e il ruolo dell’Eni (secondo la fonte del Nyt, interpellata poi da Repubblica, l’azienda avrebbe “affiancato i Servizi segreti per cercare una soluzione”). “I nostri servizi di informazione – la replica – hanno lavorato e lavorano per aiutare ad accertare la verità sulla morte di Giulio Regeni. Eni è una grande azienda italiana e internazionale, che opera in diversi Paesi, tra cui l’Egitto, e che è spesso in contatto con la nostra rete diplomatica”. L’Eni quindi ha collaborato, ma specificano dal governo, “non c’è stato alcun affiancamento”.
Abbiamo chiesto, infine, se non fosse poco più che una velleità confidare in un successo dell’indagine della Procura di Roma sulla morte di Regeni, vista l’assenza di collaborazione tra governo italiano ed egiziano. “Possiamo ribadire – replica Palazzo Chigi – che il governo ha collaborato in maniera assidua e puntuale, fin dal primo momento, con la Procura di Roma. E ne ha pienamente supportato l’attività investigativa nel quadro della cooperazione giudiziaria con la procura generale del Cairo”. La stessa, aggiungiamo noi, che per settimane ha prodotto solo mistificazioni e depistaggi.
Se nella "civile" Romagna accade anche questo, e «i passeggeri scendono» senza reagire, vuol idre proprio che gli abitanti della Penisola meritano il peggio.
la Repubblica, 18 agosto 2017
«Rimini, la donna, di origini senegalesi, incinta di sei mesi, derubata del cellulare da una coppia e poi colpita a calci e pugni. Arrestati i due ragazzi, lei 19 anni, lui 22. Il pm: “Chiederò l’aggravante per odio razziale”»
Si chiama Barry, ha 39 anni ed è incinta di sei mesi. La sua colpa, mercoledì sera, è stata quella di essere nera e di avere un cellulare in borsa. «Tutti i passeggeri sono rimasti al loro posto, soltanto l’autista mi ha aiutata. Io pensavo a difendere il mio bambino», ha detto la donna di origini senegalesi alla polizia dopo essere stata rapinata, insultata, picchiata con calci e pugni e buttata a terra da una coppia di ragazzi italiani – 19 anni lei, 22 lui – su un autobus di Rimini.
I giovani le hanno gridato «negra di m.», «torna al tuo Paese». La ragazzina le urlava «ti faccio abortire», mentre badava a suo figlio di tre mesi. Entrambi sono stati arrestati con l’accusa di rapina, oggi davanti al giudice il pm Davide Ercolani chiederà l’aggravante dell’odio razziale. La vittima è finita in ospedale spaventata e sotto shock. Un’altra storia di razzismo in Romagna, dopo che a marzo un nigeriano è stato accoltellato e travolto in auto davanti a un supermercato.
Mercoledì sera Barry, che è regolare e da tempo vive a Rimini con la famiglia, è sull’autobus numero 11 che da Rimini porta a Riccione. Si accorge che un giovane, dietro di lei, ha infilato la mano nella sua borsa e ha preso il cellulare. «Ridammelo », gli dice. Il ragazzo, Gabriele Miele, originario della provincia di Caserta, le butta il telefono in mezzo alle gambe e comincia a urlare insulti razzisti. La sua ragazza, Alessia Mucci, di Ancona, rincara. Non solo la violenza verbale, è scritto sulla denuncia in mano ai pm, ma pure quella fisica: Gabriele la colpisce con calci e pugni «in varie parti del corpo». Barry si difende come può, pensa solo al figlio che aspetta, è terrorizzata.
Quando le cose si mettono male l’autobus si ferma, l’autista apre le porte, i passeggeri scendono e la donna incinta viene spinta e fatta cadere a terra. Qualcuno chiama la polizia, la coppietta non smette di insultare Barry nemmeno davanti agli agenti. Vengono sentiti dei testimoni. Una, in particolare, conferma di aver visto scendere dall’autobus due donne e che quella nera è stata fatta cadere. Ha confermato che la senegalese si lamentava per riavere il proprio telefonino, rubato sull’autobus. Vicino alle porte del mezzo pubblico, gli agenti hanno trovato a terra il cellulare, un portamonete e la borsa della donna aggredita.
Il 22enne è stato portato in carcere, la 19enne è finita ai domiciliari perché ha il bambino. Oggi il gip deciderà se convalidare l’arresto. «Il reato è di rapina pluriaggravata impropria, perché era nata come un furto, ma contesterò anche l’aggravante della discriminazione razziale », dice il pm della procura di Rimini Davide Ercolani. «C’è stato odio». La donna, soccorsa dal 118, è stata portata in ospedale in stato di shock ma è stata dimessa con una prognosi di 15 giorni. Il bambino che aspetta non dovrebbe correre alcun rischio.
Gabriela Peyrera intervista il poeta cileno Luis Sepulveda. «La felicità è un diritto e una questione sociale, si raggiunge con lo sforzo collettivo e si vive lottando per conquistarla».
Left, 18 agosto 2017 (c.m.c)
Nel tuo ultimo romanzo, La fine della storia pubblicato in Italia da Guanda attraversi latitudini e ripercorri momenti storici diversi, combinando fatti realmente accaduti e finzione. In queste pagine e nel personaggio di Belmonte quanto c’è della tua storia personale?
«Belmonte e io condividiamo molte cose; abbiamo lo stesso passato da militanti, siamo stati quasi negli stessi posti e abbiamo conoscenti in comune».
Hai dedicato il libro alla tua compagna, la poetessa Carmen Yáñez, la prigioniera 824 di Villa Grimaldi. In questo centro di tortura della polizia segreta di Pinochet “regnava” Miguel Krassnoff che nel 2011 è stato condannato a 120 anni di carcere per crimini di lesa umanità. Anche tu sei stato prigioniero della dittatura. Cosa ha significato a livello personale indagare su fatti di quel periodo storico per la costruzione del romanzo?
«Non è mai semplice affacciarsi sull’abisso dell’orrore. L’inchiesta è stata soprattutto una conferma di ciò che sapevo già. Tuttavia mi ha permesso di mettere in ordine le informazioni e trasformare dati, nomi e notizie in letteratura. In ogni caso, affrontare situazioni del recente passato che hanno a che fare con i campi segreti di detenzione, con la tortura e le sparizioni forzate, è qualcosa che faccio con completa delicatezza e pudore, per rispetto verso le tante persone che hanno subito questi crimini».
L’ombra di quello che eravamo e dei fatti che sono accaduti in quegli anni in America Latina, ci accompagna sempre. Pensi che manchi una memoria collettiva, al di là di quella personale, che consenta di evitare che la storia si ripeta?
«Il problema non è se ci sia o no memoria collettiva. Il problema è l’intenzione di annientare la memoria collettiva, di cancellare la storia e tutti quei fatti che oggi risultano scomodi al potere. Per esempio mentre ti rispondo, in Argentina, il governo di Macri sta liberando dei delinquenti condannati più volte per crimini contro l’umanità. Si tratta di torturatori, assassini, ladri di beni delle vittime della dittatura civico-militare degli anni 70. La legge dell’obbedienza dovuta (emanata nel 1987 allo scopo di sollevare i militari dalle responsabilità, senza possibilità di prova contraria, ndr), le amnistie, gli indulti, le liberazioni di criminali “per ragioni umanitarie” hanno avuto e hanno come obiettivo l’oblio dei crimini, l’eliminazione della memoria collettiva e della storia».
Sempre per Guanda è appena uscito in Italia Vivere per qualcosa, un dialogo a tre con José “Pepe” Mujica e Carlo Petrini sulla felicità. Cos’è la felicità per Luis Sepúlveda e per chi e cosa vale la pena vivere?
«Immagino che ci siano molte definizioni di felicità. Una potrebbe essere quella che cantava Palito Ortega, un cantante argentino degli anni 60. Per me la felicità ha a che fare con l’armonia esistenziale che si raggiunge solo dove c’è giustizia sociale. Vivere senza paura e tra persone che non hanno paura, vivere senza l’oppressione di non sapere se domani si riuscirà a mangiare o no, e tra esseri umani che non sentano quella stessa oppressione. La felicità è un diritto e una questione sociale, si raggiunge con lo sforzo collettivo e si vive lottando per conquistarla».
Il modello neoliberista basato sul concetto di consumismo indiscriminato si è venduto per anni come l’unico possibile. Però ci offre un mondo virtuale, costruito solo sulle cose materiali. Cosa possiamo o dobbiamo fare per superare questo concetto e immaginare un futuro diverso per le nuove generazioni?
«La proposta neoliberista consiste nell’accumulare ricchezza in poche mani, offrendo la possibilità di consumare come palliativo per coloro che restano fuori dall’élite ristretta che si arricchisce. L’idea della società di consumo, che consuma e si consuma, si appoggia su una serie di negazioni minori che portano a negazioni maggiori. Si nega l’accesso alla conoscenza di come, chi e dove si produce ciò che si consuma; si nega l’accesso all’informazione riguardo lo sfruttamento dei lavoratori e delle materie prime necessarie per i prodotti che si consumano; si nega l’accesso alla informazione riguardo l’impatto della produzione di massa sulle realtà sociali presso cui si svolge gran parte del processo produttivo e sulle sue ricadute nel nostro ambiente sociale, lavorativo e politico. Questa serie di negazioni porta ad accettare il consumo come unica proposta di vita. Ci privano della condizione di cittadini per farci acquisire lo status di consumatori».
Abbandonando l’idea di costruire società migliori ci ritroviamo a vivere con meno giustizia, sanità, educazione, sicurezza e cultura. Cosa possiamo fare?
«Resistere, anche se è difficile resistere. E fare di questo atteggiamento la pietra angola re della nuova etica di cui la vita ha bisogno. Come vedi la situazione in Cile, pensando alle elezioni presidenziali di novembre e al difficile momento storico-politico dell’America Latina? In Cile c’è un panorama abbastanza coerente con una esperienza politica che si è esaurita. Nel 1990 si recuperò la normalità democratica, ma come disse il primo presidente post dittatura, quella cilena sarebbe stata, e lo è ancora, una democrazia “entro i limiti del possibile”.
«Quali siano questi limiti è molto chiaro: il modello economico neoliberista imposto dalla dittatura civico-militare è intoccabile, così come lo è la Costituzione che lo garantisce. Le forze politiche che presero in carico i successivi governi, una coalizione di “centro sinistra” e la destra tradizionale “pinochetista”, si unirono in un profilo unico di amministratori del sistema ereditato dalla dittatura dando continuità al modello economico neoliberista imposto dal 1973 in poi. Allo stesso tempo ci sono state alcune conquiste nel campo dei diritti umani, sono stati celebrati processi e comminate condanne ai militari criminali della dittatura, ma senza toccare mai nessun civile, responsabile tanto quanto gli aguzzini in divisa. Le politiche dei governi post dittatura hanno frustrato qualsiasi speranza di cambiamento generando delusione, abulia, fatalismo e rassegnazione.
«Alla intoccabilità del sistema, che ha fatto del Cile il Paese con la maggiore crescita economica e al contempo il più socialmente diseguale dell’America Latina, si è aggiunta la corruzione di quasi tutta la classe politica al governo. Che ha ceduto a ricatti sistematici, anche quotidiani, per legiferare nella direzione di una crescente perdita di potere dello Stato e di un sempre maggiore concentramento della ricchezza in poche mani. Bisogna ricordare che il Cile è l’unico paese al mondo che ha privatizzato tutta l’acqua. Ogni singola goccia dei fiumi, dei laghi, e anche i ghiacciai delle Ande. Come se non bastasse il governo cileno ha privatizzato anche il mare, consegnando lo sfruttamento senza controllo delle risorse marine a sette gruppi economici. Fino a dieci anni fa nessuno si è opposto a questa deriva. Poi gli studenti hanno iniziato a reagire mettendo in discussione il funzionamento del sistema. Oggi alcuni dirigenti della rivolta studentesca sono parlamentari e stanno dimostrando che è possibile fare politica senza essere corrotti. Poggia su di loro l’unica possibilità di cambiamento».
Durante la dittatura di Pinochet ti è stata tolta la tua cittadinanza naturale. Ora, dopo oltre 30 anni, l’hai recuperata. Cosa hai provato nel ricevere la notizia della restituzione?
«Mi tolsero la cittadinanza cilena nel 1986. Io ero in esilio in Germania, ad Amburgo, e da lì partecipavo alle attività della resistenza. Collaboravo soprattutto con Analisis, un settimanale informativo che diventò il bastione della lotta contro la dittatura e che per questo pagò un caro prezzo, come l’uccisione di Pepe Carrasco, editore internazionale del giornale. Un giorno il dittatore emise uno dei suoi “decreti transitori” e tolse la nazionalità a 86 cileni in esilio, me compreso. Mi è stata restituita meno di due mesi fa. Come ho reagito? Con un po’ di allegria perché si riparava una ingiustizia e allo stesso tempo con tristezza perché molti dei miei compagni condannati alla condizione di apolide, nel frattempo sono morti.
«Mi sarebbe piaciuto festeggiare con un uomo molto degno, il generale dell’aviazione Sergio Poblete, un ufficiale integro che fu torturato dai propri compagni d’armi. Ricordo che dal suo esilio in Belgio cominciava qualsiasi intervento e azione di solidarietà con il Cile dicendo: “Mi chiamo Sergio Poblete, sono generale della Repubblica del Cile e socialista”. Mi sarebbe piaciuto celebrarlo con lui, ma è morto senza mai chiedere né implorare che gli fosse restituito il diritto alla sua nazionalità. Quanto a me, sono stato contento ma non ho espresso il minimo ringraziamento, perché non si dice grazie al ladro che ci ha restituito ciò che ci aveva rubato».
il manifesto, 18 agosto 2017
Sono solidale, ma. Dopo l’annuncio della presidente della Camera Laura Boldrini di voler procedere alla denuncia di chi la riempie di insulti di speciale ferocia sessista sul web, questo è l’esercizio più diffuso, tra politici e opinionisti. Solidarietà ma di malavoglia. L’elenco dei perché, fa cadere le braccia.
Quasi di più degli auguri di stupro di gruppo, magari da parte di immigrati, e altro, tutti insulti pesantemente sessuali, i peggiori che si possano rivolgere a una donna. E che lei stessa, con coraggio e con sfida, ha ripreso, e ripubblicato, nel suo twitt. E si fa perfino sfoggio di cultura (Nicola Porro su Il Giornale), si scomoda la strega a propria insaputa descritta da Thomas Mann nelle pagine del Doktor Faustus, per dire che se lo va a cercare, tutto questo odio. Che lei non è consapevole di se stessa. Insomma, lo stereotipo della “maestrina”, di chi pretende di guidare e non è capace, l’insopportabilità di una donna che dirige, esercita il proprio ruolo, manifesta le proprie opinioni. Esercizio di misoginia al massimo livello, espressione del maschilismo politico italiano mai venuto meno, fin dai tempi della Costituente.
E mentre ribadisco qui tutta la solidarietà senza se e senza ma a Laura Boldrini, Presidente della Camera, istituzione della Repubblica – è inconcepibile che venga tollerato e alla fine giustificato che una donna che fa politica debba subire simili attacchi – rimane un mistero da sciogliere. Perché questi attacchi convergenti?
Laura Boldrini è una donna pubblica. Non solo, è una donna pubblica che dal 2013 è stata eletta dalla Camera dei deputati a propria presidente. Sono questi i dati reali da tenere presente, per comprendere l’accanimento e la violenza degli attacchi che le sono rivolti. Via web e non solo. Tv, carta stampata, manifestazioni non si risparmiano. È sotto un tendone a Soncino, in provincia di Cremona, che nell’ottobre 2016 Matteo Salvini, il capofila dei suoi detrattori, presentò una bambola gonfiabile come una sua sosia. Prima di essere eletta Presidente della Camera, terza in Italia ad avere questo ruolo, dopo Nilde Jotti nel 1979 e Irene Pivetti nel 1984, Laura Boldrini era già nota, spesso in tv per il suo lavoro, come responsabile della comunicazione dell’Uhncr, l’organizzazione dell’Onu che si occupa dei rifugiati. C’è da supporre che già allora in tanti non fossero d’accordo con lei. Ma è solo da quando è entrata, eletta da Sel, a far parte dell’odiata casta, e poi, eletta presidente, ha deciso di mettere se stessa, la propria posizione pubblica, a sostegno della causa delle donne, che si è scatenato il livore.
Si è dichiarata donna e ha preteso di essere riconosciuta come tale. Non un neutro presidente, ma “la” presidente. E tutto quello che ne segue. Motivo di odio costante, per chiunque, nonostante le nuove norme per la lingua italiana dell’Accademia della Crusca. Insieme all’impegno contro il femminicidio, la riscrittura della storia comune facendo emergere anche nei simboli parlamentari la fondamentale presenza delle donne in politica. L’altra colpa è non avere mai dimenticato la propria storia e il proprio impegno, il sostegno ai migranti. La miscela è esplosiva e imperdonabile, in questa estate 2017.
L’obiezione, sempre pronta, è: lei è la presidente, non sono d’accordo con le sue opinioni, e voglio poterlo dire. Ecco, queste sono critiche politiche, benvenute in democrazia e dialettica parlamentare. Richiedono argomenti, discussioni, riflessioni. Cosa c’entra con quello che twitta Rosangela Federici, sì, una donna: «Io la tua presidente della camera la farei i* dai suoi amici clandestini che protegge tanto»?
Sessismo violento, cieco, impastato di razzismo, che attacca la donna importante, proprio in quanto donna. La vuole ricondurre all’ordine, sottoporla al dominio dei maschi a cui si sottrae. Il web, è ovvio, rende tutto più evidente e insopportabile, a mio parere esaspera ma non è la causa. Il punto è che questi sentimenti – mi sembra eccessivo chiamarli pensieri – esistono. È necessario guardarli, stabilire un limite. Per questo sono grata a Laura Boldrini, al coraggio delle sue denunce, #iostoconLaura.
«Tar Pescara. Ribadita l’illegittimità della legge: “Non si può imporre a un civile di acquisire lo status militare”. Adesso tocca alla Corte costituzionale».
Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2017 (c.m.c.)
Vice sovrintendente Vincenzo Cesetti 1 – ministro Marianna Madia 0. L’assorbimento dei forestali nei carabinieri o in altre forze a ordinamento militare è incostituzionale, almeno per la sezione di Pescara del Tar dell’Abruzzo che passa la palla alla Corte costituzionale. La riforma, sciogliendo il Corpo forestale e smembrandolo soprattutto fra carabinieri e vigili del fuoco, impone – nel caso dell’Arma – l’assunzione dello status di militare in modo non volontario: “illegittimità costituzionale” su cui ora dovrà pronunciarsi la Consulta.
Con l’ordinanza del 9 giugno – anticipata ieri mattina da ilfattoquotidiano.it – i giudici amministrativi, infatti, hanno risposto al ricorso dell’ex forestale Cesetti, trasferito all’Arma dei carabinieri: è uno dei tremila ricorrenti sugli ottomila componenti del Corpo; chiedeva, Cesetti, in sostanza, di «continuare a operare all’interno del disciolto Corpo forestale, e in subordine di non confluire nell’Arma dei carabinieri o comunque in altra forza di polizia a ordinamento militare, ma solo nella polizia di Stato».
Il Tribunale amministrativo abruzzese rileva come fondati i motivi di incostituzionalità addotti dal ricorrente e trasmette gli atti alla Corte costituzionale per il giudizio di merito, informando contestualmente, come da prassi, Palazzo Chigi.
L’ordinanza dei giudici di Pescara accoglie le ragioni del vice sovrintendente Cesetti ed è molto chiara nel determinare gli effetti contrari ai principi della Carta rilevati nella riforma Madia: «Violazione degli articoli 2 e 4 della Costituzione, e in particolare dell’articolo 2, laddove non è stato rispettato il principio di autodeterminazione del personale del Corpo forestale nel consentire le limitazioni, all’esercizio di alcuni diritti costituzionali, derivanti dall’assunzione non pienamente volontaria dello status di militare; e dell’articolo 4, laddove il rapporto di impiego e di servizio appare radicalmente mutato con l’assunzione dello status di militare, pur in mancanza di una scelta pienamente libera e volontaria da parte del medesimo personale del Corpo forestale».
E ancora: «Violazione degli articoli 76 e 77 comma 1 della Costituzione, laddove, in contrasto con la precedente tradizione normativa e quindi con i principi e criteri direttivi di delegazione, non è stato consentito al personale del disciolto Corpo forestale di scegliere di transitare in altra forza di polizia a ordinamento civile». Inoltre, «la militarizzazione di un corpo di polizia (o l’assorbimento del personale di un corpo di polizia civile in uno militare che è cosa analoga) si pone in netta controtendenza rispetto ai principi generali del nostro ordinamento e alle linee evolutive di questo nel tempo». E non basta, perché, per il Tar abruzzese, è stata «sottratta in concreto all’Assemblea parlamentare la possibilità di affrontare e analizzare tutte le questioni riguardanti tale accorpamento; con la conseguenza che la medesima Assemblea si è limitata così a consegnare al governo una delega in bianco dai contorni del tutto incerti, persino su un’opzione dalle implicazioni tutt’altro che marginali come la militarizzazione».
La ratio della riforma è la razionalizzazione e l’efficientamento della Pubblica amministrazione? «Il diritto alla tutela e salvaguardia dell’ambiente – scrive la sezione del Tar presieduta da Alberto Tremaglini – rientra nell’ambito di tutela del diritto alla salute, deve ritenersi che anch’esso sia un diritto incomprimibile, e perciò non sacrificabile per mere esigenze di bilancio e risparmio di spesa». Eppure «non si evincono ragioni di tale accorpamento salvo quella relativa alla razionalizzazione dei costi».
«A meno che – si legge ancora nell’ordinanza – non si voglia ritenere che la semplice riduzione numerica delle forze di polizia possa condurre a un risparmio di spesa, a parità di mezzi e personale impiegato, e ciò pur senza eliminare significative sovrapposizioni di funzioni (che non rinvenivano tra il Corpo forestale e l’Arma dei carabinieri), ma viceversa disperdendo un patrimonio culturale specialistico in complesse operazioni di riorganizzazione, quindi non semplificando un collaudato sistema di protezione ambientale ma disciogliendolo in vari rivoli, così ponendo semmai nuovi problemi di riorganizzazione e riconsolidamento di meccanismi e dinamiche operative maturate negli anni, che richiederanno evidentemente del tempo per ricomporsi nell’esercizio quotidiano delle funzioni».
L'Australia come l'Europa: respingimenti e campi di detenzione. La vita nei campi di detenzione australiani sull'isola di Nauru e Manus raccontate nel documentario di Eva Orner.
Al Jazeera 17 Agosto 2017 (i.b.)
Chi intraprende il viaggio attraverso l'Oceano Indiano in cerca di asilo e in Australia trova un posto inospitale quanto l'Europa. I richiedenti asilo vengono rinchiusi nei campi di detenzione sulle isole lontane di Manus e Nauru. Il film della regista Eva Orner raccoglie le testimonianze dei richiedenti asilo e di informatori che si sono infiltrati. Un estratto del film è visibile sul sito di Al Jazeera (i.b.).
CHASING ASYLUM: AUSTRALIA'S OFFSHORE DETENTION CENTRES
No asylum seeker arriving in Australia by boat will ever be settled in the country. With this harsh policy, Australia's government has stemmed the flow of hopeful asylum seekers in reaching its shores.
Anyone picked up making the treacherous journey across the Indian Ocean is sent to Australia's offshore detention camps on the remote tropical islands of Manus and Nauru.
Once there, men, women and children are held in indefinite detention, away from media scrutiny.
Featuring never-seen-before footage of appalling living conditions and shocking testimonies from detainees and whistle-blowers who worked in the camps, Chasing Asylum exposes the effect of Australia's brutal policy for those seeking a safer home.
"I've been making films for more than 20 years and this is the hardest film I have ever made," filmmaker Eva Orner told Al Jazeera.
"Chasing Asylum is a film about places you are not allowed to go to and people you are not allowed to talk to. And halfway through the making of the film, it became a criminal act with a prison sentence of up to two years for people working with asylum seekers to speak out about what was happening."
Quick facts:
- As of May 31, 2017, there were 1,186 refugees in detention on Nauru and Manus Island, 43 of them are children.
- The asylum seekers spend an average of 443 days in immigration detention.
- Six refugees on Nauru volunteered to be resettled in Cambodia, at a cost of 55 million Australian dollars - three of them have since returned to their country of origin.
Dopo le documentate denunce della stampa d'Oltreoceano anche i media italiani più vicini ai governi ENI grondano indignazione. Meglio tardi che mai. Articoli di Goffredo De Marchis e Francesca Caferri.
laRepubblica, 17 agosto 2017
REGENI, LITE SUIDOSSIER DAGLI USA
IL GOVERNO: MAI RICEVUTO DOCUMENTI
di Goffredo De Marchis
«Il New York Times:l’Italia fu informata sulle responsabilità dietro la morte del ricercatoreSalvini: gravissimo. I grillini: riaprite le Camere. I genitori di Giulio inEgitto a ottobre»
Il governo è sicuro: non esiste alcun documento trasmesso in via ufficiale dall’amministrazione americana all’esecutivo italiano sulla morte di Giulio Regeni. Dopo l’articolo del New York Times,
la sera di Ferragosto c’è stato un giro di telefonate tra gli attori dell’esecutivo: Gentiloni, Alfano, Minniti e l’ex premier Renzi. Con incarichi diversi, ognuno aveva un ruolo nella vicenda anche al tempo dei fatti raccontati dal quotidiano Usa: alla Farnesina, alla presidenza del consiglio, al Viminale, ai servizi segreti. Nessuno ha ricevuto niente. Mai Barack Obama, nei suoi incontri con il presidente del Consiglio Renzi, ha parlato del ricercatore ucciso. E comunque tutti gli atti in possesso dell’esecutivo sono stati consegnati alla Procura di Roma che indaga sull’omicidio. Questa è la versione di Palazzo Chigi.
Dunque, il New York Times sbaglia, perlomeno nel collegare le “prove esplosive” a livelli istituzionali italiani. Un altro conto sono gli scambi tra intelligence, ma questo non coinvolgerebbe responsabilità politiche. Il presidente della commissione Esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini, parla di «bufala» del Nyt, e si spinge a dar voce ad alcuni sospetti che circolano in ambienti di governo: «Con quell’inchiesta si vogliono colpire gli interessi italiani in Egitto e in particolare quelli dell’Eni».
Il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo non subirà uno stop. Ma nella capitale egiziana si preparano ad andare anche i genitori di Regeni. Lo faranno il 3 ottobre, anche se la madre di Giulio, Paola Deffendi, non esclude un viaggio anticipato per «prendere le carte, quelle vere». In un’intervista a Rainews24, i genitori del ricercatore non mettono in discussione la scelta di Gentiloni di riaprire i rapporti diplomatici con Al Sisi. Il punto è usare argomenti diversi dal nome di Giulio, dicono. La ragion di Stato, la presenza italiana in un Paese chiave per le dinamiche mediterranee. Ma non il nome di Giulio.
La mamma e il papà di Regeni chiedono di essere accompagnati al Cairo da «una scorta mediatica» per tenere vivo l’interesse sul caso. Iniziativa sostenuta dal presidente del sindacato dei giornalisti Beppe Giulietti. Il primo a chiedere un congelamento del ritorno dell’ambasciatore, almeno per il tempo utile a tradurre le ultime carte inviate dagli investigatori egiziani. Una linea che trova qualche sostegno anche tra le forze politiche.
Per il momento però le opposizioni sostengono la linea dura puntando il dito sulla scelta diplomatica del governo e chiedendo chiarimenti sui fatti rivelati dal New York Times. Alessandro Di Battista accusa Gentiloni, Renzi, Minniti e Alfano: «Sono traditori della patria. Vengano riaperte le Camere e i protagonisti riferiscano in aula ». I 5 stelle chiedono a una commissione d’inchiesta parlamentare sul caso. Anche Sinistra italiana chiede un informativa urgente, così come Pippo Civati che presenterà un’interrogazione parlamentare. Matteo Salvini incalza: «Se la ricostruzione del Nyt fosse vera, sarebbe gravissimo». Il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani invece non critica la decisione del governo: «Ma questo non significa non continuare a cercare la verità». Verità che l’Egitto giura di aver sempre detto e il ministro degli Esteri del Cairo Ahmed Abou Zeid dice: «Dopo l’ambasciatore, ora tornino i turisti».
L’UOMO CHE PER OBAMA SEGUÌ IL CASO:
“ORDINAI AGLI 007: AIUTATE GLI ITALIANI”
di Francesca Caferri
«La fonte del Nyt:“Le informazioni arrivarono alla vostra intelligence Era chiaro che il delittofu voluto dai servizi egiziani e che i vertici del regime sapevano”».
«Chiedemmo dipassare agli italiani quante più informazioni possibili. La scelta di nontrasmettere tutto quello che avevamo fu fatta per proteggere le fonti che ciavevano aiutato. Per questo non so dire se fu rivelata l’identità dell’unitàspecifica responsabile della morte di Giulio. Molto probabilmente quello chearrivò non era materiale che si poteva usare in un processo, perché non erastato raccolto seguendo canali tradizionali. Ma non ho dubbio alcuno che daidocumenti che trasmettemmo all’Italia si potesse capire quello di cui eravamofortemente convinti: che i servizi di sicurezza egiziani fossero responsabilidel rapimento e dell’omicidio di Giulio Regeni. E che quello che era accadutofosse noto ai livelli più alti dello Stato egiziano ».
L’alto funzionariodell’Amministrazione Obama, una delle persone che ha seguito sin dal primomomento e molto da vicino il caso del ricercatore italiano, pesa le parole unaa una. Ma le dichiarazioni arrivate ieri da Palazzo Chigi non spostano di unavirgola quello che, sempre in forma anonima, ha detto al New York Times e che oggi confermaa Repubblica: nellesettimane successive alla morte di Regeni l’intelligence americana, surichiesta del dipartimento di Stato e della Casa Bianca, trasmise ai colleghiitaliani le informazioni raccolte dai suoi uomini su quello che era accaduto alCairo fra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016.
La fontericostruisce la vicenda con precisione: «Seguimmo il caso di Giulio con moltaattenzione: perché ci aveva sconvolto e perché temevamo che quello che eraaccaduto potesse capitare di nuovo a uno dei nostri cittadini. Non aprimmonessuna inchiesta specifica, ma raccogliemmo tutto il materiale che potevamo.Concludemmo, con forza, che la responsabilità era dei servizi di sicurezza egiziani.Chiedemmo che la condivisione delle informazioni con gli italiani fosse unapriorità per i nostri servizi segreti: non c’era alcuna resistenza, ma volevamocon forza che il passaggio di informazioni fosse fatto senza ritardi perchécredevamo che potesse aiutare a fare giustizia. So per certo che leinformazioni furono trasmesse via servizi segreti, e non per canalidiplomatici: e che lo scambio avvenne in diverse occasioni, non in una solavolta. Tutto questo accadde nelle settimane successive al ritrovamento delcorpo di Regeni».
Quello che l’ex funzionario non sa o non può dire, è qualiinformazioni esatte siano arrivate a Roma: per evitare di identificare le lorofonti, gli americani decisero di non consegnare l’intero fascicolo ma difornire comunque tutto il possibile agli alleati: «Non so se sia stato rivelatoagli italiani quale unità fu responsabile della morte di Giulio: ma fu di certoindicata la responsabilità dei servizi di sicurezza. E il fatto che i verticidello Stato erano a conoscenza di quanto accaduto». Dette così, leparole del funzionario non aiutano a fare luce su uno dei punti più controversiche ancora oggi, a più di 18 mesi dalla morte, circonda la vicenda Regeni: sela responsabilità dei servizi di sicurezza egiziani è (almeno da parteitaliana) ormai chiara, meno semplice è capire a quale dei tre apparatiparalleli del Cairo, - la Sicurezza nazionale, i Servizi segreti veri e proprie i Servizi segreti militari, spesso in competizione l’una con l’altro - sia daattribuire il rapimento, la tortura e l’assassinio del 28nne di Fiumicello.
A domanda direttala fonte si trincera dietro a una frase interlocutoria: «Non so se siano statetrasmesse informazioni su quale fosse l’apparato responsabile », ripete. Paroleche però dicono molto: gli Stati Uniti avevano informazioni in questo senso.Ovvero, erano in grado di dire quale sia l’apparato di sicurezza responsabiledi quello che è accaduto: «Abbiamo raccolto prove incontrovertibili sulleresponsabilità», si limita a dire il funzionario. C’è solo uninterrogativo che il funzionario americano non è in nessuna maniera in grado disciogliere. Lo stesso che agita le notti di Paola e Claudio Regeni: perchéGiulio è stato ucciso? «Posso capire perché era finito nel mirino: in quellegiornate di tensione per l’anniversario di Piazza Tahrir c’era un clima diparanoia e le sue ricerche avevano destato sospetti. Ma perché sia statoucciso, e in quel modo, non so dirlo. Anche io me lo chiedo ancora ».
Il
NYT ricorda l’omicidio e rivela che col ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo sarà la politica e non il lavoro di polizia a determinare la conclusione del caso Regeni. 15 agosto 2017 (i.b.)
Premessa
Uno schiaffo ai media italiani. Prontamente pubblicato dal NYT Magazine all’indomani dell’annuncio del rientro dell’ambasciatore italiano al Cairo, questo dettagliato e critico riepilogo degli eventi che precedettero e seguirono la scomparsa del dottorando italiano al Cairo, fanno capire come la notizia sia importante e degna di rilievo, nonostante i media italiani lo abbiano glissato. Solo il manifesto ne ha dato notizia, ripresa qui su eddyburg.
Il capo dell'ufficio del Times al Cairo ripercorre le vicende di Giulio, contestualizzandole nel clima politico del Cairo, che dopo il colpo di stato di Sisi del 2013, “è senza dubbio un posto più duro di quanto non sia mai stato sotto Mubarak”.
L’articolo non manca di spiegare come le buone relazioni diplomatiche tra l’Italia e l’Egitto, che continuano all’indomani del colpo di stato e ignorano l’attacco ai diritti umani, si incrinano con l’indagine su Giulio e aprono “fratture dolorose all'interno dello Stato italiano”. Se da una parte, sotto le pressioni della famiglia e delle migliaia di persone che si sono mobilitate per chiedere verità su Giulio, il governo italiano chiede risposte, dall’altra parte ci sono altre priorità. Dai servizi di intelligence italiani che hanno bisogno dell'aiuto dell'Egitto per contrastare lo Stato islamico, gestire il conflitto in Libia e monitorare il flusso degli immigrati in tutto il Mediterraneo all’ ENI, con i suoi interessi e progetti relative all’estrazione di idrocarburi. D'altronde il pozzo Zohr, che come dice l’ENI “è il più grande giacimento di gas nel mar Mediterraneo e uno dei sette progetti #EniRecord” si avvia a cominciare la sua produzione a Dicembre. (i.b.)
The target of the Egyptian police, that day in November 2015, was the street vendors selling socks, $2 sunglasses and fake jewelry, who clustered under the arcades of the elegant century-old buildings of Heliopolis, a Cairo suburb. Such raids were routine, but these vendors occupied an especially sensitive location. Just 100 yards away is the ornate palace where Egypt’s president, the military strongman Abdel Fattah el-Sisi, welcomes foreign dignitaries. As the men hurriedly gathered their goods from mats and doorways, preparing to flee, they had an unlikely assistant: an Italian graduate student named Giulio Regeni.
He arrived in Cairo a few months earlier to conduct research for his doctorate at Cambridge. Raised in a small village near Trieste by a sales manager father and a schoolteacher mother, Regeni, a 28-year-old leftist, was enthralled by the revolutionary spirit of the Arab Spring. In 2011, when demonstrations erupted in Tahrir Square, leading to the ouster of President Hosni Mubarak, he was finishing a degree in Arabic and politics at Leeds University. He was in Cairo in 2013, working as an intern at a United Nations agency, when a second wave of protests led the military to oust Egypt’s newly elected president, the Islamist Mohamed Morsi, and put Sisi in charge. Like many Egyptians who had grown hostile to Morsi’s overreaching government, Regeni approved of this development. ‘‘It’s part of the revolutionary process,’’ he wrote an English friend, Bernard Goyder, in early August. Then, less than two weeks later, Sisi’s security forces killed 800 Morsi supporters in a single day, the worst state-sponsored massacre in Egypt’s history. It was the beginning of a long spiral of repression. Regeni soon left for England, where he started work for Oxford Analytica, a business-research firm.
From afar, Regeni followed Sisi’s government closely. He wrote reports on North Africa, analyzing political and economic trends, and after a year had saved enough money to start on his doctorate in development studies at Cambridge. He decided to focus on Egypt’s independent unions, whose series of unprecedented strikes, starting in 2006, had primed the public for the revolt against Mubarak; now, with the Arab Spring in tatters, Regeni saw the unions as a fragile hope for Egypt’s battered democracy. After 2011 their numbers exploded, multiplying from four to thousands. There were unions for everything: butchers and theater attendants, well diggers and miners, gas-bill collectors and extras in the trashy TV soap operas that played during the holy month of Ramadan. There was even an Independent Trade Union for Dwarfs. Guided by his supervisor, a noted Egyptian academic at Cambridge who had written critically of Sisi, Regeni chose to study the street vendors — young men from distant villages who scratched out a living on the sidewalks of Cairo. Regeni plunged into their world, hoping to assess their union’s potential to drive political and social change.
But by 2015 that kind of cultural immersion, long favored by budding Arabists, was no longer easy. A pall of suspicion had fallen over Cairo. The press had been muzzled, lawyers and journalists were regularly harassed and informants filled Cairo’s downtown cafes. The police raided the office where Regeni conducted interviews; wild tales of foreign conspiracies regularly aired on government TV channels.
Regeni was undeterred. Proficient in five languages, he was insatiably curious and exuded a low-intensity charm that attracted a wide circle of friends. From 12 to 14, he served as youth mayor of his hometown, Fiumicello. He prided himself on his ability to navigate different cultures, and he relished Cairo’s unruly street life: the smoky cafes, the endless hustle, the candy-colored party boats that plied the Nile at night. He registered as a visiting scholar at American University in Cairo and found a room in Dokki, a traffic-choked neighborhood between the Pyramids and the Nile, where he shared an apartment with two young professionals: Juliane Schoki, who taught German, and Mohamed El Sayad, a lawyer at one of Cairo’s oldest law firms. Dokki was an unfashionable address, but it was just two subway stops from downtown Cairo with its maze of cheap hotels, dive bars and crumbling apartment blocks encircling Tahrir Square. Regeni soon befriended writers and artists and practiced his Arabic at Abou Tarek, a four-story neon-lit emporium that is Cairo’s most famous spot for koshary, the traditional Egyptian dish of rice, lentils and pasta.
He spent hours interviewing street vendors in Heliopolis and at the small market behind the Ramses train station. To win their trust, he ate from the same grubby street carts as his subjects; his academic supervisor at American University warned he would get food poisoning. Regeni didn’t care: He glided through Cairo with a quiet sense of purpose.
By chance, Valeriia Vitynska, a Ukrainian he met in Berlin four years earlier, had come to Cairo for work. They reconnected. ‘‘She was more beautiful than I remembered,’’ he texted a friend. They took a trip to the Red Sea, and when she returned to her job in Kiev, they kept the relationship going over Skype. ‘‘It was very intense and beautiful,’’ Regeni’s friend Paz Zárate told me. ‘‘He was so joyful, so full of hope for the future.’’
Yet Regeni was also conscious of Cairo’s dangers. ‘‘It’s very depressing,’’ he wrote Goyder a month into his stay. ‘‘Everyone is superaware of the games that are going on.’’ In December he attended a meeting of trade-union activists in central Cairo and wrote about it, under a pseudonym, for a small Italian news service. During the meeting, he told friends, he spotted a veiled young woman taking his picture with her cellphone. It was disconcerting. Regeni complained to friends that some street vendors were hassling him for favors, like new cellphones. Then his relationship with his main contact, a burly man in his 40s named Mohamed Abdullah, took a strange turn.
Abdullah, who worked for a decade for a Cairo tabloid, in distribution, before rising to the top of the street vendors’ union, was Regeni’s guide, offering advice and introducing him to men he could interview. One evening in early January last year, the two met in an ahua — a cafe where men often smoke water pipes — near the Ramses train station. Over tea, they discussed a £10,000 ‘‘scholar activist’’ grant offered by a British nonprofit group called the Antipode Foundation. Regeni offered to apply for the money. Abdullah had other ideas. Could it be used for ‘‘freedom projects’’ — political activism against the Egyptian government? No, it could not, Regeni replied firmly. Abdullah changed tack. His daughter required surgery, and his wife had cancer. He would ‘‘jump on anything’’ for cash. Regeni, growing exasperated, gesticulated theatrically as he touched the limits of his Arabic. ‘‘Mish mumkin,’’ he said. It’s not possible. ‘‘Mish professional.’’
Two weeks later, on the fifth anniversary of the 2011 uprising, Cairo was in lockdown. Tahrir Square was deserted except for 100 or so government supporters bused in to wave Sisi signs and take selfies with the riot police. The security services had been rounding up potential protesters for weeks, raiding downtown apartments and cafes. Like most Cairenes, Regeni spent the day at home, working and listening to music. Once darkness fell he deemed it safe to leave the apartment: An Italian friend had invited him to a birthday party for an Egyptian leftist. They’d arranged to meet at a cafe near Tahrir Square.
Before heading out, Regeni listened to a Coldplay song — ‘‘A Rush of Blood to the Head’’ — and texted Vitynska. ‘‘I’m going out,’’ he announced at 7:41 p.m. It was a short walk to the subway. But by 8:18 Regeni still had not arrived. His Italian friend began trying to contact him — at first with texts, then with frantic calls.
Among the most intoxicating promises of the Arab Spring was the hope that Egypt’s detested security apparatus would be dismantled. In March 2011, in the heady early months of the uprising, Egyptians stormed the headquarters of State Security, the chief arm of Mubarak-era repression, and emerged with lists of informants, copies of surveillance photos and transcripts of intercepted phone calls. Some found pictures of themselves. There were calls for a radical overhaul of the security sector. But as the country skidded into post-revolution disorder, the talk of reform was lost. After Sisi came to power, in 2013, it became clear how little had changed.
State Security was renamed the National Security Agency, but it remained under the control of the powerful Interior Ministry, which was thought to employ at least 1.5 million police officers, security agents and informants. Officers who had been fired were reinstated and the torture chambers reopened. Opposition leaders, fearing arrest, fled the country. Human rights monitors started to count the numbers of the ‘‘disappeared’’ — critics who vanished into state custody without arrest or trial — until the monitors, too, began to disappear.
Today, Egypt is arguably a harsher place than it ever was under Mubarak. After seizing power, Sisi was elected president in 2014 with 97 percent of the vote. Parliament is stuffed with his supporters, and the jails are filled with his opponents — 40,000 people, by most counts, primarily from the banned Muslim Brotherhood, the Islamist organization founded in 1928, but also lawyers, journalists and aid workers. Sisi justifies these measures by pointing to the danger from extremists. Islamic State militants have been fighting Egyptian soldiers in Sinai since 2014; this year they sent suicide bombers into Coptic churches, killing dozens. A good number of Egyptians worry that without a firm hand, their nation of 93 million could become the next Syria, Libya or Iraq. Most of the country’s elites, fearing the kind of upheaval that followed the Arab Spring, are firmly with Sisi; many of its intellectuals, dismayed by their short-lived experiment with democracy, admit that they are out of ideas.
Unaffiliated with a political party, Sisi draws his authority from the totems of the state — generals, judges and security chiefs — who are increasingly powerful. The guiding principle of this incipient police state is to prevent a recurrence of the events of 2011, one Western ambassador, who asked to remain unnamed because he is not authorized to speak on the subject, told me as we sat in his garden last winter. In his final decade in power, Mubarak made a number of concessions. The Muslim Brotherhood won a fifth of the seats in Parliament; the press enjoyed a measure of freedom; some labor strikes were grudgingly permitted. But none of this saved Mubarak — in fact, in the view of Sisi officials, his laxity hastened his demise. The lesson was clear: ‘‘To give an inch is a mistake,’’ the ambassador said, listing the characteristics of the Sisi regime, ‘‘secrecy, paranoia, the sense that you assert power by looking strong and not showing weakness or building bridges.’’
Deciphering the inner workings of the three major security agencies has become a fixation of Egypt watchers. ‘‘It’s very opaque, like a black box,’’ Michael Wahid Hanna of the Century Foundation, a policy institute based in New York, told me. ‘‘But there are clues.’’
The security agencies are loyal to Sisi, Hanna explained, but are always jockeying for position. National Security, thought to have 100,000 employees and at least as many informants, remains the most visible. Its emergent rival is Military Intelligence, which traditionally steered clear of politics but has expanded under Sisi, who led the agency from 2010 to 2012. The General Intelligence Service is Egypt’s equivalent of the C.I.A. Hugely powerful under Mubarak, it is now viewed as somewhat diminished.
Together, these agencies enjoy inordinate influence. They own TV stations, control blocs in Parliament and dabble in business; their agents patrol the streets and the internet. They draw the red lines in Egyptian society between what is permissible and what is not. That makes Egypt a perilous place to navigate for critics: One wrong move, or even a misjudged joke (Egyptians have been jailed for their Facebook posts), can lead to imprisonment or to being barred from leaving the country. Amnesty International puts the number of disappeared at 1,700 and says that extrajudicial executions are common.
When Regeni arrived in 2015, foreigners were thought to be subject to different rules. It was true that some had run into trouble. Earlier that year, the Australian journalist Peter Greste of Al Jazeera was finally freed after 13 months in jail on charges of ‘‘damaging national security’’; a French student was expelled for interviewing democracy activists. Regeni’s academic advisers warned him to avoid contact with members of the Muslim Brotherhood. ‘‘The situation here is not easy,’’ he messaged a friend a month after he arrived. But on the whole, Regeni, his supervisor later told me, believed that his passport would protect him. His abiding fear was that he would be sent back to Cambridge before he could finish his research.
A week after Regeni vanished, Italy’s ambassador to Cairo, Maurizio Massari, was seized by a sense of foreboding. With his shock of gray hair and his polished charm, Massari was a popular fixture on the Cairo diplomatic circuit. He liked to host gatherings of Egyptian academics and politicians, and on weekends he watched soccer games with his American counterpart, Ambassador R. Stephen Beecroft. Now, he restlessly paced the long marble corridors of the Italian Embassy overlooking the Nile.
News of Regeni’s disappearance was rippling across Cairo. His friends had started an online search campaign with the hashtag #whereisgiulio. Regeni’s parents had flown in from Italy and were staying at his apartment in Dokki. A rumor circulated that Regeni had been snatched by Islamist radicals — a terrifying prospect because, six months earlier, a Croatian engineer kidnapped on the outskirts of Cairo was beheaded by Islamic State militants. The ambassador’s anxiety was amplified by the response of Egyptian officials. The Italian intelligence station at the embassy had no leads, so he sought out the foreign minister, the minister of military production and Sisi’s national-security adviser Fayza Abul Naga. All claimed to know nothing of Regeni. The most disquieting encounter was with the powerful interior minister, Magdi Abdel-Ghaffar, who took six days to agree to a meeting only to sit impassively as the Italian diplomat pleaded for help. Massari left perplexed: Abdel-Ghaffar, a 40-year veteran of the security services, had an army of informants on the streets of Cairo. How could he be in the dark?
The police started a missing-persons investigation but seemed to be pursuing some odd lines of inquiry. When detectives interviewed Amr, a leftist university professor and a friend of Regeni’s who asked that his last name not be used to protect him from retaliation, they repeatedly asked if Regeni was gay. ‘‘I told them he has a girlfriend,’’ Amr said when we met over coffee near his home in the suburb of Maadi. ‘‘Then the next guy goes: ‘Are you sure he is straight? Maybe he’s one of these bisexuals.’ ’’
‘‘I said, ‘You should just find him.’ ’’
The crisis was compounded by the arrival of a high-level Italian trade delegation. Since 1914, Italy had maintained diplomatic ties with Egypt, embracing the country even when others kept their distance. Italy was Egypt’s biggest trading partner in Europe — nearly $6 billion in 2015 — and Rome prided itself on its close ties to Cairo. In 2014 Matteo Renzi, then the Italian prime minister, became the first Western leader to welcome Sisi in his capital, and Italy continued to sell weapons and surveillance systems to Egypt even as evidence of rights abuses mounted.
The day after Massari’s meeting with the interior minister, Italy’s investment minister, Federica Guidi, flew to Cairo with 30 Italian executives, hoping to strike deals in construction, energy and the arms trade. Now Regeni was at the top of the agenda. The group went straight to Al-Ittihadiya, the main presidential palace, where months earlier, Regeni had helped the street vendors during the police raid outside its back gates. Massari and Guidi were ushered into a private meeting with Sisi, who listened gravely as the Italians outlined their concerns. But he, too, offered only sympathy.
That evening Massari hosted a reception for the trade delegation and Egyptian business leaders at the embassy. About 200 people mingled in the reception hall, sipping wine as they waited for dinner to be served. Among them was Egypt’s deputy foreign minister, Hossam Zaki, who pushed through the crowd to Massari, wearing a dark expression. ‘‘Don’t you know?’’ he said.
‘‘Know what?’’ Massari replied.
‘‘A body has been found.’’
Early that morning, the driver of a passenger bus traveling the busy Alexandria Desert Highway, in western Cairo, noticed something on the side of the road. When he got out, he discovered a body, naked from the waist down and smeared in blood. It was Regeni.
Massari rushed to the Four Seasons hotel, where Guidi was staying, and together they phoned Renzi and the foreign minister, Paolo Gentiloni. They canceled the reception, sending puzzled guests home without explanation. Then Massari and the minister went to Regeni’s apartment in Dokki, where Regeni’s parents were staying. When the ambassador embraced Regeni’s mother, Paola Deffendi, her worst fears were confirmed. ‘‘It’s all over,’’ she later told the press. ‘‘The happiness of our family was so short.’’
Massari arrived at the Zeinhom morgue in central Cairo after midnight. A small team from the embassy, including a policeman, accompanied him. At first, morgue officials refused them entry. ‘‘Open the door!’’ yelled Massari, visibly agitated. Massari was finally led into a chilled room where Regeni’s body was laid out on a metal tray.
Regeni’s mouth was agape and his hair was matted with blood. One of his front teeth was missing and several were chipped or broken, as if they had been struck with a blunt object. Cigarette burns pocked his skin, and there were a number of deep wounds on his back. His right earlobe had been sliced off, and the bones in his wrists, shoulders and feet were shattered. A wave of nausea washed over Massari. Regeni appeared to have been extensively tortured. Days later, an Italian autopsy would confirm the extent of his injuries: Regeni had been beaten, burned, stabbed and probably flogged on the soles of his feet over a period of four days. He died when his neck was snapped.
The office of Ahmed Nagy, the prosecutor who initially oversaw Regeni’s murder investigation, is on the seventh floor of the dilapidated Giza courthouse building, a few miles from Tahrir Square. On any given day, hundreds of people course through the narrow corridors — lawyers, manacled prisoners and their families. When I went to see him a few weeks after Regeni’s death, Nagy, a wiry chain-smoker, was perched behind a Louis XIV-style desk piled with papers and half-drunk cups of coffee.
In the early hours of the investigation, Nagy spoke with astonishing bluntness. He told reporters that Regeni suffered a ‘‘slow death’’ and allowed that the police might be involved: ‘‘We don’t rule it out.’’ But soon after that, the chief detective on the case suggested that Regeni died in a car crash. Lurid theories appeared in the papers and on TV: Regeni was gay and had been murdered by a jealous lover. He was a drug addict or a Muslim Brotherhood pawn. He was a spy. Several reports noted his work at Oxford Analytica, which had been founded by a one-time Nixon administration official, as a probable sign of employment by the C.I.A. or Britain’s M.I.6. At a news conference, the interior minister, Abdel-Ghaffar, dismissed suggestions that the security forces had detained Regeni. ‘‘Of course not!’’ he said. ‘‘This is the final say in the matter: It did not happen.’’
Nagy’s office was cool and dark, the blinds tightly drawn as air spewed from a noisy air-conditioning unit. With his slicked-back hair and flickering smile, Nagy affected an air of easy confidence. But the boldness he once demonstrated about the Regeni case was gone. He responded to my questions with polished evasions, lighting one cigarette after another as he spoke. ‘‘Murders can go unsolved,’’ Nagy concluded after 30 unfruitful minutes. ‘‘We will just have to wait. Inshallah, something will come of it.’’
Egyptian officials have a long record of facing crises in just this way: denial, then obfuscation, followed by running the clock in hopes that the problem will fade away. In September 2015, the month Regeni arrived, an Egyptian helicopter gunship shot dead eight Mexican tourists and four Egyptians as they picnicked in the Western Desert, having mistaken them for terrorists. Instead of apologizing, the authorities tried to blame the tour guides, then promised an investigation that has never reported any findings. The government of Mexico was furious. A month later, Egypt initially refused to admit that an Islamic State bomb had downed a Russian jetliner over Sinai, killing 224 people, even though both Russia and the Islamic State said it had.
But if Egyptian officials thought they could bluff their way out of the Regeni crisis, they miscalculated. More than 3,000 people attended his funeral in his home village, Fiumicello; across Italy, grief turned to outrage as details emerged of his agonizing torture. In the press, Regeni was often portrayed in a photo that showed him smiling with a cat in his arms. Yellow banners with the slogan Verità per Giulio Regeniappeared in cities and villages. ‘‘We will stop only when we find out the truth,’’ Renzi, the prime minister, told reporters. ‘‘The real truth, and not a convenient truth.’’
Renzi’s fury was based on more than a hunch. In the weeks after Regeni’s death, the United States acquired explosive intelligence from Egypt: proof that Egyptian security officials had abducted, tortured and killed Regeni. ‘‘We had incontrovertible evidence of official Egyptian responsibility,’’ an Obama administration official — one of three former officials who confirmed the intelligence — told me. ‘‘There was no doubt.’’ At the recommendation of the State Department and the White House, the United States passed this conclusion to the Renzi government. But to avoid identifying the source, the Americans did not share the raw intelligence, nor did they say which security agency they believed was behind Regeni’s death. ‘‘It was not clear who gave the order to abduct and, presumably, kill him,’’ another former official said. What the Americans knew for certain, they told the Italians, was that Egypt’s leadership was fully aware of the circumstances around Regeni’s death. ‘‘We had no doubt that this was known by the very top,’’ said the other official. ‘‘I don’t know if they had responsibility. But they knew. They knew.’’
Weeks later, in early 2016, John F. Kerry, then secretary of state, confronted Egypt’s foreign minister, Sameh Shoukry, during a meeting in Washington. It was a ‘‘pretty contentious’’ conversation, one Obama official told me, although the Kerry team couldn’t figure out if Shoukry was stonewalling or simply didn’t know the truth. The blunt approach ‘‘raised eyebrows’’ inside the administration, another said, because Kerry had a reputation for treating Egypt, a fulcrum of American foreign policy since the 1979 Egypt-Israeli peace treaty, with kid gloves.
By then a team of seven Italian investigators had arrived in Cairo to help with the Egyptian investigation. They were hindered at every turn. Witnesses appeared to have been coached. Surveillance footage from the subway station near Regeni’s apartment had been deleted; requests for metadata from millions of phone calls were refused on the grounds that it would compromise the constitutional rights of Egyptian citizens. Some brave Egyptian witnesses visited the investigators at their temporary office in the basement of the Italian Embassy. But even there the Italians were uneasy.
Massari, the ambassador, became concerned about embassy security after Regeni’s death; soon he stopped using email and the phone for sensitive matters, resorting to an old-fashioned paper-based encryption machine to send messages to Rome. Italian officials worried that Egyptians who worked in the Italian Embassy were passing information to Egyptian security forces; they noticed that the lights were permanently off in an apartment across from the embassy — a good spot to place a directional microphone. Massari, still traumatized by the memory of Regeni’s injuries, had become a recluse, avoiding meetings with other ambassadors. His relationship with the Egyptian government was deteriorating; Egyptian officials, infuriated by an interview he gave to an Italian TV station, determined that he was trying to pin the murder on them. ‘‘We deduced he had already taken sides,’’ Hossam Zaki, the deputy foreign minister, told me later. ‘‘He was kind of moot. Useless.’’ When Massari did venture out, people noted that he looked exhausted. Friends said he was struggling to sleep.
International pressure was building on the Egyptians. Italian newspapers sent their most dogged investigative reporters to Cairo. A website called RegeniLeaks sprang up, soliciting tips from Egyptian whistle-blowers. Regeni’s mother began her own campaign to uncover the truth, relating in a news conference that she was able to recognize his battered body only by ‘‘the tip of his nose.’’ Italian actors, TV personalities and soccer players rallied to her side. Egyptians told Deffendi that her son had ‘‘died like an Egyptian’’ — a badge of honor in Sisi’s Egypt. The European Parliament passed a stinging resolution condemning the suspicious circumstances under which Regeni had died; in London, campaigners presented a petition with more than 10,000 signatures to Parliament, calling for the British government to ensure a ‘‘credible investigation.’’ The F.B.I. was also assisting in the Italian investigation; when an Egyptian friend of Regeni’s landed in the United States, on vacation, agents pulled her aside for an interview.
This time stonewalling wasn’t going to work. ‘‘We are in deep [expletive],’’ observed a leading TV host, Amr Adeeb, on his show.
‘‘Do you speak Latin?’’ Luigi Manconi, an Italian senator who championed the Regeni family’s cause, asked when I visited him in Rome in January. ‘‘There is a phrase in Latin — arcana imperii. It means the secrets of power.’’
He paused and looked up for effect.
‘‘That is what we see in Egypt: the dark side of those institutions; the secrets in their hearts.’’
The senator was referring to Egypt’s security agencies, but what he didn’t mention was that the Regeni investigation was also exposing painful rifts inside the Italian state. There were other priorities. Italy’s intelligence services needed Egypt’s help in countering the Islamic State, managing the conflict in Libya and monitoring the flood of migrants across the Mediterranean. And Italy’s state-controlled energy company, Ente Nazionale Idrocarburi, or Eni, had its own stake. Weeks before Regeni arrived in Cairo, Eni announced a major discovery: the Zohr gas field, 120 miles off the north coast of Egypt, which contained an estimated 850 billion cubic meters of gas — the equivalent of 5.5 billion barrels of oil.
Italy is one of Europe’s most energy-vulnerable countries, which makes Eni more than just a $58 billion titan with operations in 73 countries; it makes it an integral part of Italian foreign policy. In 2014, Renzi acknowledged as much, calling Eni ‘‘a fundamental piece of our energy policy, our foreign policy and our intelligence policy.’’ In many countries, Eni’s chief executive Claudio Descalzi — a towering Milanese oilman, who has driven recent exploration efforts across Africa — knows the leaders better than Italy’s ministers do.
As the pressure to solve Regeni’s murder mounted, Descalzi, a regular visitor to Cairo, assured Amnesty International that the Egyptian authorities were ‘‘putting in maximum effort’’ to find Regeni’s killers. He discussed the case at least three times with Sisi. According to one official at Italy’s Foreign Ministry, diplomats came to believe that Eni had joined forces with Italy’s intelligence service in a bid to find a speedy resolution to the case. Eni has a long history of hiring retired Italian spies to staff its internal security division, says Andrea Greco, a co-author of ‘‘The Parallel State,’’ a 2016 year book on Eni. ‘‘They have a strong collaboration,’’ he said. ‘‘I’m sure they may have collaborated in the Regeni case, although it’s not for certain that their interests are aligned.’’ A spokeswoman for Eni says that the company was ‘‘horrified’’ by Regeni’s death and while it had no responsibility to investigate, it continued ‘‘to follow the matter very closely’’ in its interactions with the Egyptian government.
The perceived cooperation between Eni and Italy’s intelligence services became a source of tension inside the Italian government. Foreign Ministry and intelligence officials turned guarded with one another, sometimes withholding information. ‘‘We were at war, and not only with the Egyptians,’’ one official told me. Diplomats suspected that Italian spies, in an attempt to close the case, had brokered an interview by the Italian newspaper La Repubblica with Sisi six weeks after Regeni’s death. (The editor of La Repubblica maintains that the request for the interview came from the newspaper.) In it, Sisi sympathized with Regeni’s parents, calling his death ‘‘terrifying and unacceptable,’’ and vowed to find the culprits. ‘‘We will get to the truth,’’ he said.
On March 24, eight days after the interview appeared, the Cairo police opened fire on a minivan carrying five men, several with criminal records or histories of drug abuse, as it drove through a well-to-do suburb. All five were killed, and the police issued a statement calling them a gang of kidnappers who had been targeting foreigners. In a subsequent raid on an apartment linked to the men, the police said they discovered Regeni’s passport, credit card and student identity card. Soon, state media was reporting that Regeni’s killers had been identified. The Italian investigators, who were at the Cairo airport to fly home for Easter, were recalled, and the Interior Ministry thanked them for their cooperation.
In Italy, news of the shooting met with skepticism — the hashtag #noncicredo, I don’t believe it, circulated on Twitter. The Egyptian account quickly fell apart. Witnesses told several journalists (including me) that the men had been executed in cold blood. One was shot as he ran, his corpse later positioned inside the van. ‘‘They never stood a chance,’’ one man told me, shaking his head. The men’s link to Regeni crumbled: Italian investigators used phone records to show that the supposed gang leader, Tarek Abdel Fattah, was 60 miles north of Cairo the day he supposedly kidnapped Regeni.
Last fall, Egypt’s chief prosecutor told his Italian counterpart that two police officers had been charged with murder in connection with the five deaths. But an awkward question remained: If the dead men hadn’t killed Regeni, then how did his passport get into their apartment?
Italians had little doubt that the whole episode was a crude cover-up, so badly bungled that the Egyptians had incriminated themselves. Yet it had worked. The Italian detectives left Cairo, and the investigation stalled. Massari was replaced with a new ambassador who was ordered to remain in Rome. In Egypt, ‘‘Regeni’’ became a word to be whispered. ‘‘Everyone who cares about Giulio is afraid,’’ Hoda Kamel, a union organizer who helped Regeni in his research, told me. ‘‘It feels like all of the state, with all of its strength, is trying to kill the story.’’
After months of strained diplomatic ties, the Egyptian wall of denial cracked — or seemed to. In a trip to Rome last September, Egypt’s chief prosecutor, Nabil Sadek, publicly admitted that Egypt’s National Security Agency, suspecting Regeni of espionage, had been monitoring him. In a series of meetings over the next few months, he provided the Italians with documents — phone records, witness statements and a video — that showed Regeni was betrayed by several people close to him.
Muhammad Abdullah, Regeni’s contact in the street vendors’ union, was an informant for the National Security Agency. Using a hidden camera, he had taped his conversation with Regeni about the £10,000 grant (the Egyptians handed over the video). He made a statement detailing his meetings with his handler, Col. Sharif Magdi Ibrahim Abdlaal, who, he said, had promised him a reward once the Regeni case was closed.
The identity of the second person was perhaps more surprising. Italian officials came to believe that in the month before Regeni vanished, his lawyer roommate, Mohamed El Sayad, allowed officials from the National Security Agency to search the apartment. In the weeks that followed, phone records showed, Sayad spoke with two National Security Agency officials.
Sayad did not respond to requests for comment, but I had a long exchange, over Facebook, with Regeni’s other roommate, Juliane Schoki. Her account was symptomatic of the climate of mistrust in Sisi’s Cairo. According to Schoki, Sayad voiced suspicions of Regeni within days of his moving into their flat. ‘‘I think Giulio is a spy,’’ she recalled him saying.
After Regeni disappeared, she began to share that view. The two speculated that he was working for Mossad. (Regeni, she said, told her he once had an Israeli girlfriend and had visited Israel.) Schoki, who has since left Egypt, relayed this theory to Egyptian intelligence officers. ‘‘They were surprised because they had the same idea,’’ she recalled.
After Regeni died, she would sit with Sayad watching thrillers on TV, saying, ‘‘That’s exactly how it is!’’ — something that, in retrospect, ‘‘looks a bit ridiculous,’’ she admitted. ‘‘But a year ago it made perfect sense.’’
The Italians used Egyptian phone records to make other connections and discovered that the police officer who claimed to have found Regeni’s passport had been in touch with members of the National Security team that had been following Regeni. Suddenly, Regeni’s parents dared to hope the truth might surface. ‘‘The evil is unraveling slowly, like a ball of wool,’’ his parents wrote in a letter published in La Repubblica on the first anniversary of his disappearance.
But although the Egyptians admitted to surveilling Regeni, they insisted they had not abducted or killed him. And even if that could be proved, the core mystery remained: Why had he been ‘‘killed like an Egyptian’’? One common theory pointed to the work of a rogue officer. At the Interior Ministry, which controls National Security, even low-level officers enjoy considerable autonomy yet are rarely held to account, according to Yezid Sayigh, a senior associate at the Carnegie Middle East Center in Beirut. ‘‘Things may happen that Sisi does not approve of,’’ he said. But there was much else that made little sense. Which Egyptian official figured that torturing a foreigner was a good idea? Why dump his body on a busy highway, instead of burying it in the desert where it might never be found? And why produce his body as a high-level Italian delegation arrived in Cairo?
An anonymous letter sent to the Italian Embassy in Bern, Switzerland, last year and later published in an Italian newspaper, offered another explanation: Regeni had been caught in a shadowy turf war between National Security and Military Intelligence, with one group seeking to use his death to embarrass the other. The details suggested that the author of the account was intimately familiar with Egypt’s security apparatus, yet it also seemed improbable that one person could know so much. Senior American officials told me the letter was consistent, however, with broader intelligence reports of the fierce jockeying for power among rival security agencies. ‘‘They try to use cases as a lever to embarrass one another,’’ one said.
The most alarming possibility is that Regeni’s death was a deliberate message — a sign that, under Sisi, even a Westerner could be subjected to the most brutal excesses. In Rome, an official told me that when Regeni’s body was discovered, it was propped up against a wall. ‘‘Did they want him to be found?’’ the official asked. The Obama official said he believed that someone in the ‘‘upper echelons’’ of the Egyptian government may have ordered Regeni’s death ‘‘to send a message to other foreigners and foreign governments to stop playing with Egypt’s security.’’
No senior Egyptian official agreed to speak to me for this article. But Hossam Zaki, the former deputy foreign minister who is now assistant secretary general at the Arab League, told me that Egyptian officials believe that the murder was the work of an unidentified ‘‘third party’’ seeking to sabotage Egypt’s relations with Italy. ‘‘Egyptians do not treat foreigners badly, full stop,’’ he said.
Nonetheless, Regeni’s death cast a chill over Cairo’s shrinking expatriate community. ‘‘Few things have shaken me so deeply,’’ one European diplomat told me. Before we spoke, the diplomat asked me to deposit my cellphone in a signal-blocking box so that our conversation could not be surveilled. Regeni’s death, the diplomat continued, signaled Egypt’s broader direction: Regeni had fallen victim to the paranoia about foreigners that now coursed through Egyptian society; since the revolution, even small interactions could be fraught. During lunch in Cairo’s Islamic Quarter, the diplomat recounted, an agitated man remonstrated loudly with another guest for taking a photo of a meal — beans, bread and tamiyya, the Egyptian falafel. ‘‘He started to shout: ‘You’re a foreigner. You will use this image to show that we only eat beans and bread!’ ’’
In Fiumicello, where Regeni grew up and his parents still live, a banner reading ‘‘Verità per Giulio Regeni’’ hangs in the main church, but few believe that the truth will ever come out. Regeni’s family has closed ranks, appointing a pugnacious lawyer as its gatekeeper, and begun their own investigation into his murder. (His parents declined to be interviewed for this article but answered some questions by email.) At the Rome headquarters of the Carabinieri’s Special Operations Group, which specializes in counterterrorism and anti-mafia operations, Gen. Giuseppe Governale insists that there is still hope of solving the crime. ‘‘The Arab mentality is to procrastinate until everyone forgets,’’ he said. ‘‘But we will not stop until we find an answer. We owe it to his mother.’’
Italians have what Carlo Bonini, a journalist for La Repubblica who has written extensively on the Regeni case, calls ‘‘the last bullet.’’ Under Italian law, they could press charges in an Italian court against the handful of Egyptian security officials they believe to be responsible. But that might be a Pyrrhic victory: Egypt would never extradite anyone for trial. And there seems little chance that Sisi can be pressured into revealing the truth. In Rome last month officials admitted that the investigation was now little more than geopolitical kabuki; politics and not police work would determine its conclusion. In the 18 months since Regeni was killed, Sisi has had dinner with the German chancellor, Angela Merkel, in front of the pyramids, and in April he received a rapturous welcome at the White House from President Trump. On Aug. 14, the Italian government announced it intended to send its ambassador back to Cairo. The Zohr gas field is on track to start production in December.
In Fiumicello, Regeni lies buried under a line of cypress trees. Flowers, devotional candles and plastic-wrapped volumes of Spinoza and Hesse are piled on his grave, and a small photograph shows him speaking to a crowd, clutching a microphone, his face open and earnest. But unlike the elaborate neighboring tombs that surround it, Regeni’s gravestone is just a plain marble slab. Because the investigation is still open, the parish priest explained, officials might yet need to exhume his remains.
Mentre le bande libiche catturano, col sostegno dell'Italia, i profughi e ne fanno schiavi, l'Europa chiude gli occhi. Facile prevedere il seguito: il terrorismo diventerà valanga.
il manifesto, 15 agosto 2017
Il blocco per le navi delle Ong a 97 miglia dalle coste africane, ordinato dal Governo di Tripoli con il plauso dell’Italia e dell’Unione Europea, chiude il cerchio di quella che appare quasi una guerra contro i migranti nel Mediterraneo.
La situazione dei soccorsi ai battelli carichi di profughi che chiedono asilo e rifugio in Europa viene riportata a quella creatasi all’indomani dell’abolizione del progetto Mare Nostrum quando, dovendo partire le navi da centinaia di chilometri di distanza per rispondere alle richieste di aiuto, ci fu immediatamente una moltiplicazione delle vittime e delle sofferenze. Non a caso, prima Medici Senza Frontiere e poi anche Save the Children e Sea Eye hanno deciso di sospendere le operazioni di salvataggio in mare: troppo lunga la distanza da percorrere per fronteggiare con efficacia emergenze nelle quali anche un solo minuto di ritardo può risultare decisivo e, soprattutto, troppo rischioso – per sé ma ancora di più per i migranti – sfidare le minacce della Guardia Costiera libica, la quale non esita a sparare contro le unità dei soccorritori, come dimostra tutta una serie di episodi, incluso quello denunciato in questi giorni dalla Ong spagnola Proactiva Open Arms.
La decisione di dare “mano libera” alla Libia purché, attuando veri e propri respingimenti di massa, si addossi il lavoro sporco di fermare profughi e migranti prima ancora che possano imbarcarsi o a poche miglia dalla riva, è il capitolo conclusivo della politica che, iniziata con il Processo di Rabat (2006) e proseguita con il Processo di Khartoum (novembre 2014), con gli accordi di Malta (novembre 2015) e il patto con la Turchia (marzo 2016), mira a esternalizzare fino al Sahara le frontiere della Fortezza Europa, confinando al di là di quella barriera migliaia di disperati in cerca solo di salvezza da guerre, persecuzioni, fame, carestia, e intrappolando nel caos della Libia quelli che riescono ad entrare o sono intercettati in mare e riportati di forza in Africa. Tutto ciò a prescindere dalla libertà, dalla volontà e dalle storie individuali dei migranti, calpestandone i diritti sanciti dalle norme internazionali e dalla Convenzione di Ginevra e senza tener conto della sorte che li aspetta, in Libia, nei centri di detenzione governativi, nelle prigioni-lager dei trafficanti, lungo la faticosa marcia dal deserto alla costa del Mediterraneo.
Una sorte orrenda, come denunciano da anni, in decine di rapporti, la missione Onu in Libia, l’Unhcr, l’Oim, l’Oxfam, Ong come Amnesty, Human Rigts Watch, Medici Senza Frontiere, Medici per i Diritti Umani, numerose associazioni umanitarie, diplomatici, giornalisti, volontari. Rapporti che parlano di uccisioni, riduzione in schiavitù, stupri sistematici, lavoro forzato, maltrattamenti e violenze di ogni genere come diffusa pratica quotidiana.
Non a caso il procuratore Fatu Bensouda ha annunciato sin dal maggio scorso, di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che la Corte Penale Internazionale ha aperto un’inchiesta su quanto sta accadendo ai migranti in Libia nei cosiddetti «centri di accoglienza» e su certi episodi che riguardano la stessa Guardia Costiera, avanzando l’ipotesi anche di «crimini contro l’umanità».
Chiunque sia artefice di questa politica di respingimento e chiusura totale e chiunque la sostenga – sorvolando, tra l’altro, sul fatto che la Libia si è sempre rifiutata di firmare la Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati – si rende complice di tutti questi orrori e prima o poi sarà chiamato a risponderne. Domani sicuramente di fronte alla Storia ma oggi, c’è da credere, anche di fronte a una corte di giustizia. Non mancano, infatti, diversi ricorsi a varie corti europee promossi da giuristi, associazioni, Ong, mentre anche il Tribunale Permanente dei Popoli, nella sessione convocata a Barcellona il 7 luglio, ha posto al centro della sua istruttoria il rapporto di causa-effetto tra le politiche europee sull’immigrazione e la strage in atto.
Alla luce di tutto questo, l’Agenzia Habeshia fa appello alla comunità internazionale e alla società civile dell’intera Europa perché contestino le scelte effettuate dalle istituzioni politiche dell’Unione e dei singoli Stati e le inducano a un radicale ripensamento, revocando tutti i provvedimenti di blocco, istituendo canali legali di immigrazione e riformando il sistema di accoglienza, oggi diverso da Paese a Paese, per arrivare a un programma unico con quote obbligatorie, condiviso, accettato e applicato da tutti gli Stati Ue.
A tutti i media e ai singoli giornalisti, in particolare, l’Agenzia Habeshia fa appello perché raccontino giorno per giorno le morti e gli orrori che avvengono nell’inferno ai quali i migranti sono condannati, in Libia e negli altri paesi di transito o di prima sosta, dalla politica della Fortezza Europa, preoccupata solo di blindare sempre di più i propri confini, senza offrire alcuna alternativa di salvezza ai disperati che bussano alle sue porte. Serve come non mai, oggi, una informazione precisa, dettagliata, puntuale, continua perché nessuno possa dire: «Non sapevo…».
Don Mussie Zerai è presidente dell’Agenzia Habeshia. Vedi su eddyburg : In difesa di don Mussie Zerai
Egitto e Libia: importantissime pedine per gli affari e il potere di chi comanda in Italia. Quindi si rinuncia volentieri a ottenere verità e giustizia: questa è la morale della Repubblica italiana, nelle sue supreme autorità Articoli di Michele Giorgio e Luigi Manconi.
il manifesto, 15 agosto 2017
REGENI,
IL COLPO DI SPUGNA DI ALFANO
di Michele Giorgio
«Italia/Egitto. Citando una presunta maggiore collaborazione tra le procure di Italia ed Egitto sul caso del brutale assassinio del ricercato italiano, il ministro degli esteri ieri ha annunciato l'invio al Cairo dell'ambasciatore Cantini. L'interesse di Stato e i rapporti economici tra i due Paesi prevalgono sull'accertamento della verità. La famiglia: questa decisione è una resa incondizionata»
Alla luce degli sviluppi registrati nel settore della cooperazione tra gli organi inquirenti di Italia ed Egitto sull’omicidio di Giulio Regeni…il Governo italiano ha deciso di inviare l’Ambasciatore Giampaolo Cantini nella capitale egiziana». Con questa laconica nota ieri il ministro degli esteri Alfano ha dato un colpo di spugna alla crisi con l’Egitto cominciata con il brutale assassinio al Cairo di Giulio Regeni e ha dato il via alla normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Si avvera perciò la previsione fatta il mese scorso da anonimi funzionari italiani all’agenzia di stampa egiziana Mada Masr, e riportata da Chiara Cruciati sul nostro giornale, dell’invio di Cantini al Cairo a settembre.
La possibilità che tutto fosse programmato da tempo è altissima. I presunti «sviluppi» di cui parla Alfano con ogni probabilità sono un pretesto per concretizzare una decisione già presa. E il fatto che il presidente del consiglio Gentiloni abbia fatto sapere di aver incaricato l’ambasciatore Cantini di «contribuire alla azione per la ricerca della verità sull’assassinio di Giulio Regeni» non offre alcuna rassicurazione. La verità era e resta lontana.
Prevale, come si temeva, la real politik, l’interesse dello Stato sulla verità per la quale si batte la famiglia del giovane ricercatore italiano rapito all’inizio del 2016 al Cairo e torturato a morte. Non sorprende la rabbia dei genitori di Regeni che hanno espresso «indignazione per le modalità, la tempistica ed il contenuto della decisione del Governo italiano di rimandare l’ambasciatore al Cairo».
Ad oggi, spiegano, «dopo 18 mesi di lunghi silenzi e anche sanguinari depistaggi, non vi è stata nessuna vera svolta nel processo sul sequestro, le torture e l’uccisione di Giulio. Solo quando avremo la verità l’ambasciatore potrà tornare al Cairo senza calpestare la nostra dignità». La famiglia sottolinea anche che «si ignora il contenuto degli atti, tutti in lingua araba, inviati oggi, dal procuratore egiziano Sadek…La procura egiziana si è sempre rifiutata di consegnare il fascicolo sulla barbara uccisione di Giulio ai legali della famiglia, violando la promessa al cospetto dei genitori di Giulio e del loro legale Alessandra Ballerini».
Alfano invece parla di un Egitto disposto a collaborare senza però offrire elementi concreti. Si sa solo che la procura del Cairo ha trasmesso ieri a quella di Roma gli atti relativi ad un nuovo interrogatorio, sollecitato dall’Italia, cui sono stati sottoposti i poliziotti che hanno avuto un ruolo negli accertamenti sulla morte del giovane. I magistrati egiziani inoltre avrebbero affidato a una società privata il recupero dei video della metro del Cairo, essenziali per ricostruire i movimenti di Regeni il giorno del suo rapimento. Tutto qui. Ad Alfano comunque è bastato per inviare l’ambasciatore Cantini al Cairo. Tutto in nome dei buoni affari economici e politici tra i due Paesi.
A cominciare dall’influenza dell’Egitto sul generale libico Khalifa Haftar, pedina fondamentale che ostacola le manovre italiane in Libia e contro le partenze dei migranti in direzione del nostro Paese. Interessante, a questo proposito, è il commento fatto dal presidente della Commissione affari esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini: «L’intensificarsi della collaborazione giudiziaria sul caso Regeni e le nuove difficoltà insorte, che riguardano in particolare la vicenda della stabilizzazione della Libia, hanno reso indispensabile questo passo del ministro Alfano».
REGENI VITTIMA DELL’INCAPACE
POLITICA ESTERA ITALIANA
di Luigi Manconi
«Italia/Egitto. La logica che sembra aver prevalso è quella della restaurazione della normalità diplomatica e politica nei rapporti tra l’Italia e l’Egitto. È una logica che, presentata come omaggio doveroso al realismo politico e alle esigenze geo-strategiche di quell’area del mondo, rivela invece tutta la goffaggine e il dilettantismo di una politica estera incapace, ancora una volta, di una propria autonomia e di un disegno di lungo periodo».
Negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, nulla è accaduto che possa segnalare un mutamento, anche il più esile e controverso, nella condotta delle autorità politiche e giudiziarie dell’Egitto a proposito della vicenda di Giulio Regeni. Non il più piccolo atto che manifesti una più sollecita cooperazione con la procura di Roma e non la più sommessa dichiarazione politica di riconoscimento della centralità della questione della tutela dei diritti fondamentali della persona da parte di quel regime.
E nei confronti degli oppositori interni (rapiti, seviziati e uccisi a centinaia) e nei confronti delle associazioni umanitarie egiziane e di chi, come Giulio Regeni, voleva conoscere quel popolo, capirne le ragioni e diffonderne le voci.
Dunque, la scelta così insopportabilmente ferragostana, assunta dal governo, di inviare proprio in queste ore l’ambasciatore italiano al Cairo, risponde chiaramente a tutt’altra logica.
La logica che sembra aver prevalso è quella della restaurazione della normalità diplomatica e politica nei rapporti tra l’Italia e l’Egitto. È una logica che, presentata come omaggio doveroso al realismo politico e alle esigenze geo-strategiche di quell’area del mondo, rivela invece tutta la goffaggine e il dilettantismo di una politica estera incapace, ancora una volta, di una propria autonomia e di un disegno di lungo periodo. Un disegno che consenta all’Italia, senza complessi di inferiorità e senza automatismi di schieramento, di svolgere un ruolo davvero costruttivo in un’area così delicata e precaria.
La controprova inequivocabile è rappresentata dal fatto che, nel momento in cui manda al Cairo l’ambasciatore, il nostro paese «non ottiene nulla in cambio».
Gli asseriti «passi avanti» nella cooperazione giudiziaria tra la procura del Cairo e quella di Roma sono giusto una fola e la promessa più impegnativa è che a settembre i magistrati italiani potranno ricevere quelle registrazioni video che avrebbero dovuto ricevere nell’ottobre scorso. Ma non è questo il punto essenziale.
Ciò che davvero va sottolineato è che in più circostanze il premier Paolo Gentiloni si era impegnato, anche con chi scrive, ad adottare misure efficaci e incisive tali da garantire la continuità di una forte pressione sull’Egitto, nel caso che altre considerazioni consigliassero il ritorno dell’ambasciatore.
Così, nei giorni scorsi – sulla base di un ragionamento solo politico, che non coinvolgeva in alcun modo la famiglia Regeni – ho proposto una serie di provvedimenti, capaci di pesare nei rapporti con il regime di al Sisi in alcuni campi decisivi: quello dei flussi turistici italiani ed europei verso l’Egitto (la dichiarazione di quest’ultimo come «paese non sicuro»); quello dei rapporti commerciali nel settore degli armamenti; quello degli speciali accordi di riammissione nel paese d’origine dei profughi egiziani.
Non una di queste proposte è stata accolta.
Il risultato è che la normalità delle relazioni tra Egitto e Italia sembra oggi pienamente ripristinata.
Un altro e infelicissimo contributo a che la vicenda di Giulio Regeni sia consegnata all’oblio.
Resta, di conseguenza, una sola possibilità per quanti credono testardamente che la questione dei diritti umani non possa essere l’ultimo e trascurabile punto nell’agenda politica internazionale, ma priorità tra le priorità. Ovvero restare dalla parte di Paola e Claudio Regeni, consapevoli che la loro così faticosa e dolorosa battaglia riguarda tutti noi e il senso stesso di ciò che chiamiamo democrazia, di qua e di là del mediterraneo.
In Italia e in tutto Europa è la perdita di socialità (insieme a quella di umanità) a essere il vero problema. Perciò l'Europa «va rifondata alle radici: con un nuovo "manifesto di Ventotene" che metta al centro accoglienza e solidarietà, ma soprattutto socialità.
il manifesto, 15 agosto 2017
Codice Minniti. Bisognerebbe chiedersi perché il Governo della Libia o quello che viene spacciato per tale è così pronto a riprendersi, anche con azioni di forza, quei profughi che tutti i Governi degli altri Stati, sia in Europa che in Africa, cercano di allontanare in ogni modo dai propri confini.
La verità è che a volerli riprendere non è quel Governo, ma sono le due o tre Guardie costiere libiche che fanno finta di obbedirgli, ma che in realtà lo controllano; e a cui l’Italia sta dando appoggio con dovizia di mezzi militari. Ormai si sa che quelle Guardie costiere sono in mano a clan e tribù coinvolte nella tratta dei profughi e nel business degli scafisti. E che una volta a terra profughe e profughi riportati in Libia saranno imprigionati e violate di nuovo e torturati per estorcere un riscatto alle loro famiglie; oppure venduti ad altri scafisti che faranno loro le stesse cose; fino a che non li imbarcheranno di nuovo, non prima di aver fatto pagar loro, per la seconda volta, il passaggio. Per farlo meglio hanno riattivato una zona Sar fantasma, proibendo alle Ong di entrarvi. Quello che Minniti cercava e non era riuscito a fare con il suo codice di condotta. Un business così, legittimato da un Governo straniero, dall’Unione europea e dall’Onu, nessun criminale al mondo se l’era finora sognato...
Dunque non è Minniti, e non le Ong, ad aver fatto accordi con i veri scafisti, invece di cercare di impegnare il Governo italiano, con tutte le sue carte residue, in un vero confronto con il resto dell’Unione europea per mettere al centro un programma condiviso di accoglienza (di cui, a questo punto, solo un movimento di massa di respiro europeo potrà farsi carico). E’ una grande presa in giro degli italiani ed è un crudele abbandono di migliaia e migliaia di persone in balia di veri e propri carnefici di cui la magistratura non sembra volersi accorgere in vista, perché di questo si tratta, delle prossime elezioni. Ma il prezzo è molto alto per tutti: della presenza di Minniti in questo governo, ma anche del suo passaggio su questa Terra, resterà per decenni non la sua effimera e cinica popolarità attuale, ma il suo sostanzioso contributo alla disumanizzazione della società. Ma che cosa rende possibile una politica simile?
Non si è riflettuto abbastanza sul rapporto tra umanità e socialità e tra perdita dell’una e perdita dell’altra. Ma quel rapporto è sotto i nostri occhi. Mentre imperversano denigrazione e criminalizzazione delle Ong impegnate a salvare decine di migliaia di profughi altrimenti condannati a una morte orrenda, martedì 8 a Bologna sono stati sgomberati con violenza due centri sociali con alle spalle straordinarie pratiche di supporto alla vita sociale dei rispettivi quartieri: attività culturali autogestite, nido per i bambini, scuole di italiano, feste di quartiere, orto urbano, mercatino, accoglienza dei profughi in forme civili e solidali che li hanno fatti accettare e apprezzare da tutto il vicinato, mensa popolare, impegno politico, responsabilità amministrative, ecc.
Quegli sgomberi non sono i più recenti episodi, ma non saranno gli ultimi, di una campagna di desertificazione culturale e sociale perseguita con pervicacia da partiti, magistratura, polizia, amministrazioni locali e speculazione edilizia, con cui in tante città si stanno chiudendo decine e decine di punti di ritrovo cinema, teatri, palestre, ricoveri, mense, centri artistici, laboratori e altro animati da giovani e meno giovani impegnati a dare corpo alle basi della convivenza: che è incontro, confronto, solidarietà, impegno, sicurezza, autonomia personale conquistata attraverso attività condivise: una scintilla di vita nell’oceano dell’omologazione imposta da consumismo, carrierismo, competizione, pubblicità e media di regime; ma anche, e soprattutto, da precarietà, sfruttamento, insicurezza, disperazione e solitudine. Quegli sgomberi vengono tutti effettuati in nome della «legalità»: cioè della proprietà privata; anche quando, come nel caso del Labas di Bologna, ma non è il solo, la proprietà è sì privata, ma il proprietario è pubblico; e vuole far cassa con la speculazione su edifici occupati da chi ne ha fatto uno strumento di lotta contro il degrado di città e quartieri.
Quella desertificazione sociale e culturale è portata avanti da quasi tutte le forze politiche; i 5 Stelle non hanno esitato nemmeno a cacciare dalla sua sede storica il Forum dell’acqua che tanto aveva concorso al loro immeritato successo. Allo stesso modo vengono avvolti nel silenzio, e poi denigrati, tanti movimenti che si formano spontaneamente. Il messaggio è chiaro: riunirsi ed esprimersi in autonomia è un crimine: si fa di tutto per impedirlo. Ma una città senza socialità trasforma gli uomini in cose e i suoi abitanti perdono capacità e voglia di mettersi nei panni degli altri, che è la base della solidarietà.
E’ in questo brodo di coltura che matura quel trionfo dell’inumano di cui solo ora, di fronte alla persecuzione delle Ong che salvano i naufraghi, qualcuno persino Repubblica e una parte dei 5stelle comincia ad accorgersi. È tre anni e più che tutti i teleschermi e le prime pagine dei giornali sono occupate giorno e notte in modo spudorato dalle infamie razziste di un Salvini e dei suoi sodali a 5 stelle. Per una ragione precisa: far passare Matteo Renzi come l’unico baluardo contro il dilagare delle destre. E ora se ne vedono i risultati, con Renzi completamente risucchiato da Salvini e da quel «aiutiamoli a casa loro» che vuol solo dire «facciamoli morire lontano da qui». Una strada peraltro percorsa da quasi tutte le maggioranze di governo europee (e anche da molte delle loro opposizioni) che sta facendoci precipitare in una notte nera che l’Europa ha già conosciuto e che l’Europa unita avrebbe dovuto evitare che si ripetesse. Per questo va rifondata alle radici: con un nuovo «manifesto di Ventotene» che metta al centro accoglienza e solidarietà, ma soprattutto socialità.
« ». la Repubblica
I cori globali contro i suprematisti bianchi sono giustificati e legittimi. Ma hanno vita breve se non lasciano subito il posto a un’analisi sociale che faccia comprendere la rivolta di Charlottesville, in Virginia, dove un uomo ha lanciato l’auto contro persone che manifestavano pacificamente contro l’ideologia della supremazia bianca. Il razzismo, nel Sud degli Stati Uniti soprattutto, è stato allevato dalla questione sociale: disoccupazione, salari bassi, assenza di previdenza e assistenza — insomma il lavoro operaio bianco, sottopagato, sfruttato e spesso assente.
È una storia vecchia quanto l’America industriale, a partire dalla ricostruzione dopo la Guerra civile. Sviluppo industriale e liberazione degli schiavi sono andati insieme. Il movimento “ Knights of Labor” di fine Ottocento fu tra quelli che diedero vita al People’s Party, additato a esempio di buon populismo. Ma il romanzo sentimentale dei buoni lavoratori ha spesso celato il fatto che il populismo era indirizzato anche contro immigrati e neri. Per i lavoratori bianchi, ungheresi, italiani o irlandesi, i neri ex-schiavi non erano poi così buoni, erano “pecore nere” che gli industriali usavano per tenere bassi i salari e rompere gli scioperi. Razzismo e questione sociale sono alle radici di un’America che le rappresentazioni edulcorate di noi europei ignorano.
Eppure, sono queste le molle che hanno fatto il bene e il male della democrazia del mondo nuovo. Il male del razzismo, che esplode a intervalli regolari e non è mai stato debellato; il male del confederalismo dietro il quale ancora oggi i bianchi suprematisti degli Stati del Sud marciano, incappucciati o non, con le fiaccole dei cercatori di neri, come in Alabama, che accoglie i visitatori con la scritta “ We dared” (abbiamo osato). Ma sono state anche le molle del bene, le politiche di giustizia distributiva iniziate con il New Deal sono state pensate anche con l’intenzione di produrre un esito virtuoso: debellare il razzismo. Se non che hanno usato meccanismi con esiti opposti.
Perché, racconta Ira Katznelson nei suoi studi sul New Deal e il razzismo, i democratici del Sud approntarono politiche sociali e occupazionali per rafforzare i lavoratori bianchi ed escludere i neri; per dare potere ai burocrati ostili all’emancipazione dei neri; per impedire che il linguaggio di anti-discriminazione entrasse nei programmi di welfare. Le politiche sociali legate al lavoro sono state volte a sostenere la manodopera bianca: in questo modo si pensava di rendere blando il razzismo.
Fu l’arruolamento dei neri insieme ai bianchi nella Seconda guerra mondiale che introdusse mutamenti in senso universalistico e inclusivo. Il G.I. Bill del 1944, pensato per aiutare i veterani bianchi a comperare casa e studiare, venne esteso anche ai veterani neri. La guerra mise fine alla giustificazione della segregazione nelle politiche sociali. Il lascito delle lotte per i diritti civili negli Anni ‘60 si materializzò nelle politiche di Jonhson, continuate da Nixon. Il razzismo si vestì di nuovi abiti, diventando reazione contro i diritti civili. E nonostante la retorica patriottica dei presidenti più recenti, il razzismo ha preso nuovo vigore in relazione soprattutto alle politiche pubbliche. Qui comincia la storia di questi giorni.
È un tema scottante e difficile da articolare senza essere accusati di razzismo indiretto. Ma deve essere affrontato perché l’ideologia white supremacist che ha armato il fanatico di Charlottesville trova linfa vitale nell’idea che le politiche federali di redistribuzione siano state pilotate da una giustizia al contrario, che per facilitare la formazione di una middle class nera si siano adottate scelte che con la crisi economica mostrano la loro limitatezza, e che provocatoriamente ora sono i bianchi a richiedere.
Provocatoriamente, ma non tanto. Le minoranze da metà Anni ‘70 hanno beneficiato di queste politiche che hanno consentito assunzioni negli uffici pubblici e privati e ammissioni ai college, grazie a clausole per cui, in alcuni casi, a parità di merito venivano agevolati candidati appartenenti a minoranze. Questa politica ha avuto un impatto notevole, e cambiato la faccia delle istituzioni che sono diventate più pluraliste.
L’esito negativo di queste politiche sulla mentalità è tra i fattori che spiegano il white supremacism. Aiutare chi ingiustamente è stato escluso (per ragioni di schiavitù o di subordinazione di genere) con politiche che violano l’imparzialità ha i suoi costi. Una società ingiusta come era quella americana alla fine della Seconda guerra poteva difficilmente essere migliorata con politiche basate sull’imparzialità. Sarebbe stato opportuno sfoderare un altro tipo di coraggio, adottare politiche sociali universalistiche con interventi statali diretti a riqualificare le scuole pubbliche per poter aggredire l’ingiustizia all’origine, senza prestare il fianco alle prevedibili critiche dei bianchi. Sarebbe stata una scelta di più lungo respiro, ma troppo socialdemocratica per essere accettata dalla cultura politica Americana, liberal e non.
L’affirmative action è stata la politica di giustizia targata liberal. Ha prodotto inclusione (certo a macchia di leopardo, più al Nord che al Sud) ma ha sedimentato nel frattempo risentimento e rabbia contro i “beneficiari” di privilegi perché neri. E da quel risentimento si deve partire, oggi, per comprendere il carattere del nuovo razzismo, che è anche razzismo di reazione: dei diseredati e non benestanti bianchi contro gli ancora più diseredati e poverissimi neri.
Poveri contro poveri, ma nel nome della razza mai della classe. E un nero assunto contro mille che mendicano basta a soffiare sul fuoco della rabbia dei lavoratori bianchi traditi da Washington: ecco la lotta per mantenere in un parco pubblico di Charlottesville la statua del generale Lee, il simbolo dell’esercito dei sudisti nella Guerra civile. Aveva ragione Tocqueville a pensare che la schiavitù avrebbe lasciato, come una piaga, un segno indelebile sul futuro della democrazia americana, anche qualora i neri fossero stati liberati dalle catene e dichiarati cittadini. Combattere in guerra li avrebbe aiutati, ma oggi la Seconda guerra è solo un lontano ricordo.
Un'analisi accurata e una bocciatura senza appello della politica dell'Italia nella crisi a molte facce del Mare nostrum. Le ragioni per cui il governo non vuole le Ong tra i piedi: testimoni scomodi.
l'Espresso, 13 agosto 2017
La polemica sulle organizzazioni non governative aiuta il governo italiano a nascondere il fallimento della sua azione diplomatica e politica in Libia. Se l'Italia fosse un'azienda privata avrebbe già licenziato il suo rappresentante per l'estero: il ministro Alfano ha gravissime colpe.
L'effetto della campagna del governo contro le Ong è ormai evidente: togliere di mezzo la presenza (e i testimoni) delle organizzazioni non governative a ridosso delle acque territoriali libiche, per lasciare mano libera alla Guardia costiera di Tripoli ed eventualmente alla Marina militare italiana nel fermare i barconi e i gommoni carichi di profughi.
Silvio Berlusconi e Roberto Maroni le chiamavano con orgoglio operazioni di respingimento, perché questo portava loro voti. Il ministro dell’Interno, Marco Minniti e il Pd le definiscono più laicamente operazioni di soccorso. Ma della stessa operazione si tratta. In sostanza, stiamo consegnando un’altra volta alla Libia il totale monopolio dell’arma degli sbarchi, senza preoccuparci troppo di quello che accade più a Sud nei luoghi d’origine dell’emigrazione. Finita l’estate, spenta questa esagerata polemica sugli interventi umanitari, scopriremo che il problema va oltre le Ong. Ed è ben più grave, come l’eredità degli anni scorsi ci insegna. A meno che non vogliamo consolarci con alcune migliaia di arrivi in meno, come l’andamento del 2017 sembra annunciare.
Gli effetti collaterali
È evidente che l’Italia non possa farsi carico da sola ogni anno dell’accoglienza e dell’integrazione di 180 mila persone, di cui gran parte uomini in giovane età. Ed è indispensabile e auspicabile cercare soluzioni anche a breve termine. Ma se sono aumentate le partenze dalla Libia, non è certo per la presenza nel Mediterraneo degli spavaldi attivisti tedeschi di “Jugend Rettet” sotto inchiesta per aver avuto, secondo la Procura di Trapani, rapporti fin troppo ravvicinati con i trafficanti. E non è nemmeno colpa di organizzazioni che si sono sempre coordinate con la Guardia costiera, come “Medici senza frontiere” o “Save the children”.
Perfino il codice di comportamento voluto da Minniti è un falso problema: il ministero dell’Interno ha sempre avuto il desiderio di dividere il volontariato tra mansueti da premiare e rompiscatole da allontanare, tra quanti sono disposti a chiudere un occhio e quanti si dimostrano rigorosi nel rispetto delle norme.
Lo si è visto nel 2013 nel centro di accoglienza di Lampedusa: per diversi giorni alcuni volontari del progetto governativo “Praesidium” hanno tollerato il fatto che intere famiglie con i loro bambini piccoli venissero tenute a dormire sotto gli alberi, mentre la notte i cani randagi urinavano sulle loro coperte. Anche per questo bene fa “Medici senza frontiere” a rispettare la sua neutralità e a non voler prendere a bordo agenti armati. Un codice di condotta simile a quello imposto dal Viminale oggi metterebbe fuori gioco perfino Henry Dunant, il fondatore della Croce Rossa e primo premio Nobel per la pace.
Non dobbiamo però sottovalutare gli effetti collaterali. Fin dove si spingeranno i barconi senza più la presenza costante delle Ong al largo della Libia? Fin dove arriveranno i cadaveri dispersi in mare? È sempre la cronaca del 2013, prima dell’arrivo delle organizzazioni umanitarie e prima dell’impiego della Marina con l’operazione “Mare nostrum”, a suggerirci una risposta: 13 annegati davanti ai turisti sulla spiaggia di Sampieri in Sicilia il 30 settembre; 366 annegati davanti a Cala Madonna a Lampedusa il 3 ottobre; 268 annegati a 60 miglia a Sud di Lampedusa l’11 ottobre.
Il corridoio umanitario
Dopo la fine di “Mare nostrum”, l’apertura del corridoio umanitario delle Ong ha ridimensionato l’impiego delle navi cargo nelle operazioni di soccorso: con un conseguente beneficio sui costi e i tempi dei commerci nel Mediterraneo. L’unica alternativa, la prassi adottata dall’Italia fino al 2013, coinvolge invece il traffico commerciale. Ed è spiegata proprio nelle comunicazioni che accompagnano i presunti ritardi, prima del naufragio dell’11 ottobre di quell’anno.
Dice al telefono un ufficiale della Guardia costiera italiana alla collega maltese che chiede l’intervento della Libra, il pattugliatore della nostra Marina: «Penso che sia una buona idea cominciare a coinvolgere anche una nave commerciale... Di solito noi lavoriamo in questo modo. Impieghiamo le nostre unità più grandi per avvistare (i barconi). E dopo se ci sono navi commerciali, noi preferiamo impiegare quelle e poi organizzare incontri con i nostri pattugliatori più piccoli. Perché noi non vogliamo perdere l’area... Bene, penso che il capo deve provare a trovare una nave commerciale».
L’assurda procedura quel giorno si conclude con una strage di profughi siriani, tra cui sessanta bambini, rimasti per cinque ore in inutile attesa sul peschereccio che stava affondando. Nave Libra ad appena una decina di miglia, meno di un’ora di navigazione, era stata mandata a nascondersi: nonostante nessuna nave commerciale fosse arrivata nelle vicinanze.
Se questa tornerà a essere la prassi, avremo forse qualche arrivo da vivi in meno. Ma probabilmente molti cadaveri sulle nostre spiagge in più.
Bocciati in francese
La polemica sulle Ong aiuta soprattutto il governo italiano a nascondere il fallimento della sua azione diplomatica e politica in Libia. A fine luglio il presidente francese Emmanuel Macron ha sgambettato l’Italia e portato a un (fragile) accordo il premier di Tripoli, Fayez al Serraj, sostenuto dall’Onu e da Roma e il signore della guerra di Bengasi, il generale Khalifa Haftar, sostenuto da Parigi.
Se Palazzo Chigi fosse un’azienda privata, andrebbe licenziato il rappresentante per l’estero. Il ministro Angelino Alfano infatti avrebbe potuto fare di più: dal primo gennaio al 30 giugno è stato una sola volta a Tripoli, una sola volta a Tunisi e mai, proprio mai, in almeno uno dei tanti Paesi africani o asiatici che con i loro cittadini impegnano così intensamente il nostro bilancio statale tra soccorsi e accoglienza. Lo confermano i piani di volo dell’aereo usato da Alfano.
l suo omologo francese, il socialista Jean-Yves Le Drian, artefice del vertice Serraj-Haftar di fine luglio, è invece stato trentadue volte in Africa come ministro della Difesa nel precedente governo. E dal 17 maggio di quest’anno, giorno della sua nomina agli Esteri, ha già visitato Tunisia, Algeria, Egitto, Stati subsahariani, Emirati, Arabia Saudita e Qatar per preparare il consenso allo “sbarco” francese in Libia.
Il generale Haftar cura da tempo gli interessi di Parigi nel tentativo di sottrarre all’influenza italiana i pozzi e i terminal della Mezzaluna petrolifera in Cirenaica, nell’Est. L’Eni rischia così di perdere alcuni futuri contratti. La pace con il premier di Tripoli, che a Ovest guida il Governo di accordo nazionale, però non è detto che regga. Solo l’annuncio italiano di inviare la nave militare “Comandante Borsini” in acque libiche per assistere la locale Guardia costiera contro i trafficanti di uomini, così come avrebbe richiesto Serraj, ha messo d’accordo tutte le fazioni.
Lo stesso vice di Serraj, Fathi Al-Majbari: «È una violazione della sovranità della Libia e degli accordi in vigore. L’azione di Serraj non rappresenta il governo». Il figlio del dittatore Muhammar Gheddafi, Saif al Islam, tornato libero due mesi fa: «È un’operazione coloniale». Lo stato maggiore di Haftar: «Bombarderemo le navi italiane». Un bel pasticcio diplomatico.
Uno dei dossier più drammatici è della primavera scorsa. Denuncia il mercato degli schiavi allestito in un parcheggio a Sebha, nel Sud della Paese, lungo la rotta che dal Niger sale verso il Mediterraneo: «I migranti subsahariani vengono venduti e comprati dai libici, con l’aiuto di trafficanti ghaniani e nigeriani che lavorano per loro».
L'intervento di un'autorevole esponente del PD, fuori dal coro "aiutiamoli a casa loro e diffidiamo delle Ong".
la Repubblica, 13 agosto 2017
CARO direttore, per me è stato un segno positivo leggere di differenze e dilemmi tra i ministri sui migranti e le Ong. Non ho certezze e le competenze di altri e, nel dubbio, il peso della bilancia lo metto sulla priorità assoluta: salvare, comunque e ovunque, la vita di chi, disperato, porge la mano.
Ho un profondo rispetto per il capo dello Stato. La legalità è un valore. Nessuno, neppure tra le Ong, sarà santo a prescindere, però la grandissima parte di loro fa un lavoro straordinario. E un salvato è un salvato.
Confesso così la mia vicinanza a chi - giornalista, volontario, esperto - ha lanciato l’allarme sui rischi di guardare il ramo e non vedere la foresta. Magari quella orribile dei respinti nei campi in Libia dove si mischiano violenze, soprusi, torture e si moltiplica il business di essere umani trattati peggio di merci. Allora se al ministro Delrio la destra ha dato del terzomondista cattolico, sappia che i suoi interrogativi a molti invece danno fiducia. Tra l’altro evitano a qualcuno come me di sentirsi un’estranea nella propria comunità. So cosa mi aspetta, la sinistra radical che critica in pantofole e, infatti, puntualissimi sono arrivati commenti triti anche da importanti esponenti del mio campo. Governare è difficile e in particolare farlo nelle città.
Tuttavia si può tentare di mobilitare per un altro racconto, magari più vero. Quanti sono davvero questi fuggitivi da guerre, disastri ambientali, persecuzioni? Come vivono in Italia e quante risorse danno le badanti, gli operai che scaricano merci o sistemano strade? In quel racconto troverebbero posto sindaci e assessori coraggiosi a cui riconoscere un premio in risorse. E si direbbe dell’aiuto che danno i corridoi umanitari, innanzitutto per donne e bambini, l’abolizione del reato di clandestinità, l’applicazione della legge sui minori stranieri. E, ancora, che la riapertura e la riorganizzazione di flussi legali è un contrasto alle organizzazioni criminali e alla tratta.
La legge sullo Ius soli, peraltro temperato, è il simbolo di una visione e delle società del futuro non comprimibili nella spinta alla sopravvivenza e alla speranza. Fino a ieri lo dicevamo con l’orgoglio rappresentato dalla nave che l’Italia ha voluto tirare su dalle acque della disperazione. Non vorrei che l’esito elettorale abbia prodotto un disastro culturale.
Perché è un dovere morale salvarli e accoglierli. Poi si veda come e in quale misura. Perché l’Occidente e l’Europa, qualche senso di colpa è utile che laicamente li coltivino. L’Africa è lì a mostrare che qualcosa non ha funzionato quando quel trittico di principi - uguaglianza, libertà, fraternità - è suonato nelle parate e poco nel progresso. La politica si è spesso piegata a tutelare affari, compreso il commercio delle armi, e a dividersi nell’influenza sulle aree geopolitche anziché farsi Europa di questo secolo. Perché, politically correct per politically correct, meglio fare rivivere utopie come pace e cooperazione che ritualità su una sicurezza svincolabile da una idea di destra o di sinistra. Diritti umani e sicurezza stanno insieme. Il fatto è che dipende da come guardi il mondo. Lo so, per la sinistra e per i democratici è più complicato.
Milano ha reso omaggio al cardinale Tettamanzi. Ecco, lui aveva saputo coi fatti e con le parole giuste andare controcorrente. Dobbiamo riuscirci, in fondo ci siamo per questo.
L’autrice è deputata e vicepresidente del Partito democratico
Aiutiamoli a casa loro. Servono 20 miliardi di dollari per «munizioni, armi, autoblindo, jeep per la sabbia, droni, sensori, visori notturni, elicotteri, materiali per costruire campi armati». Un lucroso finanziamento indiretto ai costruttori di armi occidentali. Intervista di Lorenzo Cremonesi a
Khalifa Haftar.Corriere della Sera 12 agosto 2017 (m.p.r.)
Parla il leader che controlla la regione della Cirenaica: «Non c’è stata alcuna intesa con noi. Io non vi ho dato alcuna luce verde. Sarraj ha violato in modo grave quegli accordi, dove si dice esplicitamente che mosse di questo genere vanno coordinate tra noi». Sin dalle prime battute in quasi un’ora e mezza di intervista il generale Khalifa Haftar fa capire che a questo punto non intende davvero bombardare le navi militari italiane in Libia. Ma l’uomo forte della Cirenaica spiega anche le ragioni del suo acceso risentimento contro il governo italiano e nei confronti del premier di Tripoli, Fayez Sarraj. Lo abbiamo incontrato nella capitale giordana mentre sta preparando una visita nei prossimi giorni a Mosca. Su cui specifica: «Con la Russia abbiamo un rapporto storico. Ma che io sappia non hanno alcuna intenzione di costruire una loro base militare in Cirenaica».
Generale può spiegare come mai ai primi di agosto ha dichiarato che avrebbe potuto attaccare le navi italiane che incrociassero nelle acque territoriali del suo Paese?
«In primo luogo voglio ribadire che libici e italiani sono amici. Abbiamo superato il retaggio dell’aggressione fascista. E, proprio perché i nostri rapporti sono eccellenti, tengo a combattere chiunque provi a rovinarli. In Italia veniamo in vacanza, i nostri feriti sono curati, abbiamo antiche relazioni economiche. Ma devo anche dire che noi libici teniamo alla nostra indipendenza e sovranità. Nessuno può entrare con mezzi militari nelle nostre acque territoriali senza autorizzazione. Sarebbe un’invasione e abbiamo il diritto-dovere di difenderci, anche se chi ci attacca è molto più forte di noi. Vale per l’Italia, come per qualsiasi altro Paese».
Ma l’arrivo delle navi italiane è il frutto di un accordo tra Roma e Sarraj, nel contesto del controllo del traffico dei migranti. Lei sa bene che non c’è alcuna mira aggressiva. Dove sta il problema?
«Non c’è stata alcuna intesa con noi. Io non vi ho dato alcuna luce verde. Non solo, nessuno ci ha mai detto nulla. È stato un fatto compiuto, imposto senza consultarci».
Dunque quelle navi della marina militare italiana nel porto di Tripoli e dintorni restano obbiettivi potenziali?
«No, non è questo il caso. Non si tratta di un atteggiamento specificamente anti-italiano. Vale per qualsiasi nave militare straniera che resta un obbiettivo legittimo, se non si coordina con le mie forze armate».
La sua è un’accusa a Sarraj, che non rispetta le vostre intese di cooperazione firmate a Parigi il 25 luglio sotto l’egida del presidente Macron?
«Assolutamente sì. Sarraj ha violato in modo grave quegli accordi, dove si dice esplicitamente che mosse di questo genere vanno coordinate tra noi. Ma la violazione è anche italiana. A Roma sono corresponsabili, sanno benissimo che Sarraj non ha alcuna autorità per permettere alle vostre navi di venire nelle nostre acque territoriali. Non ha chiesto il parere a me e neppure al suo Consiglio presidenziale. La sua è una scelta individuale, illegittima e illegale».
Lei stesso in gennaio ha spiegato in un’intervista al Corriere di avere contatti regolari con i servizi segreti italiani. Neppure loro l’hanno avvisata in anticipo?
«Nulla. Nessuno mi ha detto nulla dall’Italia. Per me è stata una sorpresa totale. Dopo che ho protestato è venuto personalmente il numero due dei vostri servizi a scusarsi, promettendo che avrebbe investigato per capire dove a Roma avevano sbagliato».
È il fallimento delle intese di Parigi?
«Non direi. Io credo ancora in quelle intese, restano l’unica piattaforma su cui costruire la transizione per cercare di alleviare le sofferenze del popolo libico. Penso inoltre sia possibile tenere elezioni politiche in Libia il marzo prossimo, come si è programmato a Parigi, e probabilmente anche prima».
Quindi Sarraj resta un partner, anche se ogni volta che parla con lei i suoi alleati lo attaccano duramente?
«Sarraj è messo alla prova. Vediamo se riesce a mantenere la parola data. Anche se sino ad ora ha sempre fallito a causa delle sue debolezze strutturali. Lo provano le sue ultime mosse, ha già tradito anche le promesse fatte al nostro incontro di Abu Dhabi in primavera. Il suo problema è che dipende dalle milizie, non possiede un esercito regolare come il nostro. Ecco perché subisce anche il peso delle bande di scafisti e della criminalità che gestisce il traffico dei migranti in Tripolitania».
Eppure, negli ultimi giorni il traffico di migranti verso l’Italia pare diminuire. I flussi crescono per contro verso la Spagna. Lei cosa suggerisce?
«Il problema migranti non si risolve sulle nostre coste. Se non partono più via mare ce li dobbiamo tenere noi e la cosa non è possibile. Anche gli accordi del vostro ministro degli Interni Minniti con le tribù, le milizie e le municipalità del nostro deserto sono solo palliativi, soluzioni fragili. Dobbiamo invece lavorare assieme per bloccare i flussi sui 4.000 chilometri del confine desertico libico nel sud. I miei soldati sono pronti. Io controllo oltre tre quarti del Paese. Possiedo la mano d’opera, ma mi mancano i mezzi. Macron mi ha chiesto cosa ci serve: gli sto mandando una lista».
Per esempio?
«Corsi di addestramento per le guardie di frontiera, munizioni, armi, ma soprattutto autoblindo, jeep per la sabbia, droni, sensori, visori notturni, elicotteri, materiali per costruire campi armati di 150 uomini ciascuno altamente mobile e posizionati ogni minimo 100 chilometri».
Costo?
«Stimo circa 20 miliardi di dollari distribuiti su 20 o 25 anni per i Paesi europei uniti in uno sforzo collettivo».
Una somma comunque enorme!
«Nulla, se paragonata a quella che l’Europa stanzia per Erdogan. La Turchia prende 6 miliardi e passa da Bruxelles per controllare un numero infinitamente inferiore di profughi siriani e qualche iracheno. Noi in Libia dobbiamo contenere flussi giganteschi di gente che arriva da tutta l’Africa. Se ogni governo europeo contribuisce ad aiutarci, per voi la spesa diventa irrisoria».
Lei continua a parlare del suo impegno nella lotta contro il terrorismo. Ma c’è ancora un vero pericolo Isis in Libia dopo la sua apparente sconfitta nella roccaforte di Sirte l’autunno scorso?
«È molto diminuito. A Bengasi e nel deserto sotto il nostro controllo l’abbiamo battuto. Restano pericolosi circa 300 militanti di Isis a Derna e 200 a Sabrata».
Agli inizi di giugno le milizie di Zintan, sue alleate, hanno liberato il figlio maggiore di Gheddafi, Saif al Islam. Lei ha avuto un ruolo?
«No e non gli ho mai parlato da quando è stato liberato. Saif non mi ha mai chiesto alcuna assistenza. È un cittadino libico come tutti gli altri, con obblighi e doveri. L’era di Gheddafi è cosa del passato, anche se so che tanti tra i suoi ex sostenitori oggi mi sono favorevoli.
Ancora un evento e un’iniziativa nel conflitto tra la legge del “restare umani e le leggi dei respingimenti.
R.itPalermo online, 9 agosto 2017
DON MUSSIE ZERAI SOTTO INCHIESTA:
PRETE CANDIDATO AL NOBEL
ACCUSATO DI FAVOREGGIAMENTO IMMIGRAZIONE
di Alessandra Ziniti
«La Procura di Trapanicontesta al sacerdote eritreo di aver segnalato gli arrivi dei migranti nellachat segreta dei capitani delle navi umanitarie»
fare il suo nome agli inquirenti sono stati i due addettidella security imbarcati a bordo della nave Vos Hestia di Save the children chehanno rivelato l'esistenza di una chat segreta tra i team leader a bordo dellenavi umanitarie.
Don Mussie Zerai, sacerdote eritreo che da anni vive inItalia ed è punto di riferimento per migliaia di suoi concittadiniche affrontano il viaggio verso l'Europa, è tra gli indagati della Procura diTrapani nell'ambito dell'inchiesta per favoreggiamento all'immigrazioneclandestina che ha già portato al sequestro della nave Juventa della Ongtedesca Jugend Rettet. Anche per il sacerdote l'accusa sarebbe la stessa.
Secondo quanto riferito dai due testimoni, il sacerdote chericeveva le comunicazioni dai migranti imbarcati sui gommoni dei trafficanti,avrebbe fatto da tramite con i membri delle Ong segnalando giorno, ora e posizionedelle imbarcazioni da soccorrere.
Candidato al Nobel per la pace nel 2015, fondatore epresidente dell'agenzia di informazione Habeshia, definita "il salvagentedei migranti", con la quale offre assistenza telefonica ai migranti inpartenza, stimolando l'intervento delle autorità nei luoghi in cui si trovanoimbarcazioni in difficoltà, a Don Zerai glòi uomini della squadra mobile diTrapani hanno notificato un avviso di garanzia.
"Ho saputo soltanto lunedì dell'indagine - dice MussieZerai - e voglio andare a fondo in questa vicenda. Sono rientrato a Romadall'Etiopia di proposito. In passato - aggiunge - ricevevo moltissimetelefonate ogni giorno. Oggi ne ricevo molte meno, non saprei dire perché, mail mio intervento è sempre stato a scopo umanitario". L'indagine, secondoambienti giudiziari, si riferisce a presunte pressioni svolte dal prelatopresso gli organi competenti nel soccorso in mare. "Prima ancora diinformare le Ong - dice il religioso -, ogni volta ho allertato la centraleoperativa della Guardia Costiera italiana e quella maltese. Mai ho avutorapporti con la Iuventa ne aderisco a chat segrete. Ho sempre comunicatoattraverso il mio telefono cellulare".
Sul fronte Ong, questa mattina un'altra organizzazione cheaveva già annunciato via mail la sua adesione, ha ufficialmente firmato ilcodice di comportamento al Viminale. E' la tedesca Sea eye. Per il momento sonoquattro su otto le Ong che hanno aderito, a queste potrebbe aggiungersi domaniSos Mediterranèe che ha chiesto un incontro per chiarire alcune perplessità chehanno fino ad ora spinto l'organizzazione a rimanere nel fronte del"no". Restano fuori ancora Medici senza frontiere e le altre duetedesche Sea Watch e Jugend Rettet, quest'ultima al centro dell'indaginetrapanese che da oggi passa sotto il coordinamento del nuovo procuratoreAlfredo Morvillo.
Un appello
Siamo persone privilegiate perché nel nostrocammino abbiamo incontrato una persona straordinaria come Don Mussie Zerai, dacui tanto tuttora impariamo. Lo abbiamo incontrato quando c’era da piangere ecelebrare i morti e quando c’era da salvare i vivi, chiunque, indipendentementedalla provenienza. Abbiamo apprezzato negli anni lo scrupolo con cui ha sempreoperato nel pieno rispetto di quelle istituzioni - come la Guardia costieraitaliana - impegnate ad affrontare drammi umanitari che passeranno alla storia,considerandole partner di riferimento, soggetti a cui affidare la sorte di chiera sull’orlo dell’abisso, in mare così come nei paesi di transito.
Lo abbiamo conosciuto mentre sosteneva “MareNostrum” e mentre tentava di far conoscere l’osceno commercio di organi nellemontagne del Sinai. Lo abbiamo visto, infaticabile, gettare fiori in memoriadella strage del 3 ottobre insieme ai sopravvissuti, lo abbiamo sentito denunciarecon forza l’inerzia complice dei governi europei, incapaci di far terminare lastrage ventennale che si realizza nel Mediterraneo Centrale.
Ne abbiamo condiviso il coraggio quando, conpochi altri, raccoglieva o rispondeva a chiamate di soccorso che sarebberoaltrimenti rimaste senza esito, trasmettendole immediatamente alle istituzionicompetenti nel rispetto di quanto previsto dalle legislazioni nazionali einternazionali. Tra l’omissione di soccorso e l’intervento umanitario non cisono margini di scelta.
Abbiamo gioito speranzosi quando è statoproposto per il Nobel per la Pace: lo abbiamo considerato un segnaleimportante, soprattutto perché Don Mussie cominciava a ricevere minacceesplicite dal governo eritreo.
Quando ci capita di incontrare uomini o donneche si sono salvati grazie al suo intervento, dichiararsi suoi amici significaricevere uno sguardo di gratitudine eterna. Don Mussie Zerai lascia dietro disé l’immagine di una persona umile a cui si deve semplicemente la vita.
Eppure, in questi giorni di pausa d'agosto edi guerre in arrivo, si prova, ancora una volta, a screditare il suo operato, ainsinuare sospetti, dubbi, mezze verità. Siamo certi che quando incontrerà isuoi accusatori, Don Mussie saprà difendersi e far valere le ragioni dellasolidarietà. L'impresa di metterlo sul banco sugli imputati si riveleràfallimentare e suicida Su quel banco dovranno un giorno finirci i responsabili,a vario titolo, di stragi, sofferenze, violenze, violazioni dei diritti umani,e coloro che contribuiscono a sostenere la dittatura di Isaias Afewerki. Ma nelfrattempo il dubbio sulla sua figura si insinuerà - come è già successo per leOng che salvano i migranti in mare - erodendo l'onorabilità di chi agiscedisinteressatamente per aiutare il prossimo. Colpendo, anche solo col sospetto,Don Mussie si finirà per colpire i tanti uomini e le tante donne che hannodeciso di restare dalla parte degli ultimi. Non possiamo permettere che il"reato di solidarietà” si imponga come un dato di fatto, nutrito da populismixenofobi, interessi geopolitici, disinformazione o cattiva informazionediffusa, e avveleni ancora di più il nostro paese, già incamminato verso undeclino morale e politico.
Per questo siamo con Don Mussie Zerai einvitiamo uomini e donne di ogni fede e cultura politica a schierarsi dalla suaparte: non solo per il profondo rispetto che non si può che nutrire nei suoiconfronti, ma perché nell'insensata logica di distruzione di ogni senso civico,di ogni barlume di solidarietà, la prossima vittima potrebbe essere ognuno/a dinoi.
ADIF